GEORG WILHELM FRIEDERICH HEGEL
La vita
Nato da modesta famiglia, Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831) frequentò la facoltà di
teologia di Tubinga dove strinse amicizia con Hölderlin e Schelling.
In questo periodo si dedicò allo studio di Rousseau, Lessing e Kant e seguì i dibattiti filosofici tra
Fichte, Jacobi ed Herder, inoltre seguì con interesse gli avvenimenti della Rivoluzione francese. Dopo la
laurea, fece il precettore presso ricche famiglie di Berna e Francoforte e, nello stesso periodo, continuò
la stesura di opere, già iniziate a Tubinga, ma non ancora elaborate e completate (verranno raccolte e
pubblicate solo nel 1907 col titolo fuorviante di Scritti teologici giovanili). Recatosi a Jena per
intraprendere la carriera universitaria, ottenuta l'abilitazione, iniziò i corsi come libero docente e poi
come professore straordinario. Inizia con Schelling un periodo di collaborazione, pubblicando un
Giornale critico di filosofia su cui scrisse importanti articoli: Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e
quello di Schelling (1801); Fede e sapere (1802); I modi scientifici di trattare il diritto naturale (1802).
In questi anni terminò la stesura della Costituzione della Germania, pubblicando anche la
Fenomenologia dello spirito (1807), che reca un'importante prefazione in cui si consuma
polemicamente il distacco con Schelling.
Dopo l'invasione napoleonica della Germania, Hegel si rifugiò prima a Bamberga, quindi nel 1808
divenne
direttore del Ginnasio di Norimberga. Sono questi gli anni che portarono alla pubblicazione di una
Propedeutica filosofica della Scienza della logica (1812-1816). In seguito insegnò fino al 1818 presso
l'Università
di Heidelberg pubblicando l'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio (1817). Raggiunta la
fama,
fu chiamato all'Università di Berlino, di cui divenne anche rettore, tenendo lezioni su varie parti del
suo sistema che furono pubblicate postume sulla base di appunti degli studenti. Tra le ultime opere del
periodo è da ricordare la Filosofia del diritto (1821) preceduta da un'importante prefazione. Morì
durante un'epidemia di colera nel 1831.
1 Gli anni della formazione
1.1 Il giovane Hegel: da Tubinga a Berna
Gli anni della formazone nel seminario protestante, lo Stift di Tubinga (1788-1793), sono alla base
degli interessi culturali di Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831): stringe amicizia con Schelling
e Hölderlin (anch'essi giovani allievi dello Stift); legge Rousseau, Lessing, Schiller, Kant e Spinoza; si
entusiasma per il grande evento della Rivoluzione francese cercando negli avvenimenti un segno di
rinnovamento degli spiriti, l'avvento di una nuova era di libertà interiore quale premessa e condizione
per ogni rigenerazione politica, senza aderire però a posizioni giocobine.
È proprio la ricerca di una rigenerazione profonda che porta Hegel a guardare con nostalgia al
mondo greco, e soprattutto concentrare la sua riflessione sul tema religioso: il rapporto dell'uomo con
Dio sembra essere il punto di vista privilegiato per interpretare la sua natura, la sua storia, la sua
cultura. Dunque il tema religioso non è disgiunto da quello politico, costituendo un'unità inscindibile di
moralità, storia e libertà civile, come ben risulta dal primo scritto Religione nazionale e cristianesimo in
cui critica una religione arida e dogmatica che non sia conforme alle esigenze dell'uomo, che non riesca
a «sprigionare le [sue] forze, il suo coraggio e magnanimità, la sua serenità e gioia di vivere».
Il percorso iniziato a Tubinga, e in seguito continuato e approfondito a Berna, si concretizza nel
primo importante scritto giovanile, la Vita di Gesù, interpretato come personificazione dell'ideale
kantiano di religione razionale e naturale pura, come incarnazione della santità etica comandata dalla
legge del dovere.
Nello scritto successivo del periodo di Berna, Positività della religione cristiana, Hegel si interroga
sui motivi che hanno trasformato il cristianesimo da religione naturale a religione positiva, fondata
cioè su dogmi, istituzioni e comandi. Hegel riflette così sull'origine storica del cristianesimo: Gesù era il
maestro di una pura religione morale, furono i suoi discepoli a trasformare il suo insegnamento in una
religione positiva, a rendere trascendente la sua figura e, capovolgendo i suoi insegnamenti, a
modificare la religione privata di Gesù in una religione pubblica e legalistica fino alla degenerazione di
religione di Stato.
1.2 II giovane Hegel: gli scritti di Francoforte
Nel 1797 Hegel si trasferisce a Francoforte dove lavora come precettore fino al 1800. Nel periodo di
Francoforte, pur all'interno della prospettiva religiosa, puntualizza la condizione dell'uomo moderno,
privo di certezze, che trova in sé e fuori di sé solo il vuoto e il contingente: ne imputa la causa alla
rottura tra individuo e società, tra razionalità e realtà nel contesto del passaggio dalla religione
classica greco-romana a quella cristiana.
Sotto questo profilo l'opera più importante è Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in cui i
concetti filosofico-teologici sono intrecciati con quelli politico-sociali. Il destino del cristianesimo è
legato con quello di Gesù e quello di Gesù a quello del popolo ebraico. La storia degli ebrei è ripercorsa
a partire dal diluvio universale, passando per Abramo, Mosè e i Re, fino al periodo postbabilonese e
della diaspora. Se presso il popolo greco si viveva una naturale e immediata armonia con la natura,
quale si individuava nel sereno e fiducioso accordo sia in sede morale sia religiosa e politica, il diluvio
invece per il popolo ebraico rappresenta la rottura dell'armonia tra uomo e natura: questa ora è
vissuta come terribile nemica e l'uomo deve dominarla. Noè individuò nella sottomissione dell'uomo
alla volontà di Dio l'unica possibile soluzione e la salvezza. Ma il Dio di Noè non è un ente reale, è solo
un pensato, una costruzione dell'intelletto mediante la quale si cerca di ricostruire l'unità dilacerata
con la natura; è un Dio che richiede fedeltà assoluta ed esclusiva e che fa del popolo ebraico il suo
popolo rendendolo eletto e schiavo nello stesso momento. Gli ebrei, gelosi del loro rapporto esclusivo
di fedeltà e di salvezza, scelgono di vivere in ostilità con gli altri uomini e con la natura, e il Dio ebraico
rappresenta la più alta scissione.
Gesù è colui che ha voluto opporsi al destino del suo popolo prospettando una svolta radicale: se il
popolo ebraico obbediva al suo Dio con sottomissione cieca, senza gioia, senza amore, Gesù vuole
portare la conciliazione attraverso l'amore: perciò oppone al comandamento il sentimento, alla
sottomissione la liberazione. Ma l'incapacità del suo popolo di comprenderlo e di seguirlo nel difficile
riscatto della liberazione interiore è lo scacco di Gesù e il suo destino. Tuttavia egli muore senza avere
nemici, non sentendo tali i suoi uccisori, testimoniando in tal modo la sua fede in un Dio che è spirito
come «puro sentimento della vita che è una e infinita». L'amore predicato da Gesù è segno di unità
riconquistata tra gli uomini non è però l'unità spontanea, ingenua e immediata dei greci, ma una unità
cercata con consapevolezza dopo l'esperienza della separazione.
Il periodo di Francoforte si chiude con il Frammento di sistema, due fogli appena, in cui Hegel si
preoccupa di chiarire cosa sia la totalità organica e quali i suoi rapporti con la molteplicità: la totalità è
«vita indivisa» e gli individui sono sue manifestazioni. Contro l'unità senza opposizione, rigida e morta,
deve essere posta quella in cui l'alterità, il negativo, l'opposizione siano intimamente connesse, in cui
l'intero comprenda entrambi i momenti in una relazione conciliata e unitaria: «La vita non può essere
considerata soltanto come unificazione e relazione; essa deve al tempo stesso venir considerata come
opposizione».
Che le considerazioni espresse in questi testi non abbiano un senso solamente teologico è provato
da due scritti nei quali le idee di fondo, in particolare il principio della totalità organica, sono applicate
alla politica. Lo scritto Sui rapporti interni del Württemberg, infatti, analizza la situazione politica dello
Stato in cui vive, dei rapporti tra gli organi costituzionali, il Principe e la Dieta. Come il popolo ebraico,
così anche i suoi concittadini vivono in condizione di lotta contro una realtà, corrotta e decaduta, che
non possono accettare. Indispensabile è, quindi, superare gli interessi particolari per intraprendere
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coraggiosamente un'opera di ricostruzione generale per l'interesse collettivo. Così nel Progetto di una
Costituzione della Germania (poi ripreso a Jena) individua la debolezza della Germania nella miopia di
molti che restano chiusi nella propria sfera privata, gelosi dei propri privilegi, e non si accorgono della
necessità di uno Stato, come totalità organica e unitaria, che faccia valere la legge e la razionalità dei
suoi principi.
2 Hegel a Jena
Nel 1801 Hegel, su invito di Schelling, giunge a Jena, allora centro della cultura romantica, dove
inizia la carriera accademica; il filosofo ha di mira l'elaborazione di una propria concezione teoretica
mediante il confronto con le voci più autorevoli della speculazione contemporanea, di cui fa emergere
le difficoltà irrisolte.
Il primo scritto, Differenza tra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling, contiene una
discussione sulle soluzioni del criticismo e dei suoi sviluppi idealistici. Le filosofie di Kant e di Fichte
sono «filosofie della riflessione» che si limitano al punto di vista dell'intelletto, il cui sapere è sempre
qualcosa di determinato, finito, in quanto presuppone alla propria attività conoscitiva una realtà
esterna già data. Sebbene in modo diverso, le due filosofie sono viziate da formalismo, in quanto
separano l'aspetto materiale da quello formale: Kant aveva contrapposto la cosa in sé (quale sconfinato
campo materiale) alle forme a priori della conoscenza; Fichte, pur avendo posto nella forma Io=Io il
principio della speculazione, ha poi subordinato la natura (Non-Io) allo spirito (Io) dove l'identità di
soggetto e oggetto resta un'esigenza postulata, un dover-essere che non approda mai a una
composizione unitaria definitiva. In questo modo Hegel evidenzia la superiorità del sistema di
Schelling: questi ha restituito alla natura il rilievo negatole da Fichte, giungendo a una filosofia
dell'identità di pensare ed essere nell'assoluto, unità indifferenziata di soggetto e oggetto. In tal modo
Schelling ha dato preminenza alla ragione, capace di cogliere l'unità, sull'intelletto. Hegel precisa
comunque che non si tratta tanto di condannare l'intelletto e il finito, quanto la loro separazione dalla
ragione e dall'infinito: la scissione operata dall'intelletto è necessaria, è uno dei fattori della vita, e la
ragione supera il finito nella dimensione dell'unità infinita, è «la totalità che si afferma nella suprema
divisione». L'assoluto, per Hegel, non è «identità dell'identità» ma «identità dell'identità e della non
identità», totalità unitaria eppure articolata in una pluralità di opposizioni.
Nel successivo articolo Fede e sapere Hegel ha di mira la confutazione non solo delle filosofie della
riflessione (Kant e Fichte), ma anche della filosofia di Jacobi che «trasforma invece la soggettività, in
modo assolutamente soggettivo, nell'individualità»: così il sapere appare come un al di là raggiungibile
solo con la fede e con l'intuizione, ritirandosi così nell'interiorità.
Hegel non vuole rinunciare alla conoscenza dall'assoluto: celebrando il «venerdì santo speculativo»
(un giorno che è quindi seguito dalla resurrezione) intende superare le moderne antinomie tra finito e
infinito, realtà e idea, sensibile e soprasensibile, mostrando nel superamento sia dell'astratto intelletto
sia della vuota fede che ragione e assoluto si identificano in quanto fondate nella permanente
ricomprensione del finito nell'infinito e su un concetto di totalità che è comprensivo di una pluralità di
opposizioni e determinazioni particolari.
Orientato in questo senso è anche l'articolo sul Rapporto dello scetticismo con la filosofia, in cui
Hegel sostiene la tesi dello scetticismo come componente necessaria interna della filosofia, in quanto
mira alla confutazione, oltre che del dogmatismo, anche delle opinioni comuni e delle posizioni
dell'intelletto che vuole fermarsi al finito precludendosi la strada verso il vero sapere filosofico. Hegel
guarda allo scetticismo antico che ponendo il primo gradino della filosofia nell'opposizione del finito
all'infinito mostrava la necessità di un superamento di questa opposizione per opera della ragione
speculativa.
3 La dialettica
L'intento speculativo di Hegel, già delineato nei periodi di Berna e di Francoforte, è quello di
connettere universale e particolare, finito e infinito, unità e molteplicità, nella convinzione che la verità
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non possa che essere nella loro unità: «Il vero è l'intero», scriverà Hegel nell'ultima opera pubblicata a
Jena.
Così l'universale si può pensare attraverso il particolare e la particolarità attraverso l'universalità,
termini che trovano la loro mediazione nella riflessione come momento essenziale dell'assoluto.
Questo è soggettività vivente, spirito (Geist), che tende a diventare consapevole di sé attraverso un
processo articolato in tre momenti che altro non sono che le sue manifestazioni particolari. Hegel
chiama dialettica questo processo che coinvolge sia il pensiero sia la realtà, in quanto manifestazione
dello stesso pensiero: non essendo possibile separare soggetto e oggetto, non è possibile neppure
separare il metodo e il contenuto dell'indagine. La dialettica è così non solo l'elemento vitale, la legge
interna dello spirito, ma anche la condizione indispensabile perché il fenomeno, il particolare, possa
manifestarsi nella realtà come espressione finita dell'infinita unità.
I tre momenti della dialettica sono tradizionalmente designati come tesi, antitesi, sintesi, tre stadi
successivi e intimamente connessi di un unico continuo processo. Questa schematica tripartizione non
compare negli scritti di Hegel, sempre nemico di ogni formalismo e irrigidimento meccanico; è il frutto
di una schematizzazione tradizionalmente operata dagli storici della filosofia. La tesi, sempre frutto
dell'attività dell'intelletto, che identifica e separa, definendo pensieri e cose, è costituita da
un'affermazione che definisce un oggetto nella sua astratta immediatezza, cioè senza vederlo nel suo
rapporto con la totalità, ma come se fosse una realtà a sé stante, una essenza in sé.
Ciò che è posto senza alcuna correlazione è però distaccato dalla corrente del movimento del tutto:
per questa ragione la sua verità si manifesta in una antitesi, cioè in ciò che è escluso dalla sua
definizione, che è a lui opposto. La negazione svolge un ruolo produttivo nella misura in cui è una
negazione determinata, negazione cioè del contenuto particolare che oppone due termini che ora non
possono più essere concepiti come del tutto separati, ma devono essere concepiti nella loro relatività
reciproca.
«Nella negazione si è aperto un nuovo passaggio» verso la verità, in quanto in essa è raggiunto
come risultato un nuovo oggetto e il relativo sapere nel quale è contemporaneamente contenuto ciò
che è stato negato. Il terzo momento è quindi la sintesi che della realtà vede l'aspetto positivorazionale: nella sintesi infatti la ragione offre un nuovo contenuto al sapere che toglie e supera quello
precedentemente ritenuto vero; è unità dinamicamente conquistata attraverso il superamento
dell'aspetto finito considerato per sé, conservando però il suo essere come parte della totalità. Questo
è il senso del termine tedesco Aufhebung (e il relativo verbo aufheben) che possiede il doppio
significato di togliere e conservare: quindi il nuovo momento è togliere le differenze, presenti nella tesi
e nell'antitesi, per ricomporre il tutto nella più alta unità, cioè nella sintesi.
La dialettica diviene, quindi, «l'anima motrice del progresso scientifico, è il principio mediante il
quale soltanto il contenuto della scienza acquista un nesso immanente o una necessità, così come in
esso in generale si trova la vera elevazione, non estrinseca, al di là del finito». Hegel sostiene l'infinità
dello spirito rispetto alle cose particolari: ciascuna di esse attraverso il processo dialettico si risolve
nell'infinito rivelando l'originaria struttura ontologica che vede l'unità essenziale dei due termini.
Ne deriva che il processo assume un carattere circolare in quanto ogni progredire è nello stesso
tempo un richiamarsi al proprio principio in un «approfondimento del pensiero in se stesso»; una
circolarità che acquista, nell'infinito procedere, sempre maggiore consapevolezza e conoscenza e fa di
ogni sintesi raggiunta un nuovo momento di inizio del continuo processo dello spirito e del divenire
della realtà: è un nuovo sapere più completo, quindi più alto e più adeguato.
L'intima connessione di soggetto e oggetto, di reale e razionale è stata formulata da Hegel in una
celebre frase (che compare nella Prefazione ai Lineamenti di filosofia del diritto del 1821, in un contesto
di filosofia politica che ha dato luogo a moltissime discussioni tra gli interpreti) secondo cui «tutto ciò
che è reale è razionale, e ciò che è razionale è reale»: la ragione, lungi dal restare un dover essere,
costituisce la realtà nel momento in cui si attua in questa; la realtà (non la contingenza empirica,
l'accidentalità) possiede una intrinseca struttura intelligibile che identifica ciò che è con ciò che deve
essere.
4 La Fenomenologia dello spirito
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4.1 Prefazione
La Fenomenologia dello spirito, stampata nel 1807 dopo un lungo travaglio, è la prima grande opera
pubblicata da Hegel. A lavoro concluso aggiunse una Prefazione, che costituisce una prima, organica
esposizione della sua prospettiva teoretica.
La convinzione di Hegel è che il sapere assoluto non debba estromettere da sé quello fenomenico,
ma debba stabilire con esso un rapporto per comprenderlo e giustificarlo: compito della
fenomenologia è quello di elevare la coscienza comune, il cui sapere è quello fenomenico, alla filosofia,
il cui sapere è il vero (cioè l'intero, l'assoluto).
La Fenomenologia dello spirito narra così la storia della formazione della coscienza ripercorrendo,
come altrettante tappe, le forme del rapporto tra la coscienza e il suo oggetto fino alla completa
consapevole coincidenza con esso (il sapere assoluto).
Sempre nella Prefazione Hegel non risparmia critiche all'amico Schelling (ne nascerà una insanabile
rottura tra i due), il quale avrebbe erroneamente concepito l'assoluto come mera identità di ogni
differenza, vuota indifferenza di soggetto e oggetto; questa identità indifferenziata risulta così
incapace di comprendere la ricchezza del reale nei suoi vari aspetti: non riconosce il necessario e
fondamentale valore del negativo, è come «una notte in cui tutte le vacche sono nere».
Per Hegel l'assoluto è, invece, unità dinamica di tutti i suoi momenti; è spirito inteso come vita,
movimento, processo dialettico mediante il quale si riconosce come tale, nella consapevolezza che le
varie espressioni particolari e finite in cui si è manifestato sono sue, e in esse si rispecchia
riconoscendole come proprie. La fenomenologia è così il rintracciare la serie di figure, tappe storiche,
gradi di formazione dello spirito stesso, attraverso le quali lo spirito conoscente giunge al sapere
assoluto.
4.2 Le figure della Fenomenologia: la coscienza
Lo svolgimento del processo fenomenologico inizia con la coscienza, un termine che qui è indicato
in senso ristretto e indica la convinzione che l'oggetto che l'io conosce sensibilmente abbia piena e
autonoma realtà. Così la prima figura è costituita dalla certezza sensibile, che, nella sua naturalità
aspira a conoscere l'oggetto nella immediatezza, come un qui e ora, dunque una singolarità posta in
precise e isolate determinazioni spazio-temporali rispetto al soggetto. Questa prima verità e certezza
immediata entra in crisi nel momento in cui i suoi elementi connotativi risultano così generici da poter
essere applicati a ogni cosa; la coscienza sensibile, per non vanificarsi, è indotta al superamento di
questa esperienza e a riporre il fondamento della certezza nell'io.
Da qui emerge la seconda figura, la percezione. In questo stadio la coscienza è consapevole della
distinzione tra sé e l'altro da sé senza peraltro riuscire a coglierne le specifiche proprietà, proprietà
che sono non solo di quell'oggetto ma anche di molti altri e che l'io, elemento unificante, raccoglie
nell'unità della cosa.
La coscienza, in questa coincidenza di particolare e universale, non riesce ancora a determinare il
discrimine tra la cosa e le sue qualità e accidenti e deve passare al superiore livello dell'intelletto il
quale riconosce che la differenza tra le cose e tra queste e il soggetto percepente è rintracciabile in una
forza o realtà effettuale, come insieme di strutture discrimine quali misura, qualità, quantità e così via,
che determinano l'oggetto stesso. Così la coscienza scopre che queste leggi dell'oggetto sono un suo
prodotto, che è il soggetto a ordinare il mondo sensibile attraverso il suo apparato categoriale ed è il
soggetto che nel conoscere il mondo conosce se stesso: così la coscienza diventa autocoscienza,
«certezza che la coscienza ha di se stessa», nella misura in cui è maturata l'esperienza che ogni
rapporto all'oggetto è riferito a lei, che il fenomeno è tale in e per lei.
4.3 Le figure della Fenomenologia: l'autocoscienza
Il processo dell'autocoscienza non si manifesta solo a livello teoretico, ma soprattutto attraverso
esperienze pratiche in cui l'io è in rapporto con gli altri. Sono infatti compresenti molte autocoscienze,
tutte coinvolte in una dinamica di reciproco riconoscimento in cui l'una offre all'altra la certezza di
essere tale. Hegel sottolinea però il fatto che ciascuna autocoscienza mira a essere indipendente
dall'altra e allo stesso tempo a dominare l'altra, con la conseguenza che il riconoscimento
dell'indipendenza non può che derivare dal conflitto con un'altra autocoscienza che le si oppone:
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ognuna infatti vuole essere riconosciuta senza riconoscere l'altra, giacché nello stesso tempo si
percepisce come autocoscienza ma anche come oggetto del desiderio di dominio dell'altra.
Il reciproco riconoscimento avviene attraverso un rapporto negativo: la lotta, scontro di
autocoscienze dove l'una si mostra capace di mettere a repentaglio la propria vita, il proprio esistere
biologico, ed esporsi al rischio della morte, mentre l'altra, per paura di perdere la vita, perderà la
propria indipendenza preferendo uno stato di sudditanza. Dalla lotta emerge una relazione di
diseguaglianza, che storicamente (nel mondo antico) si determina come rapporto servo-signore.
Inizialmente questa figura rappresenta una particolare forma di rapporto di potere in cui il signore,
in forza del suo diritto acquisito con la vittoria ottenuta in seguito alla lotta, impone il proprio dominio
costringendo il servo a soddisfare i propri bisogni. Il servo, attraverso il lavoro, non fa che trasformare
la natura per permetterne al signore il godimento. È proprio da qui che può iniziare il processo di
emancipazione del servo che, con il proprio lavoro, mantiene l'estraneità dalla cosa: si rende
consapevole di essere vera autocoscienza, libera e indipendente dal signore, un'indipendenza che è
frutto del lavoro; il signore, invece, si scopre illusoriamente indipendente in quanto incapace di
provvedere ai suoi bisogni e dipendente dal lavoro del servo.
Il lavoro si presenta come mezzo attraverso cui il servo trasforma la natura e se stesso, liberandosi.
L'uomo è dunque il suo lavoro, che, differendo dal desiderio naturale, può piegare la natura alle
proprie necessità; è con il lavoro e l'impegno che l'uomo acquista coscienza di sé e afferma la sua
libertà. A questo punto Hegel descrive tre celebri figure di questa libertà, storicamente definite nelle
posizioni dello stoicismo, dello scetticismo e della coscienza infelice.
Lo stoicismo, proprio della civiltà ellenistico-romana in cui la diffusione della cultura ha consentito
l'elevazione del lavoro «all'altezza del pensare», afferma la libertà come interiorità e quindi
indipendenza dalle cose. Il saggio stoico è libero «sul trono e in catene» e lo schiavo Epitteto è libero
quanto l'imperatore Marco Aurelio. Ma tale libertà è solo pensata, «senza il riempimento della vita,
indifferente verso l'esistenza naturale [...], è libertà astratta», è intesa solo come concetto e non come
concreta attuazione, giacché la realtà oggettiva, lungi dall'essere negata, continua a sussistere. Perciò
questa figura esige di essere superata in un'altra in cui non ci si limiti a dichiararsi indipendenti, ma si
metta effettivamente tra parentesi la realtà esterna e con ciò si attui la libertà.
Questo superamento avviene nello scetticismo, dove l'assenso su tutto ciò che comunemente è
ritenuto vero e reale è sospeso: così il pensiero afferma la non verità di tutti i contenuti e
determinazioni e la coscienza fa esperienza «della propria libertà», opponendo a tutto ciò che
individua come non vero la propria stabile identità. In questo stadio però la coscienza vive una
insanabile contraddizione: negando l'assenso al reale, pretende di pensarsi stabile ma si scopre parte
dell'accidentalità, del mutevole, delle cose.
La consapevolezza di questa separazione dà luogo a una nuova figura: la coscienza infelice. La
coscienza ricerca qualcosa di immutabile, individuandola in Dio come autocoscienza, qualcosa che
possa realizzare la sua libertà. «L'uomo si umilia e si pone come la non-essenza; e allora cerca di
elevarsi indefinitamente verso una essenza che lo trascende» come osserva Jean Hyppolite in Genesi e
struttura della Fenomenologia dello spirito di Hegel (1946); Dio è percepito come separato (come un
tutto contro il nulla che la coscienza percepisce di sé) e questa separazione porta la coscienza
all'infelicità, alla percezione del proprio nulla di fronte a un Dio pensato come tutto. Simboli storici di
questa coscienza infelice sono già i primi discepoli, che hanno cercato nel Cristo storico l'attuazione
dell'unità tra la propria coscienza e il divino, che tuttavia rimane ancora estraneo alla coscienza; poi le
crociate, dove il cristiano che ha cercato di «possedere il proprio oggetto come una presenza
sensibile», lo perde necessariamente, trovandosi di fronte a un sepolcro vuoto, «la tomba della propria
vita». Il significato filosofico di questa situazione è lo scacco del crociato che persiste a difendere il
possesso del sepolcro e così rivela che la coscienza singola non ha ancora raggiunto la verità. Il
discepolo e il crociato devono rientrare in se medesimi e trovare la santificazione nel lavoro e nel
desiderio che li rendono consapevoli che tutto deriva da Dio.
La coscienza infelice glorificando così Dio nega la libertà dell'uomo, ma non si spoglia
completamente della propria libertà poiché la rinuncia è sempre opera sua.
"La coscienza si sente qui come questa singola e non si lascia trarre in inganno dalla parvenza della
sua rinuncia; la verità della rinuncia, infatti, resta sempre questa: che la coscienza non ha abbandonato
se stessa". (HEGEL, Fenomenologia dello spirito)
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Al culmine del suo percorso interiore, innalzata nel suo umiliarsi di fronte a Dio, la coscienza
infelice trova la sua verità nell'ascetismo, nella figura del santo che annienta la propria singolarità per
diventare un'autocoscienza più vera e profonda: la volontà singola si nega per far sorgere la volontà
universale. In tal modo il Medioevo prepara il Rinascimento e la scoperta della ragione quale «certezza
di essere ogni realtà», verità in sé e per sé (cioè unità della coscienza e dell'autocoscienza), universalità
concreta.
4.4 Le figure della Fenomenologia: la ragione
L'autocoscienza si eleva così a ragione, che è «identità di essere e pensiero». Anche la ragione si
trova al suo sorgere in uno stato di immediatezza che esige un lungo percorso prima di diventare
verità.
Così la ragione si presenta come puramente osservativa, in quanto prende in esame la descrizione
delle cose, la classificazione e gerarchizzazione dei generi e delle specie, le leggi di natura. Questo
processo osservativo comincia con la descrizione per passare successivamente al rinvenimento dei
segni caratteristici attraverso i quali è possibile denotare l'universalità delle cose e approdare alla
scoperta delle leggi della natura con metodo sperimentale, scoprendo così il mondo organico come
superiore a quello inorganico. Il mondo organico è dominato dalla legge della finalità, per cui ogni
organo è finalizzato a uno scopo e desiste per svolgere una funzione nell'economia complessiva
dell'organismo. C'è quindi una sorta di «sapienza inconscia» nella natura, una razionalità immanente.
Questo è il punto capitale giacché il concetto di fine rinvia allo spirito che è consapevole di sé e
dunque persegue i suoi scopi; inoltre la legge del finalismo afferma che l'esteriorità è espressione
dell'interiorità, poiché i due termini devono essere considerati insieme come due realtà osservabili:
quando l'osservazione razionale si impegna nell'indagine dall'interiorità verso l'esteriorità, nasce la
psicologia con la sua pretesa di indagare l'individualità umana come autocoscienza agente,
penetrandone i caratteri comportamentali, le inclinazioni, le doti personali.
La ragione passa poi da osservativa ad attiva, cioè mira a realizzare l'unità di io e mondo, di
soggetto e oggetto. Il processo si sviluppa attraverso varie figure. L'unità è cercata nel piacere, nella
scoperta del sé nell'altro, è cercata in altri sé che si vuole assimilare (è l'esperienza che Goethe
rappresenta nel Faust come raffinato erotismo ed edonismo).
Poi è cercata in una nuova figura rappresentata da quella che Hegel chiama «la legge del cuore e il
delirio della presunzione»: adesso la felicità è concepita dalla coscienza come un desiderio necessario,
che esige forzatamente di essere appagato nella misura in cui mira a godere il mondo e a ritrovarsi in
esso. La legge del cuore si perde nel momento in cui cerca di realizzarsi nell'operare effettivo poiché
«avverte la resistenza di altri, perché essa contraddice alle leggi altrettanto singole del cuore loro»:
tenta di sfuggire alla contraddizione vedendo la perversione solo fuori di lei (cadendo così nel delirio
della presunzione), in individui che sarebbero responsabili delle sofferenze dell'umanità, altrimenti
buona per natura. La nuova figura che ne emerge è la virtù, che vede l'individuo ritrovare l'universale
e con esso l'essenza di se stesso: ora la coscienza intraprende la lotta contro il corso del mondo quale
gioco di egoismi. Si illude l'uomo singolo quando pensa di agire per se stesso in base ai propri egoismi,
perché in realtà il suo agire nel mondo va sempre al di là di se stesso: bisogna pensare che l'agire sia il
farsi dell'universale che è inseparabile dal suo manifestarsi determinato. Con ciò l'individuo scopre
che la sua felicità è concepibile solo nella vita etica, all'interno di un tessuto sociale giacché lo spirito è
universalità concreta e non è possibile rimanere allo stato di pura individualità.
Gli individui si relazionano tra loro, si riconoscono reciprocamente, costituiscono la loro vita sullo
Stato, «sostanza etica» o «sostanza universale» come complesso di leggi e di costumi di un popolo che
può così ritrovare il principio sostitutivo della vita associata e del cooperare sociale. Raggiunto
l'universale, l'individuo trova l'intima essenza di se stesso: egli vive in un mondo di leggi e di doveri, in
cui realizza la propria essenza e le proprie autentiche finalità. In tal modo la ragione, spogliatasi di
ogni accidentalità e individualità, si realizza come spirito.
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"La ragione è spirito, dacché la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, ed essa è
consapevole a se stessa di sé come del suo mondo, e del mondo come di se stessa".
(HEGEL, Fenomenologia dello spirito)
4.5 La seconda parte della Fenomenologia
La seconda parte della Fenomenologia (che corrisponde alla quarta sezione dell'opera) fu scritta da
Hegel sotto la pressione dell'editore e contiene figure di grande interesse, anche se Hegel ritenne poi di
doverle eliminare nelle sintesi che fece della Fenomenologia in altre opere.
La dialettica dello spirito incomincia con il conflitto (presente nella pólis, "città", antica) tra legge
umana e legge divina, un conflitto evocato da Sofocle nella tragedia dedicata alla figura di Antigone.
Hegel mette quindi in scena l'Illuminismo, che muove guerra alla superstizione, e la Rivoluzione
francese che proclama la libertà del soggetto e la sua emancipazione rendendolo puro arbitrio (perciò
la rivoluzione sfocia nel Terrore). Sorge qui la figura dell'anima bella che, come prodotto della libertà
assoluta, rappresenta l'innocente ottimismo dell'uomo che va incontro alla vita.
L'ultima trama riguarda la religione, la cui storia narrata da Hegel ha inizio con la religione della
luce dei persiani e con quella simbolica degli egizi per giungere a quella artistica propria dei greci,
infine alla religione rivelata del cristianesimo. In questa non vi è più opposizione tra forme esteriori e
sentire interiore, ma, mediante l'incarnazione di Dio stesso e la sua resurrezione come spirito si
esprime lo spirito che ha riconosciuto se stesso. La religione diviene quindi così sapere assoluto, il
sapere che l'assoluto ha di se stesso, consapevolezza che il mondo non è diverso da sé: lo spirito non è
più solo in sé ma anche per sé.
5 La costruzione del sistema
Già negli anni di Jena Hegel aveva espresso l'idea che il sapere filosofico debba essere sistematico e
ne aveva delineato l'impalcatura generale, nella quale la Fenomenologia dello spirito si presenta come
un'introduzione giacché definisce il sapere assoluto come il risultato della lunga odissea della
coscienza, come la storia dei suoi sforzi per appropriarsi del mondo e quindi come una sorta di storia
della conoscenza umana ora giunta alla sua piena maturità.
Il sapere quindi è totalità in sé strutturata in cui ciascuna parte costituisce in sé a sua volta un tutto:
in esso ogni contenuto trova la sua giustificazione se cessa di essere astratto (cioè considerato
unilateralmente) e diviene un momento di un insieme complessivo (e in questo senso concreto)
strutturato secondo nessi necessari. Il sistema è un processo perpetuo che inizia e termina nel
pensiero: la filosofia è quella particolare forma di sapere che ha per contenuto e oggetto d'indagine il
pensiero, e soprattutto che lo considera nel modo più idoneo e adeguato, in forma di concetto. Perciò la
filosofia si propone di assicurare il massimo di oggettività, ossia di aderenza alla cosa, e di concretezza.
Il sapere filosofico è dunque assoluto (cioè non dipendente da altro) e perciò il solo in grado di fornire
un'adeguata fondazione e legittimazione a tutti gli altri saperi. Così l'assoluto, o ragione, è lógos
universale, «è la certezza della coscienza di essere ogni realtà»; in chiave di puro immanentismo, se lo
spirito si identifica con l'insieme delle sue determinazioni particolari, il reale è espressione di
razionalità e il sistema della filosofia non può essere altro che l'esposizione dell'assoluto.
"Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev'essere il mondo, la filosofia arriva
sempre troppo tardi. Come pensiero del mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la
realtà ha compiuto il suo processo di formazione ed è bell'e fatta. Questo, che il concetto insegna, la
storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima l'ideale appare di contro al reale, nella maturità
della realtà, e poi esso costruisce questo mondo medesimo, còlto nella sostanza di esso, in forma di
regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro, allora un aspetto della vita è invecchiato,
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e, dal chiaroscuro, esso non si lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia
il suo volo sul far del crepuscolo".
(HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto)
Il sistema filosofico mostra il mondo nel suo nucleo di razionalità, distinguendo tra necessità
razionale e contingenza empirica (che è pura accidentalità). In questo contesto Hegel usa il termine
idea per designare la ragione in atto, cioè «l'unità di ragione ed essere», pensiero e realtà, soggetto e
oggetto: «l'idea è il vero in sé e per sé» e come tale essa è l'autocostituirsi dinamico della realtà; è
insieme il suo principio e fondamento e anche il suo fine. In quanto descrizione della struttura
dell'assoluto, il sistema non ha né un principio né una fine, perché l'assoluto non ha principio né fine,
non potendo apparire che come «approfondimento del pensiero in se stesso». Tenendo presente
questo, l'esposizione del sistema che Hegel presenta nell'Enciclopedia delle scienze filosofiche in
compendio comprende tre parti generali nel seguente ordine: Logica, Filosofia della natura, Filosofia
dello spirito.
6 La logica
Hegel tratta della logica in modo ampio nella Scienza della logica (1812-1816), e, in compendio,
nella prima parte dell'Enciclopedia.
La logica, la cui esposizione presuppone il sapere assoluto acquisito nella Fenomenologia, descrive
le strutture ideali della realtà come sono in sé, senza considerare né il modo in cui si sono attuate
concretamente nel mondo né il modo in cui sono state colte dalla coscienza umana. In questo senso
Hegel dice che essa è «scienza dell'idea pura», cioè della relazione che domina le cose del mondo, della
legge regolatrice dell'universo «colta nell'elemento astratto del pensiero». Infatti nella
presupposizione dell'identità di pensiero ed essere, la logica ha valore ontologico-metafisico poiché
mira a «portare alla coscienza la natura logica che anima lo spirito».
Oggetto della logica è dunque il pensiero stesso in quanto oggettivo e identico con la ragione
immanente, i cui concetti o categorie sono determinazioni sia del pensiero sia della realtà. Quindi essa
ripensa i concetti della metafisica tradizionale della sostanza alla luce della dottrina della soggettività
trascendentale che per Hegel non è sinonimo di coscienza individuale e finita, ma è caratteristica che
spetta al concetto quale principio razionale infinito (e perciò creatore e organizzatore della realtà, di
cui è essenza necessaria), quindi sostanza che si autodetermina e si riferisce a sé nella dimensione del
pensiero che pensa se stesso e si autorealizza.
Alle fasi di autoesplicazione del concetto, corrispondono altrettante divisioni della logica: logica
dell'essere; logica dell'essenza; logica del concetto.
6.1 Logica dell'essere
La logica dell'essere è quella caratterizzata dall'immediatezza e dalla semplicità, in quanto prende
in considerazione le nozioni più povere e astratte, percorrendo i tre momenti successivi della qualità,
della quantità e della misura. Dovendo cominciare dal concetto più astratto e vuoto di tutti, la logica
parte da quello di essere che è, come in Parmenide, assolutamente privo di determinazioni, quindi di
ogni contenuto. Ma proprio per questa genericità esso trapassa, coincide con il nulla: in realtà questo
non è opposto all'essere (non è l'assoluto altro rispetto all'essere), ma è nulla di determinato. In tal
modo le due nozioni solo apparentemente sono separate e antitetiche, mentre sono due momenti di
un'unica realtà: perciò la loro sintesi, la loro unione concreta è il divenire, in cui effettivamente essi
sono superati nella misura in cui l'uno passa e svanisce nell'altro. Il divenire è quindi la prima
determinazione, oltre che del pensiero, anche della realtà: entrambi sono contrassegnati dal
movimento incessante, dallo sviluppo quale loro struttura fondamentale.
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Dai suoi momenti, il nascere e il perire - passaggio dal nulla all'essere e dall'essere al nulla - e
dalla loro contraddizione deriva l'essere determinato (l'esserci), pensiero o ente, che ha come
caratteristica il limite In base ad esso, si ha un qualcosa di qualitativo e di reale (essere in sé),
distinto e separato da altri per via di precise qualità, quindi contrapposto ad altro come alla
sua negazione (essere per altro), tanto che entrambi si negano e si limitano reciprocamente.
L'essere determinato è allora finito e in quanto tale porta con sé il non essere come fattore
costitutivo della finitezza: poiché l'insieme, la totalità degli esseri finiti e determinati non può essere a
sua volta finita ma infinita, si pone il problema del rapporto tra posizione del limite e suo
oltrepassamento, cioè tra finito e infinito, rapporto che può essere pensato in corrispondenza a due
modi di concepire l'infinito stesso. Hegel distingue tra cattiva e vera infinità:
la cattiva infinità, prodotto dell'intelletto astraente, è tale in quanto esprime la semplice
contrapposizione con il finito e perciò, non possedendolo come suo momento interno, ne è
da esso limitato; a sua volta il finito è mostrato nella sua intrinseca contraddittorietà, ma poi
non riesce effettivamente ad attingere all'infinito;
la vera infinità deve invece comprendere l'originaria unità con il finito e quindi essere
concepita come consistente nel processo che lo nega, lo toglie e lo supera ricomprendendolo
come suo momento: l'infinito dunque è spirito, organismo vivente che si incarna e si supera
via via nelle sue espressioni finite fino a raggiungere, come idea e ragione assoluta, l'identità
finale con esse come compimento del processo dialettico, fine in atto della sua essenza
originaria.
Come essere per sé, possiede le determinazioni dell'uno e dei molti, tra le quali si determina un
rapporto reciproco di attrazione e repulsione. Poiché esse esigono di essere misurate, questo rapporto
ha come risultato il passaggio dalla qualità alla quantità, passaggio che si conclude in concrete
differenze qualitative, facendo sì che l’essere, pur nella diaspora quantitativa della molteplicità, ritrovi
la natura originaria del sostrato che è alla sua base.
Con ciò però siamo passati dalla logica dell'essere a quella dell'essenza.
6.2 Logica dell'essenza
«La verità dell'essere è l'essenza»: infatti quest'ultima giunge a cogliere le proprietà fondamentali
dell'essere, al di là dell'immediatezza, dietro il divenire sensibile. La sfera dell'essenza è dunque la
spiegazione del visibile mediante ciò che non è visibile se non con gli occhi dello spirito. Perciò qui
viene tematizzata innanzitutto la riflessione intesa (secondo l'etimologia del termine tedesco Wesen)
come l'internarsi, il ripiegarsi della cosa in se stessa fino alla sua natura intrinseca, in cui l'essere
immediato viene spiegato in quanto si mostra dipendente dall'essenza. Nel procedere suc-cessivo si
passerà progressivamente a cogliere la realtà nella sua immutabilità, nel suo essere in sé (noumeno) e
a determinarne le relative categorie. Tutto ciò corrisponde in sintesi all'articolazione del discorso
hegeliano che considera: a) prima l'essenza come appare in se stessa, poi b) come fenomeno - la
manifestazione dell'essenza nell'esistenza - e infine c) nella realtà effettiva come unione dei due
termini.
Il punto d'approdo della logica dell'essenza è quello del considerare le cose sotto l'aspetto della
totalità, dunque il pensare non può essere che il frutto della spontaneità creatrice del pensiero stesso,
la cui natura è libera: la logica come descrizione dell'idea nella sua processualità creatrice.
6.3 Logica del concetto
Hegel intende per concetto la stessa soggettività del pensiero (cioè della ragione universale) che si
autocrea e in tal modo pone tutte le determinazioni logiche che costituiscono l'impalcatura dell'intera
realtà. In questo senso esso è sostanza e della sostanza comprende la struttura fondamentale
(l'uguaglianza di sé nelle sue diverse determinazioni), mentre presenta il carattere tipico del soggetto
(il riferirsi consapevole a sé). Dunque il concetto si mostra come l'autentica realtà effettiva che si
autocostituisce nel riferirsi a sé del pensiero: in esso si attua pienamente quell'unità di pensiero ed
essere che è il fondamento di tutto il sistema.
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Perciò se astratto è il sapere dell'intelletto che coglie aspetti particolari della realtà separati dal
tutto, concreta è la ragione che invece ne sa vedere, da un punto superiore, l'unità e le articolazioni
individuali. In questo senso il concetto è tutto, e «va considerato come forma infinita, creatrice, che
racchiude in sé la ricchezza di ogni contenuto e, al tempo stesso, la licenzia da se stessa». Se la ragione
è soggettività vivente (spirito), il concetto ne esprime l'attività universale assoluta: esso dunque
rappresenta il movimento del pensiero, è esso stesso movimento, il movimento della totalità nel suo
autosviluppo. Hegel chiama idea assoluta l'«identità di vero e di bene», la vita universale che ha
riassorbito in sé ogni immediatezza e finitezza, pura possibi-lità logica che è fondamento e condizione
di ogni concreta realtà per cui «ogni reale è solo in quanto ha in sé l'idea e l'esprime».
7 La filosofia della natura
Nella struttura generale del sistema, la natura rappresenta il momento negativo, l'antitesi.
Pervenuta alla pienezza del suo sviluppo logico, l'idea «si risolve a lasciare uscire da sé il momento
della sua particolarità [...] come natura». Sotto questo aspetto, essa rappresenta l'alienazione, cioè
l'esteriorizzazione dell'idea in una molteplicità di forme.
In tema di filosofia della natura la posizione di Hegel non è priva di ambivalenze che hanno dato
molto lavoro agli interpreti: da un lato egli vede nella natura una caduta, un degrado dell'idea;
dall'altro il raggiungimento di un arricchimento autoriflessivo realizzato mediante il suo estraniarsi da
sé. Indubbiamente Hegel ha prevalentemente insistito sul primo motivo: essendo la natura la stessa
idea «nella forma dell'essere altro da sé», appare di conseguenza come decadenza dell'idea da se
stessa. Infatti l'idea, nella forma esteriore della natura, è «inadeguata a se stessa»: avendo un'esistenza
meramente esteriore, anche le sue manifestazioni sono caratterizzate in questo senso; ciò significa che
i suoi vari aspetti particolari e determinati, posti in condizione di separazione e di distacco, impongono
all'insieme una forte impronta di accidentalità e mancanza di libertà.
Pertanto la ragione può penetrare la costituzione della natura fino a un certo punto: poiché in essa
il concetto è realizzato in modo oscuramente inconscio e accidentale, non certo nella ricchezza delle
sue articolazioni, è impossibile mostrare l'intrinseca necessità e universalità di tutti i suoi prodotti.
Hegel respinge il modello meccanicistico e il metodo sperimentale, mirante, attraverso
l'ipostatizzazione delle forze naturali come entità indipendenti, a individuare un sistema di relazioni
fisse tra i fenomeni espresse in formule matematiche e in proposizioni verificabili e adattabili
all'osservazione empirica. La filosofia può al massimo mostrare il piano generale della natura, che è
fondamentalmente statica, rigidamente fissa nel suo ordine: è piuttosto un «sistema di gradi, in cui
l'uno esce dall'altro necessariamente» dove per gradi non dobbiamo intendere uno sviluppo biologico
ed evolutivo ma i momenti del processo dialettico che conduce la natura a inserirsi e fondersi nello
spirito.
Il primo grado è costituito dalla meccanica, che studia i fenomeni naturali al livello più basso e
dunque caratterizzati nel senso dell'isolamento e dell'esteriorità: per questo la prima forma è lo spazio
in cui gli individui sono giustapposti gli uni agli altri. Segue il tempo, forza negativa che distrugge ciò
che incontra giacché, come divenire esteriore, supera ma non conserva. La dialettica spazio-tempo si
attua in quella di luogo e movimento, che è a fondamento del concetto di materia. Questo si estrinseca
in momenti successivi: inerzia, urto e caduta unificati nella gravitazione universale che regola il
movimento dei corpi celesti.
Il secondo grado è costituito dalla fisica che considera la materia in quanto «si strappa alla gravità»
e quindi si determina in sé e da sé costituendo l'individuo: nel primo momento come «fisica
dell'individualità universale» studia gli elementi della materia; quindi dialetticamente si passa alla
«fisica dell'individualità particolare» che tratta delle proprietà essenziali della materia (peso specifico,
suono, calore) per giungere alla sintesi costituita dalla «fisica dell'individualità totale», che affronta i
processi magnetici, elettrici e chimici.
In questo campo, dalla sintesi dei processi di combinazione e dissoluzione degli elementi, si può
giungere alla giustificazione dell'organismo che inaugura l'ultima parte della natura, o fisica organica.
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Questa tratta innanzitutto della natura geologica, di quella vegetale e infine di quella animale dove
l'organismo ha una certa autonomia e sentimento della vita. Ogni individuo biologicamente
determinato incontra la morte, che Hegel interpreta come segno e conseguenza «dell'inadeguatezza
all'universalità» da parte dell'individuo, che è semplice accidentalità rispetto al genere: solo questo è
l'idea, mentre gli individui sono esistenze attraverso cui il genere si perpetua. Nell'uomo - anch'esso
individuo biologicamente determinato - avviene il riscatto dell'idea dalla sua esteriorità con
l'attuazione del passaggio dalla natura allo spirito: la ragione riprende coscienza di sé realizzando la
sintesi di universale e individuale.
8 Lo schema della filosofia dello spirito nell'Enciclopedia
Lo spirito è l'assoluto in senso proprio in cui idea e natura, in sé momenti ideali e condizioni
preparatorie, trovano la loro sintesi. Ciò significa che lo spirito è nello stesso tempo la negazione
(infatti ne abolisce l'esteriorità e la dispersione) e la verità (in quanto la realizza al massimo vertice)
della natura. Come spirito, la ragione si fa soggettività libera, individualità che passa dal piano della
mera accidentalità a quello dell'universalità, divenendo consapevole di sé e del suo valore. In questo
senso lo spirito si manifesta e coincide con l'uomo, cioè nell'essere che si solleva dalla bruta naturalità
e in cui si afferma, insieme con la coscienza, la cultura quale forma espressiva dell'attività intellettuale
singola e collettiva. Hegel descrive il progressivo sviluppo della vita dello spirito dai gradi più semplici
e immediati a quelli più complessi, seguendo il suo necessario ritmo dialettico: ciò significa che i vari
gradi non sono esteriormente giustapposti o coesistenti (come nella natura), ma risultano organizzati
secondo la logica dell'unità di finito-infinito per cui ognuno di essi si risolve, in quanto determinato, in
quello dialetticamente superiore che lo comprende in sé nella misura in cui è già in esso presente.
9 La filosofia dello spirito soggettivo
Nella sezione dedicata allo spirito soggettivo Hegel mostra come lo spirito cominci la sua vita con la
soggettività quale si esprime nella finitezza individuale. Si può osservare lo spirito che emerge dalla
natura per avviarsi, con passo lento ma graduale, verso la sua piena maturità ed elevatezza. Certo, le
sue prime manifestazioni sono ancora torbide e confuse, mescolate come sono a quelle grossolane
della fisicità animale: tuttavia è qui che prendono avvio e gettano le radici le espressioni più specifiche
dell'essenza umana, le sue attività teoretiche e pratiche quali prodotti delle sue funzioni psichiche
superiori, in particolare della sua intelligenza.
Il primo momento di manifestazione dello spirito soggettivo è costituito dall'anima che, nella sua
immediatezza naturale, è costituita da un complesso di determinazioni psicologiche studiate
dall'antropologia. Con riferimento esplicito alla posizione di Aristotele, l'anima rappresenta dunque
quella sfera in cui corpo e psiche sono originariamente unite, e quindi in cui spirito e natura
stabiliscono uno stretto complesso di rapporti. Da un lato quindi si possono constatare i
condizionamenti dei vari fattori naturali (da quelli geografici e fisici, a quelli dell'età e del sesso, della
salute e della malattia ecc.), dall'altro Hegel si sforza di mostrare sempre il significato razionale dei
fenomeni considerati, giacché ora compare nell'individuo il sentimento (certo, in gran parte
inconsapevole) dell'unità della propria vita in quanto è orientata a un fine universale.
Hegel si sofferma:
1. sulla differenza tra sonno e veglia e sulla rilevanza del destarsi - qui infatti si
determina il passaggio da uno stato di confusa indeterminatezza al senso della propria
individualità e autonomia, o anima senziente;
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2. sul significato della malattia, che sarebbe dovuto a uno squilibrio di forze di una parte del
corpo con conseguente interessamento dell'anima senziente fino alla sua dissoluzione;
3. sul significato della follia - dove un'idea assume un ruolo dominante rispetto alle altre, ma
senza avere un collegamento con il resto della vita;
4. sul ruolo e sull'incidenza dell'abitudine, la quale, come attività sviluppata automaticamente
senza coinvolgimento della coscienza, implica un progressivo liberamento dell'anima dai vincoli del
corpo;
5. sulla funzione del linguaggio, il quale, in quanto è intrinsecamente e immediatamente dotato di
una struttura logica, è oggettivazione della razionalità, veicolo di universalità realizzando in sé
l'unità di segno, significato e oggetto.
La trattazione di questi due ultimi punti consente poi a Hegel di mostrare come l'anima diventi
reale, cioè capace di esprimersi in modo simbolico e quindi di rompere l'immediata unità
psicosomatica per acquisire la consapevolezza dell'opposizio-ne tra l'esterno del mondo e l'interno
dell'io: ciò significa che il movimento dialettico dell'anima conduce come proprio risultato alla
coscienza.
Lo studio di essa è oggetto della fenomenologia; qui Hegel riprende i temi della Fenomenologia dello
spirito (limitatamente alle sezioni sulla coscienza, l'autocoscienza e la ragione) inserendoli nella
struttura del sistema, con la differenza che ora lo sviluppo fenomenologico conduce alla psicologia,
cioè allo studio dello spirito soggettivo in senso proprio, quindi dell'«individuo come tale» in cui si
realizza l'unità dialettica dei momenti precedenti. Il soggetto individuale è in grado di esprimersi con
manifestazioni che hanno un senso universale e che sono l'attività teoretica e l'attività pratica.
Si ha attività teoretica quando lo spirito soggettivo giunge al culmine, quando il soggetto riconosce
se stesso nell'oggetto. Si ha attività pratica quando lo spirito soggettivo mira ad affermare l'autonomia
del soggetto rendendolo indipendente dall'oggetto, quale fattore esterno limitante e condizionante la
sua vita: esso si manifesta all'inizio nel sentimento del giusto e dell'ingiusto, successivamente negli
impulsi e nell'arbitrio, infine nell'aspirazione alla felicità quale massima espressione dello spirito che
ha come fine intrinseco il possesso di sé. In realtà tanto l'attività teoretica quanto l'attività pratica dello
spirito soggettivo sono prodotti dell'unitaria struttura costitutiva dell'individuo il quale, pertanto, ha
come essenza la libertà o volontà libera: a questo livello di sviluppo (dovuto secondo Hegel al
cristianesimo) lo spirito soggettivo divenuto spirito libero si vuole autodeterminare, proponendosi la
regola e il fine dell'agire.
In tal modo però egli incontra gli altri individui liberi e i loro fini, scoprendo co-me la sua libertà sia
pura astrazione, un semplice conato, senza l'interazione con loro e senza il reciproco riconoscimento:
in tal modo lo spirito «entra nella sfera dell'esistenza mondana», uscendo dalla sfera della soggettività
per accedere a quella dei rapporti sociali e delle loro istituzioni in cui si può concretamente realizzare.
Con ciò lo spirito è diventato oggettivo.
10 La filosofia dello spirito oggettivo: diritto astratto e moralità
1.1 Il diritto astratto
Il primo momento in cui l'individuo si definisce come tale all'interno di rapporti sociali e in cui
realizza la propria libertà è quello del diritto astratto. Qui egli può manifestare la propria volontà nel
modo più immediato, cioè sulla materia più elementare e povera costituita dagli oggetti esterni: in tal
modo egli diventa, secondo il dettato del diritto romano, persona giuridica, quindi soggetto dotato di
diritti.
Nel mondo moderno il diritto primario di «appropriazione dell'uomo su tutte le cose» ha assunto la
forma della proprietà privata «libera e piena»: ciò significa che il diritto considera la persona come
inserita in una struttura di rapporti giuridici puramente formali (cioè indipendentemente e perciò
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astrattamente dalle concrete condizioni particolari) dove la libertà è trattata in senso meramente
esteriore in quanto «il soggetto che è libero [...] si dà un'esistenza nelle cose».
Malgrado ciò, qui l'individuo incomincia a vedere negli altri delle persone da rispettare, giacché
insieme ai diritti assume anche dei doveri, e può assistere, esprimendo la volontà esplicita di far valere
il suo possesso, alla trasformazione di ciò che ha in proprietà. Nell'istituto del contratto volontà
differenti si riconoscono reciprocamente e, convenendo in unità di intenti per trasferire dei diritti
personali su cose, concordano la garanzia e la salvaguardia del possesso delle rispettive proprietà. Tra
queste non va dimenticata quella fondamentale sulla propria stessa persona (habeas corpus).
Dal contratto hanno origine le dispute e quel fenomeno giuridico che è «il diritto contro il torto»:
infatti compito del primo è anche quello di difendere la proprietà dalla violenza altrui. Se, tra le forme
di torto, si possono distinguere la controversia (dove il diritto è interpretato diversamente da ciascuna
delle due parti) e la frode (dove la legge è rispettata solo in modo formale, ma violata nella sua
essenza, nel suo spirito), certo quella più grave è il delitto dove il valore della legge è esplicitamente
negato: perciò il diritto deve mirare anche alla sua repressione e punizione. Poiché il delitto si
configura come affermazione dell'arbitrio personale contro il diritto di tutti, la pena assume allora il
valore di ripristino della razionalità giuridica che deve reggere e permeare i rapporti sociali nella loro
validità universale di libertà. Tuttavia nell'attuare tale punizione il diritto non può presentarsi che
come «diritto di violenza»: in tal modo esso evidenzia il suo limite e la sua insufficienza giacché, come
il delitto esprime un disagio del singolo verso la società, così il diritto non ricompone questo dissidio e
conferma la scissione all'interno del corpo sociale.
Perché la sostanza di questo possa venire reintegrata in tutta la sua organicità, occorre che le
norme vengano interiorizzate e che la volontà individuale cresca nel senso dell'autodeterminazione,
salendo verso superiori forme di universalità non meramente esteriori. In tal modo il piano del diritto
è superato in quello della moralità.
10.2 La moralità
Sul piano morale l'io è libero in se stesso, «nella sfera soggettiva»: ciò significa che questo momento
dialettico, tipico della modernità e promosso dal cristianesimo, è caratterizzato dalla volontà
dell'individuo che pretende di agire in base a un proposito consapevolmente e responsabilmente
stabilito. Il proposito assume la forma dell'intenzione in quanto l'individuo, che è dotato di volontà, è
un essere razionale che mira a conseguire il suo benessere: nella misura in cui l'individuo esce dal
proprio particolarismo per elevarsi all'universalità, egli trasforma il proprio benessere in bene in sé e
per sé che la sua volontà persegue come fine assoluto.
Questo si configura come un dover essere, cioè un «essere assoluto, che tuttavia insieme non è» in
quanto attende di essere realizzato: si stabilisce così una separazione tra la volontà soggettiva e il suo
fine che si presenta quale tratto tipico della moralità, specialmente di quella kantiana.
Hegel ha sempre tenuto una posizione critica nei confronti di Kant, cui ha rimproverato
l'astrattezza dei termini e il consequenziale formalismo che evidenzia peraltro il contrasto tra il suo
rigorismo (che sacrifica i nostri bisogni e la nostra aspirazione alla felicità) e la sua impotenza a
concretizzarsi nel mondo reale, nella «realtà vivente». Dunque sulla base di questo soggettivismo
astratto si stabilisce un'opposizione tra «una cosa vuota come il bene» e il dovere che finisce per
determinare una scissione all'interno della coscienza umana. Ciò significa che questa opposizione va
tolta e superata su un piano dove l'individuo, in rapporto stretto con gli altri individui, in rapporto di
identità con il mondo avvertito come suo, sia in grado di realizzare effettivamente la sua volontà.
Questo piano è quello dell'eticità.
11 L'eticità
L'eticità rappresenta il momento in cui l'esteriorità del diritto e l'interiorità della morale trovano la
loro conciliazione. Il mondo oggettivo umano, in quanto caratterizzato da vincoli sociali forti e
concretamente determinati, può dunque realizzarsi solo attraverso l'eticità, in cui la persona non vede
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più nel dovere un'imposizione, ma il modo per la realizzazione dei suoi stessi diritti: ciò implica che gli
individui avvertano un impulso simpatetico spontaneo verso i propri simili e imprimano un carattere
di fiducia ai loro rapporti. Ma questi assumono un valore universale solo nel momento in cui trovano
forma e sostanzialità nelle istituzioni o forze etiche, con cui l'eticità pertanto viene a coincidere: in
quanto sintesi di soggettività e oggettività, di concetto e sostanza, al loro interno infatti si specificano
fini concreti che, sulla base di precise esigenze, si propongono all'individuo come compiti da realizzare
con dedizione e impegno.
11.1 La famiglia
Il primo momento dialettico dell'eticità è costituito dalla famiglia quale unità spirituale, in cui
l'unità dei membri è posta in modo immediato a partire dal rapporto naturale dei sessi. Nel mondo
moderno essa è fondata sul matrimonio con cui due persone, che si uniscono in un vincolo d'amore e
fiducia reciproca, formano un organismo sociale compatto e concorde, una sola persona: il
matrimonio, dunque, non è un mero contratto, ma una sintesi che, per effetto di un atto libero di
volontà di due individui autonomi e autodeterminati, eleva e invera, trasfigurandoli su un piano
superiore, una serie di elementi naturali (la sessualità), giuridici (il dato contrattuale esterno) e
affettivi (l'amore). Dal matrimonio così inteso derivano gli altri fattori costitutivi la famiglia, che sono il
patrimonio (che, usato nell'interesse di tutti i membri, consente il loro sostentamento e la
soddisfazione dei bisogni comuni) e l'educazione dei figli. Questi ultimi, diventati adulti, usciranno da
questo nucleo per formarne di propri e con propri interessi, così come i genitori un giorno moriranno
in tal modo la famiglia, nella sua finitezza e naturalità, si dissolve. Ciò che permane, come sostanza
etica, è il rapporto tra le famiglie che costituisce la società civile.
11.2 La società civile
Rispetto al momento precedente, caratterizzato dall'unitarietà e dalla solidarietà immediata, il
momento della società civile vede il prevalere della dispersione esteriore, della frantumazione delle
molteplici individualità particolari in un sistema di relazioni essenzialmente conflittuali per la
contrapposizione di interessi specifici.
La società civile è dunque il luogo della mediazione, della scissione e della differenziazione, «il
campo di battaglia dell'interesse privato e individuale di tutti contro tutti»: ciò significa che da un lato
c'è l'aspetto universale del vivere sociale, ma solo come sistema di organi pubblici, giuridici e
amministrativi, che dall'esterno e formalmente regolano l'insieme dei rapporti intersoggettivi.
Dall'altro vi sono proprio questi ultimi, che sono costituiti dallo scontro/incontro di bisogni e interessi
propri di individualità (i nuclei familiari) che, mentre devono necessariamente convivere, sembrano
non trovare, a causa delle motivazioni delle rispettive volontà ad agire, una dimensione di armonia e
organicità di vita in comune.
Per questo motivo Hegel qualifica la società civile come un «sistema dell'atomistica» per
evidenziare l'isolamento, l'indipendenza degli individui, chiusi ciascuno nel proprio ambito privato,
prigionieri del conflitto tra bisogni egoistici e bisogni sociali; analogamente vede in essa una «perdita
di eticità», giacché la particolarità è in rapporto con l'universalità solo «in maniera formale, che appare
soltanto nel particolare». Hegel però vuole mostrare che malgrado la frantumazione delle relazioni
sociali, emerge un legame etico di fondo che attende di manifestarsi in modo pieno ed esplicito: per il
momento gli individui sono «persone private che hanno per proprio fine il loro particolare interesse»:
tuttavia, nella misura in cui la soddisfazione dei bisogni di ciascuno è dipendente da quella degli altri,
questo fine è mediato dall'universale, che di conseguenza appare a ciascuno solo come un mezzo. Il
fine, quindi, può essere:
[...] conseguito da loro [cioè dai singoli] soltanto in quanto essi stessi determinino in maniera
universale il loro sapere, volere, fare [cioè coordinino socialmente la loro vita] e si costituiscano ad
anelli della catena di questa connessione. [Per questo motivo] non è in quanto libertà, ma in quanto
necessità, che il particolare si elevi alla forma dell'universalità, che cerchi e abbia, la sua consistenza, in
questa forma.
(HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
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Il primo momento della società civile è quello del «sistema dei bisogni»: qui Hegel, descrivendone la
dinamica interna, si mostra assai vicino alle posizioni degli economisti classici (come Adam Smith) di
cui accoglie sostanzialmente i risultati. Hegel sottolinea come l'egoismo dei fini privati contribuisca al
soddisfacimento dei bisogni di tutti, anzi come questi ultimi diventino sempre più numerosi, raffinati e
complessi in rapporto alla divisione del lavoro che stimola la specializzazione dei produttori.
Hegel mostra piena consapevolezza sia dei caratteri e dell'incidenza dei processi economici tipici
della rivoluzione industriale sulla composizione sociale sia dei fattori costitutivi e delle loro
conseguenze. innanzitutto la divisione del lavoro «che effettua la specificazione dei mezzi e dei bisogni
e, appunto perciò, specifica la produzione» rendendo il lavoro più semplice anche attraverso
l'introduzione delle macchine. Ne deriva da un lato «la dipendenza e il rapporto di scambio fra gli
uomini, per l'appagamento di altri bisogni», e dall'altro un'umanizzazione della realtà poiché
«queseelaborazione dà al mezzo il valore e la sua conformità allo scopo, quest'elaborazione suo
consumo, sta in rapporto particolarmente con i prodotti umani e sono tali fatiche che egli utilizza».
I rapporti sociali moderni non sono però fatti solo di interdipendenza economica, ma anche
culturale, nel senso che l'individuo entra in questo tessuto relazionale anche attraverso lo scambio di
competenze sia teoriche sia tecnico-pratiche richieste e incentivate proprio dalla crescente
specializzazione delle attività produttive: egli non è solo formato in senso mentale ma anche
comportamentale (educazione pratica) giacché il lavoro impone, ed esige, una precisa disciplina, che
«consiste nel bisogno che si produce e nella consuetudine dell'occupazione in generale». Attraverso la
sinergia di questi fattori si determina dunque al livello del sistema dsinergiai l'unità dell'organismo e
della ricchezza sociale, anche gli individui non ne sono consapevoli e credono di lavorare solo per il
proprio vantaggio.
In questa dipendenza e reciprocità del lavoro e dell'appagamento dei bisogni, l'egoismo soggettivo
si converte nel contributo all'appagamento dei bisogni di tutti gli altri, così che, poiché ciascuno
acquista, produce e gode per sé, appunto perciò, produce e acquista per il godimento degli altri.
(HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Alla divisione del lavoro è naturalmente associata la divisione della società in classi: nella
trattazione di questa materia, Hegel tende a sovrapporre ai tratti del modello capitalistico-borghese
quelli della Prussia pre-capitalistica, con le sue istituzioni tradizionali fondate sui ceti (in tedesco
Staende, "stati", "ordini"). Così egli individua il ceto sostanziale o agrario che comprende sia la nobiltà
latifondista sia i piccoli proprietari; quello industriale che comprende anche artigiani e commercianti;
e infine quello generale (o universale) così chiamato perché si occupa degli «interessi generali dello
stato sociale», un ceto che include la burocrazia di Stato. Quest'ultimo deve essere «dispensato dal
lavoro diretto per i bisogni, o per mezzo del patrimonio privato, perché esso è indennizzato dallo Stato,
che esige la sua attività; così che l'interesse privato trova il proprio appagamento nel suo lavoro per la
generalità». Poiché «l'uomo vale in quanto uomo» e il diritto moderno ha sancito questo principio,
l'accesso ai ceti (specie al terzo) non è legato alla nascita.
Il secondo momento della società civile è costituito dall'«amministrazione della giustizia», in cui il
diritto è assunto nell'eticità e «passa all'esistenza» realizzandosi in modo concreto come «realtà
oggettiva» (o diritto positivo). A questo livello dunque esse si specifica in un sistema di norme
pubblicamente conosciute e dunque con valore obbligante; ne deriva che il delitto si configura contro
«la cosa universale», come «dannosità dell'azione per la società»: il giudice rappresenta il pubblico
potere (quindi non un potere autonomo, ma il potere esecutivo) e a lui spetta «la realizzazione del
diritto nel caso particolare, senza il sentimento soggettivo dell'interesse particolare». Ciò significa che
in questo modo il diritto dell'individuo viene connesso alla legge come norma o diritto universale,
rendendo più stretto e organico il suo legame con la «sostanza etica», l'intero sociale.
Infine Hegel individua un terzo momento ne «la polizia e le corporazioni». La prima realizza
«quell'unità dell'universale, che è in sé, con la particolarità soggettiva», assicurando quindi la
sussistenza e il benessere del singolo e che questo fine sia «trattato e realizzato come diritto». Essa
deve quindi essere intesa generalmente come amministrazione che provvede e previene tutto ciò che
può danneggiare o favorire il singolo. Tra i compiti della polizia per il benessere dei membri del corpo
sociale c'è quello educativo.
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L'individuo è divenuto figlio della società civile [che ha] altrettante pretese verso di lui, quanti
diritti ha egli verso di essa, [essa] in questo carattere di famiglia universale, ha il dovere e il diritto, di
fronte all'arbitrio e all'accidentalità dei genitori, di esercitare sorveglianza e influenza sull'educazione,
in quanto questa si riferisce all'attitudine di divenire componente della società [e] in quanto possono
essere presi provvedimenti comuni a tal fine, ha il dovere e il diritto di preparare questi. (HEGEL,
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Inoltre rientra nelle competenze dell'amministrazione farsi carico, con opportune misure di politica
economica, di un problema che agli occhi attenti di Hegel non poteva sfuggire quale tratto
caratteristico del mondo moderno industrializzato dove la ricchezza è accumulata e distribuita in
modo diseguale: quello del pauperismo crescente e della formazione di classi subalterne dalle
condizioni di vita precarie. Da un lato Hegel afferma che «il potere generale prende il posto della
famiglia presso i poveri, tanto riguarda alle loro deficienze immediate, quanto riguarda al sentimento
di avversione al lavoro, alla perversità e agli altri vizi, che provengono da tale situazione e dal
sentimento del proprio torto»; dall'altro egli è contrario sia a misure assistenzialistiche, le quali
sarebbero contro il principio della società civile e della loro autonomia e dignità, sia a un'estensione
dell'occupazione, che creerebbe un surplus produttivo senza un'adeguata possibilità di assorbimento
da parte del mercato, quindi una crisi di sovrapproduzione. L'espansione del mercato e lo sviluppo si
profilano dunque come la soluzione obbligata per un problema altrimenti ineliminabile.
In ogni caso, di fronte alla conflittualità e alle lacerazioni del modello di società borghese
tendenzialmente individualistico, Hegel indica nelle corporazioni il momento più efficace di
mediazione per il recupero del rapporto organico tra l'individuo e l'intero sociale. In questa «seconda
famiglia» ogni componente della corporazione trova «la sua dignità» ed è riconosciuto come membro
di un intero organico il quale, a sua volta, è «una componente della società generale e ha interesse e
premure per il fine più disinteressato di questa totalità». Per questi motivi la corporazione
rappresenta il più alto fattore di mediazione tra la società civile e lo Stato; ma solo lo Stato tuttavia
costituisce il culmine dello spirito etico che in lui trova piena realizzazione e compiuta unità, nella
misura in cui risolve in sé ed eleva su un piano più alto i due momenti precedenti, l'unità immediata e
naturale della famiglia e la differenziazione della società civile.
11.3 Lo Stato
Lo Stato è espressione dello spirito, è l'oggettività di «ciò che è». In esso tutte le particolarità (gli
individui, le famiglie, le classi ecc.) trovano il loro fondamento e perciò il senso del loro essere e il fine
del loro agire. Infatti come sul piano metafisico l'intero si articola accogliendo in sé le determinazioni
finite colte dalla riflessione, altrettanto sul piano etico l'intero (che sul piano etico è lo Stato) deve
accogliere in sé sia le determinazioni del diritto proprietario e privatistico sia le determinazioni
economiche tipiche del mondo moderno.
Lo Stato quindi è un intero organico che in modo immanente si articola secondo tutti i momenti
della vita civile senza lasciarne alcuno fuori dal suo dominio, giacché nella sua struttura sono
comprese tutte le determinazioni della vita sociale. Nello Stato gli individui, cessando di percepirsi
come mere entità atomiche, si elevano, quali «esseri pensanti», all'universalità, smettono il loro
naturale egoismo e vogliono razionalmente il bene comune, operano non per se stessi ma,
concordemente e coordinatamente, per un fine superiore che li unifica: questo non può essere che lo
Stato, e dunque solo in esso è possibile rinvenire e trovare incarnata l'autentica libertà.
Pur essendo espositivamente collocato per ultimo nello schema dell'Enciclopedia delle scienze
filosofiche, ontologicamente viene per primo così come il tutto viene prima delle parti di cui non è
semplicemente la somma. In questo senso si possono intendere le critiche che Hegel muove alle varie
correnti di pensiero politico a lui precedenti. Innanzitutto la sua concezione etica e organicista si
presenta come del tutto opposta a quella liberale, secondo la quale (in Locke, Kant ecc.) lo Stato non
sarebbe che un «ente artificiale», uno strumento voluto dagli individui per la tutela dei loro diritti e la
garanzia della loro sicurezza: essi dunque sarebbero liberi solo concedendo un ruolo minimo allo
Stato, solo una funzione negativa per l'eliminazione di tutti quegli ostacoli e per la soddisfazione di
tutte quelle necessità che impediscono la piena attuazione di una volontà che è rivolta egoisticamente
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solo a se stessa pretendendo di esplicarsi senza intrusioni di sorta. Poiché la libertà nello Stato finisce
per identificarsi con la libertà dallo Stato, Hegel rileva come quest'ultimo si confonda con la società
civile dove non c'è bene comune o fini universali, ma «l'interesse degli individui come tali è il fine
estremo per il quale essi sono uniti».
Ovviamente questa critica si incrocia con quella al modello contrattualistico (sostenuto da questi
stessi autori, ma anche da Hobbes e Rousseau), giacché, come è impossibile che l'infinito derivi dal
finito, così è assurdo che l'universale possa derivare dal particolare, che l'interezza dello Stato possa
essere voluta e decisa da volontà chiuse nella loro finitezza e nel loro egoismo particolaristico.
Anche il giusnaturalismo (Grozio, Pufendorf, Wolff ecc.) viene attaccato da Hegel che, pur
concordando sul valore della legge come massima espressione di razionalità e su quello dello Stato
come la più alta realizzazione politica e civile raggiunta dall'uomo nel suo sforzo di uscire dalla ferinità
naturale, non concepisce come gli individui possano godere di «diritti naturali» precedentemente alla
costituzione dello Stato e a conservarli oltre la sfera di competenza di questi.
Hegel tiene a prendere le distanze pure dalla concezione democratica di Rousseau: vano è invocare
il popolo come sede della sovranità, poiché il popolo è tale solo nella forma dello Stato mentre «i molti
come singoli, la qual cosa si intende volentieri come popolo, sono certamente un insieme, ma soltanto
come una moltitudine, una massa informe».
Da quanto detto derivano alcune importanti conseguenze, innanzitutto lo statalismo di Hegel per il
quale lo Stato certo è, in quanto totalità etica, la realizzazione della libertà.
Nella libertà non deve procedersi dall'individualità, dall'autocoscienza singola, ma soltanto
dall'essenza dell'autocoscienza; poiché, ne possa essere consapevole o meno l'uomo, quest'essenza si
realizza come potere autonomo, nel quale i singoli individui sono soltanto momenti. L'ingresso di Dio
nel mondo è lo Stato; il suo fondamento è la potenza della ragione che si realizza come volontà.
Nell'idea di Stato, non devono tenersi presenti Stati particolari, istituzioni particolari; anzi, si deve
considerare per sé l'idea, questo Dio reale.
(HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio)
Spesso accusata di essere la matrice ideologica dei totalitarismi moderni, la concezione hegeliana
evidenzia come nello Stato, in quanto espressione di razionalità, l'individuo e i suoi interessi ricevano
«il loro pieno sviluppo e il riconoscimento del loro diritto»: ciò significa fondamentalmente che lo Stato
è Stato di diritto, fondato sul primato della legge che costituisce il modo e il mezzo con cui esso opera.
Nello Stato tutto l'organismo dell'intero etico è diretto dalla soggettività autocosciente che informa di
sé le sfere particolari della famiglia e della società civile e le orienta verso i propri fini: così lo Stato «è,
da una parte, un'esterna necessità e la loro superiore potenza, alla cui natura sia le loro leggi che i loro
interessi sono subordinati, e da essa dipendenti», e dall'altra esso è «il loro immanente fine ed ha la
sua forza nell'unità del suo universale scopo finale e del particolare interesse degli individui». Ne
deriva la legittimazione dello Stato che si fonda sulla volontà dei cittadini nella misura in cui questi
hanno elevato la loro volontà libera alla ragione (anzi, diventata libera in quanto razionale): in tal
modo i cittadini hanno dei doveri verso lo Stato in quanto hanno nello stesso tempo dei diritti.
Se lo spirito si incarna nello Stato, l'universalità che esso esprime si articola nelle sue sfere
particolari, nelle sue istituzioni. Il complesso di queste ultime formano la costituzione che, in quanto
struttura razionalmente organizzata, costituisce «la base stabile dello Stato». Essa è il risultato di un
complesso di condizioni storiche e culturali maturate nella vita di un popolo che in esse si identifica
riconoscendole come proprie. In questo senso lo Stato è l'espressione dello spirito di un popolo, e,
come tale, è «la legge che penetra tutti i suoi rapporti, l'ethos e la coscienza dei suoi individui»: di
conseguenza la sua costituzione dipende «dal modo e dalla formazione dell'autocoscienza del
medesimo». «Ogni popolo ha quindi la costituzione che gli è adeguata» e la conseguenza è «il
sentimento politico» (o patriottismo) che egli nutre come fiducia che il suo interesse è «custodito e
contenuto» nell'interesse dello Stato. La costituzione contempla naturalmente la questione della
distinzione e dei rapporti tra i poteri dello Stato: in via preliminare Hegel precisa che la loro divisione
è necessaria, ma non deve essere intesa nei termini dell'intelletto astratto, cioè come un'autonomia
assoluta di ciascuno e la conseguente reciproca limitazione e negazione. Piuttosto ancora una volta
bisogna rifarsi alla dialettica dell'intero in quanto contiene «il momento essenziale della
differenziazione»: solo a questa condizione si salva la loro unità vivente.
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Lo schema dell'articolazione organica dei poteri è così specificato: a) il potere «di determinare e
stabilire l'universale [cioè la legge] - potere legislativo»; b) quello «della sussunzione delle sfere
particolari e dei casi singoli sotto l'universale [cioè l'applicazione della legge] potere governativo [o
esecutivo]»; c) infine quello «della soggettività, in quanto decisione ultima di volontà, il potere sovrano
- nel quale i poteri distinti sono raccolti ad unità individuale; il quale, pertanto, è il culmine e il
principio della totalità - monarchia costituzionale».
Gli oggetti del potere legislativo si precisano nei confronti dei diritti e dei doveri dei cittadini, di ciò
che riguarda il loro vantaggio, quindi le leggi del diritto privato e delle corporazioni, e di ciò che essi
devono offrire come prestazioni allo Stato, fondamentalmente nella forma dei tributi. La questione
fondamentale affrontata da Hegel riguarda il modo con cui i cittadini possano concorrere alla
formazione delle leggi: certo è che egli esclude che il popolo e i suoi rappresentanti sappia e voglia ciò
che è meglio per lui. La garanzia di un'adeguata intelligenza del bene generale si trova negli stati (o
ordini), nel senso però che essi, percependo più immediatamente i bisogni, li mostrano ai funzionari
incitandoli a provvedere. Gli stati dunque esercitano un'essenziale funzione mediatrice tra il popolo e
il governo, in quanti in essi è insieme presente la necessità e la libertà. I tre stati della società civile
pertanto devono diventare articolazioni del potere legislativo, nella misura in cui non vi deve essere
separazione tra società civile e Stato politico. Ciò significa che i deputati, presenti in due camere, una
alta e una bassa per evitare che le decisioni siano solo «l'accidentalità di un momento», non sono
rappresentanti dei cittadini quale moltitudine atomistica, ma della società civile organizzata e ordinata
in stati. Infatti come lo Stato è «la totalità organizzata nelle sue cerchie particolari», così il singolo può
«venire considerato nello Stato» solo come membro di un ordine, che lo eleva a individuo cosciente
dell'universale, elevazione che può essere attuata anche attraverso la pubblicità dei dibattiti e la
stampa, la cui libertà per la promozione del «sano intelletto umano» e della partecipazione Hegel
difende e vuole garantita, pur stigmatizzandone gli eccessi, le intemperanze, il suo «pervertimento»
nel diffondere «l'accidentalità dell'opinare» e «la falsa conoscenza».
Data la loro natura parziale e limitata, le camere dei rappresentanti degli ordini non rappresentano
tutto ma solo una parte del potere legislativo: infatti l'unità organica dello Stato esige che in esso siano
attivamente presenti gli altri due, quello governativo come momento consultivo e quello monarchico
come decisione suprema. Quest'ultimo rappresenta il vertice della costituzione dello Stato in quanto
nella sua singolarità opera una sintesi di universalità e particolarità. Il potere sovrano «contiene esso
stesso in sé i tre elementi della totalità: l'universalità della costituzione e delle leggi, la deliberazione
come rapporto del particolare con l'universale, e il momento della decisione ultima come
autodeterminazione, in cui ritorna ogni altro momento e da cui esso prende il cominciamento della
realtà. Questo assoluto autodeterminarsi costituisce il distintivo principio del potere del sovrano come
tale».
Hegel rifiuta la monarchia per diritto divino cara ai teorici della Restaurazione, per vedere nel
sovrano «la personalità dello Stato», colui che incarna la «sovranità popolare», in quanto il popolo
(come abbiamo già visto) non può essere considerato tale senza il suo monarca, giacché il sovrano,
rappresentando l'unità del popolo e dello Stato, rappresenta per ciò stesso la sovranità popolare. Il
potere del monarca tuttavia si esercita attraverso momenti particolari, il più notevole dei quali è
quello di nomina dei ministri e degli alti funzionari dello Stato: in quanto portano davanti al monarca i
contenuti particolari degli interessi dello Stato, essi, che costituiscono il governo, hanno responsabilità
effettiva e quindi tengono il vero potere politico. Il potere governativo ha per un verso il compito
dell'esecuzione e dell'applicazione delle decisioni del sovrano e delle leggi. Per l'altro il sovrano, «come
personalità decidente ultima» (dunque non un potere assoluto e dispotico), ha il potere di avallare e di
sancire in estrema istanza ciò che il governo ha deliberato, dando con il suo «sì» (anzi, mettendo «il
puntino sull'i») pieno vigore alle decisioni prese dai ministri Questi sono realmente i curatori degli
interessi dello Stato e i tutori della legalità. In questo dispositivo così complesso consiste dunque la
valenza costituzionale della monarchia.
11.4 Il diritto statale esterno
Fin qui Hegel ha considerato la «sovranità all'interno» come aspetto in sé dello Stato. Tuttavia lo
Stato è un individuo che si pone di fronte ad altrettanti Stati, ciascuno autonomo nella sua individualità
particolare. Con ciò siamo entrati nella sfera del «diritto statale esterno». Anche qui Hegel si pone in
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netta antitesi con il giusnaturalismo negando l'esistenza di un diritto pubblico internazionale e di un
organismo giudicante nelle controversie tra Stati: questi sono indipendenti e autonomi, ciascuno
pienamente sovrano allo stesso modo con cui un popolo è potere assoluto sul suo territorio. Come
nella dialettica servo-signore della Fenomenologia, anche ora ogni individualità politica aspira a essere
riconosciuta nel suo diritto dalle altre: ciò determina una lotta a morte, una regressione allo stato di
natura, al bellum omnium contra omnes. Per questo motivo Hegel ritiene inevitabile il ricorso alla
guerra come strumento per la soluzione delle controversie tra Stati, qualora vengano meno le
condizioni per un accordo pacifico. «Quindi, il conflitto fra gli Stati, in quanto le volontà particolari non
trovano un accomodamento, può essere deciso solo dalla guerra»: in mancanza di criteri formulati da
una volontà generale, alle volontà particolari sono affidate sia le possibilità di trovare una
composizione concordata delle loro questioni sia le valutazioni dei motivi per considerare rotti gli
equilibri esistenti e i trattati in vigore. Nei rapporti tra Stati sembra che si verifichi una regressione alla
condizione di disorganicità tale da far ricadere lo Stato nell'accidentalità. Ma questa è però solo
apparente: in realtà ogni popolo, ogni Stato, rientra in una sfera di universalità superiore che lo
comprende e che costituisce la «storia del mondo». Come nell'eticità in generale gli individui sono
insieme tolti e conservati nel loro diventare apparenze e fenomeni delle forze etiche, così ora, al
culmine di questa dialettica, gli Stati diventano espressione dell'assoluto, dello spirito che entra nel
tempo e si incarna nella storia. Su questo scenario lo «spirito del mondo» esprimerà i suoi giudizi sul
ruolo giocato dai singoli attori: qui «i loro destini e i loro fatti, nel rapporto degli uni verso gli altri,
sono la dialettica fenomenica della finità di questi spiriti, sulla base del quale si produce appunto lo
spirito universale, lo spirito del mondo, come illimitato, parimenti in quanto esercita il suo diritto su di
essi, nella storia universale, in quanto giudizio universale». Sotto questo aspetto dunque la dialettica
dello spirito oggettivo si conclude in una filosofia della storia.
12 La filosofia della storia di Hegel
Diversamente dallo storico empirico che si limita a registrare e descrivere il corso degli eventi, il
filosofo ne sviluppa una «considerazione pensante» e cerca in essi una trama, un fine, un senso da
questo punto di vista, poiché non è sufficiente considerare la storia in base alla categoria del
mutamento, categoria che deve essere affiancata a quelle di «ringiovanimento» e di «fine». Se all'inizio
siamo presi da sgomento di fronte alla caducità delle cose e gli orientali hanno espresso nei loro miti
(quello della Fenice o della trasmigrazione delle anime) la rassegnazione di fronte a questa
vicissitudine di vita e di morte, «l'idea occidentale è invece quella che lo spirito riappaia non soltanto
ringiovanito, ma innalzato, trasfigurato».Successivamente ci chiediamo quale sia il fine di questo
movimento: la coscienza cristiana ci fornisce una prima indicazione mostrandoci la provvidenza divina
come «saggezza che con potenza infinita realizza i suoi fini». Tuttavia essa è «fede indeterminata» che
«non si applica al tutto, al complessivo corso degli eventi del mondo nella loro realtà definita in quanto
individualità (cioè popoli, Stati). Questo è precisamente il compito della filosofia: mostrare che «solo la
ragione concepita nella sua determinatezza è la cosa, cioè la realtà effettiva».
C'è perfetta identità tra il compito della ragione che vuole «comprendere» e il fine della storia,
identità che risulta con chiarezza se riflettiamo sul fatto che lo spirito è qualcosa, che sa e ha coscienza:
ma poiché «sapere è coscienza di un oggetto razionale». «lo spirito ha coscienza solo in quanto è
autocoscienza». Così lo spirito non può avere come contenuto del suo sapere che se stesso, e il fine
della storia è che esso «giunga al sapere di ciò che esso è veramente» in quanto «lo spirito esiste solo
come risultato di se medesimo». Ma per questo è necessario che lo spirito si manifesti in modo
oggettivo, che si incarni in qualcosa di determinato, e ciò può essere individuato nello «spirito del
popolo»: «la coscienza dello spirito deve prendere forma nel mondo; il materiale di questa
realizzazione, il suo terreno non è altro che la coscienza universale, la coscienza di un popolo. Questa
coscienza contiene e determina tutti i fini e gli interessi di un popolo». I singoli popoli poi si muovono
all'interno di uno stesso orizzonte, quello universale dello spirito che, realizzandosi nella realtà, dà
luogo allo «spirito del mondo», che, proprio per questo, è il vero soggetto della storia. Tra spirito del
popolo e spirito del mondo c'è lo stesso rapporto che tra finito e infinito, tra Dio e le sue
manifestazioni, nella misura in cui «lo spirito di un popolo è così lo spirito universale di una forma
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particolare». Di conseguenza «il particolare spirito di un particolare popolo può perire: ma esso è un
anello della catena costituita dal corso dello spirito del mondo, e questo spirito universale non può
perire». Appare ora chiara la trama della storia e il fine che emerge lungo il corso travagliato delle sue
vicende: «è dunque l'idea dello spirito che si realizza nella storia. Da ciò che lo spirito sa di sé dipende
la coscienza del popolo; e l'estrema consapevolezza, da cui tutto dipende, è che l'uomo sia libero». Se la
storia «è la raffigurazione del modo in cui lo spirito si sforza di giungere alla cognizione di ciò ch'esso è
in sé», orbene nell'Età moderna è divenuto palese che lo spirito in sé è libertà. Rispetto a questo fine i
singoli popoli rappresentano contemporaneamente delle tappe e degli strumenti particolari nelle mani
dello spirito, che, nelle varie epoche, affida a uno di essi la sua realizzazione.
Come gli individui anche i popoli vivono una parabola per scomparire nel nulla, strumenti per il
raggiungimento di obiettivi che comunque li superano. Compito della filosofia è mostrare in cosa
consista il nesso di questo movimento che vede l'avvicendarsi dei principi dei popoli sulla scena della
storia universale, una volta compiuta la loro realizzazione. Il contributo di ciascuno al fine della libertà
va inteso naturalmente nel senso dell'affermarsi dei contenuti che si sono potuti esprimere nelle sue
istituzioni etiche, in quanto solo questi sono il vero elemento spirituale della sua vita: «La sua
religione, il suo culto, i suoi usi e costumi, l'arte, la costituzione, le leggi politiche, tutto il complesso
delle sue istituzioni, i suoi eventi e le sue azioni: questa è la sua opera, questo è quel popolo».
Soprattutto nello Stato un popolo realizza la sua essenza e la sua libertà poiché solo in esso «la libertà
è realizzata oggettivamente e positivamente»: pertanto lo Stato costituisce il primo obiettivo della
realizzazione storica nella misura in cui nello Stato si realizza l'unione di volontà universale e volontà
soggettiva; esso è la forma sotto la quale è riportato tutto ciò che costituisce la cultura di un popolo, le
forze spirituali che vivono in lui e lo governano. La giovinezza di un popolo è nell'azione, nella lotta per
il suo più profondo interesse (il suo pieno sviluppo, la sua autoaffermazione), la vecchiaia nel
godimento del risultato raggiunto, quando cade nell'abitudine e, con il sopravanzare degli interessi e
dei fini particolari degli individui, va incontro alla morte naturale. Naturalmente una volta che un
popolo ha esaurito la sua funzione e la sua particolarità è «tolta», l'universalità è conservata dallo
«spirito del mondo» che la consegna a un popolo successivo che ne raccoglie l'eredità per realizzarla e
riesprimerla a un livello superiore. Si giunge così alla sintesi definitiva con la quale lo «spirito del
mondo» conduce il suo svolgimento al punto in cui la fine si ricongiunge al suo principio, dunque al
fine ultimo della storia e dell'umanità. E poiché lo spirito, che è «autoattività» e «autoproduzione di
sé», deve manifestare se stesso in quelle forme determinate che sono i popoli, attori della storia in
quanto ciascuno ne costituisce un grado segnandone un'epoca. Il fine della storia è, o almeno sembra
essere, con ciò anche la sua fine. Sotto questo punto di vista allora è insensato parlare di idealità
irrealizzate o di negatività (di male) che segnerebbe il fallimento di fini o progetti immaginati come
razionalmente proponibili per l'instaurazione del bene e della giustizia su questa terra: «Per quel che
riguarda il vero ideale, l'idea della ragione stessa, la nozione al cui acquisto la filosofia deve aiutare è
che il mondo reale è come deve essere, che la volontà razionale, il bene concreto è effettivamente la
forza massima, la potenza assoluta che traduce se stessa in atto [...]. Nella sua rappresentazione più
concreta, questo bene, questa ragione è Dio».
Ancora una volta Hegel dà al suo discorso una forte colorazione religiosa affermando che «la storia
del mondo non rappresenta altro che il piano della provvidenza» divina, che «Dio governa il mondo: il
contenuto del suo governo, l'esecuzione del suo piano è la storia universale». Questa impronta
provvidenzialistica cristiana è ravvisabile anche nel momento in cui Hegel affronta la questione dei
mezzi utilizzati dallo spirito per realizzare i suoi fini, proponendo la soluzione espressa con la formula
dell'«astuzia della ragione»: la ragione è astuta perché utilizza gli individui e le loro passioni, agendo
alle loro spalle.
Indubbiamente, a livello immediato, le passioni appaiono come il movente delle azioni degli uomini
che mirano a fini particolari ed egoistici e che intendono tradurli in atto mediante la volontà. Questa è
stimolata a promuovere l'agire dai bisogni, e gli uomini devono trovare nell'azione soddisfazione a
essi. Nella storia del mondo agiscono dunque due fattori, l'idea (che si esprime nella volontà e nella
libertà degli uomini) e le passioni.
Il razionalista Hegel vede bene l'importanza delle passioni, riconoscendo anzi che senza di loro
«nulla di grande è stato compiuto nel mondo»: esse sono «l'elemento attivo» della storia e come tali
«non sono affatto opposte alla moralità, bensì realizzano l'universale». Certamente le passioni
appaiono cattive ed egoistiche, in quanto legate agli interessi dell'individuo, che, d'altra parte, è
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sempre colui che agisce: tuttavia la particolarità degli interessi non significa automaticamente il loro
essere contrari all'universale, dal momento che «è mediante il particolare che l'universale deve farsi
reale». Così gli individui particolari, tutti tesi al perseguimento e alla soddisfazione dei propri fini, non
sanno nulla di quelli dello spirito, e quindi contribuiscono alla sua realizzazione in modo del tutto
inconsapevole. Ciò vale in particolare per quegli individui eccezionali («individui cosmico-storici»:
eroi, legislatori, fondatori di Stati) che sono stati protagonisti della vita dei loro popoli: essi sono stati
mossi da impulsi irresistibili (ambizione, sete di potere ecc.) e perciò hanno compiuto imprese
straordinarie. Così, per esempio, Alessandro, Cesare e Napoleone hanno guidato eserciti e attuato
grandi trasformazioni politiche: lo hanno fatto per soddisfare i propri obiettivi egoistici e ottenere
vantaggi, ma con ciò stesso hanno attuato inconsapevolmente fini universali nella storia
dell'Occidente, perché istintivamente hanno «saputo» ciò che lo spirito voleva. Una volta compiuta la
loro missione nella storia, essi vengono abbandonati al loro destino dalla ragione che quindi li ha usati
come strumenti effimeri: vera protagonista delle vicende storiche, essa «non paga di tasca propria»,
ma la sua «astuzia» consiste nel fatto che essa «faccia agire per sé le passioni, e che quanto le serve di
strumento per tradursi in esistenza abbia da ciò scapito o danno», senza distinzione tra bene e male,
merito e colpa purché i suoi fini vengano raggiunti.
Da queste fondamentali premesse, Hegel passa infine a delineare un quadro generale del corso della
storia. Come abbiamo visto, il suo contenuto/fine è quella libertà che i popoli dominanti realizzano
nella misura in cui costituiscono forme determinate di Stato corrispondenti al loro spirito.
Sull'immagine del corso del Sole, anche quello della civiltà si muove gradualmente da Oriente a
Occidente in connessione anche con i grandi scenari della natura che fungono da sfondo alle vicende
umane (le steppe e le pianure dell'Asia, il bacino del Mediterraneo, il paesaggio armonioso dell'Europa
centrale); analogamente la storia consente il passaggio del mondo attraverso le quattro età dell'uomo
(infanzia, adolescenza, maturità e vecchiaia).
La civiltà sorge innanzitutto in Oriente dove si assiste alla fondazione dello Stato: come appare nelle
sue diverse espressioni (la teocrazia in Cina, il sistema delle caste in India, il potere sacerdotale in
Egitto, l'assolutismo a Babilonia e in Persia), qui la sua forma è il dispotismo in quanto «uno solo è
libero». In seguito lo spirito ha trovato la sua primavera in Grecia dove ha posto le basi del mondo
occidentale moderno: nelle póleis ("città") autonome si è affermata, in un clima di grande creatività
culturale e in apposite istituzioni, la «bella eticità» dove la libertà era goduta anche se solo da pochi.
Con le conquiste di Alessandro Magno prima e con Roma poi si è, invece, perduta la figura del
cittadino, per lasciare il posto a quella dell'individuo privato che è sottomesso a uno Stato
universalistico dove la libertà gli è riconosciuta (e certo estesa a una sfera più ampia di persone), ma
solo sotto l'aspetto astrattamente giuridico. Il mondo moderno è preparato da una serie di crisi (quella
dell'Impero romano che ha adottato il modello della teocrazia orientale, le invasioni barbariche, la
scissione tra Oriente e Occidente), ma soprattutto è sorto dopo la svolta determinata dall'avvento del
cristianesimo che ha segnato la «conciliazione spirituale» tra Dio e l'umanità. All'inizio esso ha
provocato profonde lacerazioni nelle coscienze e ha segnato i rapporti sociali, ma poi ha potuto
realizzare pienamente il suo messaggio quando sulla scena della storia è comparso, come nuovo
protagonista, il mondo germanico in cui si è impiantato. Il mondo moderno è dunque il mondo
cristiano-germanico caratterizzato dalla cognizione della libertà di tutti, dell'«uomo come uomo». Il
cristianesimo ha proclamato tale principio solo nell'interiorità, i popoli germanici lo hanno realizzato
concretamente e attuato pienamente solo con la Riforma: dopo una fase in cui i popoli germanici,
entrati nel mondo romano e convertitisi al cristianesimo, si sono impadroniti dell'Occidente, e una
seconda in cui con Carlo Magno si è tentato una conciliazione di potere temporale e potere spirituale,
solo nell'età di Carlo V il principio cristiano riceve, attraverso Lutero, la sua verità e realtà
consentendo alla sfera mondana di assumere la sua completa rilevanza in materia di moralità, giustizia
e attività dell'uomo. Ora «il principio dello spirito libero diviene la bandiera del mondo», e il processo
verso tale completa realizzazione attraversa fasi intermedie, sia materiali (per esempio, l'invenzione
della polvere da sparo, le scoperte geografiche ecc.) sia politico-culturali (la scienza moderna, la
formazione degli Stati nazionali, l'Illuminismo, la Rivoluzione francese) per approdare nel presente
nella Germania dove lo «Stato tedesco» (da identificarsi con quello prussiano, il più solido e
organicamente strutturato) mostra le caratteristiche della razionalità reale, è Stato-idea.
Ora che la ragione è giunta alla sua piena realizzazione qui nell'Occidente attuando nel presente e
nel mondo cristiano-germanico il concetto di sé, si può parlare di una «fine della storia»? Qui, nella
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«terra del tramonto», si verifica l'arresto del corso storico e della sua dialettica? La piena maturità
dello spirito significa anche l'inaridimento del suo slancio creativo? Il raggiungimento del suo «scopo
assoluto» si identifica pure con un inevitabile processo di senescenza? Questo tema ha naturalmente
suscitato tra i critici un ampio dibattito anche se Hegel, riferendosi a esso, forse non intendeva alludere
a qualcosa circoscrivibile nello spazio o fissabile puntualmente nel tempo, o comunque identificare il
fine con la fine. Certo è che Hegel ha accennato agli Stati Uniti d'America come al «paese del futuro» o
«quello in cui in tempi futuri [...] si rivolgerà l'interesse della storia universale», affrettandosi tuttavia
subito a precisare che fare il profeta non si addice al filosofo. Su questa incertezza si chiude lo
svolgimento dello spirito oggettivo.
13 La filosofia dello spirito assoluto
Lo spirito entra nel momento supremo del suo sviluppo dialettico quando si rende conto delle
«limitatezze degli spiriti dei popoli particolari» di cui finora si è servito come strumenti per
l'universalità del suo disvelamento. Anzi lo spirito di un popolo (oggi quello tedesco) prende
veramente coscienza di sé nel momento in cui vede nelle sue manifestazioni non semplici prodotti
effimeri e transeunti, ma realizzazioni eterne e universali della ragione. Essa ha certamente ancora
bisogno degli uomini, ma ormai essa si autoriconosce in modo totale, diventando del tutto autotrasparente a se stessa, sciolta dalle condizioni e dai mezzi che hanno consentito il raggiungimento di
questo fine.
Ancora una volta lo spirito non giunge alla conoscenza di sé con un atto di immediatezza, ma con un
movimento dialettico articolato in arte, religione e filosofia: il contenuto del loro sapere è
naturalmente lo stesso, e perciò «i tre regni dello spirito assoluto si differenziano solo per le forme in
cui essi portano a coscienza il loro oggetto, l'assoluto», che è inadeguato nei primi due, perfettamente
adeguato solo nel terzo.
13.1 La filosofia dell'arte
L'arte è espressione dell'idea in forma sensibile, sia perché il suo modo di conoscenza si basa sui
sensi, sia perché la manifesta in un'immagine sensibile. Di conseguenza essa è il primo momento
attraverso il quale lo spirito acquista coscienza di sé: nata dallo spirito soggettivo, l'arte è «l'intuizione
concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell'ideale». Hegel esclude pertanto
che l'arte possa essere imitazione della natura, proprio perché quest'ultima è il momento
dell'estraneità, dell'esteriorità in cui l'assoluto si perde prima di ritornare a sé: perciò l'arte può
esprimersi in forme naturali, ma la bellezza è la forma che «non mostra altro in lei fuori dell'idea».
Vivendo nell'immediatezza dell'identità di soggetto e oggetto, l'arte rappresenta il momento in cui lo
spirito si aliena nel sensibile rendendosi visibile in esso, il concetto si incarna nel particolare concreto:
ciò significa che essa idealizza la natura, mostra, attraverso le immagini particolari, il riverbero
dell'idea nelle cose, e con ciò il significato universale di queste, la loro essenza. Nell'arte si conciliano
immediatamente finito e infinito, forma naturale e contenuto spirituale, nella misura in cui la prima è il
medio espressivo per comunicare un contenuto spirituale, cioè un significato dal valore universale.
Tale conciliazione non si è sempre realizzata, anzi compito dell'«estetica filosofica» è proprio quello
di mostrare come la storia dell'arte corra parallela alla storia dello spirito e dei popoli che ne sono stati
gli interpreti. Ai tipi d'arte sono poi intimamente connesse, per i significati che esprimono, anche le
arti particolari cosicché in ogni epoca e presso ogni popolo si è contemporaneamente verificato lo
sviluppo di un certo tipo d'arte e di arti determinate.
Nata in Oriente presso popoli incapaci ancora di cogliere l'elemento spirituale del reale, l'arte è qui
arte simbolica in quanto il simbolo è veicolo espressivo inadeguato del contenuto ideale, cui si allude
ma senza la capacità di comunicarlo, data la sua povertà, in modo pieno e conveniente. Questo tipo
d'arte si realizza fondamentalmente nell'architettura, giacché in essa la difficoltà di impiegare una
forma idonea al contenuto che si vuole manifestare trova la sua maggiore evidenza. L'equilibrio tra
forma e contenuto è, invece, attuato nell'arte classica cui i greci hanno dato vita nelle libere póleis: essi
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hanno realizzato la «perfezione della bellezza» in quanto hanno saputo separare la natura dallo spirito,
cogliendo quest'ultimo concretizzato nell'uomo. Perciò gli stessi dèi sono rappresentati come figure
umane idealizzate, perfette, che trasmettono quella serenità e armonia tipiche di ogni aspetto della
civiltà e dell'anima ellenica. Questa ha trovato dunque nella scultura l'arte in grado di manifestare con
una forma sensibile adeguata l'equilibrio con il contenuto spirituale: tuttavia, a ben guardare, le
classiche statue risultano prive di interiorità e ciò perché la loro bellezza è opera «immediata
dell'autocoscienza soggettiva, sicura di sé e lieta», ma «senza profondità», paga solo della forma
esterna.
Questo limite è messo in rilievo dall'arte romantica: derivata dal cristianesimo e sviluppatasi
nell'Età moderna in Occidente, essa valorizza il principio interiore e soggettivo nella consapevolezza
che in esso vive e si manifesta l'assoluto. Non meraviglia dunque che «la compiuta unione» di idea ed
estrinsecazione sensibile, tipica della classicità, venga spezzata per riproporre ancora una visione
squilibrata tra i due «lati»: infatti la forma d'arte romantica vuole esprimere un contenuto che, in
quanto infinito, non riesce a trovare adeguata espressione attraverso essa. L'artista, reso avvertito
dalla critica della ragione, sente l'insufficienza di ogni forma sensibile, è consapevole di non riuscire a
comunicare in termini naturali tutta l'infinita ricchezza dell'elemento spirituale: pertanto, mentre
cerca di suscitare turbamento, commozione e inquietudine, egli «rinunzia a mostrarlo come tale nella
figurazione esterna e per mezzo della bellezza». Di conseguenza le arti privilegiate dalla cultura
romantica saranno la pittura e la musica, dove l'elemento sensibile viene via via affinandosi per
acquisire una sempre maggiore espressività spirituale e sentimentale, fino a scomparire quasi del tutto
nella poesia, «la più spirituale delle arti», che è pura interiorità e capacità evocativa.
Hegel avverte che l'arte attraversa nell'epoca moderna un momento di crisi (che altri chiameranno
morte dell'arte): infatti «nel progredire culturale di ogni popolo giunge in genere l'epoca in cui l'arte
rimanda oltre se stessa».
13.2 La filosofia della religione
«La religione ha come forma della propria coscienza la rappresentazione, in quanto l'assoluto è
trasferito dall'oggettività dell'arte nell'interiorità del soggetto, e ora è dato in modo soggettivo per la
rappresentazione, così che cuore e animo, in generale, la soggettività interna, divengono un momento
fondamentale se [...] l'opera d'arte presenta in modo sensibile la verità, lo spirito come oggetto, L.] la
religione vi aggiunge la devozione dell'interno che si rapporta all'oggetto assoluto»: tuttavia, proprio
perché attraverso il sentimento e la devozione, il soggetto fa penetrare nell'animo l'oggetto, lo
costituisce come presenza interna e vi si identifica, la religione trasferisce questo oggetto nell'ambito
del pensiero e del conoscere. Indubbiamente la rappresentazione è una forma inadeguata rispetto
all'oggetto: ne consegue che, non riuscendo del tutto a liberarsi del sensibile, la religione si limita a
coglierne le determinazioni, ovvero i suoi attributi, le sue relazioni con il mondo e con la storia ecc., in
modo meramente estrinseco; inoltre essa non riesce a mostrare la reale unità dell'oggetto con il
soggetto, ma lo concepisce in termini ancora oppositivi rispetto all'uomo, come essere trascendente e
misteriosamente altro.
Malgrado questi limiti, essa resta un momento ineliminabile della vita dello spirito, che la filosofia
non può creare ma solo riconoscere nella sua positività e presenza nel mondo storico: pertanto vanno
respinti i tentativi illuministici di costruire un'astratta religione intellettualistica, il deismo, mentre
bisogna ammettere e valorizzare il suo valore conoscitivo e speculativo, la presenza di un nucleo
razionale all'interno delle sue rappresentazioni: ciò significa che se per un verso questa è la via
attraverso la quale la maggioranza degli uomini può avere accesso alla verità, per l'altro essa non può
pretendere di essere la via ultima e più alta. Toccherà anzi alla filosofia intenderne, con l'arma del
concetto, sia il significato autentico sia sviscerarne i contenuti razionali più profondi ancora racchiusi
in un guscio di rappresentazioni sensibili, coperti da un velo mitico. Questa prospettiva diventa però
pienamente possibile solo con il cristianesimo.
La filosofia di Hegel è cristiana proprio perché si fonda sulle sue verità fondamentali e sulla sua
visione della realtà, non in quanto rivelate e accettabili solo per fede, ma come perfettamente razionali:
così, per esempio, il dogma della Trinità prefigura lo schema dello sviluppo dell'assoluto e dei suoi
momenti dialettici, quello dell'incarnazione la conciliazione tra finito e infinito ecc. Dunque il
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cristianesimo si presenta come il tipo di religione storicamente più evoluto perché corrisponde al
grado massimo dello sviluppo dell'idea di Dio nella coscienza umana: infatti come l'arte, anche la
religione ha un suo divenire nella storia parallelo a quello della civiltà dei popoli che la praticano. Così
in Asia e in Africa vediamo la religione naturale o immediata (cioè quella tipica della fase in cui lo
spirito è ancora percepito come unito immediatamente alla natura), sia nelle forme più rozze (la
stregoneria e il feticismo) sia in quelle più elaborate del panteismo, a sua volta sviluppatosi come
religione della sostanzialità (che tali sono il taoismo, l'induismo, il buddismo ecc. dove il divino è la
sostanza delle cose, quindi ancora impersonale) e dell'enigma (l'egiziana, la siriaca, la persiana che
annunziano il concetto di Dio come spirito libero). A essa segue la religione determinata o
dell'individualità spirituale che rappresenta Dio in sembianze umane, e quindi come persona
individuale: anche qui abbiamo modalità diverse come nell'ebraismo (in cui prevale l'aspetto della
trascendenza), nella religione greca (dove il divino è essenzialmente bellezza) e in quella romana
(dove le divinità svolgono una funzione etica e politica). Infine con il cristianesimo si afferma la
religione assoluta, in quanto concepisce Dio come spirito: come tale essa non prospetta una
distinzione, anzi evidenzia la conciliazione tra la sfera del naturale e del soprannaturale, tra finito e
infinito, tra umano e divino. In tal modo essa è, nella sua sfera, perfetta e dunque si presta più di ogni
altra a una «conversione» nella forma a essa superiore qual è la filosofia, che, come sappiamo, sa
fornire del contenuto comune a entrambe l'espressione più adeguata, quella concettuale dove si
realizza la perfetta identità di soggetto e oggetto.
13.3 La filosofia come culmine della vita dello spirito
La filosofia è il culmine della vita dello spirito: essa è infatti «l'idea che pensa se stessa», «l'idea
eterna in sé e per sé [che] si attua, si produce e gode eternamente», la ragione pienamente dispiegata
nella realtà e divenuta autocosciente, lo spirito che, ripiegato su di sé, si conosce in completa
autotrasparenza avendo posto se stesso come oggetto, come scopo finale e assoluto. Nella filosofia
sono unificati, in una sintesi definitiva e compiuta, i due aspetti dei momenti precedenti, l'oggettività
dell'arte e la soggettività della religione: così la filosofia è sapere assoluto nella doppia accezione di
sapere dell'assoluto (dello spirito come totalità del reale) e sapere sciolto da condizionamenti
estrinseci o forme improprie, quindi, in quanto del tutto autosufficiente e autofondato (e di
conseguenza in grado di fondare e giustificare criticamente gli altri saperi), anche pienamente ed
esclusivamente scientifico.
Però, come sappiamo, l'assoluto per Hegel non è sostanza inerte, immobile, ma è soggettività
vivente (appunto, spirito), e quindi in continuo divenire, in uno sviluppo che si dispiega nel tempo: se
l'assoluto è storia, allora anche la filosofia, come autocoscienza dell'assoluto, ha una dimensione
intrinsecamente storica, e la filosofia coincide con la storia della filosofia. Beninteso ciò non significa
che essa consista nella banale ed esteriore «filastrocca delle opinioni» che si sono succedute nelle varie
epoche, senza che tra esse si possa trovare un senso o connessioni organiche: in realtà come la ragione
è una e la verità è una, così la filosofia è una. Ma come la prima si concretizza in determinazioni
concrete e attraverso esse acquista coscienza di sé, così la seconda traduce in termini concettuali tale
consapevolezza: dunque «ogni filosofia, poiché rappresenta un particolare grado di svolgimento
[dell'idea], appartiene al suo tempo ed è chiusa nella sua limitatezza [...] è filosofia del suo tempo, è un
anello di tutta la catena dello sviluppo dello spirito e perciò può fornire soddisfazione solo a quegli
interessi che sono adeguati al suo tempo».
Tra sistema del sapere e svolgimento storico non c'è opposizione ma piena complementarità nella
diversità di prospettiva, giacché un conto è il prodotto finale e un altro è la sua genesi. Ogni filosofia
dunque è vera perché corrisponde al comparire necessario nel tempo di una specifica categoria logica,
che, come determinazione particolare dell'idea o (il che è lo stesso) espressione adeguata della verità
in un preciso momento del suo sviluppo, insieme comprende come proprio momento interno quelle
che l'hanno preceduta e prepara quelle che, a loro volta espressioni di un tempo più maturo per lo
spirito, seguiranno: il tutto, come sappiamo, nella prospettiva di una piena manifestazione della
ragione quale si è attuata nell'epoca moderna, che perciò è in grado di procedere a un'opera di
sistemazione definitiva del sapere. Di conseguenza «la filosofia, che è ultima nel tempo, è insieme un
risultato di tutte le precedenti e deve contenere i principi di tutte: essa è perciò [...] la più sviluppata,
ricca e concreta».
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«Il compito della filosofia è comprendere concettualmente ciò che è, perché ciò che è, è la ragione»:
perciò a lei non compete di fare previsioni o pretendere «di istruire come va il mondo». Essa è «il
proprio tempo colto in pensieri» e perciò non può pretendere di dare delle indicazioni per la prassi:
anzi, come suona un'immagine molto pregnante, essa è come «la nottola di Minerva» che spicca il suo
volo sul far del crepuscolo. Ciò significa che come «pensiero che pensa il mondo» mediante il concetto,
essa può comparire solo quando il processo mediante il quale lo spirito si è concretizzato in un certo
popolo e in una certa civiltà si è concluso, quindi «dopo che la Realtà [cioè la ragione] ha completato il
proprio processo di formazione e si è ben assestata». Comprendere, conoscere è dunque il compito
della filosofia: come espressione senile di un'epoca, essa certamente fiorisce quando questa conosce la
crisi tra le condizioni esterne e le sue aspirazioni interne e quindi si avverte il bisogno di ritrarsi in sé
per scoprire il sostanziale e l'universale. Tuttavia questo non significa che con ciò la filosofia abbia un
ruolo meramente giustificatorio e conservatore: essa infatti, nel mostrare col pensiero ciò che risulta
ormai tramontato nella realtà, prepara l'avvento di aspetti nuovi, giacché, nella vita dello spirito, la
vecchiaia è sempre unita a una rinnovata giovinezza, ed esso «esce come spirito più puro dalle ceneri
della sua precedente forma».
Del resto la filosofia, nel momento in cui comprende il proprio tempo, lo rende I Idealismo e tale,
non certo perché essa debba per forza trovare una composizione armonica di tutte le contraddizioni
presenti nell'attuale situazione, fornendo una soluzione tanto pacificante quanto fittizia. Tutto ciò nel
riconoscimento che comunque a operare nella realtà è solo la ragione, che solo essa «concepita nella
sua determinatezza è la cosa, cioè la realtà effettiva». La filosofia ne esprime e ne rispecchia il processo
di sviluppo nel tempo: ciò significa che le sue prime manifestazioni (quelle sorte in Grecia, giacché
sono escluse come improprie le filosofie orientali) sono le più povere (attente solo all'oggetto), salvo
arricchirsi e approfondirsi nel corso dell'Età moderna, che ha maturato la consapevolezza della
certezza soggettiva del pensiero, anche se l'ha opposta alla verità, per culminare nell'Età
contemporanea con l'Idealismo, che ha unito i due termini. Come progresso verso la verità, la storia
della filosofia ne segue la manifestazione: essa si chiude con la filosofia di Hegel giacché è quella che, in
sintonia con lo spirito dell'epoca, ha mostrato come «l'idea sia conosciuta nella sua necessità», quindi
in grado di esprimere il sapere assoluto. Infatti bisogna riconoscere che «a questo punto è pervenuto
lo spirito universale», che «quest'idea concreta è la conclusione dei conati dello spirito, in quasi due
millenni e mezzo di lavoro serissimo, per diventare oggettivo a se stesso, per conoscersi» e pertanto in
essa si conservano tutti i principi, tutte le forme che l'hanno preceduta, che essa è quindi totalità delle
forme del sapere, è sapere pienamente realizzato, in atto perché la verità è divenuta al suo pieno
sviluppo e manifestazione. E della verità, della ragione, Hegel si è ritenuto, orgogliosamente, un onesto
e solerte «funzionario».
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