Tesi in Diritto Penale 2

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LUISS GUIDO CARLI
LIBERA UNIVERSITA’ INTERNAZIONALE
DEGLI STUDI SOCIALI
FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA
Tesi in Diritto Penale 2
Il Nesso di Causalità nelle Morti o Lesioni da
Esposizione ad Amianto e da Tumori Multifattoriali
Relatore
Prof. Bellacosa Maurizio
Candidato
Alessio Giaccari
Matr. 111463
Correlatore
Prof. Scaroina Elisa
INDICE
INTRODUZIONE
Capitolo I
Le teorie sul nesso di causalità
1. Nascita ed evoluzione del nesso causale.
2. Le prime teorie sulla causalità.
2.1 La teoria della “condicio sine qua non”.
2.2 La teoria della “causalità adeguata”.
2.3 La teoria della “causalità umana”.
2.4 La teoria della imputazione obiettiva dell’evento.
2.5 Attuale disciplina adottata dal Codice Rocco.
3. Sentenza Franzese, le SS.UU. danno una svolta.
4. L’accertamento del nesso di causalità.
Capitolo II
Malattie derivanti da esposizione ad amianto, esplosione
dei casi giurisprudenziali dagli anni 90’
1. Asbesto, perché era ed è tanto diffuso, approfondimento sulla fibra
dannosa. Origini delle norme anti-amianto
2. Tipi di malattie derivanti dalla esposizione all’amianto e
gravità/mortalità derivante, asbestosi e mesotelioma
3. Legge n. 257 del 1992, l’amianto è fuori legge, Italia in ritardo
rispetto ad altri paesi.
4. Il reato omissivo improprio.
5. Mesoteliomi e tumori polmonari causati da inalazione di asbesto.
5.1. Effetto dose-risposta nei carcinomi polmonari.
5.2. Effetto dose-risposta nei mesoteliomi.
6. I reati di lesioni colpose ed omicidio colposo.
Capitolo III
Tumori multifattoriali, la prova della causalità.
1. Tumori multifattoriali, cosa sono e perché è così complicato
provarne la causa.
2. Prova del nesso di causalità nei tumori multifattoriali.
3. Malattie multifattoriali nei processi.
4. Il regime della responsabilità dei soggetti garanti.
Capitolo IV
Soluzioni previdenziali in favore dei soggetti esposti e
perseguibilità dei responsabili
1. Le malattie professionali e gli infortuni sul lavoro. La disciplina
sulla sicurezza del lavoro. Il d.lgs. 81/2008 e il d.lgs. 106/2009.
2. Regimi di tutela civile e penale dei danni da esposizione
all’amianto. La sentenza della Cassazione sul caso ETERNIT.
INTRODUZIONE
Nel corso della storia giudiziaria dell’ultimo ventennio non si può fare a
meno di notare la rilevanza dei casi riguardanti le morti per esposizione ad
amianto, soprattutto per numero e portata giuridica. Caratteristica
fondamentale dei casi giuridici di tale argomento è l’influenza inevitabile del
nesso di causalità da applicare all’interno di tutte le casistiche derivanti
dall’esposizione al minerale tossico.
L’amianto (o asbesto, da cui deriva il nome della malattia “asbestosi”) è
un insieme di minerali utilizzato prevalentemente in edilizia e per la
fabbricazione di tessuti; dalla lettura dell’elaborato, si comprenderà come
purtroppo sia stata effettivamente vastissima la lavorazione e il commercio
della fibra tossica.
Peculiarità della fibra è la resistenza al calore, letteralmente a prova di
fuoco. Proprio grazie alle sue indubbie qualità e al suo modico costo,
l’amianto ha assunto un ruolo importantissimo all’interno di fabbriche di
ogni genere, dalla ferroviaria all’automobilistica, dalle fabbriche di tessuto a
quelle metallurgiche, da sistemi di filtraggio del vino alla produzione di
materiale anti-incendio.
Il problema che deriva dall’amianto è che le polveri1 che si disperdono
nell’ambiente sono nocive per l’essere umano. Infatti l’inalazione di esse
causa una malattia, che come già accennato prende il nome dalla fibra stessa,
“asbestosi”, che non lascia scampo se l’esposizione è lunga e concentrata.
Oltre all’asbestosi, anche il “mesotelioma pleurico” e il più noto “carcinoma
polmonare” rappresentano le malattie derivanti da esposizione ad amianto.
Sono delle malattie che aggrediscono principalmente le vie respiratorie2,
dunque i polmoni, a causa della sedimentazione dalle polveri all’interno degli
organi. Questo tipo di malattie si presenta nei soggetti esposti alle sostanze
dannose solo dopo 15-40 anni dall’inalazione delle polveri, a seconda della
malattia, ma comunque la comunità scientifica è d’accordo nell’affermare la
lunga durata delle patologie appena nominate. Causa caratteristica
dell’asbesto, come sopra affermato è infatti proprio l’esposizione alla
sostanza, che può essere anche di “breve” durata se intensa, basterebbero 12
mesi di esposizione continua. Nel mesotelioma la durata dell’esposizione può
Le polveri di amianto sono 1300 volte più sottili di un capello umano, dunque
totalmente impercettibili, a meno di grosse concentrazioni che ne permettono una
facile individuazione.
2
Infatti la giurisprudenza attuale non considera altri danni derivanti da amianto se
non alle vie respiratorie. Si è provato ad includere il carcinoma vescicale alle
malattie da esposizione alla fibra, ma la tesi ha desistito in quanto la sostanza non
è emosolubile, dunque non può entrare in contatto con la vescica. Pacifico è che
l’asbesto possa essere ingerito, tuttavia la resistenza dei tessuti del corpo umano
suggeriscono una difficile insorgenza di patologie dovute alla ingestione. Tuttavia
non è esclusa questa via.
1
anche essere minima, infatti potrebbe bastare una sola singola fibra tossica
per causare la malattia, la denominata “killer-dose”.
Mi occuperò più dettagliatamente delle malattie derivanti da amianto nel
secondo capitolo di questo elaborato, insieme alla nascita della disciplina
anti-amianto in Italia.
Già all’inizio del secolo scorso, però, sono nate le prime prevenzioni
contro l’asbesto. Tuttavia uno studio dell’ispettrice del lavoro Deane Lucy,
chiariva la pericolosità della fibra già nel 1889. In seguito Montague Murray,
medico Britannico, segnalava il primo caso di malattia polmonare dovuta
all’amianto nel 1906 e affermava che la morte di molti lavoratori di amianto
fosse dovuta proprio alle loro mansioni che li esponevano costantemente alla
fibra.
Nel 1943 in Germania, in seguito ad uno studio, il mesotelioma viene
dichiarato conseguenza della inalazione della sostanza tossica. I primi divieti
di utilizzo della fibra prendono piede in Islanda nel 1983, un anno dopo in
Norvegia e poi, via via, nel resto del mondo. In Italia la prima normativa
risale al 1992 con la Legge n° 257 che generalizza il divieto di utilizzo3. La
normativa dell’UE si aggiorna solo nel 2005 con la direttiva 1999/77/CE.
3
Più precisamente la legge vietava la produzione e la lavorazione della fibra, ma
non la vendita. Tuttavia la stessa legge, nell’articolo 13, introduceva benefici per i
lavoratori colpiti dalla malattia.
Per quanto riguarda l’esplosione di processi riguardanti l’amianto che ha
caratterizzato il nostro Paese dal 1992, anno dell’introduzione della
normativa che vieta l’utilizzo di amianto, bisogna affermare che l’importanza
di tali processi è – giuridicamente – focalizzata sulla presenza fondamentale
del nesso di causalità.
Il nesso causale, che analizzerò minuziosamente nel Capitolo I del mio
elaborato, rappresenta un argomento di grande importanza giurisprudenziale
per via, sia del suo dibattito acceso nell’ultimo ventennio, sia per
l’importanza che assume all’interno di ogni processo. Infatti, il nesso di
causalità è determinante per dimostrare che un determinato evento sia
conseguenza diretta di una azione posta in essere da un soggetto, oppure, da
una omissione che ha causato l’evento. Omissione che per incarnarsi in reato
deve configurarsi attraverso la posizione di “obbligo giuridico” nell’agente.
Disciplina sulla causalità che ha tardato ad atterrare in Italia per
disinteresse della giurisprudenza italiana. Fino agli anni ’70 dello scorso
secolo era lasciato totale libero arbitrio al giudice il quale esaminando caso
per caso, senza seguire un determinato schema sul nesso causale.
Durante questa assenza di normativa però, non sono mancate di certo
teorie e tentativi di risoluzione del problema causa-effetto all’interno del
diritto penale. Teorie che mi preoccuperò di riassumere per poi giungere
all’attuale normativa vigente disciplinata dagli articoli 40 e 41 del Codice
Penale.
Come si può dunque immaginare non risulterà di certo semplice ottenere
la prova della derivazione di una malattia solo ed esclusivamente dalla
esposizione ad una sostanza tossica, soprattutto se ad essere colpiti sono i
polmoni, organi particolarmente suscettibili.
Ciò in quanto una malattia che colpisce un organo così delicato può
derivare anche da altri fattori come, in primis, il tabagismo, che anche
autonomamente può rappresentare una causa di insorgenza di tumori ai
polmoni o mesoteliomi, o aggravare malattie già insorte precedentemente.
Di questi tumori, definiti per ovvi motivi “multifattoriali”, scriverò nel III
Capitolo.
Infine, nell’ultimo capitolo del manoscritto, il mio interesse sarà rivolto
verso le soluzioni previdenziali in favore di chi è stato colpito da malattie
causate dall’amianto e da malattie definite “professionali”.
Inoltre, analizzerò la perseguibilità dei soggetti responsabili di aver
causato l’esposizione. Vi è da precisare infatti che è particolarmente
importante l’attinenza delle tutele garantite dall’ordinamento. Lo stesso
articolo 32 della Costituzione afferma nel primo comma del suo enunciato:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e
interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti4”.
La sola lettura dell’articolo fa comprendere il valore della norma stessa, lo
Stato, infatti, assicura la tutela della salute di ogni individuo e ne garantisce
la guarigione, ove possibile, a spese dello Stato stesso.
La salute è un diritto fondamentale, basti pensare che è la base per poter
godere di tutti gli altri diritti. E’ assolutamente escluso l’obbligo di curarsi,
infatti ogni soggetto è libero di rifiutare una cura5, come è affermato nell’
articolo stesso.
Infine mi preoccuperò di analizzare molte sentenze che hanno fatto
giurisprudenza come la Franzese, riguardo il nesso di causalità, o la sentenza
ETERNIT, a tutti nota spiacevolmente per le migliaia di morti causate dalle
polveri di amianto respirate dagli operai e cittadini di Casale Monferrato.
Ancora, inquadrerò il caso ILVA per quanto concerne le malattie
multifattoriali, infatti, l’industria siderurgica situata in Puglia, è il fulcro della
nascita dei processi per malattie derivanti da cause multiple.
Inizialmente l’articolo aveva interpretazione solo programmatica, in seguito con
la legge n°883 del 1978 essa trovò applicazione concreta nell’ordinamento. Venne
fondato l’SSN (sistema sanitario nazionale) il quale organo aveva il compito di
assicurare il mantenimento dello stato di salute di tutti i cittadini.
5
Ad eccezione dei casi in cui è resa obbligatoria una cura da parte dello Stato, si
immagini un caso di epidemia con vaccinazione obbligatoria.
4
Infine, brevemente, nell’ultimo Capitolo esaminerò il caso Thyssenkrup,
in materia di infortuni sul lavoro.
CAPITOLO I
IL NESSO DI CAUSALITA’
1. Nascita, evoluzione del nesso causale.
Il nesso di causalità è il rapporto tra un comportamento posto in essere da
un soggetto e il conseguente evento scaturente da tale comportamento.
In ambito penale, il nesso di causalità costituisce un elemento della
fattispecie oggettiva, interposto tra l'evento dannoso o pericoloso e la
condotta del soggetto penalmente rilevante6.
Prima di iniziare a scandagliare il nesso di causalità, è doveroso chiarire
come si arriva ad assumere un comportamento vietato dall’ordinamento e
cosa significa reato.
Cfr. Fiandaca G., in “Causalità (rapporto di)” in “Digesto Discipline
Penalistiche”, 1988; per una lettura più recente cfr. Bernasconi C., in “Il concorso
di cause”, in “Studium Juris”, 1997. Ancora per un’introduzione nell’argomento
cfr. AA.VV., in “Studi in onore di Francesco Antolisei”, 1965.
6
Per la più tradizionale teoria generale del reato, detta bipartita, questa si
struttura in due elementi: un elemento soggettivo ed uno oggettivo.7
Il primo elemento è costituito dalla volontà di un soggetto. Il secondo è
rappresentato dal fatto materiale, dunque dal concretizzarsi della volontà del
soggetto.8
Alla tesi della bipartizione è contrapposta – la meno accreditata – teoria
della tripartizione, successiva alla nascita della teoria tradizionale. I tre
elementi sono: fatto, antigiuridicità e colpevolezza.
Il fatto e la colpevolezza delineano il fronte materiale e l’elemento
psicologico del reato; l’antigiuridicità altro non è che un attributo
indipendente.
Proprio questa autonomia dell’antigiuridicità – sminuita da elemento
chiave del reato ad elemento subordinato – fa sì che la tesi appena esposta sia
superata dalla tradizionale, più semplice, ma più completa e lineare.9
Cfr. Carrara F., in “Programma”, Carmignani G., in “Elementi juris criminalis”
e Pessina E., in “Elementi”. Seguaci della teoria della bipartizione furono anche
Manzini V., vedi “Trattato”, Mantovani F., vedi “Diritto penale”, Gallo M., vedi
“Il reato nel sistema degli illeciti” e Santoro A., vedi “Manuale”. Roland Riz non
solo accolse la teoria, ma ne reclamò anche la paternità italiana, vedi “La teoria
generale del reato nella dottrina italiana. Considerazione sulla tripartizione”, in
“Indice penale”.
8
Carrara F. sosteneva che l’elemento soggettivo rappresentasse la “forza morale”
del soggetto, mentre che l’elemento soggettivo raffigurasse la “forza fisica” dello
stesso soggetto.
9
Di parere diverso sono Fiandaca e Musco che prediligono la teoria tripartita
perché nella tradizionale manca l’elemento della antigiuridicità, considerato
fondamentale nella costituzione completa del reato. Proprio i due autori fanno
7
Riprendendo la teoria della bipartizione, l’elemento soggettivo è composto
dalla volontà del soggetto di compiere una determinata azione od omissione,
al fine di raggiungere un risultato. Dunque è elemento fondamentale, nello
studio di un reato, il concorso della volontà, della coscienza di determinare
un evento da quell’azione.
Affinché un reato sia completo, non basta, però, solo l’elemento
soggettivo, come già rilevato.
La componente oggettiva è, infatti, decisiva perché il reato si realizzi in
tutti i suoi fattori. Se la volontà rappresenta l’intenzione, cioè il fare o non
fare, l’elemento oggettivo ritrae la condotta, ovvero rende concreta la
volontà. Quindi si tratta di un comportamento da parte di un soggetto, perché
il reato per definizione è una violazione di una norma di legge delineatasi da
una condotta delittuosa. Seppure sia vero e certo che la condotta e l’evento
siano due elementi indipendenti, è pur vero che sono entrambi connessi.10
sbarcare la tesi in Italia, a riguardo vedi “Diritto penale parte generale”. Gli
autori hanno preso spunto dall’autore tedesco Amelung, vedi “Zur Kritik des
kriminalpolitischen Strafrechtssystems von Roxin”, in “Juristenzeitung”, 1982.
Per una lettura approfondita sull’argomento si rinvia ad un sostenitore della teoria
del Marinucci L., in “Fatto e scriminanti”. Lo stesso autore però in un successivo
elaborato, coadiuvato da Dolcini E., in “Corso”, ha dimostrato un interesse per
una “quadripartizione” del reato. Reato dunque composto da: fatto umano,
antigiuridico, colpevole e punibile. A confronto con quest’ultima tesi, vedi Di
Martino A., in “La sequenza infranta. Profili della dissociazione tra reato e
pena”.
10
Cfr. Garofoli R., in “Manuale di diritto penale parte generale”, 2014.
Proprio nella connessione tra l’azione od omissione e l’evento delittuoso
cagionato soggetto si cela il nesso di causalità, ovvero, la connessione tra la
condizione posta in essere dall’agente e l’evento – antigiuridico, per
riprendere anche la teoria della tripartizione – che ne scaturisce.
Innanzitutto, per comprendere subito il cuore dell’argomento va citato il
primo comma dell’articolo 40 del Codice Penale, il quale sancisce: “Nessuno
può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se l’evento
dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del reato, non è
conseguenza della sua azione od omissione”. Nel secondo comma dello
stesso articolo viene invece espressa l’equivalenza tra il “causare un evento
dannoso o pericoloso” e il “non evitare” un evento della stessa entità nociva:
“Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale
a cagionarlo”.11
E’ necessario sottolineare che l’accertamento del nesso causale è
fondamentale per dare valore all’assunto dell’articolo 27 della Costituzione
il quale afferma che “La responsabilità penale è personale”12. Ciò dà forza
Cfr. Leoncini I., in “Obbligo di attivarsi, obbligo di garanzia e obbligo di
sorveglianza”, Torino, 1999 e Sgubbi F., in “Responsabilità penale per omesso
impedimento dell’evento”.
12
Cfr. Alessandri A, in “Art. 27, primo comma”, in “Commentario della
Costituzione”, a cura di Branca G. e Pizzorusso A., Bologna, 1991.
11
al bisogno di collegare sempre un evento delittuoso ad uno o più determinati
soggetti.13
Durante l’ultimo secolo il nesso di causalità ha rappresentato un
argomento di arduo ed aspro conflitto dottrinale. Tuttavia, prima di
addentrarsi nella complessa e spinosa argomentazione delle teorie dottrinali
e giurisprudenziali, conviene partire da alcuni assunti sul tema principale di
questo primo capitolo. Un concetto chiave è quello affrontato da tutti i giuristi
avvicinatisi alla complessità dell’argomento in questione, la causalità14.
Lo studio della causalità rappresenta un ostacolo importante proprio
perché essa va identificata di volta in volta rispetto a chi pone la domanda,
ovvero di chi vuole la risposta. Con ciò vuole intendersi che uno studio
accurato del nesso causale15 va affrontato in maniera mirata; ciò può voler
significare sia che esso va valutato con una certa cautela all’interno di ogni
caso particolare che di volta in volta occupi l’interesse, sia che una teoria non
La norma Costituzionale è particolarmente rilevante in quanto nel suo dettato
sancisce il divieto della “responsabilità per fatto altrui” e contemporaneamente
corrobora il nesso di causalità affermando la responsabilità tra la condotta e
l’evento scaturito dalla stessa.
14
Sul tema si è dilungato nella sua carriera da filosofo e avvocato Federico Stella,
particolarmente in “Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto penale”,
1975. Come Stella anche Bartoli R., in “Il problema della causalità penale. Dai
modelli unitari al modello differenziato”, Giappichelli, 2010 e Blaiotta R., in
“Causalità giuridica”, 2010.
15
Cfr. Stella F., in “La nozione penalmente rilevante di causa: la condizione
necessaria”, in Riv. It. Dir. e proc. Pen., 1988.
13
può totalmente condizionare la scelta del giudice nella stessa fattispecie, in
quanto deve essere libero di applicare la legge in maniera adeguata.
Quanto affermato fin ora riguarda di certo la causalità rispetto ad un
evento/omissione, come anche, senza meno, la responsabilità. E’ proprio in
causalità e responsabilità che si cela il fulcro del discorso sul nesso causale,
cioè le risposte che l’interprete ricerca per poter applicare la legge in maniera
consona alla fattispecie concreta.
Fino agli anni 30’ in Italia il nesso di causalità non era preso in
considerazione dai giuristi, se non in maniera inconsistente. Addirittura nel
“programma del corso di diritto criminale” di Francesco Carrara16 (18051888), noto criminalista e professore di diritto criminale, non è per nulla
menzionato il nesso causale, se non in maniera subordinata nel capitolo
riguardante “la forza fisica del reato”. Questo rappresentava una importante
mancanza, soprattutto considerando l’avanzato studio sulla “condicio sine
qua non”17 in Germania.
Fu uno dei primi studiosi di Diritto Criminale a volere e proporre l’abolizione
della pena di morte in Europa, inoltre, influenzò la stesura del “Codice criminale
d’Italia”, e del “Codice Zanardelli”.
17
Vedi paragrafo 3.
16
Prendendo in esame l’allora vigente Codice Zanardelli, addirittura, non
veniva menzionato per nulla il concetto della causalità18, era giusto tangibile
all’interno dell’articolo 45 del codice stesso.
Lo stesso articolo, tuttavia, era concentrato sulla imputabilità del fatto:
“Nessuno può essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo
costituisce, tranne che la legge lo ponga altrimenti a suo carico, come
conseguenza della sua azione od omissione. Nelle contravvenzioni ciascuno
risponde della propria azione od omissione, ancorché non si dimostri ch’egli
abbia voluto commettere un fatto contrario alla legge”. Si denota “ad occhio
nudo” un errore di fondo nella stesura dell’articolo, una confusione quasi
incomprensibile. Prima viene espresso il concetto secondo cui: “nessuno può
essere punito per un delitto se non abbia voluto il fatto che lo costituisce”;
poi viene affermato che: tranne se “la legge lo ponga a suo carico” (il fatto),
allora non si può agire.
Dall’evidenza di tale incongruenza scaturì la necessità di un radicale
cambiamento.
Il bisogno di aggiornare il Codice Zanardelli introducendo una teoria più
solida, per poter agevolare l’applicazione del nesso di causalità da parte del
Per una lettura più “antica” cfr. Antolisei F., in “Il rapporto di causalità nel
diritto penale”, 1934. Tra in non penalisti può risultare di rilievo la lettura di
Agazzi E., in “La spiegazione causale di eventi individuali o singoli”, in “Riv. It.”,
1999.
18
giudice al caso concreto, permise uno studio approfondito sull’argomento
prima della stesura del Codice Rocco.
Sembrerebbe logico argomentare e studiare il concetto di nesso causale al
giorno d’oggi, in ambito penale; tuttavia fino agli anni 30’ il concetto di
connessione tra azione ed evento, almeno in Italia era stato affrontato solo
nel pensiero di qualche giurista del tempo in quanto interessati alla dottrina,
di certo più precoce, di matrice tedesca.
Dunque una grande novità viene introdotta proprio dal Codice Rocco in
tema di causalità, conducendo la dottrina verso una controversia forse ora
risolta. Infatti se è vero che il Codice stupì i giuristi dell’epoca con
l’introduzione della teoria della causalità19, è anche vero che il concetto
espresso non era poi così limpido. E’ innegabile che la prima stesura
dell’articolo ha poi retto fino ai nostri giorni - e con ogni probabilità durerà
a lungo in quanto è oramai pacifico in dottrina l’applicazione del nesso
causale - divenendo un concetto cardine della materia; vero è, che però, prima
di arrivare ad ottenere le certezze ad oggi raggiunte in dottrina si sono
affrontate numerose diatribe.
Sul tema Pagliaro A., in “Causalità e diritto penale”, in “Cassazione Penale”,
2005.
19
Lo scenario del ventesimo secolo è stato dominato dalla teoria sviluppata
da Francesco Antolisei con la “teoria della causalità umana”20, che verrà
affrontata minuziosamente in seguito durante l’esposizione di tutte le teorie
dottrinali. Negli anni 70’ del secolo scorso emerge la necessità di fare
chiarezza dell’impianto giuridico in materia di causalità, necessità radicata
nello sviluppo del sapere scientifico21 e nella sua inevitabile influenza sul
diritto penale. Questa problematica determina l’esigenza di dover analizzare
anche la responsabilità di carattere professionale medico. Inoltre,
l’inquinamento inizia ad avere un importante ruolo all’interno di questo
argomento, in conseguenza della diffusione delle malattie derivanti da
esposizione a sostanze tossiche, le quali assumono rilevanza crescente.
Nell’accertamento del nesso causale confluiscono, quindi, variabili
statistiche e scientifiche sulle quali basarsi per accertare che un evento sia
effettivamente frutto di una azione od omissione. Queste variabili statistiche
però rappresentano un ostacolo oltre che un progresso necessario e
benvoluto. Come applicare le risultanze statistiche?
Gli strumenti utilizzati dalla statistica consentono di misurare la
probabilità del verificarsi di un evento conseguente ad un comportamento
Vedi paragrafo 5.
S’intende la scienza applicata al diritto, il concetto verrà chiarito nello
svolgimento di questo capitolo.
20
21
posto in essere od omesso da un soggetto. La complessità che assume per tale
via la problematica in argomento, rende necessario l’analisi delle diverse
posizioni dottrinali, allo scopo di definire un quadro più rigoroso22.
2. Le prime teorie sulla causalità.
Prima di analizzare le teorie più rilevanti sul nesso di causalità, occorre
ripercorrere posizioni che, sebbene almeno in parte superate, hanno
influenzato inevitabilmente le tesi più accreditate sull’argomento.23
Conviene iniziare citando alcune tesi di tipo “naturalistico”24.
Nel settimo paragrafo si parlerà della sentenza Franzese la quale ha portato
chiarezza in ambito di applicazione del nesso causale.
23
Cfr. Azzali G., in “Contributo alla teoria della causalità nel diritto penale”,
Milano, 1954. Del medesimo autore “Il problema della causalità in diritto penale,
in “Indice penale”. Per un confronto più aperto sullo stesso argomento va citato
Paliero C.E., in “Le fattispecie causalmente orientate sono davvero a forma
libera?”, in “Riv.It.Dir.Proc.Pen.”, 1977.
24
Per “naturalistico” si intende un evento discendente da un fatto per un legame di
tipo naturale.
22
La teoria di Rudolf Ortmann trovava il fondamento nel brocardo: “in iure
non remota causa sed proxima spectatur”25. La sua tesi si fondava proprio
sull’assunto per cui: “causa è la condizione che, completando la serie degli
antecedenti, determina senz’altro il risultato”26, in sostanza, “l’ultima
condizione” (nome che prese la sua teoria). Trattasi di una tesi chiaramente
superata, infatti la teoria esclude tutte quelle cause che non presentano il
carattere di “causa più prossima” all’evento.
Una seconda tesi affermata da Karl Von Birkmeyer27 affermava che “la
causa nel senso del diritto è la condizione che contribuisce di più alla
produzione dell’effetto”. Vale a dirsi che la “condizione più efficace”, che di
più concorre alla realizzazione di un evento, è l’unica condizione da prendersi
in considerazione. La tesi propugnata dall’autore tedesco non ricevette
credito: infatti, essa considerava come complice dell’evento solo la
condizione più forte che determinava l’evento, escludendo eccessivamente
l’ambito di applicazione di tutte le altre condizioni inerenti e concorrenti.
Letteralmente tradotto: per la legge non è rilevante la causa più lontana, ma
quella più vicina.
26
Cit. Ortmann R., in “Zur lehre vom kausalzusammenhang”, in “Goltdammer’s
Archiv fur Strafrecht”, 1883.
27
Giurista tedesco che collaborò alla redazione del codice penale del Secondo
Reich. Inoltre nella sua brillante carriera partecipò alla scrittura della
“Enzyklopädie der Rechtswissenschaften”, Enciclopedia di giurisprudenza e
scienze politiche.
25
In seguito, durante la fine dell’Ottocento, molti criminalisti tentarono di
giungere ad una maggiore condivisione dei principi di fondo inerenti
l’applicazione della causalità all’interno del diritto.
In Italia Alessandro Stoppato, professore di diritto penale e di diritto
processuale penale all’università di Bologna, contribuì a dare una svolta alla
discussa materia.
Egli propose una nuova prospettiva, definita della “causa efficiente” ben
esplicitata nelle sue parole: “la forza o l’essere che con la sua azione produce
un fatto qualunque; condizione è ciò che permette alla causa efficiente di
operare o disponendola all’operazione o togliendo gli ostacoli; occasione è
una coincidenza, una circostanza più o meno favorevole che invita
all’azione”28. Questa teoria fu la prima effettivamente e concretamente
applicata al diritto, tanto che ad essa si ispirò la Corte di Cassazione quando
in vigenza del Codice Zanardelli.
Essa sostanzialmente affermava che ogni concausa29 di un evento è
fondamentale per il realizzarsi dell’evento ultimo.
Tuttavia, la tesi del giurista Italiano non trovò appoggio unanime; basti
pensare che, includendo tutte le condizioni che danno vita ad un evento,
Cit. Stoppato A., in “L'esercizio arbitrario delle proprie ragioni”, 1896. Inoltre
dello stesso autore cfr. “L'evento punibile”, 1898; “L'azione civile nascente da
reato”, in “Riv. Penale”, 1898.
29
Cfr. Brusco C., in “Il rapporto di causalità”, Giuffrè, 2012.
28
porterebbero ad includere tutti gli accadimenti che hanno portato poi alla
“condizione ultima” realizzativa dell’evento delittuoso. Sarebbe molto
complicato, perciò, identificare la causa determinante che ha prodotto
l’evento.30
Partendo da queste debolezze interpretative, il diritto moderno ha
sviluppato altre teorie che, nel dibattito scientifico, hanno avuto maggiore
appoggio.
Il riferimento è orientato soprattutto a quattro teorie: la teoria della
“condicio sine qua non”, la teoria della “causalità adeguata”, la teoria della
“causalità umana” ed infine la “teoria dell’imputazione obiettiva
dell’evento”; oggetto di analisi nei seguenti paragrafi.
3. La teoria della “condicio sine qua non”.
Dalla tesi dello Stoppato nacquero varie teorie, per lo più tedesche, le quali,
però, non trovarono alcun tipo di appoggio di tipo giurisprudenziale.
30
Il criminalista tedesco Maximilian Von Buri31 propose una teoria
annoverata tra quelle di maggior rilievo classificate come naturalistiche. La
teoria ha in realtà le radici nei pensieri32 del filosofo John Stuart Mill33,
quest’ultimo affermava che: “la causa è il complesso di tutte le condizioni
necessarie per il verificarsi di un fatto”. Sostanzialmente è “condicio sine
qua non” di un evento una causa senza la quale l’evento non si sarebbe
verificato, vale a dire che quella condizione è “un antecedente indispensabile
per il verificarsi del risultato”.34
Fondamentalmente, nella prospettiva della “condicio sine qua non”35, è
sufficiente che il soggetto dia vita ad una condizione qualunque, purché essa
sia necessaria per la realizzazione finale di quel determinato evento36. Va
Per un confronto diretto con l’autore della teoria vedi V. Buri, in “Ueber
causalitkat und deren Verantwortung”, 1873. Poco più di un decennio dopo, lo
stesso autore tedesco, in “Die Causalitat und ihre strafrechtlichen Beziehungen”,
Stoccarda, 1885.
32
Precisamente in: “a system of logic ratiocinative ad inductive”, Londra, 1886.
33
Von Buri non era a conoscenza degli studi di Mill, ma elaborò la teoria della
“condicio sine qua non” come se avesse preso spunto dai pensieri del filosofo.
34
Cit. Antolisei F. pagina 40 sezione III, capitolo II, di Manuale di Diritto penaleparte generale. Sedicesima edizione aggiornata e integrata da L. Conti. Giuffrè,
2003.
35
Cfr. Donini M., “Il garantismo della conditio sine qua non e il prezzo del suo
abbandono. Contributo all’analisi dei rapporti tra causalità e imputazione”, in
AA.VV., “Scritti in onore di Mario Romano”.
36
Cfr. Ronco M., in “Aporie scientiste e certezze logico razionali: note in tema di
nesso di causalità”, 2007. Dello stesso Ronco M. vedi “Interruzione del nesso
causale e principio di offensività”.
Sullo stesso argomento non può mancare la citazione di Pulitanò D., in “Il diritto
penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico”, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2006.
31
ricordato che questa teoria è anche definita “dell’equivalenza”; in virtù del
fatto che vengono considerati come concorrenti del reato tutte le condizioni
determinanti di quell’evento. Si può facilmente dedurre da queste ultime
righe che l’estensione della causalità all’interno della teoria è eccessivamente
ampia.
Con un semplice esempio si può comprendere facilmente il difetto della
teoria: è causa della morte di Tizio per tumore ai polmoni il tabaccaio che gli
vende le sigarette, l’amico di Tizio che gli ha offerto una sigaretta ed anche
colui il quale gli ha acceso una sigaretta con l’accendino, addirittura. Infatti,
a ben vedere, tutte quelle elencate nell’esempio sono configurabili quali
condizioni che una sommata all’altra hanno condotto all’evento finale.
Un altro punto debole della teoria in esame è il concetto delle
“aggravanti”37. Se si dovesse accogliere la teoria della “condicio sine qua
non”, si dovrebbe ritenere responsabile di omicidio, anziché di lesioni, Tizio
che in discoteca tira un ceffone a Caio, il quale quest’ultimo recandosi in
ospedale per accertamenti muore perché coinvolto in una sparatoria.
Per fare ancora un esempio: può mai considerarsi colpevole di omicidio
Tizio che seppur tentando di uccidere Caio lo ferisce soltanto, seguentemente
Per “circostanza aggravante” viene inteso quell’elemento, o quella situazione
che può accompagnare l'azione o l'omissione delittuosa e che viene considerata
dall’ordinamento motivo di aumento della pena.
37
fuori pericolo ma ricoverato Caio muore in seguito ad una esplosione di un
macchinario ospedaliero?
Da queste semplificazioni appare nella sostanza difficile circoscrivere la
portata della tesi di Von Buri; l’eccessiva estensione del nesso causale
obbligherebbe il giudice a considerare, nell’analisi del fatto concreto,
situazioni che mal si presentano a definire un legame causale tra il
comportamento dell’agente e il verificarsi dell’evento.38
Viene affermato che in tutti i casi in cui la scienza non riesca a dare una
valutazione certa, oggettiva ed esatta del nesso causale attraverso leggi
scientifiche universali che diano una versione affidabile di causalità39, o
attraverso metodologie statistiche che diano una alta probabilità di
giustificazione dell’evento causato da una determinata condizione, la teoria
della “condicio sine qua non”40 è priva di affidabilità effettiva e concretezza
di applicazione.
A riguardo il luminare Stella F. in “Leggi scientifiche e spiegazione causale nel
diritto penale” afferma che: “l’evento può essere imputato dal giudice all’agente
quando l’assunto che esso non si sarebbe verificato senza il comportamento di
quest’ultimo è altamente probabile o razionalmente credibile.”
39
Per una critica alla tesi in esame cfr. Stella F., in “Leggi scientifiche e
spiegazione causale nel diritto penale”, Milano, 1990 e, sempre del medesimo
autore, “Giustizia e modernità”, II edizione, Milano, 2002.
40
Cfr. Licci G., in “Teorie causali e rapporto di imputazione”, 1996.
38
4.
La teoria della “causalità adeguata”.
La teoria della “causalità adeguata”41 è stata elaborata in Germania nel
tardo Ottocento e per merito di Johannes Von Kries42.
Di Von Kries vanno sottolineate le opere: “Die Prinzipien der
Wahrscheinlichkeitszurechnung”, Friburgo, 1886 e “Uber der Begriff der
Wahrscheinlichkeit und Moglichkeit und ihre Bedeutung im Strafrecht”, in
“Zeitschrift”, 1889.
42
Prima teoria elaborata non da un giurista né da un filosofo, bensì da un
“fisiologo”.
41
La teoria trova il suo fondamento su di un enunciato ben preciso e
specifico, infatti il rapporto causale si verifica nel momento in cui un soggetto
pone in essere un’azione proporzionalmente “adeguata” a cagionare quel
determinato evento. Questa tesi mira a distinguere ed individuare, tra tutte le
condizioni che pongono in essere l’evento, quelle idonee ad essere rilevanti
in sede penale. Nonostante la razionalità della premessa logica, emergono dei
limiti considerando che la teoria non tiene conto di quegli eventi che al
momento del fatto erano da definirsi improbabili43.
A ragione, nel definire il nesso di causalità, devono esser presi in
considerazione tutti “gli effetti straordinari o atipici dell’azione medesima”44
che la teoria in esame esclude. Come si può dunque facilmente comprendere,
la teoria della “causalità adeguata” si pone all’ opposto della teoria della
“condicio sine qua non”, che, come detto, estende in maniera incontrollabile
l’applicazione del nesso di causalità. La teoria di Von Kries restringerebbe
Sull’argomento è interessante il parere di Manna A., in “Corso di diritto
penale”, nel quale afferma che la tesi in esame fa riferimento al “criterio della
prognosi postuma”: proiettandosi nel momento in cui l'azione stava per essere
compiuta (valutazione “ex ante”), bisogna considerare tutte quelle circostanze in
cui il soggetto ha compiuto l’azione in concreto, ma soprattutto di tutti gli
elementi individuabili e percepibili dallo stesso (valutazione in concreto).
44
Cit. Antolisei F. in Manuale di diritto penale-Parte generale, sedicesima
edizione aggiornata e integrata da L.Conti, pagina 245 sezione 3 capitolo 2,
Giuffrè, 2003.
43
troppo il campo escludendo assurdamente dei reati di per sé certamente
imputabili ad un soggetto.45
In conclusione è necessario fare un esempio per meglio chiarire le
conseguenze applicative di tale assunto. Se Tizio spara a Caio in maniera
letale, ma Caio in preda ad una atroce sofferenza decide di anticipare
l’inevitabile morte non coprendo una ferita dalla quale perde sangue, Tizio
verrebbe assolto, si tratterebbe di suicidio.
Questo perché, come già sottolineato, la teoria non comprende e non rende
applicabili delle condizioni non prevedibili, “straordinarie” e “atipiche”.
5. La teoria della “causalità umana”.
Questa teoria formulata da Francesco Antolisei46, prende spunto dal
presupposto che l’essere umano è dotato di intelligenza tale da percepire
preventivamente quando da una determinata azione scaturisce un particolare
Analogamente con la teoria della “causalità umana” (vedi paragrafo successivo)
il campo di applicazione del nesso di causalità che il giudice dovrebbe effettuare
nel concreto, concorde con la teoria in esame, sarebbe fin troppo striminzito.
46
La teoria è di fondamentale importanza perché, essendo elaborata dal giurista
italiano subito dopo l’ingresso del Codice Rocco nell’ordinamento Italiano,
influirà sulla dottrina e sulla giurisprudenza stessa.
Cfr. Antolisei F., in “Diritto penale parte generale”, 2003; Fiandaca G. e Musco
E., in “Diritto penale parte generale”, 2009; Manna A., in “Corso di diritto
penale parte generale”, 2015.
45
evento, soprattutto può calcolare quali possono essere le condizioni tali da
poter conseguire sempre quel particolare evento. Vi è subito da specificare
che Antolisei precisa che non è l’azione di per sé, che dev’esser presa in
considerazione come causa dell’evento, bensì occorre porsi la domanda se
può un essere umano esser causa di questo determinato evento a causa di una
sua azione precisa.
Proseguendo, il celebre autore afferma che, non essendo ovviamente l’uomo
un essere onnisciente, gli eventi che non sono imputabili in capo ad un
soggetto, sono tutti quelli che egli non è in grado di percepire in tempo, non
almeno in virtù delle sue capacità conoscitive e volitive.
Pertanto, bisogna dunque distinguere due momenti nell’accertamento della
causalità: un momento positivo ed uno negativo.
In positivo, è necessario che la condotta del soggetto che pone in essere
un’azione od omissione che sia “condicio sine qua non” del realizzarsi
dell’evento.
In negativo, andrà verificato che l’evento non sia scaturito per
eccezionalità di cause, ovvero che non fosse al di fuori della concezione
umana.
“L’uomo è in grado di rendersi conto delle circostanze che ostacolano o
favoriscono la sua azione e, aiutato dall’esperienza, può calcolare in
anticipo gli effetti che possono scaturire da determinate cause. Mediante la
volontà egli può inserirsi nel processo causale ed imprimere ad esso una
direzione desiderata, eccitando le forze esteriori che sono inattive,
arrestando quelle in moto, oppure lasciando che le forze stesse si svolgano
liberamente. Date queste premesse è fuori dubbio che esiste un campo più o
meno ampio in cui l’uomo può dominare (…): esiste cioè una sfera di
signoria dell’uomo. Solo i risultati che rientrano in questa sfera di signoria
possono considerarsi causati dall’uomo, perché, anche se egli non li ha
voluti, era in grado di impedirli”.47
Il concetto di “signoria” che si evince dalla citazione, va ad indicare una sfera
in cui l’essere umano può comprendere anticipatamente quale sarà la
conseguenza di un suo comportamento, che sia commissivo od omissivo.
Va evidenziato, contrariamente, che le cause che sfuggono alla signoria
dell’uomo sono tutte quelle che egli non può prevedere, e dunque dominare,
in quanto hanno una probabilità, meglio “possibilità” minima di realizzarsi,
una percentuale molto bassa, è proprio questo che viene considerato il “caso
eccezionale”. In sostanza ciò che sfugge al “controllo” dei sensi dell’uomo.
Nonostante la teoria sviluppata da Antolisei possa sembrare più convincente
della teoria della “causalità adeguata”, in realtà la critica che è stata mossa
per quest’ultima è la medesima che è stata imputata alla “causalità umana”.
Cit. Ruggiu C., in “Il nesso di causalità”, parte seconda pagina 91, in “Studi
monografici di diritto penale” (a cura di) Guerrieri Teresa, Halley, 2007.
47
Infatti, se nella tesi della “causalità adeguata” erano esclusi dall’applicazione
del nesso causale tutti i “fatti straordinari o atipici”, nella tesi di Antolisei è
il fatto “eccezionale ed imprevedibile” ad essere escluso.
Seppure si tratti di due elementi differenti, entrambi coincidono in quanto
escludibili dall’applicazione al caso concreto.
Inoltre è stato rilevato che, dipendendo l’evento dall’oggettiva sfera di
conoscenza dell’agente, vi è un chiaro contrasto tra elemento oggettivo e
soggettivo, in quanto è pur possibile che un soggetto possa effettivamente
non esser capace di prevedere un azione, al contrario può un altro soggetto
esser in grado di percepire in anticipo l’evento.48 Ciò può avvenire in virtù
della maggiore esperienza che un soggetto ha in una determinata situazione,
al contrario di un altro soggetto che si trova ad affrontare la stessa
circostanza.
Per cui, la capacità di “controllo” di un soggetto con una certa esperienza si
imporrebbe nel momento realizzativo dell’azione od omissione, rispetto ad
un altro agente che nella stessa situazione non potrebbe prevedere l’evento,
proprio in mancanza di quella esperienza per poter ampliare la sfera di
“controllo”.49
Cfr. Mantovani F., in “Diritto penale”, 2015.
Per un ulteriore commento alla critica cfr. Fiandaca-Musco, in “Diritto penale
parte generale”, 2009; gli autori considerano la teoria della “causalità umana” un
«Mal riuscito tentativo di perfezionamento della teoria dell’adeguatezza».
48
49
L’obiezione muove nella direzione della generalizzazione della sfera di
“signoria” di ogni soggetto, in quanto andrebbe invece esaminato caso per
caso l’effettiva capacità di dominare la realizzazione di un evento50, di
soggetto in soggetto.
6. La teoria della imputazione obiettiva dell’evento
Cosi come alcune delle teorie già esaminate anche quest’ultima nasce in
Germania.
L’esigenza di sopperire ai limiti rivenienti dall’applicazione della teoria della
“condicio sine qua non”, ha portato parte della dottrine tedesca ad elaborare
una soluzione più condivisa51.
Di matrice “hegeliana” la teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento si
basa sulla premessa che il nesso di causalità rappresenta il perno centrale
Cfr. Stella F., in “La descrizione dell’evento”, in Trimarchi P. (a cura di)
“Causalità”.
51
Sulla teoria scrive Hirsch J., in “Sulla dottrina dell’imputazione oggettiva
dell’evento”, in “Riv.It.Dir.Proc.Pen.”, 1990.
50
della responsabilità. Ciò è inevitabile, in quanto il nesso causale è
perfettamente idoneo a valutare la “signoria” dell’agente in ogni fatto
concreto.
Questa tesi mira ad eliminare la fondatezza del rapporto di causalità in
riferimento a tutti gli antecedenti dell'evento di reato che, seppure abbiano
causato l’evento, si caratterizzano come cause di quel determinato evento per
un decorso causale del tutto “atipico”52.
Si tratta di un “aggiustamento” della teoria della “causalità adeguata”, che
giunge alla conclusione che: «Un evento lesivo può essere obiettivamente
imputato all’agente, soltanto se esso realizza il “rischio giuridicamente non
consentito o illecito” creato dall’autore con la sua condotta»53.
La teoria dell’imputazione obiettiva dell’evento si avvale di due criteri per
l’applicazione del nesso di causalità, senza i quali (il nesso causale) non è
applicabile in maniera conforme: aumento del rischio e scopo della norma
violata54.
A riguardo è di rilievo il pensiero di Larenz K., il quale in
“Hegelszurechnungslehre und der Begriff der objektiven Zurechnung”, per quanto
concerne l’imputabilità di un evento ad un soggetto, afferma che è di basilare
importanza non tanto stabilire se l’evento è stato cagionato da un soggetto, bensì
se «questo gli possa essere obiettivamente imputato come suo proprio fatto, o se
invece non debba considerarsi come conseguenza di una coincidenza del tutto
causale».
53
Cit. Fiandaca-Musco, in “Diritto penale parte generale”, 2015.
54
Cfr. Cataldo A.R., in “L’imputazione oggettiva del delitto colposo di evento”,
Napoli, 1989. Mentre per un confronto più recente si suggerisce il Cornacchia L.,
52
Il primo prevede che, oltre all’applicazione del nesso di causalità, l’azione
posta in essere dall’agente deve avere aumentato la probabilità del verificarsi
dell’evento delittuoso conseguente55.
Di conseguenza si può comprendere che la teoria esclude tutte quelle azioni
che superano il limite consentito, producendo eventi dannosi vietati
dall’ordinamento.
Di contro sarebbero consentite tutte quelle azioni che non conducono ad un
pericolo o che non aumentando la probabilità di verificazione di un eventoreato.
Per quanto concerne il criterio dello scopo della norma violata,
l’imputazione, in questo caso, non occorre in quelle circostanze in cui,
nonostante l’evento si sia verificato a causa del comportamento di un
soggetto, l’evento stesso non incarna una norma penale. Quindi non
costituisce reato56.
in “Concorso di colpe e principio di responsabilità penale del fatto proprio”,
Torino, 2004 e Di Giovine O., in “Il contributo della vittima nel delitto colposo”,
Torino, 2003.
55
Questo criterio è molto importante in quanto nelle teorie che si esamineranno
risulterà di fondamentale valore il valore “probabilistico” all’interno
dell’accertamento del nesso di causalità.
56
Trimarchi chiarisce che infrangere una norma giuridica può non essere
sufficiente per decretare la certa responsabilità di un soggetto. E’ necessario,
bensì, accertare la connessione tra l’azione che rappresenta una violazione o un
danno e il rischio che ha creato tale azione.
Ad esempio: non può esser sufficiente la mancanza di una patente di guida
per accertare la responsabilità, se l’incidente è stato causato per mancata
precedenza dell’altro veicolo.
Molte critiche sono state mosse a questa teoria57. In particolare bisogna citare
le difficoltà di applicazione del secondo criterio sopra citato.
La rilevanza assegnata al criterio dello scopo della norma violata produce
molte difficoltà per l’individuazione della ratio delle norme incriminatrici
applicabili ai casi concreti58.
Un’altra critica mossa alla teoria in parola riguarda l’applicazione della stessa
in un ordinamento, come quello italiano, in cui già è presente nel codice una
normativa soddisfacente. Diversamente, in Germania, nel cui ordinamento
non è presente alcun tipo di disciplina sulla causalità59.
Cfr. Maiwald M., in “Causalità e diritto penale”, Milano, 1999.
A riguardo scrive un importante esponente italiano della teoria Donini M., in
“Lettura sistematica delle teorie dell’imputazione obiettiva dell’evento”, in
“Riv.It.Dir.Proc.Pen.”, 1989; sempre lo stesso autore, più recentemente, in
“Imputazione oggettiva dell’evento «nesso di rischio» e responsabilità per fatto
proprio”, Torino, 2006; vedi anche Piergallini C., in “Danno prodotto e
responsabilità penale”, 2004.
59
Cfr. Guerrieri T., in “Studi monografici di diritto penale”.
57
58
7. Attuale disciplina adottata dal Codice Rocco.
La disciplina codicistica si ispira apertamente alla teoria della “condicio
sine qua non”, pur apportando alcuni temperamenti.
Già è stato citato l’articolo 40 del Codice penale, il quale, com’è evidente,
prescrive la necessità di una connessione tra l’azione e un evento conseguente
ad essa60.
Il secondo comma dello stesso articolo conferisce, peraltro, elasticità alla
disciplina, stabilendo che “Non impedire un evento che si ha l’obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.
Soffermandosi brevemente su questo dettato si può comprendere la necessità
di applicare il nesso di causalità non solo in quei casi in cui un soggetto ha
procurato un evento con una determinata azione, ma anche a quei casi in cui
un soggetto non comportandosi in un certo modo ha permesso il verificarsi
di un evento delittuoso.
In realtà solo un soggetto che ha dato vita ad un evento che è considerato
dall’ordinamento come reato può essere perseguito penalmente.
60
Giova precisare che, per sussistere il nesso causale in tutte queste forme di
“omissioni”, deve necessariamente trattarsi di un “obbligo giuridico” di
compiere un’azione61.
Ne discende da ciò l’emergere di tre tipi di “obbligo giuridico”:
-
Generale: si tratta di un obbligo giuridico rivolto a tutti i cittadini, senza
distinzione.
-
Professionale o d’ufficio: che colpisce solo una determinata parte di
soggetti, come si comprende dal nome stesso ad esempio un medico può
rientrare in questa categoria.
-
Speciale: dei casi in cui determinati individui sono obbligati a compiere
particolari azioni.
Ovviamente l’obbligo giuridico nasce con la legge penale ed è regolamentato
dai principi del Codice.
Affrontato e rilevata l’importanza dell’articolo 40 c.p., va analizzato
l’articolo successivo, l’articolo 41 c.p., la cui analisi presenta aspetti di sicura
complessità.
Innanzitutto l’articolo nei tre commi recita:
Per una critica all’articolo vedi Antolisei F., in “L’obbligo di impedire un
evento”, in “Riv.It., 1936, e Mantovani F., in “L’equiparazione del non impedire
al cagionare”, in “Archivio penale”, 1987. Ancora sempre sull’argomento, che ha
creato molte diatribe in dottrine cfr. Fiandaca G., in “Il reato commissivo
mediante omissione” e Paliero C.E., in “La causalità dell’omissione: formule
concettuali e paradigmi prasseologici”, in “Riv.It. medicina legale”, 1992.
61
“Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se
indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto
di causalità fra l’azione od omissione e l’evento.
Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state
da sole sufficienti a determinare l’evento. In tal caso, se l’azione od
omissione precedentemente commessa costituisce per sé un reato, si applica
la pena per questo stabilità. 62
Le disposizioni precedenti si applicano anche quando la causa preesistente
o simultanea o sopravvenuta consiste nel fatto illecito altrui”.
Il primo e terzo comma non destano problemi interpretativi di rilievo; infatti,
nel primo comma, è esplicato il principio secondo cui tutte le condizioni e le
circostanze le quali abbiano concorso nel verificarsi dell’evento, non vanno
valgono ad escludere il nesso causale per la responsabilità del soggetto
colpevole.
Il terzo comma fa chiarezza su quanto esposto e disposto dall'articolo in
esame, prevedendo la rilevanza del “principio di eguaglianza delle cause”
con relativi limiti, e applicazione non solo con il riferimento a cause
“antecedenti, concomitanti o sopravvenute” come circostanze naturali o
Nei lavori preparatori del Codice Rocco non era previsto l’inserimento di questo
comma. Il principio limitativo che esprime il 2° comma dell’articolo 41 c.p. viene
inserito a sorpresa per limitare la teoria della “condicio sine qua non”.
62
casuali, ma anche se si tratta di atteggiamenti delittuosi, o comunque illeciti,
di altri soggetti63.
Dalla lettura dei due commi - 1° e 3° - e dalla relativa parafrasi si può
comprendere come sia chiara l’influenza della teoria della “condicio sine qua
non”.
Non è un caso che il secondo comma dell’articolo sia l’ultimo ad essere
esaminato, esso infatti è fondamentale proprio perché tende a temperare la
portata della teoria appena ricordata.
Come già sottolineato, infatti, la teoria difettava per una eccessiva estensione
della colpevolezza64.
Un primo orientamento giurisprudenziale ha interpretato l’ostacolo posto al
primo e al terzo comma basandosi sulla centralità di una azione che ha
indipendentemente determinato il verificarsi di un evento delittuoso.
In realtà questa versione dei fatti è stata già affrontata nel paragrafo della
teoria della “condicio sine qua non”.
Come sarà a breve nuovamente chiarito, nell’ordinamento Italiano vige il
“principio della equivalenza delle cause” o della “condicio sine qua non”. Vale la
pena ricordare che ciò significa che qualunque condizione che ha inciso sulla
realizzazione in concreto dell'evento (qualsiasi elemento il quale ha concorso al
suo porsi in essere) ne costituisce causa, al di là dell’apporto di altre concause,
seppur consistenti in comportamenti/condizioni di altri soggetti, che hanno inciso
sull’esistenza dell'evento.
64
Vedi paragrafo 3.
63
E’ stato già chiarito che questa interpretazione desta molti dubbi e lascia
aperte molte questioni e dubbi interpretativi.
Un altro tentativo di soluzione della configurazione giuridica del nesso di
causalità, è stato perseguito attraverso una interpretazione fondata sulla
portata del fattore sopravvenuto come una “causa” (attenzione, non
“condizione”) che con “esclusiva forza propria” ha determinato l’evento
delittuoso.
Il nucleo centrale di questa soluzione si sostanzia proprio nella distinzione
tra “causa” e “condizione”.
Una differenza che non è mai stata chiarita dalla giurisprudenza e che lascia
questa interpretazione priva dei necessari fondamenti65.
Antolisei afferma, invece, che l’interpretazione del comma non può che esser
letta attraverso una esclusione di applicazione nei soli casi di “interferenze di
serie meramente occasionali”.
La chiave di lettura offerta da Antolisei è di certo la più vicina alla concreta
interpretazione che né ha dato la giurisprudenza. Infatti, sempre l’autore
italiano, ha dato spunto alle recenti delibere della Corte Suprema che ha
escluso l’intervento della norma solo nei casi in cui vi siano fatti con
Altre interpretazioni sono state sviluppate da studiosi e giuristi, come il “criterio
della preponderanza causale”. La teoria ha delle lacune importanti che in realtà
sono già stati affrontati, si tratta dei limiti della mente umana a prevedere
determinati eventi.
65
“carattere di assoluta anormalità”. Per fatto “anormale”66 va inteso un fatto
improbabilissimo, rarissimo, inopinabile.
E’ sicuramente questa l’interpretazione più attendibile, anche se non accolta
in maniera unanime dalla dottrina, e in questa prospettiva è auspicabile che
la giurisprudenza sì orienti.
8. Sentenza Franzese, le SS. UU. danno una svolta.
Nel corso degli anni 90’ la giurisprudenza è in piena contraddizione in merito
all’interpretazione del nesso di causalità.
Un primo orientamento, era caratterizzato da un’elastica applicazione del
nesso causale, in forza del quale è possibile stabilire la connessione causale
anche in caso di percentuale di probabilità, statisticamente calcolata bassa67.
Va citato il giurista sovietico Trainin il quale ritiene non sussistente il nesso
causale al verificarsi di eventi causati da “fattori intermedi eccezionali, non
dominabili dall’uomo.”
67
Leggi statistiche: si limitano ad affermare che il verificarsi di un evento è
accompagnato dal verificarsi di un altro evento soltanto in una certa percentuale di
casi. Percentuale che va calcolata e dalla quale si può stabilire matematicamente
la probabilità del verificarsi di un evento conseguente all’azione.
66
In una posizione diversa e più rigida, si poneva l’orientamento che prevedeva
un’applicazione del nesso causale solo in caso di sussistenza di “leggi
scientifiche universali”68 tali da rendere in concreto certa la responsabilità
per un determinato evento.
Tale contrasto appena brevemente esposto, ha prodotto una intensa risonanza
all’interno della diatriba giurisprudenziale, come si può ben capire.
Infatti una cosa è condannare un soggetto per aver posto in essere un evento
delittuoso e certo, ben diverso è il caso di condanna per una probabilità
intorno al 30%.
La risposta delle Sezioni Unite sul caso arriva solo nel 2002. La
giurisprudenza è chiamata a fare chiarezza nell’ambito di un processo che ha
fatto la storia concluso con la sentenza n°30328 del 2002, sentenza
Franzese69.
Legge deduttiva dalla quale non derivano eccezioni. Esempio: l’acqua se
riscaldata a 100° evapora. E’ una matematica certezza che un evento sia
determinato da un fatto preciso. Leggi che trovano fondamento in casi in cui la
conoscenza umana permette di avere verità indiscutibili in base a studi
scientificamente provati.
69
Il fatto consisteva in “un intervento chirurgico d'urgenza per perforazione
ileale, determinato l'insorgere di una sepsi addominale da 'clostridium septicum'
che cagionava il 22 aprile la morte del paziente.
Il giudice di primo grado riteneva fondata l'ipotesi accusatoria secondo cui
l'imputato, il medico, non aveva compiuto durante il periodo di ricovero del
paziente una corretta diagnosi né praticato appropriate cure, omettendo per
negligenza e imperizia di valutare i risultati degli esami che avevano evidenziato
una marcata neutropenia ed un grave stato di immunodeficienza. Autorizzando
invece, addirittura, l'ingiustificata dimissione del paziente giudicato in via di
guarigione chirurgica”. Esami e cure che invece, prosegue la Suprema Corte, che
68
La sentenza riguardava il caso di un procedimento in materia di
responsabilità medica omissiva, riconducibile, nella sostanza, alla ricerca
della “legge di copertura”70 da applicare al caso concreto.
Nell’anno 1990, la Corte Suprema è chiamata a deliberare sui fatti avvenuti
in Trentino71 quindici anni prima.
Vengono accusati di disastro colposo e di omicidio colposo plurimo dieci
persone – sentenza confermata – coloro che avevano la responsabilità di
gestire la miniera.
La Corte non si limita però a concludere il processo, infatti vengono enunciati
alcuni principi – che come vedremo faranno giurisprudenza – riguardanti il
nesso di causalità: «[…] in tanto si può eliminare l’azione ed eliminare o non
eliminare l’evento in quanto si conosca, si sappia in antecedenza, che da una
certa azione scaturisce o non scaturisce un certo evento, conoscenza che può
essere dettata immediatamente dall’esperienza e, ove da quest’ultima non
sarebbero state idonee e sufficienti a salvare la vita del paziente. Tale conclusione
giunge da vari pareri medico-legali ottenuti dalle Sezioni Unite in favore del caso
concreto.
70
Le leggi di copertura si distinguono in leggi universali e leggi statistiche, appena
esaminate.
71
Il 19 luglio 1975 i bacini di decantazione della miniera di Prestavel ruppero gli
argini, scaricando 160 mila metri cubi di fango sull'abitato di Stava. Quel giorno
morirono ben 268 persone. La Commissione ministeriale d'inchiesta accertò che
l'impianto era una minaccia concreta in quanto mal costruito. Era stato progettato
in maniera non adeguata, costruito in maniera non idonea e gestito senza offrire
solide tutele allo scopo di garantire la sicurezza.
dettata, deve poter essere acquisita, per risolvere positivamente il problema
del nesso di causalità, facendo ricorso, non ad ‘individualizzazioni’, alla
ricerca, cioè, della causa caso per caso, senza riferimento a criteri di
generalizzazione, bensì, in ossequio al principio di stretta legalità o
tassatività, facendo ricorso al modello, generalizzante, della sussunzione
sotto leggi scientifiche»72.
In sostanza la Suprema Corte ha inteso stabilire:
- l’accertamento del nesso di causalità, almeno in diritto penale, deve
avvenire attraverso l’applicazione al caso di specie di leggi scientifiche73;
- che queste leggi scientifiche possono essere di due tipi: leggi universali e
leggi statistiche;
- infine le leggi statistiche, considerando che si tratta di percentuali di
collegamento tra azione od omissione e conseguenza delle stesse, non sono
da sole sufficienti a dare una spiegazione dell’evento74.
Possono bastare se e solo se esprimono un coefficiente vicino o pari al 100%.
Cit. Corte di Cassazione 1990 sentenza n°4793 del 1990.
Cfr. Stella F., in “Verità, scienza e giustizia. Le frequenza medio basse nella
successione di eventi”, in “Riv. Ita. Dir. Proc. Pen.”, 2002.
Ancora lo stesso autore in “Causalità omissiva, probabilità, giudizi controfattuali.
L’attività medico-chirurgica”, 2005.
74
Cfr. Di Giovine O., in “Il problema causale tra scienza e giurisprudenza (con
particolare riguardo alla responsabilità medica)”, in “Indice penale”, 2004.
72
73
Contrariamente una rilevazione dalla quale scaturisce una percentuale pari al
60/70% determina la necessità di effettuare un altro passaggio. Invero il
giudice è chiamato ad esaminare il caso concreto in base al quadro probatorio
offertogli e se il caso è riconducibile alle legge scientifica probabilistica
individuata, ovvero se la regolarità a base statistica enunciata sotto forma di
legge statistica, si sia concretizzata nel caso di specie75.
Questa sentenza è molto importante perché, avendo già un quadro completo
dell’interpretazione del nesso causale attuale, permette a leggi specifiche76 di
confluire nei casi concreti, seppur estranee al diritto, ma che chiariscano in
maniera soddisfacente gli eventi delittuosi.
Tornando nuovamente alla sentenza Franzese, ciò che le Sezioni Unite fanno
attraverso questa storica sentenza, è dare un punto di vista differente della
questione, ma molto più risoluto, tuttavia confermando quanto enunciato
Tra le sentenze più citate, nell’ambito dell’argomento trattato, è la sentenza
“Silvestri” del 1991. Dalla sentenza scaturì la responsabilità del medico in virtù
della probabilità di successo della terapia del 30%. Il “leading case” sull’aumento
del rischio è rappresentato da una successiva pronuncia del 1995, nel caso
Barbotto Beraud. Il processo proponeva una mesotelioma da esposizione ad
amianto. Il pretore di Torino affermava che: «la causalità omissiva, proprio
perché causalità ipotetica, fondata su un metodo a struttura probabilistica, può
essere determinata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello
normalmente raggiunto nell’ambito della causalità reale». La sentenza, dunque,
afferma che l’accertamento della causalità omissiva possa fondarsi anche su leggi
statistiche.
76
Si parla di leggi di copertura – come già visto – cioè leggi scientifiche e
statistiche.
75
dalla sentenza Stava77. La questione principale è quella di separare la fase di
individuazione di “causalità generale” dalla “causalità individuale” in
maniera tale da arrivare ad una accusa certa sulla responsabilità dell’evento
oltre ogni ragionevole dubbio.
Vale a dirsi distinguere la fase in cui vengono individuate le attinenze causali
astratte da quelle concrete.
Per chiarire ulteriormente, si può affermare che la Suprema Corte volesse
sottolineare come non fosse né possibile, né necessario far coincidere una
causa con un evento al 100% in ogni singolo caso esaminato da ogni singolo
giudice. Ma è compito del giudice comprendere la rilevanza, o meno, di una
condizione nell’evento preciso.
Per fare ancora più chiarezza, viene inteso che non ha importanza che la
“probabilità statistica”78 di verificarsi di un evento sia del 3% o del 70%,
bensì, ciò che è rilevante, è la effettiva materializzazione dell’evento in
seguito al susseguirsi ordinario di manifestazioni causali, attraverso una
Le Sezioni Unite hanno confermato i principi appena esposti, ampliando il
discorso e statuendo un legame molto importante tra la condotta dell’imputato e le
leggi di copertura che vanno applicate al caso di specie e l’esaminazione che il
giudice deve effettuare del caso per l’applicazione del nesso di causalità. Ciò per
poter giungere alla conclusione del caso oltre ogni ragionevole dubbio.
78
Rilevante a riguardo: «la probabilità rappresenta il limite di una frequenza
stabile nella verificazione di un evento nel lungo periodo, cioè dopo un numero
elevato di osservazioni (concetto oggettivo)», D’Alessandro F., “Commento
all’art. 40 c.p.”, in Dolcini-Marinucci, “Codice penale commentato”, IPSOA,
2011.
77
attenta esamina della “probabilità logica”79, che è ben distinta dalla
probabilità statistica.
Esaminazione del caso concreto che va posta in essere dal giudice il quale ha
il fondamentale compito di verificare la correlazione tra l’azione posta in
essere dal soggetto e l’evento, od escludere una connessione per la
sussistenza di autonome cause interferenti.
Per fare un esempio si può considerare il caso di contagio da HIV. Se è vero
che vi è stato un rapporto sessuale tra l’imputato e la vittima, è anche vero
che il contagio per rapporto sessuale non è una certezza assoluta.
Sta dunque al giudice esaminare eventuali fattori esterni determinanti del
contagio. Ad esempio l’utilizzo di una siringa infetta o una trasfusione con
sangue infetto.
Per arrivare alla prova della causalità individuale il giudice deve far
coincidere l’evidenza scientifica con le circostanze emergenti dal quadro
probatorio del caso in esame. Come già detto, deve arrivare prima
all’esclusione dei decorsi causali alternativi eventualmente ipotizzabili. Tale
procedimento è «non dissimile dalla sequenza del ragionamento inferenziale
dettato in tema di prova indiziaria dall'art. 192 comma 2 c.p.p. (il cui nucleo
Considerata come criterio di giudizio per la ricostruzione del fatto nel caso
concreto, è un concetto che non descrive una frequenza statistica, come la
“probabilità statistica”, ma piuttosto un rapporto di conferma tra un'ipotesi di reato
e le condizioni che ne fondano l'attendibilità.
79
essenziale è già racchiuso, peraltro, nella regola stabilita per la valutazione
della prova in generale dal primo comma della medesima disposizione,
nonché in quella della doverosa ponderazione delle ipotesi antagoniste
prescritta dall'art. 546, comma 1 lett. e c.p.p.)»80.
Il riferimento all’essenziale valutazione comparativa tra le prove, come
anche alla considerazione delle eventuali ipotesi antagoniste, permette di
comprendere in concreto il significato della «probabilità logica».
Le Sezioni Unite81 la considerano un equivalente della conferma dell’ipotesi
posta in essere. Vale a dire conferma dell’ipotesi scientifica generale venuta
alla luce dal quadro probatorio. Da tale conferma il giudice rileva la certezza
processuale82 della sussistenza del nesso causale.
Come affermano le Sezioni Unite nella sentenza stessa.
«Prima viene in considerazione una legge, come tale costruita su generalizzazioni
(comportamenti-tipo, situazioni-tipo, conseguenze-tipo), poi si controlla se il
singolo comportamento storico, la singola situazione storica, la singola
conseguenza storica, possono essere inseriti nello schema generale previamente
ottenuto. In altri termini […] un antecedente può essere configurato come
condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli
antecedenti che, sulla base di una successione regolare conforme ad una legge
dotata di validità scientifica – la cosiddetta legge generale di copertura – portano
ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto»
81
Sul tema delle pronunce della Suprema Corte vedi D’Alessandro F., in “La
certezza del nesso causale: la lezione «antica»” di Carrara e “La lezione
«moderna» della Corte di Cassazione sull’«oltre ogni ragionevole dubbio»”, in
Riv. It. Dir. e proc. Pen., 2002.
82
Per “certezza processuale” si deve intendere una certezza derivata dalla coesione
di apporto del giudice nella valutazione del caso concreto e del complesso delle
prove. Va distinta dalla “certezza oggettiva”, la quale indica una certezza del
100%, innegabile. Può considerarsi tale ad esempio l’omicidio compiuto in una
piazza colma di testimoni.
80
Per concludere si deve affermare che le relazioni causali che la “legge
scientifica” va ad individuare, devono essere strettamente attinenti al caso
concreto; sarà il giudice a procedere con cautela di volta in volta. Inoltre il
giudice
deve
eseguire
una
“ri-descrizione”
dell’evento,
necessità
strettamente connessa alla clausola “ceteris paribus”83.
Questa “ri-descrizione” va attuata attraverso le modalità tipiche e ripetibili
configurabili dalla “legge di copertura” individuata dal giudice, ciò permette
una valutazione generale del caso concreto.
Tale valutazione generale effettuata nella maniera appena descritta va poi
reintrodotta nell’ipotesi in esame, al fine di testare la stabilità della ipotesi
scientifica oltre ogni ragionevole dubbio.
9. L’accertamento del nesso di causalità.
Letteralmente: “a parità di tutte le altre circostanze”. La Cassazione a riguardo
nella sentenza afferma: «ricorre […], nella premessa minore del ragionamento,
ad una serie di “assunzioni tacite”, presupponendo come presenti determinate
“condizioni iniziali” e “di contorno”, spazialmente contigue e temporalmente
continue, non conosciute o soltanto congetturate, sulla base delle quali, “ceteris
paribus”, mantiene validità l'impiego della legge stessa».
83
Anticipando temi che saranno trattati più ampiamente in seguito, nei processi
che riguardano la esposizione a sostanze tossiche, più precisamente
concentrandosi, per ovvi motivi, sui processi che riguardano l’esposizione ad
amianto, la tradizionale e tuttora prevalente giurisprudenza sostiene e
qualifica come “omissiva”84 la condotta dei soggetti garanti della salute
nell’impresa.
Viene evidenziata, dunque, l’importanza della omessa adozione di misure da
parte di quei soggetti sui quali gravava il dovere.
E’ omissiva, per chiarire meglio, una condotta da parte di un soggetto il quale
si sia limitato a non evitare, attraverso una azione, un decorso causale il quale
ha permesso l’evento lesivo.
Di una posizione diversa, più recente e minoritaria85, è una parte della
dottrina che sostiene la componente commissiva86 del fatto, senza tuttavia
tralasciare l’omissione oggettiva conclusiva del soggetto.
Un autore Francese, il Guex, già nel 1900 scriveva che “anche i fatti negativi
sono condizioni. Noi diciamo che la causa dell’incendio per fulmine è la
mancanza del parafulmine e la causa della disfatta di Waterloo è stata l’assenza
di Grouchy” in “Du dèlit de commission par omission”.
85
Essendo un passaggio fondamentale più e più autori si sono cimentati
nell’argomento in particolare. Cfr., ad esempio, Viganò F., in “Problemi vecchi e
nuovi”; piuttosto che, Fiandaca-Musco, in “Diritto penale-Parte generale”, V
edizione, 2007.
86
Sul punto è interessante il parere di Fiandaca, l’autore infatti aleggia verso una
diversa opinione. Preferisce superare “la considerazione delle caratteristiche
84
Infatti viene chiarito che, prima che si realizzi l’omissione a monte, vi è una
scelta di convenienza da parte di chi è interessato all’evento.
Colui che vuole quel determinato evento preferisce, per i più svariati motivi
attinenti a strategie aziendali, omettere una azione, pur conscio di dover fare
il contrario.
Dunque la condotta ha natura commissiva nel momento in cui l’agente
introduce un fattore di rischio87 (che conseguentemente sfocerà nell’evento
lesivo) che fino a quel momento non esisteva.
In realtà non va generalizzata una condotta in maniera impulsiva, essa infatti
può essere omissiva come commissiva88, va stabilita la natura del fatto nella
fattispecie concreta da parte del giudice attraverso una esamina appropriata e
minuziosa degli accadimenti.
Il primo passo per l’accertamento del nesso di causalità all’interno di questo
specifico tipo di processi è la ricostruzione, di tipo evidentemente
strutturali del reato privilegiando una prospettiva sostanziale”. Infatti Fiandaca
parte da una considerazione totale della tutela penale, tutela che è ovviamente
sostentata dalla necessità di salvaguardare vita ed integrità individuale.
87
Cfr. Donini M., in “La causalità omissiva e l’imputazione “per l’aumento del
rischio”.
88
In particolare va ricordata la sentenza n° 43786 del Settembre 2010, meglio
conosciuta come sentenza Cozzini, in ambito, non a caso, di morti derivate da
mesotelioma pleurico dovute ad esposizione ad amianto. Più precisamente in
relazione alla natura commissiva dell’azione, essa viene accertata con le
determinazioni organizzative e gestionali riconducibili al soggetto garante.
naturalistico, delle azioni od omissioni che hanno poi determinato l’evento
lesivo.
Il giudice89 avrà il compito di constatare l’effettiva incidenza della sostanza
tossica come condizione senza la quale malattia o morte non si sarebbero
verificate.
Vi è la necessità di ampliare il discorso dell’accertamento ricordando che
spesso l’applicazione del nesso di causalità in materia di amianto tange anche
altre tesi riguardanti la causalità omissiva.
In tale direzione, emergono alcuni orientamenti intesi a definire la prassi
dell’accertamento, di seguito sintetizzati:
-
Una parte della dottrina è orientata a ridimensionare il nesso causale per dare
rilievo all’accertamento attraverso il riscontro della sussistenza di una
posizione di garanzia90 o meno.
Come già descritto nel paragrafo precedente, il giudice ha la fondamentale
missione di individuare leggi di copertura idonee ad essere applicate ai casi
concreti in esame. Ciò può avvenire attraverso l’introduzione nei processi di
soggetti esperti, specialisti delle materie che sono protagoniste del processo di
specie. In tal modo si arricchisce il quadro probatorio di nozioni tali da
confermare o smentire ciò che viene affermato o raccolto nelle prove.
90
E’ una posizione di favore di un soggetto i quali diritti sono tutelati da un altro.
In dottrina si sono individuati due classi: posizione di protezione e di controllo.
La prima è caratterizzata dalla fondatezza di un determinato legame giuridico tra
colui il quale è garante e colui il quale è garantito. Consegue l’obbligo del garante
di assicurare una totale tutela dei diritti del garantito. Esempio più classico è la
posizione giuridica che assumono i genitori nei confronti dei figli.
Nel caso della posizione di controllo invece il soggetto garantisce la generalità dei
consociati da eventi causati da una determinata fonte a cui è collegato
funzionalmente. Esempio può essere quella del dirigente scolastico che ha
89
-
Altra posizione assunta da parte della dottrina è di utilizzare il criterio della
possibilità91.
-
Un’ultima tendenza si è sviluppata intorno al criterio dell’aumento del
rischio92.
Riguardo quest’ultimo orientamento vi è da citare una teoria che si è
sviluppata in Germania alla fine degli anni 30’ del secolo scorso, la
“Objektive Zurechunung”93, invero “la teoria dell’imputazione oggettiva
dell’evento”.
l'obbligo di impedire il verificarsi di eventi dannosi a causa della pericolosità
dell'edificio scolastico o degli impianti dell'Istituzione stessa.
91
Questo criterio, basa il suo fondamento sulla probabilità statisticamente molto
basse di raggiungimento della azione doverosa; quantifica, quindi, la probabilità
di impedimento dell’evento a livelli molto bassi.
92
Si tratta, come già descritto esaustivamente nel paragrafo 6 di questo capitolo, di
una tesi per la quale dall’omissione deriva una condizione idonea a cagionare
l’evento lesivo. Se, contrariamente, l’evento non si sarebbe verificato, o le
possibilità sarebbero rimaste minime, senza il comportamento di omissione,
sussiste il nesso di causalità.
93
Questa teoria – già esaminata nel sesto paragrafo – discende dai pensieri del
filosofo Hegel, si sviluppa in Germania, nel diritto civile prima, grazie a Karl
Larenz, poi, prende piede anche nel settore penale grazie ad Honig.
CAPITOLO II
MALATTIE DERIVANTI DA ESPOSIZIONE AD
AMIANTO, ESPLOSIONE DEI CASI
GIURISPRUDENZIALI DAGLI ANNI ‘90
1. Asbesto,
perché
era
ed
è
tanto
diffuso,
approfondimento sulla fibra dannosa. Origini delle
norme anti-amianto.
L’amianto94, elemento minerario fibroso a struttura cristallina, fino alla
seconda metà dell’ottocento non è altro che un elemento naturale che desta
curiosità ed interesse per chi lo maneggia, osserva o studia.95 Inimitabile per
“Denominazione commerciale data ad un gruppo di minerali naturali, a
struttura microcristallina e di aspetto fibroso, appartenenti alla classe chimica
dei silicati, e alle serie mineralogiche del serpentino e degli anfiboli”. Cit. Pisano
R., in “L’amianto, il suo utilizzo e gli effetti sull’uomo”, in Di Amato A., a cura di
“La responsabilità penale da amianto”, 2004.
95
Cfr. AA.VV., in “L’amianto: dall’ambiente di lavoro all’ambiente di vita.
Nuovi indicatori per futuri effetti”. Nell’elaborato è chiarito che l’asbesto veniva
utilizzato come rinforzante già nel terzo millennio avanti Cristo. Un millennio
94
la sue qualità di resistenza al fuoco, alla trazione e agli agenti chimici e
naturali.96
Con l’esplosione delle industrie nella seconda metà dell’ottocento, l’amianto
si trasforma in un minerale fondamentale per le imprese di trasformazione.
Infatti, sfruttando la sua resistenza al fuoco, dunque al calore, piuttosto che a
molti agenti chimici, diventa un elemento chiave per le industrie edili e tessili
dell’epoca. Giacimenti in Canada, Russia, Italia, e sparsi in Africa danno il
via al commercio della fibra in tutto il globo.97
La facile estrazione dell’amianto e il modico costo di lavorazione
favoriscono lo sviluppo delle industrie che lo utilizzano, soprattutto nel
Regno Unito, favorito dalla seconda rivoluzione industriale.98
dopo lo stesso materiale dannoso viene utilizzato per la creazione di vasi in
ceramica. Utilizzato negli ambienti tessili già in Cina e Grecia nel 1000 a.c.
Vedi anche Carnevale e Nemcova, in “L’amianto nella storia e nella civiltà”, in
AA.VV. “Amianto. Miracoli, virtù, vizi”, Firenze, 1992.
96
Non a caso amianto deriva da “amiantos”, termine greco che significa:
immacolato, indistruttibile. Parallelamente “asbesto”, sempre in greco, significa:
perpetuo, inestinguibile.
97
Giacimenti molto importanti nel territorio nostrano erano situati in Val d’Aosta,
Piemonte e Lombardia. Fondamentali, sia per risorse contenute, sia per il
commercio, vista la zona favorevole nel Mar Mediterraneo, erano anche i depositi
di Cipro e Grecia.
98
Una chiara prospettiva dell’epoca nello sviluppo delle industrie che favorivano
l’utilizzo dell’amianto è fornita da Jones R.H., in “Asbestos and asbestic” 1897,
ricostruita in tempi più moderni da Tweedale G., in “Magic mineral to killer
dust”, 2000.
L’amianto viene utilizzato in ogni tipo di creazione dell’uomo; edilizia,
industria tessile, produzione di tubature, coperte, tende, il cemento-amianto
favoriva una durezza ed anti-trazione pari al cemento armato, canne fumarie,
nelle macchine, metropolitane, addirittura in prodotti farmaceutici e nelle
navi come il transatlantico “Queen Mary” che collegava l’Inghilterra con
New York.99
A cavallo tra l’Ottocento e il Novecento inizia ad emergere la pericolosità
dell’amianto. Molti scienziati iniziano a studiare la fibra in quanto intuiscono
che le malattie polmonari e le seguenti numerose morti delle fabbriche
possono essere causate proprio dall’asbesto.100
Nonostante le numerose segnalazioni dei danni che l’amianto può creare
all’uomo, la produzione di amianto non si arresta. Oramai è diventato
fondamentale per le industrie che ne fanno impiego massiccio, di là da ogni
considerazione delle garanzie degli addetti.
A.L. Summers, in “Asbestos and the asbestos industry”, afferma che tra il 1870
e il 1880 sono morte circa 2200 persone per incendi nei teatri. Conclude
affermando che se si fosse utilizzato l’amianto nella costruzione dei teatri e dei
sipari si sarebbe salvato il 95% di queste persone.
100
Nel 1906 Montague Murray afferma che le morti di molti lavoratori sono
dovute a malattie causate da polveri di amianto. I primi sospetti nascevano già nel
1889, l’ispettrice Lucy Dean cercava di sottolineare la pericolosità dell’amianto.
99
Alla fine degli anni ’20 entra in vigore in Italia la normativa, contenuta
nell’articolo 17 del R.D. del 14 aprile 1927 n°530, che ordina la riduzione e,
quando possibile, l’eliminazione delle polveri di qualsiasi natura dagli
ambienti di lavoro101. Un R.D. di un anno dopo obbliga l’assicurazione contro
le “malattie professionali” a carico di tutti i datori di lavoro nel settore
industriale. Una normativa molto importante che sarà ripresa nel prosieguo
dell’elaborato
Solo nel 1943 arriva il primo rapporto ufficiale, preparato in Germania, il
quale conferma che il mesotelioma è conseguenza dell’inalazione di polveri
di amianto. Molti paesi corrono ai ripari, disponendo divieti e leggi antiamianto. Peraltro, benché sia ufficiale la pericolosità della sostanza, continua
la produzione della fibra tossica fino agli anni 70’ e gli operai continuano a
lavorare senza protezioni e per tempi di esposizione prolungati.
In Italia il periodo culmine di estrazione, utilizzo e vendita di amianto risale
nel trentennio 1960-1990.102
ovvero “regio decreto-legge”; negli ordinamenti giuridici monarchici,
era un atto avente forza di legge emanato dal Re.
102
In Italia la maggiore attività di estrazione era svolta a Balangero, in Piemonte.
Il “British Geological Survey, World Mineral Statistics” afferma che nel 1987 la
produzione di amianto della miniera – poi chiusa due anni dopo per una bonifica –
era pari a 100.834 tonnellate.
101
“R.D.”,
La direttiva 83/477/CEE prevedeva “protezione dei lavoratori contro i rischi
derivanti da esposizioni ad agenti chimici, fisici e biologici durante il
lavoro”. E’ la prima normativa importante che però non trova immediata
applicazione concreta negli Stati membri.
Nel 1986 in Italia si ottiene una prima risposta con una ordinanza del
Ministero della Sanità. Viene disposta una restrizione all’utilizzo ed al
commercio di prodotti che contengono una variante dell’asbesto, la
“crocidolite”.
La direttiva 91/382/CEE modifica la direttiva dell’83 dando un termine di
applicazione agli Stati membri di quest’ultima entro l’1 gennaio del 1993.
Inoltre viene anche dato un termine per la conclusione delle attività estrattive
di amianto entro il 1° gennaio del 1996.
Un secondo provvedimento importante in Italia viene disposto con il D.Lgs.
n. 277/1991 in favore di una disciplina di protezione da tutte le sostanza
tossiche utilizzate nelle fabbriche.103
Cfr. Culotta A., in “Nuovi scenari prevenzionali dopo l’entrata in vigore del
D.Lgs. 15 agosto 1991 n. 277 di recepimento delle direttive CEE sui rischi da
piombo, amianto, rumore” e Guaraniello F., in “La sicurezza del lavoro nel
decreto legislativo 15 agosto 1991, n. 277”, in “Dir.Prat.Lav.”.
103
Solo nel 1992 arriva in Italia la prima norma contro la produzione, l’utilizzo
e il commercio di amianto, la legge n° 257.104 Inoltre, con la stessa legge,
vengono introdotti i primi benefici per i lavoratori colpiti dalle malattie
derivanti da esposizione alla fibra tossica.105
Fondamentali erano i valori di massima esposizione alle polveri di amianto
contenuti dalla legge; siffatti il I comma dell’articolo 3 della legge sopra
citata affermava che “la concentrazione di fibre di amianto respirabili nei
luoghi di lavoro ove si utilizza o si trasforma o si smaltisce amianto, nei
luoghi ove si effettuano bonifiche (…) non può superare i valori limite fissati
dall’articolo 31 del D.Lgs. 15 agosto 1991, n.277, come modificato dalla
presente legge”.106
Nel 1999, con direttiva 1999/77/CE, viene esteso il divieto di un’altra
direttiva di otto anni prima, la 91/659/CEE. Il divieto tende ad includere tutte
La legge nel comma 2 del primo articolo prevedeva: “sono vietate l’estrazione,
l’importazione, l’esportazione, la commercializzazione e la produzione di
amianto”.
Cfr. Gariboldi S., in “Problemi interpretativi e applicativi delle L. n. 257/1992 e
n. 271/1993”, in AA.VV., a cura di “Rischio amianto. Contribuzione aggiuntiva.
Responsabilità di impresa”, diretto da Vigorita Spagnuolo.
105
Più precisamente l’articolo 13 della legge 257/1992 prevedeva un “trattamento
straordinario di integrazione salariale e pensionamento anticipato” per tutti quei
lavoratori con una malattia derivata da esposizione ad amianto.
106
La modifica introdotta dalla legge in questione, radicata nel 4° comma
dell’articolo 3, consisteva nella diminuzione del valore limite a “0,6 fibre per
centimetro cubo”.
104
le sostanze nocive conosciute, compreso il “crisotilo”107 – la varietà più
diffusa utilizzata nelle fabbriche – che, considerato il meno dannoso tra le
varietà di amianto, era stato escluso dalla direttiva del ’91. Direttiva da
applicarsi in ogni Stato membro dell’Unione Europea entro il 1° gennaio del
2005.
La direttiva 2003/18/CE mira a rettificare la direttiva 83/477/CEE,
precedentemente
esaminata,
con
modifiche
significative
riguardo
l’esposizione massima alle polveri di asbesto. Le modifiche della direttiva
del 2003 debbono attuarsi negli Stati membri entro il 15 aprile 2006.
I risultati degli studi sulle patologie da amianto hanno mostrato scarsi
risultati, infatti fino a quella data è ancora sconosciuta la soglia minima di
esposizione possibile alla fibra senza ricorrere in malattie. Tuttavia, per non
correre rischi, l’Unione Europea corre ai ripari con una normativa molto
rigida.108
L’amianto, come accennato, può essere di vario genere. Il crisotilo è quello più
usato nelle fabbriche, con il 90% della produzione mondiale. La crocidolite,
meglio conosciuto come “l’amianto blu”. Altre tipologie sono: l’amosite,
tremolite, antofillite e actinolite. Il primo fa parte della serie mineralogica del
“serpentino”, tutti gli altri sono degli “anfiboli” vale a dire dei silicati di calcio e
magnesio, dunque molto più dannosi per la salute.
108
Il contenuto dell’articolo 1 della direttiva del 2003 modifica i valori di
esposizione riducendoli ai minimi. Infatti è disposto che nessun lavoratore deve
essere esposto in luoghi con concentrazioni di polveri di amianto superiori a 0,1
fibre per centimetro cubo.
107
Dal 2006, dunque, in Europa e in varie nazioni in via di sviluppo è stato
totalmente proibita l’estrazione e l’utilizzo dell’amianto, tuttavia alcuni paesi
ne rimangono tutt’oggi importanti produttori come la Russia, la Cina, il
Kazakhstan il Brasile e il Canada. Il picco di incidenza di malattie dovute
all’esposizione ad asbesto nell’Europa occidentale è previsto tra il 2010 e il
2020, questo per via della latenza molto lunga delle patologie tipiche dovute
al minerale tossico.109
2. Tipi
di
malattie
all’amianto,
derivanti
gravità
e
dalla
mortalità.
esposizione
Asbestosi,
mesotelioma e tumore ai polmoni.
Se da un punto di vista meramente economico l’amianto ha fatto la ricchezza
di molti, grazie allo sfruttamento delle sue straordinarie qualità
Questo picco sarà dovuto a quello che è stato l’utilizzo di amianto fino a fine
anni ’80; solo nel dicembre 2014 è stato fatto noto che il DAS – pasta sintetica a
base minerale utilizzata per modellare, maneggiata maggiormente dai bambini
nelle scuole e in attività archeologiche – è stato prodotto dalle aziende dell’epoca
con l’amianto.
109
mineralogiche, gravi sono gli effetti per la salute di chi è entrato in contatto
diretto con il minerale.
La struttura della fibra di amianto è così sottile che può essere facilmente
inalata. Dopo l’inalazione, com’è facilmente comprensibile, la microscopica
fibra va a sedimentarsi all’interno delle vie respiratorie dell’essere umano,
più precisamente negli organi respiratori, i polmoni.110
La difficoltà del corpo umano ad eliminare queste fibre dai polmoni porta
alla nascita delle malattie che, a seconda della durata e dell’intensità
dell’esposizione, può condurre alla morte.
Le fibre di asbesto considerate più nocive sono quelle aventi lunghezza
maggiore di 5 micron, diametro uguale o minore a 3 micron, infine il rapporto
tra lunghezza e larghezza deve essere maggiore di 3:1.111
Sono tre le patologie letali e più frequenti che, purtroppo, colpiscono l’uomo:
asbestosi, mesotelioma e tumore al polmone.
Le “placche pleuriche”, invece, possono anche palesarsi come benigne. E’
ancora molto dibattuto se l’esposizione ad amianto possa portare
all’insorgenza di patologie che non colpiscono le vie respiratorie come
Cfr. Gobbato F., in “Medicina del lavoro” e Grieco A., in “Lineamenti di
medicina del lavoro”.
111
Cfr. Di Lorenzo L., in “Malattie respiratorie da fibre minerali, artificiali e
sintetiche”.
110
tumori ai linfonodi, reni, vescica, ovaie, laringe, esofago e tratto
gastroenterico.112
 Cominciando dall’asbestosi, questa è una malattia che, com’è facilmente
deducibile, deriva dalla inalazione da asbesto. La patologia può essere più o
meno grave, a seconda della intensità e durata della esposizione e,
soprattutto, in base a quali fibre sono state inalate.
Com’è stato già detto, esistono due categorie di varianti di amianto, il
“crisotilo”, più diffuso per utilizzo nelle industrie e meno dannoso in quanto
il corpo umano riesce ad eliminare lentamente la fibra.
Gli “anfiboli”, con particolare attenzione sulla “crocidolite”, che non
possono essere rimosse dall’organismo e che, prima o poi, portano
all’insorgere della patologia.
L’insorgenza della malattia avviene in maniera lenta e progressiva. Sono
necessari almeno quindici anni affinché si manifesti l’asbestosi, a volte ne
sono necessari anche molti di più.113
Fondamentale per determinare la quantità di fibre inalate, dunque per
valutare la gravità della patologia, è necessario conoscere la durata
Cfr. Foà V. e Colosio C., in “Amianto: aspetti medici con storia degli impieghi
industriali ed evoluzione dei livelli espositivi e degli aspetti normativi”. Per un
confronto con una parte per qualche verso contrastante vedi Gobbato F., in
“Medicina del lavoro”, già poco sopra citato per altri motivi.
113
Cfr. Riboldi, in “Il rischio da amianto oggi”.
112
dell’esposizione del soggetto e la quantità per metro cubo di polveri presenti
nell’ambiente in cui è avvenuta l’esposizione. Per quanto la scienza abbia
scoperto fin ora è acclarato che sia necessaria una esposizione cumulativa di
25 fibre/centimetro cubo per “x” anni. Per chiarire può farsi un esempio: è
sufficiente 1 fibra/cc con esposizione per 25 anni, o 2,5 fibra/cc per 10
anni.114
 Il mesotelioma pleurico maligno è una forma tumorale relativamente rara e
molto aggressiva che origina dal mesotelio, la sottile membrana che riveste e
protegge i polmoni. Questa patologia molto difficilmente colpisce l’uomo,
tant’è che la si riconduce, proprio per questa rarità, ad una antecedente
esposizione ad amianto.115
Sebbene siano molto rari i casi di mesotelioma in soggetti non esposti ad
amianto per attività lavorative – dunque per lunghi periodi di tempo – la
scienza ha dedotto che questa letale malattia può insorgere anche in soggetti
esposti per breve periodo di tempo all’asbesto. Dunque, è anche possibile
riconoscere questa malattia in soggetti non professionalmente esposti, ma che
hanno avuto una esposizione, seppur breve, alla fibra. Per altri soggetti,
Dati ottenuti da diciannove esperti nel 1997 nel “International Expert Meeting
on Asbestos, Asbestosis and Cancer” ad Helsinki. AA. VV., in “Consensus
Report, Asbestos, Asbestosis and Cancer: the Helsinki criteria for diagnosis and
attribution, in Scand. J. Work Environ. Health, n. 23/1997”.
115
Cfr. Carnevale, Chellini, Seniori, Costantini, in “Effetti sull’uomo correlati con
l’esposizione ad amianto”.
114
invece, né esposti in ambienti lavorativi, ne esposti casualmente ad amianto,
la scienza non è riuscita a dare spiegazioni certe e/o convincenti su come il
mesotelioma possa insorgere. Alcune ricerche hanno tuttavia chiarito che il
mesotelioma può insorgere in seguito a: lesioni tubercolari, patologie
infiammatorie croniche, esposizione a radiazioni ionizzanti, esposizione ad
altri agenti chimici o in seguito a patologie virali.116
Dunque la scienza non è capace di stabilire le soglie minime di esposizione
necessaria per l’insorgenza del mesotelioma, tuttavia è certo che il periodo di
latenza della malattia è compreso tra i 35-50 anni e solo in alcuni casi
eccezionali è inferiore o pari a 20 anni.
 Il tumore ai polmoni, infine, è la malattie più frequentemente riconducibile
alla esposizione ad amianto.117 Tuttavia il carcinoma polmonare rappresenta,
nella popolazione mondiale, una patologia frequente, in quanto riconducibile
a svariati fattori oltre alla esposizione alla fibra tossica.118
Su questa linea di pensiero ritroviamo Foà V. e Colosio C., precedentemente
citati in “Amianto: aspetti medici con storia degli impieghi industriali ed
evoluzione dei livelli espositivi e deli aspetti normativi”, come anche Gobbato F.,
il quale afferma che: “nel 20-30% dei casi tale esposizione non è dimostrabile e vi
sono sicuramente altre cause”, in “Medicina del lavoro”. Grieco B., è d’accordo
con gli autori appena citati ed afferma inoltre che: “nel 70-80% dei casi esso è
riferibile all’esposizione ad amianto”.
117
Cfr. Mollo F., in “La causalità biomedica nei tumori professionali. Il problema
del raccordo con la causalità giuridica”.
118
Come l’esposizione ad altre sostanze tossiche o più frequentemente il fumo di
sigarette.
116
Di fondamentale importanza è l’affermazione di Riboldi C.: “Per quanto
riguarda il carcinoma polmonare, nonostante non esistano ormai più dubbi
sulla sua correlazione con l’esposizione ad asbesto, non sono però ancora
chiari i meccanismi con cui si realizzi l’azione cancerogena dell’amianto:
azione diretta, complicanza della fibrosi, azione sinergica con altri
cancerogeni ambientali. E’ ancora discusso se i carcinomi polmonari negli
esposti ad amianto siano dovuti all’asbesto di per sé o all’asbestosi”.119
Ciò che viene affermato dal Riboldi è che il tumore ai polmoni spesso è
correlato ad una esposizione alla fibra dell’amianto, tutta via è anche,
possibilmente, correlata all’asbestosi. Ciò non significa che dall’asbestosi
derivi automaticamente il carcinoma polmonare, anzi, la scienza è ancora alla
ricerca di prove certe, tuttavia in molti casi questa complicazione si è
manifestata.
Per quanto riguarda l’esposizione per la causa della malattia si riprendono le
soglie già esposte per l’asbestosi, con precisazioni riguardanti la quantità.
Infatti si sostiene che la soglia di esposizione per il manifestarsi del
carcinoma polmonare è maggiore a quella dell’asbestosi (25 fibre/cc/anno di
esposizione).120
Cit. Riboldi C., in “Il rischio da amianto”, pagina 358.
Cfr. Egilman, Reinert, in “Lung cancer and asbestos exposure: asbestosis is not
necessary”. Nella stessa direzione dei due autori britannici troviamo il Vigliani, in
119
120
Sul periodo di latenza della malattia polmonare si tratta di richiamare più o
meno le tempistiche delle altre due patologie già descritte. Tempi minimi tra
i 10 e i 15 anni, massimi tra i 30 e i 40 anni dall’esposizione.121
3. Legge n. 257/1992, in Italia l’amianto è fuori legge.
Già nel 1977 tutte le varianti dell’amianto erano presenti nella lista nera delle
sostanze nocive del CIRC – Centro internazionale di ricerca sul cancro delle
Nazioni unite – ma soltanto nel decennio successivo i gli Stati del mondo
iniziano a prendere le prime cautele.
“A glance at the early studies on the health effects of asbestos”, in “Medicina del
lavoro”, 1991,
121
Cfr. Forni A., in “I tumori professionali”; De Padova A. M., in “Tumori
professionali, norme e tutele”, 2008.
Islanda nel 1983 e un anno dopo la Norvegia sono i primi paesi a muoversi
per contrastare la “epidemia” dell’amianto attraverso normative proibitive.
La Danimarca è stata la prima nazione a vietare, nel 1986, l'uso generalizzato
dell’asbesto.
In Italia l'amianto è fuori legge solo nel 1992, quasi dieci anni dopo la grande
isola situata a nord della Gran Bretagna.122
In Italia l'amianto è fuori legge solo dal 1992. Come già rilevato nel primo
paragrafo, la legge 257/1992 disponeva il divieto di produzione e utilizzo di
amianto nel territorio italiano123. Si bloccava, di conseguenza, l’estrazione
del minerale in tutto lo Stato con conseguente avvio delle necessarie
bonifiche delle zone minerarie124.
La legge in esame nel I Capo indica all’articolo 2 le definizioni di amianto,
nel primo articolo invece ci sono le finalità che la medesima legge mira a
Merita di essere ricordato che l’articolo 32 della Costituzione sancisce che “La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
123
Viene posta una eccezione importante al divieto appena esposto. Infatti, fino al
31 ottobre del 2000, è previsto al comma 2 del primo articolo della legge, che
l’amianto sotto forma di treccia o di materiale per guarnizione, potrà continuare
ad essere utilizzato a causa dell’inesistenza di prodotti simili per sostituirli.
124
Una delle forme più tossiche, il crisotilo, purtroppo conosciuto in Italia per
essere stato utilizzato dall'Eternit di Casale Monferrato, è ancora estratto ed
utilizzato in varie parti del mondo come Canada, Russia, India, Cina e Giappone.
La lobby internazionale dell'industria dell'amianto è stata capace, fino ad ora, a
non fare includere il crisotilo nell'elenco delle sostanze pericolose previsto dalla
Convenzione di Rotterdam, entrata in vigore nel 2004 con l'accordo di 120 paesi.
122
perseguire. Queste finalità riguardano la dismissione e il divieto di estrazione
del minerale, la lavorazione dello stesso, infine il commercio – importazione
ed esportazione – nel mercato mondiale di tutti i materiali che lo contengono.
Al termine di tutte le attività di estrazione e di lavorazione, quindi di chiusura
di tutte le miniere e di tutte le fabbriche che impiegano l’amianto nei processi
di produzione, si dispone l’inizio del processo di “decontaminazione e di
bonifica delle aree interessate dall’inquinamento da amianto”125.
Infine, al terzo articolo del capo I, sono indicati i valori limite di esposizione
dei lavoratori fino alla fine della conclusione dei lavori imposti dalla legge126.
Nel capo II, articolo 4, è stata prevista l’istituzione, entro 30 giorni
dall’entrata in vigore della legge, di una commissione per la valutazione dei
problemi ambientali e dei rischi sanitari connessi all’impiego dell’amianto.
Di fondamentale importanza è l’istituzione di questa commissione, la quale,
composta da esperti nei settori di igiene, sanità, materiali tossici, tecnologie
e ambiente, ha il peculiare compito di valutare i danni procurati dagli
Cit. legge 257/1992, Capo I, articolo 1.
Come già accennato, i valori disposti dalla legge sono 0,6 fibre per centimetro
cubo. La direttiva del 2003 modificherà poi i valori di esposizione riducendoli ai
minimi. Viene disposto che nessun lavoratore deve essere esposto in luoghi con
concentrazioni di polveri di amianto superiori a 0,1 fibre per centimetro cubo.
125
126
stabilimenti dediti alla lavorazione od estrazione di amianto, proprio come
disposto nel quinto articolo.
I compiti della commissione non si limitano alla valutazione dei danni,
infatti, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge è stata chiamata a
presentare un piano di “indirizzo e coordinamento per la formazione del
personale del Servizio sanitario nazionale addetto al controllo dell’attività
di bonifica”127.
Ancora, alla commissione è stato attribuito il compito di omologare tutti i
materiali destinati a sostituire l’amianto, i prodotti che contengono l’amianto,
infine, entro 180 giorni dall’entrata in vigore della legge, la commissione è
stata chiamata a presentare un piano di bonifica dei luoghi contaminati e per
neutralizzare il minerale tossico.
In forza del sesto articolo della legge tutti i compiti della commissione
dovevano essere adottati entro 365 giorni dalla data di entrata in vigore della
legge. Inoltre, la legge in parola prescrive la presentazione al Parlamento di
una relazione annuale sullo stato di attuazione della legge. Infine, nell’ultimo
articolo del capo II della legge è stata prevista, nel termine di due anni
Cit. legge 257/1992, Capo II, articolo 5. Inoltre questo piano per la formazione
del personale deve essere disposto con l’aiuto dell’ISPESL – Istituto superiore per
la prevenzione e la sicurezza del lavoro – e dell’Istituto superiore di sanità.
127
dall’applicazione della stessa, la convocazione di una conferenza nazionale
sulla situazione dell’attuazione della legge. Alla conferenza, sono stati
chiamati a partecipare esperti nazionali in materia di sicurezza dell’ambiente,
dei materiali e in materia sanitaria, oltre alle organizzazioni sindacali
maggiormente rappresentative, le imprese, gli istituti di ricerca, le università
e le associazioni dei consumatori.
L’articolo 9 regolamenta la valutazione ed il monitoraggio di tutte le
dispersioni dovute alla lavorazione del minerale.
Le imprese che si occupano dello smaltimento e/o di bonifica devono
consegnare delle relazioni annuali alle Regioni,128 alle province autonome di
Trento e Bolzano ed infine alle unità sanitarie locali in cui sono situate le
attività. Le relazioni debbono essere complete dei dati relativi allo
smaltimento, alle attività svolte, al personale impiegato e alle misure adottate
per lo svolgimento delle attività stesse.
L’articolo 11 della legge ha disciplinato il piano di risanamento della miniera
di Balangero, già in precedenza citata, in considerazione dell’importanza
della stessa nell’estrazione di amianto. Veniva stanziato un fondo speciale di
Cfr. Toja, in “Enichem: un’esperienza di gestione”, in “Rischio amianto.
Contribuzione aggiuntiva. Responsabilità dell’impresa”, diretto da Spagnuolo e
Vigorita.
128
30 miliardi, a carico del bilancio dello Stato, da dividersi negli anni 1992 e
1993 per la bonifica della miniera e della zona circostante alla stessa.
Nell’articolo 12, invece, è stata disposta la rimozione dell’amianto dagli
edifici pubblici e la protezione degli ambienti colpiti circostanti129.
Delle misure per il sostegno dei lavoratori nelle imprese si occupa l’articolo
13 della legge 257/1992. In particolare, si è disposto “trattamenti
straordinari di integrazioni salariali e pensionamento anticipato” per tutti
quei lavoratori che hanno avuto contatti diretti con il minerale130.
Agevolazioni sono state previste anche per le imprese, nella forma di aiuti
per le innovazioni e per le riconversioni produttive131.
All’ultimo articolo della legge vengono disposti dei fondi finanziari annuali
per le Regioni più colpite dai disastri causati dal minerale tossico.
L’articolo 15 della legge dispone le sanzioni da comminare per le
inosservanze delle disposizioni della presente legge. Più precisamente per
l’inosservanza dei valori limite – 0,6 fibre per centimetro cubo – e della
Bisogna sottolineare che il minerale se presente negli edifici, difficilmente
presenta un pericolo per l’uomo. Questo perché se la struttura è in buono stato,
l’amianto non si disperde nell’ambiente sotto forma di polvere inalabile.
Sull’argomento si consiglia la consultazione di Rondoni P., in “Per monitorare il
rischio amianto nelle scuole indispensabili manutenzione e controllo periodico”,
in “Ambiente sicuro”, 2002.
130
Sull’argomento si svilupperà meticolosamente l’ultimo capitolo dell’elaborato.
131
Cfr. Laegard G., in “Le malattie da lavoro nel diritto penale”.
129
estrazione, commercio e produzione viene comminata una ammenda da lire
10 milioni a 50 milioni. Per la violazione degli obblighi sulle misure di
sicurezza la sanzione amministrativa varia da un minimo di 7 milioni a un
massimo di 35 milioni di lire. Per quelle imprese che si occupano dello
smaltimento, della rimozione e della bonifica senza il rispetto delle
normative, la sanzione amministrativa passa da un minimo di 5 milioni di lire
ad un massimo di 30. Per la violazione degli obblighi di informazione dovuti
allo Stato, la sanzione amministrativa è compresa tra i 5 e i 10 milioni di lire.
Infine, per il reiterarsi delle azioni non a norma della presente legge, alla terza
irrogazione di sanzioni, il Ministro dell’industria, del commercio e
dell’artigianato, dispone l’immediata cessazione di qualsiasi attività sia
svolta dall’impresa interessata.
Vanno inoltre menzionati gli articoli dal 59-bis al 59-septiesdecies del D.Lgs.
626/1994 in materia di sicurezza del lavoro, i quali riguardano la “Protezione
dei lavoratori contro i rischi connessi all'esposizione ad amianto”. Il Decreto
mira ad applicare le disposizioni enunciate nella già citata L 257/1992.
Gli articoli hanno il compito di ampliare la sicurezza negli ambienti di lavoro
attraverso disposizioni dettagliate che mettono i datori di lavoro in condizioni
di uniformarsi alla normativa. Utilizzo di protezioni e di precauzioni
necessarie alla prevenzione di infortuni e malattie sono gli elementi più
revisionati dal decreto.
Successivamente il Decreto Legislativo 25 luglio 2006, n. 257132 sulla
"Attuazione della direttiva 2003/18/CE relativa alla protezione dei lavoratori
dai rischi derivanti dall'esposizione all'amianto durante il lavoro", descriveva
nel Capo II gli “obblighi del datore di lavoro” rispetto alla prevenzione degli
infortuni e malattie, dagli articoli 59 quater a 59 septiesdecies.
4. Il reato omissivo improprio.
Nel quadro generale dei processi per danni causati dall’esposizione ad
amianto, l’Italia presenta aspetti normativi e giurisprudenziali del tutto
Pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 211 del 11 settembre 2006, apporta
modifiche al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, in attuazione delle
direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE,
89/655/CEE, 89/656/CEE, 90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE,
93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42/CE, 98/24/CE, 99/38/CE,
99/92/CE, 2001/45/CE e 2003/10/CE in merito al miglioramento della sicurezza e
della salute dei lavoratori durante il lavoro. In particolare Dopo il titolo VI del
decreto legislativo n. 626 del 1994 è inserito il titolo VI bis riguardante la
“Protezione dei lavoratori contro i rischi connessi all’esposizione ad amianto”.
132
peculiari. Infatti, se negli altri Paesi i processi assumono solo connotazioni
civilistiche, con ricorsi per risarcimento danni, in Italia – come in pochi altri
Paesi nel mondo – i processi si caratterizzano per le sfumature penali133.
Tale prerogativa è conseguente alla differente normativa penale tra
l’ordinamento italiano e quella degli altri Paesi. In più, deve aggiungersi, il
differente impatto sul piano sociale e mediatico che hanno avuto le
conseguenze dell’impiego dell’amianto.
La “responsabilità da amianto”, dunque, si riflette sia in processi di natura
civilistica per risarcimento danni, sia di natura penale, in conformità a ipotesi
di reato per omicidio colposo e/o per lesioni personali134. I tratti distintivi del
reato penale si configurano in una condotta di tipo “omissiva”.135
Come enuncia il secondo comma dell’articolo 40 del Codice penale: “Non
impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a
cagionarlo”136.
Cfr. AA.VV., in “The asbestos cloud over Europe”, in “European lawyer”,
2002.
134
Cfr. Vannini O., in “Omicidio colposo”, in Quid iuris, 1934; Baima, Bollone e
Zagrebelsky, in “Percosse e lesioni”, 1975; Giannini G., in “L’azione civile per il
risarcimento del danno e il nuovo codice di procedura penale”, 1990; Palmieri E.,
in “Risarcimento del danno e provvisionale nel giudizio penale”, 1985.
135
Di questo tipo di condotta si è parlato a lungo nel primo capitolo dell’elaborato.
136
Cfr. Stella, Zuccalà, Crespi, in “Commentario breve al codice penale”, 2006,
Romano M., in “Commentario sistematico del codice penale”, 2004; Grasso G., in
“Il reato omissivo improprio”,1983; Antolisei F., in “L’obbligo di imperdire
133
La condotta omissiva ha ragion d’essere quando vi è una “posizione di
garanzia” dei datori di lavoro nei confronti dei propri lavoratori. Questa
posizione garante si concretizza nel momento in cui un lavoratore è sotto la
protezione del datore di lavoro, il quale, deve per legge assumere tutte le
precauzioni necessarie con riferimento alle mansioni particolari che svolge il
lavoratore.
Il reato omissivo improprio, alla luce di quanto appena affermato, si verifica
quando un evento delittuoso si concretizza per via della condotta omissiva
posta in essere da un soggetto con posizione di garanzia nei confronti di un
altro. Per approfondire, i tre elementi chiave del reato in esame sono: la
condotta omissiva, il nesso causale e l’evento naturalistico.137
Affinché la condotta omissiva sia posta in essere, l’azione volta ad evitare
l’evento non deve concretizzarsi. Nel momento in cui l’agente non si
comporta come dovrebbe – in virtù della posizione di garanzia che lo
distingue – l’evento delittuoso si realizza. Il nesso di causalità connette
l’omissione del soggetto all’evento dannoso che scaturisce dal mancato
impedimento. L’obbligo giuridico di impedire l’evento può essere costituito
l’evento”, in “Riv.It.”, 1936; Paliero C.E., in “La causalità dell’omissione:
formule concettuali e paradigmi prasseologici”, in “Riv. It. Medicina legale”,
1992.
137
Cfr. Ferrante M.L., in “Reati omissivi impropri ed uso dell’amianto”, in Di
Amato A., a cura di “La responsabilità penale da amianto”, 2004.
da una norma di legge che lo preveda specificatamente, oppure dalla
sussistenza di particolari rapporti giuridici. 138
Ad esempio, il bagnino che a bordo piscina non vede un bambino che affoga,
come la posizione della maestra di scuola di giovani minorenni, ancora, la
posizione della baby-sitter.
Nei processi penali nati per esposizioni ad amianto, si è sostenuto spesso che
i datori di lavoro, omettendo le misure di sicurezza e di prevenzione in favore
dei lavoratori, fossero ignari della pericolosità derivante dalla fibra dannosa
per l’uomo.
Quest’assunto, tuttavia, non può trovare fondamento, soprattutto se si
considera quanto affermato nei precedenti paragrafi in virtù della nascita di
disposizioni limitative nei confronti dell’asbesto. Infatti, già negli anni ’30 la
nocività della fibra era ben nota.
Sebbene non fossero presenti all’interno degli ordinamenti delle leggi che
vietassero espressamente l’utilizzo di amianto senza misure di prevenzione,
le malattie derivanti dalla esposizione alla sostanza tossiche erano note;
mesotelioma ed asbestosi, sono malattie derivanti da inalazione di amianto
riconosciute già nel dopo guerra in Germania. Pertanto, il nesso causale tra
Nardi R., in “I reati omissivi e le posizioni di garanzia”, in “La voce del diritto,
rivista giuridica”, 2014.
138
le malattie appena citate e l’inalazione di amianto era tranquillamente
applicabile.139
E’ ovvio che, una cosa è la certezza di un nesso di causalità tra l’esposizione
e la malattia, altra cosa è la colpevolezza dei soggetti responsabili per non
aver adottato le misure di sicurezza idonee ad evitare tali eventi dannosi per
i lavoratori.
Il regime di responsabilità riguardante l’amianto, ed in particolare tutte le
malattie professionali, è stato completato soltanto con l’avvenire degli anni
novanta e successivi.140
Dal reato omissivo improprio, com’è stato esaustivamente chiarito,
scaturisce un evento dal mancato compimento di un’azione doverosa da parte
di un soggetto. In tema di amianto questo tipo di reati si configurano nella
maggior parte dei casi in una compagine industriale, in cui abbiamo la
Dagli albori degli anni ’60, grazie alla spedizione del dr. Wagner in Sud Africa,
si è potuta accertare ogni altro ragionevole dubbio la connessione tra amianto e
mesotelioma. In più dal 1965 la comunità scientifica è stata capace, soprattutto
grazie al merito degli studi di Irving Selikoff, scienziato statunitense, di associare
con piena certezza il mesotelioma alla inalazione di asbesto.
Sugli studi dello scienziato vedi I.J.Selikoff, J. Churg, E. Cuyler Hammond,
Asbestos Exposure and Neoplasia, in The Journal of the American Medical
Association, 1964; I.J. Selikoff, Intrapleural Instillation Of Asbestos, ivi, 1966;
I.J. Selikoff, E. Cuyler Hammond, J. Churg, Asbestos Exposure, Smoking, and
Neoplasia, ivi, 1968.
140
Vedi Legge n. 257 del 1992; D.Lgs. n. 626 del 1994; D.Lgs. n. 231 del 2001;
D.Lgs. n. 81 del 2008.
139
presenza di un datore di lavoro, il quale è responsabile dei suoi lavoratori.
L’evento delittuoso appena accennato, dunque, è posto in essere da parte del
datore di lavoro che, in una posizione di garanzia nei confronti dei lavoratori,
non assicura le dovute precauzioni durante lo svolgimento delle mansioni.141
5. Mesoteliomi e tumori polmonari causati da
inalazione di asbesto.
Come affermato nei primi paragrafi del capitolo corrente, è pienamente
accertato dalla comunità scientifica che l’asbesto è una patologia correlata
In merito a quanto appena esposto merita di essere citata la sentenza della
Suprema Corte n. 2433 del 1999, in merito alla morte di tre lavoratori a causa di
tumori da esposizione ad amianto. L’imputato è accusato di aver accelerato i
tempi di latenza della malattia insorta al lavoratore, causandone la morte più
rapidamente. La mancanza di assunzione di prevenzioni all’interno dell’ambiente
di lavoro è stata determinante per l’inalazione di ulteriori polveri tossiche che
hanno favorito un rapido sviluppo della malattia.
141
esclusivamente alla inalazione di asbesto che, depositandosi nei polmoni in
dosi elevate, determina la malattia.
Di converso, si è rilevato che il mesotelioma e il carcinoma polmonare
rappresentano patologie più complesse, pertanto, esse pongono delicati
quesiti e ostacoli importanti alla soddisfacente interpretazione delle
fattispecie, sia per la scienza medica che per quella giuridica. La loro
predisposizione a formarsi indipendentemente da esposizione ad amianto,
rende particolarmente complicate da dimostrare, all’interno dei procedimenti
penali, le cause dell’insorgenza, tanto da far cadere molte accuse, in
considerazione della “multifattorialità” di queste particolari e drammatiche
patologie.
Innanzitutto, la scienza non ha né la conoscenza né i mezzi per riuscire ad
individuare l’inizio delle patologie; infatti, non sono ben chiare le dosi
minime necessarie affinché si manifesti la malattia e, tutt’al più, si può
individuare un periodo in base alla latenza media di queste malattie, che si
aggira intorno ai 20-40 anni. Tale circostanza, complica molto
l’individuazione
dei
soggetti
responsabili;
è
difficoltosa,
infatti,
l’individuazione dei singoli datori di lavoro o dei dirigenti con obblighi di
responsabilità nei luoghi di lavoro, soprattutto perché i soggetti obbligati
spesso variano.
La prova del nesso di causalità può aversi solo nel momento in cui siano
provate tutte le esposizioni che hanno determinato la patologia della vittima,
contrariamente, la causalità non è sufficiente. Va ricordato che l’esposizione
alla fibra dannosa deve essere “condicio sine qua non” della malattia. Resta
fermo che, nel caso dell’asbestosi, le leggi scientifiche di copertura
consentono di dimostrare la diretta connessione tra esposizione ad amianto e
malattia. I risultati delle indagini scientifiche, dimostrano che per l’asbestosi
è necessaria una certa quantità di accumulo di polveri di amianto nei polmoni.
5.1. Effetto dose-risposta nei carcinomi polmonari.
Come è oramai chiaro, tutt’altro che precise sono le conoscenze sulle malattie
tumorali, che possono insorgere per svariati motivi estranei all’amianto. Più
contenuto è il campo della controversia nel caso dei mesoteliomi; infatti,
come si vedrà, per queste patologie, spesso l’insorgenza delle stesse è dovuta
all’inalazione di amianto, tuttavia, vi è anche un numero di casi in cui
l’insorgenza è stata dimostrata per ragioni estranee all’esposizione.
Ciò complica drasticamente la prova del nesso causale e la relativa
attribuzione della responsabilità.
Il processo evolutivo della malattia del tumore polmonare è descritto dal
“modello multistadio della cancerogenesi”, il quale afferma che la patologia
si evolve in più fasi, una più grave dell’altra nel perdurarsi nel tempo. Gravità
che deriva dal ridursi del periodo di latenza della malattia che, seppur molto
lungo, porta alla morte il più delle volte.
Quanto appena affermato rappresenta una conclusione che trova d’accordo i
consulenti tecnici delle parti processuali: in sostanza il tumore è considerato
“dose-correlato”, vale a dire che più dose di una sostanza nociva si assume,
più si aggrava la malattia142.
La sentenza della Suprema Corte n. 33311 del 2012, imp. Ramacciotti e altri,
conferma le condanne di omicidio colposo comminate dalla Corte d'Appello di
Venezia avverso ex dirigenti della società che gestiva i cantieri navali di Marghera
Le vittime, poi decedute per carcinoma polmonare e mesotelioma, cominciano a
lavorare precedentemente all’assunzione della carica di garante da parte degli
imputati. La Corte prima afferma che il nesso di causalità sussiste nel momento in
cui la condotta ha inciso anche soltanto abbreviando il periodo di latenza della
patologia, o accelerando l’insorgenza di quest’ultima.
Poi il collegio rigetta il ricorso sulla illogicità della motivazione delle sentenze di
merito giustificando gli argomenti riguardanti l’effetto dose del tumore polmonare
e riguardo la capacità del corpo umano di eliminare le scorie di amianto.
142
La causalità dovuta alle molteplici esposizioni ad amianto connesse alla
malattia
insorta
conseguentemente,
è
stata
confermata
in
molte
interpretazioni dalla giurisprudenza, soprattutto nell’ambito delle lavorazioni
svolte nel settore ferroviario143.
Ancor più rilevante è la sentenza che condannò tre datori di lavoro, rimasti
in carica in diversi periodi. I soggetti datoriali, imputati per aver omesso di
adottare le adeguate misure di prevenzione e di fornire strumenti
precauzionali, furono ritenuti responsabili dell’insorgenza di tumore
polmonare e mesotelioma in due lavoratori della vetreria. La Corte di
Cassazione rigettò il ricorso degli imputati affermando che effettivamente la
perdurata esposizione all’amianto era stata causa dell’aumento del rischio
delle malattie e della conseguente morte dei lavoratori144.
Le pronunce della Cassazione esposte fin ora, assieme a molte altre, hanno
chiarito che, per quanto possa esser importante seguire il “modello
multistadio della cancerogenesi”, quest’ultimo non garantisce una certezza
Nelle fabbriche ferroviarie l’amianto era molto utilizzato proprio in virtù delle
capacità di resistenza al calore e per garantire maggiore “sicurezza” in caso di
incidenti o incendi. Vedi Cass. 29 novembre 2004, n. 7630, imp. Marchiorello e
altro; Cass. 9 maggio 2003, n. 37432, imp. Monti e altri, CED 225988; Cass. 30
marzo 2000, n. 5037, imp. Camposano e altri, CED 219424; più di recente, Cass.
17 gennaio 2012, n. 20227, imp. M.D. e altri. In particolare quest’ultima
riguardante tumori e mesoteliomi nati a lavoratori della “Officine Meccaniche
Stanga”, una azienda che si occupava di riparare treni.
144
Cfr. Cass., sez. III, 21 gennaio 2009, imp. Chivilò e altri.
143
dell’insorgenza della malattia, bensì “soltanto” un aumento del rischio,
oppure abbreviano la latenza della patologia.
Il modello interpretativo non permette di affermare con certezza che
l’accelerazione dello stato di gravità della malattia si sia concretamente
manifestato nei casi di specie; tuttavia, la scienza ha confermato la dannosità
delle esposizioni successive alla prima che ha causato l’insorgenza della
malattia.
In molte delle motivazioni delle sentenze fin ora citate, si comprende come
sia complicata la connessione del nesso causale alla malattia, proprio in virtù
delle conoscenze limitate della scienza sul percorso eziologico che
rappresenta l’essenza delle gravi patologie.
Merita di esser ribadita, a tal proposito, la difficoltà dell’accertamento della
causalità in mancanza di specifiche individuazioni temporali di insorgenza
della malattia145.
Proprio in merito all’argomentazione appena esposta, la sentenza del Tribunale
di Verbania del 19 luglio 2011, imp. Bordogna (caso Montefibre-bis), cit.
“rispetto alla singola malattia della singola persona ammalatasi, non sembra in
alcun modo proponibile una lettura dei dati epidemiologici quale quella
prospettata [giacché] aumento di incidenza significa più casi nel tempo, ma
decisamente arbitrario è […] inferirne un accorciamento di vita del singolo, in
difetto di alcuna evidenza di una diversa latenza correlata alla diversa intensità o
durata di esposizione”.
145
E’ proprio questa difficoltà nel dimostrare il nesso causale che caratterizza
molti dei processi istruiti per insorgenza di tumori polmonari o altre forme
tumorali, più in generale. La capacità di contrarre il cancro a causa di molti
fattori esterni a quelli lavorativi, consente alle difese di ricorrere a
motivazioni che richiamano altre possibili concause, in tal modo facendo
cadere l’accusa riguardante l’esposizione.
Come i tumori, più in generale molte malattie professionali, perdono
efficacia nei procedimenti penali “grazie” o “a causa” della loro insorgenza
per plurimi motivi.
Questa tipologia di malattie sono definite “multifattoriali” per i motivi
appena ribaditi, i cui effetti sul piano giurisprudenziale saranno ripresi nel
Capitolo III dell’elaborato.
5.2. Effetto dose-risposta nei mesoteliomi.
Il mesotelioma, come brevemente anticipato, è una malattia che spesso è
causata dall’esposizione ad amianto, ma in alcuni casi essa insorge anche
per motivi estranei all’inalazione della fibra tossica.
Proprio per questa motivazione nei procedimenti penali spesso il terreno del
mesotelioma è minato da un forte scontro tra i consulenti tecnici delle parti
processuali.
I problemi connessi all’individuazione della causalità sono abbastanza
differenti, tuttavia simili, a quelli del tumore ai polmoni. L’individuazione
delle leggi scientifiche svolge sempre il ruolo centrale nell’accertamento
della causalità. Il paradigma che caratterizza tali processi richiama tre
ordini di problemi: la scelta della legge di copertura più idonea al caso di
specie, l’attendibilità e l’applicabilità delle leggi scientifiche di carattere
statistico ed infine la prova della causalità.
Si è già detto della condivisa applicabilità del “modello multistadio della
cancerogenesi” all’interno dei casi di tumori ai polmoni, per quanto, non
altrettanto efficace è tale ipotesi riguardo l’eziologia della malattia nei casi
di mesotelioma. Vi sono tuttavia dei punti di incontro nelle conclusioni dei
consulenti tecnici, i quali concordano sul fatto che il mesotelioma è una
malattia che può insorgere anche a causa di una breve esposizione ad
asbesto146.
La comunità scientifica è d’accordo nell’affermare che anche una sola fibra di
asbesto può determinare la nascita della malattia.
146
Questo è dimostrato dai frequenti casi di mesoteliomi non causati da
esposizione lavorativa. Ciò nonostante, la scienza non fornisce una soglia
minima di base causa della malattia, o, al di sotto della quale, è possibile
evitare il rischio concreto, come invece avviene nell’asbestosi. Nella
neoplasia polmonare, nella maggior parte dei casi, non è possibile stabilire il
momento dell’inizio della malattia, tutt’al più, si può risalire ad un termine
indicativo rappresentato dalla lunga latenza del morbo.
Proprio su queste basi si fondano le radici dei confronti processuali
nell’ambito della correlazione della malattia con l’esposizione ad amianto,
distinguendo il caso di presupposto di patologia dose-dipendente,
esposizione prolungata, o dose-killer, esposizione di breve durata o
occasionale.
Ciò nondimeno, oltre alla dose-risposta, la medicina ha espresso un parere
spesso favorevole riguardo la “dose-indipendente”. Vale a dire che, se come
affermato, è sufficiente anche una breve esposizione alla fibra dannosa
affinché si manifesti la malattia, potrebbe anche esser vero che una volta che
questa dose sia stata inalata, le successive esposizioni non influenzeranno più
il decorso dell’affezione.
Nel corso dei processi le difese spesso fanno ricorso alla teoria della “trigger
dose”147. ”148. Questa tesi afferma la capacità di una sola fibra di amianto
inalata di causare la malattia, rendendo inutili le successive esposizioni. Oltre
a questa teoria i consulenti tecnici delle parti, spesso fanno ricorso anche al
“modello multistadio della cancerogenesi”, rivalendosi sulla questione già
affrontata del tumore polmonare.
Ovviamente, a seconda dei casi e delle necessità, le parti tendono a favorire
l’una o l’altra tesi. In più dei casi è la difesa a far uso della tesi della “trigger
dose”149, in virtù del fatto che l’esposizione può esser avvenuta in ogni modo
o luogo.
Nella sentenza della Cassazione dell’otto maggio 2014, n. 18933150, viene
messo un punto sulla teoria delle “dose-killer” – ovvero la trigger dose – in
La cosiddetta “dose killer” capace di causare un mesotelioma con una sola
inalazione di fibra di amianto, rendendo incapaci di aggravare la malattia tutte le
altre, eventuali, esposizioni.
148
La cosiddetta “dose killer” capace di causare un mesotelioma con una sola
inalazione di fibra di amianto, rendendo incapaci di aggravare la malattia tutte le
altre, eventuali, esposizioni.
149
Pochi i casi dai quali scaturisce un utilizzo delle parti del criterio della dose
killer, tra questi vedi Trib. Chiavari 13 marzo 2003, Orlando e altri, confermata
dalla App. Genova, 10 marzo 2005, imp. Orlando e altri (riguardante il decesso di
un operaio dei cantieri navali Fincantieri di Riva Trigoso); GIP Milano, 4 giugno
2007, imp. Dalla Via e altri (sulle decine di morti tra i lavoratori delle acciaierie
Ansaldo).
150
In realtà già la pronuncia della Cassazione n. 33311/2012, imp. Ramacciotti e
altri, chiariva che la tesi della dose killer non era attendibile, infatti la Corte
affermava che essa rappresentava “una vera e propria distorsione dell’intuizione
di Selikoff, il quale aveva voluto solo mettere in guardia sulla pericolosità del
147
quanto la Corte afferma che “sia più convincente e persuasiva e comunque
espressione di un sapere scientifico più largamente condiviso, la tesi
dell’effetto acceleratore e della rilevanza causale delle esposizioni
successive. (…) La tesi della dose killer è espressione di un vecchio e
superato modello di cancerogenesi. Ed è superata alla luce delle più recenti
acquisizioni scientifiche che indicano un processo ben più complesso,
implicante l’intervento di molte variabili oltre alla dose innescante. Inoltre,
costituisce sapere scientifico condiviso il fatto che l’evidenza epidemiologica
disponibile sia univoca nell'indicare una relazione proporzionale tra dose
cumulativa ed incidenza, nel senso che all'aumento dell'esposizione per
intensità e durata aumentano i casi di tumore all'interno della popolazione
esposta. Ancora, l'orientamento prevalente della giurisprudenza di
legittimità
è
indirizzato
nel
senso
della
rilevanza
dell'effetto
acceleratore.”.151
contatto con le fibre di amianto, potendo l’alterazione patologia essere stimolata
anche solo da brevi contatti e in presenza di percentuali di dispersione nell’aria
modeste. Non già che si fosse in presenza, vera e propria anomalia mai registrata
nello studio delle affezioni oncologiche, di un processo cancerogeno indipendente
dalla durata e intensità dell’esposizione”. La stessa sentenza dichiarava
ampiamente applicabile il modello del multistadio al mesotelioma.
151
La Corte di Cassazione, IV^ Sez. Pen., Sentenza 08 maggio 2014, n.
18933, pone fine alla decantata teoria della dose killer in base a studi scientifici i
quali garantiscono la pertinenza di ogni singola esposizione a fibre di amianto
anche successivamente alla nascita del mesotelioma. In particolare, le successive
esposizioni causano la riduzione della latenza della malattia e il velocizzarsi del
manifestarsi dell’evento finale. Dunque il nesso causale è più che dimostrato in
Neanche il modello del multistadio ha dato garanzie nei processi affrontati
nel nostro Paese. Tuttavia si sono susseguiti molti casi in cui, la mancanza di
certezze mediche riguardo la patogenesi del mesotelioma, ha fatto sì che i
giudici assolvessero gli imputati152 in considerazione dell’insufficienza delle
garanzie offerte dall’applicazione del modello del multistadio nelle
fattispecie connesse all’insorgenza del mesotelioma.
Alcuni casi giurisprudenziali hanno messo in risalto l’incapacità della scienza
di dimostrare l’accelerazione del decorso della patologia in base al modello
del multistadio in maniera certa e assoluta153.
Nella più recente giurisprudenza è ricorrente il richiamo alle sentenze
Cozzini e Montefibre nel rilevare l’impossibilità di dimostrare l’effettiva e
certa rilevanza dell’effetto dose-risposta nel mesotelioma, come già
affermato a causa della mancanza di una legge di copertura idonea ad
assicurare la correlazione sicura154.
questi specifici casi garantendo nei confronti dei soggetti garanti una
responsabilità sia penale che civile.
152
Cfr. Cass. n. 38991/2010, imp. Quaglieri e altri, conosciuto come caso
Montefibre, e Cass. n. 43786/2010, imp. Cozzini e altri.
153
Cfr., ad esempio il già citato caso Montefibre; Cass. 19 aprile 2012, n. 46428,
imp. Stringa, sugli stabilimenti Fibronit di Bari; Cass. 17 gennaio 2012, n. 20227,
imp. M.D. e altri; Cass. n. 37432/2003, imp. Monti e altri.
154
Trib. Torino, 28 aprile 2011, imp. Nefri e altri; Trib. Verbania, 19 luglio 2011,
imp. Bordogna e altri, detto il caso Montefibre-bis; il primo caso richiama la
sentenza Montefibre, il secondo la sentenza Cozzini. Trib. Milano, Sez. V, sent.
Tuttavia, seppur viene sottolineata la delicata condizione che determina
questa incertezza, le sentenze appena citate tendono ad accogliere il modello
del multistadio proprio in virtù della disponibilità della scienza
nell’accogliere questa tesi.
Ad esempio, nella sentenza sul “caso Marina Militare”155 vengono richiamate
entrambe le sentenze, sia Cozzini che Montefibre, con i relativi principi
derivanti dai due casi.
Anche nel famoso caso “Eternit”, i giudici condividono e seguono la linea
della tesi del multistadio, affermando che noti studi scientifici hanno messo
in evidenza la sussistenza effettiva del rischio di sviluppare un mesotelioma
al perdurare delle esposizioni ad amianto156.
30 aprile 2015 (dep. 15 luglio 2015), Giud. Cannavale, imp. Conti e altri; Trib.
Milano, 28 febbraio 2015, n. 2161.
155
Trib. Padova, 22.3.2012, imp. Bini e altri.
156
Trib. Torino 13 febbraio 2012, imp. Schmidheiny e altro. E’ sicuramente uno
dei casi di eclatanti riguardanti l’amianto, se non il più drammaticamente noto per
questo motivo, almeno in Italia.
E’ chiaro, dunque, che la giurisprudenza protenda per la via dell’applicazione
del modello del multistadio già utilizzato nei casi di determinazione del nesso
di causalità alla presenza di tumore ai polmoni.
Il dibattito sull’effetto dose-risposta nel mesotelioma pleurico non può
ancora ritenersi concluso, essendo un argomento che merita un
dilungamento proprio per la complessità della interpretazione assunta dalla
giurisprudenza.
Differentemente dalle altre due note ed affrontate patologie che insorgono
dalla esposizione ad amianto, infatti, il mesotelioma ha delle caratteristiche
che hanno sempre messo in difficoltà la scienza e di conseguenza la sfera
giuridica, soprattutto in ambito di applicazione ed accertamento del nesso di
causalità.
Considerata l’accettazione scientifica del modello del multistadio, è
conseguentemente accertato che la “teoria dell’effetto acceleratore”157 è
applicabile anche nel mesotelioma.
L’indole statistica delle leggi di copertura rappresenta la base sulla quale la
giurisprudenza fonda le sue scelte. Infatti, il più volte nominato modello del
multistadio, rappresenta il frutto di studi epidemiologici che hanno appurato,
Cioè la tesi per cui ogni esposizione successiva alla prima influisce gravemente
sulla malattia.
157
su basi evidentemente statistiche, la effettiva veridicità e conseguente
affidabilità del modello.
Durante gli anni Novanta, l’interpretazione giurisprudenziale fondava le
conclusioni sulla “teoria dell’aumento del rischio”, secondo la quale anche
condizioni di genere probabilistico possono bastare all’imputazione causale
nei casi di specie. Contrariamente, nell’ambito dei giudizi riguardanti la
responsabilità per esposizione ad amianto, nei primi anni Duemila, la
giurisprudenza ricorre alla tesi sostenuta dal noto giurista Stella. La
probabilità della connessione tra causa ed evento deve essere quanto più
vicina possibile alla certezza statistica rappresentata dal cento per cento.
Questo presupponeva una certezza rappresentata da una “alta probabilità
logica o di elevata credibilità razionale, dove alta ed elevata stanno ad
indicare un giudizio che si avvicina, appunto, al “massimo” della certezza”.
E’ immaginabile, alla luce di quanto scritto fin ora, che per la giurisprudenza
che accoglieva la tesi di Stella non era assolutamente sufficiente la
probabilità statistica offerta dalle leggi di copertura sul mesotelioma, in
quanto non esprimevano di certo una certezza vicina al cento per cento158.
Sono esattamente aderenti alla tesi di Stella le sentenze: Cass., 25 settembre
2001, n. 5716, imp. Covili e altri; Cass. 18 febbraio 2003, n. 20032, imp. Trioni e
altri.
158
Nel 2002 il suddetto conflitto sulla certezza statistica e sul nesso di causalità
viene affrontato dalla Suprema Corte, con la nota sentenza Franzese159.
Sia la teoria dell’aumento del rischio, sia la tesi di Stella sono superate dalla
pronuncia delle SS.UU. chiamate a risolvere l’aspra e difficile situazione
creatasi nella giurisprudenza.
La sentenza n. 30328 dell’undici settembre 2002 mette in luce i limiti della
teoria dell’aumento del rischio, evidenziando una violazione del principio di
legalità160.
Riguardo la tesi sostenuta da Stella, la Corte Suprema esprime parere
negativo considerando la stessa viziata per la scelta delle sole leggi
scientifiche universali e statisticamente “perfette” (o vicine alla
“perfezione”). Le SS.UU. specificano che all’interno di ogni singolo
processo deve nascere una singolare certezza idonea a garantire la corretta
applicazione delle disposizioni di legge, mediante l’accertamento del nesso
causale, non in maniera statisticamente vicina alla certezza, bensì,
considerando caso per caso quale sia la legge di copertura idonea di
Vedi capitolo precedente.
La violazione consisteva nella vera e propria trasformazione dei reati “di
evento” in reati “di condotta pericolosa”, inoltre, aggiunge la Corte, nello
svolgimento processuale, si assisteva ad un ribaltamento del principio “in dubio
pro reo” (nel dubbio si va a favore dell’imputato).
159
160
applicazione convincente per il giudice; dunque costruendo un grado di
certezza intorno alla fattispecie integrata in uno specifico processo.
Saranno dunque le prove tangibili di ogni processo a permettere la verifica
della idoneità della legge scientifica in ogni singolo caso concreto. Non è
escluso un decorso processuale basato sulle leggi statistiche, purché accanto
all’accertamento dei fatti sotto la legge di copertura, sia condotto un
accertamento riguardante tutte le ulteriori, eventuali, condizioni causali
autonome, ovvero idonee a causare l’evento delittuoso in maniera
indipendente dalla causa in esame. Un processo così condotto permette di
giungere ad un accertamento con altissimo rango di probabilità di ottenere un
risultato idoneo ad ogni caso concreto.
I principi emanati da questa pronuncia delle SS.UU., seppur destinati a
risolvere una controversia in ambito di responsabilità sanitaria, si
promuovevano ad espandere l’applicazione in ogni settore giurisprudenziale,
incluso quello dell’esposizione ad amianto.
Come visto nel primo Capitolo dell’elaborato, dopo la sentenza Franzese, il
nesso di causalità è stato liberato da tutte le teorie che lo circondavano
senza fornirgli una vera e propria identità. Una volta risolto il problema del
nesso causale, chiarendo il percorso logico e razionale al quale il giudizio
deve ispirarsi, le controversie riguardanti le esposizioni ad amianto hanno
trovato una via di interpretazione concreta.
Seguendo la linea tracciata dalla sentenza Franzese, dunque, si può
comprendere che il modello del multistadio permette di sostenere
l’aumento del rischio di contrarre la malattia attraverso il perdurare delle
esposizioni, come anche, può da tale circostanza conseguire l’accelerazione
della latenza.
Di fondamentale importanza nei casi di specie riguardanti i mesoteliomi
pleurici, è l’accertamento dell’ipotesi scientifica coadiuvata dalle prove
assunte durante il procedimento penale.161
A tal proposito, si sviluppano due tipi di risoluzioni processuali in ordine ai
casi di mesotelioma pleurico. Il primo, teso ad assecondare la pronuncia
delle SS.UU.; il secondo, aggira l’interpretazione della sentenza Franzese,
pur sostenendo di seguirla, applicando una probabilità logica che poco
c’entra con i casi concreti, dunque un orientamento che si sgancia dai
principi emessi dalla Suprema Corte.
Questo secondo indirizzo, però, si infrange contro l’impianto concettuale
predisposto dalle pronunce della Cassazione, di tal che, infatti, le numerose
Tale affermazione è sostenuta non solo in favore del mesotelioma pleurico,
bensì anche per le altre due tipiche malattie derivanti da esposizione ad amianto.
161
sentenze annullate. Illuminante la sentenza del 14 gennaio 2010162 che
assume il modello del multistadio; in particolare il giudice afferma che “la
legge di copertura di valenza statistica […] non trova alcuna smentita nelle
ulteriori risultanze dell’istruttoria, le quali, anzi, confermano pienamente
l’applicabilità della stessa al caso concreto. (…) proprio il lavoratore
(Turazza) che è stato sottoposto ad esposizione ad amianto per un periodo
di tempo inferiore agli altri (solo 8 anni) presenta una latenza ben maggiore
(38 anni) di quella (32 il Morotti, 33 gli altri tre lavoratori) degli altri
lavoratori, tutti esposti per periodi più prolungati. E va altresì evidenziato
che proprio il Morotti, che presenta un’intensità di esposizione ben superiore
a quella degli altri quattro lavoratori, presenta il periodo di latenza più
ridotto e risulta essere deceduto in età più giovanile. Dati, questi, che paiono
confermare nel caso concreto la rilevanza della maggior durata ed entità
dell’esposizione rispetto all’aumento della possibilità di contrazione della
malattia e rispetto alla riduzione del periodo di latenza, quindi l’efficacia
causale sotto questo profilo delle esposizioni successive alla prima”.
Cfr. sentenza del Tribunale di Mantova, n. 16 del 14 gennaio 2010, Est.
Pagliuca - Imp. Belleli e altri.
162
Dalla pronuncia del tribunale si evince il fulcro della sentenza che conferma
la rilevanza delle esposizioni ad amianto successive alla prima che causa
l’insorgenza della patologia del mesotelioma.
Dalla già citata Montefibre-bis163 scaturisce una pronuncia opposta a quella
appena citata, infatti il giudice afferma che dalle fattispecie concrete
esaminate non si evince «alcun elemento che consenta di ipotizzare che a
esposizioni professionali durate più a lungo siano correlate latenze più brevi,
posto che non si registra alcuna significativa variazione della latenza al
variare dell’esposizione».
Nel “caso Marina Militare”, anch’esso già citato in precedenza, il Tribunale
ritiene «non sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi, una legge
scientifica
in
ordine
all’effetto
acceleratore
della
protrazione
dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogenetico», tuttavia,
proseguendo la lettura dell’enunciato, viene affermato che «non esiste alcun
elemento probatorio dal quale possa dedursi che il protrarsi dell’esposizione
abbia, nel caso dei due marinai Baglivo e Calabrò, comportato
un’accelerazione e abbreviazione del periodo di latenza».164
Cfr. Trib. Verbania, 19 luglio 2011, imp. Bordogna e altri.
Stesso discorso per la sentenza Cozzini in cui le considerazioni scaturenti dalla
sentenza sono del tutto simili.
163
164
Come si evince dalla lettura di questi brevi estratti di sentenze, i giudici,
considerate le scarse conoscenze scientifiche in ambito di mesotelioma
pleurico, si sono concentrati sul periodo di latenza della malattia. E’ proprio
questo infatti l’argomento principale preso in considerazione per emettere la
sentenza. I processi in esame hanno la particolarità di essersi concentrati, in
particolare, sulla ricerca di consensi o rifiuti delle ipotesi accusatorie.
Nella fondamentale sentenza Cozzini165, la Corte Suprema, nell’annullare le
condanne confermate nel giudizio di Appello, afferma che seppur sia vero in
base al modello del multistadio che ad ogni ulteriore esposizione alla prima,
la malattia proceda verso un aggravamento, il quadro probatorio del caso di
specie, è “vuoto”. Senza la prova di un effettivo aggravamento della malattia
insito nell’abbreviazione dei tempi di latenza, è impossibile stabilire se
effettivamente le esposizioni siano state gravose per la salute delle vittime.
Altra pronuncia di rilievo è quella di un ricorso di un operaio che lavorando
ad esposizione all’amianto negli anni quaranta, subisce la manifestazione di
un mesotelioma nel 1995166. Il ricorso era rivolto a soggetti in posizione di
garanzia nei suoi confronti negli anni sessanta.
165
166
Cfr. Cass., 43786/2010, imp. Cozzini e altri.
Cfr. Cass. 27 maggio 2011, n. 38879, imp. T.G. e altri.
I giudici di legittimità annullano con rinvio la sentenza di non luogo a
procedere, affermando che i motivi del nesso causale non avevano un reale
fondamento. Di fatti, la latenza media della malattia è riconosciuta dalla
scienza medica di media intorno ai trent’anni.
Le prime manifestazioni della malattia si sarebbero dovute verificare intorno
agli anni sessanta o per lo più settanta. Il manifestarsi della affezione nel 1995
dimostra che vi sia stata una esposizione successiva a quella affermata dal
ricorrente, almeno per quanto la comunità scientifica, in accordo con la
giurisprudenza, sostenga fino a questo momento.
Dopo la sentenza Franzese, ogni successiva pronuncia della Corte di
Cassazione ha mostrato sostanziale aderenza alle conclusioni ivi
rappresentate. Tuttavia, alcune sentenze mostrano come i giudici di
legittimità, alle volte, non si uniformino completamente alle SS.UU., sviando
dal quadro probatorio emerso nel dibattimento, per attenersi a delle certezze
logiche distanti dalla razionalità concreta invocata con la sentenza Franzese.
Non risulta possibile distinguere se la causalità individuale167 sia stata
effettivamente comprovata nello specifico e se la causalità generale168 sia
stata esclusa o meno.
Essendo il nesso di causalità la chiave di volta di ogni singolo processo, è
naturale che, assicurarne l’adeguata applicazione attraverso un accertamento
quanto più possibile vicino alla sentenza Franzese, in un quadro probatorio
esaustivo, può garantire un processo efficace, con una pronuncia adeguata a
tutto il procedimento.
Nel 2000 – dunque due anni prima della pronuncia delle SS.UU. – una
sentenza della Corte Suprema ritiene poco motivata la condanna di tre
dirigenti responsabili delle Ferrovie dello Stato169.
I dirigenti erano stati in carica, dunque con responsabilità di sicurezza e salute
dei lavoratori, nei periodi 1957-1964, 1968-1973, 1973-1986. La morte di un
lavoratore sopraggiunge nel 1994, dopo un’attività svolta nell’azienda dagli
anni 1963 al 1986. La Cassazione afferma che le sentenze di merito non
hanno accuratamente trattato la possibilità che il mesotelioma sia insorto
Il rapporto di causalità tra la condotta dell’imputato e l’evento delittuoso che gli
viene imputato nel processo.
168
La causalità rappresentata da elementi o condotte esterne, autonome ed
individuali che possono aver influito nel realizzarsi dell’evento.
169
Cfr. Cass. 30 marzo 2000, n. 5037, imp. Camposano e altri.
167
precedentemente o successivamente alle cariche rivestite dai dirigenti
garanti. Va ricordato che il periodo di latenza medio del mesotelioma è di
trent’anni, che dunque è nella maggior parte dei casi impossibile determinare
una responsabilità in capo a soggetti garanti. In questa pronuncia, infatti, la
Cassazione chiarisce l’incapacità di individuare il periodo nel quale la
malattia sia insorta, se durante la carica di uno o degli altri dirigenti.
In altra sentenza d’Appello il giudice di merito dichiara colpevole l’imputato
il quale ricoprendo una posizione di garanzia all’interno di una fabbrica, non
si è preoccupato di adottare le giuste precauzioni nelle lavorazioni con
impiego dell’amianto. Tuttavia la particolarità del processo si evidenzia sul
fatto che l’accusa è rappresentata da una donna, moglie di un lavoratore della
fabbrica, la quale lavando gli indumenti ricoperti di fibre tossiche si è
ammalata di mesotelioma pleurico.
Il giudice, dunque, condanna l’imputato per omissione di utilizzo delle
misure di sicurezza idonee alla prevenzione delle esposizioni a fibre di
asbesto. I giudici di legittimità, però, riscontrano un vizio in tale pronuncia
di Appello in quanto, essendo il marito della donna già lavoratore per
vent’anni prima della carica dell’imputato come garante, dunque avendo una
pregressa esposizione di ben venti anni alla fibra, è impossibile ritenere se la
malattia sia insorta per la precedente esposizione o per quella sotto l’ala di
garanzia dell’imputato170.
La sopravvivenza di orientamenti ancora non aderenti alla Franzese, è
dimostrata da una sentenza chiave, per altro già precedentemente citata, che
dimostra la resistenza della tesi dell’aumento del rischio. Il caso Macola171,
riguardante non a caso un processo di responsabilità da amianto, tra i casi più
citati in ambito di sostanze tossiche, permette di comprendere il perdurare
della tesi poc’anzi citata.
La pronuncia va a confermare delle condanne emanate quando ancora era
dominante in giurisprudenza la tesi dell’aumento del rischio, sostanzialmente
mantenendo in vita questa teoria172.
La particolarità della sentenza sta nel fatto che i giudici di legittimità,
andando a condannare due amministratori responsabili per la carica di soli
quattro anni, non mettono in luce il quadro probatorio del caso, ma
considerano come rilevante il solo fatto che la condotta degli imputati ha
Cfr. Cass. sez. IV, 15 maggio 2003, n. 27975, imp. Eva.
Cfr. Cass. 11 luglio 2002, n. 988, imp. Macola e altro, CED 22702.
172
La sentenza della Corte Suprema è dello stesso anno della Franzese, ma
successiva. Anni dopo la sentenza Cozzini criticherà aspramente questa
pronuncia, dichiarandola fuori dagli schemi della sentenza Franzese.
170
171
aumentato il rischio di contrarre la malattia o di aggravare la stessa
determinando il decesso di dieci operai.
Nell’ultimo decennio si sono moltiplicati i casi di esposizione a sostanze
tossiche, proprio perché, come ben chiarito in precedenza, la latenza della
malattia oscilla intorno ai trent’anni. Proprio sulla latenza i giudici si sono
concentrati nelle loro pronunce, sottolineando l’importanza di carpire il
momento di inizio delle affezioni – presunto – per quanto possibile.
La giurisprudenza ha oscillato e continua a sbilanciarsi tra la Franzese e la
tesi dell’aumento del rischio, come già ricordato, mascherata da Franzese. In
tema di amianto è fondamentale comprendere quando la responsabilità dei
soggetti garanti è effettivamente comprensibile, in virtù della latenza della
malattia del mesotelioma o del tumore polmonare.
Il modello del multistadio permette di giungere a sentenze equilibrate da
leggi di copertura che garantiscono certezze all’interno di processi di questo
genere. Ovviamente, corroborate da quadri probatori completi. Il sapere
scientifico è fondamentale nei processi riguardanti sostanze tossiche, ma è
parimenti rilevante giungere ad una saggia valutazione e selezione dello
stesso.
6. I reati di lesioni colpose e di omicidio colposo.
Gli eventi di cui si è parlato nei precedenti paragrafi, quelli scaturenti
dall’omissione del datore di lavoro in una posizione di garanzia, si
configurano in reati ben particolari. I reati di cui si tratta sono: lesioni colpose
e omicidio colposo, rispettivamente articoli 590-589 Codice penale173.
La violazione delle normative poste a carico del datore di lavoro, sui limiti di
esposizione alla fibra tossica o sulle tute e maschere da utilizzare nella
lavorazione della stessa, non può che portare, alla luce di quanto esposto nei
primi paragrafi del capitolo, a lesioni dei lavoratori o alla morte.
Considerando l’inesistenza di particolari forme di reato riconducibili a tali
fattispecie integrate nel diritto del lavoro, si considerano applicabili, appunto,
i reati di lesioni colpose ed omicidio colposo174.
Cfr. Vannini O., in “Il delitto di omicidio”, 1935; Massetani-Melli, in “Gli artt.
589 e 590 cod. pen. Dopo la legge n. 296 del 1966”, in “Giur. It.”, 1970; Ranieri
S., in “Sull’interpretazione e applicazione dell’art. 589, primo capoverso
modificato”, in “Sc. Pos.”, 1971; Palma I., in “Morte o lesioni come conseguenza
di altro delitto”, in “Studium iuris”, 2003; Giuliano S.V., in “Omicidio e lesioni
colpose”, 2007.
Cfr. Cass. Pen., IV Sez., 21.6.2013 (dep. 13.9.2013), n. 37762, Pres. Romis, Est.
D'Isa, ric. Battistella e al.
174
Cfr. Benciolini P., Rodriguez D. e Salatin G., in “Le malattie professionali
come lesioni personali: una diagnosi diversa”, in “Riv. Inf. Mal. Prof.”, 1985.
173
Nello specifico va considerato che l’evento delittuoso che scaturisce dalla
violazione di norme in materia di tutela della salute dei lavoratori, è prevista
dall’articolo 590 e 589 del Codice penale solo come circostanza aggravante
speciale175.
Infatti, in merito all’omicidio colposo l’articolo 590 al secondo comma
afferma che: “Se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla
disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli
infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da uno a cinque anni”.
Per quanto concerne l’articolo 589, in materia di lesioni colpose, il terzo
comma recita: “Se i fatti di cui al precedente capoverso sono commessi con
violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle
per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, la pena per le lesioni gravi è
della reclusione da due a sei mesi o della multa da lire 480.000 a 1.200.000,
e la pena per lesioni gravissime è della reclusione da sei mesi a due anni o
della multa da lire 1.200.000 a lire 2.400.000”.
Come si deduce dai commi citati dei due articoli in questione, è proprio
l’aggravante che risulta pertinente ai casi concreti in materia di responsabilità
Cfr. Antolisei F., in “Diritto penale parte speciale”, a cura di C.F.Grosso, 2008;
Galiani T., in “Voce Lesioni personali”, in “Enc.Dir.”, 1974; Patalano V., in
“Voce Omicidio (dir.pen)”, in “Enc.Dir.”, 1979.
175
da amianto. Aspetto molto importante di questi reati è il momento della
consumazione del reato176.
La questione desta parecchio interesse in quanto, dalla data di consumazione
del reato, com’è noto, iniziano a decorrere i termini di prescrizione. E’
pacifico che, in ambito di lesioni da esposizione ad amianto, la consumazione
del reato avviene con il concretizzarsi della malattia177.
Il problema, dunque, si pone nel caso di aggravamento della malattia. I
termini di prescrizione devono iniziare a decorrere dal momento in cui vi è
la prima manifestazione della malattia, o con l’aggravamento della stessa?
Nell’argomento ha molta rilevanza anche il caso in cui chi ha causato la
malattia – si parla sempre del soggetto il quale avrebbe dovuto evitare
l’evento delittuoso – prosegue il suo comportamento aggravando la patologia
di chi ne è affetto.
Fiandaca G. e Musco E., in “Diritto penale”, 2015; Manna A., in “Corso di
diritto penale”, 2015;
177
Antolisei F., in “Diritto penale parte speciale”, 2008; Pagliaro A., in “Principi
di diritto penale parte generale”, 1998. Quest’ultimo sostiene che, il reato ai sensi
dell’articolo 589 del Codice penale, si ultima quando si sono verificati i requisiti
tipici della fattispecie in ogni loro contenuto. Nel caso concreto riguardante
l’esposizione ad amianto, dunque in caso di asbestosi, il reato si perfeziona con le
prime lesioni ai polmoni. Anche Antolisei ritiene che “Il verificarsi di una
malattia (…) è il vero evento naturalistico della lesione personale, segna il
momento consumativo del reato”.
176
La giurisprudenza a riguardo è divisa; una parte di essa afferma che nei casi
in cui vi siano patologie tipicizzate da una lunga latenza, in cui vi è un
passaggio da una fase di partenza ed una fase in cui essa diventa cronica, il
momento di consumazione del reato – rilevante ai fini della prescrizione – è
riconosciuto con la conferma integrale del quadro patogeno, in presenza di
una malattia inguaribile178; altra interpretazione sostiene che la questione
sarebbe risolta se le malattie professionali venissero incluse nella categoria
dei reati permanenti. Cosicché, la prescrizione, decorrerebbe con il cessare
della condotta delittuosa dell’agente, prolungandosi per tutto il proseguo
della omissione179.
La Corte di Cassazione ha contrastato quest’orientamento sostenendo
l’istantaneità dei reati in materia di malattie professionali180.
In un’altra direzione, dopo gli aggravamenti della patologia, il reato deve
considerarsi unico con il primo manifestarsi dei sintomi, anche se non
definitivi. Eventuali altri aggravamenti successivi della patologia potranno
Cosi Cass., sez IV, 28 settembre 1990, Brighetti ed altro, in tema di bronchite
cronica, in Cass. Pen., 1991;
179
Cfr. Dall’Ora A., in “Condotta omissiva e condotta permanente nella teoria
generale del reato”, 1950.
180
A sostegno dell’orientamento della Suprema Corte Lageard G., in “Le malattie
da lavoro nel diritto penale”, 2000.
178
portare alla sussistenza di aggravanti ai sensi dell’articolo 583 Codice
penale181.
Ancora, una diversa posizione ha assunto un orientamento che ritiene le
ipotesi di “lesioni gravi” e “lesioni gravissime”, contenute nell’articolo 583
Codice penale, come reati autonomi, non aggravanti. La conseguenza di ciò
è che, nel caso in cui si verifichi successivamente un peggioramento della
malattia, si avrebbe una nuova consumazione di reato. A questo punto la
decorrenza dei termini di prescrizione si attuerebbe dalla situazione in cui si
manifesta il peggioramento penalmente rilevante182.
Il “tempus commissi delicti”, sostenuto dalla giurisprudenza maggioritaria, si
configura con l’insorgenza della malattia. Questo per via della particolarità
delle malattie che hanno origine con l’esposizione ad amianto. Infatti, è quasi
impossibile riconoscere con precisione il momento esatto dell’insorgenza di
In favore della tesi Baldi F., in “Il problema della decorrenza del termine
prescrizionale in relazione all’insorgenza e allo sviluppo della malattia
professionale”, in “Cass. Pen.”, 1999; Cass., 21 marzo 1977, Rossi, in “Riv.Pen.,
1977, afferma che “la consumazione del delitto di lesioni personali colpose si
verifica al momento dell’insorgenza della malattia, (…) la durata o la
inguaribilità della malattia sono del tutto irrilevanti a fini della individuazione
del momento consumativo del delitto”.
182
Appoggia la tesi appena esposta il Federico, in “Aggravamento di malattia e
lesioni colpose”, in “Inf. Pirola”, 1982; il Guarinello, in “Malattie da lavoro e
processo penale”, sostiene che “l’ultimo aggravamento della malattia verificatosi,
(…) assorbirebbe in sé i precedenti, più lievi, che perderebbero così la loro
autonomia”.
181
queste patologie. Ciò ha portato la giurisprudenza a tentare di posticipare
quanto più possibile il momento realizzativo dell’evento, in maniera tale da
ritardare l’inizio della prescrizione del reato183.
E’ nato, da questo tentativo, un indirizzo che ha ritenuto essenziale non
soltanto l’evento, ma l’esteriorizzazione dello stesso184.
Si tratta di reati diversi, dunque indipendenti, sicché il verificarsi di questi
reati sviluppa un ulteriore reato che assorbe il precedente. Quest’ultimo
orientamento – il più condiviso dalla giurisprudenza attuale – risolve anche
il problema della successione dei soggetti garanti; infatti, non è
assolutamente insolito che essendoci un cambiamento del personale
dirigenziale, o un passaggio di gestione di azienda, tale cambiamento porti
anche ad un differente regime di responsabilità. Il problema sembra risolto
proprio perché, il reato si rinnova, in virtù della sua autonomia, assorbendo
il precedente solo se il soggetto garante sia rimasto lo stesso.
Contrariamente al diritto penale, il diritto civile offre un’applicazione molto più
elastica del nesso di causalità. Pertanto, in civile, l’azione risarcitoria da parte dei
lavoratori lesi può essere esercitata al di là di una conclusione favorevole in sede
penale, con differenti risultati, proprio in virtù della meno rigida applicazione del
nesso causale secondo il principio del “più probabile che non”.
184
Cfr. Pret. Milano, 12 giugno 1984, in “Riv.Giur.Lav.”, 1985.
183
Se il soggetto sul quale grava la responsabilità cambia, il reato precedente si
considererà consumato, ne nascerà dunque uno nuovo185.
La diatriba giurisprudenziale si estingue nel momento in cui si verifica la
morte del lavoratore; in questo caso è indubbia la sussistenza dell’omicidio
colposo come reato da applicarsi186. La consumazione del reato
coinciderebbe con la morte del lavoratore.
Cfr. Pomanti P., in “I reati in materia di malattie professionali”, diretto da Di
Amato A., a cura di “Trattato di diritto penale dell’impresa”, in F.S.Fortuna,
2002.
186
Per un quadro più completo ed esaustivo delle tesi esposte vedi Torraca S., in
“Le malattie professionali nel diritto penale. La fattispecie obiettiva”, 1994;
Fallani e Passanti, in “Delitto di lesione personale colposa e momento
consumativo. Problemi relativi alla patologia professionale”, in “Giust.Pen.”,
1993.
185
CAPITOLO III
TUMORI MULTIFATTORIALI, LA PROVA
DELLA CAUSALITA’
5.
Tumori multifattoriali, cosa sono e perché è così
complicato provarne la causa.
Uno degli argomenti medico-giuridico più complessi dell’ultimo
ventennio, è di certo la multifattorialità delle malattie. Questi tipi di malattie
risultano cosi spinose proprio per il fatto che esse derivano da più fattori
comuni di rischio. Nel precedente capitolo sono state affrontate le patologie
dell’asbesto, malattie tipicamente monofattoriali187, del mesotelioma e il
Come ampiamente chiarito, l’asbestosi è una malattia che è causata
esclusivamente dall’esposizione ad asbesto.
Ciò in via esclusiva, come è stato confermato dalla giurisprudenza; cfr., per
quanto concerne il primo processo a carico alla Montefibre di Verbania, “Cass. 10
giugno 2010, n. 38991, imp. Quaglieri e altri”, sullo stesso sono state confermate
le decisioni della Corte d’Appello (App. Torino, sent. 25 marzo 2009),
187
tumore ai polmoni; queste ultime due malattie hanno la particolarità di poter
formarsi per molteplici cause. Peraltro, per quanto sia vero che il tumore ai
polmoni può derivare da molte cause, è meno comprovato che il mesotelioma
sia probabile anche per chi non è rimasto esposto ad asbesto. Infatti, come si
è già visto, il mesotelioma trova una incidenza di casi molto rara senza
l’esposizione alla fibra tossica.
Dunque, l’amianto può essere considerato una delle concause dei
tumori multifattoriali. La fibra tossica, però, non è la sola sostanza che causa
tale multifattorialità, infatti, sono molte le sostanze tossiche che possono
danneggiare il corpo umano.
Queste sostanze dannose per l’uomo, rafforzate da fattori di rischio
come, fumo, alimentazione, radiazioni, utilizzo o esposizione ad altre
sostanze tossiche e altri fattori, possono causare la nascita di malattie come
mesotelioma e carcinoma polmonare – che sono state già affrontate – così
come molte altri tipi di patologie188.
conseguentemente conformi al Tribunale (Trib. Verbania, sent. 1 giungo 2007).
Un confronto più papabile con la vicenda cfr. “Montefibre”, cfr. Zirulia S.,
“Causalità e amianto: l’eterno “duello” tra i consulenti tecnici delle parti”, in
“Corr. Merito”, 2012.
188
Per fattori di rischio si intendono dei fattori che anche singolarmente
potrebbero causare una malattia.
Da ciò consegue che le leggi scientifiche di copertura permettono di
considerare, in ogni caso concreto di tumore multifattoriale, delle ipotesi di
probabilità statistica di verificazione eziologica della malattia per cause di
vario genere. Questo tipo di verifica probabilistica va effettuata, perciò, sulla
base di una combinazione di sapere scientifico e statistico con le circostanze
note del caso concreto189.
La necessità, cioè, è quella di comprendere se e come una sostanza
tossica sia entrata in contatto con un soggetto. Ancora, è fondamentale
comprendere se quella sostanza, singolarmente, sia stata capace di causare
quella patologia di cui soffre il soggetto. Deve dimostrarsi, infine, seppur la
sostanza sia autonomamente idonea a causare la malattia, la sua unica
causalità nella patologia insorta.
Facendo un esempio pratico: nel caso in cui un lavoratore si è ammalato
a causa dell’esposizione ad una sostanza tossica durante lo svolgimento delle
proprie mansioni, teoricamente la questione si risolve con l’esclusione di altri
fattori oltre a quello dell’esposizione lavorativa. E’ chiaro che se si esclude
una qualsiasi causa esterna ed autonoma, rimane come unica causa certa
quella dell’esposizione alla sostanza.
189
Vedi primo capitolo, settimo paragrafo.
Riprendendo l’esempio appena scritto ed ammettendo che la malattia
insorta sia un mesotelioma, escludendo tutte le cause esterne alla accertata
esposizione della vittima, logicamente l’unica causa di insorgenza della
malattia sarà imputabile alla suddetta esposizione. Ancor più certezza
desterebbe il caso di specie proprio per il fatto che si tratta di mesotelioma190.
Tuttavia, se durante un processo viene accertato dal quadro probatorio
che il ricorrente, nonché vittima della esposizione, ha tra le abitudine il
tabagismo, vi sarà una doppia causa di insorgenza della malattia o di
aggravamento della stessa.
Le malattie tumorali che colpiscono i polmoni sono tra le più frequenti
in ambito professionale, tuttavia non le uniche; sono insorte in massa
nell’ultimo ventennio in seguito alla scoperta di svariati materiali tossici che
erano utilizzati tra gli anni settanta e novanta. Come visto, le polveri tossiche
non producono un danno immediato, infatti, la malattia ha una latenza molto
lunga.
Avendo già descritto la malattia, infatti, è noto che tale patologia insorge per
cause di esposizione alla fibra di asbesto, difficilmente per altre cause.
Dalla sentenza “Cozzini”, già nominata e brevemente esaminata nel primo
capitolo dell’elaborato, deriva una importante principio espresso dalla Suprema
Corte: «in assenza di serie alternative ipotesi eziologiche, quella che connette
l'evento all'esposizione alle polveri di amianto assume sicurezza logica».
190
Vi è, ovviamente, una classificazione di tutte quelle sostanze tossiche
per cui sono necessarie precise e meticolose precauzioni da adottare prima di
entrare in contatto con le medesime.
Nella lista nera mondiale di agenti chimici dannosi per l’uomo figurano:
i composti idrocarburi aromatici policiclici, ammine aromatiche, cloruro di
vinile monomero, cromo, nichel, berillio, asbesto e svariati acidi ed altri
veleni. Tutte queste sostanze nominate e tante altre possono provocare:
avvelenamento, malattie della pelle, malattie respiratorie, tumori di vario
genere, problemi di riproduzione, difetti congeniti ed altre disfunzioni o
malattie191.
Cfr. Barni M., in “Accertamenti necroscopici e malattie professionali”, in “Riv.
It. Med. Leg.”, 1991; Antoniotti F. e Galasso F., in “Medicina legale e
assicurativa degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali”, 1992; De
Ferrari F,, in “Le malattie professionali: metodologia diagnostica”. Relazione
tenuta al Convegno Nazionale su “Medicina legale pubblica. Esperienze a
confronto e strategie di intervento”, in Roma, 1997; Gobbato F., in “Medicina del
lavoro”, 2002; Grieco A., in “Lineamenti di medicina del lavoro”, 1999; Di
Lorenzo L., in “Malattie respiratorie da polveri minerali”, 2003.
191
6.
Prova del nesso di causalità nei tumori
multifattoriali.
Nei processi giuridici di casi di malattie di tipo multifattoriale, il
problema principale della parte accusante è quello di dimostrare la
responsabilità del soggetto garante dell’esposizione a sostanze tossiche;
contrariamente, l’imputato proverà a dimostrare che la patologia sia insorta
non per cause riconducibili ad esposizione a sostanze dannose per l’uomo, o
per lo meno non solo per questa causa, o ancora, che l’aggravamento non è
stato causa dell’esposizione192.
Fondamentale per la difesa è, dunque, la conoscenza della vita del
soggetto, per comprendere le abitudini come fumo, alcol, altre professioni
con mansioni pericolose e via dicendo193. Infatti, la presenza di concause
Cfr. Fucci P. e Rossi P., in “La medicina legale degli infortuni e delle malattie
professionali”, 1999; Alibrandi G., in “Infortuni sul lavoro e malattie
professionali”, 1994; Righi E., Di Pofi M. e Trenta G., in “Tumori in soggetti
radioesposti e nesso causale di probabilità (probability causation)”, in Congr.
A.I.R.M. su “Radiazioni e tumori”, Ischia, 1987; Mazzella Di Bosco C., in “Nesso
di causalità e malattia professionale”, in “Riv. Inf. Mal. Prof.”, 1984.
193
Antoniotti F. e Galasso F., in “La consulenza tecnica di ufficio in tema di
malattia professionale”. Atti Convegno Nazionale “La perizia e la consulenza
tecnica: stato attuale e prospettive”, in Viareggio nel 1989, Pisa nel 1990; Barni
M., in “Il rapporto di causalità materiale in medicina legale”, 1991; Benassi G.,
192
come quelle appena elencate, porterebbe il giudice a dubitare della unicità
della esposizione a sostanze nocive come causa madre della insorgenza della
patologia.
Nei casi di esposizioni a sostanze tossiche che, se inalate, causano
tumori polmonari, bisogna affermare la complicità del fumo di sigarette.
E’ accertato dalla medicina che il fumo di sigaretta causa in molti
soggetti malattie di tipo polmonari, soprattutto cancro ai polmoni, così com’è
anche causa di plurime malattie che danneggiano le regolari funzionalità del
cuore.
Se oltre all’esposizione ad amianto si aggiunge il fumo di sigaretta nella
condotta della vittima, è ovvio che un processo può cambiare orientamento
in un batter d’occhio. Il giudice imparziale non può far a meno di considerare
come rilevantissimo il fumo nei casi di tumori multifattoriali.
Una parte maggioritaria della giurisprudenza riconduce a questi casi di
multifattorialità una legge di copertura ben precisa. La legge di copertura di
cui si parla valorizza l’ipotesi per cui l’esposizione a sostanze tossiche come
in “Sul concetto di causalità nelle malattie professionali. Diritto del lavoro”,
1991.
ad esempio l’asbesto, coadiuvato al fumo, conduce ad un inevitabile rapido
aggravamento della malattia polmonare preesistente194.
Ovviamente questa tesi trova riscontro nel campo medico grazie a studi
scientifici approfonditi195.
Non solo, nella sentenza di primo grado del noto processo “Eternit”, la
giurisprudenza introduce la questione anche nell’ambito del diritto tramite un
consulente tecnico del PM: «il fumo può interferire con la clearance, cioè
con la rimozione, eliminazione delle fibre di asbesto dai polmoni […].»
Ancora, il pubblico ministero, seppur strettamente in ambito di esposizione
ad amianto, afferma che: «Il fumo può facilitare la penetrazione delle fibre
di asbesto nella mucosa bronchiale, perché altera la mucosa […]. Le fibre
di asbesto, da un punto di vista chimico, possono assorbire i carcinogeni
contenuti nel fumo di tabacco, e quindi, trasportandoli, liberandoli in alte
Il Forni A.,garantisce chiarimenti in merito, in “I tumori professionali”, afferma
che «studi epidemiogici condotti in vari paesi negli anni ’60-90 (…) hanno
dimostrato un effetto sinergistico tra esposizione ad asbesto e fumo di sigarette».
L’amianto è “condicio sine qua non” del verificarsi della patologia dell’asbestosi,
come è vero che il fumo, se concomitante all’esposizione ad asbesto, porta
conseguenze molto dannose e gravose per il soggetto esposto.
195
Cfr. Di Lorenzo L., in “Malattie respiratorie da fibre minerali, artificiali e
sintetiche”, 2003; sempre lo stesso autore, in collaborazione con Soleo L., in
“LINEE GUIDA per la sorveglianza sanitaria di lavoratori esposti ad irritanti e
tossici per l’apparato respiratorio”, 2010.
194
concentrazioni all’interno delle cellule, rendono ancora più potente l’effetto
cancerogeno del fumo»196.
Tuttavia, il dibattito sulla multifattorialità dei tumori non si circoscrive
a queste tipologie esposte. Il fumo è causa certa di insorgenza di patologie
gravi, come lo sono tante delle sostanze utilizzate negli ambienti lavorativi,
soprattutto senza protezioni adeguate. Vi sono dei casi, però, in cui
l’insorgenza di tumori polmonari desta dei problemi di individuazione
causale, in altre parole, la causa della malattia non si cela né nel fumo, né
nella esposizione.
Ciò porta a comprendere che questo genere di patologie può evadere
dai tipi di causalità considerati fin ora, specificando che in ogni caso l’uomo
può essere soggetto a tumori senza una motivazione fondata, o per cui la
scienza possa assicurarne un’origine.
Vale a dire che molte patologie che colpiscono l’uomo possono nascere
per cause esterne a quelle poc’anzi elencate, indipendenti ed autonome197.
Trib. Torino 13 febbraio 2012, Pres. Casalbore, imp. e altro. Il testo per intero è
pubblicato in “Dir. pen. cont.”, con annotazioni di Masera L.
197
Cfr. Macchiarelli L e Feola T., in “Medicina legale”, 1995; Ambrosi L. e Foà
V., in “Trattato di medicina del lavoro”, 1996; Mucci N., Terracini B. e Camini I.,
in “Valutazione di cancerogenicità di sostanze e processi produttivi effettuate
dalla Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale”, in “Med. Lav.”, 1998;
196
Ancora, sul tema delle malattie causate da esposizione a sostanze
dannose, la responsabilità dei datori di lavoro per questo genere di malattie –
definite “professionali”198 – va accertata caso per caso, secondo
l’orientamento scaturito dalla sentenza Franzese.
Nella sentenza n. 42519 del 17 ottobre 2012, la sezione IV della
Suprema Corte va a tangere il problema dell'accertamento del nesso causale
nelle patologie multifattoriali, con specifico riguardo per le malattie nate in
concomitanza con una – eventuale – esposizione a sostanze tossiche199. La
Corte di Cassazione annulla la sentenza di appello che condannava il datore
di lavoro per omicidio colposo, ai sensi dell’articolo 589 del Codice penale.
La morte sopraggiungeva per un carcinoma polmonare. L’operaio era addetto
alla “traghettatura” delle navi nei pressi del porto di Taranto. Il datore di
lavoro, invece, era condannato per non aver prevenuto l’esposizione a
sostanze tossiche come: polveri contaminate da silice cristallina e
idrocarburi200. Prevenzione che era prevista dalla legge per le misure
antinfortunistiche idonee a salvaguardare i lavoratori dalle esposizioni.
Vedi Capitolo IV.
Vedi Cass. pen., sez. IV, sent. 17 ottobre 2012 (dep. 29 gennaio 2013), n.
42519, Pres. Brusco, Est. Dovere.
200
La Silice cristallina è composta esclusivamente da silicio e ossigeno. La silice è
presente in 10 differenti forme cristalline, è dura, chimicamente inerte ed ha un
alto punto di fusione. Solo quando le polveri sono disperse nell’aria ed inalate sì
può pervenire ad una malattia; questa patologia, per lo più dovuta ad esposizioni
198
199
La Corte non si limita ad annullare la sentenza di appello, infatti, emana
un principio di diritto secondo cui: «Il rilievo introduce al tema
dell’accertamento del nesso eziologico nel caso di malattie multifattoriali.
L’argomento è stato affrontato da questa sezione in tempi recenti,
allorquando si è posto il dubbio in ordine alla relazione tra adenocarcinoma
di un lavoratore esposto all’inalazione di fibre di amianto e il tabagismo del
medesimo.
Si è quindi affermato che nel caso di patologie multifattoriali, cioè
riconducibili ad una pluralità di possibili fattori causali, “il giudice non può
ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base
di una nozione di concausalità meramente medica; infatti, in tal caso, le
di tipo lavorativo, è nota come “silicosi”. I soggetti che contraggono la silicosi
hanno un’alta possibilità di sviluppare un carcinoma polmonare. Per quanto
riguarda gli idrocarburi bisogna affermare che l’esposizione agli idrocarburi può
verificarsi con l’inalazione delle polveri, con l’ingestione di cibo o di bevande
contaminate, ancora, per via cutanea, ad esempio attraverso la contaminazione del
terreno o dei prodotti come gli oli pesanti, il catrame di carbone o il creosoto. Le
polveri sono cosi sottili che esse sono in grado di penetrare le membrane cellulari
e di depositarsi nei tessuti adiposi. Gli organi interessati alle lesioni causate dalle
polveri nocive sono i reni, il fegato ed il grasso. Tuttavia il corpo umano si
difende con vigore metabolizzando ed eliminando le sostanze nocive in pochi
giorni. L’esposizione duratura, però, comporta dei danni irreversibili per il corpo
umano. Le malattie che derivano dal contatto con queste sostanze sono tumori ai
polmoni, allo stomaco (anche se la scienza medica è ancora divisa sulla possibilità
dell’insorgenza di tumori allo stomaco per via della forte resistenza e della
capacità del corpo umano di espellere tutte le tossine nocive) e alla pelle,
rispettivamente per inalazione, ingestione o contatto diretto con gli idrocarburi.
conoscenze scientifiche vanno ricondotte nell’alveo di categorie giuridiche
ed in particolare di una causa condizionalistica necessaria”.
Ciò implica che, per poter affermare la causalità della condotta
omissiva ascritta all’imputato, rispetto alla patologia sofferta dal lavoratore,
è necessario dimostrare che questa non ha avuto un’esclusiva origine nel
diverso fattore astrattamente idoneo e che l’esposizione al fattore di rischio
di matrice lavorativa è stata una condizione necessaria per l’insorgere o per
una significativa accelerazione della patologia. Infatti, il rapporto causale
va riferito non solo al verificarsi dell’evento prodottosi, ma anche e
soprattutto alla natura e ai tempi dell’offesa, sì che dovrà riconoscersi il
rapporto eziologico non solo nei casi in cui sia provato che la condotta
omessa avrebbe evitato il prodursi dell’evento verificatosi, ma anche nei
casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi
significativamente più lontani ovvero quando, alla condotta colposa
omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di
latenza di una malattia provocata da altra causa” (Cass. Sez. 4, sent. n.
11197 del 21/12/2011, Chino e altri, Rv. 252153; Cass. Sez. 4, sent. n. 40924
del 02/10/2008, Catalano, Rv. 241335) 201.
Cit. Cass. pen., sez. IV, sent. 17 ottobre 2012 (dep. 29 gennaio 2013), n. 42519,
Pres. Brusco, Est. Dovere.
201
Quanto affermato dalla Suprema Corte si sintetizza nel fatto che, nei
casi di malattie multifattoriali – come il più delle volte accade trattandosi di
tumori – è fondamentale dimostrare che la malattia non ha avuto
un’autonoma origine lavorativa, o che l’aggravamento della patologia è stato
causato da condizioni esterne, ovviamente osservando un processo nella
prospettiva della difesa. E’ necessario, al contrario, dimostrare l’unicità della
matrice da esposizione a sostanze tossiche, per la parte lesa202. Ma la Corte
non conclude qui, infatti, se generalmente tra l’esposizione e l’insorgenza
della patologia è richiesto un nesso di “un alto o elevato grado di credibilità
razionale”, nella sentenza il collegio persiste affermando che: «Ora, se in
generale l’affermazione di una relazione causale tra esposizione al fattore di
rischio e la malattia manifestasi richiede che quella possa essere affermata
con “un alto o elevato grado di credibilità razionale”, secondo la nota
formulazione della sentenza Franzese, nel caso di malattia multifattoriale –
prosegue la Corte – quell'elevato grado non potrà mai dirsi raggiunto prima
di e a prescindere da un'approfondita analisi di un quadro fattuale il più
nutrito possibile di dati relativi all'entità dell'esposizione al rischio
professionale, tanto in rapporto all'entità degli agenti fisici dispersi nell'area
Fabroni F., in “Conseguenze dirette e causalità mediata nelle malattie
professionali”, in “Giorn. Med. Leg.”, 1967; Falliani M., in “Eziologia e
patogenesi nella dimostrazione del nesso causale in tema di tecnopatie”, in “Atti
Convegno Nazionale: La causalità tra diritto e medicina”, Pavia, 1991-1992.
202
che in rapporto al tempo di esposizione, tenuto altresì conto dell'uso di
eventuali dispostivi personali di protezione; dati che devono poi essere
necessariamente correlati alle conoscenze scientifiche disponibili»203.
Il rapporto di connessione tra la malattia e la causa della stessa va
considerato non solo in merito all’evento lesivo finale, ma anche in merito
alla natura dello stesso evento ed in base ai tempi che hanno prodotto l’offesa
nel perdurarsi dell’esposizione.
Quindi il nesso causale dovrà considerarsi non solo nel caso in cui è
certo che la malattia “non” si sarebbe verificata a causa dell’azione
commissiva od omissiva – realizzativa di reato omissivo improprio – ma
anche nel caso in cui una concausa sia stata decisiva per l’aggravamento della
malattia e per una più veloce progressione della patologia204.
L’elemento del nesso di causalità nelle malattie con origine
multifattoriale, dunque, va accertato all’interno della compagine lavorativa,
senza escludere le concause esterne ed autonome insorte indipendentemente
ed estraneamente dalla attività professionale. Le indagini mediche e legali
Cit. Cass. pen., sez. IV, sent. 17 ottobre 2012 (dep. 29 gennaio 2013), n. 42519,
Pres. Brusco, Est. Dovere.
204
Cfr. Pulitanò D., in “Il diritto penale fra vincoli di realtà e sapere scientifico”,
in “RIDPP”, 2006; Brambilla P., in “Malattie professionali e nesso causale: una
interessante pronuncia della Corte di Cassazione in tema di accertamento della
causalità individuale”, in “Dir. Pen. Cont.”, 2014.
203
debbono avere una fisionomia sempre particolarmente pertinente al caso
concreto205.
Nel caso di specie, il medico – nonché consulente tecnico – chiamato
ad esaminare il processo eziologico della malattia, dovrà appurare l’idoneità
della patologia con l’esposizione alla sostanza nociva e dovrà riscontrare la
conciliabilità biologica della stessa sostanza con la malattia insorta. La
compatibilità della malattia va ricercata negli studi sperimentali medici, i
quali possono garantire una certezza idonea ad essere applicata nell’ambito
dei procedimenti penali206.
Tuttavia, talvolta, la correlazione tra sostanza tossica e relativa malattia
corrispondente non può essere accertata nemmeno dalla scienza207. Nel
momento in cui le esposizioni alle sostanze tossiche siano provate, il giudice
Sulla delicata questione riguardante l’accertamento del nesso di causalità in
tema di multifattorialità delle malattie cfr. Fucci P. e Rossi P., in “La medicina
legale degli infortuni e delle malattie professionali”, 1999; Ambrosi L. e Foà V.,
in “Trattato di medicina del lavoro”, 1996; Barni M., in “Il rapporto di causalità
materiale in medicina legale”, 1991; per una lettura “antica” cfr. Betocchi C., in
“Il concetto di causalità diretta nella legislazione per gli infortuni e le malattie
professionali”, 1939.
206
La IARC (International Agency for Research on Cancer) ha stilato una
classificazione di tutti gli agenti nocivi per l’uomo con la relativa malattia – o
malattie – corrispondente alla esposizione con la stessa.
207
La stessa IARC ha redatto tre tipi di categorie di agenti patogeni classificati.
Nella prima vi sono tutte quelle sostanze dalle quali “certamente” scaturisce una
patologia definita e certa; nella seconda sono inserite, accanto agli agenti
“probabilmente” nocivi, le relative malattie che conseguono all’esposizione;
infine, nella terza ed ultima categoria, sono inseriti gli agenti per i quali si ha il
“sospetto” che siano cancerogeni.
205
non può comunque evitare di valutare la possibilità che l’esposizione non sia
stata tale da indurre la nascita della malattia, ovviamente dipenderà dal tipo
di malattia e dal processo epidemiologico della stessa.
La difficile – spesso impossibile – ricerca del momento esatto in cui è
iniziata l’esposizione, per quanto è perdurata, ancora, la quantità di sostanza
con la quale il lavoratore è entrato in contatto, rendono talvolta indecifrabile
l’individuazione dei soggetti responsabili208. E’ chiaro che l’accertamento del
nesso di causalità in tali casistiche è irraggiungibile senza dimostrare le
esposizioni e la durata delle stesse.
Nelle fattispecie appena descritte è indispensabile trovare una legge
scientifica di copertura idonea a determinare una relazione tra la malattia
derivata dalla precedente esposizione alla sostanza. Ciò va ricercato negli
studi scientifici-medici i quali accertano, ove possibile, la quantità minima di
esposizione necessaria per il manifestarsi della malattia. Se si riconosce,
all’interno di un processo, che una data minima esposizione vi sia stata, allora
non resterà che comprendere se essa, autonomamente, sia stata capace di
creare anche l’evento finale, oltre che originare la malattia; dunque si potrà
La scienza medica è pienamente in accordo sull’affermare tali conclusioni, a
riguardo cfr. Zocchetti C., in “A proposito del quesito sulla dose-dipendenza nella
insorgenza dei mesoteliomi da amianto”, in “Dir. pen. cont.”, 2011.
208
procedere con la ricerca di eventuali altre condizioni capaci di condividere
l’evento lesivo con l’esposizione209.
Inoltre va considerata la durata dell’esposizione anche in merito
all’eventuale aggravamento che può subire una malattia210. Un esempio di
questo tipo di accertamento tecnico si ha grazie al cd. “modello del
multistadio della cancerogenesi” in ambito di responsabilità penale da
amianto211, precisamente in presenza di fattispecie tumorali la cui nascita è
in concorso tra condizioni lavorative ed esterne.
Considerando che la formazione del cancro avviene in più stadi che
contribuiscono l’uno con l’altro all’aggravamento della malattia se
l’esposizione alla fibra perdura, l’asbesto è considerato sia promotore della
patologia neoplastica, sia causa aggravante della stessa212.
Grotto M., in “Principio di colpevolezza, rimproverabilità soggettiva e colpa
specifica”, a cura di “Itinerari di diritto penale”, in Dolcini E., Fiandaca G.,
Musco E., Padovani T., Palazzo F. e Sgubbi F., 2012.
210
Infatti la medicina afferma che, non solo l’esposizione può condurre alla nascita
della patologia, ma può anche velocizzarne il periodo di latenza e aggravarne le
conseguenze.
211
Argomento che è stato affrontato nel capitolo precedente. Il modello del
multistadio della cancerogenesi indica che ogni esposizione successiva alla prima
che causa una malattia, aggrava lo stato della malattia accelerandone la latenza.
212
Ceglie D., in “Infortuni sul lavoro e responsabilità delle persone giuridiche”, a
cura di “Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro”, in Persiani M. e Lepore M.,
2012.
209
La maggiore rilevanza dell’esposizione a sostanze rispetto ad agenti
esterni, può essere accertata grazie alla “teoria dell’effetto moltiplicativo” –
sempre in ambito di processi in materia di amianto – la quale permette
l’individuazione di un fattore “prevalente” rispetto all’altro in casi di
concause che hanno determinato una malattia213.
Questi criteri diventano imprescindibili in processi di questo genere,
proprio grazie alla loro logica e concretezza, garantiscono, infatti, lo
sbilanciamento del giudizio da un lato o dall’altro.
Un’importante specificazione vi è da fare in tema di malattie
professionali, vale a dire tutte quelle malattie che nascono e/o progrediscono
in ambito lavorativo, dunque “a causa” del lavoro svolto da un soggetto214.
In tutti i casi in cui una malattia si definisce professionale, dunque, vi è
un corollario che pone in essere due differenti vie per poter accertare il nesso
di causalità. La difformità dell’accertamento del nesso causale va valutata in
base all’entità della patologia, se si tratta di una malattia tabellata o non
In merito la pronuncia della Suprema Corte: Cass. Pen., IV Sez., 21.6.2013
(dep. 13.9.2013), n. 37762, Pres. Romis, Est. D'Isa, ric. Battistella e al.
214
Cfr. Seghieri L., in “Infortuni e malattie professionali”, 2008; Lageard G. e
Gebbia M., in “Le malattie professionali: i soggetti penalmente perseguibili”,
2008
Giubboni S., Ludovico G. e Rossi A., in “Infortuni sul lavoro e malattie
professionali”, 2014; Giovannelli L., in “Valutazione rischi e malattie
professionali nei luoghi di lavoro”, 2015.
213
tabellata. Tabellata è una malattia che rientra in una classificazione tassativa
di malattia professionale, redatta dall’INAIL (Istituto Nazionale per
l’assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro), non tabellata nel caso
contrario215.
Per quanto riguarda le malattie tabellate vi è una “presunzione legale
d’origine” di responsabilità del datore di lavoro. Il lavoratore sarà esonerato
da qualsiasi onere probatorio riguardante la malattia di cui è stato vittima.
Ciò nonostante, il lavoratore avrà, come unico obbligo, quello di dimostrare
come è avvenuta l’esposizione al “rischio”, cioè, in concreto, quali mansioni
hanno fatto sì che egli si trovasse in una situazione di pericolo che doveva
essere evitato dai soggetti responsabili. Ancora, dovrà rendere concreti in
giudizio i fatti materiali responsabili della nascita della patologia che lo ha
colpito216.
Viene presunto ex lege che una malattia di un certo tipo, che è descritta
all’interno della categoria tassativa del Decreto Ministeriale, sia
automaticamente derivata per cause di tipo lavorativo.
Con il decreto ministeriale del 9 aprile 2008 (G.U. n. 169 del 21 luglio 2008)
sono state ufficializzate le nuove tabelle di malattie professionali nell'industria e
nell'agricoltura. Le tabelle del decreto sopra nominato entrano in vigore il 22
luglio 2008.
216
Cfr. AA.VV. in “Malattie professionali. Un modello di lettura (della
numerosità) su “open data” dell’Inail”, in “INAIL Quaderni di ricerca n.4”, 2014.
215
Tuttavia, il responsabile della formazione della malattia, avrà la
possibilità di dimostrare il contrario, in virtù dell’articolo 24 della
Costituzione che sancisce il diritto di difesa217. Dunque non si tratta di una
presunzione assoluta, ma comunque il nesso causale è, di regola, sempre
riconducibile all’attività lavorativa218.
Una malattia non tabellata, invece, non appare nell’elenco redatto dal
Ministero del lavoro e della previdenza sociale, di conseguenza l’onere della
prova sarà a carico del lavoratore. Sarà il soggetto colpito dalla patologia a
dover dimostrare il nesso di causalità con le mansioni svolte durante l’attività
lavorativa219.
Ruperto C., in “Interventi dei presidenti. La giustizia costituzionale nel 2000.
Conferenza stampa del 23 febbraio 2001”, in “cortecostituzionale.it”, 2001;
Lauricella G., in “Il diritto costituzionale alla difesa tra funzione di governo ed
esercizio dell’azione penale”, in “forumcostituzionale.it”, 2011.
218
Staiano R., in “Malattia professionale non tabellare ed onere della prova Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. N. 13342 del 12 giugno 2014”, in “slideshare.net”,
2014.
219
Cfr. Menduto T., in “Come avviene il riconoscimento di una malattia
professionale”, in “Punto Sicuro, quotidiano sulla sicurezza sul lavoro”, cat.
Sorveglianza sanitaria, malattie professionali, 2014. Corte di Cassazione Sezione
Lavoro 3/4/1992 n.4104. Pronuncia della Corte Suprema sulle malattie
professionali non tabellate e chiarimenti sui fattori di rischio professionali ed
esterni.
217
7.
Malattie multifattoriali nei processi.
Come descritto nel precedente paragrafo, il tema delle patologie
multifattoriali, in ambito giuridico, cosi come in ambito medico, rappresenta
uno scoglio importante e di difficile conciliazione.
La Suprema Corte nella sentenza n. 8019 del 21 maggio del 2003,
afferma che una già pregressa patologia – anche non dovuta ad attività
lavorativa, ma autonoma – non incide negativamente sulla applicazione del
nesso di causalità. Ciò sta a significare che il nesso causale va comunque a
configurarsi nel caso di concause aggiunte che hanno peggiorato lo stato della
patologia pregressa del soggetto, magari accelerandone la latenza220.
Successivamente a questa fondamentale pronuncia, la Sezione Lavoro
sempre della Cassazione con la sentenza n. 279 del 10 gennaio 2005, si trova
ad affrontare e interpretare un caso simile a quello appena esposto. Di fatti,
la pronuncia non solo è similare, ma configura un conseguente rimando alla
precedente sentenza n. 8019/2003.
Cassazione Sezione lavoro, sentenza 21 maggio 2003, n. 8019, Presidente
Sciarelli, ricorrente Mastracola ed altri.
220
Il collegio afferma che, seppur un soggetto fosse malato per cause
naturali, oppure per altre cause, ma comunque non riconducibili all’attività
lavorativa, il nesso causale non va escluso se durante lo svolgimento delle
mansioni richieste dall’incarico lavorativo vi è un peggioramento della
patologia a causa delle stesse. A questo punto, la mansione svolta, assume un
ruolo fondamentale di concausa indipendente che ha accelerato il verificarsi
dell’evento finale. Ovviamente, nel caso in cui questa fosse autonomamente
idonea a causare l’evento escludendo il fattore della patologia preesistente, si
tratterà di un caso ben diverso, non di certo di origine multifattoriale 221. Di
differente entità, ma in ogni modo importante, è la pronuncia del 2011 della
Cassazione. In tal caso, la Corte giudica infondato un ricorso affermando che
la giurisprudenza è compatta nel definire il nesso di causalità – in ambito di
malattie multifattoriali – come necessario hic et nunc, non come semplice
presunzione, ma come frutto di un accertamento concreto, efficace e
particolare222.
Per lo meno, qualora non fosse possibile la dimostrazione del nesso
causale in maniera statisticamente certa, deve assicurarsi che tale
Sentenza della Cassazione Sezione Lavoro n. 279 del 10 gennaio 2005, Pres.
Sciarelli, Rel. De Matteis.
222
Cfr. De Matteis A., in “Infortuni sul lavoro e malattie professionali”, seconda
serie diretta da Fanelli O., 2010.
221
accertamento conduca ad un “elevato grado di probabilità” di connessione tra
una causa, o concausa che sia, e l’evento lesivo finale223.
Il Fallani afferma che, per poter ottenere maggiori delucidazioni
riguardo i legami tra una malattia nata da una attività lavorativa, è necessario
ottenere dei presupposti cognitivi quali:
1. “conoscenza delle alterazioni anatomiche e funzionali che
costituiscono il fondamento dello stato morboso;
2. conoscenza dei meccanismi biologici attraverso cui si instaurano le
turbe anatomo-funzionali tipiche della malattia;
3. conoscenza dei rischi connessi con l’attività lavorativa svolta;
4. conoscenza dei processi mediante i quali i rischi realizzano la
condizione patologica.”224
“Si richiama l’attenzione sul punto 2 che consente di ricollegare le
turbe anatomo-funzionali con l’azione lesiva dei fattori causali e sul punto 3
che invece consente di differenziare l’eziologia professionale dalla
patogenesi professionale ricollegandosi la prima all’agente responsabile
Corte di Cassazione sentenza n. 28218 del 22 dicembre 2011.
Cfr. Fallani. M. e Valentini. A. F., in “Tumori e lavoro. La dimostrazione del
nesso causale”, in “Riv. Inf. Mal. Prof.” e solo del Fallani: “Eziologia e
patogenesi nella dimostrazione del nesso causale in tema di tecnopatie”, 1993.
223
224
causa dell’evento e la seconda stabilendo la connessione tra attività
lavorativa ed evento. La già citata sentenza 179/88 della Corte
Costituzionale mette in evidenza la netta distinzione tra eziologia
professionale e patogenesi professionale e come soltanto la prima identifica
nell’attività lavorativa la causa dell’evento (che è la malattia).”
Prosegue
l’autore,
più
precisamente
entrando
nel
vivo
dell’accertamento del nesso di causalità: “Ancor più difficile la validazione
del nesso di causa in tema di neoplasie professionali laddove il medico
accertatore non sempre può dare a poche certezze epidemiologiche valenza
assoluta per l’ammissione o meno a tutela. Si ricorda, infatti, come di recente
alcune risultanze epidemiologiche abbiano apportato dei dati dimostrativi di
correlazione con il lavoro che prima non avevano rilevanza statistica (vedasi
il contributo apportato da Parent e coll. in tema di esposizione lavorativa e
cancro gastrico). In tema di neoplasie professionali pertanto la individualità
(biologica ed espositiva) impone indagini medico-legali diverse da condursi
caso per caso al fine di una corretta valutazione degli elementi che
l’oncologia sperimentale e la epidemiologia sono in grado di fornire.
Dovranno considerarsi il rapporto tra evidenza naturale e professionale
della malattia, la compatibilità biologica della sostanza nonché i reperti
anamnestici, biologici individuali e della popolazione di riferimento”225.
Il nesso di causalità necessita di una “ragionevole certezza”, come già
affermato, e per poter giungere a tali conclusioni “statistiche” il giudice deve
apprezzare le valutazioni e conclusioni dei consulenti tecnici delle parti del
processo. D’ufficio, potrà poi nominare un ulteriore consulente per ottenere
un terzo parere imparziale sull’eziopatogenesi226.
In un’altra recente pronuncia risalente a sette anni orsono, la Suprema
Corte riprende in mano il tema delle malattie professionali cui si può
addebitare una doppia causalità, lavorativa ed estranea a quest’ultima, in altre
parole esterna. La causa è promossa da un lavoratore avverso l’INAIL con
l’accusa di aver contratto una malattia polmonare causata, a suo dire,
dall’inalazione di sostanze nocive durante l’attività lavorativa all’interno di
uno stabilimento di un petrolchimico. Contrariamente, l’INAIL, impugna in
sua difesa l’accusa del lavoratore affermando che la patologia polmonare
Cit. Falliani M, a cura di Puglisi M., Russo L., in “La probabilità di causa nel
riconoscimento delle malattie da lavoro: aspetti giuridici e medico-legali”, 2014.
226
Cfr. Cass., Sez. Lav., 26 maggio 2006, n. 12559 (Giust. Civ. Mass. 2006, 5),
nella quale la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza di merito che escludeva
la capacità di un virus di colpire il lavoratori di carne fresca. Il consulente tecnico
aveva affermato che alcune particolari proteine della carne possono portare
all’abbassamento delle difese immunitarie, permettendo al virus (già presente
all’interno dell’organismo umano, in molti casi), dunque, di colpire facilmente il
corpo umano.
225
scaturisce da un fattore esterno all’attività lavorativa. Infatti, tale fattore è
rappresentato dal tabagismo del lavoratore. La Corte di Cassazione, chiamata
a giudicare la controversia in terzo grado, accoglie il ricorso del lavoratore
sulle basi di una precedente sentenza227. Nel accogliere le ragioni del
lavoratore, la Suprema Corte, afferma che l’onere probatorio investe l’INAIL
e non il contrario. Ciò detto, la Corte afferma che qualora la causa sia
integralmente ed esclusivamente imputabile al fumo di sigaretta, allora, e
solo allora, potrà escludersi l’indennizzo in favore del lavoratore.
Contrariamente, ovvero se la patologia sia insorta per cause riconducibili
all’attività lavorativa, o si sia aggravata per l’inalazione di polveri nocive, la
malattia è causa dell’indennizzo da parte dell’Istituto228.
Dunque, la prova che deve esser fornita dall’INAIL deve essere
rigorosamente ed inequivocabilmente inerente alla connessione tra il
tabagismo del lavoratore e la malattia insorta conseguentemente ad esso,
senza interventi nocivi da parte delle polveri inalate nell’attività lavorativa
della vittima.
Cfr. Cass. Civ. 3152/1999.
Merita di essere ricordato che, non solo la causa di una malattia, ma anche
l’aggravamento della stessa patologia comportano una responsabilità da parte del
datore di lavoro. Finché sussista un fattore causale riconducibile all’attività
lavorativa, sussisterà anche una responsabilità relativa.
227
228
La dimostrazione del nesso causale in questo genere di processi deve
essere certa e concreta, idonea a provare la reale sussistenza della
correlazione tra causa ed effetto; riprendendo la sentenza precedente: fumo
di sigaretta e malattia polmonare da una parte, inalazione di polveri nocive
per l’uomo dall’altra.
Come delineato nel precedente paragrafo, nei processi che hanno ad
oggetto le malattie di tipo multifattoriale, assumono una fondamentale
importanza le consulenze tecniche degli esperti in materia medica, i quali
hanno il compito di confutare le teorie delle parti.
Fin ora si è affrontato l’argomento del nesso di causalità in termini di
“ragionevole certezza”. Questa certezza non dev’essere accertata in
motivazioni meramente statistiche, come avveniva prima del 2002, né
ricorrendo all’impostazione della teoria dell’aumento del rischio. Questi due
indirizzi sono stati superati dalla sentenza Franzese – come è stato descritto
nei due precedenti capitoli – nella quale pronuncia sono contenuti principi di
diritto ai quali i giudici devono attenersi e sui quali devono essere forgiate le
sentenze.
Seppur si siano succedute, e probabilmente ancora saranno emesse
sentenze con pronunce ambigue nonostante la portata della Franzese, è
acclarato e condiviso in giurisprudenza che l’accertamento del nesso di
causalità va fondato sul quadro probatorio del singolo caso, rafforzato
dall’applicazione di una legge scientifica di copertura.
In questa direzione, altra recente pronuncia dei giudici di legittimità è
quella sul caso Tricom229. Nel caso di specie la Suprema Corte ha specificato
che i carcinomi polmonari contratti dagli operai di un’azienda non erano stati
causati da fattori estranei all’attività lavorativa. Questo non solo perché i
tumori nati tra i lavoratori erano statisticamente non riconducibili tutti al
fumo di sigaretta, tesi sostenuta dalla difesa, ma per il fatto che l’esposizione
alla sostanza tossica del cromo era da considerarsi l’unica causa
dell’insorgenza delle patologie tumorali230. Gli esami istologici dei tumori
hanno condotto la Corte verso questa sentenza di condanna per lesioni ed
omicidio colposo; infatti, in questo caso l’aiuto della scienza è risultato
fondamentale per l’accertamento della causalità delle esposizioni nella
nascita dei tumori con quelle determinate caratteristiche231. Il “marchio” che
lascia l’esposizione al cromo è stato decisivo per ricondurre il tumore
all’elemento tossico, cosa che purtroppo non avviene per tutte le malattie
Cfr. Cassazione Penale, IV Sez., 21.6.2013 (dep. 13.9.2013), n. 37762, Pres.
Romis, Est. D'Isa, ric. Battistella e al.
230
Il cromo esavalente è un elemento molto nocivo per l’uomo; infatti, è
dimostrato scientificamente che l’esposizione alla sostanza può determinare la
nascita di neoplasie molto gravi.
231
Cfr. Brambilla P., in “Malattie professionali e nesso causale: una interessante
pronuncia della Corte di Cassazione in tema di accertamento della causalità
individuale”, in “dirittopenalecontemporaneo.it”, 2014.
229
multifattoriali in cui, come visto, la riconducibilità alle sostanze tossiche
risulta molto più complicata da provare.
7.1.
Il caso ILVA.
L’ILVA è una società che produce e trasforma acciaio, con stabilimenti
in molte sedi, ma a Taranto ha sede lo stabilimento del settore,più grande in
Europa. L’influenza della produzione sulla salute dei lavoratori e, più in
generale, sulla salute pubblica, ha determinato importanti riflessi giudiziari e
molteplici ricorsi per l’insorgenza dei tumori multifattoriali, i cui esiti sono
sussunti nelle numerose sentenze ad oggetto la produzione dello stabilimento
siderurgico pugliese.
La grande industria presente nel territorio tarantino ha da sempre
garantito nella zona circostante una livello di posti di lavoro altissima,
proprio in virtù delle sue dimensioni. Ultimamente il legislatore si è trovato
a dover salvaguardare sia il diritto alla salute sia al lavoro, da un lato,
imponendo ingenti investimenti di risanamento e di bonifica, d’altro lato,
assicurando il mantenimento di adeguati livelli di produzione. Infatti, come
già detto, l’ILVA rappresenta una fonte occupazionale importantissima per
Taranto e provincia, soprattutto se si considera la situazione di difficoltà
complessiva in cui versa la città, e del modello di sviluppo sul quale si fonda
la sua economia.
Lo stabilimento è stato realizzato negli anni sessanta, nell’ambito del
piano di ammodernamento e di sviluppo del sistema produttivo italiano, in
particolare del processo di industrializzazione del Mezzogiorno. La necessità
di assicurare la produzione di acciaio nelle quantità necessarie a sostenere la
crescita economica, convinse i vertici dell’I.R.I (Istituto per la Ricostruzione
Industriale) a realizzare una grande acciaieria a capitale pubblico,
costituendo la società ITALSIDER. Le successive vicende condussero alla
metà degli anni novanta prima a razionalizzare l’intero comparto dell’acciaio
pubblico e a trasformare la società in ILVA s.p.a., di seguito, a privatizzare
la stessa cedendo i diritti di proprietà al Gruppo Riva. La produzione
dell’acciaio nelle dimensioni di quelle realizzate nell’imponente stabilimento
di Taranto, richiede la manodopera di migliaia di addetti, molti dei quali
esposti a lavorazioni pericolose e dannose232.
Non solo gli operai che lavoravano al suo interno, anche tutta la
popolazione della zona circostante è stata influenzata dalle polveri emanate
dalle fabbriche tarantine, questo anche a causa della ingenua costruzione di
un quartiere popolare nei pressi dell’industria, il rione Tamburi233.
Le polveri tossiche della fabbrica, infatti, sono presenti ancora tutt’ora
nei dintorni dello stabilimento, ben visibili ad occhio nudo. Una volta
imboccate le strade che costeggiano lo stabilimento e quelle viciniore non si
può mancare di soffermarsi sugli evidenti effetti ambientali causate dal
gigantesco sito industriale.
Attualmente nello stabilimento ILVA di Taranto sono impiegati
direttamente più di 11.000 lavoratori, più di 20.000 se si sommano gli addetti
delle imprese dell’indotto. Negli anni settanta la manodopera diretta ha raggiunto
e superato le 22.000 unità.
233
Numerosissimi casi di malattie sono stati rilevati sia nella città, sia nella
provincia della vecchia colonia magnogreca, alcuni dei quali hanno colpito
direttamente chi scrive. Un autorevole studio scientifico ha riscontrato una
mortalità nella zona Tarantina molto più alto rispetto al totale della regione
pugliese. Dal 2006 al 2008 il tasso di mortalità ogni 100.000 persone a Taranto
per malattie tumorali o al cuore, rispetto alla regione, è stato superiore del 13%.
In particolare, negli uomini il tumore ai polmoni è risultato maggiore del 36%, per
malattie ischemiche al cuore è risultato +23%, nel genere femminile si riscontra
un’insorgenza tumorale del 23% in più e il 20% per le ischemie.
232
Tuttora
la
società
rappresenta
un
colosso
–
seppur
sotto
un’amministrazione straordinaria – che combatte per la sopravvivenza
condizionata da plurimi processi, di diversa origine e natura.
I casi di malattie nati a causa dell’inalazione di queste sostanze nocive
sono così numerosi da stentare a darne conto. I procedimenti penali si
susseguono, di rilevanza giuslavorista sia penale.
Riprendendo il discorso del precedente paragrafo, a riprova del fatto
che la sentenza Franzese ha comunque rappresentato un punto di svolta
fondamentale della giurisprudenza, la recentissima sentenza della Corte
d’Appello di Lecce ha affrontato il ricorso di un operaio, il quale, contraendo
un tumore desmoide retroperitoneale, ha richiesto una rendita all’INAIL per
aver contratto la patologia in ambito lavorativo a causa delle lunghe
esposizioni alla diossina emesse dallo stabilimento ILVA di Taranto234. Di
contro, l’INAIL, espone le motivazioni riguardanti l’insorgenza genetica
della patologia che, alle volte, come dimostrato e ivi sostenuto, può
presentarsi anche per cause ereditarie.
La Corte, alla luce del quadro probatorio, evidentemente non
adeguatamente considerato dal G.U. di Brindisi nel respingere il ricorso, ha
accolto la richiesta dell’operaio per aver contratto la malattia a causa della
234
Cfr. Corte di Appello di Lecce, Sez. Lav., 08 gennaio 2014.
massiccia esposizione alla TCDD, e condannato l’INAIL al pagamento di
una rendita per riconosciuta invalidità del 30%235.
Un’altra pronuncia di rilievo è quella della Corte Suprema del 2012 in
cui viene considerata come causa almeno per il 50% l’esposizione alle
sostanze tossiche dell’ILVA236. La Corte infatti, riprendendo la sentenza
Franzese, attesta la rilevanza delle concause nelle fattispecie tumorali. Se un
soggetto ha nelle proprie abitudini il tabagismo, non può esser esclusa
quest’ultima come causa dell’evento dannoso finale. Tuttavia, se
l’esposizione è appurata e provata scientificamente come nociva, il
tabagismo può rappresentare una causa non autonoma, bensì correlata alle
sostanze tossiche.
Il quadro probatorio, in primis, dev’essere in grado di mostrare sia
l’incisività dell’esposizione, sia la persistenza del fumo di sigarette. In
secundis, le prove raccolte saranno utili per comprendere quanto una e quanto
l’altra causa possono aver influito sulla nascita della malattia attraverso
l’accertamento del nesso di causalità. La Corte afferma che il tabagismo non
è volto ad escludere l’insorgenza della malattia, anzi rappresenta "una sicura
concausa della patologia, che in assenza di prova circa l'incidenza specifica
Il tipo di diossina più potente e nociva per l’uomo.
236
Cfr. Cassazione penale, Sez. IV, sentenza n. 4489 del 17 ottobre
2012.
235
deve considerarsi concorrente al 50% nella causazione del carcinoma
polmonare". Non possono mai essere escluse le due cause, perché è
scientificamente provato che anche il fumo aggrava le condizioni delle
malattie polmonari, ne accorcia la latenza ed è comunque responsabile della
nascita affezioni alle vie respiratorie. Parimenti, va ribadita, anche la
circostanza che l’esposizione alle sostanze tossiche va considerata come
concausa della malattia insorta.
8.
Il regime della responsabilità dei soggetti
garanti.
La normativa in ambito di responsabilità dei soggetti che causano
malattie in ambito lavorativo è molto complessa e riguarda più settori
dell’ordinamento giuridico.
L’ordinamento italiano si è adeguato al diritto comunitario, il quale, con
il Regolamento CEE del 14 giugno del 1971 n. 1408, ha sancito il diritto di
rivalsa degli Enti assicuratori avverso i responsabili degli infortuni sui luoghi
di lavoro.
Successivamente l’articolo 5 della Direttiva 39/391 del 1989 mira a
garantire la sicurezza, sempre in ambito lavorativo, dei lavoratori. Ciò
avviene obbligando i datori di lavoro a garantire la salute e la sicurezza dei
propri lavoratori.
Le Direttive sono adottate dagli Stati membri attraverso delle apposite
leggi con contenuto dettagliatamente simile a quello del diritto
comunitario237. L’eventuale inosservanza delle norme comunitarie porta a
sanzioni comminate dall’Unione Europea nei confronti degli Stati membri,
questo in virtù della prevalenza del diritto comunitario rispetto a quello
nazionale238.
Il D.Lgs. 626/1994, impone determinati comportamenti in capo ai
soggetti responsabili per i lavoratori, l’inosservanza di questi comportamenti
comporta la responsabilità penale. Il decreto legislativo, è stato emesso in
attuazione della legge delega n.123 del 3 agosto 2007.
Obbligo di conformarsi al diritto comunitario che è sancito dall’articolo 10
della Costituzione, il quale afferma: “L'ordinamento giuridico italiano si
conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”.
238
Inoltre la Costituzione Europea ha ribadito il diritto a condizioni di lavoro sane
e sicure, ancora, ha sancito il diritto ai lavoratori di avere una protezione della
salute umana.
237
La legge delega aveva il compito di riunire e rendere efficaci la
moltitudine di norme emesse nell’arco dei sessanta anni precedenti. Infatti le
disposizioni emanate fino a quella data si trovavano disperse in molte fonti e
normative susseguenti, senza fornire efficace sistematizzazione.
Questo Decreto, composto di dieci titoli, mira a completare il quadro
normativo di responsabilità dei soggetti interessati, dando un chiaro quadro
dei compiti da svolgere per la prevenzione delle malattie contraibili sui
luoghi di lavoro.
Il Decreto legislativo appena descritto è stato integralmente assorbito
dalla Legge n. 81 del 9 aprile 2008, definito TUSL239, ovvero testo unico in
materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro240.
Oltre agli articoli, necessari a regolamentare l’intera materia,
costituiscono parte integrante ben 51 allegati tecnici che vanno a coordinare
in maniera minuziosa le prescrizioni tecniche delle maggiori normative poste
Il testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro è composto di
306 articoli e 51 allegati, divisi in svariati titoli riguardanti normative ben precise
sullo svolgimento delle mansioni da parte dei lavoratori, in maniera da prevenire
ogni tipo di rischio in capo a questi ultimi.
240
Cfr. Di Maso A., in “Dlgs 81/2008. Il testo unico della sicurezza sul lavoro”,
2008; Rovetta S., in “Manuale per l'applicazione del D.Lgs. 81/2008. Guida
operativa all'interpretazione e all'applicazione di ciascun titolo”, 2013; AA.VV.,
in “Testo unico per la sicurezza”, 2015.
239
in essere dall’ordinamento italiano dopo il secondo dopoguerra, nei casi
particolari di lavorazioni e utilizzo di sostanza nocive.
In particolare, sono stati disciplinati con criteri scrupolosi tutte le
mansioni e le cause di rischio per il lavoratore, che devono essere ridotte ai
minimi, anche a discapito dell’attività lavorativa di una azienda. Verifiche,
controlli ed accertamenti continui negli ambienti lavorativi per garantire
l’applicazione ed il rispetto delle normative espresse dal testo unico, sono
puntualmente sanciti.
Per di più, le aziende hanno il compito di predisporre accurati metodi
alternativi di organizzazione aziendale per predisporre una attività quanto più
possibile conforme, proprio al fine di favorire e garantire la sicurezza e la
salute dei lavoratori.
Una volta introdotto il discorso della sicurezza, della salute e della
prevenzione, merita un’accurata e dettagliata disamina la responsabilità di
coloro i quali non ottemperano agli obblighi scaturenti dalle disposizioni fin
ora esaminate.
La responsabilità di cui si parla si sviluppa su tre livelli, in particolare,
dai fatti, qui in considerazione possono emergere responsabilità in ambito
civile, penale ed amministrativo.
(a)
Cominciando dalla responsabilità civile, è necessario in primo
luogo citare l’articolo 2087 del Codice civile il quale afferma che
“l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure
che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono
necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori
di lavoro”241.
Si comprende immediatamente l’importanza della disposizione, la
quale rappresenta il fondamento della responsabilità civile in ambito
lavorativo. La norma è, infatti, essenziale per l’individuazione della
responsabilità civile, giacché obbliga il datore di lavoro a conformarsi alle
misure disposte dalla legge indirizzate a prevenire i rischi all’interno
dell’ambiente di lavoro. Rischi che si configurano sia con componenti causali
interne, sia da motivi esterni. L’obbligo discende dal diritto alla sicurezza del
lavoratore che è un principio di livello costituzionale.
La norma fornisce dei collegamenti con gli articoli 37 e 41 della Costituzione.
Questi due ultimi articoli sanciscono rispettivamente la parità dei sessi e la libera
iniziativa economica che non deve mai essere “in contrasto con l’utilità sociale o
in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
In merito all’articolo cfr. Donnarumma V., in “La sicurezza nei luoghi di lavoro
ex art.2087cc tra prevenzione e repressione”, in “Altalex”, 2003; Cendon P., in
“Commentario al Codice civile”, 2009; Gabrielli E., in “Commentario del Codice
Civile diretto da Enrico Gabrielli Dell'impresa e del lavoro - Vol. I: artt. 20602098”, in Cagnasso O. e Vallebona A., 2012.
241
La disposizione in esame, seppur si tratti di materia civile, rimanda alla
responsabilità penale, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza.
Infatti, è stato aspramente discusso, nel corso del commentario dell’articolo,
se esso potesse effettivamente configurarsi, in connessione diretta con
l’articolo 40 del Codice penale, la responsabilità penale del datore di
lavoro242. Inoltre, e non di meno, è stato affermato che, in base ai principi che
delineano l’articolo 2087 del Codice civile, è anche ammessa l’azione di
regresso da parte dell’ente assicuratore avverso il datore di lavoro
inadempiente243.
In aggiunta all’articolo 2087 c.c., vi è da considerare l’articolo 2089, il
quale investe il datore di lavoro della responsabilità che deriva dall’articolo
2087 c.c. quand’anche sia un soggetto ad egli sottoposto o da egli incaricato
alla sicurezza ed all’applicazione delle normative sancite dalle disposizioni
citate all’inizio del paragrafo244.
Articolo esaminato nel primo capitolo.
Cfr. Ferrari G. e Ferrari G., in “Infortuni sul lavoro e malattie professionali”,
2004; Pignataro A., in “Responsabilità del datore di lavoro per infortuni sul
lavoro e malattie professionali”, in “Penale contemporaneo”, 2010; Ludovico G.,
in “Tutela previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e
responsabilità civile del datore di lavoro”, 2012; Iarussi D., in “Risarcimento dei
danni per gli infortuni sul lavoro. Le azioni processuali”, 2015.
244
In merito all’articolo deve essere citata la Suprema Corte, Cass. 6 marzo 2008
n. 6033; Cass. 12 marzo 2008 n. 6632, la quale non ha omesso di ribadire che,
seppur si tratti di un rapporto meramente occasionale, la responsabilità del datore
di lavoro non sfugge.
242
243
Di conseguenza il lavoratore merita ex lege l’indennizzo per i danni che
sono derivati dall’attività lavorativa. In aggiunta, se la colpa è del datore di
lavoro, il lavoratore è risarcito dal datore in maniera diretta o per mezzo
dell’ente assicurativo pubblico INAIL245.
In difesa del datore di lavoro, però, interviene l’art. 10 del TU 1965 n.
1124246. In quest’articolo, è affermato che la responsabilità civile del datore
di lavoro è esclusa dall’obbligatoria assicurazione sancita dal testo unico,
l’assicurazione INAIL247.
Le prestazioni da parte dell’ente assicurativo sono dovute per il solo realizzarsi
dell’infortunio sul luogo di lavoro, il risarcimento, invece, necessita sia della
manifestazione dell’evento dannoso per il lavoratore, sia dell’illecito dovuto ad
una condotta colposa del datore di lavoro. Da questa descrizione scaturisce il
“danno differenziale”, ovvero il danno che è risarcibile in favore del lavoratore
colpito dall’infortunio. Esso si ottiene dalla differenza tra quanto versato
dall’INAIL, come indennizzo per l’infortunio o la malattia professionale, e quanto
si può chiedere al datore di lavoro come risarcimento in sede civile.
246
Decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 30 giugno 1965, testo
unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul
lavoro e le malattie professionali
247
L'INAIL è un ente assicurativo che agisce in un regime di monopolio legale. La
sua legittimità è stata tuttavia messa in dubbio in più situazioni, soprattutto in
merito alla compatibilità con il diritto comunitario. La Corte di Giustizia dichiara
l’INAIL conforme ai principi della concorrenza europei, in quanto non svolge
attività di impresa. Due anni prima il Partito Radicale – il cui esponente era
Pannella – raccolse firme presentando alla Corte Costituzionale un Referendum
abrogativo per l’abolizione del monopolio rappresentato dall’INAIL. La Corte
respinse la richiesta per la maggior parte delle proposte dichiarando che lo Stato
deve agire nella difesa dei diritti dei cittadini.
245
La responsabilità civile del datore di lavoro, tuttavia, rimane in piedi
nonostante l’assicurazione obbligatoria (INAIL), nel momento in cui il
soggetto responsabile ha subito una condanna penale per l’infortunio che è
scaturito. Inoltre, la responsabilità del datore di lavoro permane anche
quando la condanna penale ha colpito uno dei soggetti ad egli sottoposti, più
precisamente quelli nominati nell’articolo 2089 c.c..
(b)
Concluso il discorso di responsabilità civile, è necessario
affrontare il secondo tipo di responsabilità prima elencato, vale a dire, la
responsabilità penale, dalla quale scaturiscono sanzioni anche molto gravi
per l’inosservanza della normativa.
Merita di essere subito citato l’articolo 437 del Codice penale il quale
afferma: “Chiunque omette di collocare impianti, apparecchi o segnali
destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li
danneggia, è punito con reclusione da sei mesi a cinque anni. Se dal fatto
deriva un disastro o un infortunio, la pena è della reclusione da tre a dieci
anni”248.
Con “infortunio sul lavoro” va intesa una qualsiasi lesione o alterazione
nell'organismo, per una causa violenta, all’interno di tale definizione non rientra la
malattia professionale. Nell’ultima frase è espressa una circostanza aggravante
speciale. Molti giuristi considerano l’ultimo rigo, invece, come un reato a sé
stante, autonomo e rientrante nella categoria del reato preterintenzionale.
248
Come si può agevolmente dedurre, l’articolo in esame è dedicato a
delineare il particolare comportamento omissivo da parte dei “responsabili”
in ambito lavorativo, comportamento il quale, se non attuato correttamente
può portare al configurarsi di lesioni o morti per esposizione alle fibre
tossiche dell’amianto.
L’articolo tende a punire coloro i quali omettono di fornire una
determinata sicurezza disposta ex lege in favore dei lavoratori, al fine di
prevenire e dunque evitare disastri di tipo ambientale249 – come può avvenire
ad esempio eliminando delle scorie tossiche in un fiume – oppure infortuni a
danno dei lavoratori.
Nella sua configurazione di tipo omissivo, il reato in esame è un reato
proprio. Questo in virtù dell’obbligo che scaturisce nei confronti dei
responsabili di adottare misure di sicurezza idonee a garantire la sicurezza
dei lavoratori.
Quindi, i soggetti responsabili si identificano nei ruoli di datori di
lavoro e/o dirigenti, sui quali, in virtù delle cariche e delle mansioni che li
Proprio il 28 maggio dell’anno scorso è stata pubblicata sulla Gazzetta ufficiale
la l. 68/2015 in materia di “ecoreati”. La legge è entrata in vigore il giorno
successivo alla data di pubblicazione. Una normativa necessaria per ripararsi dai
danni che vengono inflitti all’ambiente che, spesso e volentieri, si ripercuotono
sull’uomo. Infatti, a riguardo, l’art. 452-ter della legge appena citata punisce chi
cagiona morte o lesioni come conseguenza del delitto di inquinamento
ambientale.
249
caratterizzano, hanno l’obbligo di garantire la sicurezza nei luoghi in cui si
svolgono le mansioni dei dipendenti a loro sottostanti.
Nel suo enunciato l’articolo non si limita ad identificare i colpevoli del
reato come solo quei soggetti interessati nelle attività lavorative, infatti si
nota la espressione “Chiunque” nell’apertura dell’articolo. Ciò sta a
significare che è punibile chiunque sia responsabile delle azioni subito dopo
citate dall’articolo stesso250.
Altro articolo che deve essere citato per comprendere il regime della
responsabilità in ambito lavorativo, dunque la connessione che intercorre tra
il diritto penale e, in un certo senso, il diritto del lavoro, è l’articolo 451 del
Codice penale che afferma: “Chiunque, per colpa, omette di collocare,
ovvero rimuove o rende inservibili apparecchi o altri mezzi destinati alla
estinzione
di
un incendio o
al
salvataggio
o
al
soccorso
contro disastri o infortuni sul lavoro, è punito con la reclusione fino a un
anno o con la multa da centotre euro a cinquecentosedici euro”251.
Cfr. Romano M., Grasso G. e Padovani T., in “Commentario sistematico del
Codice penale”, 2012. Zuccalà G., Forti G. e Crespi A., in “Commentario breve al
Codice penale”, 2015.
251
Proprio come l’articolo precedentemente esaminato, anche quest’ultimo
contiene l’espressione “chiunque”. Il discorso è, dunque, il medesimo del
precedente articolo. Anche per l’imputabilità di questo articolo, oltretutto, è
necessario provare la colpa, quindi, è necessaria la sussistenza di imperizia,
imprudenza o negligenza. Queste ultime debbono essere considerate in
connessione all’attività svolta ed alla carica dell’agente, questo in maniera tale da
250
La norma esprime un reato di tipo omissivo, proprio come il 437 c.p.,
ed ancora una volta mira alla salvaguardia della salute dei lavoratori, oltre
che alla loro sicurezza. Infatti, è colpevole di aver commesso questo reato chi
omette di garantire questi due diritti fondamentali dei lavoratori.
Dopo l’introduzione del D.Lgs n. 81 del 2008, la normativa in favore
della sicurezza dei lavoratori si è irrigidita ulteriormente e le sanzioni si sono
appesantite. La necessità di questa maggiore anelasticità è dovuta al
perdurare e al reiterarsi delle omissioni da parte dei soggetti che hanno il
dovere di garantire i diritti dei lavoratori252.
La particolarità di questi due reati di tipo omissivo è insita nel fatto che,
per il solo fatto che il soggetto dedito alla prevenzione ha omesso un
comportamento dovuto dalle precise disposizioni di legge, il reato si è
poter valutare il livello di diligenza media da dover applicare in merito alla qualità
delle mansioni svolte.
252
Cfr. Cassazione penale, SS.UU., sentenza 18/09/2014 n° 38343, caso meglio
noto come “Caso Thyssenkrupp”. Uno dei processi più importanti dell’ultimo
decennio, in cui persero la vita ben sette operai. Le SS.UU. hanno affermato la
responsabilità degli imputati ai sensi dell’articolo 590 c.p., omicidio colposo.
Viene esclusa l’ipotesi di omicidio volontario – in forma di dolo eventuale –
infatti la Suprema Corte annulla parte della sentenza appellata rinviando ad
un’altra sezione della Corte d’assise d’Appello di Torino per il cambiamento della
pena. Le SS.UU. ritengono che per colpa cosciente, con l’adozione di tutte le
cautele doverose, tese a prevenire gli infortuni e i disastri, si sarebbe di certo
evitato quel tragico evento.
In merito al disastro avvenuto nei pressi di Torino vedi Carboni L., in “Il dolo
eventuale dopo la sentenza Thyssenkrupp”, 2015.
configurato, senza la necessità di dover provare la colpa nello specifico, in
quanto quest’ultima si considera completa con il completarsi dell’omissione
degli agenti.
(c)
Concludendo, non rimane che aprire il discorso all’ultimo
regime di responsabilità rimanente: la responsabilità amministrativa.
Se fin ora si è parlato di responsabilità strettamente connessa con
persone fisiche, bisogna introdurre il discorso su un’importante novità
riguardante la responsabilità delle società che offrono il lavoro, e come tali
assumono la veste giuridica di datori di lavoro.
In particolare, questa normativa introdotta con il D.Lgs. n. 231 dell’otto
giugno 2001, riconosce la responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche. Che siano società o associazioni, o che siano fornite o meno di
personalità giuridica, in ogni caso la responsabilità può essere sempre
imputata.
In realtà, questo particolare regime di responsabilità è riconosciuta in
ambito penale, sommandosi alla responsabilità della persona fisica, la quale,
ha effettivamente concretamente posto in essere il reato. Viene, dunque,
riconosciuta nell’ordinamento italiano, nella sfera penale, la responsabilità
degli enti253.
Tuttavia, ai sensi dell’articolo 27 comma 1 della Costituzione, il quale
afferma che la responsabilità penale è personale254, la normativa per
rispettare il suddetto principio, ha considerato ha considerato a carico delle
persone giuridiche la responsabilità amministrativa, seppur rilevabile nel
dominio penale.
Con tale normativa vuole ampliarsi il regime di responsabilità, il quale,
in precedenza, ha escluso, ad esempio, i soci di una società. Se i soci sono
stati, fin ora, esonerati dalla responsabilità, lo stesso non rileva per quei
soggetti che sono sempre stati ritenuti rivestire posizioni di garanzia, in virtù
delle mansioni dirigenziali ed amministrative svolte.
La portata della normativa contenente numerose disposizioni, apporta
una modifica significativa, tant’è che dal 2001 gli enti che forniscono i posti
Cfr. Bellacosa M., in “Reati di infedeltà nella gestione d'impresa e
responsabilità dell'ente societario”, in “La responsabilità amministrativa delle
società e degli enti”, 2006 e “Obblighi di fedeltà dell'amministratore di società e
sanzioni penali”, 2006; Di Amato A., in “Responsabilità amministrativa da reato
degli enti”, 2009; Veneziani P., Garuti G. e Cadoppi A., in “Enti e responsabilità
da reato”, 2010.
254
Questo fondamentale principio asserisce che al di fuori di colui o coloro che
hanno commesso il reato, nessuno può essere chiamato a rispondere degli stessi.
Differentemente, in diritto civile, la responsabilità è trasmissibile per eredità, ad
esempio.
253
di lavoro non sono più esenti dalla responsabilità per le misure di sicurezza,
prevenzione e salute.
I reati che risaltano sono omicidio colposo e lesioni gravi e gravissime
commessi in violazione degli obblighi non delegabili del datore di lavoro255.
Ovviamente sono esenti dalle suddette responsabilità quegli enti che
dimostrino di non aver omesso di garantire la sicurezza negli ambienti di
lavoro, adottando in maniera consona alle disposizioni di legge tutte le
prevenzioni necessarie.
In merito alla sfera della responsabilità, esposta fin ora, meritano di
essere citate alcune sentenze della Corte Suprema, le quali, hanno chiarito la
necessità dell’assunzione di misure di sicurezza da parte dei datori di
lavoro256.
Nella sentenza n. 2433 del 20 marzo 2000 la Corte di Cassazione
afferma gli obblighi di evitare, limitare o per lo meno ridurre “la diffusione
delle polveri di qualunque specie” negli ambienti lavorativi. Questo deve
Il D.Lgs. 231/2001 è stato integrato dal testo unico salute e sicurezza sul lavoro
D.Lgs. 6 marzo 2007, inoltre l’articolo 300 del decreto sicurezza sostituisce l’art.
25-septies del D.Lgs. 231/2001, ovvero omicidio colposo o lesioni gravi o
gravissime commesse.
256
Cardinale Ciccotti F.C., in “Le malattie professionali sotto il profilo giuridicoamministrativo e medico-legale”, in “Riv. Inf. Mal. Prof.”, 1989; Pais A., in
“Testo unico per la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro”, 2015.
255
avvenire sempre, a meno di comprovata impossibilità tecnica257.
Nell’affermazione della Corte risalta come non sia limitata l’esclusione di
polveri relative ad una sostanza o più determinate; infatti, si tratta di polveri
in generale, proprio per evitare ogni tipo di patologia che può derivare anche
dalla inalazione di polvere semplice.
I datori di lavoro su cui grava l’onere dell’applicazione delle
disposizioni normative comunitarie – adottate dall’ordinamento italiano –
devono conformarsi soprattutto basandosi sulle tecnologie impiegate o
comunque
adottabili
all’interno
degli
stessi
settori
lavorativi;
specificatamente il caso di specie affrontato dalla Corte riguardava
l’inalazione delle fibre tossiche dell’amianto.
La medesima sezione della Cassazione, giusto un anno prima,
condannava l’imputato per non aver adottato le adeguate cautele in merito
sia all’eccessiva presenza di polveri di amianto nel luogo di lavoro, sia
riguardo alla mancata adozione dei principi “della massima sicurezza
tecnologicamente fattibile nell’attuazione delle misure di prevenzione”
avverso la fibra dannosa per l’uomo. Infatti, precisa la Corte, non essendo
possibile scientificamente determinare un valore di soglia per cui la sostanza
Sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. IV, 20 marzo 2000, n. 2433
(ud. 5 ottobre 1999). Pres. Viola.
257
diventa nociva, essa deve essere totalmente debellata e mai presente dove i
lavoratori svolgono le proprie mansioni258.
Capitolo IV
SOLUZIONI PREVIDENZIALI IN FAVORE DEI
SOGGETTI ESPOSTI E PERSEGUIBILITA’ DEI
RESPONSABILI
1. Le malattie professionali e gli infortuni
sul lavoro. La disciplina sulla sicurezza
del lavoro. Il d.lgs. 81/2008 e il d.lgs.
106/2009.
Le conseguenze dell’esposizione alle fibre di amianto si diramano sia
sul piano ambientale sia lavorativo, coinvolgendo una pluralità di aspetti di
258
Sentenza della Corte di Cassazione penale, Sez. IV, del 2 luglio 1999.
natura multidisciplinare259. Da quanto sopra esposto, emerge la rilevanza e la
coesistenza di prospettive di indagine che abbracciano il diritto penale e
giuslavoristico, il diritto ambientale, la medicina del lavoro, le competenze
in materia di igiene ambientale e industriale.
Più in particolare, per quanto concerne i riflessi sul piano della tutela
dei diritti dei lavoratori, in ambito penalistico e quale premessa dell’azione
risarcitoria, assume rilievo l’accertamento della responsabilità del datore di
lavoro260.
Questione preliminare, a tal proposito, è la definizione di malattia
professionale necessaria per stabilire il nesso di causalità tra patologia e
attività lavorativa, distinguendo tale nozione dall’infortunio sul lavoro.
L’infortunio sul lavoro è un evento traumatico e improvviso occorso per
causa violenta in occasione di lavoro261.
Cfr. Coggiola N., in “Alla ricerca delle cause: uno studio sulla responsabilità
per i danni da amianto”, in “Edizioni scientifiche Italiane”, 2011 e anche Moro G.
e Tosato R., in “Malattie da amianto: danni alla persona ed esperienze
giurisprudenziali”, 2012.
260
Cfr. AA.VV., in “Amianto: responsabilità civile e penale e risarcimento danni”,
2012; Rausei P.,in “Sicurezza sul lavoro. Responsabilità. Illeciti e Sanzioni”, 2014;
Bonanni E. e Fabiani M., in “Il danno da amianto. profili risarcitori e tutela
medico-legale”, 2013; D’Orsi F., in “Amianto - valutazione, controllo, bonifica”,
2015.
261
Tale nozione ha quindi come presupposti l’inerenza con la prestazione di lavoro,
ovvero in occasione di lavoro, e l’origine violenta.
259
Con il concetto di causa violenta si fa riferimento a un’azione intensa e
concentrata nel tempo che causa le lesioni o morte del lavoratore. Ove
ricorrano tali presupposti, l’infortunio sul lavoro è indennizzato dall’INAIL
(Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni), qualora i suoi
effetti producano la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta (che
toglie completamente e per tutta la vita l’attitudine al lavoro) o parziale (che
diminuisce in misura superiore al 15% e per tutta la vita l’attitudine al
lavoro), oppure un’inabilità temporanea assoluta (che impedisce totalmente
e di fatto per più di tre giorni di attendere al lavoro).
La malattia professionale si differenzia dalla malattia generica in quanto
è una malattia che viene contratta nell’esercizio e a causa della
lavorazione alla quale è adibito il lavoratore. L’elemento distintivo della
malattia professionale rispetto alla malattia generica risiede, quindi,
nella stretta connessione, sotto il profilo causale, con la prestazione di lavoro.
Ai fini del riconoscimento della malattia professionale, assume un rilievo
determinate la prova del nesso di causalità tra l’esercizio dell’attività
lavorativa e la malattia stessa. Il D.P.R. n. 1124/1965262 più volte aggiornato,
elenca, in apposite tabelle, le lavorazioni che devono ritenersi pericolose e le
Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni
sul lavoro e le malattie professionali.
262
malattie professionali che possono scaturire da tali lavorazioni. Per le
malattie diverse da quelle incluse nelle tabelle, ovvero riconducibili a
lavorazioni diverse da quelle descritte in tabella, il lavoratore ha l’onere di
dimostrare il nesso di causalità tra la prestazione di lavoro e la malattia, senza
potersi avvalere delle predette presunzioni legali263.
La copertura dei costi di indennizzo nei casi di malattia professionale o
di infortunio sul lavoro è garantita dalle contribuzione obbligatorie a favore
dell’INAIL da parte dei datori di lavoro e dei lavoratori.
La fonte primaria di tale sistema assicurativo è nella Carta
Costituzionale, più precisamente all'art. 38264, il quale prevede che: “Ogni
cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha
diritto al mantenimento e all'assistenza sociale. I lavoratori hanno diritto che
Le malattie tabellate e non tabellate sono già state affrontate precedentemente.
Si differenziano per la presunzione che deriva dalla presenza della malattia nella
tabella, presunzione di colpa del datore di lavoro, che dovrà dunque provare il
contrario. La situazione si ribalta per le malattie non tabellate, in questo caso l’onere
della prova graverà sul lavoratore.
264
L’articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si
preoccupa della “sicurezza e assistenza sociale”.
Parallelamente, nell’ordinamento italiano, dalla lettura dell’articolo si comprende
come lo Stato si assuma la responsabilità di garantire l’assistenza sociale, un tenore
di vita adeguato anche a chi non abbia un reddito alto, bensì inferiore, inoltre, lo
Stato si preoccupa di corrispondere le pensioni nei confronti di chi ne beneficia.
263
siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso
di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all'educazione e all'avviamento
professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed
istituti predisposti o integrati dallo Stato. L'assistenza privata è libera”.
Il primo comma dell’articolo 38 garantisce la protezione sociale, sotto
forma di assistenza, a tutti i cittadini, indistintamente, che non siano in grado
di provvedere al proprio sostentamento. Questa forma di tutela garantisce i
mezzi necessari per vivere al cittadino che sia divenuto, o sia sempre stato,
inabile al lavoro, anche se non abbia mai prestato attività lavorativa. Il
secondo comma dell’articolo 38, invece, prevede la tutela dei lavoratori, ai
quali sono garantiti non semplicemente i mezzi necessari per vivere, ma i
mezzi adeguati alle loro esigenze di vita.
Si tratta, in questo caso, di una tutela di natura previdenziale, rafforzata
rispetto a quella assistenziale, garantita dal primo comma.
Così come il secondo comma individua un’area più ristretta e più forte
di tutela rispetto al primo comma in ragione della qualità di lavoratore del
cittadino che viene a trovarsi in stato di bisogno, allo stesso modo,
nell’ambito del medesimo secondo comma, è separatamente definita un’area
di tutela differenziata in ragione della causa lavorativa dello stato di bisogno.
La distinzione emerge dall’elemento letterale: l’espresso riferimento
agli infortuni sul lavoro265 (in tale contesto ricomprendente ovviamente le
malattie professionali) non può avere altra ragione che quella di individuare
una diversa gradualità della tutela per gli eventi dannosi di origine
lavorativa266.
Dalla carta Costituzionale si evince che il lavoro è: valore primario (art.
1); come tale deve essere tutelato in tutte le sue forme e manifestazioni (art.
35); la tutela deve riguardare in primo luogo la salute nei luoghi di lavoro
(art. 32); in caso di infortunio, di malattia, di invalidità devono essere
apprestati mezzi adeguati di vita (art. 38); a tali compiti deve provvedere lo
Stato con istituti o organismi pubblici (art. 38); l'onere relativo è a carico
dell'attività economica, giacché questa non può svolgersi in modo da ledere
la sicurezza del lavoro o in modo contrario all'utilità sociale (art. 41)267.
L'art. 38 prevede e garantisce, nei primi due commi, livelli di tutela
diversi per le prestazioni previdenziali rispetto a quelle assistenziali, livelli
Cfr. Scordamaglia I., in “Il diritto penale della sicurezza del lavoro tra i principi di prevenzione
e di precauzione”, in “Dir. Pen. Cont.”, 2012.
265
Sull’argomento si è particolarmente concentrato Ludovico G., in “Tutela
previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità
civile del datore di lavoro”, 2012; in particolare sulle tutele dei lavoratori non a
tempo pieno, ovvero per quei lavori caratterizzati dalla temporaneità vedi Bozzao
P., in “La tutela previdenziale del lavoro discontinuo. Problemi e prospettive del
sistema di protezione sociale”, 2005.
267
Sul tema è ampio e preciso il recentissimo commento di Natullo G., in “Salute e
sicurezza sul lavoro”, 2015.
266
che di norma sono superiori nel primo caso. Tutto ciò in quanto le prestazioni
assistenziali sono espressione tipica del puro legame della solidarietà
generale, tendendo quindi a consentire alla “Persona” di raggiungere il
bisogno minimo vitale, affermando il primo comma del suddetto art. 38 Cost.
che il cittadino ha diritto al mantenimento e all'assistenza sociale nel caso in
cui sia inabile al lavoro o sprovvisto dei mezzi necessari per vivere.
Le prestazioni previdenziali, invece, essendo legate ad una solidarietà
di gruppo e ad una mutualità obbligatoria, perseguono l’obiettivo di garantire
mezzi adeguati alle esigenze di vita del lavoratore.
L’assetto della tutela prefigurato dall’articolo 38 è stato efficacemente
rappresentato e riassunto dalla Corte Costituzionale laddove ha affermato che
"l'assicurazione, nei limiti di cui sopra, è parte integrante del sistema
generale di sicurezza sociale previsto dall'art. 38 della Costituzione,
disposizione che, come questa Corte ha già avuto occasione di rilevare,
configura due modelli strutturalmente e qualitativamente distinti: l'uno
fondato sulla solidarietà collettiva, garantisce ai cittadini, ove alcuni eventi
si accompagnino accertate situazioni di bisogno, i mezzi necessari per
vivere; l'altro, suscettibile di essere realizzato mediante gli strumenti
mutualistico-assicurativi, attribuisce ai lavoratori, prescindendo da uno
stato di bisogno, la diversa e più elevata garanzia del diritto a mezzi adeguati
alle loro esigenze di vita"268.
L’esigenza di attuazione dei principi costituzionali sopra citati pone in
capo al datore di lavoro la responsabilità derivante dall’esercizio dell’attività
imprenditoriale.
La responsabilità del datore di lavoro269, come già in precedenza
rilevato, sorge quando egli non abbia osservato gli obblighi derivanti dalle
norme intese a garantire la tutela del lavoratore. In sostanza, sul datore di
lavoro gravano tre tipi di responsabilità: civile, penale e amministrativa.
Norma fondamentale per l’attribuzione della responsabilità civile è
l’art. 2087 del Codice civile, che recita: “L’imprenditore è tenuto ad adottare
nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”. La norma appare a contenuto
Cfr. Sent. n. 17/1995; in senso conforme, precedentemente sent. n.312/1986 e
cfr. INAIL, “Infortuni e malattie professionali”, 2014; Perulli A. e Brino V., in
“Sicurezza sul lavoro. Il ruolo dell'impresa e la partecipazione attiva del
lavoratore”, 2012.
269
L’argomento affrontato nel precedente capitolo, fa comprendere come sia vasto
il campo di applicazione della responsabilità che può tangere sia sanzioni
amministrative, risarcitorie come anche sanzioni penali. Sull’argomento si sono
interessati molti autori, in particolare cfr. Franco M., in “Diritto alla salute e
responsabilità civile del datore di lavoro”, 1995; Belligoli G. e Perdonà G., in “La
responsabilità civile del lavoratore subordinato verso il datore di lavoro”, 2012;
De Matteis A., in “Le responsabilità del datore di lavoro”, 2013;
268
aperto,
limitandosi
a
riportare
generici
parametri,
cionondimeno,
dall’applicazione della disposizione trovano origine e giustificazione le
norme speciali in materia di sicurezza sul lavoro e di malattie professionali,
nonché la responsabilità penale del datore di lavoro in base all’art. 40 del
Codice penale. L’art. 40 c.p., come già sottolineato nel primo capitolo,
prescrive che “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge
come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza del
reato, non è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un
evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”. Ne
consegue che dall’occorrenza dell’infortunio professionale o dalla malattia
professionale può emergere a carico del datore di lavoro la responsabilità
penale270 – ad esempio per omicidio colposo, lesioni colpose – qualora per
colpa o dolo non abbia rispettato la normativa civilistica e speciale in materia.
A tal proposito, è bene rilevare che il datore di lavoro è esonerato dalla
responsabilità civile271 nei confronti del lavoratore, il quale ha comunque
Sulla responsabilità penale derivante dalla violazione degli obblighi dei datori di
lavoro cfr. Morrone A., in “Diritto penale del lavoro. Nuove figure e questioni
controverse”, 2009; Giunta F. e Micheletti D., in “Il nuovo diritto penale della
sicurezza nei luoghi di lavoro”, 2010; Deidda B. e Gargani A., in “Reati contro la
salute e la dignità del lavoratore”, 2012; Fiasconaro L. e Di Trocchio G., in
“Disciplina penale della sicurezza sul lavoro e responsabilità amministrativa degli
enti”, 2013; D’Altilia L., in “Il rischio penale nei rapporti di lavoro”, 2015.
271
Cfr. Cass. Sez. Lav. n. 12201 del 6 giugno 2011. Inoltre cfr. Arena M. e Cui S.,
in “I reati sul lavoro. Sicurezza e igiene del lavoro, nuovo reato di «caporalato»,
tutela e libertà del lavoratore, risarcimenti”, 2012; Ludovico G., in “Tutela
270
diritto all’indennizzo, ma a carico dell’ente assicuratore pubblico, cioè
l’INAIL, a meno che il datore di lavoro abbia riportato condanna penale per
il fatto dal quale l’infortunio è derivato, o in giudizio sia stato rilevato che
l’infortunio è avvenuto per fatto imputabile a coloro che egli abbia incaricato
della direzione e sorveglianza, o ad altri suoi dipendenti, per delega o
attribuzione legata a mansione.
Da quanto sopra, si può affermare che la responsabilità del datore di
lavoro per l’occorrenza degli infortuni sul lavoro e l’insorgenza della malattia
professionale attraversa aspetti civilistici e penali, originanti dal
comportamento colpevole o doloso, per la cui qualificazione assume
fondamentale rilevanza l’osservanza delle norme speciali.
Le disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro sono contenute nel
precedentemente citato D.Lgs. n. 81/2008272 e nel successivo decreto
correttivo, il D.Lgs. n. 106/2009273.
previdenziale per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e responsabilità
civile del datore di lavoro”, 2012.
Il testo unico riunisce tutta la normativa in materia di sicurezza e salute del
lavoratore in ambito lavorativo. Il decreto mira alla tutela del lavoratore e del lavoro
sotto ogni aspetto e in ogni ambito, sia privato che pubblico.
273
Le novità apportate da questo decreto modificativo del decreto 81 del 2008 sono:
patente a punti per le imprese dei settori a rischio, aumento della prevenzione,
valutazione della sicurezza nei luoghi di lavoro in maniera più celere, infine viene
rivista il quadro complessivo delle sanzioni. Inoltre l’attività aziendale è sospesa se
vi è un impiego di lavoratori irregolari, se l’impiego supera o è pari al 20% dei
272
La logica di fondo che ispira il D.Lgs. 81/2008 è rappresentata dal
passaggio da una concezione fondata su misure destinate all’abbattimento
delle situazioni di pericolo, ad una visione più ampia di individuazione di
tutti i rischi e della loro minimizzazione. L’introduzione nel nostro
ordinamento giuridico di una prospettiva della prevenzione delle malattie
professionali e degli infortuni, basata sulla gestione globale dei rischi, è la
conseguenza della consapevolezza che la progressiva complessità dei
modelli produttivi e la coesistenza di molteplici fattori rende sempre più
difficoltosa la capacità di distinguere cause univoche alle quali associare
l’origine degli eventi e le misure concrete per prevenirli.
Il fulcro della disciplina è costituito, di conseguenza, dall’obbligo di
predisporre procedure volte alla valutazione dinamica dei rischi, mediante la
redazione del documento di sicurezza aziendale redatto dalle figure alle quali
la norma assegna delicati ruoli e responsabilità274. Infatti, un’altra importante
caratteristica del decreto è di distinguere differenti soggetti ai quali è affidata
lavoratori impiegati nell’attività e per gravi e reiterate violazioni delle normative
sulla tutela e sicurezza del lavoro.
Cfr. Marando G., in “Responsabilità, danno e rivalsa per gli infortuni sul
lavoro” (edizioni Giuffrè collana Teoria pratica dir. I: Diritto e procedura civile),
2003; in particolare sulla questione cfr. Iarussi D., in “Risarcimento dei danni per
infortuni sul lavoro. Le azioni processuali”, 2015.
274
la gestione complessiva della sicurezza sul lavoro, cioè le posizioni di
garanzia275 che devono impedire il verificarsi degli eventi dannosi.
In particolare, la norma in parola fornisce la definizione di datore di
lavoro e prevede altri soggetti gravati da compiti di rilievo, la cui operatività
è in parte definita nell’ambito delle deleghe ricevute. Affinché la delega
possa rilevare sul piano penale è necessario che il delegato sia formalmente
dotato di una delega scritta, possegga autonomia e di poteri congrui ai
compiti da svolgere e abbia adeguata qualificazione tecnica.
I soggetti previsti dal d.lgs. sono il datore di lavoro, il dirigente, il
preposto ed il lavoratore276. I datori di lavoro, i dirigenti e i preposti devono
nell’ambito delle rispettive attribuzioni e competenze:
275
Il commento di Minnella M. L. alla sentenza Cass. pen., Sez. IV, ud. 23.11.12
(dep. 21.12.12), n. 49821, Pres. Marzano, Est. Blaiotta, Ric. Lovinson, prova a
chiarire le posizioni di “garante” assunte dai datori di lavoro nei confronti dei
lavoratori. In particolare dell’articolo desta molto interesse il secondo paragrafo:
“La posizione di garanzia e l'interruzione del nesso causale”, in cui viene affermato
che “I giudici evidenziano anzitutto come, nell'ambito della sicurezza sul lavoro, la
figura del garante non è legata soltanto ai reati omissivi impropri (commissivi
mediante omissione) ex art. 40, 2° comma, cod. pen., ma rileva in concreto anche
in ipotesi di condotte attive”, in “Dir. Pen. Cont.”, 2013.
Ai soggetti nel testo individuati, rilevanti ai fini di stabilire la responsabilità
penale e civile, devono aggiungersi: il responsabile del servizio di prevenzione e
protezione (RSPP). Il servizio di prevenzione e protezione è costituito dall’insieme
delle persone, sistemi e mezzi esterni o interni all’azienda, finalizzati all’attività di
prevenzione e protezione dai rischi professionali per i lavoratori. Il responsabile è
designato dal datore di lavoro e deve possedere capacità e requisiti professionali
adeguati. Le prerogative del Servizio riguardano l’individuazione e valutazione dei
fattori di rischio, l’elaborazione delle procedure e delle misure da proporre ai
276
 Attuare le misure di sicurezza previste dal decreto;
 Rendere edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti e portare a loro
conoscenza le norme essenziali di prevenzione mediante affissione o con altri
mezzi, negli ambienti di lavoro, di estratti delle norme contenute;
 Disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza
ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione.
Nelle imprese o enti a organizzazione complessa e differenziata,
l’individuazione dei soggetti destinatari in materia di prevenzione degli
infortuni deve essere effettuata non basandosi sulle qualifiche astratte ma
facendo presa sulla ripartizione di fatto delle specifiche competenze.
Il datore di lavoro è il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il
lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l’assetto
dell’organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha
la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva, in quanto
esercita i poteri decisionali di spesa. La definizione inquadra il datore di
lavoro in maniera più estesa di quanto deducibile dalla prescrizione
codicistica, giacché è considerato datore di lavoro, ai fini della sicurezza del
responsabili, alla predisposizione dei programmi di formazione. Gli altri soggetti le
cui funzioni sono disciplinate sono il medico competente e la rappresentanza dei
lavoratori per la sicurezza (RLS).
lavoro, chi risulta realmente titolare dei poteri decisionali e di spesa e che
agisce sull’intera organizzazione277.
Al datore di lavoro sono assegnati compiti fondamentali e come tali non
delegabili, in primis, la valutazione dei rischi e la stesura del documento di
valutazione. Inoltre, al datore di lavoro, che per quanto sopra commentato,
può anche essere il dirigente dotato di autonomia, di uno stabilimento nelle
imprese con più unità produttive, spetta la designazione del responsabile del
servizio di prevenzione e protezione.
Di rilievo in materia le molteplici pronunce della Cassazione278 che ha
chiarito che le norme dettate a tutela del lavoratore vanno attuate anche
contro la volontà di questi, per cui risponde della violazione il datore di
277
In particolare in materia di responsabilità degli enti riguardo la sicurezza sul
lavoro cfr. Trib. Milano, 26 giugno 2014, VI Sezione penale, Giud. Dott. Raffaele
Martorelli; Corte d'Appello di Milano, Sez. V, sent. 24 novembre 2015, Pres.
Carfagna, sulla sentenza vedi anche il commento di Ferrucci C., in “Dir. Pen.
Cont.”, 2016.
278
Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 19 marzo 2015 (dep. 8 giugno 2015), n. 24452, Pres.
Brusco, Rel. Blaiotta, ric. Fontanin, in particolare il commento di Perin A., in “Dir.
Pen. Cont.”, 2015; Sezione IV penale - Sentenza n. 43425 del 28 ottobre 2015; sulla
responsabilità dell'imprenditore per la mancata applicazione dell'art. 2087 cc Sezione IV penale - Sentenza n. 46979 del 26 novembre 2015; Inoltre sull'autonoma
responsabilità del direttore tecnico di cantiere e del capocantiere vedi Cass. Pen.
Sez. IV, sentenza n. 2539 del 3 dicembre 2015. Di maggior rilievo, spicca la
sentenza n. 3786 del 26 gennaio 2015 sulla non automatica responsabilità del
soggetto garante della sicurezza sul lavoro.
lavoro che non attui la necessaria sorveglianza, a meno che la condotta non
sia caratterizzata da abnormità, inopinabilità ed eccezionalità.
Se la figura del datore di lavoro è necessaria, quella di dirigente o
preposto è invece rinvenibile soprattutto nelle aziende medio-grandi. Il
dirigente è la persona che, in ragione delle competenze professionali e di
poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell’incarico conferitogli,
attua le direttive del datore di lavoro organizzando l’attività lavorativa e
vigilando si di essa (art. 2 c1 lett. d). In base all’art. 18, in capo al datore di
lavoro e ai dirigenti che organizzano e dirigono le attività secondo le
competenze e le attribuzioni ad esse conferite, sono posti numerosi obblighi
inerenti l’adozione delle misure di sicurezza e di emergenza e l’adempimento
dei doveri di formazione del personale.
Il preposto, invece, è persona che, in ragione delle competenze
professionali e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura
dell’incarico conferitogli, sovrintende all’attività lavorativa e garantisce
l’attuazione delle direttive ricevute, controllandone la corretta esecuzione da
parte dei lavoratori ed esercitando un funzionale potere di iniziativa (art. 2 l.
e). Da ciò si evince che il preposto non ha il compito di stabilire le necessarie
misure di prevenzione, ma di imporre l’osservanza delle disposizioni
predisposte dal datore di lavoro e dai dirigenti279.
Per quanto detto, il preposto deve:
 Sovrintendere e vigilare sull’osservanza degli obblighi di legge e delle
disposizioni aziendali e dell’uso dei mezzi di protezione messi a
disposizione;
 Informare i diretti superiori del persistere delle inosservanze;
 Verificare che ai lavori più pericolosi siano esposti solo lavoratori
adeguatamente istruiti;
 Segnalare tempestivamente le deficienze dei mezzi disponibili e di ogni altra
condizione di pericolo;
 Frequentare gli appositi obblighi di formazione.
Il preposto ha compiti limitati alla mera sorveglianza sull’andamento
dell’attività lavorativa, per cui, a meno di una delega formale
inequivocabilmente conferita con pienezza di poteri ed autonomia, non si
attua il trasferimento degli obblighi e delle responsabilità proprie del datore
di lavoro, rimanendo a suo carico i doveri di vigilanza, di impiego dei mezzi
Cfr. D’Avirro A. e Lucibello P. M., in “I soggetti responsabili della sicurezza
sul lavoro nell'impresa. Datori di lavoro, dirigenti, committenti, responsabili dei
lavori e coordinatori”, 2010; Veltri A., in “I soggetti garanti della sicurezza nei
luoghi di lavoro”, 2013; Porpora A., in “Il preposto, il datore di lavoro ed i dirigenti
nella sicurezza sul lavoro”, 2014.
279
previsti per la realizzazione delle attività produttive e di impedire che
comportamenti dei lavoratori non conformi creino situazioni di pericolo280.
Ulteriore elemento qualificante la normativa in materia di sicurezza sul
lavoro è la definizione di lavoratore che accoglie tutti coloro che si
inseriscono in un ambiente di lavoro a prescindere dal sottostante rapporto
formale. L’art. 2 definisce lavoratore la persona che indipendentemente dalla
tipologia
contrattuale
svolge
un’attività
lavorativa
nell’ambito
dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza
retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una
professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici e familiari. In una visione
sistemica e partecipativa della sicurezza sul lavoro al lavoratore sono posti
obblighi di concorrere alla definizione delle misure da adottare e di
partecipare alle iniziative di formazione. Inoltre, il lavoratore deve astenersi
dal compiere di propria iniziativa operazioni o quanto altro crea situazioni di
pericolo per sé e per altri lavoratori.
Cit. Porpora A.: “Partendo da una premessa fondamentale: il D.Lgs. 81/08 e
s.m.i. ed il sistema prevenzionistico che da esso ha preso nuova forma (es.
Provvedimenti di semplificazione del 2014) non è un sistema di divieti, bensì un
sistema di gestione di tutte le attività lavorative per ridurre al minimo i rischi, che
include il necessario corollario di controlli e vigilanza. L’evento lesivo, sia della
salute (la malattia, ivi incluso lo stress), sia della sicurezza (l’infortunio), sia della
dignità (il mobbing, ad esempio), si può sempre realizzare dal momento che è
strettamente connesso all’impiego delle risorse umane”, in “Il preposto, il datore
di lavoro ed i dirigenti nella sicurezza sul lavoro”, 2014.
280
2. Regimi di tutela civile e penale dei danni
da esposizione all’amianto. La sentenza
della Cassazione sul caso ETERNIT.
I riflessi giuridici connessi agli avvenimenti che hanno al centro
l’esposizione all’amianto si caratterizzano per la loro trasversalità rispetto a
plurimi settori dell’ordinamento giuridico. Inoltre, intorno a questo tema si
ripropongono delicati quesiti in ordine alla capacità delle disposizione di
legge di intercettare le nuove istanze sociali, sempre più sensibili verso la
garanzia dei fondamentali diritti di sicurezza sul lavoro e di tutela della salute
pubblica.
Un aspetto di particolare delicatezza riguarda gli indirizzi che
connotano la dottrina e la giurisprudenza giuslavorista, da un lato, e penale,
dall’altro, laddove i pronunciamenti intesi al riconoscimento della
responsabilità civile sembrano più sensibili all’accoglimento delle
aspettative che emergono nel complesso sociale. Di converso, il dibattito
penale e gli esiti processuali risentono delle difficoltà di integrare i concetti
fondamentali che emergono, la colpa, il nesso causale e il danno alla
persona281. In sostanza, si stenta a trovare una convergenza tra i criteri di
giudizio delle tutele, considerando, tra l’altro, come già visto, che
l’intervento risarcitorio dell’INAIL esonera la responsabilità del datore di
lavoro, salvo il fatto penalmente rilevante.
In sede civile, come si è già sottolineato, gli obblighi a carico del datore
di lavoro ex art. 2087 c.c.282, sono considerati in stretta correlazione con i
fondamentali dettati costituzionali in materia di lavoro e di tutela della
persona e della salute pubblica. Ciò ha consentito di ancorare la
responsabilità civile del datore di lavoro nell’ambito contrattuale, ex art.
1218 c.c., che regola il caso di inadempimento. Ne deriva che al datore di
lavoro viene addebitato il danno arrecato, anziché la condotta inadempiente
o l’evento lesivo, con tutte le conseguenze sul piano probatorio283. Il riparto
degli oneri probatori e i criteri di verifica della responsabilità datoriale “si
pongono negli stessi termini dell’inadempimento delle obbligazioni
“Il rispetto dei canoni comporta nella gran parte dei casi, l’esclusione della
responsabilità penale. Diverso problema e soluzioni potenzialmente diverse
potranno, ovviamente, trovare questi casi in sede civile” cit. Stortoni L., in
“Amianto: ragioni e limiti della tutela penale”, in Montuschi L. e Insolera G., a
cura di “Il rischio da amianto. Questioni sulla responsabilità civile e penale”, 2006.
282
Vedi Capitolo III.
283
Cit. Tullini B., in “L’azione risarcitoria da esposizione all’amianto: obblighi di
protezione e sicurezza ex art. 2087 c.c., la risarcibilità del danno differenziale, la
regola dell’esonero”, in “Bozza Scuola Superiore della Magistratura”, 2015.
281
contrattuali”284, per cui sarebbe l’accertamento stesso del danno a rendere
probabile l’illecito e la responsabilità del datore (probabilità semplice, più
probabile che non).
E’ pur vero che la responsabilità ex art. 2087, come si evince da plurime
interpretazioni giurisprudenziali285, non ha un carattere oggettivo, per cui al
datore di lavoro non possono essere imputati tutti i fatti che arrecano un
danno, sulla presunzione di un obbligo assoluto di protezione. La norma
sottolinea la necessità di assicurare in ambito lavorativo la massima
attenzione ai profili di sicurezza e protezione, soprattutto nei casi di
particolare rischio come quelli derivanti dall’utilizzo dell’amianto. Quindi,
l’azione risarcitoria impone al lavoratore di provare il danno, la correlazione
con un ambiente nocivo e il nesso con la condotta colposa del datore.
Il datore, ex art. 2087 c.c., dovrà dimostrare di aver adempiuto tutte le
prescrizioni previste nel caso di esposizione all’amianto e di aver predisposto
con la diligenza richiesta tutte le misure tecnologicamente possibili e
acquisite nella prassi286.
Cfr. Cass. Lav., n. 1477, 24 gennaio 2014.
Cfr. Corte di Cassazione - Sezione Lavoro, Sentenza 2 settembre 2015, n. 17438;
Corte di cassazione sez. lav. 27 febbraio 2015 n. 3989; Cassazione Civile Lavoro Sentenza n. 2626 del 5 febbraio 2014 - Ric. Omissis; Cass., sez. lav., 7 giugno 2013,
n. 14468 Pres. Vidiri; ReL. Bandini; P.M. Sepe; Ric. N.C.; Res. O.P.B.G.; Corte di
Cassazione, sez. Lavoro, sentenza 22 ottobre 2013 – 22 gennaio 2014, n. 1312.
286
Cfr. Cass. Lav. N. 6337 23 aprile 2012.
284
285
Di conseguenza la mancanza delle misure standard di protezione dal
rischio amianto, già desumibili dalle norme in materia che sin dalla metà
degli anni ’50 hanno imposto particolari trattamenti, porta a riconoscere il
comportamento colposo del datore287.
La tutela penale nei casi di esposizione all’amianto assume contorni
molto più complessi, in considerazione, innanzitutto, della personalità della
responsabilità penale. Ne consegue che la responsabilità penale non può
essere imputata a un soggetto per fatto altrui288, e, soprattutto, la sanzione
penale presuppone che l’agente abbia attuato il fatto di reato almeno a titolo
di colpa. Quindi, se un qualunque elemento di lesività della fattispecie non
fosse integrato dal dolo o dalla colpa, verrebbe meno il legame tra il fatto e
il suo possibile autore, con esso il carattere della personalità della
responsabilità penale289.
Tale attributo dell’azione penale va posto in relazione con la circostanza
che le interpretazioni giurisprudenziali devono fronteggiare una materia
caratterizzata da incertezza sul piano della prova scientifica circa i possibili
Nei precedenti capitoli è stato specificato come già nel secondo dopo guerra
l’amianto fosse considerato una sostanza tossica e nociva per l’uomo. Dunque già
all’ora vi erano i presupposti per un’azione contro i responsabili.
288
Ai sensi dell’art. 27 comma 1 della Costituzione la responsabilità penale è
personale.
289
Cfr. Di Amato A., in “Codice di diritto penale delle imprese e delle società”,
2011.
287
effetti dannosi; vale a dire della dimostrabilità del nesso causale in sede
penale290.
E’ stata richiamata, a tal proposito, in modo autorevole, la necessità di
tenere separate le problematiche che emergono per le ragioni appena
sottolineate, cioè il riconoscimento della colpa e il nesso causale291.
L’esempio riportato nel lavoro citato chiarisce i termini della questione,
riproducendo il caso di un datore di lavoro che, senza adottare nessuna delle
doverose misure di prevenzione per evitare la diffusione delle polveri
d’amianto nell’ambiente di lavoro292, abbia esposto i lavoratori per anni alle
polveri; in seguito, un lavoratore si ammala di tumore polmonare.
Nel giudizio di casi come questi, i magistrati spesso ritengono provato
il nesso di causalità tra esposizione e insorgenza del tumore. In realtà, ciò che
è certo è il comportamento colposo del datore per non aver adottato le misure
precauzionali, mentre rimane del tutto indimostrato il nesso di causalità con
la malattia, considerando, oltretutto, che trattasi di evento patologico la cui
origine è comprovata essere di natura multifattoriale.
Vedi Capitolo I.
Cfr. Deidda B., in “Causalità e colpa nella responsabilità penale nei reati di
infortunio e malattia professionale”, in “Working paper Olympus”, 2013.
292
Cosi come per l’amianto, va ricordato che, anche per ogni tipo di esposizione ad
ogni tipo di polveri il datore di lavoro è responsabile. Infatti la legge è chiara nel
tutelare il lavoratore da ogni possibile contatto con sostanze dannose che possono
comportare un grave danno alla salute dei lavoratori.
290
291
Con riferimento al tema del nesso causale, un passo avanti è stato
compiuto con la sentenza Franzese in materia di certezza della prova,
stabilendo il percorso che deve essere attuato nella ricostruzione della
fattispecie, indirettamente agendo sulle garanzie per l’imputato293.
La sentenza àncora l’accertamento del nesso causale al concetto di
elevata probabilità logica – pur allontanandosi dalla dominante “tesi
dell’aumento del rischio”294 – o credibilità razionale. La credibilità razionale
ha un ruolo decisivo sia nell’accertamento probatorio sia nella ricostruzione
dell’ipotesi di reato, al fine di verificare la responsabilità individuale.
D’altra parte, c’è da rilevare che nei casi di malattia professionale e in
particolare di esposizione all’amianto, il paradigma del nesso causale è
condizionato
in
modo
ragguardevole
dall’incertezza
delle
leggi
scientifiche295.
Da un lato si tende a considerare il mesotelioma pleurico come una
patologia “dose-dipendente”, nel qual caso è importante il tempo di
esposizione alle polveri d’amianto; d’altro lato, si ritiene fattore scatenante
della patologia anche una esposizione temporanea e di breve durata, “dose-
Cass. Pen. SS.UU., n. 30328, 11 settembre 2002.
Vedi Capitolo II.
295
Cass. Pen., n.38991, 4 novembre 2010, sentenza Quagliarini.
293
294
killer”. Nel primo caso, tutti i soggetti che hanno provocato per un lungo
periodo di tempo la diffusione e l’esposizione alle polveri, potrebbero essere
chiamati a rispondere dei reati imputati; nel secondo caso, occorre
l’accertamento del momento nel quale la malattia è stata scatenata,
individuando il presunto responsabile.
L’argomento è stato affrontato nel Capitolo II, e si è visto come in realtà
la giurisprudenza abbia accolto la tesi della malattia come dose-dipendente,
in cui ogni esposizione successiva alla prima – che può essere stata quella
che ha fatto nascere la patologia – è comunque responsabile di un ulteriore
aggravamento296.
Nella “sentenza Quagliarini” la Cassazione ha stabilito che il giudice
deve motivare l’adozione di una determinata legge scientifica di copertura e
deve motivare perché è stata ritenuta appropriata. Considerando poi che la
sentenza Franzese obbliga ad adottare un percorso logico fondato sulla
elevata credibilità razionale in base al quadro probatorio del caso concreto, il
Questo perché la scienza medica ha dichiarato nocive quelle esposizioni che,
seppur successive alla prima scatenante, vanno ad abbreviare la latenza della
malattia, o aggravano la stessa in altri modi. La tesi della dose-killer è una certezza
medico-legale ben appurata, infatti è possibile che una sola fibra di amianto o una
sola esposizione ad altra sostanza nociva può indurre alla nascita della malattia;
tuttavia la comunità medica è anche d’accordo nell’affermare la sussistenza della
nocività delle esposizioni successive alla prima, dunque, automaticamente crolla la
tesi della dose-killer.
296
giudice deve anche escludere l’esistenza di leggi scientifiche alternative in
grado di spiegare l’evento.
In concreto, quando non sussistono leggi scientifiche univoche e
condivise, universali, che consentono di stabilire con certezza il nesso
causale, si apre lo spazio alle leggi statistiche, probabilistiche, e alle
rilevazioni epidemiologiche, il cui grado di razionalità e di certezza è tutto
da dimostrare. La conseguenza è il rischio di violare il principio delle
responsabilità personale.
Meno problematici sono gli aspetti connessi al riconoscimento della
colpa, considerando che la prevedibilità dell’evento consente di imputare
l’evento dannoso all’agente, ex art. 43 c.p.297.
Ai sensi dell’articolo 43 c.p., la responsabilità penale è sempre configurata con
dolo, a meno che non è previsto diversamente dalla legge. Nell’affermare che
“il delitto: è doloso, o secondo l'intenzione, quando l'evento dannoso o pericoloso,
che è il risultato dell'azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l'esistenza
del delitto, è dall'agente preveduto e voluto come conseguenza della
propria azione od omissione”, il codice lascia ampio spazio alla fantasia, infatti in
dottrina sono nate più tesi riguardo l’interpretazione del primo comma. Sul tema
cfr. Garofalo L., in “L' Eccezione di dolo generale. Applicazioni giurisprudenziali
e teoriche dottrinali”, 2006; Demuro G. P., in “Il dolo”, in “Collana: studi di diritto
penale”, 2010; Cerquetti G., in “Il dolo”, 2010.
L’articolo spiega anche come e quando si configura il reato per colpa e
preterintenzione, a riguardo cfr. Monateri G. P., Arnone M. G. e Calcagno N., in “Il
dolo, la colpa e i risarcimenti aggravati dalla condotta”, 2014; Franzoni M., in
“Dalla colpa grave alla responsabilità professionale”, 2011; Manna A., in “Corso
di diritto penale. Parte generale”, 2015.
297
Per cui, di fronte all’acclarata associazione tra esposizione all’amianto
e mesotelioma e alla conseguente prescrizione di norme cautelari consolidate
nel tempo, non si può ricorrere all’ignoranza o all’imprevedibilità
dell’evento, per sottrarsi all’imputazione di colpa. Semmai, l’agente deve
dimostrare che anche l’applicazione delle norme precauzionali non avrebbe
impedito l’insorgere dell’evento patologico.
Come visto nel Capitolo II, i processi chiamati ad accertare le
responsabilità in materia di amianto hanno tradizionalmente applicato l’art.
589 c.p., omicidio colposo, o il reato di lesioni colpose, art. 590 c.p.. Una
diversa qualificazione giuridica ha caratterizzato l’imputazione nel caso
ETERNIT presso il Tribunale di Torino nei primi gradi e giunto in
Cassazione che con sentenza della prima sezione penale n. 7941 del 23
febbraio 2015, ha stabilito la prescrizione dei reati addebitati ai proprietari
della multinazionale298.
Greco F. in un articolo del Sole 24 ore spiega perfettamente il caso: “Il reato
ipotizzato, disastro ambientale, è al centro delle due diverse letture: quella della
Procura di Torino, con il pool di Raffaele Guariniello, accolta dai giudici del
capoluogo piemontese sia in primo che in secondo grado, che rimanda alla
interpretazione di disastro come reato in atto fino a che non vi saranno vittime
dell’amianto; e la lettura, diametralmente opposta, fatta dalla procura generale
presso la Cassazione, che prevede invece la prescrizione del reato e dunque
l’annullamento della sentenza”, in “Sole24ore”, 2014.
298
La decisione ha provocato un vivace dibattito data la circostanza che è
stata negata l’adeguata tutela giurisdizionale alle migliaia di persone
coinvolte, pregiudicando ogni azione risarcitoria.
I processi avviati dalla Procura di Torino contro i vertici della
ETERNIT che al momento della messa al bando dell’amianto nel 1992 era il
maggiore gruppo industriale su scala europea nella produzione di amianto.
Le parti civili tra persone fisiche e rappresentanze della collettività erano
addirittura 6.300, e nonostante proposte di risarcimento giunte dai due
imputati, avevano deciso di proseguire la strada del dibattimento per giungere
al riconoscimento della colpevolezza.
Peraltro, a differenza di quanto in passato avvenuto nella generalità dei
casi, la Procura ha fondato l’accusa sulla base delle previsioni degli artt. 434
e 437 del c.p.. L’art. 434 recita: “Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi.
Chiunque…commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione
o di una parte di essa ovvero un altro disastro, è punito, se dal fatto deriva
pericolo per la pubblica incolumità, con la reclusione da uno a cinque anni.
La pena è della reclusione tra tre e dodici anni se il crollo o il disastro
avviene”. L’art. 437, invece, concerne la rimozione od omissione dolosa di
cautele contro gli infortuni: “Chiunque omette di collocare impianti,
apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro,
ovvero li rimuove o li danneggia, è punito con la reclusione da sei mesi a
cinque anni. Se dal fatto deriva un disastro o un infortunio, la pena della
reclusione è da tre a dieci anni”.
Occorre rimarcare che nel caso in specie l’avvenuta prescrizione è
giunta non certo a causa dei consueti tempi lunghi dei dibattimenti,
considerando che la pronuncia della Cassazione è avvenuta a distanza di
quattro anni dall’inizio del processo di primo grado.
La causa della prescrizione consegue all’individuazione del momento
della consumazione dei reati contestati299. La scelta operata dalla Procura di
Torino è stata quella di addebitare il reato previsto dall’art. 434 che
nell’interpretazione della Cassazione, trattasi di reato di pericolo e, quindi, a
consumazione anticipata. Per cui, la rilevanza penale si conclude con la
cessazione del comportamento doloso che, nel caso in esame, si è conclusa
con la chiusura dello stabilimento avvenuta nel 1986. Ne consegue che il
periodo di prescrizione, 15 anni, è già decorso anzi, nelle considerazioni della
Cassazione, i processi non avrebbero dovuto tenersi per sopraggiunta
prescrizione del reato ascritto agli imputati. La Procura di Torino ha riaperto
La prescrizione di questi reati è stata affrontata nel secondo Capitolo
dell’elaborato, in cui viene chiarito che questo tipo di reati si prescrive in un termine
più breve rispetto ai reati di lesioni ed omicidio colposo. Va ricordato, inoltre, che
gli unici reati che non si prescrivono sono quelli per cui l’ordinamento prevede la
pena dell’ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti.
299
il caso sulla base, però, dei reati tradizionalmente imputati nei casi di
esposizione all’amianto – 589 e 590 c.p. – la cui prescrizione è più lunga,
lasciando perciò ancora aperta una questione la cui rilevanza sociale è
dimostrata dalla risonanza che ha avuto la sentenza300.
La stessa Procura di Torino, peraltro, in altro dibattimento il cui impatto
sulla pubblica opinione è stato di forte intensità, ha accusato gli imputati del
reato di omicidio colposo e, nel caso del principale imputato,
l’amministratore delegato della Thyssenkrupp Acciai Speciali Terni Harold
Espenhahn, di omicidio volontario, in combinazione, per tutti, di altri reati
minori.
Il noto e drammatico episodio delittuoso avvenne nel dicembre del 2007
per effetto della formazione di una nuvola incandescente nello stabilimento
torinese del gruppo, che causò la morte di sei operai e lesioni gravi in altri
addetti.
In primo grado il Tribunale accolse le tesi dell’accusa, confermando per
l’amministratore delegato l’omicidio volontario con dolo eventuale. In
secondo grado l’accusa fu derubricata ad omicidio colposo escludendo il dolo
Cfr. Mossano S. e Brambilla M., in “Morire d'amianto. Il caso Eternit: la
fabbrica, le vittime, la giustizia”, 2012. Castronuovo D., in “Il caso ETERNIT. Un
nuovo paradigma di responsabilità penale per esposizione a sostanze tossiche?”,
in “Lalegislazionepenale.eu”, 2015.
300
eventuale e riducendo le pene comminate, nonostante in dibattimento fosse
emersa la consapevolezza dei rischi derivanti dall’esercizio di impianti
degradati. Il ricorso, sia da parte dell’accusa sia delle difese, ha portato il caso
all’esame della Suprema Corte, che ha dovuto pronunciarsi su di un tema
rilevante sul piano penale, ovvero la sottile differenza tra dolo eventuale e
colpa cosciente301.
La sentenza 24 aprile 2014, n. 38343 delle Sezioni Unite della Corte di
Cassazione, in merito al caso Thyssenkrupp, si sofferma su un argomento
contrastato, dolo eventuale, che diventa un'ipotesi marginale che può essere
contestata soltanto a chi abbia avuto piena consapevolezza delle conseguenze
concrete del proprio comportamento e, ciò nonostante, abbia deciso di agire
lo stesso. Casi da provare in modo rigoroso, che impongono al giudice
un'analisi accurata del fatto, delle circostanze ma, anche, della dimensione
psicologica. Ipotesi residuali rispetto alla colpa cosciente, in cui manca la
volontà di provocare l'evento, anche se si prevede che possa verificarsi.
Per uno dei problemi che sono stati più dibattuti in dottrina cfr. Pastore F. e
Scodnik N., in “La labile differenziazione tra dolo eventuale e colpa cosciente (caso
Thyssenkrupp)”, in “Sole24ore”, 2014; Canestrari S., in “Dolo eventuale e colpa
cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose”,
1999; Viganò F., in “Il dolo eventuale nella giurisprudenza recente”, in “Libro
dell’anno del diritto 2013”, 2013; Continello A., in “Differenziazione tra dolo
(eventuale) e colpa (cosciente), alla luce di un noto caso giudiziario (sentenza
ThyssenKrupp)”, in “Diritto.it”, 2014.
301
Le Sezioni Unite hanno confermato la responsabilità degli imputati per
omicidio colposo – escludendo, quindi, l’ipotesi di omicidio volontario nella
forma del dolo eventuale – annullando una parte della sentenza di appello e
rinviando ad altra sezione della Corte d’assise d’Appello di Torino per la
rideterminazione delle pene.
L'aspetto più importante, quindi, attiene alla distinzione tra dolo
eventuale e colpa cosciente: secondo la Suprema Corte, “In ossequio al
principio di colpevolezza la linea di confine tra dolo eventuale e colpa
cosciente va individuata considerando e valorizzando la diversa natura dei
rimproveri giuridici che fondano l’attribuzione soggettiva del fatto di reato
nelle due fattispecie”302.
Nella colpa cosciente si è in presenza del malgoverno di un rischio,
della mancata adozione di cautele doverose idonee a evitare le conseguenze
pregiudizievoli che caratterizzano l’illecito. Continuando, i giudici di
legittimità affermano: “Il rimprovero è di inadeguatezza rispetto al dovere
precauzionale anche quando la condotta illecita sia connotata da
irragionevolezza,
spregiudicatezza,
disinteresse
o
altro
motivo
censurabile”303. Nel dolo eventuale manca la direzione della volontà verso
Cit. Suprema Corte al termine dell’udienza del 24 aprile 2014.
Cit. della Corte Suprema che al termine dell’udienza del 24 aprile 2014 aveva
pubblicato tali informazioni provvisorie.
302
303
l’evento, anche quando è prevista la possibilità che esso si compia. Ancora
la Corte Suprema si esprime affermando che “Si è in presenza di
organizzazione della condotta che coinvolge, non solo sul piano
rappresentativo, ma anche volitivo la verificazione del fatto di reato.
In particolare, nel dolo eventuale, che costituisce la figura di margine della
fattispecie dolosa, un atteggiamento interiore assimilabile alla volizione
dell’evento e quindi rimproverabile, si configura solo se l’agente prevede
chiaramente la concreta, significativa possibilità di verificazione dell’evento
e, ciò non ostante, si determina ad agire, aderendo a esso, per il caso in cui
si verifichi”. Occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato
con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie
concreta.
A tal fine è richiesto al giudice di cogliere e valutare analiticamente le
caratteristiche della fattispecie, le peculiarità del fatto, lo sviluppo della
condotta illecita al fine di ricostruire l’iter e l’esito del processo decisionale.
I supremi giudici confermano la responsabilità dei manager per il rogo
che nel 2007 costò la vita a sette operai, ma non a titolo di dolo, bensì per
colpa cosciente, affermando come l’adozione di tutte le cautele doverose,
primarie e secondarie, avrebbe certamente evitato il drammatico esito.
La condanna di sedici anni e sei mesi di carcere per l’amministratore
delegato, dai dieci ai tredici per altri cinque dirigenti, è esemplare304. Non
solo rende giustizia ad un diritto – il diritto dei lavoratori – che non è mai
stato rispettato come dovuto, ma crea un punto di partenza per fare
giurisprudenza nei confronti di processi che, seppur minori, hanno come
oggetto la salute di uomini, lavoratori.
304
Carboni L., in “Il dolo eventuale dopo la sentenza Thyssenkrupp”, 2015.
CONCLUSIONI
Il lavoro di tesi ha inteso analizzare dottrina e giurisprudenza in tema di
nesso di causalità nei casi di malattie professionali, in particolare nei casi di
esposizione ad amianto. In particolare, la giurisprudenza della Suprema
Corte, nell’ultimo ventennio, si è impegnata per giungere ad una
interpretazione del nesso di causalità nel rispetto del principio di rilevanza
costituzionale della responsabilità personale.
La rilevanza di tale principio appare in tutta la sua delicatezza in particolari
procedimenti laddove appare irraggiungibile la perfezione quasi utopica
dell’applicazione di metodi incorruttibili e completi per un irreprensibile ed
ineccepibile svolgimento degli stessi processi.
Questi metodi che la giurisprudenza ha ricercato nel corso degli anni, sono
rappresentati dalle leggi di copertura. Dalla sentenza Franzese è, infatti,
derivata la necessità di ricercare la copertura, all’interno di ogni singolo
caso, derivata da spiegazioni scientifiche.
Questo tipo di risultanze scientifiche non devono ritenersi assolute in tutti i
casi simili; infatti, devono essere valutate e di conseguenza applicate ai casi
di specie, in virtù delle risultanze derivate dai quadri probatori emergenti.
L’importanza dell’acquisizione e della valutazione delle prove emerge dalla
sentenza Franzese, chiamando i giudici di legittimità alla costruzione di un
percorso logico e razionale, fondato su leggi scientifiche non solo
probabilistiche, ma sul sapere scientifico comprovato, insieme alle prove
acquisite durante lo svolgimento delle indagini.
Nonostante siano ancora numerose le pronunce seguenti alla Franzese che
contengono principi distanti da quest’ultima, ogni giudice non dovrebbe
astenersi dall’emanare una sentenza con valutazioni precise riguardanti le
esperienze derivate dal caso di specie.
Processi in cui il giudice valuta un caso in base alle presunzioni di media
diligenza o comprensione di un soggetto non sono più sostenute
dall’interpretazione della giurisprudenza della Suprema Corte. Infatti ogni
conclusione dovrebbe derivare da una valutazione sul singolo momento
storico, inquadrato nell’azione o nella omissione dell’imputato, come nel
comportamento della vittima.
La sentenza Franzese, nonostante la pronuncia sia derivata da un processo
in materia di responsabilità medica, ha rappresentato un punto di partenza –
o di ripresa – di una nuova frontiera di applicazione del nesso di causalità in
ogni processo penale.
Le SS.UU., con la pronuncia fin ora richiamata, abbattono il muro della
perfezione processuale derivante da certezze matematiche per approdare su
una certezza derivante, come detto fin ora, dalle prove raccolte più la
copertura della legge scientifica inerente al caso concreto.
I processi in ambito di responsabilità penale da amianto hanno fatto ricorso
ampiamente della pronuncia della Cassazione. Principi che hanno portato a
celebri pronunce come quelle esaminate sul caso ETERNIT.
Il concetto di causalità è stato affrontato da filosofi del diritto e scienziati
che hanno sempre cercato di spiegare il principio di causa ed effetto, ovvero
azione ed evento.
Una celebre frase di Norberto Nobbio permette di comprendere come la
certezza non può mai esaurirsi in virtù del continuo accrescersi della
conoscenza umana: “Più noi sappiamo, più sappiamo di non sapere.
Qualsiasi scienziato ti dirà che più sa e più scopre di non sapere.
Credevano di sapere di più gli antichi, che non sapevano niente al
confronto di quello che sappiamo noi. Abbiamo allargato enormemente lo
spazio della nostra conoscenza, ma più lo allarghiamo più ci rendiamo
conto che questo spazio è grande”.
Pensiero che deriva, in un certo senso, dalla celebre frase di Socrate: “So di
non sapere”, una frase che celebra ed elogia l’ignoranza dell’uomo;
esempio può essere la recentissima scoperta delle onde gravitazionali, una
coscienza di non conoscenza che partorisce nuovo sapere.
Questo continuo aggiornarsi del sapere umano porta ad avere sempre nuove
conoscenze scientifiche da applicare nel diritto.
La necessità che le sentenze siano fondate sul sapere scientifico è una
premessa logica perché garantisce certezze in ogni singolo quadro
processuale. Per quanto riguarda in particolare i processi che nascono a
causa di vittime colpite da malattie con derivazione multifattoriale la
giurisprudenza, a mio parere, ha risolto in maniera esemplare la questione.
Il quadro offerto nel terzo Capitolo, infatti, permette di comprendere come
sia effettivamente risolto il problema della pluralità di cause in tema di
malattie multifattoriali. Ogni giudice non si esime mai dal non considerare
come concausa un fattore che in maniera autonoma può aver effettivamente
influito sull’evento. Ogni causa concorrente nei reati va considerata come la
causa madre che ha creato l’evento lesivo, se concretamente ha avuto la
possibilità di influire in un qualche modo sull’evento finale.
Infine, per quanto riguarda l’aspetto giuslavoristico dei reati esaminati fino
a questo momento, va affermato che con il decreto 81 del 2008 si è dato
vita ad una nuova frontiera del diritto. L’importanza del decreto, poi
modificato e perfezionato nel corso degli anni, si rileva nella sua natura
preventiva.
Il quadro normativo fornito dal complesso di disposizioni garantisce una
tutela completa del lavoratore, almeno sul piano precauzionale. In ambito
processuale nell’ultimo decennio si è assistito ad una inversione dei
processi, in quanto il lavoratore ha un quadro completo, ordinato ed
organizzato delle norme di tutela nei suoi confronti.
Come si evince dall’elaborato, tutti i processi scaturenti da esposizione ad
amianto o per esposizioni a qualunque sostanza tossica dalla quale deriva
una malattia, nascono in ambito aziendale. Pertanto è sempre il garante dei
lavoratori ad essere responsabile per tutto ciò che colpisce e riguarda i
singoli lavoratori.
Peraltro, occorre rimarcare che la responsabilità in ambito civilistico e
giuslavoristico gode di un quadro di riferimento dottrinale e ordinamentale
che rende più chiare ed evidenti le responsabilità di coloro che rivestono
posizioni di garanzie nelle aziende. Da ciò, gli esiti processuali che spesso
accolgono istanze volte a definire comportamenti dannosi nei confronti
della salute dei lavoratori conseguenti ad azioni contrarie alle normi del
codice civile e del TU 81, mentre sul piano penale la responsabilità è
esclusa, in considerazione della natura multifattoriale delle patologie e della
conseguenza certezza circa la ricostruzione del nesso di causalità.
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