LA LEZIONE Analisi di un crash test I filmati delle prove d’impatto distruttive degli autoveicoli, dato l’elevato numero dei fotogrammi al secondo, riportano la scena dell’urto al rallentatore con l’indicazione del tempo in millesimi di secondo. In un crash test frontale pieno (figura 1) l’auto, lanciata alla velocità standard di 56 km/h (15,56 m/s), urta una barriera di alluminio larga un metro e profonda 54 centimetri. L’angolo tra la direzione del moto (chiamiamolo asse x) e il piano d’impatto della barriera è di 90°. Dal punto di vista del manichino, l’accelerazione iniziale è nulla (moto rettilineo uniforme), nell’istante dell’urto la sua testa subisce un’accelerazione (dovuta a una forza apparente) che ha tre componenti rispetto alla barriera (ax trasversale, ay longitudinale e az verticale). Il modulo dell’accelerazione (dovuto principalmente alla componente trasversale) in pochi decimi di secondo raggiunge un massimo per poi decrescere fino a valori prossimi a zero, sia per l’azione delle cinture e dell’airbag (fig. 2), sia per l’arresto dell’auto. Esaminiamo solo la fase di avanzamento della testa del conducente verso il volante con le misure del grafico della figura che segue, ottenuta grazie agli accelerometri disposti nell’autovettura, in unità multiple dell’accelerazione di gravità (g=9,8 m/s 2). Il picco dell’accelerazione ha un valore prossimo a 71 g. Gli estremi della prima curva (i valori nulli dell’accelerazione) corrispondono agli istanti 40 ms e 110 ms. La durata della prima fase dell’urto è quindi 70 ms. Mentre l’accelerazione media si può calcolare come rapporto tra la variazione di velocità e l’intervallo di tempo. Dividendo 15,56 m/s per 0,070 s, si ottiene 240 m/s2, circa 24 volte l’accelerazione di gravità. Un valore incredibilmente alto, ottenuto con un’auto che colpisce frontalmente un ostacolo a una velocità di poco superiore al valore ammesso in città. Per noi osservatori esterni l’incidente è causato dalla barriera che esercita una forza sull’auto provocando una decelerazione del centro di massa del sistema (veicolo conducente). L’intensità della forza si può calcolare a partire dalla massa del sistema (auto più manichino) utilizzando il secondo principio della dinamica: F=ma. Il valore medio della forza si otterrà dal valore medio dell’accelerazione. Se si pone a esempio per la massa totale un valore indicativo di 1300 kg, la forza media nell’esempio risulta circa 289 kN. Durante l’impatto avviene la trasformazione di parte dell’energia cinetica dell’auto in energia termica e di deformazione dell’auto stessa e della barriera (la parte elastica produce il rimbalzo dell’auto). Limitandoci all’intervallo di tempo tra 40 e 110 ms e approssimando il movimento lungo la sola direzione x, il lavoro L della forza F media è uguale a -Fmedia DxG (la forza è opposta allo spostamento DxG del centro di massa). Valutare lo spazio percorso dal centro di massa è assai difficile (tenuto conto delle molteplici deformazioni). Nei calcoli che seguono, lo porremmo, in modo arbitrario, esattamente uguale alla profondità dell’ostacolo 0,54 m. Inserendo i valori trovati in precedenza, il lavoro L=-289 kN 0,54 m=-156 kJ, mentre la variazione di energia cinetica è : Kf-Ki=0-mv2/2=-1300 kg (15,56 m/s)2/2=-157 kJ (si tenga presente che le barriere di contenimento delle strade italiane difficilmente sono capaci di respingere autoveicoli con energia cinetica di 400 kJ in un urto frontale). I valori trovati sono uguali. 1 Impulso e quantità di moto Il secondo principio della dinamica può essere espresso in un’altra forma per descrivere lo studio delle collisioni tra due corpi. Ritornando al crash test, la forza ha un andamento nel tempo che ricalca quello dell’accelerazione, ma la misura della forza media non basta per descrivere in modo completo l’urto. Nella figura che segue, l’area delimitata dalla curva (del grafico tempo forza) è l’intensità di una nuova grandezza chiamata impulso I ed è equivalente all’area del rettangolo i cui lati misurano la durata dell’urto Dt e l’intensità della forza media: I=FmediaDt. A parità di impulso la definizione precedente indica la proporzione inversa tra forza (media) e durata dell’urto. Così la trasformazione, durante l’urto, dell’energia cinetica in altri tipi di energia può avvenire, come è immediatamente chiaro, in diverse modalità. Se il corpo e le barriere sono realizzati con materiali capaci di massimizzare l’interazione, con una durata elevata, la forza è minima; viceversa, se, cambiando a 1 L’uguaglianza tra i due termini non dipende dalla massa scelta. esempio la barriera, la durata è minore rispetto al caso precedente, l’intensità della forza cresce, poiché l’impulso dipende solo dalle condizioni di moto iniziali e finale dell’auto. L’equazione I=FDt=mDv rappresenta un modo diverso di esplicitare il secondo principio nei problemi di movimento e la grandezza mDv è detta variazione della quantità di moto totale del sistema. Consideriamo adesso due corpi (ugualmente rilevanti) lanciati l’uno contro l’altro (due palle di biliardo, due cariche elettriche, due particelle) che avvicinandosi (toccandosi) interagiscono fortemente per un tempo molto breve. Le intensità, uguali, delle due forze d’interazione sono, in genere, molto più grandi delle intensità delle forze esterne (nel caso del crash test la forza media è pari a 24 volte il peso dell’auto). In questo modo il sistema costituito dalla coppia di oggetti in interazione è detto isolato e la quantità di moto totale del sistema non cambia durante la collisione (anche se la velocità dei singoli corpi può variare). Si simulano così gli urti elastici e anelastici (per i quali si conserva anche l’energia cinetica) di ideali sferette (si veda la figura 5), ma anche l’interazione di particelle subatomiche, in modo tale che il centro di massa del sistema rimanga invariato. figura 5 Urti di protoni ad alta energia producono particelle che a loro volta decadono in altre particelle, tutte aventi la stessa origine nel centro di massa. Le posizioni (individuate dalla tracce), le masse e le quantità di moto2 divengono le misure standard iniziali anche della fisica degli acceleratori. La diffusione di Rutherford (dal punto di vista della meccanica classica) Le esperienze sulle particelle elementari sono tutte basate sulle collisioni di coppie di particelle. L’idea base degli esperimenti è assai semplice, si cerca di realizzare un “crash test” che coinvolga solo un fascio di particelle e un bersaglio (target) oppure due fasci di particelle (2 auto una contro l’altra) di energia elevata. Gli studi del fisico neozelandese Ernest Rutherford, già premio Nobel per la Chimica nel 1908 per le sue ricerche in Canada sulla disintegrazione degli elementi e sulla chimica degli elementi radioattivi, nel laboratorio di Manchester tra il 1909 e il 1911 rappresentano un esempio di questa pratica. La diffusione di particelle alfa (prodotte da radio e collimate da una fenditura realizzata su uno schermo di piombo) incidenti su fogli metallici di spessore limitato è studiata da Rutherford e dai suoi collaboratori attraverso ore e ore di osservazione di brevi lampi provocati su una sostanza fluorescente (solfuro di zinco) 2 La quantità di moto di una particella (e per certi versi la massa) è definita in una forma diversa che vedremo in una successiva lezione. disposta lungo una superficie concentrica al bersaglio (si veda la schema e la foto che seguono). Le misure portano Rutherford a proporre il primo modello di atomo con nucleo centrale positivo di dimensioni trascurabili rispetto a quelle dell’atomo stesso. Analizziamo un caso particolare proposto dagli assistenti di Rutherford, Hans Geiger (tedesco) e Ernest Marsden (neozelandese), nel 1911. Tra tutte le interazioni tra particelle alfa e nuclei del metallo (diciamo oro) i due ricercatori notano la possibilità di particelle alfa riflesse nella stessa direzione iniziale: il caso di un urto frontale elastico unidimensionale. Indichiamo con i simboli mA e mB le masse dei corpi che interagiscono, vA(0) e vB(0) le velocità iniziali delle particelle al tempo zero, vA(t) e vB(t)le velocità al tempo t dopo l’urto. Per il principio di conservazione della quantità di moto dev’essere: mA vA(0) + mB vB(0) = mA vA(t) + mB vB(t). Mentre per il principio di conservazione dell’energia: mA vA2 (0) + mB vB2 (0) = mA vA2 (t) + mB vB2 (t) (il termine ½ è stato semplificato). Una delle soluzioni banali del sistema e quella in cui la velocità di ogni singola particella sia uguale prima e dopo l’urto. Per trovare la seconda soluzione, non ovvia, ipotizziamo una velocità iniziale dell’atomo bersaglio uguale a zero. Le equazioni di conservazione si trasformano nella forma: mB vB(0) = mA vA(t) + mB vB(t) mB vB2 (0) = mA vA2 (t) + mB vB2 (t). È facile ricavare allora3: vB(t)= vB(0) [(mB- mA)/(mA+ mB)] vA(t)= vB(0) [2mB /(mA+ mB)] . Mentre il termine che lega la velocità finale dell’atomo alla velocità iniziale della particella alfa è per qualsiasi valore delle masse positivo, quello che esprime la velocità finale della particella proiettile rispetto alla velocità iniziale della stessa particella è negativo se mB< mA. In questo caso l’urto inverte il verso delle velocità della particella alfa. I principi di conservazione sono compatibili con una situazione di rimbalzo se e solo se il nucleo dell’atomo di oro ha una massa maggiore di quella delle particella alfa. 3 Esplicitando vB(0) nelle due equazioni, uguagliando il quadrato del primo termine al secondo e semplificando.