GEORG WILHELM FRIEDERICH HEGEL La vita Nato da modesta famiglia, Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831) frequentò la facoltà di teologia di Tubinga dove strinse amicizia con Hölderlin e Schelling. In questo periodo si dedicò allo studio di Rousseau, Lessing e Kant e seguì i dibattiti filosofici tra Fichte, Jacobi ed Herder, inoltre seguì con interesse gli avvenimenti della Rivoluzione francese. Dopo la laurea, fece il precettore presso ricche famiglie di Berna e Francoforte e, nello stesso periodo, continuò la stesura di opere, già iniziate a Tubinga, ma non ancora elaborate e completate (verranno raccolte e pubblicate solo nel 1907 col titolo fuorviante di Scritti teologici giovanili). Recatosi a Jena per intraprendere la carriera universitaria, ottenuta l'abilitazione, iniziò i corsi come libero docente e poi come professore straordinario. Inizia con Schelling un periodo di collaborazione, pubblicando un Giornale critico di filosofia su cui scrisse importanti articoli: Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling (1801); Fede e sapere (1802); I modi scientifici di trattare il diritto naturale (1802). In questi anni terminò la stesura della Costituzione della Germania, pubblicando anche la Fenomenologia dello spirito (1807), che reca un'importante prefazione in cui si consuma polemicamente il distacco con Schelling. Dopo l'invasione napoleonica della Germania, Hegel si rifugiò prima a Bamberga, quindi nel 1808 divenne direttore del Ginnasio di Norimberga. Sono questi gli anni che portarono alla pubblicazione di una Propedeutica filosofica della Scienza della logica (1812-1816). In seguito insegnò fino al 1818 presso l'Università di Heidelberg pubblicando l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817). Raggiunta la fama, fu chiamato all'Università di Berlino, di cui divenne anche rettore, tenendo lezioni su varie parti del suo sistema che furono pubblicate postume sulla base di appunti degli studenti. Tra le ultime opere del periodo è da ricordare la Filosofia del diritto (1821) preceduta da un'importante prefazione. Morì durante un'epidemia di colera nel 1831. 1 Gli anni della formazione 1.1 Il giovane Hegel: da Tubinga a Berna Gli anni della formazone nel seminario protestante, lo Stift di Tubinga (1788-1793), sono alla base degli interessi culturali di Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831): stringe amicizia con Schelling e Hölderlin (anch'essi giovani allievi dello Stift); legge Rousseau, Lessing, Schiller, Kant e Spinoza; si entusiasma per il grande evento della Rivoluzione francese cercando negli avvenimenti un segno di rinnovamento degli spiriti, l'avvento di una nuova era di libertà interiore quale premessa e condizione per ogni rigenerazione politica, senza aderire però a posizioni giocobine. È proprio la ricerca di una rigenerazione profonda che porta Hegel a guardare con nostalgia al mondo greco, e soprattutto concentrare la sua riflessione sul tema religioso: il rapporto dell'uomo con Dio sembra essere il punto di vista privilegiato per interpretare la sua natura, la sua storia, la sua cultura. Dunque il tema religioso non è disgiunto da quello politico, costituendo un'unità inscindibile di moralità, storia e libertà civile, come ben risulta dal primo scritto Religione nazionale e cristianesimo in cui critica una religione arida e dogmatica che non sia conforme alle esigenze dell'uomo, che non riesca a «sprigionare le [sue] forze, il suo coraggio e magnanimità, la sua serenità e gioia di vivere». Il percorso iniziato a Tubinga, e in seguito continuato e approfondito a Berna, si concretizza nel primo importante scritto giovanile, la Vita di Gesù, interpretato come personificazione dell'ideale kantiano di religione razionale e naturale pura, come incarnazione della santità etica comandata dalla legge del dovere. Nello scritto successivo del periodo di Berna, Positività della religione cristiana, Hegel si interroga sui motivi che hanno trasformato il cristianesimo da religione naturale a religione positiva, fondata cioè su dogmi, istituzioni e comandi. Hegel riflette così sull'origine storica del cristianesimo: Gesù era il maestro di una pura religione morale, furono i suoi discepoli a trasformare il suo insegnamento in una religione positiva, a rendere trascendente la sua figura e, capovolgendo i suoi insegnamenti, a modificare la religione privata di Gesù in una religione pubblica e legalistica fino alla degenerazione di religione di Stato. 1.2 II giovane Hegel: gli scritti di Francoforte Nel 1797 Hegel si trasferisce a Francoforte dove lavora come precettore fino al 1800. Nel periodo di Francoforte, pur all'interno della prospettiva religiosa, puntualizza la condizione dell'uomo moderno, privo di certezze, che trova in sé e fuori di sé solo il vuoto e il contingente: ne imputa la causa alla rottura tra individuo e società, tra razionalità e realtà nel contesto del passaggio dalla religione classica greco-romana a quella cristiana. Sotto questo profilo l'opera più importante è Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in cui i concetti filosofico-teologici sono intrecciati con quelli politico-sociali. Il destino del cristianesimo è legato con quello di Gesù e quello di Gesù a quello del popolo ebraico. La storia degli ebrei è ripercorsa a partire dal diluvio universale, passando per Abramo, Mosè e i Re, fino al periodo postbabilonese e della diaspora. Se presso il popolo greco si viveva una naturale e immediata armonia con la natura, quale si individuava nel sereno e fiducioso accordo sia in sede morale sia religiosa e politica, il diluvio invece per il popolo ebraico rappresenta la rottura dell'armonia tra uomo e natura: questa ora è vissuta come terribile nemica e l'uomo deve dominarla. Noè individuò nella sottomissione dell'uomo alla volontà di Dio l'unica possibile soluzione e la salvezza. Ma il Dio di Noè non è un ente reale, è solo un pensato, una costruzione dell'intelletto mediante la quale si cerca di ricostruire l'unità dilacerata con la natura; è un Dio che richiede fedeltà assoluta ed esclusiva e che fa del popolo ebraico il suo popolo rendendolo eletto e schiavo nello stesso momento. Gli ebrei, gelosi del loro rapporto esclusivo di fedeltà e di salvezza, scelgono di vivere in ostilità con gli altri uomini e con la natura, e il Dio ebraico rappresenta la più alta scissione. Gesù è colui che ha voluto opporsi al destino del suo popolo prospettando una svolta radicale: se il popolo ebraico obbediva al suo Dio con sottomissione cieca, senza gioia, senza amore, Gesù vuole portare la conciliazione attraverso l'amore: perciò oppone al comandamento il sentimento, alla sottomissione la liberazione. Ma l'incapacità del suo popolo di comprenderlo e di seguirlo nel difficile riscatto della liberazione interiore è lo scacco di Gesù e il suo destino. Tuttavia egli muore senza avere nemici, non sentendo tali i suoi uccisori, testimoniando in tal modo la sua fede in un Dio che è spirito come «puro sentimento della vita che è una e infinita». L'amore predicato da Gesù è segno di unità riconquistata tra gli uomini non è però l'unità spontanea, ingenua e immediata dei greci, ma una unità cercata con consapevolezza dopo l'esperienza della separazione. Il periodo di Francoforte si chiude con il Frammento di sistema, due fogli appena, in cui Hegel si preoccupa di chiarire cosa sia la totalità organica e quali i suoi rapporti con la molteplicità: la totalità è «vita indivisa» e gli individui sono sue manifestazioni. Contro l'unità senza opposizione, rigida e morta, deve essere posta quella in cui l'alterità, il negativo, l'opposizione siano intimamente connesse, in cui l'intero comprenda entrambi i momenti in una relazione conciliata e unitaria: «La vita non può essere considerata soltanto come unificazione e relazione; essa deve al tempo stesso venir considerata come opposizione». Che le considerazioni espresse in questi testi non abbiano un senso solamente teologico è provato da due scritti nei quali le idee di fondo, in particolare il principio della totalità organica, sono applicate alla politica. Lo scritto Sui rapporti interni del Württemberg, infatti, analizza la situazione politica dello Stato in cui vive, dei rapporti tra gli organi costituzionali, il Principe e la Dieta. Come il popolo ebraico, così anche i suoi concittadini vivono in condizione di lotta contro una realtà, corrotta e decaduta, che non possono accettare. Indispensabile è, quindi, superare gli interessi particolari per intraprendere 2 coraggiosamente un'opera di ricostruzione generale per l'interesse collettivo. Così nel Progetto di una Costituzione della Germania (poi ripreso a Jena) individua la debolezza della Germania nella miopia di molti che restano chiusi nella propria sfera privata, gelosi dei propri privilegi, e non si accorgono della necessità di uno Stato, come totalità organica e unitaria, che faccia valere la legge e la razionalità dei suoi principi. 2 Hegel a Jena Nel 1801 Hegel, su invito di Schelling, giunge a Jena, allora centro della cultura romantica, dove inizia la carriera accademica; il filosofo ha di mira l'elaborazione di una propria concezione teoretica mediante il confronto con le voci più autorevoli della speculazione contemporanea, di cui fa emergere le difficoltà irrisolte. Il primo scritto, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, contiene una discussione sulle soluzioni del criticismo e dei suoi sviluppi idealistici. Le filosofie di Kant e di Fichte sono «filosofie della riflessione» che si limitano al punto di vista dell'intelletto, il cui sapere è sempre qualcosa di determinato, finito, in quanto presuppone alla propria attività conoscitiva una realtà esterna già data. Sebbene in modo diverso, le due filosofie sono viziate da formalismo, in quanto separano l'aspetto materiale da quello formale: Kant aveva contrapposto la cosa in sé (quale sconfinato campo materiale) alle forme a priori della conoscenza; Fichte, pur avendo posto nella forma Io=Io il principio della speculazione, ha poi subordinato la natura (Non-Io) allo spirito (Io) dove l'identità di soggetto e oggetto resta un'esigenza postulata, un dover-essere che non approda mai a una composizione unitaria definitiva. In questo modo Hegel evidenzia la superiorità del sistema di Schelling: questi ha restituito alla natura il rilievo negatole da Fichte, giungendo a una filosofia dell'identità di pensare ed essere nell'assoluto, unità indifferenziata di soggetto e oggetto. In tal modo Schelling ha dato preminenza alla ragione, capace di cogliere l'unità, sull'intelletto. Hegel precisa comunque che non si tratta tanto di condannare l'intelletto e il finito, quanto la loro separazione dalla ragione e dall'infinito: la scissione operata dall'intelletto è necessaria, è uno dei fattori della vita, e la ragione supera il finito nella dimensione dell'unità infinita, è «la totalità che si afferma nella suprema divisione». L'assoluto, per Hegel, non è «identità dell'identità» ma «identità dell'identità e della non identità», totalità unitaria eppure articolata in una pluralità di opposizioni. Nel successivo articolo Fede e sapere Hegel ha di mira la confutazione non solo delle filosofie della riflessione (Kant e Fichte), ma anche della filosofia di Jacobi che «trasforma invece la soggettività, in modo assolutamente soggettivo, nell'individualità»: così il sapere appare come un al di là raggiungibile solo con la fede e con l'intuizione, ritirandosi così nell'interiorità. Hegel non vuole rinunciare alla conoscenza dall'assoluto: celebrando il «venerdì santo speculativo» (un giorno che è quindi seguito dalla resurrezione) intende superare le moderne antinomie tra finito e infinito, realtà e idea, sensibile e soprasensibile, mostrando nel superamento sia dell'astratto intelletto sia della vuota fede che ragione e assoluto si identificano in quanto fondate nella permanente ricomprensione del finito nell'infinito e su un concetto di totalità che è comprensivo di una pluralità di opposizioni e determinazioni particolari. Orientato in questo senso è anche l'articolo sul Rapporto dello scetticismo con la filosofia, in cui Hegel sostiene la tesi dello scetticismo come componente necessaria interna della filosofia, in quanto mira alla confutazione, oltre che del dogmatismo, anche delle opinioni comuni e delle posizioni dell'intelletto che vuole fermarsi al finito precludendosi la strada verso il vero sapere filosofico. Hegel guarda allo scetticismo antico che ponendo il primo gradino della filosofia nell'opposizione del finito all'infinito mostrava la necessità di un superamento di questa opposizione per opera della ragione speculativa. 3 La dialettica L'intento speculativo di Hegel, già delineato nei periodi di Berna e di Francoforte, è quello di connettere universale e particolare, finito e infinito, unità e molteplicità, nella convinzione che la verità 3 non possa che essere nella loro unità: «Il vero è l'intero», scriverà Hegel nell'ultima opera pubblicata a Jena. Così l'universale si può pensare attraverso il particolare e la particolarità attraverso l'universalità, termini che trovano la loro mediazione nella riflessione come momento essenziale dell'assoluto. Questo è soggettività vivente, spirito (Geist), che tende a diventare consapevole di sé attraverso un processo articolato in tre momenti che altro non sono che le sue manifestazioni particolari. Hegel chiama dialettica questo processo che coinvolge sia il pensiero sia la realtà, in quanto manifestazione dello stesso pensiero: non essendo possibile separare soggetto e oggetto, non è possibile neppure separare il metodo e il contenuto dell'indagine. La dialettica è così non solo l'elemento vitale, la legge interna dello spirito, ma anche la condizione indispensabile perché il fenomeno, il particolare, possa manifestarsi nella realtà come espressione finita dell'infinita unità. I tre momenti della dialettica sono tradizionalmente designati come tesi, antitesi, sintesi, tre stadi successivi e intimamente connessi di un unico continuo processo. Questa schematica tripartizione non compare negli scritti di Hegel, sempre nemico di ogni formalismo e irrigidimento meccanico; è il frutto di una schematizzazione tradizionalmente operata dagli storici della filosofia. La tesi, sempre frutto dell'attività dell'intelletto, che identifica e separa, definendo pensieri e cose, è costituita da un'affermazione che definisce un oggetto nella sua astratta immediatezza, cioè senza vederlo nel suo rapporto con la totalità, ma come se fosse una realtà a sé stante, una essenza in sé. Ciò che è posto senza alcuna correlazione è però distaccato dalla corrente del movimento del tutto: per questa ragione la sua verità si manifesta in una antitesi, cioè in ciò che è escluso dalla sua definizione, che è a lui opposto. La negazione svolge un ruolo produttivo nella misura in cui è una negazione determinata, negazione cioè del contenuto particolare che oppone due termini che ora non possono più essere concepiti come del tutto separati, ma devono essere concepiti nella loro relatività reciproca. «Nella negazione si è aperto un nuovo passaggio» verso la verità, in quanto in essa è raggiunto come risultato un nuovo oggetto e il relativo sapere nel quale è contemporaneamente contenuto ciò che è stato negato. Il terzo momento è quindi la sintesi che della realtà vede l'aspetto positivorazionale: nella sintesi infatti la ragione offre un nuovo contenuto al sapere che toglie e supera quello precedentemente ritenuto vero; è unità dinamicamente conquistata attraverso il superamento dell'aspetto finito considerato per sé, conservando però il suo essere come parte della totalità. Questo è il senso del termine tedesco Aufhebung (e il relativo verbo aufheben) che possiede il doppio significato di togliere e conservare: quindi il nuovo momento è togliere le differenze, presenti nella tesi e nell'antitesi, per ricomporre il tutto nella più alta unità, cioè nella sintesi. La dialettica diviene, quindi, «l'anima motrice del progresso scientifico, è il principio mediante il quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito». Hegel sostiene l'infinità dello spirito rispetto alle cose particolari: ciascuna di esse attraverso il processo dialettico si risolve nell'infinito rivelando l'originaria struttura ontologica che vede l'unità essenziale dei due termini. Ne deriva che il processo assume un carattere circolare in quanto ogni progredire è nello stesso tempo un richiamarsi al proprio principio in un «approfondimento del pensiero in se stesso»; una circolarità che acquista, nell'infinito procedere, sempre maggiore consapevolezza e conoscenza e fa di ogni sintesi raggiunta un nuovo momento di inizio del continuo processo dello spirito e del divenire della realtà: è un nuovo sapere più completo, quindi più alto e più adeguato. L'intima connessione di soggetto e oggetto, di reale e razionale è stata formulata da Hegel in una celebre frase (che compare nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, in un contesto di filosofia politica che ha dato luogo a moltissime discussioni tra gli interpreti) secondo cui «tutto ciò che è reale è razionale, e ciò che è razionale è reale»: la ragione, lungi dal restare un dover essere, costituisce la realtà nel momento in cui si attua in questa; la realtà (non la contingenza empirica, l'accidentalità) possiede una intrinseca struttura intelligibile che identifica ciò che è con ciò che deve essere. 4 La Fenomenologia dello spirito 4 4.1 Prefazione La Fenomenologia dello spirito, stampata nel 1807 dopo un lungo travaglio, è la prima grande opera pubblicata da Hegel. A lavoro concluso aggiunse una Prefazione, che costituisce una prima, organica esposizione della sua prospettiva teoretica. La convinzione di Hegel è che il sapere assoluto non debba estromettere da sé quello fenomenico, ma debba stabilire con esso un rapporto per comprenderlo e giustificarlo: compito della fenomenologia è quello di elevare la coscienza comune, il cui sapere è quello fenomenico, alla filosofia, il cui sapere è il vero (cioè l'intero, l'assoluto). La Fenomenologia dello spirito narra così la storia della formazione della coscienza ripercorrendo, come altrettante tappe, le forme del rapporto tra la coscienza e il suo oggetto fino alla completa consapevole coincidenza con esso (il sapere assoluto). Sempre nella Prefazione Hegel non risparmia critiche all'amico Schelling (ne nascerà una insanabile rottura tra i due), il quale avrebbe erroneamente concepito l'assoluto come mera identità di ogni differenza, vuota indifferenza di soggetto e oggetto; questa identità indifferenziata risulta così incapace di comprendere la ricchezza del reale nei suoi vari aspetti: non riconosce il necessario e fondamentale valore del negativo, è come «una notte in cui tutte le vacche sono nere». Per Hegel l'assoluto è, invece, unità dinamica di tutti i suoi momenti; è spirito inteso come vita, movimento, processo dialettico mediante il quale si riconosce come tale, nella consapevolezza che le varie espressioni particolari e finite in cui si è manifestato sono sue, e in esse si rispecchia riconoscendole come proprie. La fenomenologia è così il rintracciare la serie di figure, tappe storiche, gradi di formazione dello spirito stesso, attraverso le quali lo spirito conoscente giunge al sapere assoluto. 4.2 Le figure della Fenomenologia: la coscienza Lo svolgimento del processo fenomenologico inizia con la coscienza, un termine che qui è indicato in senso ristretto e indica la convinzione che l'oggetto che l'io conosce sensibilmente abbia piena e autonoma realtà. Così la prima figura è costituita dalla certezza sensibile, che, nella sua naturalità aspira a conoscere l'oggetto nella immediatezza, come un qui e ora, dunque una singolarità posta in precise e isolate determinazioni spazio-temporali rispetto al soggetto. Questa prima verità e certezza immediata entra in crisi nel momento in cui i suoi elementi connotativi risultano così generici da poter essere applicati a ogni cosa; la coscienza sensibile, per non vanificarsi, è indotta al superamento di questa esperienza e a riporre il fondamento della certezza nell'io. Da qui emerge la seconda figura, la percezione. In questo stadio la coscienza è consapevole della distinzione tra sé e l'altro da sé senza peraltro riuscire a coglierne le specifiche proprietà, proprietà che sono non solo di quell'oggetto ma anche di molti altri e che l'io, elemento unificante, raccoglie nell'unità della cosa. La coscienza, in questa coincidenza di particolare e universale, non riesce ancora a determinare il discrimine tra la cosa e le sue qualità e accidenti e deve passare al superiore livello dell'intelletto il quale riconosce che la differenza tra le cose e tra queste e il soggetto percepente è rintracciabile in una forza o realtà effettuale, come insieme di strutture discrimine quali misura, qualità, quantità e così via, che determinano l'oggetto stesso. Così la coscienza scopre che queste leggi dell'oggetto sono un suo prodotto, che è il soggetto a ordinare il mondo sensibile attraverso il suo apparato categoriale ed è il soggetto che nel conoscere il mondo conosce se stesso: così la coscienza diventa autocoscienza, «certezza che la coscienza ha di se stessa», nella misura in cui è maturata l'esperienza che ogni rapporto all'oggetto è riferito a lei, che il fenomeno è tale in e per lei. 4.3 Le figure della Fenomenologia: l'autocoscienza Il processo dell'autocoscienza non si manifesta solo a livello teoretico, ma soprattutto attraverso esperienze pratiche in cui l'io è in rapporto con gli altri. Sono infatti compresenti molte autocoscienze, tutte coinvolte in una dinamica di reciproco riconoscimento in cui l'una offre all'altra la certezza di essere tale. Hegel sottolinea però il fatto che ciascuna autocoscienza mira a essere indipendente dall'altra e allo stesso tempo a dominare l'altra, con la conseguenza che il riconoscimento dell'indipendenza non può che derivare dal conflitto con un'altra autocoscienza che le si oppone: 5 ognuna infatti vuole essere riconosciuta senza riconoscere l'altra, giacché nello stesso tempo si percepisce come autocoscienza ma anche come oggetto del desiderio di dominio dell'altra. Il reciproco riconoscimento avviene attraverso un rapporto negativo: la lotta, scontro di autocoscienze dove l'una si mostra capace di mettere a repentaglio la propria vita, il proprio esistere biologico, ed esporsi al rischio della morte, mentre l'altra, per paura di perdere la vita, perderà la propria indipendenza preferendo uno stato di sudditanza. Dalla lotta emerge una relazione di diseguaglianza, che storicamente (nel mondo antico) si determina come rapporto servo-signore. Inizialmente questa figura rappresenta una particolare forma di rapporto di potere in cui il signore, in forza del suo diritto acquisito con la vittoria ottenuta in seguito alla lotta, impone il proprio dominio costringendo il servo a soddisfare i propri bisogni. Il servo, attraverso il lavoro, non fa che trasformare la natura per permetterne al signore il godimento. È proprio da qui che può iniziare il processo di emancipazione del servo che, con il proprio lavoro, mantiene l'estraneità dalla cosa: si rende consapevole di essere vera autocoscienza, libera e indipendente dal signore, un'indipendenza che è frutto del lavoro; il signore, invece, si scopre illusoriamente indipendente in quanto incapace di provvedere ai suoi bisogni e dipendente dal lavoro del servo. Il lavoro si presenta come mezzo attraverso cui il servo trasforma la natura e se stesso, liberandosi. L'uomo è dunque il suo lavoro, che, differendo dal desiderio naturale, può piegare la natura alle proprie necessità; è con il lavoro e l'impegno che l'uomo acquista coscienza di sé e afferma la sua libertà. A questo punto Hegel descrive tre celebri figure di questa libertà, storicamente definite nelle posizioni dello stoicismo, dello scetticismo e della coscienza infelice. Lo stoicismo, proprio della civiltà ellenistico-romana in cui la diffusione della cultura ha consentito l'elevazione del lavoro «all'altezza del pensare», afferma la libertà come interiorità e quindi indipendenza dalle cose. Il saggio stoico è libero «sul trono e in catene» e lo schiavo Epitteto è libero quanto l'imperatore Marco Aurelio. Ma tale libertà è solo pensata, «senza il riempimento della vita, indifferente verso l'esistenza naturale [...], è libertà astratta», è intesa solo come concetto e non come concreta attuazione, giacché la realtà oggettiva, lungi dall'essere negata, continua a sussistere. Perciò questa figura esige di essere superata in un'altra in cui non ci si limiti a dichiararsi indipendenti, ma si metta effettivamente tra parentesi la realtà esterna e con ciò si attui la libertà. Questo superamento avviene nello scetticismo, dove l'assenso su tutto ciò che comunemente è ritenuto vero e reale è sospeso: così il pensiero afferma la non verità di tutti i contenuti e determinazioni e la coscienza fa esperienza «della propria libertà», opponendo a tutto ciò che individua come non vero la propria stabile identità. In questo stadio però la coscienza vive una insanabile contraddizione: negando l'assenso al reale, pretende di pensarsi stabile ma si scopre parte dell'accidentalità, del mutevole, delle cose. La consapevolezza di questa separazione dà luogo a una nuova figura: la coscienza infelice. La coscienza ricerca qualcosa di immutabile, individuandola in Dio come autocoscienza, qualcosa che possa realizzare la sua libertà. «L'uomo si umilia e si pone come la non-essenza; e allora cerca di elevarsi indefinitamente verso una essenza che lo trascende» come osserva Jean Hyppolite in Genesi e struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel (1946); Dio è percepito come separato (come un tutto contro il nulla che la coscienza percepisce di sé) e questa separazione porta la coscienza all'infelicità, alla percezione del proprio nulla di fronte a un Dio pensato come tutto. Simboli storici di questa coscienza infelice sono già i primi discepoli, che hanno cercato nel Cristo storico l'attuazione dell'unità tra la propria coscienza e il divino, che tuttavia rimane ancora estraneo alla coscienza; poi le crociate, dove il cristiano che ha cercato di «possedere il proprio oggetto come una presenza sensibile», lo perde necessariamente, trovandosi di fronte a un sepolcro vuoto, «la tomba della propria vita». Il significato filosofico di questa situazione è lo scacco del crociato che persiste a difendere il possesso del sepolcro e così rivela che la coscienza singola non ha ancora raggiunto la verità. Il discepolo e il crociato devono rientrare in se medesimi e trovare la santificazione nel lavoro e nel desiderio che li rendono consapevoli che tutto deriva da Dio. La coscienza infelice glorificando così Dio nega la libertà dell'uomo, ma non si spoglia completamente della propria libertà poiché la rinuncia è sempre opera sua. "La coscienza si sente qui come questa singola e non si lascia trarre in inganno dalla parvenza della sua rinuncia; la verità della rinuncia, infatti, resta sempre questa: che la coscienza non ha abbandonato se stessa". (HEGEL, Fenomenologia dello spirito) 6 Al culmine del suo percorso interiore, innalzata nel suo umiliarsi di fronte a Dio, la coscienza infelice trova la sua verità nell'ascetismo, nella figura del santo che annienta la propria singolarità per diventare un'autocoscienza più vera e profonda: la volontà singola si nega per far sorgere la volontà universale. In tal modo il Medioevo prepara il Rinascimento e la scoperta della ragione quale «certezza di essere ogni realtà», verità in sé e per sé (cioè unità della coscienza e dell'autocoscienza), universalità concreta. 4.4 Le figure della Fenomenologia: la ragione L'autocoscienza si eleva così a ragione, che è «identità di essere e pensiero». Anche la ragione si trova al suo sorgere in uno stato di immediatezza che esige un lungo percorso prima di diventare verità. Così la ragione si presenta come puramente osservativa, in quanto prende in esame la descrizione delle cose, la classificazione e gerarchizzazione dei generi e delle specie, le leggi di natura. Questo processo osservativo comincia con la descrizione per passare successivamente al rinvenimento dei segni caratteristici attraverso i quali è possibile denotare l'universalità delle cose e approdare alla scoperta delle leggi della natura con metodo sperimentale, scoprendo così il mondo organico come superiore a quello inorganico. Il mondo organico è dominato dalla legge della finalità, per cui ogni organo è finalizzato a uno scopo e desiste per svolgere una funzione nell'economia complessiva dell'organismo. C'è quindi una sorta di «sapienza inconscia» nella natura, una razionalità immanente. Questo è il punto capitale giacché il concetto di fine rinvia allo spirito che è consapevole di sé e dunque persegue i suoi scopi; inoltre la legge del finalismo afferma che l'esteriorità è espressione dell'interiorità, poiché i due termini devono essere considerati insieme come due realtà osservabili: quando l'osservazione razionale si impegna nell'indagine dall'interiorità verso l'esteriorità, nasce la psicologia con la sua pretesa di indagare l'individualità umana come autocoscienza agente, penetrandone i caratteri comportamentali, le inclinazioni, le doti personali. La ragione passa poi da osservativa ad attiva, cioè mira a realizzare l'unità di io e mondo, di soggetto e oggetto. Il processo si sviluppa attraverso varie figure. L'unità è cercata nel piacere, nella scoperta del sé nell'altro, è cercata in altri sé che si vuole assimilare (è l'esperienza che Goethe rappresenta nel Faust come raffinato erotismo ed edonismo). Poi è cercata in una nuova figura rappresentata da quella che Hegel chiama «la legge del cuore e il delirio della presunzione»: adesso la felicità è concepita dalla coscienza come un desiderio necessario, che esige forzatamente di essere appagato nella misura in cui mira a godere il mondo e a ritrovarsi in esso. La legge del cuore si perde nel momento in cui cerca di realizzarsi nell'operare effettivo poiché «avverte la resistenza di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto singole del cuore loro»: tenta di sfuggire alla contraddizione vedendo la perversione solo fuori di lei (cadendo così nel delirio della presunzione), in individui che sarebbero responsabili delle sofferenze dell'umanità, altrimenti buona per natura. La nuova figura che ne emerge è la virtù, che vede l'individuo ritrovare l'universale e con esso l'essenza di se stesso: ora la coscienza intraprende la lotta contro il corso del mondo quale gioco di egoismi. Si illude l'uomo singolo quando pensa di agire per se stesso in base ai propri egoismi, perché in realtà il suo agire nel mondo va sempre al di là di se stesso: bisogna pensare che l'agire sia il farsi dell'universale che è inseparabile dal suo manifestarsi determinato. Con ciò l'individuo scopre che la sua felicità è concepibile solo nella vita etica, all'interno di un tessuto sociale giacché lo spirito è universalità concreta e non è possibile rimanere allo stato di pura individualità. Gli individui si relazionano tra loro, si riconoscono reciprocamente, costituiscono la loro vita sullo Stato, «sostanza etica» o «sostanza universale» come complesso di leggi e di costumi di un popolo che può così ritrovare il principio sostitutivo della vita associata e del cooperare sociale. Raggiunto l'universale, l'individuo trova l'intima essenza di se stesso: egli vive in un mondo di leggi e di doveri, in cui realizza la propria essenza e le proprie autentiche finalità. In tal modo la ragione, spogliatasi di ogni accidentalità e individualità, si realizza come spirito. 7 "La ragione è spirito, dacché la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, ed essa è consapevole a se stessa di sé come del suo mondo, e del mondo come di se stessa". (HEGEL, Fenomenologia dello spirito) 4.5 La seconda parte della Fenomenologia La seconda parte della Fenomenologia (che corrisponde alla quarta sezione dell'opera) fu scritta da Hegel sotto la pressione dell'editore e contiene figure di grande interesse, anche se Hegel ritenne poi di doverle eliminare nelle sintesi che fece della Fenomenologia in altre opere. La dialettica dello spirito incomincia con il conflitto (presente nella pólis, "città", antica) tra legge umana e legge divina, un conflitto evocato da Sofocle nella tragedia dedicata alla figura di Antigone. Hegel mette quindi in scena l'Illuminismo, che muove guerra alla superstizione, e la Rivoluzione francese che proclama la libertà del soggetto e la sua emancipazione rendendolo puro arbitrio (perciò la rivoluzione sfocia nel Terrore). Sorge qui la figura dell'anima bella che, come prodotto della libertà assoluta, rappresenta l'innocente ottimismo dell'uomo che va incontro alla vita. L'ultima trama riguarda la religione, la cui storia narrata da Hegel ha inizio con la religione della luce dei persiani e con quella simbolica degli egizi per giungere a quella artistica propria dei greci, infine alla religione rivelata del cristianesimo. In questa non vi è più opposizione tra forme esteriori e sentire interiore, ma, mediante l'incarnazione di Dio stesso e la sua resurrezione come spirito si esprime lo spirito che ha riconosciuto se stesso. La religione diviene quindi così sapere assoluto, il sapere che l'assoluto ha di se stesso, consapevolezza che il mondo non è diverso da sé: lo spirito non è più solo in sé ma anche per sé. 5 La costruzione del sistema Già negli anni di Jena Hegel aveva espresso l'idea che il sapere filosofico debba essere sistematico e ne aveva delineato l'impalcatura generale, nella quale la Fenomenologia dello spirito si presenta come un'introduzione giacché definisce il sapere assoluto come il risultato della lunga odissea della coscienza, come la storia dei suoi sforzi per appropriarsi del mondo e quindi come una sorta di storia della conoscenza umana ora giunta alla sua piena maturità. Il sapere quindi è totalità in sé strutturata in cui ciascuna parte costituisce in sé a sua volta un tutto: in esso ogni contenuto trova la sua giustificazione se cessa di essere astratto (cioè considerato unilateralmente) e diviene un momento di un insieme complessivo (e in questo senso concreto) strutturato secondo nessi necessari. Il sistema è un processo perpetuo che inizia e termina nel pensiero: la filosofia è quella particolare forma di sapere che ha per contenuto e oggetto d'indagine il pensiero, e soprattutto che lo considera nel modo più idoneo e adeguato, in forma di concetto. Perciò la filosofia si propone di assicurare il massimo di oggettività, ossia di aderenza alla cosa, e di concretezza. Il sapere filosofico è dunque assoluto (cioè non dipendente da altro) e perciò il solo in grado di fornire un'adeguata fondazione e legittimazione a tutti gli altri saperi. Così l'assoluto, o ragione, è lógos universale, «è la certezza della coscienza di essere ogni realtà»; in chiave di puro immanentismo, se lo spirito si identifica con l'insieme delle sue determinazioni particolari, il reale è espressione di razionalità e il sistema della filosofia non può essere altro che l'esposizione dell'assoluto. "Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato, 8 e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia il suo volo sul far del crepuscolo". (HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto) Il sistema filosofico mostra il mondo nel suo nucleo di razionalità, distinguendo tra necessità razionale e contingenza empirica (che è pura accidentalità). In questo contesto Hegel usa il termine idea per designare la ragione in atto, cioè «l'unità di ragione ed essere», pensiero e realtà, soggetto e oggetto: «l'idea è il vero in sé e per sé» e come tale essa è l'autocostituirsi dinamico della realtà; è insieme il suo principio e fondamento e anche il suo fine. In quanto descrizione della struttura dell'assoluto, il sistema non ha né un principio né una fine, perché l'assoluto non ha principio né fine, non potendo apparire che come «approfondimento del pensiero in se stesso». Tenendo presente questo, l'esposizione del sistema che Hegel presenta nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio comprende tre parti generali nel seguente ordine: Logica, Filosofia della natura, Filosofia dello spirito. 6 La logica Hegel tratta della logica in modo ampio nella Scienza della logica (1812-1816), e, in compendio, nella prima parte dell'Enciclopedia. La logica, la cui esposizione presuppone il sapere assoluto acquisito nella Fenomenologia, descrive le strutture ideali della realtà come sono in sé, senza considerare né il modo in cui si sono attuate concretamente nel mondo né il modo in cui sono state colte dalla coscienza umana. In questo senso Hegel dice che essa è «scienza dell'idea pura», cioè della relazione che domina le cose del mondo, della legge regolatrice dell'universo «colta nell'elemento astratto del pensiero». Infatti nella presupposizione dell'identità di pensiero ed essere, la logica ha valore ontologico-metafisico poiché mira a «portare alla coscienza la natura logica che anima lo spirito». Oggetto della logica è dunque il pensiero stesso in quanto oggettivo e identico con la ragione immanente, i cui concetti o categorie sono determinazioni sia del pensiero sia della realtà. Quindi essa ripensa i concetti della metafisica tradizionale della sostanza alla luce della dottrina della soggettività trascendentale che per Hegel non è sinonimo di coscienza individuale e finita, ma è caratteristica che spetta al concetto quale principio razionale infinito (e perciò creatore e organizzatore della realtà, di cui è essenza necessaria), quindi sostanza che si autodetermina e si riferisce a sé nella dimensione del pensiero che pensa se stesso e si autorealizza. Alle fasi di autoesplicazione del concetto, corrispondono altrettante divisioni della logica: logica dell'essere; logica dell'essenza; logica del concetto. 6.1 Logica dell'essere La logica dell'essere è quella caratterizzata dall'immediatezza e dalla semplicità, in quanto prende in considerazione le nozioni più povere e astratte, percorrendo i tre momenti successivi della qualità, della quantità e della misura. Dovendo cominciare dal concetto più astratto e vuoto di tutti, la logica parte da quello di essere che è, come in Parmenide, assolutamente privo di determinazioni, quindi di ogni contenuto. Ma proprio per questa genericità esso trapassa, coincide con il nulla: in realtà questo non è opposto all'essere (non è l'assoluto altro rispetto all'essere), ma è nulla di determinato. In tal modo le due nozioni solo apparentemente sono separate e antitetiche, mentre sono due momenti di un'unica realtà: perciò la loro sintesi, la loro unione concreta è il divenire, in cui effettivamente essi sono superati nella misura in cui l'uno passa e svanisce nell'altro. Il divenire è quindi la prima determinazione, oltre che del pensiero, anche della realtà: entrambi sono contrassegnati dal movimento incessante, dallo sviluppo quale loro struttura fondamentale. 9 Dai suoi momenti, il nascere e il perire - passaggio dal nulla all'essere e dall'essere al nulla - e dalla loro contraddizione deriva l'essere determinato (l'esserci), pensiero o ente, che ha come caratteristica il limite In base ad esso, si ha un qualcosa di qualitativo e di reale (essere in sé), distinto e separato da altri per via di precise qualità, quindi contrapposto ad altro come alla sua negazione (essere per altro), tanto che entrambi si negano e si limitano reciprocamente. L'essere determinato è allora finito e in quanto tale porta con sé il non essere come fattore costitutivo della finitezza: poiché l'insieme, la totalità degli esseri finiti e determinati non può essere a sua volta finita ma infinita, si pone il problema del rapporto tra posizione del limite e suo oltrepassamento, cioè tra finito e infinito, rapporto che può essere pensato in corrispondenza a due modi di concepire l'infinito stesso. Hegel distingue tra cattiva e vera infinità: la cattiva infinità, prodotto dell'intelletto astraente, è tale in quanto esprime la semplice contrapposizione con il finito e perciò, non possedendolo come suo momento interno, ne è da esso limitato; a sua volta il finito è mostrato nella sua intrinseca contraddittorietà, ma poi non riesce effettivamente ad attingere all'infinito; la vera infinità deve invece comprendere l'originaria unità con il finito e quindi essere concepita come consistente nel processo che lo nega, lo toglie e lo supera ricomprendendolo come suo momento: l'infinito dunque è spirito, organismo vivente che si incarna e si supera via via nelle sue espressioni finite fino a raggiungere, come idea e ragione assoluta, l'identità finale con esse come compimento del processo dialettico, fine in atto della sua essenza originaria. Come essere per sé, possiede le determinazioni dell'uno e dei molti, tra le quali si determina un rapporto reciproco di attrazione e repulsione. Poiché esse esigono di essere misurate, questo rapporto ha come risultato il passaggio dalla qualità alla quantità, passaggio che si conclude in concrete differenze qualitative, facendo sì che l’essere, pur nella diaspora quantitativa della molteplicità, ritrovi la natura originaria del sostrato che è alla sua base. Con ciò però siamo passati dalla logica dell'essere a quella dell'essenza. 6.2 Logica dell'essenza «La verità dell'essere è l'essenza»: infatti quest'ultima giunge a cogliere le proprietà fondamentali dell'essere, al di là dell'immediatezza, dietro il divenire sensibile. La sfera dell'essenza è dunque la spiegazione del visibile mediante ciò che non è visibile se non con gli occhi dello spirito. Perciò qui viene tematizzata innanzitutto la riflessione intesa (secondo l'etimologia del termine tedesco Wesen) come l'internarsi, il ripiegarsi della cosa in se stessa fino alla sua natura intrinseca, in cui l'essere immediato viene spiegato in quanto si mostra dipendente dall'essenza. Nel procedere suc-cessivo si passerà progressivamente a cogliere la realtà nella sua immutabilità, nel suo essere in sé (noumeno) e a determinarne le relative categorie. Tutto ciò corrisponde in sintesi all'articolazione del discorso hegeliano che considera: a) prima l'essenza come appare in se stessa, poi b) come fenomeno - la manifestazione dell'essenza nell'esistenza - e infine c) nella realtà effettiva come unione dei due termini. Il punto d'approdo della logica dell'essenza è quello del considerare le cose sotto l'aspetto della totalità, dunque il pensare non può essere che il frutto della spontaneità creatrice del pensiero stesso, la cui natura è libera: la logica come descrizione dell'idea nella sua processualità creatrice. 6.3 Logica del concetto Hegel intende per concetto la stessa soggettività del pensiero (cioè della ragione universale) che si autocrea e in tal modo pone tutte le determinazioni logiche che costituiscono l'impalcatura dell'intera realtà. In questo senso esso è sostanza e della sostanza comprende la struttura fondamentale (l'uguaglianza di sé nelle sue diverse determinazioni), mentre presenta il carattere tipico del soggetto (il riferirsi consapevole a sé). Dunque il concetto si mostra come l'autentica realtà effettiva che si autocostituisce nel riferirsi a sé del pensiero: in esso si attua pienamente quell'unità di pensiero ed essere che è il fondamento di tutto il sistema. 10 Perciò se astratto è il sapere dell'intelletto che coglie aspetti particolari della realtà separati dal tutto, concreta è la ragione che invece ne sa vedere, da un punto superiore, l'unità e le articolazioni individuali. In questo senso il concetto è tutto, e «va considerato come forma infinita, creatrice, che racchiude in sé la ricchezza di ogni contenuto e, al tempo stesso, la licenzia da se stessa». Se la ragione è soggettività vivente (spirito), il concetto ne esprime l'attività universale assoluta: esso dunque rappresenta il movimento del pensiero, è esso stesso movimento, il movimento della totalità nel suo autosviluppo. Hegel chiama idea assoluta l'«identità di vero e di bene», la vita universale che ha riassorbito in sé ogni immediatezza e finitezza, pura possibi-lità logica che è fondamento e condizione di ogni concreta realtà per cui «ogni reale è solo in quanto ha in sé l'idea e l'esprime». 7 La filosofia della natura Nella struttura generale del sistema, la natura rappresenta il momento negativo, l'antitesi. Pervenuta alla pienezza del suo sviluppo logico, l'idea «si risolve a lasciare uscire da sé il momento della sua particolarità [...] come natura». Sotto questo aspetto, essa rappresenta l'alienazione, cioè l'esteriorizzazione dell'idea in una molteplicità di forme. In tema di filosofia della natura la posizione di Hegel non è priva di ambivalenze che hanno dato molto lavoro agli interpreti: da un lato egli vede nella natura una caduta, un degrado dell'idea; dall'altro il raggiungimento di un arricchimento autoriflessivo realizzato mediante il suo estraniarsi da sé. Indubbiamente Hegel ha prevalentemente insistito sul primo motivo: essendo la natura la stessa idea «nella forma dell'essere altro da sé», appare di conseguenza come decadenza dell'idea da se stessa. Infatti l'idea, nella forma esteriore della natura, è «inadeguata a se stessa»: avendo un'esistenza meramente esteriore, anche le sue manifestazioni sono caratterizzate in questo senso; ciò significa che i suoi vari aspetti particolari e determinati, posti in condizione di separazione e di distacco, impongono all'insieme una forte impronta di accidentalità e mancanza di libertà. Pertanto la ragione può penetrare la costituzione della natura fino a un certo punto: poiché in essa il concetto è realizzato in modo oscuramente inconscio e accidentale, non certo nella ricchezza delle sue articolazioni, è impossibile mostrare l'intrinseca necessità e universalità di tutti i suoi prodotti. Hegel respinge il modello meccanicistico e il metodo sperimentale, mirante, attraverso l'ipostatizzazione delle forze naturali come entità indipendenti, a individuare un sistema di relazioni fisse tra i fenomeni espresse in formule matematiche e in proposizioni verificabili e adattabili all'osservazione empirica. La filosofia può al massimo mostrare il piano generale della natura, che è fondamentalmente statica, rigidamente fissa nel suo ordine: è piuttosto un «sistema di gradi, in cui l'uno esce dall'altro necessariamente» dove per gradi non dobbiamo intendere uno sviluppo biologico ed evolutivo ma i momenti del processo dialettico che conduce la natura a inserirsi e fondersi nello spirito. Il primo grado è costituito dalla meccanica, che studia i fenomeni naturali al livello più basso e dunque caratterizzati nel senso dell'isolamento e dell'esteriorità: per questo la prima forma è lo spazio in cui gli individui sono giustapposti gli uni agli altri. Segue il tempo, forza negativa che distrugge ciò che incontra giacché, come divenire esteriore, supera ma non conserva. La dialettica spazio-tempo si attua in quella di luogo e movimento, che è a fondamento del concetto di materia. Questo si estrinseca in momenti successivi: inerzia, urto e caduta unificati nella gravitazione universale che regola il movimento dei corpi celesti. Il secondo grado è costituito dalla fisica che considera la materia in quanto «si strappa alla gravità» e quindi si determina in sé e da sé costituendo l'individuo: nel primo momento come «fisica dell'individualità universale» studia gli elementi della materia; quindi dialetticamente si passa alla «fisica dell'individualità particolare» che tratta delle proprietà essenziali della materia (peso specifico, suono, calore) per giungere alla sintesi costituita dalla «fisica dell'individualità totale», che affronta i processi magnetici, elettrici e chimici. In questo campo, dalla sintesi dei processi di combinazione e dissoluzione degli elementi, si può giungere alla giustificazione dell'organismo che inaugura l'ultima parte della natura, o fisica organica. 11 Questa tratta innanzitutto della natura geologica, di quella vegetale e infine di quella animale dove l'organismo ha una certa autonomia e sentimento della vita. Ogni individuo biologicamente determinato incontra la morte, che Hegel interpreta come segno e conseguenza «dell'inadeguatezza all'universalità» da parte dell'individuo, che è semplice accidentalità rispetto al genere: solo questo è l'idea, mentre gli individui sono esistenze attraverso cui il genere si perpetua. Nell'uomo - anch'esso individuo biologicamente determinato - avviene il riscatto dell'idea dalla sua esteriorità con l'attuazione del passaggio dalla natura allo spirito: la ragione riprende coscienza di sé realizzando la sintesi di universale e individuale. 8 Lo schema della filosofia dello spirito nell'Enciclopedia Lo spirito è l'assoluto in senso proprio in cui idea e natura, in sé momenti ideali e condizioni preparatorie, trovano la loro sintesi. Ciò significa che lo spirito è nello stesso tempo la negazione (infatti ne abolisce l'esteriorità e la dispersione) e la verità (in quanto la realizza al massimo vertice) della natura. Come spirito, la ragione si fa soggettività libera, individualità che passa dal piano della mera accidentalità a quello dell'universalità, divenendo consapevole di sé e del suo valore. In questo senso lo spirito si manifesta e coincide con l'uomo, cioè nell'essere che si solleva dalla bruta naturalità e in cui si afferma, insieme con la coscienza, la cultura quale forma espressiva dell'attività intellettuale singola e collettiva. Hegel descrive il progressivo sviluppo della vita dello spirito dai gradi più semplici e immediati a quelli più complessi, seguendo il suo necessario ritmo dialettico: ciò significa che i vari gradi non sono esteriormente giustapposti o coesistenti (come nella natura), ma risultano organizzati secondo la logica dell'unità di finito-infinito per cui ognuno di essi si risolve, in quanto determinato, in quello dialetticamente superiore che lo comprende in sé nella misura in cui è già in esso presente. 9 La filosofia dello spirito soggettivo Nella sezione dedicata allo spirito soggettivo Hegel mostra come lo spirito cominci la sua vita con la soggettività quale si esprime nella finitezza individuale. Si può osservare lo spirito che emerge dalla natura per avviarsi, con passo lento ma graduale, verso la sua piena maturità ed elevatezza. Certo, le sue prime manifestazioni sono ancora torbide e confuse, mescolate come sono a quelle grossolane della fisicità animale: tuttavia è qui che prendono avvio e gettano le radici le espressioni più specifiche dell'essenza umana, le sue attività teoretiche e pratiche quali prodotti delle sue funzioni psichiche superiori, in particolare della sua intelligenza. Il primo momento di manifestazione dello spirito soggettivo è costituito dall'anima che, nella sua immediatezza naturale, è costituita da un complesso di determinazioni psicologiche studiate dall'antropologia. Con riferimento esplicito alla posizione di Aristotele, l'anima rappresenta dunque quella sfera in cui corpo e psiche sono originariamente unite, e quindi in cui spirito e natura stabiliscono uno stretto complesso di rapporti. Da un lato quindi si possono constatare i condizionamenti dei vari fattori naturali (da quelli geografici e fisici, a quelli dell'età e del sesso, della salute e della malattia ecc.), dall'altro Hegel si sforza di mostrare sempre il significato razionale dei fenomeni considerati, giacché ora compare nell'individuo il sentimento (certo, in gran parte inconsapevole) dell'unità della propria vita in quanto è orientata a un fine universale. Hegel si sofferma: 1. sulla differenza tra sonno e veglia e sulla rilevanza del destarsi - qui infatti si determina il passaggio da uno stato di confusa indeterminatezza al senso della propria individualità e autonomia, o anima senziente; 12 2. sul significato della malattia, che sarebbe dovuto a uno squilibrio di forze di una parte del corpo con conseguente interessamento dell'anima senziente fino alla sua dissoluzione; 3. sul significato della follia - dove un'idea assume un ruolo dominante rispetto alle altre, ma senza avere un collegamento con il resto della vita; 4. sul ruolo e sull'incidenza dell'abitudine, la quale, come attività sviluppata automaticamente senza coinvolgimento della coscienza, implica un progressivo liberamento dell'anima dai vincoli del corpo; 5. sulla funzione del linguaggio, il quale, in quanto è intrinsecamente e immediatamente dotato di una struttura logica, è oggettivazione della razionalità, veicolo di universalità realizzando in sé l'unità di segno, significato e oggetto. La trattazione di questi due ultimi punti consente poi a Hegel di mostrare come l'anima diventi reale, cioè capace di esprimersi in modo simbolico e quindi di rompere l'immediata unità psicosomatica per acquisire la consapevolezza dell'opposizio-ne tra l'esterno del mondo e l'interno dell'io: ciò significa che il movimento dialettico dell'anima conduce come proprio risultato alla coscienza. Lo studio di essa è oggetto della fenomenologia; qui Hegel riprende i temi della Fenomenologia dello spirito (limitatamente alle sezioni sulla coscienza, l'autocoscienza e la ragione) inserendoli nella struttura del sistema, con la differenza che ora lo sviluppo fenomenologico conduce alla psicologia, cioè allo studio dello spirito soggettivo in senso proprio, quindi dell'«individuo come tale» in cui si realizza l'unità dialettica dei momenti precedenti. Il soggetto individuale è in grado di esprimersi con manifestazioni che hanno un senso universale e che sono l'attività teoretica e l'attività pratica. Si ha attività teoretica quando lo spirito soggettivo giunge al culmine, quando il soggetto riconosce se stesso nell'oggetto. Si ha attività pratica quando lo spirito soggettivo mira ad affermare l'autonomia del soggetto rendendolo indipendente dall'oggetto, quale fattore esterno limitante e condizionante la sua vita: esso si manifesta all'inizio nel sentimento del giusto e dell'ingiusto, successivamente negli impulsi e nell'arbitrio, infine nell'aspirazione alla felicità quale massima espressione dello spirito che ha come fine intrinseco il possesso di sé. In realtà tanto l'attività teoretica quanto l'attività pratica dello spirito soggettivo sono prodotti dell'unitaria struttura costitutiva dell'individuo il quale, pertanto, ha come essenza la libertà o volontà libera: a questo livello di sviluppo (dovuto secondo Hegel al cristianesimo) lo spirito soggettivo divenuto spirito libero si vuole autodeterminare, proponendosi la regola e il fine dell'agire. In tal modo però egli incontra gli altri individui liberi e i loro fini, scoprendo co-me la sua libertà sia pura astrazione, un semplice conato, senza l'interazione con loro e senza il reciproco riconoscimento: in tal modo lo spirito «entra nella sfera dell'esistenza mondana», uscendo dalla sfera della soggettività per accedere a quella dei rapporti sociali e delle loro istituzioni in cui si può concretamente realizzare. Con ciò lo spirito è diventato oggettivo. 10 La filosofia dello spirito oggettivo: diritto astratto e moralità 1.1 Il diritto astratto Il primo momento in cui l'individuo si definisce come tale all'interno di rapporti sociali e in cui realizza la propria libertà è quello del diritto astratto. Qui egli può manifestare la propria volontà nel modo più immediato, cioè sulla materia più elementare e povera costituita dagli oggetti esterni: in tal modo egli diventa, secondo il dettato del diritto romano, persona giuridica, quindi soggetto dotato di diritti. Nel mondo moderno il diritto primario di «appropriazione dell'uomo su tutte le cose» ha assunto la forma della proprietà privata «libera e piena»: ciò significa che il diritto considera la persona come inserita in una struttura di rapporti giuridici puramente formali (cioè indipendentemente e perciò 13 astrattamente dalle concrete condizioni particolari) dove la libertà è trattata in senso meramente esteriore in quanto «il soggetto che è libero [...] si dà un'esistenza nelle cose». Malgrado ciò, qui l'individuo incomincia a vedere negli altri delle persone da rispettare, giacché insieme ai diritti assume anche dei doveri, e può assistere, esprimendo la volontà esplicita di far valere il suo possesso, alla trasformazione di ciò che ha in proprietà. Nell'istituto del contratto volontà differenti si riconoscono reciprocamente e, convenendo in unità di intenti per trasferire dei diritti personali su cose, concordano la garanzia e la salvaguardia del possesso delle rispettive proprietà. Tra queste non va dimenticata quella fondamentale sulla propria stessa persona (habeas corpus). Dal contratto hanno origine le dispute e quel fenomeno giuridico che è «il diritto contro il torto»: infatti compito del primo è anche quello di difendere la proprietà dalla violenza altrui. Se, tra le forme di torto, si possono distinguere la controversia (dove il diritto è interpretato diversamente da ciascuna delle due parti) e la frode (dove la legge è rispettata solo in modo formale, ma violata nella sua essenza, nel suo spirito), certo quella più grave è il delitto dove il valore della legge è esplicitamente negato: perciò il diritto deve mirare anche alla sua repressione e punizione. Poiché il delitto si configura come affermazione dell'arbitrio personale contro il diritto di tutti, la pena assume allora il valore di ripristino della razionalità giuridica che deve reggere e permeare i rapporti sociali nella loro validità universale di libertà. Tuttavia nell'attuare tale punizione il diritto non può presentarsi che come «diritto di violenza»: in tal modo esso evidenzia il suo limite e la sua insufficienza giacché, come il delitto esprime un disagio del singolo verso la società, così il diritto non ricompone questo dissidio e conferma la scissione all'interno del corpo sociale. Perché la sostanza di questo possa venire reintegrata in tutta la sua organicità, occorre che le norme vengano interiorizzate e che la volontà individuale cresca nel senso dell'autodeterminazione, salendo verso superiori forme di universalità non meramente esteriori. In tal modo il piano del diritto è superato in quello della moralità. 10.2 La moralità Sul piano morale l'io è libero in se stesso, «nella sfera soggettiva»: ciò significa che questo momento dialettico, tipico della modernità e promosso dal cristianesimo, è caratterizzato dalla volontà dell'individuo che pretende di agire in base a un proposito consapevolmente e responsabilmente stabilito. Il proposito assume la forma dell'intenzione in quanto l'individuo, che è dotato di volontà, è un essere razionale che mira a conseguire il suo benessere: nella misura in cui l'individuo esce dal proprio particolarismo per elevarsi all'universalità, egli trasforma il proprio benessere in bene in sé e per sé che la sua volontà persegue come fine assoluto. Questo si configura come un dover essere, cioè un «essere assoluto, che tuttavia insieme non è» in quanto attende di essere realizzato: si stabilisce così una separazione tra la volontà soggettiva e il suo fine che si presenta quale tratto tipico della moralità, specialmente di quella kantiana. Hegel ha sempre tenuto una posizione critica nei confronti di Kant, cui ha rimproverato l'astrattezza dei termini e il consequenziale formalismo che evidenzia peraltro il contrasto tra il suo rigorismo (che sacrifica i nostri bisogni e la nostra aspirazione alla felicità) e la sua impotenza a concretizzarsi nel mondo reale, nella «realtà vivente». Dunque sulla base di questo soggettivismo astratto si stabilisce un'opposizione tra «una cosa vuota come il bene» e il dovere che finisce per determinare una scissione all'interno della coscienza umana. Ciò significa che questa opposizione va tolta e superata su un piano dove l'individuo, in rapporto stretto con gli altri individui, in rapporto di identità con il mondo avvertito come suo, sia in grado di realizzare effettivamente la sua volontà. Questo piano è quello dell'eticità. 11 L'eticità L'eticità rappresenta il momento in cui l'esteriorità del diritto e l'interiorità della morale trovano la loro conciliazione. Il mondo oggettivo umano, in quanto caratterizzato da vincoli sociali forti e concretamente determinati, può dunque realizzarsi solo attraverso l'eticità, in cui la persona non vede 14 più nel dovere un'imposizione, ma il modo per la realizzazione dei suoi stessi diritti: ciò implica che gli individui avvertano un impulso simpatetico spontaneo verso i propri simili e imprimano un carattere di fiducia ai loro rapporti. Ma questi assumono un valore universale solo nel momento in cui trovano forma e sostanzialità nelle istituzioni o forze etiche, con cui l'eticità pertanto viene a coincidere: in quanto sintesi di soggettività e oggettività, di concetto e sostanza, al loro interno infatti si specificano fini concreti che, sulla base di precise esigenze, si propongono all'individuo come compiti da realizzare con dedizione e impegno. 11.1 La famiglia Il primo momento dialettico dell'eticità è costituito dalla famiglia quale unità spirituale, in cui l'unità dei membri è posta in modo immediato a partire dal rapporto naturale dei sessi. Nel mondo moderno essa è fondata sul matrimonio con cui due persone, che si uniscono in un vincolo d'amore e fiducia reciproca, formano un organismo sociale compatto e concorde, una sola persona: il matrimonio, dunque, non è un mero contratto, ma una sintesi che, per effetto di un atto libero di volontà di due individui autonomi e autodeterminati, eleva e invera, trasfigurandoli su un piano superiore, una serie di elementi naturali (la sessualità), giuridici (il dato contrattuale esterno) e affettivi (l'amore). Dal matrimonio così inteso derivano gli altri fattori costitutivi la famiglia, che sono il patrimonio (che, usato nell'interesse di tutti i membri, consente il loro sostentamento e la soddisfazione dei bisogni comuni) e l'educazione dei figli. Questi ultimi, diventati adulti, usciranno da questo nucleo per formarne di propri e con propri interessi, così come i genitori un giorno moriranno in tal modo la famiglia, nella sua finitezza e naturalità, si dissolve. Ciò che permane, come sostanza etica, è il rapporto tra le famiglie che costituisce la società civile. 11.2 La società civile Rispetto al momento precedente, caratterizzato dall'unitarietà e dalla solidarietà immediata, il momento della società civile vede il prevalere della dispersione esteriore, della frantumazione delle molteplici individualità particolari in un sistema di relazioni essenzialmente conflittuali per la contrapposizione di interessi specifici. La società civile è dunque il luogo della mediazione, della scissione e della differenziazione, «il campo di battaglia dell'interesse privato e individuale di tutti contro tutti»: ciò significa che da un lato c'è l'aspetto universale del vivere sociale, ma solo come sistema di organi pubblici, giuridici e amministrativi, che dall'esterno e formalmente regolano l'insieme dei rapporti intersoggettivi. Dall'altro vi sono proprio questi ultimi, che sono costituiti dallo scontro/incontro di bisogni e interessi propri di individualità (i nuclei familiari) che, mentre devono necessariamente convivere, sembrano non trovare, a causa delle motivazioni delle rispettive volontà ad agire, una dimensione di armonia e organicità di vita in comune. Per questo motivo Hegel qualifica la società civile come un «sistema dell'atomistica» per evidenziare l'isolamento, l'indipendenza degli individui, chiusi ciascuno nel proprio ambito privato, prigionieri del conflitto tra bisogni egoistici e bisogni sociali; analogamente vede in essa una «perdita di eticità», giacché la particolarità è in rapporto con l'universalità solo «in maniera formale, che appare soltanto nel particolare». Hegel però vuole mostrare che malgrado la frantumazione delle relazioni sociali, emerge un legame etico di fondo che attende di manifestarsi in modo pieno ed esplicito: per il momento gli individui sono «persone private che hanno per proprio fine il loro particolare interesse»: tuttavia, nella misura in cui la soddisfazione dei bisogni di ciascuno è dipendente da quella degli altri, questo fine è mediato dall'universale, che di conseguenza appare a ciascuno solo come un mezzo. Il fine, quindi, può essere: [...] conseguito da loro [cioè dai singoli] soltanto in quanto essi stessi determinino in maniera universale il loro sapere, volere, fare [cioè coordinino socialmente la loro vita] e si costituiscano ad anelli della catena di questa connessione. [Per questo motivo] non è in quanto libertà, ma in quanto necessità, che il particolare si elevi alla forma dell'universalità, che cerchi e abbia, la sua consistenza, in questa forma. (HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) 15 Il primo momento della società civile è quello del «sistema dei bisogni»: qui Hegel, descrivendone la dinamica interna, si mostra assai vicino alle posizioni degli economisti classici (come Adam Smith) di cui accoglie sostanzialmente i risultati. Hegel sottolinea come l'egoismo dei fini privati contribuisca al soddisfacimento dei bisogni di tutti, anzi come questi ultimi diventino sempre più numerosi, raffinati e complessi in rapporto alla divisione del lavoro che stimola la specializzazione dei produttori. Hegel mostra piena consapevolezza sia dei caratteri e dell'incidenza dei processi economici tipici della rivoluzione industriale sulla composizione sociale sia dei fattori costitutivi e delle loro conseguenze. innanzitutto la divisione del lavoro «che effettua la specificazione dei mezzi e dei bisogni e, appunto perciò, specifica la produzione» rendendo il lavoro più semplice anche attraverso l'introduzione delle macchine. Ne deriva da un lato «la dipendenza e il rapporto di scambio fra gli uomini, per l'appagamento di altri bisogni», e dall'altro un'umanizzazione della realtà poiché «queseelaborazione dà al mezzo il valore e la sua conformità allo scopo, quest'elaborazione suo consumo, sta in rapporto particolarmente con i prodotti umani e sono tali fatiche che egli utilizza». I rapporti sociali moderni non sono però fatti solo di interdipendenza economica, ma anche culturale, nel senso che l'individuo entra in questo tessuto relazionale anche attraverso lo scambio di competenze sia teoriche sia tecnico-pratiche richieste e incentivate proprio dalla crescente specializzazione delle attività produttive: egli non è solo formato in senso mentale ma anche comportamentale (educazione pratica) giacché il lavoro impone, ed esige, una precisa disciplina, che «consiste nel bisogno che si produce e nella consuetudine dell'occupazione in generale». Attraverso la sinergia di questi fattori si determina dunque al livello del sistema dsinergiai l'unità dell'organismo e della ricchezza sociale, anche gli individui non ne sono consapevoli e credono di lavorare solo per il proprio vantaggio. In questa dipendenza e reciprocità del lavoro e dell'appagamento dei bisogni, l'egoismo soggettivo si converte nel contributo all'appagamento dei bisogni di tutti gli altri, così che, poiché ciascuno acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista per il godimento degli altri. (HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) Alla divisione del lavoro è naturalmente associata la divisione della società in classi: nella trattazione di questa materia, Hegel tende a sovrapporre ai tratti del modello capitalistico-borghese quelli della Prussia pre-capitalistica, con le sue istituzioni tradizionali fondate sui ceti (in tedesco Staende, "stati", "ordini"). Così egli individua il ceto sostanziale o agrario che comprende sia la nobiltà latifondista sia i piccoli proprietari; quello industriale che comprende anche artigiani e commercianti; e infine quello generale (o universale) così chiamato perché si occupa degli «interessi generali dello stato sociale», un ceto che include la burocrazia di Stato. Quest'ultimo deve essere «dispensato dal lavoro diretto per i bisogni, o per mezzo del patrimonio privato, perché esso è indennizzato dallo Stato, che esige la sua attività; così che l'interesse privato trova il proprio appagamento nel suo lavoro per la generalità». Poiché «l'uomo vale in quanto uomo» e il diritto moderno ha sancito questo principio, l'accesso ai ceti (specie al terzo) non è legato alla nascita. Il secondo momento della società civile è costituito dall'«amministrazione della giustizia», in cui il diritto è assunto nell'eticità e «passa all'esistenza» realizzandosi in modo concreto come «realtà oggettiva» (o diritto positivo). A questo livello dunque esse si specifica in un sistema di norme pubblicamente conosciute e dunque con valore obbligante; ne deriva che il delitto si configura contro «la cosa universale», come «dannosità dell'azione per la società»: il giudice rappresenta il pubblico potere (quindi non un potere autonomo, ma il potere esecutivo) e a lui spetta «la realizzazione del diritto nel caso particolare, senza il sentimento soggettivo dell'interesse particolare». Ciò significa che in questo modo il diritto dell'individuo viene connesso alla legge come norma o diritto universale, rendendo più stretto e organico il suo legame con la «sostanza etica», l'intero sociale. Infine Hegel individua un terzo momento ne «la polizia e le corporazioni». La prima realizza «quell'unità dell'universale, che è in sé, con la particolarità soggettiva», assicurando quindi la sussistenza e il benessere del singolo e che questo fine sia «trattato e realizzato come diritto». Essa deve quindi essere intesa generalmente come amministrazione che provvede e previene tutto ciò che può danneggiare o favorire il singolo. Tra i compiti della polizia per il benessere dei membri del corpo sociale c'è quello educativo. 16 L'individuo è divenuto figlio della società civile [che ha] altrettante pretese verso di lui, quanti diritti ha egli verso di essa, [essa] in questo carattere di famiglia universale, ha il dovere e il diritto, di fronte all'arbitrio e all'accidentalità dei genitori, di esercitare sorveglianza e influenza sull'educazione, in quanto questa si riferisce all'attitudine di divenire componente della società [e] in quanto possono essere presi provvedimenti comuni a tal fine, ha il dovere e il diritto di preparare questi. (HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) Inoltre rientra nelle competenze dell'amministrazione farsi carico, con opportune misure di politica economica, di un problema che agli occhi attenti di Hegel non poteva sfuggire quale tratto caratteristico del mondo moderno industrializzato dove la ricchezza è accumulata e distribuita in modo diseguale: quello del pauperismo crescente e della formazione di classi subalterne dalle condizioni di vita precarie. Da un lato Hegel afferma che «il potere generale prende il posto della famiglia presso i poveri, tanto riguarda alle loro deficienze immediate, quanto riguarda al sentimento di avversione al lavoro, alla perversità e agli altri vizi, che provengono da tale situazione e dal sentimento del proprio torto»; dall'altro egli è contrario sia a misure assistenzialistiche, le quali sarebbero contro il principio della società civile e della loro autonomia e dignità, sia a un'estensione dell'occupazione, che creerebbe un surplus produttivo senza un'adeguata possibilità di assorbimento da parte del mercato, quindi una crisi di sovrapproduzione. L'espansione del mercato e lo sviluppo si profilano dunque come la soluzione obbligata per un problema altrimenti ineliminabile. In ogni caso, di fronte alla conflittualità e alle lacerazioni del modello di società borghese tendenzialmente individualistico, Hegel indica nelle corporazioni il momento più efficace di mediazione per il recupero del rapporto organico tra l'individuo e l'intero sociale. In questa «seconda famiglia» ogni componente della corporazione trova «la sua dignità» ed è riconosciuto come membro di un intero organico il quale, a sua volta, è «una componente della società generale e ha interesse e premure per il fine più disinteressato di questa totalità». Per questi motivi la corporazione rappresenta il più alto fattore di mediazione tra la società civile e lo Stato; ma solo lo Stato tuttavia costituisce il culmine dello spirito etico che in lui trova piena realizzazione e compiuta unità, nella misura in cui risolve in sé ed eleva su un piano più alto i due momenti precedenti, l'unità immediata e naturale della famiglia e la differenziazione della società civile. 11.3 Lo Stato Lo Stato è espressione dello spirito, è l'oggettività di «ciò che è». In esso tutte le particolarità (gli individui, le famiglie, le classi ecc.) trovano il loro fondamento e perciò il senso del loro essere e il fine del loro agire. Infatti come sul piano metafisico l'intero si articola accogliendo in sé le determinazioni finite colte dalla riflessione, altrettanto sul piano etico l'intero (che sul piano etico è lo Stato) deve accogliere in sé sia le determinazioni del diritto proprietario e privatistico sia le determinazioni economiche tipiche del mondo moderno. Lo Stato quindi è un intero organico che in modo immanente si articola secondo tutti i momenti della vita civile senza lasciarne alcuno fuori dal suo dominio, giacché nella sua struttura sono comprese tutte le determinazioni della vita sociale. Nello Stato gli individui, cessando di percepirsi come mere entità atomiche, si elevano, quali «esseri pensanti», all'universalità, smettono il loro naturale egoismo e vogliono razionalmente il bene comune, operano non per se stessi ma, concordemente e coordinatamente, per un fine superiore che li unifica: questo non può essere che lo Stato, e dunque solo in esso è possibile rinvenire e trovare incarnata l'autentica libertà. Pur essendo espositivamente collocato per ultimo nello schema dell'Enciclopedia delle scienze filosofiche, ontologicamente viene per primo così come il tutto viene prima delle parti di cui non è semplicemente la somma. In questo senso si possono intendere le critiche che Hegel muove alle varie correnti di pensiero politico a lui precedenti. Innanzitutto la sua concezione etica e organicista si presenta come del tutto opposta a quella liberale, secondo la quale (in Locke, Kant ecc.) lo Stato non sarebbe che un «ente artificiale», uno strumento voluto dagli individui per la tutela dei loro diritti e la garanzia della loro sicurezza: essi dunque sarebbero liberi solo concedendo un ruolo minimo allo Stato, solo una funzione negativa per l'eliminazione di tutti quegli ostacoli e per la soddisfazione di tutte quelle necessità che impediscono la piena attuazione di una volontà che è rivolta egoisticamente 17 solo a se stessa pretendendo di esplicarsi senza intrusioni di sorta. Poiché la libertà nello Stato finisce per identificarsi con la libertà dallo Stato, Hegel rileva come quest'ultimo si confonda con la società civile dove non c'è bene comune o fini universali, ma «l'interesse degli individui come tali è il fine estremo per il quale essi sono uniti». Ovviamente questa critica si incrocia con quella al modello contrattualistico (sostenuto da questi stessi autori, ma anche da Hobbes e Rousseau), giacché, come è impossibile che l'infinito derivi dal finito, così è assurdo che l'universale possa derivare dal particolare, che l'interezza dello Stato possa essere voluta e decisa da volontà chiuse nella loro finitezza e nel loro egoismo particolaristico. Anche il giusnaturalismo (Grozio, Pufendorf, Wolff ecc.) viene attaccato da Hegel che, pur concordando sul valore della legge come massima espressione di razionalità e su quello dello Stato come la più alta realizzazione politica e civile raggiunta dall'uomo nel suo sforzo di uscire dalla ferinità naturale, non concepisce come gli individui possano godere di «diritti naturali» precedentemente alla costituzione dello Stato e a conservarli oltre la sfera di competenza di questi. Hegel tiene a prendere le distanze pure dalla concezione democratica di Rousseau: vano è invocare il popolo come sede della sovranità, poiché il popolo è tale solo nella forma dello Stato mentre «i molti come singoli, la qual cosa si intende volentieri come popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto come una moltitudine, una massa informe». Da quanto detto derivano alcune importanti conseguenze, innanzitutto lo statalismo di Hegel per il quale lo Stato certo è, in quanto totalità etica, la realizzazione della libertà. Nella libertà non deve procedersi dall'individualità, dall'autocoscienza singola, ma soltanto dall'essenza dell'autocoscienza; poiché, ne possa essere consapevole o meno l'uomo, quest'essenza si realizza come potere autonomo, nel quale i singoli individui sono soltanto momenti. L'ingresso di Dio nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà. Nell'idea di Stato, non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi, si deve considerare per sé l'idea, questo Dio reale. (HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio) Spesso accusata di essere la matrice ideologica dei totalitarismi moderni, la concezione hegeliana evidenzia come nello Stato, in quanto espressione di razionalità, l'individuo e i suoi interessi ricevano «il loro pieno sviluppo e il riconoscimento del loro diritto»: ciò significa fondamentalmente che lo Stato è Stato di diritto, fondato sul primato della legge che costituisce il modo e il mezzo con cui esso opera. Nello Stato tutto l'organismo dell'intero etico è diretto dalla soggettività autocosciente che informa di sé le sfere particolari della famiglia e della società civile e le orienta verso i propri fini: così lo Stato «è, da una parte, un'esterna necessità e la loro superiore potenza, alla cui natura sia le loro leggi che i loro interessi sono subordinati, e da essa dipendenti», e dall'altra esso è «il loro immanente fine ed ha la sua forza nell'unità del suo universale scopo finale e del particolare interesse degli individui». Ne deriva la legittimazione dello Stato che si fonda sulla volontà dei cittadini nella misura in cui questi hanno elevato la loro volontà libera alla ragione (anzi, diventata libera in quanto razionale): in tal modo i cittadini hanno dei doveri verso lo Stato in quanto hanno nello stesso tempo dei diritti. Se lo spirito si incarna nello Stato, l'universalità che esso esprime si articola nelle sue sfere particolari, nelle sue istituzioni. Il complesso di queste ultime formano la costituzione che, in quanto struttura razionalmente organizzata, costituisce «la base stabile dello Stato». Essa è il risultato di un complesso di condizioni storiche e culturali maturate nella vita di un popolo che in esse si identifica riconoscendole come proprie. In questo senso lo Stato è l'espressione dello spirito di un popolo, e, come tale, è «la legge che penetra tutti i suoi rapporti, l'ethos e la coscienza dei suoi individui»: di conseguenza la sua costituzione dipende «dal modo e dalla formazione dell'autocoscienza del medesimo». «Ogni popolo ha quindi la costituzione che gli è adeguata» e la conseguenza è «il sentimento politico» (o patriottismo) che egli nutre come fiducia che il suo interesse è «custodito e contenuto» nell'interesse dello Stato. La costituzione contempla naturalmente la questione della distinzione e dei rapporti tra i poteri dello Stato: in via preliminare Hegel precisa che la loro divisione è necessaria, ma non deve essere intesa nei termini dell'intelletto astratto, cioè come un'autonomia assoluta di ciascuno e la conseguente reciproca limitazione e negazione. Piuttosto ancora una volta bisogna rifarsi alla dialettica dell'intero in quanto contiene «il momento essenziale della differenziazione»: solo a questa condizione si salva la loro unità vivente. 18 Lo schema dell'articolazione organica dei poteri è così specificato: a) il potere «di determinare e stabilire l'universale [cioè la legge] - potere legislativo»; b) quello «della sussunzione delle sfere particolari e dei casi singoli sotto l'universale [cioè l'applicazione della legge] potere governativo [o esecutivo]»; c) infine quello «della soggettività, in quanto decisione ultima di volontà, il potere sovrano - nel quale i poteri distinti sono raccolti ad unità individuale; il quale, pertanto, è il culmine e il principio della totalità - monarchia costituzionale». Gli oggetti del potere legislativo si precisano nei confronti dei diritti e dei doveri dei cittadini, di ciò che riguarda il loro vantaggio, quindi le leggi del diritto privato e delle corporazioni, e di ciò che essi devono offrire come prestazioni allo Stato, fondamentalmente nella forma dei tributi. La questione fondamentale affrontata da Hegel riguarda il modo con cui i cittadini possano concorrere alla formazione delle leggi: certo è che egli esclude che il popolo e i suoi rappresentanti sappia e voglia ciò che è meglio per lui. La garanzia di un'adeguata intelligenza del bene generale si trova negli stati (o ordini), nel senso però che essi, percependo più immediatamente i bisogni, li mostrano ai funzionari incitandoli a provvedere. Gli stati dunque esercitano un'essenziale funzione mediatrice tra il popolo e il governo, in quanti in essi è insieme presente la necessità e la libertà. I tre stati della società civile pertanto devono diventare articolazioni del potere legislativo, nella misura in cui non vi deve essere separazione tra società civile e Stato politico. Ciò significa che i deputati, presenti in due camere, una alta e una bassa per evitare che le decisioni siano solo «l'accidentalità di un momento», non sono rappresentanti dei cittadini quale moltitudine atomistica, ma della società civile organizzata e ordinata in stati. Infatti come lo Stato è «la totalità organizzata nelle sue cerchie particolari», così il singolo può «venire considerato nello Stato» solo come membro di un ordine, che lo eleva a individuo cosciente dell'universale, elevazione che può essere attuata anche attraverso la pubblicità dei dibattiti e la stampa, la cui libertà per la promozione del «sano intelletto umano» e della partecipazione Hegel difende e vuole garantita, pur stigmatizzandone gli eccessi, le intemperanze, il suo «pervertimento» nel diffondere «l'accidentalità dell'opinare» e «la falsa conoscenza». Data la loro natura parziale e limitata, le camere dei rappresentanti degli ordini non rappresentano tutto ma solo una parte del potere legislativo: infatti l'unità organica dello Stato esige che in esso siano attivamente presenti gli altri due, quello governativo come momento consultivo e quello monarchico come decisione suprema. Quest'ultimo rappresenta il vertice della costituzione dello Stato in quanto nella sua singolarità opera una sintesi di universalità e particolarità. Il potere sovrano «contiene esso stesso in sé i tre elementi della totalità: l'universalità della costituzione e delle leggi, la deliberazione come rapporto del particolare con l'universale, e il momento della decisione ultima come autodeterminazione, in cui ritorna ogni altro momento e da cui esso prende il cominciamento della realtà. Questo assoluto autodeterminarsi costituisce il distintivo principio del potere del sovrano come tale». Hegel rifiuta la monarchia per diritto divino cara ai teorici della Restaurazione, per vedere nel sovrano «la personalità dello Stato», colui che incarna la «sovranità popolare», in quanto il popolo (come abbiamo già visto) non può essere considerato tale senza il suo monarca, giacché il sovrano, rappresentando l'unità del popolo e dello Stato, rappresenta per ciò stesso la sovranità popolare. Il potere del monarca tuttavia si esercita attraverso momenti particolari, il più notevole dei quali è quello di nomina dei ministri e degli alti funzionari dello Stato: in quanto portano davanti al monarca i contenuti particolari degli interessi dello Stato, essi, che costituiscono il governo, hanno responsabilità effettiva e quindi tengono il vero potere politico. Il potere governativo ha per un verso il compito dell'esecuzione e dell'applicazione delle decisioni del sovrano e delle leggi. Per l'altro il sovrano, «come personalità decidente ultima» (dunque non un potere assoluto e dispotico), ha il potere di avallare e di sancire in estrema istanza ciò che il governo ha deliberato, dando con il suo «sì» (anzi, mettendo «il puntino sull'i») pieno vigore alle decisioni prese dai ministri Questi sono realmente i curatori degli interessi dello Stato e i tutori della legalità. In questo dispositivo così complesso consiste dunque la valenza costituzionale della monarchia. 11.4 Il diritto statale esterno Fin qui Hegel ha considerato la «sovranità all'interno» come aspetto in sé dello Stato. Tuttavia lo Stato è un individuo che si pone di fronte ad altrettanti Stati, ciascuno autonomo nella sua individualità particolare. Con ciò siamo entrati nella sfera del «diritto statale esterno». Anche qui Hegel si pone in 19 netta antitesi con il giusnaturalismo negando l'esistenza di un diritto pubblico internazionale e di un organismo giudicante nelle controversie tra Stati: questi sono indipendenti e autonomi, ciascuno pienamente sovrano allo stesso modo con cui un popolo è potere assoluto sul suo territorio. Come nella dialettica servo-signore della Fenomenologia, anche ora ogni individualità politica aspira a essere riconosciuta nel suo diritto dalle altre: ciò determina una lotta a morte, una regressione allo stato di natura, al bellum omnium contra omnes. Per questo motivo Hegel ritiene inevitabile il ricorso alla guerra come strumento per la soluzione delle controversie tra Stati, qualora vengano meno le condizioni per un accordo pacifico. «Quindi, il conflitto fra gli Stati, in quanto le volontà particolari non trovano un accomodamento, può essere deciso solo dalla guerra»: in mancanza di criteri formulati da una volontà generale, alle volontà particolari sono affidate sia le possibilità di trovare una composizione concordata delle loro questioni sia le valutazioni dei motivi per considerare rotti gli equilibri esistenti e i trattati in vigore. Nei rapporti tra Stati sembra che si verifichi una regressione alla condizione di disorganicità tale da far ricadere lo Stato nell'accidentalità. Ma questa è però solo apparente: in realtà ogni popolo, ogni Stato, rientra in una sfera di universalità superiore che lo comprende e che costituisce la «storia del mondo». Come nell'eticità in generale gli individui sono insieme tolti e conservati nel loro diventare apparenze e fenomeni delle forze etiche, così ora, al culmine di questa dialettica, gli Stati diventano espressione dell'assoluto, dello spirito che entra nel tempo e si incarna nella storia. Su questo scenario lo «spirito del mondo» esprimerà i suoi giudizi sul ruolo giocato dai singoli attori: qui «i loro destini e i loro fatti, nel rapporto degli uni verso gli altri, sono la dialettica fenomenica della finità di questi spiriti, sulla base del quale si produce appunto lo spirito universale, lo spirito del mondo, come illimitato, parimenti in quanto esercita il suo diritto su di essi, nella storia universale, in quanto giudizio universale». Sotto questo aspetto dunque la dialettica dello spirito oggettivo si conclude in una filosofia della storia. 12 La filosofia della storia di Hegel Diversamente dallo storico empirico che si limita a registrare e descrivere il corso degli eventi, il filosofo ne sviluppa una «considerazione pensante» e cerca in essi una trama, un fine, un senso da questo punto di vista, poiché non è sufficiente considerare la storia in base alla categoria del mutamento, categoria che deve essere affiancata a quelle di «ringiovanimento» e di «fine». Se all'inizio siamo presi da sgomento di fronte alla caducità delle cose e gli orientali hanno espresso nei loro miti (quello della Fenice o della trasmigrazione delle anime) la rassegnazione di fronte a questa vicissitudine di vita e di morte, «l'idea occidentale è invece quella che lo spirito riappaia non soltanto ringiovanito, ma innalzato, trasfigurato».Successivamente ci chiediamo quale sia il fine di questo movimento: la coscienza cristiana ci fornisce una prima indicazione mostrandoci la provvidenza divina come «saggezza che con potenza infinita realizza i suoi fini». Tuttavia essa è «fede indeterminata» che «non si applica al tutto, al complessivo corso degli eventi del mondo nella loro realtà definita in quanto individualità (cioè popoli, Stati). Questo è precisamente il compito della filosofia: mostrare che «solo la ragione concepita nella sua determinatezza è la cosa, cioè la realtà effettiva». C'è perfetta identità tra il compito della ragione che vuole «comprendere» e il fine della storia, identità che risulta con chiarezza se riflettiamo sul fatto che lo spirito è qualcosa, che sa e ha coscienza: ma poiché «sapere è coscienza di un oggetto razionale». «lo spirito ha coscienza solo in quanto è autocoscienza». Così lo spirito non può avere come contenuto del suo sapere che se stesso, e il fine della storia è che esso «giunga al sapere di ciò che esso è veramente» in quanto «lo spirito esiste solo come risultato di se medesimo». Ma per questo è necessario che lo spirito si manifesti in modo oggettivo, che si incarni in qualcosa di determinato, e ciò può essere individuato nello «spirito del popolo»: «la coscienza dello spirito deve prendere forma nel mondo; il materiale di questa realizzazione, il suo terreno non è altro che la coscienza universale, la coscienza di un popolo. Questa coscienza contiene e determina tutti i fini e gli interessi di un popolo». I singoli popoli poi si muovono all'interno di uno stesso orizzonte, quello universale dello spirito che, realizzandosi nella realtà, dà luogo allo «spirito del mondo», che, proprio per questo, è il vero soggetto della storia. Tra spirito del popolo e spirito del mondo c'è lo stesso rapporto che tra finito e infinito, tra Dio e le sue manifestazioni, nella misura in cui «lo spirito di un popolo è così lo spirito universale di una forma 20 particolare». Di conseguenza «il particolare spirito di un particolare popolo può perire: ma esso è un anello della catena costituita dal corso dello spirito del mondo, e questo spirito universale non può perire». Appare ora chiara la trama della storia e il fine che emerge lungo il corso travagliato delle sue vicende: «è dunque l'idea dello spirito che si realizza nella storia. Da ciò che lo spirito sa di sé dipende la coscienza del popolo; e l'estrema consapevolezza, da cui tutto dipende, è che l'uomo sia libero». Se la storia «è la raffigurazione del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò ch'esso è in sé», orbene nell'Età moderna è divenuto palese che lo spirito in sé è libertà. Rispetto a questo fine i singoli popoli rappresentano contemporaneamente delle tappe e degli strumenti particolari nelle mani dello spirito, che, nelle varie epoche, affida a uno di essi la sua realizzazione. Come gli individui anche i popoli vivono una parabola per scomparire nel nulla, strumenti per il raggiungimento di obiettivi che comunque li superano. Compito della filosofia è mostrare in cosa consista il nesso di questo movimento che vede l'avvicendarsi dei principi dei popoli sulla scena della storia universale, una volta compiuta la loro realizzazione. Il contributo di ciascuno al fine della libertà va inteso naturalmente nel senso dell'affermarsi dei contenuti che si sono potuti esprimere nelle sue istituzioni etiche, in quanto solo questi sono il vero elemento spirituale della sua vita: «La sua religione, il suo culto, i suoi usi e costumi, l'arte, la costituzione, le leggi politiche, tutto il complesso delle sue istituzioni, i suoi eventi e le sue azioni: questa è la sua opera, questo è quel popolo». Soprattutto nello Stato un popolo realizza la sua essenza e la sua libertà poiché solo in esso «la libertà è realizzata oggettivamente e positivamente»: pertanto lo Stato costituisce il primo obiettivo della realizzazione storica nella misura in cui nello Stato si realizza l'unione di volontà universale e volontà soggettiva; esso è la forma sotto la quale è riportato tutto ciò che costituisce la cultura di un popolo, le forze spirituali che vivono in lui e lo governano. La giovinezza di un popolo è nell'azione, nella lotta per il suo più profondo interesse (il suo pieno sviluppo, la sua autoaffermazione), la vecchiaia nel godimento del risultato raggiunto, quando cade nell'abitudine e, con il sopravanzare degli interessi e dei fini particolari degli individui, va incontro alla morte naturale. Naturalmente una volta che un popolo ha esaurito la sua funzione e la sua particolarità è «tolta», l'universalità è conservata dallo «spirito del mondo» che la consegna a un popolo successivo che ne raccoglie l'eredità per realizzarla e riesprimerla a un livello superiore. Si giunge così alla sintesi definitiva con la quale lo «spirito del mondo» conduce il suo svolgimento al punto in cui la fine si ricongiunge al suo principio, dunque al fine ultimo della storia e dell'umanità. E poiché lo spirito, che è «autoattività» e «autoproduzione di sé», deve manifestare se stesso in quelle forme determinate che sono i popoli, attori della storia in quanto ciascuno ne costituisce un grado segnandone un'epoca. Il fine della storia è, o almeno sembra essere, con ciò anche la sua fine. Sotto questo punto di vista allora è insensato parlare di idealità irrealizzate o di negatività (di male) che segnerebbe il fallimento di fini o progetti immaginati come razionalmente proponibili per l'instaurazione del bene e della giustizia su questa terra: «Per quel che riguarda il vero ideale, l'idea della ragione stessa, la nozione al cui acquisto la filosofia deve aiutare è che il mondo reale è come deve essere, che la volontà razionale, il bene concreto è effettivamente la forza massima, la potenza assoluta che traduce se stessa in atto [...]. Nella sua rappresentazione più concreta, questo bene, questa ragione è Dio». Ancora una volta Hegel dà al suo discorso una forte colorazione religiosa affermando che «la storia del mondo non rappresenta altro che il piano della provvidenza» divina, che «Dio governa il mondo: il contenuto del suo governo, l'esecuzione del suo piano è la storia universale». Questa impronta provvidenzialistica cristiana è ravvisabile anche nel momento in cui Hegel affronta la questione dei mezzi utilizzati dallo spirito per realizzare i suoi fini, proponendo la soluzione espressa con la formula dell'«astuzia della ragione»: la ragione è astuta perché utilizza gli individui e le loro passioni, agendo alle loro spalle. Indubbiamente, a livello immediato, le passioni appaiono come il movente delle azioni degli uomini che mirano a fini particolari ed egoistici e che intendono tradurli in atto mediante la volontà. Questa è stimolata a promuovere l'agire dai bisogni, e gli uomini devono trovare nell'azione soddisfazione a essi. Nella storia del mondo agiscono dunque due fattori, l'idea (che si esprime nella volontà e nella libertà degli uomini) e le passioni. Il razionalista Hegel vede bene l'importanza delle passioni, riconoscendo anzi che senza di loro «nulla di grande è stato compiuto nel mondo»: esse sono «l'elemento attivo» della storia e come tali «non sono affatto opposte alla moralità, bensì realizzano l'universale». Certamente le passioni appaiono cattive ed egoistiche, in quanto legate agli interessi dell'individuo, che, d'altra parte, è 21 sempre colui che agisce: tuttavia la particolarità degli interessi non significa automaticamente il loro essere contrari all'universale, dal momento che «è mediante il particolare che l'universale deve farsi reale». Così gli individui particolari, tutti tesi al perseguimento e alla soddisfazione dei propri fini, non sanno nulla di quelli dello spirito, e quindi contribuiscono alla sua realizzazione in modo del tutto inconsapevole. Ciò vale in particolare per quegli individui eccezionali («individui cosmico-storici»: eroi, legislatori, fondatori di Stati) che sono stati protagonisti della vita dei loro popoli: essi sono stati mossi da impulsi irresistibili (ambizione, sete di potere ecc.) e perciò hanno compiuto imprese straordinarie. Così, per esempio, Alessandro, Cesare e Napoleone hanno guidato eserciti e attuato grandi trasformazioni politiche: lo hanno fatto per soddisfare i propri obiettivi egoistici e ottenere vantaggi, ma con ciò stesso hanno attuato inconsapevolmente fini universali nella storia dell'Occidente, perché istintivamente hanno «saputo» ciò che lo spirito voleva. Una volta compiuta la loro missione nella storia, essi vengono abbandonati al loro destino dalla ragione che quindi li ha usati come strumenti effimeri: vera protagonista delle vicende storiche, essa «non paga di tasca propria», ma la sua «astuzia» consiste nel fatto che essa «faccia agire per sé le passioni, e che quanto le serve di strumento per tradursi in esistenza abbia da ciò scapito o danno», senza distinzione tra bene e male, merito e colpa purché i suoi fini vengano raggiunti. Da queste fondamentali premesse, Hegel passa infine a delineare un quadro generale del corso della storia. Come abbiamo visto, il suo contenuto/fine è quella libertà che i popoli dominanti realizzano nella misura in cui costituiscono forme determinate di Stato corrispondenti al loro spirito. Sull'immagine del corso del Sole, anche quello della civiltà si muove gradualmente da Oriente a Occidente in connessione anche con i grandi scenari della natura che fungono da sfondo alle vicende umane (le steppe e le pianure dell'Asia, il bacino del Mediterraneo, il paesaggio armonioso dell'Europa centrale); analogamente la storia consente il passaggio del mondo attraverso le quattro età dell'uomo (infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia). La civiltà sorge innanzitutto in Oriente dove si assiste alla fondazione dello Stato: come appare nelle sue diverse espressioni (la teocrazia in Cina, il sistema delle caste in India, il potere sacerdotale in Egitto, l'assolutismo a Babilonia e in Persia), qui la sua forma è il dispotismo in quanto «uno solo è libero». In seguito lo spirito ha trovato la sua primavera in Grecia dove ha posto le basi del mondo occidentale moderno: nelle póleis ("città") autonome si è affermata, in un clima di grande creatività culturale e in apposite istituzioni, la «bella eticità» dove la libertà era goduta anche se solo da pochi. Con le conquiste di Alessandro Magno prima e con Roma poi si è, invece, perduta la figura del cittadino, per lasciare il posto a quella dell'individuo privato che è sottomesso a uno Stato universalistico dove la libertà gli è riconosciuta (e certo estesa a una sfera più ampia di persone), ma solo sotto l'aspetto astrattamente giuridico. Il mondo moderno è preparato da una serie di crisi (quella dell'Impero romano che ha adottato il modello della teocrazia orientale, le invasioni barbariche, la scissione tra Oriente e Occidente), ma soprattutto è sorto dopo la svolta determinata dall'avvento del cristianesimo che ha segnato la «conciliazione spirituale» tra Dio e l'umanità. All'inizio esso ha provocato profonde lacerazioni nelle coscienze e ha segnato i rapporti sociali, ma poi ha potuto realizzare pienamente il suo messaggio quando sulla scena della storia è comparso, come nuovo protagonista, il mondo germanico in cui si è impiantato. Il mondo moderno è dunque il mondo cristiano-germanico caratterizzato dalla cognizione della libertà di tutti, dell'«uomo come uomo». Il cristianesimo ha proclamato tale principio solo nell'interiorità, i popoli germanici lo hanno realizzato concretamente e attuato pienamente solo con la Riforma: dopo una fase in cui i popoli germanici, entrati nel mondo romano e convertitisi al cristianesimo, si sono impadroniti dell'Occidente, e una seconda in cui con Carlo Magno si è tentato una conciliazione di potere temporale e potere spirituale, solo nell'età di Carlo V il principio cristiano riceve, attraverso Lutero, la sua verità e realtà consentendo alla sfera mondana di assumere la sua completa rilevanza in materia di moralità, giustizia e attività dell'uomo. Ora «il principio dello spirito libero diviene la bandiera del mondo», e il processo verso tale completa realizzazione attraversa fasi intermedie, sia materiali (per esempio, l'invenzione della polvere da sparo, le scoperte geografiche ecc.) sia politico-culturali (la scienza moderna, la formazione degli Stati nazionali, l'Illuminismo, la Rivoluzione francese) per approdare nel presente nella Germania dove lo «Stato tedesco» (da identificarsi con quello prussiano, il più solido e organicamente strutturato) mostra le caratteristiche della razionalità reale, è Stato-idea. Ora che la ragione è giunta alla sua piena realizzazione qui nell'Occidente attuando nel presente e nel mondo cristiano-germanico il concetto di sé, si può parlare di una «fine della storia»? Qui, nella 22 «terra del tramonto», si verifica l'arresto del corso storico e della sua dialettica? La piena maturità dello spirito significa anche l'inaridimento del suo slancio creativo? Il raggiungimento del suo «scopo assoluto» si identifica pure con un inevitabile processo di senescenza? Questo tema ha naturalmente suscitato tra i critici un ampio dibattito anche se Hegel, riferendosi a esso, forse non intendeva alludere a qualcosa circoscrivibile nello spazio o fissabile puntualmente nel tempo, o comunque identificare il fine con la fine. Certo è che Hegel ha accennato agli Stati Uniti d'America come al «paese del futuro» o «quello in cui in tempi futuri [...] si rivolgerà l'interesse della storia universale», affrettandosi tuttavia subito a precisare che fare il profeta non si addice al filosofo. Su questa incertezza si chiude lo svolgimento dello spirito oggettivo. 13 La filosofia dello spirito assoluto Lo spirito entra nel momento supremo del suo sviluppo dialettico quando si rende conto delle «limitatezze degli spiriti dei popoli particolari» di cui finora si è servito come strumenti per l'universalità del suo disvelamento. Anzi lo spirito di un popolo (oggi quello tedesco) prende veramente coscienza di sé nel momento in cui vede nelle sue manifestazioni non semplici prodotti effimeri e transeunti, ma realizzazioni eterne e universali della ragione. Essa ha certamente ancora bisogno degli uomini, ma ormai essa si autoriconosce in modo totale, diventando del tutto autotrasparente a se stessa, sciolta dalle condizioni e dai mezzi che hanno consentito il raggiungimento di questo fine. Ancora una volta lo spirito non giunge alla conoscenza di sé con un atto di immediatezza, ma con un movimento dialettico articolato in arte, religione e filosofia: il contenuto del loro sapere è naturalmente lo stesso, e perciò «i tre regni dello spirito assoluto si differenziano solo per le forme in cui essi portano a coscienza il loro oggetto, l'assoluto», che è inadeguato nei primi due, perfettamente adeguato solo nel terzo. 13.1 La filosofia dell'arte L'arte è espressione dell'idea in forma sensibile, sia perché il suo modo di conoscenza si basa sui sensi, sia perché la manifesta in un'immagine sensibile. Di conseguenza essa è il primo momento attraverso il quale lo spirito acquista coscienza di sé: nata dallo spirito soggettivo, l'arte è «l'intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell'ideale». Hegel esclude pertanto che l'arte possa essere imitazione della natura, proprio perché quest'ultima è il momento dell'estraneità, dell'esteriorità in cui l'assoluto si perde prima di ritornare a sé: perciò l'arte può esprimersi in forme naturali, ma la bellezza è la forma che «non mostra altro in lei fuori dell'idea». Vivendo nell'immediatezza dell'identità di soggetto e oggetto, l'arte rappresenta il momento in cui lo spirito si aliena nel sensibile rendendosi visibile in esso, il concetto si incarna nel particolare concreto: ciò significa che essa idealizza la natura, mostra, attraverso le immagini particolari, il riverbero dell'idea nelle cose, e con ciò il significato universale di queste, la loro essenza. Nell'arte si conciliano immediatamente finito e infinito, forma naturale e contenuto spirituale, nella misura in cui la prima è il medio espressivo per comunicare un contenuto spirituale, cioè un significato dal valore universale. Tale conciliazione non si è sempre realizzata, anzi compito dell'«estetica filosofica» è proprio quello di mostrare come la storia dell'arte corra parallela alla storia dello spirito e dei popoli che ne sono stati gli interpreti. Ai tipi d'arte sono poi intimamente connesse, per i significati che esprimono, anche le arti particolari cosicché in ogni epoca e presso ogni popolo si è contemporaneamente verificato lo sviluppo di un certo tipo d'arte e di arti determinate. Nata in Oriente presso popoli incapaci ancora di cogliere l'elemento spirituale del reale, l'arte è qui arte simbolica in quanto il simbolo è veicolo espressivo inadeguato del contenuto ideale, cui si allude ma senza la capacità di comunicarlo, data la sua povertà, in modo pieno e conveniente. Questo tipo d'arte si realizza fondamentalmente nell'architettura, giacché in essa la difficoltà di impiegare una forma idonea al contenuto che si vuole manifestare trova la sua maggiore evidenza. L'equilibrio tra forma e contenuto è, invece, attuato nell'arte classica cui i greci hanno dato vita nelle libere póleis: essi 23 hanno realizzato la «perfezione della bellezza» in quanto hanno saputo separare la natura dallo spirito, cogliendo quest'ultimo concretizzato nell'uomo. Perciò gli stessi dèi sono rappresentati come figure umane idealizzate, perfette, che trasmettono quella serenità e armonia tipiche di ogni aspetto della civiltà e dell'anima ellenica. Questa ha trovato dunque nella scultura l'arte in grado di manifestare con una forma sensibile adeguata l'equilibrio con il contenuto spirituale: tuttavia, a ben guardare, le classiche statue risultano prive di interiorità e ciò perché la loro bellezza è opera «immediata dell'autocoscienza soggettiva, sicura di sé e lieta», ma «senza profondità», paga solo della forma esterna. Questo limite è messo in rilievo dall'arte romantica: derivata dal cristianesimo e sviluppatasi nell'Età moderna in Occidente, essa valorizza il principio interiore e soggettivo nella consapevolezza che in esso vive e si manifesta l'assoluto. Non meraviglia dunque che «la compiuta unione» di idea ed estrinsecazione sensibile, tipica della classicità, venga spezzata per riproporre ancora una visione squilibrata tra i due «lati»: infatti la forma d'arte romantica vuole esprimere un contenuto che, in quanto infinito, non riesce a trovare adeguata espressione attraverso essa. L'artista, reso avvertito dalla critica della ragione, sente l'insufficienza di ogni forma sensibile, è consapevole di non riuscire a comunicare in termini naturali tutta l'infinita ricchezza dell'elemento spirituale: pertanto, mentre cerca di suscitare turbamento, commozione e inquietudine, egli «rinunzia a mostrarlo come tale nella figurazione esterna e per mezzo della bellezza». Di conseguenza le arti privilegiate dalla cultura romantica saranno la pittura e la musica, dove l'elemento sensibile viene via via affinandosi per acquisire una sempre maggiore espressività spirituale e sentimentale, fino a scomparire quasi del tutto nella poesia, «la più spirituale delle arti», che è pura interiorità e capacità evocativa. Hegel avverte che l'arte attraversa nell'epoca moderna un momento di crisi (che altri chiameranno morte dell'arte): infatti «nel progredire culturale di ogni popolo giunge in genere l'epoca in cui l'arte rimanda oltre se stessa». 13.2 La filosofia della religione «La religione ha come forma della propria coscienza la rappresentazione, in quanto l'assoluto è trasferito dall'oggettività dell'arte nell'interiorità del soggetto, e ora è dato in modo soggettivo per la rappresentazione, così che cuore e animo, in generale, la soggettività interna, divengono un momento fondamentale se [...] l'opera d'arte presenta in modo sensibile la verità, lo spirito come oggetto, L.] la religione vi aggiunge la devozione dell'interno che si rapporta all'oggetto assoluto»: tuttavia, proprio perché attraverso il sentimento e la devozione, il soggetto fa penetrare nell'animo l'oggetto, lo costituisce come presenza interna e vi si identifica, la religione trasferisce questo oggetto nell'ambito del pensiero e del conoscere. Indubbiamente la rappresentazione è una forma inadeguata rispetto all'oggetto: ne consegue che, non riuscendo del tutto a liberarsi del sensibile, la religione si limita a coglierne le determinazioni, ovvero i suoi attributi, le sue relazioni con il mondo e con la storia ecc., in modo meramente estrinseco; inoltre essa non riesce a mostrare la reale unità dell'oggetto con il soggetto, ma lo concepisce in termini ancora oppositivi rispetto all'uomo, come essere trascendente e misteriosamente altro. Malgrado questi limiti, essa resta un momento ineliminabile della vita dello spirito, che la filosofia non può creare ma solo riconoscere nella sua positività e presenza nel mondo storico: pertanto vanno respinti i tentativi illuministici di costruire un'astratta religione intellettualistica, il deismo, mentre bisogna ammettere e valorizzare il suo valore conoscitivo e speculativo, la presenza di un nucleo razionale all'interno delle sue rappresentazioni: ciò significa che se per un verso questa è la via attraverso la quale la maggioranza degli uomini può avere accesso alla verità, per l'altro essa non può pretendere di essere la via ultima e più alta. Toccherà anzi alla filosofia intenderne, con l'arma del concetto, sia il significato autentico sia sviscerarne i contenuti razionali più profondi ancora racchiusi in un guscio di rappresentazioni sensibili, coperti da un velo mitico. Questa prospettiva diventa però pienamente possibile solo con il cristianesimo. La filosofia di Hegel è cristiana proprio perché si fonda sulle sue verità fondamentali e sulla sua visione della realtà, non in quanto rivelate e accettabili solo per fede, ma come perfettamente razionali: così, per esempio, il dogma della Trinità prefigura lo schema dello sviluppo dell'assoluto e dei suoi momenti dialettici, quello dell'incarnazione la conciliazione tra finito e infinito ecc. Dunque il 24 cristianesimo si presenta come il tipo di religione storicamente più evoluto perché corrisponde al grado massimo dello sviluppo dell'idea di Dio nella coscienza umana: infatti come l'arte, anche la religione ha un suo divenire nella storia parallelo a quello della civiltà dei popoli che la praticano. Così in Asia e in Africa vediamo la religione naturale o immediata (cioè quella tipica della fase in cui lo spirito è ancora percepito come unito immediatamente alla natura), sia nelle forme più rozze (la stregoneria e il feticismo) sia in quelle più elaborate del panteismo, a sua volta sviluppatosi come religione della sostanzialità (che tali sono il taoismo, l'induismo, il buddismo ecc. dove il divino è la sostanza delle cose, quindi ancora impersonale) e dell'enigma (l'egiziana, la siriaca, la persiana che annunziano il concetto di Dio come spirito libero). A essa segue la religione determinata o dell'individualità spirituale che rappresenta Dio in sembianze umane, e quindi come persona individuale: anche qui abbiamo modalità diverse come nell'ebraismo (in cui prevale l'aspetto della trascendenza), nella religione greca (dove il divino è essenzialmente bellezza) e in quella romana (dove le divinità svolgono una funzione etica e politica). Infine con il cristianesimo si afferma la religione assoluta, in quanto concepisce Dio come spirito: come tale essa non prospetta una distinzione, anzi evidenzia la conciliazione tra la sfera del naturale e del soprannaturale, tra finito e infinito, tra umano e divino. In tal modo essa è, nella sua sfera, perfetta e dunque si presta più di ogni altra a una «conversione» nella forma a essa superiore qual è la filosofia, che, come sappiamo, sa fornire del contenuto comune a entrambe l'espressione più adeguata, quella concettuale dove si realizza la perfetta identità di soggetto e oggetto. 13.3 La filosofia come culmine della vita dello spirito La filosofia è il culmine della vita dello spirito: essa è infatti «l'idea che pensa se stessa», «l'idea eterna in sé e per sé [che] si attua, si produce e gode eternamente», la ragione pienamente dispiegata nella realtà e divenuta autocosciente, lo spirito che, ripiegato su di sé, si conosce in completa autotrasparenza avendo posto se stesso come oggetto, come scopo finale e assoluto. Nella filosofia sono unificati, in una sintesi definitiva e compiuta, i due aspetti dei momenti precedenti, l'oggettività dell'arte e la soggettività della religione: così la filosofia è sapere assoluto nella doppia accezione di sapere dell'assoluto (dello spirito come totalità del reale) e sapere sciolto da condizionamenti estrinseci o forme improprie, quindi, in quanto del tutto autosufficiente e autofondato (e di conseguenza in grado di fondare e giustificare criticamente gli altri saperi), anche pienamente ed esclusivamente scientifico. Però, come sappiamo, l'assoluto per Hegel non è sostanza inerte, immobile, ma è soggettività vivente (appunto, spirito), e quindi in continuo divenire, in uno sviluppo che si dispiega nel tempo: se l'assoluto è storia, allora anche la filosofia, come autocoscienza dell'assoluto, ha una dimensione intrinsecamente storica, e la filosofia coincide con la storia della filosofia. Beninteso ciò non significa che essa consista nella banale ed esteriore «filastrocca delle opinioni» che si sono succedute nelle varie epoche, senza che tra esse si possa trovare un senso o connessioni organiche: in realtà come la ragione è una e la verità è una, così la filosofia è una. Ma come la prima si concretizza in determinazioni concrete e attraverso esse acquista coscienza di sé, così la seconda traduce in termini concettuali tale consapevolezza: dunque «ogni filosofia, poiché rappresenta un particolare grado di svolgimento [dell'idea], appartiene al suo tempo ed è chiusa nella sua limitatezza [...] è filosofia del suo tempo, è un anello di tutta la catena dello sviluppo dello spirito e perciò può fornire soddisfazione solo a quegli interessi che sono adeguati al suo tempo». Tra sistema del sapere e svolgimento storico non c'è opposizione ma piena complementarità nella diversità di prospettiva, giacché un conto è il prodotto finale e un altro è la sua genesi. Ogni filosofia dunque è vera perché corrisponde al comparire necessario nel tempo di una specifica categoria logica, che, come determinazione particolare dell'idea o (il che è lo stesso) espressione adeguata della verità in un preciso momento del suo sviluppo, insieme comprende come proprio momento interno quelle che l'hanno preceduta e prepara quelle che, a loro volta espressioni di un tempo più maturo per lo spirito, seguiranno: il tutto, come sappiamo, nella prospettiva di una piena manifestazione della ragione quale si è attuata nell'epoca moderna, che perciò è in grado di procedere a un'opera di sistemazione definitiva del sapere. Di conseguenza «la filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme un risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò [...] la più sviluppata, ricca e concreta». 25 «Il compito della filosofia è comprendere concettualmente ciò che è, perché ciò che è, è la ragione»: perciò a lei non compete di fare previsioni o pretendere «di istruire come va il mondo». Essa è «il proprio tempo colto in pensieri» e perciò non può pretendere di dare delle indicazioni per la prassi: anzi, come suona un'immagine molto pregnante, essa è come «la nottola di Minerva» che spicca il suo volo sul far del crepuscolo. Ciò significa che come «pensiero che pensa il mondo» mediante il concetto, essa può comparire solo quando il processo mediante il quale lo spirito si è concretizzato in un certo popolo e in una certa civiltà si è concluso, quindi «dopo che la Realtà [cioè la ragione] ha completato il proprio processo di formazione e si è ben assestata». Comprendere, conoscere è dunque il compito della filosofia: come espressione senile di un'epoca, essa certamente fiorisce quando questa conosce la crisi tra le condizioni esterne e le sue aspirazioni interne e quindi si avverte il bisogno di ritrarsi in sé per scoprire il sostanziale e l'universale. Tuttavia questo non significa che con ciò la filosofia abbia un ruolo meramente giustificatorio e conservatore: essa infatti, nel mostrare col pensiero ciò che risulta ormai tramontato nella realtà, prepara l'avvento di aspetti nuovi, giacché, nella vita dello spirito, la vecchiaia è sempre unita a una rinnovata giovinezza, ed esso «esce come spirito più puro dalle ceneri della sua precedente forma». Del resto la filosofia, nel momento in cui comprende il proprio tempo, lo rende I Idealismo e tale, non certo perché essa debba per forza trovare una composizione armonica di tutte le contraddizioni presenti nell'attuale situazione, fornendo una soluzione tanto pacificante quanto fittizia. Tutto ciò nel riconoscimento che comunque a operare nella realtà è solo la ragione, che solo essa «concepita nella sua determinatezza è la cosa, cioè la realtà effettiva». La filosofia ne esprime e ne rispecchia il processo di sviluppo nel tempo: ciò significa che le sue prime manifestazioni (quelle sorte in Grecia, giacché sono escluse come improprie le filosofie orientali) sono le più povere (attente solo all'oggetto), salvo arricchirsi e approfondirsi nel corso dell'Età moderna, che ha maturato la consapevolezza della certezza soggettiva del pensiero, anche se l'ha opposta alla verità, per culminare nell'Età contemporanea con l'Idealismo, che ha unito i due termini. Come progresso verso la verità, la storia della filosofia ne segue la manifestazione: essa si chiude con la filosofia di Hegel giacché è quella che, in sintonia con lo spirito dell'epoca, ha mostrato come «l'idea sia conosciuta nella sua necessità», quindi in grado di esprimere il sapere assoluto. Infatti bisogna riconoscere che «a questo punto è pervenuto lo spirito universale», che «quest'idea concreta è la conclusione dei conati dello spirito, in quasi due millenni e mezzo di lavoro serissimo, per diventare oggettivo a se stesso, per conoscersi» e pertanto in essa si conservano tutti i principi, tutte le forme che l'hanno preceduta, che essa è quindi totalità delle forme del sapere, è sapere pienamente realizzato, in atto perché la verità è divenuta al suo pieno sviluppo e manifestazione. E della verità, della ragione, Hegel si è ritenuto, orgogliosamente, un onesto e solerte «funzionario». 26