CANTIERE DEL ’900 Opere dalle collezioni Intesa Sanpaolo Perché “Cantiere”? L’immagine del “cantiere” è stata scelta, per le sue molteplici proprietà e significati, come filo conduttore dell’allestimento con cui si apre un percorso nelle Gallerie di Piazza Scala, specificamente dedicato all’arte del Novecento nelle collezioni Intesa Sanpaolo. In tutti i casi, come questo, in cui un importante intervento architettonico, edificativo o di restauro, crea una nuova struttura o va a modificarne una esistente, si impara a convivere per mesi con il “cantiere”, realtà sospesa fra il progetto e la sua realizzazione, condizione che pare non avere soluzione, ma anche luogo della possibilità. Il “cantiere” ha sempre il carattere dell’attesa e del provvisorio, ma soprattutto incarna il senso della fase di elaborazione, dove si può e si deve intervenire per precisare e migliorare quanto sulla carta è stato concepito in via astratta. Il “cantiere” coincide per questo con il momento di confronto, di verifica dei dati e delle necessità di intervento, delle scelte concrete, dove si decide, giorno per giorno, quell’aggiustamento che potrà essere decisivo per qualche aspetto determinante, anche se magari poco evidente. Quella del “cantiere” è anche una condizione esistenziale, di uno stato di trasformazione che porta a immaginare o a costruire il futuro. Può anche semplicemente essere identificato, però, con il momento dello scavo. In archeologia, “aprire un cantiere” o “condurre un cantiere” significa avviare e sviluppare una ricerca che può durare anni e che può svolgersi per vie parallele o successive, comprendendo diverse indagini stratificate, il cui esito è finalizzato non a una “nuova” costruzione, ma in qualche modo a una “ri-costruzione”. Pensando a queste e a tutte le possibili declinazioni del termine, il “cantiere” che si propone come immagineguida per parlare dell’arte del Novecento è tanto il luogo dello scavo, dello studio, della conoscenza, quanto quello della costruzione, di una realizzazione che può essere smontabile e rimontabile, partendo dai mattoni che lo compongono, da riconoscersi in primo luogo nella collezione dalla quale si trae il materiale di lavorazione. Parlare di un “cantiere del Novecento” significa in primo luogo partire dalla constatazione che l’arte del Ventesimo secolo, nel suo insieme, sia un importante terreno di esplorazione e dia spazio a una costruzione o ricostruzione della storia della recente modernità che permette ulteriori interventi, letture interpretative, forme di presentazione. I materiali che essa fornisce sono infatti apparentemente ben noti, ma possono richiedere altre ipotesi di elaborazione. Soprattutto, però, l’immagine può andare a coincidere con la cosa stessa. Questo perché, se guardiamo all’arte contemporanea, la figura del “cantiere” è in essa ben presente. Una delle opere con le quali si inaugura l’arte italiana del Novecento ha per soggetto emblematico l’immagine di un “cantiere”: si tratta della Città che sale di Umberto Boccioni, dipinto preparato da numerosi studi eseguiti dall’artista nel momento in cui vuole dare una sostanza precisa alla sua adesione al Futurismo. L’opera di Boccioni, intesa a esaltare l’energia del lavoro dell’uomo e nello stesso tempo il grado di rapida trasformazione che dava una nuova fisionomia alla città, si può dire incarni l’idea stessa del Futurismo, come accelerazione del presente in vista di una profetica affermazione di una nuova realtà. Diversamente da un altro “cantiere”, raffigurato pochi anni prima da Giacomo Balla, all’interno del quadro tripartito La giornata dell’operaio, dove la scansione del tempo e l’accentuazione di alcuni motivi stilistici avviavano una rivoluzione senza condurla a termine, nell’opera di Boccioni questa compie un passo decisivo nella rappresentazione di uno stato di animazione che va oltre la descrizione di un episodio, per assurgere a simbolo, affermando contemporaneamente il carattere di una nuova realtà estetica e pittorica. Qualche anno fa sono state avanzate nuove ipotesi a proposito del luogo che Boccioni avrebbe raffigurato nel dipinto ora al Museum of Modern Art di New York, o almeno di quello che sarebbe potuto essere il modello originale e la fonte di ispirazione per la sua concezione. In particolare, Maurizio Calvesi ha proposto di individuare nei cantieri aperti nella Roma del 1910, che precedevano le celebrazioni per il cinquantenario dell’Unità d’Italia, il punto di partenza o il motivo scatenante della fantasia boccioniana attorno a questo soggetto, suggerendo l’individuazione del luogo, anche sulla base della linea tranviaria che percorre il ponte che si scorge sullo sfondo in alto. Senza entrare nel merito dell’origine di tale spunto iconografico, riguardante soprattutto la pertinenza del rimando alla Roma d’inizio secolo, in alternativa alla Milano marinettiana, come punto di partenza per tale tema, destinato a incarnare, nell’esposizione parigina del febbraio 1912 – poi itinerante per diverse città europee –, il carattere del Futurismo come momento di affermazione di un rinnovamento linguistico, espressivo e contenutistico della cultura artistica e letteraria italiana, si può sottolineare comunque l’affinità di tale dipinto con quanto stava avvenendo, per diversi motivi, proprio nelle due maggiori città italiane. Da una parte le iniziative volte a modificare il carattere della capitale in occasione delle celebrazioni di un importante anniversario, rivolte tanto a modernizzarne il volto quanto a dotarlo di nuovi, importanti luoghi monumentali e ufficiali, dall’altra la città che si va attrezzando per ambire a diventare il centro delle iniziative imprenditoriali e industriali su cui fondare l’ambizione di un Paese che desidera un nuovo ruolo nelle dinamiche economiche e geopolitiche dell’Europa del tempo. Per quanto riguarda, in particolare, il centro di Milano, in quegli stessi anni, dopo le importanti trasformazioni che ne avevano modificato la struttura nei decenni successivi all’Unità d’Italia, con l’apertura della Galleria Vittorio Emanuele II e le modifiche concernenti la zona tra Piazza del Duomo e Piazza della Scala, era aperto il cantiere nel quale si andava completando il palazzo, inaugurato nel 1911, che oggi diventa sede del progetto espositivo di Intesa Sanpaolo. Il luogo che nasceva allora come uno dei fulcri della finanza in Italia e che è ancora uno dei suoi punti di riferimento, affianca oggi alle sue funzioni originarie, che custodiscono vicende di un secolo di storia non solo economica, ma anche culturale, del Paese, quella di esporre una parte delle collezioni che il Gruppo possiede, concernente in particolare la cultura artistica del secolo che è intercorso. Non si trattava dell’unico cantiere allora aperto a Milano, vista l’espansione che la città andava sviluppando, soprattutto nella fascia allora periferica, nella quale si andavano insediando, con le fabbriche, i nuovi quartieri operai o destinati ad accogliere l’incipiente inurbazione. Al di là del soggetto specifico del maggiore quadro del primo Futurismo di Boccioni, altri luoghi legati proprio a questa fase di crescita della città in cui l’artista aveva scelto di vivere avevano come fulcro proprio i cantieri e le fabbriche che andavano definendo la nuova fisionomia della città. Se si possono riconoscere coincidenze significative fra l’immagine del “cantiere” che l’arte del tempo andava suggerendo e la realtà storica di quel momento, anche per tempi più vicini la figura simbolica, e non solo, del “cantiere” può valere a indicare altri e ulteriori sviluppi di un concetto che accompagna l’arte del Ventesimo secolo, periodo storico che sembra quasi caratterizzato da una forte consapevolezza di “transitorietà”. Alcune operazioni artistiche degli ultimi decenni del Novecento possono essere citate come ulteriori testimonianze del valore emblematico del “cantiere”, figura concreta di azioni che mettono in scena dei luoghi in costruzione diretti a interpretare metaforicamente la realtà delle cose. Una di queste è l’operazione compiuta abusivamente da Gordon Matta-Clark su una casa in via di demolizione per far posto al nascendo Centre Georges Pompidou nel cuore di Parigi a metà degli anni Settanta. Senza agire strettamente in contestazione del progetto di modifica del luogo, Matta-Clark realizzò allora un “cantiere nel cantiere”, producendo un foro sul fianco di un edificio ormai disabitato, per sventrarne gli ambienti e procurare un’apertura conica in diagonale che costituiva un inutile e drammatico cannocchiale prospettico. L’opera di Matta-Clark, definibile come forma di “anarchitettura”, dove l’azione dell’artista nega le componenti costruttive o conservative dell’intervento architettonico, è stata progressivamente compresa nel suo significato metaforico, di azione che crea distruggendo, di intervento in levare, valorizzato dallo stesso Centre Pompidou in successive presentazioni della sua storia e collezione. Ancora il Centre Pompidou negli anni Novanta ha ospitato una delle installazioni che meglio ha saputo incarnare lo spirito del tempo, ispirandosi alla storia recente dell’Unione Sovietica, sogno in costruzione e mai realizzato, secondo quanto la propaganda di Stato sembrava trasmettere a chi in quel Paese era nato e viveva. È qui che noi viviamo, l’installazione concepita da Ilya Kabakov nel 1995, era costituita dai capannoni e dai materiali d’uso di un cantiere edile, senza alcun lavoro in atto, sistemati nel grande spazio del piano terreno dell’edificio multifunzionale. Il “cantiere” in quel caso diventava segno dell’immobilismo o dell’incapacità di giungere alla realizzazione di qualcosa di definitivo, ma poteva anche servire come immagine concreta di una trasformazione sempre in corso, valido anche nella nuova condizione del Paese d’origine dei coniugi Ilya ed Emilia Kabakov, soggetto a un “nuovo rinnovamento” che doveva portare, nei progetti politici dei nuovi governanti, a un nuovo e ulteriore ordine. Queste figure di “cantieri” dal diverso valore e significato valgono a ricordare come l’immagine stessa del luogo di elaborazione di una nuova costruzione può ricorrere per incarnare una condizione che assume diverse connotazioni: esistenziali, politiche, civili e simboliche. In questo caso il termine torna utile per indicare la volontà di considerare il recente passato, al quale si riferisce l’attenzione riposta all’arte del Novecento, come un terreno da avvicinare con la libertà di leggerlo e rileggerlo nelle sue molteplici qualità. Ciò avviene in coincidenza con un’altra fase di mutamento, che Milano sta vivendo, immediatamente percepibile per la presenza di numerosi cantieri, anche estesi, destinati a dare una nuova immagine alla città, ma che possono anch’essi servire a ricordarci come la condizione nella quale una città vive e cresce è sempre caratterizzata dalla trasformazione e dalla temporaneità. Nella fattispecie, l’idea di “cantiere” si applica a questo primo allestimento di una scelta di opere dalle collezioni del Novecento di Intesa Sanpaolo, che sarà il punto di partenza per le successive iniziative volte a presentare autori, opere e argomenti sotto diversi profili, tra loro coordinati, ma anche diversificati per prospettiva e focale. “Cantiere” lo è stato e lo è anche per il lungo lavoro di preparazione che ne precede l’attuazione. L’insieme delle collezioni consta infatti di oltre tremila opere, provenienti dai molti istituti di credito confluiti nel Gruppo Intesa Sanpaolo. Queste sono state oggetto di studio nel corso di alcuni anni ai fini di una catalogazione scientifica, e sono state al centro di attenzioni specifiche per la loro conservazione. Tale lavoro di ricerca e di sistemazione ha permesso di giungere a una più consapevole organizzazione dei materiali, che rappresentano in modo molto significativo i principali aspetti dell’arte italiana del Ventesimo secolo, con possibilità di approfondimenti capillari per quanto riguarda la seconda metà del Novecento. L’opportunità di presentare un consistente nucleo di opere di notevole importanza è stata occasione di una strutturazione critica di un percorso che presenta diverse focali. La selezione effettuata si dispiega infatti in una serie di temi e situazioni che tengono conto degli sviluppi storico-critici dell’arte del periodo, ma vanno anche a suggerire spunti per accostamenti, ipotesi di lettura e di indagine che avanzano la necessità di attenzioni molteplici, con il sostegno di considerazioni disciplinari aperte. Fuor di metafora, accanto a questo lavoro di preparazione sui materiali, il luogo destinato ad accogliere le opere nasce da un altro “cantiere” vero e proprio, quello che è stato aperto in coincidenza del compimento del secolo della sede storica della Banca Commerciale Italiana, progettata dall’architetto Luca Beltrami, con l’apporto tecnico dell’ingegner Giovan Battista Casati, che conserva i caratteri di un’epoca e di una destinazione, intelligentemente e con gusto interpretata dai progettisti. L’architetto Michele De Lucchi si è impegnato in un intervento di trasformazione degli ambienti del piano terreno, che ha assunto anche il carattere di un recupero e di una rivalutazione delle strutture esistenti, necessariamente modificate nell’uso e nelle condizioni immediate, ma con un’attenzione per quelle che erano le condizioni originarie dell’edificio, già soggette a mutamenti nel corso del tempo. Il “cantiere” vissuto dall’interno, nelle fasi di preparazione dell’allestimento, costituisce in sé un altro spunto per la ricerca di un rapporto tra le opere e gli spazi, nella definizione delle scansioni in cui si sviluppa il progetto espositivo. Le dodici sezioni (più una, specificamente dedicata alla scultura) in cui l’esposizione e il catalogo sono strutturati spaziano da attenzioni di natura monografica ad altre legate a temi che riguardano la collocazione delle opere nel clima degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche dell’arte degli ultimi decenni del Novecento, in modo aperto e attivo. Si vuole così proporre una visione che possa essere valida sia per lo studioso, l’appassionato, il conoscitore, che potrà accostare opere che sono rimaste a lungo poco visibili, sia per tutti coloro che sono interessati ad avvicinare l’arte del nostro tempo con la volontà di conoscerne i protagonisti e i caratteri, ben sapendo che l’opera non smette di essere viva, contemporanea e di poter parlare e trasmettere sensazioni, immagini, idee1. Francesco Tedeschi Il testo è tratto dal catalogo pubblicato in occasione del primo allestimento del progetto espositivo Cantiere del ’900. Opere dalle collezioni Intesa Sanpaolo. L’apparato di comunicazione predisposto, che si avvale anche di una opportunità di svolgere percorsi di approfondimento multimediali, elaborati con il prezioso supporto di Francesca Pola, va in questa direzione. Lo stesso criterio guida l’impostazione di questo catalogo, che riflette la struttura delle sale espositive, pur con qualche variante, resasi necessaria per chiarezza espositiva. I testi che introducono le singole sezioni intendono inquadrare i temi che ciascuna di esse introduce, per proporre confronti fra gli studi storico-critici e altri spunti interpretativi che le specifiche opere offrono. 1