La crisi d'Europa e i limiti della Bce
La crisi d'Europa e i limiti della Bce
Nicola Acocella
L'attuale impostazione della Bce, insieme all’inesistenza di una politica fiscale comune, è
direttamente responsabile della crisi finanziaria europea
I dati più recenti sulla disoccupazione, la povertà e i problemi umani che ne discendono, comuni
ormai a tutti i paesi della zona euro, sono allarmanti. Lo spettro della deflazione ha ormai da
tempo assunto sembianze concrete nell’Unione monetaria europea e, in particolare, nei paesi
mediterranei.
I fattori che ne sono responsabili sono molteplici. Tra essi merita segnalarne due: l’architettura
istituzionale dell’Unione monetaria europea; gli errori nella conduzione della politica economica
dei vari paesi, in particolare di alcuni di quelli sotto attacco della speculazione finanziaria (tra i
quali l’Italia).
Parliamo prima brevemente di questi ultimi. L’adesione all’Ume negli anni Novanta fu sostenuta
nel nostro paese da molti gruppi ‘illuminati’, favorevoli a sottoporre il nostro sistema economico
sociale al vincolo esterno costituito in questo caso dall’esistenza di una moneta unica. Questa
avrebbe impedito il ricorso alla svalutazione per mantenere o riguadagnare la competitività,
inducendo, in previsione di ciò, moderazione salariale e dei margini di profitto, nonché un
accrescimento della dinamica della produttività interna ed esterna al settore esposto alla
concorrenza internazionale, per l’azione fattiva delle imprese, dei lavoratori e degli enti pubblici.
Soltanto alcuni di questi gruppi ‘illuminati’ avvertivano l’opportunità di adottare altre politiche a
sostegno dell’adesione all’Unione monetaria. Queste sono, comunque, mancate nella realtà.
Per ragioni sulle quali converrebbe ulteriormente indagare, a politiche salariali, industriali e
strutturali tesi a collocare l’Italia su un sentiero elevato di crescita della produttività sono state
preferite politiche miopi, tendenti a flessibilizzare nel modo più inefficiente il mercato del lavoro.
L’elemento sul quale vogliamo invece concentrare l’attenzione in questa sede è quello del ruolo
della Banca centrale europea nell’ambito dell’architettura istituzionale dell’Uem. Anzitutto, alla
politica monetaria è stato affidato l’unico compito attivo di politica macroeconomica, senza alcun
ruolo per la politica dei redditi e con la politica fiscale confinata a livello nazionale e ingessata dal
rispetto dei vincoli di rapporti massimi fra deficit e Pil e fra debito e Pil, in un ottuso tentativo di
ridurre i nominatori di tali rapporti con politiche deflazionistiche che invece riducevano più che
proporzionalmente i denominatori. La Bce deve perseguire la
mission della difesa della stabilità monetaria, intesa in termini di inflazione minore del 2%. Questo
obiettivo assume un ruolo preminente rispetto agli altri possibili
target di politica economica, quali il mantenimento di un’elevata occupazione o di un elevato
ritmo di crescita o della stessa stabilità finanziaria. La Bce è stata vincolata ad alcune modalità di
azione e le è fatto divieto di finanziare gli stati nazionali direttamente (ossia, attraverso la
sottoscrizione all’emissione di titoli pubblici). Questa impostazione, insieme all’inesistenza di
una politica fiscale comune, è direttamente responsabile della crisi finanziaria europea. Un
intervento monetario tempestivo per finanziare i deficit pubblici nazionali e l’assenza di uno stato
federale hanno determinato, se non l’esistenza, l’estensione, l’intensità e la durata della crisi.
Una simile impostazione delle politiche macroeconomiche è il prodotto di circostanze storiche sia
di fatto sia relative alle conoscenze economiche prevalenti al tempo nel quale è stato concepito il
trattato di Maastricht, che è del 1991.
Dal primo punto di vista fu importante il ruolo della Germania, il cui potere negoziale era cresciuto
negli anni precedenti, a seguito della riunificazione con i Lander dell’Est, della rapida crescita e
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del generale ambiente favorevole a politiche restrittive in Europa e negli Usa. La Germania ha da
sempre rappresentato un atteggiamento conservatore, per l’apparente peso dell’eredità storica
della quale sembra farsi carico (gli effetti negativi dell’iperinflazione) e la parallela perdita di
memoria dei danni egualmente, o anche più, importanti prodotti dalle politiche deflazionistiche,
che facilitarono l’avvento del nazismo (un fenomeno di rimozione di massa di sensi di colpa?).
Dal secondo punto di vista, la teoria economica dominante a cavallo del 1990 sottolineava, in
misura che già allora avrebbe dovuto essere considerata eccessiva ed ingiustificata, i vantaggi
della stabilità monetaria, per una presunta correlazione negativa tra tassi di variazione dei prezzi
e crescita, che in realtà si verifica soltanto a livelli elevati di inflazione (inflazione galoppante o
iperinflazione). La letteratura di quegli anni enfatizzava anche gli effetti positivi dell’indipendenza
politica delle banche centrali. Infine, si era giunti a conclusioni che si sarebbero rivelate errate sui
problemi che in gergo tecnico vanno sotto il nome di incoerenza temporale. Si pensava che i
responsabili di politica cercassero di ingannare il settore privato – ma invano, per le capacità
previsive di questo settore – circa le reali misure di politica economica che avrebbero adottato nei
periodi successivi, con conseguenti effetti negativi sul funzionamento del sistema economico, in
particolare con l’aumento dell’inflazione. L’esistenza di questi problemi avrebbe consigliato il
ricorso a regole automatiche, possibilmente restrittive, ossia tali da evitare l’inflazione.
Tutte queste posizioni teoriche sono state poste in discussione dall’evoluzione della realtà e
della teoria economica negli ultimi due decenni. Per limitarci soltanto a pochi aspetti essenziali,
l’esperienza concreta ha mostrato che nei paesi non aderenti all’Ue non soltanto i tassi di
sviluppo e di occupazione sono stati superiori a quelli dei paesi dell’Ume, ma gli stessi tassi di
inflazione sono stati inferiori. Se ne può dedurre che una banca centrale non focalizzata
sull’obiettivo della stabilità monetaria può forse fare meglio di una banca avente una
mission anti-inflazionistica. Inoltre, più di recente economisti ben noti (come Rogoff e Blanchard)
e meno noti (italiani) hanno mostrato che l’inflazione ottimale deve essere ben superiore a quella
alla quale mira la Bce. Sarebbe, dunque, tempo che vari pilastri dell’attuale architettura
istituzionale cambiassero e in primis che mutassero il ruolo e la
mission della Bce, se non si vuole assistere ad ulteriori cadute dell’occupazione, foriere di
chissà quanti mali anche maggiori, e al rafforzamento delle posizioni che sostengono la
necessità che il nostro paese fuoriesca dall’euro.
Sì
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