Il rallentamento della crescita cinese File

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Economia di mercato pianificata. Ossimoro cinese
01.12.15
Alessia Amighini e Andrea Goldstein
Dalla fine del 2014, il rallentamento della crescita cinese preoccupa Pechino e il resto del mondo. Ma per essere sostenibile nel tempo, dovrà
contare sempre di più sulla domanda interna e meno su quella estera. Per questo è significativo che lo yuan entri nel paniere di valute che
utilizza il Fmi.
Gli effetti del rallentamento
Dalla fine del 2014, il rallentamento della crescita cinese preoccupa tanto Pechino quanto il resto del mondo: quali sarebbero le
conseguenze se si passasse da un ritmo compreso tra l’8 e il 10 per cento reale all’anno mantenuto per oltre due decenni a un più modesto
6-7 per cento? Internamente, potrebbe non bastare a creare i 10 milioni di posti di lavoro per gli altrettanti giovani che entrano ogni anno
sul mercato, e men che meno a raggiungere l’obiettivo dichiarato di eradicare entro il 2020 la povertà che affligge ancora 70 milioni di
cinesi. Nel resto del mondo, il rallentamento cinese si traduce in minor domanda di materie prime, di beni capitali e di consumo. Già la
riduzione di un solo punto percentuale – dall’8 per cento medio annuo tra il 2010 e il 2014 al 7 per cento della prima metà del 2015 (sceso
a 6,9 per cento nel terzo trimestre) – è bastata a mandare in recessione molti tra i maggiori paesi emergenti.
Bisogna però tener conto che 6,9 per cento è un andamento di crescita straordinariamente buono: sarà pure il peggior trimestre dal 2009,
ma da allora l’economia cinese è raddoppiata e il 6,9 per cento di oggi è pari a 4.389 miliardi di Rmb, il 41 per cento in più dei 3.110
miliardi di Rmb che corrispondevano al 9 per cento del Pil del 2009.
Più preoccupante è invece il calo della crescita del Pil nominale, scesa al 6,2 per cento, inferiore a quella reale. Ciò significa che l’economia
cinese è in deflazione (-0,7 per cento) e il ritmo della deflazione sta aumentando, nonostante i dati ufficiali sull’andamento dei prezzi al
consumo mostrino un aumento dell’1,4 per cento. In altre parole, in questo momento la Cina importa deflazione nei prezzi alla produzione,
che riflettono il calo del prezzo delle materie prime (indotto dallo stesso rallentamento cinese), e questo si traduce in crescenti difficoltà
finanziarie e di liquidità per le imprese, la cui situazione patrimoniale era già indebolita.
Verso un nuovo modello di crescita?
Al di là dell’ampiezza del rallentamento, ci sono i segnali di una possibile ripresa e del cambiamento strutturale verso un nuovo modello di
crescita? Si stanno facendo strada due interpretazioni. C’è chi, come Lars Christensen, enfatizza il calo del Pil nominale e mette in guardia
sulle conseguenze della scelta fatta due anni fa di ancorare il cambio al dollaro, che si è fortemente apprezzato, costringendo la Cina a
importare di fatto una politica monetaria restrittiva di cui ora non ha certo bisogno. Da qui la spiegazione alla scelta di agosto di svalutare il
Renminbi, al di là dell’annosa questione della competitività delle esportazioni cinesi, che oggi per guadagnare quote di mercato non hanno
certo bisogno di competere ulteriormente sul prezzo, ma semmai sulla qualità. Peraltro, la svalutazione di agosto (più precisamente, si è
trattato della revisione del meccanismo di aggiustamento della parità centrale attorno al quale oscilla il tasso di cambio cinese) era da tempo
consigliata da FMI per favorire un graduale passaggio a un tasso di cambio più flessibile. E per consentire allo yuan di entrare nel paniere di
valute di riserva utilizzate per calcolare i Diritti Speciali di Prelievo, inserimento approvato proprio ieri dal Board del Fondo. Sebbene la
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decisione sia stata in gran parte politica, ha delle conseguenze economiche importanti: un tasso di cambio più flessibile introduce più
volatilità del passato e l’aumento della domanda di yuan da parte delle banche centrali di tutto il mondo e degli investitori istituzionali
porterà in parte un apprezzamento; entrambe le conseguenze rendono più arduo per Pechino porsi degli obiettivi di crescita credibili.
Altri, come Nicholas Lardy, minimizzano invece la portata del rallentamento, sostenendo che i dati del terzo trimestre di quest’anno nulla
hanno a che vedere con un presunto fallimento della transizione economica della Cina verso un nuovo modello di crescita. Perché il
principale contributo alla crescita negli ultimi anni è arrivato non dall’industria, ma dai servizi (che rappresentano ormai il 48 per cento del
Pil). E ciò sarebbe un segnale inequivocabile dell’aumento dei consumi privati. Va però notato che vi dovrebbe contribuire anche l’estensione
del sistema di previdenza e assistenza a chi ne era escluso, che tuttavia per ora non si è tradotta in una diminuzione del risparmio per scopi
precauzionali.
Se e quando avverrà, la tanto agognata transizione dall’investimento al consumo come principale fonte della crescita cinese avrà un grande
impatto sul resto del mondo. Secondo Goldman Sachs, i consumi cinesi hanno una componente d’importazione di 11 punti percentuali
inferiore rispetto all’investimento, vale a dire che per ogni miliardo di Rmb di ribilanciamento, le importazioni cinesi diminuiranno di 110
milioni. Il ribilanciamento ha impatto soprattutto sul commercio cosiddetto di perfezionamento, cioè beni intermedi, e molto meno sul
commercio di beni finiti – segno che la dipendenza cinese dalle importazioni sta diminuendo, non soltanto in valore, ma anche in termini di
tipologie di beni, e che il valore aggiunto dell’export cinese sta aumentando.
ERNAZIONALI
Nella bozza del tredicesimo piano quinquennale presentata in occasione del recente plenum del Partito comunista cinese non vi è
indicazione del tasso di crescita desiderato, forse per evitare che i mercati, molto scettici sull’affidabilità dei dati diffusi dal governo, male
interpretino il target. È stato invece ribadito l’obiettivo di raddoppiare il Pil e il reddito delle famiglie del 2010 entro il 2020 (che
corrisponderebbe a un tasso di crescita medio annuo del 6,5 per cento).
La questione oggi è che il mondo ha bisogno della crescita cinese, che però per essere sostenibile nel tempo dovrà contare sempre di più
sulla domanda interna e meno su quella estera. Come valutare la misura e la portata del rallentamento cinese è diventato quindi un
problema per tutti.
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In questo articolo si parla di: Cina, crescita, Pil
BIO DELL'AUTORE
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ALESSIA AMIGHINI
Ricercatore e Professore aggregato di Economia internazionale presso l’Universita' del Piemonte Orientale e Associate
Senior Research Fellow nel programma Asia dell'ISPI. E' stata visiting scholar presso il Department of International
Business and Economics dell'Universita' di Greenwich ed economista presso la United Nations Conference on Trade
and Development. Ha pubblicato numerosi articoli sull’economia cinese e sull'espansione delle imprese cinesi
all'estero su riviste accademiche internazionali quali China Economic Review, China and the World Economy,
International Economics, World Development, World Economy. Tra i libri: L'economia della Cina nel XXI secolo (con F.
Lemoine), Il Mulino (in corso di pubblicazione), L'économie de la Chine au XXIè siècle (con F. Lemoine), La Découverte
(in corso di pubblicazione), Xi Jinping's policy gambles: The bumpy road ahead (con A. Berkofski), ISPI, 2015 e L'economia della Cina
(con S. Chiarlone), Il Mulino, 2006.
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ANDREA GOLDSTEIN
Andrea Goldstein è Managing Director (Policy Research & Outreach) di Nomisma. In precedenza ha lavorato all'
OCSE, è stato Vice Direttore UNESCAP, responsabile Heiligendamm-L’Aquila Process e consulente IADB, DfID e
Esteri. Andrea collabora regolarmente con Sole 24 Ore e Aspen Institute Italia e ha pubblicato libri sulle economie
emergenti (Il miracolo coreano, 2013, L’économie des BRIC, 2013, L’economia del Brasile, 2012 e Bric, 2011) e le
multinazionali emergenti (Multinational Companies from Emerging Economies, 2007). È Presidente di BAA Parigi e
insegna regolarmente in Cattolica, UNIBO e ISTAO.
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