Immanuel
Kant
La Critica della ragion pratica
Prof. Marco Lombardi
Liceo Scientifico Statale “Emilio Segrè”
La ragion pura pratica
• La ragione non serve solo a dirigere la conoscenza, ma
anche l’azione;
• Accanto alla ragione teoretica abbiamo quindi una ragione
pratica;
• Kant distingue (di questo tratta La critica della ragion pratica)
tra:
– Ragion pura pratica (che opera indipendentemente
dall’esperienza e dalla sensibilità ed è quindi morale);
– Ragion empirica pratica (che opera sulla base dell’esperienza e
della sensibilità);
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Questa seconda Critica «non sarà, però, una “critica della
ragion pura pratica”, come la prima Critica era una “critica
della ragione pura teoretica”, perché, mentre la ragione teoretica
ha bisogno di essere criticata, cioé sottoposta ad esame, anche
nella sua parte pura, in quanto tende a comportarsi in modo
illegittimo (valicando i limiti dell’esperienza), la ragione pratica
non ha bisogno di essere criticata nella sua parte pura, perché in
questa essa si comporta in modo perfettamente legittimo,
obbedendo ad una legge appunto universale. Invece nella sua
parte non pura, cioé legata all’esperienza, la ragione pratica può
darsi delle massime, cioé delle forme di azione, dipendenti
appunto dall’esperienza, e perciò non legittime dal punto di vista
morale. Perciò deve essere sottoposta a critica». (E.Berti)
«La situazione della Critica della Ragion pratica si presenta esattamente
capovolta rispetto alla Critica della Ragion pura: nella “ragion pratica”
le pretese di andare oltre i propri limiti legittimi sono quelle della ragion
pratica empirica (legata all’esperienza), che vorrebbe essa sola
determinare la volontà; invece, nella “ragione teoretica” le pretese della
ragione, al contrario, erano di far a meno dell’esperienza, e di raggiungere
da sola (senza l’esperienza) l’oggetto. Insomma: mentre nella Critica
della Ragion pura Kant ha criticato le pretese della ragione teoretica (che
rappresentano un eccesso) di trascendere l’esperienza, nella Critica della
Ragion pratica egli ha criticato invece le pretese opposte della ragion
pratica (che rappresentano un difetto) di restar legata sempre e solo
all’esperienza. Perciò il titolo è: “Critica della Ragion pratica”, e non
“Critica della Ragion pura pratica”». (Reale - Antiseri)
Le due parti della Ragion
pratica
• La Critica della ragion pratica può essere divisa in
due parti:
• L’Analitica (in cui Kant studia il dovere);
• La Dialettica (in cui prende in considerazione
l’assoluto morale o sommo bene);
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Analitica della Ragion pratica
L’esigenza di una legge morale a
priori
• Il motivo che sta alla base della Critica della ragion pratica è la
persuasione che esista scolpita nell’uomo, una legge morale
a priori valida per tutti e per sempre;
• Come nella Critica della ragion pura Kant muoveva dall’idea
dell’esistenza di conoscenze scientifiche universali e
necessarie, nella Critica della ragion pratica muove
dall’analogo convincimento dell’esistenza di una legge
etica assoluta, legge che il filosofo non ha il compito di
“dedurre”, e tanto meno di “inventare”, ma unicamente di
“constatare”, a titolo di «un fatto della ragion pura, di cui
abbiamo consapevolezza a priori e di cui siamo apoditticamente
certi»;
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Incondizionatezza, libertà e valore
unversale-necessario della legge
morale
• O la morale è una chimera, in quanto l’uomo agisce in
virtù delle sole inclinazioni naturali, oppure, se esiste,
risulta per forza incondizionata, presupponendo una
ragion pratica “pura”, cioè capace di svincolarsi dalle
inclinazioni sensibili e di guidare la condotta in modo
stabile;
• La tesi dell’assolutezza o incondizionatezza della morale
implica, per Kant, due concetti di fondo strettamente
legati fra loro:
– la libertà dell’agire;
– la validità universale e necessaria della legge;
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Incondizionatezza, libertà e valore
unversale-necessario della legge
morale
• Infatti, essendo incondizionata, la morale implica la
capacità umana di autodeterminarsi aldilà delle
sollecitazioni isitntuali, facendo sì che la libertà si
configuri come il primo presupposto (o “postulato”)
della vita etica: «La libertà e la legge pratica incondizionata
risultano dunque reciprocamente connesse»;
• Essendo indipendente dagli impulsi del momento e da
ogni condizione particolare, la legge risulterà anche, per
definizione, universale e necessaria, ossia
immutabilmente uguale a se stessa in ogni tempo e
luogo;
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Moralità = incondizionatezza =
universalità e necessità
• Questa equazione rappresenta il fulcro dell’analisi
etica di Kant e la chiave di volta per cogliere in
modo logicamente concatenato gli attributi
essenziali che il filosofo riferisce alla legge morale:
–
–
–
–
categoricità;
formalità;
disinteresse;
autonomia;
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Una precisazione: ragione e
sensibilità
• Per Kant la moralità è absoluta, cioè sciolta dai
condizionamenti istintuali, non nel senso che possa
prescinderne, ma perché è in grado di de-condizionarsi
rispetto ad essi (es. pena di morte);
• La morale si gioca infatti all’interno di una tensione
bipolare fra ragione e sensibilità:
– Se l’uomo fosse esclusivamente sensibilità, ossia animalità e
impulso, è ovvio che essa non esisterebbe, perché l’individuo
agirebbe sempre per istinto;
– Viceversa se l’uomo fosse pura ragione, la morale perderebbe
ugualmente di senso, in quanto l’individuo sarebbe sempre in
quella che Kant chiama “santità” etica, ovvero in una
situazione di perfetta adeguazione alla legge;
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La polemica contro il fanatismo
morale e l’illusione della santità
• Invece la bidimensionalità dell’essere umano fa sì che per Kant
l’agire morale prenda la forma severa del “dovere” e si concretizzi in
una lotta permanente fra la ragione e gli impulsi egoistici;
• Da ciò la natura finita, ossia limitata ed imperfetta, dell’uomo, che
può agire secondo la legge, ma anche contro la legge;
• Pertanto, come nella Ragion pura domina la polemica contro
l’arroganza della ragione (che pretende di oltrepassare i limiti della
conoscenza umana), nella Ragion pratica circola come tema
dominante la polemica contro il fanatismo morale, che è la velleità
di trasgredire i limiti della condotta umana, sostituendo alla virtù,
che è l’intenzione morale in lotta, la santità di un creduto possesso
della perfezione etica;
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La «categoricità»
dell’imperativo morale
Massime e imperativi
• Kant distingue i “princìpi pratici” che regolano la
nostra volontà in “massime” e “imperativi”;
– La massima è una prescrizione di valore puramente
soggettivo, cioè valida esclusivamente per l’individuo
che la fa propria (es. vendicarsi di ogni offesa subita
o alzarsi presto al mattino per fare ginnastica);
– L’imperativo è una prescrizione di valore oggettivo,
ossia che vale per chiunque;
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Imperativi ipotetici e imperativo
categorico
• Gli imperativi si dividono a loro volta in imperativi
ipotetici e in imperativo categorico:
• Gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista
di determinati fini e hanno la forma del “se… devi” (es. se
vuoi essere promosso, devi studiare);
• L’imperativo categorico ordina invece il dovere in
modo incondizionato, ossia a prescindere da qualsiasi
scopo, ed ha la forma del “devi” puro e semplice;
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Incodizionatezza della morale ed
imperativo categorico
• Essendo la morale strutturalmente incondizionata, cioè
indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli
circostanze, risulta evidente che essa non potrà risiedere
negli imperativi ipotetici, che sono, per definizione,
condizionati e variabili;
• Solo l’imperativo categorico, in quanto in-condizionato,
ha i connotati della legge, ovvero di un comando che vale
in modo perentorio per tutte le persone e per tutte le
circostanze;
• Solo l’imperativo categorico, che ordina un “devi”
assoluto, e quindi universale e necessario, ha in se
stesso i contrassegno della moralità;
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Il comando dell’imperativo
categorico
• Posto che la legge etica assuma la forma di un
“imperativo categorico”, che cosa comanda
quest’ultimo?
• Kant risponde che esso, in quanto incodizionato,
consiste nell’elevare a legge l’esigenza stessa di
una legge, e poiché dire legge è dire universalità,
esso si concretizza nella prescrizione di agire
secondo una massima che può valere per tutti;
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La prima formula dell’imperativo
categorico
• Da ciò la formula-base dell’imperativo categorico: «Agisci in
modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso
tempo come principio di una legislazione universale»;
• L’imperativo categorico è quel comando che prescrive di
tener sempre presenti gli altri e che ci ricorda che un
comportamento risulta morale solo se, e nella misura in cui,
supera il “test della generalizzabilità”, ovvero se la sua
massima appare universalizzabile (es. Chi mente compie un
atto immorale, poichè si tratta di una massima non
universalizzabile);
• Questa è l’unica formula che Kant presenta nella Critica
della ragion pratica;
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La seconda formula dell’imperativo
categorico
• Nella Fondazione della metafisica dei costumi troviamo altre due formule:
• La seconda afferma: «Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua
persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente
come mezzo»;
• In altri termini, rispetta la dignità umana che è in te e negli altri,
evitando di ridurre il prossimo o te medesimo a semplice mezzo del
tuo egoismo e delle tue passioni;
• La parola “fine” indica quella caratteristica fondamentale della
persona umana che risiede nell’essere “scopo a se stessa”, facendo si
che ad essa venga riconosciuta la prerogativa di essere soggetto e non
oggetto, tant’è vero che Kant sostiene che la morale istituisce un
regno dei fini, ossia una comunità ideale di libere persone, che
vivono secondo le leggi della morale e si riconoscono dignità a
vicenda;
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La terza formula dell’imperativo
categorico
• La terza formula prescrive di agire in modo tale che «la volontà, in
base alla massima, possa considerare contemporaneamente se stessa come
universalmente legislatrice»;
• Questa formula ripete, in parte, la prima, ma a differenza di essa,
che puntualizza soprattutto la legge, sottolinea in modo
particolare l’autonomia della volontà, chiarendo come il
comando morale non sia un imperativo esterno e schiavizzante,
ma il frutto spontaneo della volontà razionale, la quale, essendo
legge a se medesima, fa sì che noi, sottomettendoci ad essa, non
facciamo che obbedire a noi stessi, tan’è vero che nel “regno dei
fini” ognuno è suddito e legislatore al tempo stesso: «La volontà
non è semplicemente sottoposta alla legge, ma lo è in modo da dover essere
considerata autolegislatrice, e solo a questo patto sottostà alla legge»;
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La «formalità»
della legge e il dovere
Il carattere formale della
legge etica
• Un’altra caratteristica strutturale dell’etica kantiana è la
formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa
dobbiamo fare, ma come dobbiamo fare ciò che facciamo;
• Anche ciò deriva dall’incondizionatezza e libertà della
norma etica: se quest’ultima non fosse formale, bensì
“materiale” e prescrivesse quindi dei contenuti concreti,
sarebbe “vincolata” ad essi, perdendo inevitabilmente in
termini di libertà da un lato e di universalità dall’altro (es.
un principio del tipo “ama la patria”, che pure discende
dalla legge morale, non può venir confuso con la legge
stessa, poiché in taluni casi può essere morale non amare la
patria);
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• L’imperativo etico non può risiedere in una casistica o
manualistica concreta di precetti, ma soltanto in una legge
formale-universale, la quale afferma semplicemente: quando
agisci tieni presente gli altri e rispetta la dignità umana che
è in te e nel prossimo;
• Sta poi ad ognuno di noi “tradurre” in concreto, nell’ambito delle
varie situazioni esistenziali, sociali e storiche, la parola della legge;
• L’importante è non dimenticare che le norme etiche concrete in
cui si incarna di volta in volta l’imperativo categorico risultano
sempre fondate e mai fondanti nei suoi confronti, esistendo solo
in funzione di esso, che è ciò che le suscita e le giustifica: «il vero
siginificato del formalismo kantiano non sta (come pure è stato detto)
nell’affermazione di una forma vuotata di ogni contenuto, ma nella scoperta
della fonte perenne della moralità, che alimenta i costumi morali dei popoli nel
loro divenire storico, restando essa stessa immune da ogni mutamento» (De
Ruggiero);
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Il cuore della moralità kantiana: il
dovere-per-il-dovere
• Il carattere formale e incondizionato della legge morale fa tutt’uno
con il carattere anti-utilitaristico dell’imperativo etico;
• Infatti, se la legge ordinasse di agire in vista di un fine o di un utile, si
ridurrebbe ad un insieme di imperativi ipotetici e comprometterebbe:
– In primo luogo, la propria libertà, in quanto non sarebbe più la volontà a dare
la legge a se medesima, ma gli oggetti a dare la legge alla volontà;
– In secondo luogo, essa metterebbe in forse la propria universalità, poiché l’area
degli scopi e degli interessi coincide con il campo della soggettività e della
particolarità;
• Il cuore della moralità kantiana risiede invece nel dovere-per-ildovere, ossia nello sforzo di attuare la legge della ragione solo per
ossequio ad essa, e non sotto la spinta di personali inclinazioni o in
vista di risultati che possono scaturirne;
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Il “rigorismo”
• Noi non dobbiamo agire per la felicità, ma solo per il dovere:
«Dovere! Nome sublime e grande, che non porti con te nulla di piacevole che
importi lusinga; ma esigi la sottomissione; che tuttavia non minacci nulla […] ma
presenti semplicemente una legge che penetra da sé sola nell’animo e si procura
venerazione»;
• Da ciò il cosiddetto “rigorismo” kantiano, che esclude, dal recinto
dell’etica, emozioni e sentimenti, che sviano la morale, oppure ne
inquinano la severa purezza;
• Nell’etica kantiana si riconosce il diritto di cittadinanza ad un unico
sentimento: il rispetto per la legge (sentimento a priori e dotato di
una forza tale da far tacere tutti gli altri sentimenti egoistici e da
disporre l’individuo all’accoglimento della legge);
• Il rispetto implica la condizione propria dell’uomo come essere
razionale finito: «siccome il rispetto è un’azione sul sentimento e perciò sulla
sensibilità di un essere razionale, esso suppone questa sensibilità, quindi anche la
finitezza di quegli esseri a cui la legge morale impone il rispetto»;
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Moralità e legalità
• Il dovere per il dovere nel rispetto della legge, ecco le uniche
condizioni affinché vi siano moralità e virtù e non si passi dalla
moralità alla semplice “legalità”;
• Non basta che un’azione sia fatta esteriormente secondo la legge,
ovvero in modo conforme ad essa; la morale implica una partecipazione
interiore, altrimenti rischia di scadere in atti di legalità ipocrita oppure
in forme più o meno mascherate di autocompiacimento (es. quando
ci si comporta bene per il plauso degli altri);
• Non è morale ciò che si fa, ma l’intenzione con cui lo si fa (= morale
dell’intenzione), essendo la “volontà buona”, ovvero la convinta
adesione della volontà alla legge, l’unica cosa incondizionatamente
buona al mondo (tutti gli altri beni, come l’intelligenza o il coraggio,
possono essere usati male);
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Carattere noumenico e
sopra-sensibile della morale
• Il dovere e la volontà buona, secondo Kant,
innalzano l’uomo al di sopra del mondo sensibile
(= fenomenico), dove vige il meccanismo delle
leggi naturali, e lo fanno partecipare al mondo
intellegibile (= noumenico), dove vige la libertà;
• La vita morale è la costituzione di una natura
soprasensibile nella quale la legislazione morale
prende il sopravvento sulla legislazione naturale;
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«Quale origine è degna di te? E dove si trova la radice della tua nobile stirpe,
che rifiuta fieramente ogni parentela con le inclinazioni, quella radice in cui ha
origine la condizione indispensabile dell’unico valore che gli uomini possono
darsi da se stessi? Non può essere niente di meno di ciò che eleva l’uomo al di
sopra di sé ( come parte del mondo sensibile), di ciò che lo lega a un ordine di
cose che il solo intelletto è in grado di pensare e che nello stesso tempo subordina
a sé il mondo sensibile [...] Non è altro che la personalità, cioé la libertà e
l’indipendenza nei confronti del meccanismo dell’intera natura, considerata
tuttavia contemporaneamente come facoltà di un essere sottostante a leggi
speciali, cioé a leggi pure pratiche, che la sua stessa ragione gli fornisce;
pertanto, la persona, in quanto appartenente al mondo sensibile, è sottoposta
alla propria personalità perché appartiene nello stesso tempo al mondo
intelligibile. Non bisogna dunque meravigliarsi se l’uomo, appartenendo a due
mondi, debba considerare il proprio essere, rispetto alla sua seconda e suprema
determinazione, con venerazione e le leggi di essa col massimo rispetto».
Noumenicità e fenomenicità
nell’uomo
• Questa noumenicità del soggetto morale non significa
tuttavia l’abbandono della sensibilità e l’eliminazione di
ogni legame con il mondo sensibile;
• Difatti, proprio perché l’uomo partecipa
strutturalmente dei due mondi, egli non può affermare
il secondo (quello intelligibile o noumenico) se non nel
primo e in virtù del primo (quello sensibile o
fenomenico);
• Anzi, la noumenicità dell’uomo esiste solo in relazione
alla sua fenomenicità, in quanto il mondo
soprasensibile, per lui, esiste solo come forma nel
mondo sensibile;
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L’«autonomia» della legge e
la rivoluzione copernicana morale
La rivoluzione copernicana
morale
• Le varie determinazioni della legge etica che
abbiamo esaminato convergono in quella
dell’autonomia, che tutte le implica e le
riassume;
• Il senso profondo dell’etica kantiana, e della sua
sorta di “rivoluzione copernicana morale”,
consiste infatti nell’aver posto nell’uomo e nella
sua ragione il fondamento dell’etica, al fine di
salvaguardare la piena libertà e purezza;
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La critica delle morali
eteronome
• Se la libertà, presa in senso negativo, risiede nell’indipendenza della
volontà dalle inclinazioni, in senso positivo si identifica con la sua
capacità di autodeterminarsi, ossia nella prerogativa autolegislatrice
della volontà, la quale fa si che l’uomo sia norma a se stesso;
• Di conseguenza Kant polemizza aspramente contro tutte le morali
eteronome, cioè contro tutti quei sistemi che pongono il fondamento
del dovere in forze esterne all’uomo o alla sua ragionre, facendo
scaturire la morale, anziché dalla pura “forma” dell’imperativo
categorico, da principi “materiali”;
• Il tema dell’autonomia morale scioglie anche quell’apparente
“paradosso” della ragion pratica, secondo cui non sono i concetti di
bene e di male a fondare la legge etica bensì, al contrario, la legge
etica a fondare e a dare un senso alle nozioni di bene e di male;
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Dialettica della Ragion pratica
Il sommo bene
• La felicità non può mai erigersi a motivo del
dovere, perché in tal caso metterebbe in forse
l’incondizionatezza della legge etica (e quindi la
sua categoricità, formalità, purezza e autonomia),
tuttavia la virtù, pur essendo il “bene supremo”,
non è ancora, secondo Kant, quel “sommo
bene” cui tende irresistibilmente la nostra
natura, che consiste nell’addizione di virtù e
felicità;
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L’antinomia della ragion
pratica
• Kant non fa della felicità il motivo dell’azione,
ma asserisce unicamente che in noi c’è il
bisogno di pensare che l’uomo, pur agendo
per il dovere, possa anche essere degno di
felicità;
• Ma in questo mondo virtù e felicità non sono
mai congiunte, anzi spesso sono addirittura
opposte;
• Di conseguenza, virtù e felicità costituiscono
l’antinomia etica per eccellenza;
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I postulati etici
• I filosofi greci hanno vanamente cercato di scioglierla,
per quanto riguarda questa vita,
– o risolvendo la felicità in virtù (stoici)
– o la virtù nella felicità (epicurei);
• In realtà l’unico modo per uscire da tale antinomia ( che
rischia di ridurre la morale che prescrive il sommo bene
ad un’impresa senza senso) è di “postulare” un mondo
dell’aldilà in cui possa realizzarsi ciò che nell’aldiquà
risulta impossibile: ovvero l’equazione virtù = felicità;
• In questo Kant si situa nella tradizione di pensiero che
va da Platone al cristianesimo;
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I postulati etici
• Kant trae il termine “postulato” dal linguaggio della
matematica classica dove, mentre si dicono assiomi le verità
fornite di auto-evidenza, si chiamano postulati quei princìpi
che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per
rendere possibili determinate entità o verità geometriche;
• Analogamente i postulati di Kant sono quelle proposizioni
teoretiche non dimostrabili che ineriscono alla legge morale
come condizione della sua stessa esistenza e pensabilità,
ovvero quelle esigenze interne della morale che vengono ammesse per
rendere possibile la realtà della morale stessa, ma che di per se stesse
non possono venir dimostrate;
• I postulati tipici di Kant sono l’immortalità dell’anima e
l’esistenza di Dio;
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L’immortalità dell’anima
• Kant afferma che:
a) poiché solo la santità, cioè la conformità completa
della volontà alla legge, rende degni del sommo bene e
b) poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro
mondo,
c) si deve per forza ammettere che l’uomo, oltre il
tempo finito dell’esistenza, possa disporre, in un’altra
zona del reale, di un tempo infinito grazie a cui
progredire all’infinito verso la santità;
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L’esistenza di Dio
• La realizzazione della felicità proporzionata alla virtù,
comporta il postulato dell’esistenza di Dio, ossia
la credenza in una “volontà santa ed
onnipotente”, che faccia corrispondere la felicità
al merito;
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La libertà
• Accanto ai due postulati “religiosi” Kant pone
un altro postulato: la libertà;
• Essa è la condizione stessa dell’etica, che nel
momento stesso in cui prescrive il dovere
presuppone anche che si possa agire o meno in
conformità ad esso e che quindi si sia
sostanzialmente liberi;
• «Devi, dunque puoi», afferma Kant: se c’è la
morale deve, per forza, esserci la libertà;
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Il “primato” della ragion
pratica
• La teoria dei postulati mette capo a ciò che Kant
definisce “primato della ragion pratica”,
consistente
– nella prevalenza dell’interesse pratico su quello
teoretico e
– nel fatto che la ragione ammette, in quanto è pratica,
proposizioni che non potrebbe ammettere nel suo
uso teoretico;
• Tuttavia i postulati kantiani non possono affatto
valere come conoscenze;
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Il primato della ragion pratica rispetto alla
ragione speculativa «non significa che essa ci può
dare ciò che questa ci nega, ma semplicemente che le
sue condizioni di validità comportano la ragionevole
speranza dell’esistenza di Dio e dell’immortalità
dell’anima: ma se questa ragionevole speranza fosse
intesa come certezza razionale, non solo il mondo
morale non ne uscirebbe rafforzato ma totalmente
distrutto». (P.Chiodi)
Non-teoreticità dei postulati
• Kant era ben conscio del fatto che un’eventuale
ammissione della validità conoscitiva dei postulati non solo
avrebbe violato apertamente le conclusioni della Ragion
pura, ma avrebbe minato il suo stesso modo di intendere la
morale come libertà e autonomia, poiché «Dio e l’eternità,
nella loro maestà tremenda, ci starebbero continuamente dinanzi agli
occhi […] La trasgressione della legge sarebbe senz’altro impedita, ciò
che è comandato sarebbe compiuto […] La condatta dell’uomo, finché
la sua natura restasse qual è ora, si trasformerebbe in un semplice
meccanismo, in cui, come in un teatro di marionette, tutto
gesticolerebbe bene, ma nelle cui figure non ci sarebbe più vita»;
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Il rovesciamento del rapporto
tradizionale fra morale e
religione
• Se i postulati fossero delle verità dimostrate o delle
certezze comunque intese, la morale scivolerebbe
immediatamente verso l’eteronomia e sarebbe
nuovamente la religione (o la metafisica) a fondare la
morale, con tutti gli inconvenienti già esaminati;
• Rovesciando il modo tradizionale di intendere il
rapporto tra morale e religione, Kant sostiene invece
che non sono le verità religiose a fondare la morale,
bensì la morale, sia pur sotto forma di “postulati”, a
fondare le verità religiose;
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Il rovesciamento del rapporto
tradizionale fra morale e
religione
• Dio, per Kant, non sta all’inizio e alla base della
vita morale, ma eventualmente alla fine, come suo
possibile completamento;
• L’uomo di Kant è colui che agisce seguendo
solo il dovere-per-il-dovere, con, in più, la
“ragionevole speranza” nell’immortalità
dell’anima e nell’esistenza di Dio;
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Da un lato Kant scrive che «la morale, essendo fondata sul
concetto dell’uomo come essere libero, il quale, appunto perché tale,
sottopone se stesso, mediante la propria ragione, a leggi
incondizionate, non ha bisogno né dell’idea di un altro essere
superiore all’uomo per conoscere il proprio dovere, né di un altro
movente oltre la legge stessa per adempierla […] non ha quindi
bisogno (sia oggettivamente, per ciò che concerne il volere, sia
soggettivamente, per ciò che concerne il potere) del sostegno della
religione, ma è autosufficiente grazie alla ragion pratica pura» (La
religione nei limiti della semplice ragione);
Ma dall’altro lato sostiene che «La morale conduce […]
inevitabilmente alla religione [perchè] soltanto da una volontà
moralmente perfetta (santa e buona) e nello stesso tempo
onnipotente possiamo sperare quel sommo bene che la legge morale
ci fa un dovere di proporci come oggetto dei nostri sforzi» (Critica
della Ragione Pratica);
Un dualismo platonizzante
• Di conseguenza, con la teoria dei postulati Kant non ha
eliminato l’autonomia dell’etica, perché l’ha solo
“integrata” con una sorta di “fede razionale”;
• Queste considerazioni non escludono che la Ragion
pratica finisca per delineare una sorta di dualismo
platonizzante che spezza la realtà e l’uomo in due:
– da un lato il mondo fenomenico della scienza, dall’altra il
mondo noumenico dell’etica;
– da un lato l’uomo fenomenico delle inclinazioni, dall’altro
l’uomo noumenico della libertà e del dovere;
• E’ proprio dalla consapevolezza di questo dualismo che
muove, in parte, la Critica del Giudizio;
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