ZOONOSI EMERGENTI:
IMPLICAZIONI PER LA SANITÀ PUBBLICA
Brescia, 9 ottobre 2009
Auditorium Capretti - Sala Ridotto - Via Piamarta, 6 - presso Istituto Artigianelli
In data 9 Ottobre si è svolta, organizzata dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della
Lombardia ed Emilia Romagna, una giornata di studio ed aggiornamento su un argomento
che negli ultimi anni ha destato molto interesse, le zoonosi. L’importanza delle zoonosi si
manifesta sin dalla preistoria: già da 100.000 anni (epoca dell’Homo sapiens) sino a 20.000
anni or sono (epoca dell’Homo sapiens sapiens), gli uomini erano essenzialmente cacciatori
e raccoglitori, organizzati in clan di 100/150 individui, per cui gli agenti infettivi per
sopravvivere dovevano o condizionare forme croniche o adattarsi a serbatoi “non umani”.
Pertanto la storia dell’uomo è accompagnata inizialmente proprio da “malattie zoonotiche”
e non “epidemiche”.
La giornata è stata inaugurata da un argomento di estrema attualità e poco conosciuto:
l’epatite E. Il Prof. Ostanello, la dott.ssa Romanò ed il dott. Lombardi hanno presentato un
chiaro stato delle arti in campo umano e veterinario per questa patologia. Da queste
presentazioni è emerso che il virus dell’epatite E (HEV) è il maggior responsabile delle
epatiti nonA/nonB a trasmissione enterica (via oro-fecale). L’agente eziologico di questa
patologia è un virus ad RNA che può infettare uomo, suini, cinghiali e volatili. Recenti
studi hanno evidenziato la presenza di RNA virale nel 20-30% degli allevamenti intensivi
suini. Nei Paesi in via di sviluppo il virus può facilmente contaminare l’acqua potabile e gli
alimenti che diventano quindi importanti veicoli di trasmissione. Data la termo-resistenza
(1 h a 56 °C) del virus e l’assenza di studi che ne evidenzino l’inattivazione in seguito a
lavorazione delle carni, una delle cause di malattia potrebbe essere proprio l’assunzione di
prodotti suini poco cotti, come già evidenziato nei paesi asiatici. Le caratteristiche cliniche
dell’epatite acuta E nell’uomo sono simili a quelle dell’epatite A. L’epatite E è una malattia
che si autolimita senza cronicizzare; la sovrainfezione con altri virus epatitici può tuttavia
aggravare il quadro clinico. Se l’infezione è contratta in gravidanza (specialmente nel 3°
trimestre) la malattia è spesso letale, con tassi di mortalità fino al 30%. Nei Paesi
industrializzati la prevalenza di anti-HEV varia dall’1 al 6 % in donatori di sangue, con
valori più elevati tra tossicodipendenti (soprattutto se HIV+), emofilici, emodializzati,
omosessuali e pazienti con epatite C cronica. La diagnosi di malattia nel suino può essere
effettuata al macello mediante isolamento del virus dalla bile, oppure in allevamento
valutando la presenza di anticorpi nel siero o di virus nelle feci. Le stesse metodiche
possono essere impiegate nell’uomo. La prevenzione dell’epatite E è affidata alle misure
generali volte al controllo delle infezioni a trasmissione enterica, quali il miglioramento
delle condizioni igienico-sanitarie e il controllo delle acque potabili.
Dopo questa prima parte dedicata alla valutazione delle problematiche legate all’insorgenza
di epatite E nei suidi ed i conseguenti rischi per la salute umana, la dott.ssa Kekarainen ed il
dott. Maggi hanno esposto le attuali conoscenze sui virus a DNA circolare.
Questi virus furono isolati per la prima volta nel suino. Oggi sappiamo che questi possono
infettare piante (Geminiviridae, Nanoviridae), batteri (Inoviridae, Microviridae) ed animali
(Circoviridae, anellovirus). Nell’ultimo decennio, hanno suscitato notevole interesse i virus
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appartenenti alla famiglia circoviridae, in particolar modo Porcine circovirus 2 (PCV-2) e
Torque Teno Virus (TTV), appartenenti rispettivamente ai generi circovirus ed anellovirus.
PCV-2, virus ubiquitario nei suini domestici e nei cinghiali, è responsabile di una sindrome
multi sistemica che colpisce il suino dopo lo svezzamento (PMWS). L’associazione del
virus all’insorgenza di patologia e la sua correlazione alla PMWS è un evento recente
(1998). La PMWS è una patologia multifattoriale che determina gravi perdite economiche
negli allevamenti. I suini colpiti da questa malattia presentano deplezione linfocitaria,
infiammazione granulomatosa e sono maggiormente esposti ad infezioni secondarie,
probabilmente a causa della presenza di virus nelle cellule del sistema immunitario (S.I.).
Lo stato del S.I al momento dell’infezione è fondamentale per lo sviluppo della malattia;
infatti animali che presentano una risposta efficace avranno un’evoluzione sub-clinica della
malattia, mentre soggetti con una risposta inadeguata svilupperanno la PMWS. Il tipo di
risposta è correlato alle lesioni a carico del sistema immunitario che il virus è in grado di
determinare. Uno studio in vitro ha evidenziato come PCV-2 sia in grado di incrementare la
risposta in Interleuchina (IL)-10 e conseguentemente ridurre la produzione di interferone
(IFN)-alfa, IFN-gamma ed IL-2. Inoltre, è stato dimostrato che la modulazione della
risposta immunitaria è attribuibile al DNA virale e non alle proteine come inizialmente
supposto.
Per quanto concerne i TTV, furono isolati per la prima volta nell’uomo nel 1997,
successivamente virus simili furono descritti nel suino, nel cane, nel gatto ed in altre specie
animali. Sono attualmente conosciuti due genogruppi di TTV suini, che sembrano essere
coinvolti nell’insorgenza di patologie suine non direttamente ma indirettamente. Studi
recenti, infatti, indicano un possibile coinvolgimento di TTV nella modulazione delle difese
del sistema immunitario innato, in modo similare a PCV2. La modulazione del sistema
immunitario può rendere poi gli animali più sensibili ad altri agenti patogeni. Pertanto,
virus che non sono direttamente considerati agenti eziologici di malattia, ma ritenuti in
grado di modulare la risposta del sistema immunitario dell'ospite, devono essere considerati
e oggetto di una certa attenzione.
Ovviamente, come evidenziato dal dott. Terregino vi sono altri virus che pur non avendo un
azione immuno-modulatoria sul S.I. devono essere oggetto di una certa attenzione primi tra
tutti i virus influenzali.
I virus umani pandemici identificati fino ad oggi appartengono ai sottotipi H1, H2 e H3, tali
sottotipi sono stati isolati anche nel suino (H1 ed H3), nei volatili (H1), nel cavallo (H3) e
nei mammiferi acquatici (H1, H3). E’ quindi evidente che questi virus possono infettare
ospiti diversi, anche se i ceppi aviari richiedono recettori α2-3, i ceppi umani recettori α2-6
mentre i ceppi suini si adattano ad entrambi i recettori. Studi recenti, tuttavia, hanno
evidenziato la presenza di recettori di tipo α2-6 anche nei volatili e recettori α2-3
nell’uomo, con la conseguente possibilità che ceppi umani possano infettare gli avicoli e
viceversa. Questo crea non pochi problemi correlati soprattutto alla capacità di
riassortimento di questi virus, infatti quando due diversi virus influenzali infettano la stessa
cellula vi può essere riassortimento virale ed un’eventuale pandemia. A tale proposito, sono
esempi calzanti l’influenza aviaria e suina: il primo di questi virus a tutt’oggi sta circolando
nelle popolazioni di volatili domestici in Asia, Medio Oriente e Africa e probabilmente
anche in alcune popolazioni di uccelli selvatici del continente Euroasiatico. Attualmente il
tasso di mortalità negli esseri umani infettati dal virus è pari al 50%; il virus è divenuto
letale anche per uccelli acquatici, sia domestici che selvatici, e ha colpito anche altri ospiti
atipici, quali felini e cani.
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Le comunità scientifica medica, veterinaria e agraria devono fronteggiare un virus che si
muove in modo tridimensionale, che si modifica adattandosi alle diverse specie e si
ricombina con altri virus influenzali contagiando nuove specie.
I virus influenzali hanno sicuramente suscitato l’interesse dell’opinione pubblica e dei
media, tale successo non è stato però ancora raggiunto dai PERVs (retrovirus endogeni del
suino). Questi virus, come chiaramente esposto dal dott. Villa, sono attualmente poco
conosciuti tuttavia, sono noti a causa della loro possibile implicazione nella trasmissione di
patologie ai soggetti sottoposti a xenotrapianto. E’ interessante rilevare che la presenza di
retrovirus endogeni nelle varie specie animali risale a ben 25-30 milioni di anni fa, come
rilevato nelle scimmie sia del vecchio che del nuovo mondo. Peraltro gli ERV paiono
favorire sia la riproduzione dei mammiferi, sia la loro protezione verso gli analoghi
retrovirus esogeni. Ciò non esclude comunque la loro rilevanza e potenziale pericolosità nel
caso degli xenotrapianti. Attualmente, sono scarse le conoscenze relative alla presenza e
alle caratteristiche di retrovirus endogeni in specie domestiche di interesse zootecnico
deputate alla produzione di alimenti destinati al consumo umano.
Al fine di acquisire maggiori conoscenze in questo settore, il dott. Villa ed i suoi
collaboratori si sono proposti di mettere a punto un metodo di identificazione di sequenze
retrovirali in campioni di latte di origine animale e, in caso di positività, di saggiare
l’eventuale presenza di attività enzimatica retrotrascrittasica. Le prove effettuate, hanno
permesso di mettere a punto una reazione in Real-Time PCR diretta ad una regione
conservata della polimerasi. Con tale metodica, si è rilevata la costante presenza dei
retrovirus endogeni nei campioni di latte a suino, successivamente identificati tramite PCR
tradizionale come appartenenti alle classi A, B e C. L’indagine è stata quindi estesa a
campioni di latte bovino, di capra e di bufala, provenienti da allevamenti convenzionali,
rilevando anche in questi campioni la presenza dei retrovirus. I risultati ottenuti hanno
suggerito la necessità di valutare un ulteriore aspetto: l’indagine in varie tipologie di latte
commerciale (liofilizzato, pasteurizzato, fresco, a lunga conservazione). Anche le analisi
condotte su questi tipi di campione hanno evidenziato la presenza di retrovirus, ma solo nei
campioni non sottoposti a trattamenti termici uguali o superiori alla pastorizzazione. Prove
mirate alla ricerca di attività enzimatica hanno successivamente confermato la presenza di
retrotrascrittasi attiva nelle tipologie di latte non sottoposte a trattamento termico. Tale
risultato evidenzia la termolabilità dei retrovirus, mentre trattamenti con tripsina e PH acido
(mimanti il processo digestivo) non inattivano il virus, che mantiene la sua capacità di
trasmissione a cellule umane in coltura.
Nella parte finale di questa giornata è stato affrontato un problema che ha acquisito
notevole rilevanza negli ultimi anni. Le variazioni climatiche e i conseguenti cambiamenti
negli ecosistemi, hanno portato alla diffusione nei nostri territori di insetti un tempo definiti
esotici. Il dott. Dottori e la dott.ssa Maioli hanno chiaramente illustrato le possibili
patologie causate da questi insetti, prestando particolare attenzione alle patologie trasmesse
da zanzare e zecche. Oggi conosciamo molte specie di zanzare capaci di trasmettere
arbovirus. In Europa alcuni di questi virus si presentano ciclicamente e possono definirsi
autoctoni, altri possono essere introdotti casualmente ed endemizzarsi in paesi normalmente
indenni. All’origine di quest’ultimo fenomeno, si collocano i cambiamenti climatici e la
globalizzazione; tuttavia la presenza degli arbovirus trasmessi da culicidi non sempre
risulta evidente. Spesso tali virus sono coinvolti solo in cicli silvestri ed i loro effetti non si
evidenziano nell’uomo o negli animali. In alcuni casi le specie di vertebrati coinvolte
(serbatoi o ospiti a fondo cieco) non manifestano sintomi di malattia, pertanto non è
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semplice organizzare e predisporre monitoraggi sierologici: un problema analogo è dato
dalle malattie trasmesse da zecche.
In natura, le zecche vengono considerate parassiti di animali selvatici e solo il 10% delle
specie conosciute è ben adattato agli animali domestici. Attualmente le infestazione umane
vengono considerate un evento accidentale, conseguente a condizioni ambientali e culturali
generate dall'uomo stesso. Negli ultimi cinquant'anni, soprattutto nel nord Italia, i
cambiamenti dei sistemi di allevamento e il progressivo abbandono delle zone rurali hanno
determinato una diminuzione dell'incidenza delle malattie trasmesse da zecche negli
animali da reddito. Tuttavia le zecche sono possibili vettori di agenti zoonosici e affinchè la
trasmissione dell’agente patogeno abbia luogo, è necessario che si verifichino tre eventi:
1. L’ospite vertebrato deve sviluppare infezione trasmissibile durante il pasto di
sangue;
2. La zecca deve acquisire il patogeno e riuscire a ritrasmetterlo a un altro ospite
vertebrato;
3. Deve essere presente un adeguato numero di ospiti vertebrati suscettibili.
Recentemente zoonosi trasmesse da questi parassiti (TBE, Malattia di Lyme, Rickettsiosi,
Febbre Q) hanno subito un incremento nell’incidenza. Le cause però sono ancora da
verificare e la comunità scientifica si sta preoccupando del rischio di introduzione di altre
gravi malattie, come la Crimean Congo Haemorragic fever.
Il moderatore della giornata prof. Poli ha evidenziato come il 70% delle malattie emergenti
è di origine animale. Si rende pertanto necessario uno sforzo collaborativo, in un ambiente
scientifico trasparente, tra veterinari e medici per poter ottenere dati e soluzioni che
contribuiscano in maniera efficace alla salvaguardia della salute animale ed umana.
In conclusione è implicito ribadire che la medicina è “unica” ed ogni soluzione sostenibile
deriva da una stretta collaborazione tra medici e veterinari.
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