ipertesto-scienza

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 Il Comportamentismo
Origini e caratteristiche del comportamentismo
Sorto negli Stati Uniti come behaviorism, corrente della psicologia moderna secondo cui l'unico
oggetto
di
studio
per
una
psicologia
scientifica
è
il
comportamento
manifesto,
il
comportamentismo estende nelle scienze sociali la prospettiva empiristica, scegliendo come
oggetto
di
studio il
comportamento
manifesto.
La
concezione
behavioristica vede il
comportamento dell'organismo come risultante del rapporto "stimolo-risposta". Secondo
questa idea, è il comportamento dell'individuo che produce effetti sull'ambiente. Questi ultimi
si traducono in risposte che vengono interpretate dal soggetto come ricompense (rinforzi
positivi) o punizioni (rinforzi negativi). Tutto il nostro comportamento dipende quindi dal tipo di
rinforzi ricevuti dall'ambiente.
L'approccio comportamentista non assegna alcun ruolo al processo conoscitivo di formazione
dei concetti da parte del soggetto: le idee, le motivazioni che fanno da sfondo ai
comportamenti manifesti non sono considerate come variabili rilevanti ai fini dei risultati della
ricerca; esiste solo ciò che si può rilevare empiricamente, solo ciò che è comportamento
manifesto. Tutto il resto non è oggetto di conoscenza scientifica.
Con il comportamentismo si tende a rifiutare l'uso di proposizioni vere a priori e si adotta una
modalità di analisi empirica della realtà sociale che necessita del controllo delle ipotesi
formulate attraverso il vaglio dei fatti empiricamente rilevabili. I fatti hanno valore di variabili
esplicative. La spiegazione che ne segue acquista la forza esplicativa di una teoria se riesce a
garantire la ricerca di uniformità di comportamenti e una loro possibile interpretazione
sistematica.
In questo clima neopositivista nascono le prime teorie relative alla distribuzione del potere e al
funzionamento del sistema politico; nasce il concetto di "indicatore sociale", cioè di
comportamenti, atteggiamenti e fenomeni reali, empiricamente rilevabili e traducibili nel
linguaggio operativo del comportamentismo.
Nasce la ricerca empirica sul campo centrata sull'idea di condizione probabile e il relativo
problema del metodo e delle tecniche atte ad effettuare tali rilevazioni (interviste, questionari,
campionamenti). Nasce una nuova branca della ricerca scientifica rivolta a fenomeni sociali in
senso ampio, con nuove discipline che fanno capo al movimento comportamentista (dalla
Scienza politica e Sociologia, alla Demografia e Statistica sociale) in grado di coprire nuove
aree
del
sapere
scientifico
prima
quasi
del
tutto
scoperte
o
inesistenti.
Le condizioni storiche che concorrono alla nascita di tale movimento sono da ricercare nel
51
bisogno crescente di assicurare il controllo sociale in una società come quella statunitense del
tempo,
attraversata
da
imponenti
fenomeni
di
immigrazione,
urbanizzazione
e
industrializzazione.
Almeno nel primo periodo, che va dal 1920 al 1950, il comportamentismo agì sulla scienza
politica come movimento di rottura che trovò molti ostacoli e pochi finanziamenti, e che diede
scarsi frutti scientifici. Nel secondo periodo, che va dal 1950 alla fine degli anni '60, il
comportamentismo è penetrato in tutti i settori della scienza politica, ma ha dato, al tempo
stesso, il via ad una serie di reazioni che, provenendo dal suo ambito, sono destinate ad
esercitare una maggiore influenza sugli sviluppi della disciplina, che non le reazioni dei
tradizionalisti contro il metodo scientifico tout-court.
Quadro storico: gli anni Venti negli Stati Uniti
Anni Venti: segnati da intensi rivolgimenti, anche negli Stati Uniti. L'economia di guerra aveva
favorito negli Stati Uniti un miglioramento delle condizioni della classe lavoratrice che si era
vista assicurata dall'intervento dei poteri pubblici, piena occupazione, minimi salariali e stabilità
dei prezzi. L'offensiva dei magnati dell'industria per porre fine ad ogni forma d'intervento
statale nei rapporti economici si tradusse in offensiva anti-operaia condotta a livello aziendale
e politico.
I gruppi capitalistici si adoperarono per fiaccare le organizzazioni sindacali protesta operaia,
che fra il 1919 e il 1922 alimentò scioperi nei grandi centri industriali. Ristabilito "l'ordine" nei
termini del liberalismo classico, ossia riconquistata la piena libertà d'azione all'iniziativa
privata, scompaginato il movimento operaio e soffocata l'opposizione dei gruppi progressisti,
prese avvio una incontrollata corsa al guadagno. Tuttavia lo squallore morale della classe
dominante e la vita miserabile dei poveri nelle regioni del sud, denunziavano il limite umano e
civile della "prosperità" americana. Le disponibilità create dai profitti industriali non venivano
convertite in espansione dell'occupazione e in aumenti salariali tali da elevare il potere
d'acquisto delle masse popolari. Anzi, i ceti imprenditoriali insistettero in una politica di
contenimento salariale, mantenendo inalterati i prezzi dei beni immessi sul mercato.
La crescente sovrabbondanza di capitali trovò sbocco nei titoli di borsa che coinvolsero vasti
settori dei ceti medi; fu proprio la speculazione effettuata sui titoli azionari che contribuì al
crollo (1929) dell'intero sistema finanziario e produttivo USA. La presidenza del repubblicano
Hoover, fedele ai principi del liberalismo ottocentesco, si dimostrò incapace di affrontare la
crisi, mentre le contraddizioni preesistenti diventavano sempre più incontrollabili ed esplosive.
In questo clima si sviluppò il movimento comportamentista. Esso si delineò come movimento
di opinione che proponeva una sensibilità inedita per le scienze sociali: la ricerca empirica.
Tuttavia, il comportamentismo finì col proporre una interpretazione del mutamento strutturale,
che cominciava a delinearsi in quegli anni (crisi del '29), nel senso di un mutamento nella
continuità rispetto al passato. In altri termini, se da una parte il metodo di rilevazione empirica
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proposto dal comportamentismo nasceva dal bisogno di dare una risposta significativa alla
conoscenza di tali fenomeni di rivolgimento sociale, dall'altra tuttavia, proprio lo stesso metodo
empirico, nel fissare i parametri di definizione della realtà secondo gli standard neopositivisti,
fornì anche un efficace strumento di controllo sulla direzione del mutamento in corso.
Al centro dell'attenzione degli studiosi vennero a trovarsi la situazione europea e la crisi del
sistema liberale. In questi anni di cambiamenti, il comportamentismo americano, pur
preoccupandosi di controllare le forze prorompenti nel sociale, non ne ostacolò l'espressività,
ma si preoccupò di riadattare il metodo scientifico di osservazione e rilevazione dei dati delle
scienze sociali. Si preoccupò di operare un controllo sul mutamento sociale attraverso un
cambiamento del metodo scientifico: non più un controllo attraverso atti di fede sul doveressere istituzionale dello Stato liberale, che per altro si stava trasformando, ma attraverso
proposizioni
sottoponibili
a
verifica,
e
quindi
controllabili,
secondo
il
suggerimento
neopositivista.
Affinché tali fenomeni di mutamento potessero avere una spiegazione soddisfacente, entro un
modello che ne garantisse ancora il controllo, bisognava cambiare, insomma, proprio il metodo
di osservazione della realtà. Fu proprio l'alleanza tra la borghesia più avanzata e l'avanguardia
culturale americana che favorì una politica di interventi dello Stato nei rapporti economicosociali, secondo un programma che venne reso operativo col New Deal, sotto la presidenza di
Roosvelt.
Proprio di tale rivolgimento dell'intero sistema istituzionale, il comportamentismo rappresentò,
tuttavia, uno dei momenti più significativi di interpretazione del mutamento strutturale
avvenuto, nel senso di un mutamento nella continuità rispetto al passato, almeno per quanto
riguarda gli schemi e le prospettive aperte dall'analisi scientifica neopositivista in campo
sociale.
L'approccio comportamentista in Scienza politica
Principi basilari della proposta comportamentista per la Scienza politica.

Studio del "comportamento manifesto", muovendo da uno scetticismo di fondo sul
sapere ufficiale, proprio perché basato su proposizioni valide a priori, e non verificabili o
confutabili dai fatti, come deve garantire invece un metodo scientifico della ricerca
empirica.

Scopo del comportamentismo: formulare proposizioni teoriche circa l'uniformità di
comportamento nei rapporti sociali, al fine di poter assicurare un controllo sociale, pur
nel suo mutamento effettivo e non solo formale (nomologico).

Prospettive epistemologiche
proposte:astoricità
e avalutatività. Con
la
prima il
fenomeno viene osservato e fotografato nell'istante in cui viene compiuta l'indagine,
astraendolo dal contesto storico che gli è proprio. La scelta è motivata dal rifiuto di un
53
metodo, quello storico, giudicato "individualizzante e idiografico". Gli storici cercano di
delineare le cause e le condizioni che spiegano un particolare avvenimento e le sue
conseguenze, mentre gli scienziati sociali vogliono giungere a elaborare generalizzazioni
di tipo predittivo su categorie di avvenimenti.

Con la prospettiva dell'avalutatività si adotta l'assunto del neopositivismo secondo cui è
possibile escludere dall'indagine scientifica valori ideologico-culturali del ricercatore e
della società.

Mezzi: ricerca di rigorose tecniche di analisi basate sulla misurazione dei fenomeni
sociali, ricerca di unità elementari di analisi generalizzabili su cui poter fondare le teorie
scientifiche. Tale ricerca risulta problematica poiché le soluzioni date a quest'ultimo
problema
differenziano,
all'interno
dell'orientamento
comportamentista,
i
diversi
approcci all'analisi politica. Da qui la complementarietà del metodo, l'interdisciplinarietà
e l'utilità della comparazione: poiché si ammette che ogni spiegazione può essere solo
parziale e problematica, vi è la ricerca del confronto di soluzioni diverse che partono da
diverse premesse, al fine di integrare la disciplina coi risultati delle altre scienze sociali.

I criteri di appartenenza: l'appartenenza è questione d'adesione a un'esperienza
collettiva nella quale condividere con altri impegni e ideali simili, rispettando i reciproci
interessi, cercando e offrendo aiuto e sostegno, o accettando una comune leadership.
Tutti gli approcci che si rifanno al comportamentismo sono accomunati dall'esigenza di
ridefinire il campo di analisi, il metodo e l'oggetto della scienza politica, mettendo l'accento in
particolare su due elementi:
1) sul concetto di attività (anziché sulle istituzioni): ricerca di un tipo di attività che possa
essere espressa in una diversità di modelli sia teorici sia istituzionali;
2) sulla prospettiva del
processo: le istituzioni
vengono considerate
la risultante
dell'interazione tra i vari gruppi operanti nella società civile, come processo di attività in
corso di continua evoluzione.
Emerge pertanto una concezione dinamica della società, che riflette una concezione pluralista
sia nella vita politica sia nella ricerca scientifica: la condivisione dei principi di causalità
multipla e di interdipendenza avvicinano, infatti, il movimento comportamentista alla risposta
probabilistica e neopositivista che comincia ad affermarsi proprio nello stesso periodo storico.
L'analisi comportamentista del potere: la teoria elitista
Sulla scia della teoria dell'élite, negli Stati Uniti, dove si era consolidato l'approccio
comportamentista, furono condotte, intorno agli anni Cinquanta, una serie di ricerche che
avevano come oggetto di studio privilegiato l'analisi del potere politico entro il contesto politico
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statunitense.
In questo ambito presero forma due diverse teorie sul potere politico:
1. La tesi elitista fu sostenuta per prima da Wright Mills, secondo il quale gli Stati Uniti,
nonostante l'immagine pluralista e di società aperta, sono dominati da una ristretta e potente
élite di persone che occupano ruoli strategici entro i tre maggiori complessi organizzativi - gli
ordini istituzionali - che hanno acquisito il dominio della società statunitense: la burocrazia
pubblica, le grandi corporation e le forze armate. Poiché il capitalismo avanzato del nostro
tempo esige che si prendano decisioni fortemente coordinate e di ampia portata nell'ambito
dello Stato, dei grandi gruppi economici e delle forze armate, ne segue che i massimi dirigenti
di queste organizzazioni sono costantemente in contatto tra loro e spesso prendono in modo
informale decisioni di grande importanza politica e sociale. Si ipotizza pertanto che vi sia
coincidenza di interessi e di intenti tra i vertici che costituiscono l'élite del potere. Utilizzando il
metodo reputazionale, centrato sull'individuazione dei ruoli di chi possiede il potere decisionale,
Mills individua tre livelli di esercizio del potere politico:
a) al livello più alto sta l'élite del potere, ben integrata, che opera in modo informale e
invisibile, prendendo tutte le decisioni più importanti in materia di politica interna ed estera;
b) il livello intermedio è costituito dal settore legislativo, dai diversi gruppi di interesse e
dagli opinion leaders locali. A questo livello le decisioni vengono prese attraverso l'intervento di
gruppi di pressione (lobbies) e attraverso i procedimenti legislativi;
c) al terzo livello sta la massa dei cittadini, priva di organizzazione e di potere, caratterizzata
da apatia, che può esercitare solo una scarsa influenza sulle decisioni che la riguardano e non
ha modo di esercitare alcun controllo effettivo sull'élite.
Come i teorici europei dell'élite, anche Wright Mills si dichiara pessimista circa la possibilità che
la democrazia mantenga le sue promesse di socializzazione del potere. Tuttavia, a differenza
dei primi che legittimavano una soluzione autoritaria della gestione del potere politico, l'autore
denuncia la contraddizione esistente tra l'ideologia democratica dominante e la realtà politica,
caratterizzata dal dominio di un'élite che disattende chiaramente i principi basilari del sistema
democratico.
L'analisi comportamentista del potere: teoria pluralista
2. Tesi pluralista: due degli autori più noti in questo ambito sono Riesman e Dahl i quali non
condividono la concezione verticistica del potere, propria degli elitisti, ma ne ipotizzano una
diffusione policentrica e la possibilità da parte di più élite in concorrenza tra loro di influenzare
di volta in volta le decisioni politiche rilevanti. Negano quindi l'esistenza di una élite del potere
coordinata,
in
grado
di
mantenere
il
55
monopolio
del
processo
decisionale.
A questo proposito, Dahl accompagna la sua critica alla teoria elitista con una critica
metodologica al concetto stesso di élite: tale concetto non sarebbe misurabile secondo i canoni
della operazionalizzazione; esso non sarebbe allora un concetto scientifico. Lo stesso problema
metodologico verrà sollevato poco più tardi dai neoelitisti, come Bacharach e Baratz, che
proporranno un superamento del metodo comportamentista.
Secondo Riesman esistono negli Stati Uniti due livelli di potere:
a) il livello più alto è rappresentato dai gruppi dotati del potere di veto (veto group):
potenti gruppi di interesse che cercano di difendersi bloccando le proposte di altri gruppi che
possano intaccare i loro interessi. Il potere non è perciò fortemente centralizzato, anzi, a
secondo degli interessi in gioco si formano mutevoli coalizioni per cui, alla lunga, nessun
gruppo risulta privilegiato nei confronti degli altri.
b) Al secondo livello si trova la popolazione non organizzata che diventa oggetto delle
attenzioni dei gruppi dotati di potere di veto, i quali cercano di orientare l'opinione pubblica in
loro favore, avendola come alleata nelle loro campagne.
Utilizzando il metodo decisionale (usato prevalentemente dai politologi), che consiste
nell'analizzare le procedure e gli esiti delle decisioni pubbliche riguardanti le principali questioni
(issues) di rilevanza strategica per la comunità, Dahl giunge a conclusioni simili a quelle di
Riesman: il potere politico, inteso come capacità di influenzare la formulazione di decisioni
politiche, appare strutturato secondo un sistema di "disuguaglianze disperse" e non
cumulative. Se, da una parte, tra i decisori si rivelano più influenti coloro che occupano i ruoli
politico-amministrativi formali, che Dahl chiama "lo strato politico", dall'altra è anche vero che
tra questi vi sono anche i leader politici che devono fare i conti con i propri elettori. Il potere
dei cittadini-elettori, suggerisce Dahl, è tanto maggiore quanto più la leadership è divisa e
internamente conflittuale ed è obbligata pertanto a ricercare il consenso popolare su opzioni
politiche alternative.
Sviluppi ulteriori dell'analisi del potere politico: neoelitisti e neomarxisti
Tra gli sviluppi dell'analisi della classe politica scaturiti dalla teoria dell'élite, vanno ricordati i
contributi dei neoelitisti, e dei neomarxisti, accomunati da una contrapposizione al metodo
comportamentista di definizione dell'oggetto di analisi: i primi più presenti nella politologia
statunitense, i secondi in quella europea.
Sempre entro il contesto statunitense, ma con una sensibilità metodologica già postcomportamentista, Bachrach e Baratz, con una ricerca sul potere politico nella città di
Baltimora, hanno proposto la tesi neoelitista, mettendo in luce "l'altra faccia del potere",
quella meno visibile, costituita dalla mobilitazione del pregiudizio e dalle non-decisioni, e quindi
non sempre rilevabile empiricamente. Le tematiche del non decision-making riproporranno
negli anni Settanta il dibattito tra neoelitisti e pluralisti democratici, spostando però in modo
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interessante il dibattito sulla scientificità del metodo della ricerca: se cioè le non-decisioni
possano
costituire
o
meno
oggetto
di
ricerca
scientifica,
empiricamente
intesa.
Il dibattito avviatosi sul tema del potere politico, in ambito comportamentista, ha messo in luce
i limiti e i problemi di ordine metodologico che il comportamentista porta con sé, problemi che
sono tipici peraltro del "paradigma scientifico empiristico".
I contributi neomarxisti di autori come Miliband e di Poulantzas partono da una messa in
discussione dell'approccio funzionalista di matrice comportamentista che si era imposto nella
scienza politica statunitense, per ridimensionare la teoria pluralista e ribadire il predominio di
una
classe
dominante
costituita
dai
detentori
del
potere
economico.
Rileggendoi rapporti di potere tra le classi sociali alla luce della teoria marxista del
materialismo storico, gli autori analizzano il processo decisionale non a partire dall'attore
politico (chi decide) ma a partire dal processo sociale di produzione, riproduzione e
trasformazione, di cui l'attività politica è espressione (quali finalità vengono perseguite). Per
queste ragioni l'analisi della politica, secondo tale approccio, non può limitarsi ad una semplice
descrizione delle attività decisionali, ma deve riguardare le istituzioni che regolano e
definiscono
i
vincoli
e
le
finalità
cui
sono
orientati
gli
attori
politici.
In altre parole: non si possono spiegare i rapporti di forza riscontrabili nell'ambito dei processi
decisionali prescindendo dal rapporti di produzione economica che sono alla base del modello
di sviluppo della modernità di cui lo Stato moderno stesso è espressione.
Sul metodo neopositivista del comportamentismo
Il metodo di ricerca empirica proposto dal comportamentismo proponeva l'uso di tecniche di
indagine e rilevazione sul campo (come interviste, questionari, campionamenti) e di
elaborazione quantitativa dei dati (analisi statistica multivariata) secondo un'impostazione
probabilistica, nomologica e astorica. Proprio per questa diversa sensibilità alla ricerca empirica
si può riscontrare una differenza tra le scienze sociali statunitensi e le scienze sociali europee.
La rivoluzione culturale neopositivista, avviata dal comportamentismo americano, penetra nelle
scienze sociali europee solo dopo la ricostruzione economica degli anni Cinquanta. E quando
anche vi penetra, deve adattarsi alla diversa sensibilità europea nel modo di recepire e
analizzare i processi e le attività del sociale e del politico. Qui una parte fondamentale della
ricerca sociale veniva infatti svolta e affidata alla ricerca storica, elemento del tutto eluso dal
comportamentismo americano, astorico per definizione. Le proposte della scienza politica
statunitense creano in Europa dibattiti che vedono posizioni diverse fra gli intellettuali, rispetto
alla maggior parte delle teorie politiche e sociali elaborate nell'ambito comportamentista.
1) Da sinistra, gli studiosi, specialmente quelli di formazione marxista, criticano la "genericità"
e la "astoricità" delle teorie americane che descrivono una società statica e coesa al suo
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interno, finendo con il legittimare le istituzioni e gli assetti di potere analizzati come se fossero
necessariamente i più adatti e funzionali.
2) I moderati progressisti appoggiano le teorie americane perché rappresentano l'immagine di
una società capitalistica efficiente e funzionante.
3) I conservatori rifiutano le moderne teorie comportamentiste, non condividendone le
tecniche empiriche di rilevazione e di elaborazione dei dati prevalentemente quantitativi.
Problemi emersi e lasciati irrisolti dall'approccio comportamentista e che esploderanno alla fine
degli anni Sessanta:

Ruolo non riconosciuto ai giudizi di valore nell'analisi politica e sociale. L'avalutatività
diventa per i comportamentisti "reticenza nel proporre valutazioni", il che si risolve in
un tacito assenso all'ordine politico esistente, le cui fondamenta non vengono mai poste
in discussione, né potevano esserlo se non si elaboravano standard entro cui
paragonare e valutare. Tale prospettiva verrà messa in discussione in seguito al
dibattito tra internalisti ed esternalisti e sulla base del concetto di avalutatività in senso
weberiano.

Contrapposizione fra l'astoricità delle scienze sociali comportamentiste e lo spessore
storico auspicato come componente rilevante dalle scienze sociali europee. Analizzando
le
origini
epistemologiche
delle
diverse
prospettive
si
può
osservare
come
l'incompatibilità fra l'astoricità dell'una e la sensibilità storica dell'altra sia riconducibile,
alle matrici del dualismo kantiano e quindi alle due prospettive filosofico-scientifiche che
ne scaturiscono: l'empirismo logico, da una parte, e le filosofie della storia dall'altra.
Possibili elementi di compatibilità:
Riguardo alle nuove prospettive aperte dalla svolta comportamentista nel campo della ricerca
empirica, ferme restando le innovazioni apportate nell'ambito delle scienze sociali, bisogna
tuttavia riconoscere la necessità di saper distinguere tra gli elementi di novità scientificamente
giustificati e le loro possibili esasperazioni (tecnicismo-metodologismo) che, in quanto tali,
risultano
controproducenti
ai
fini
della
ricerca
scientifica.
Diventa
infatti
necessario
ridimensionare la quantificazione che in alcune ricerche ha esasperato il principio della
rilevazione empirica di dati quantitativi, spesso effettuata senza alcuna ipotesi precisa che leghi
concettualmente i risultati, come se i dati potessero parlare da soli. Resta assodato, infatti, che
la scelta del modello analitico e della formulazione di un insieme di ipotesi di base sono
momenti
Alcuni
cruciali
critici
per
hanno
i
risultati
sottolineato
della
come
ricerca
la
e
rilevanza
per
data
la
dal
sua
validità
scientifica.
comportamentismo
alla
quantificazione dei risultati abbia penalizzato alcuni aspetti della realtà che non possono essere
metricizzati né generalizzati.
58
Una scienza interessata solo alla quantità e che si fondi esclusivamente sulla misurazione è
intrinsecamente incapace di occuparsi dell'esperienza, della qualità o dei valori. Essa sarà
perciò inadeguata alla comprensione della natura della coscienza, dal momento che la
coscienza è un aspetto centrale del nostro mondo intero e quindi, anzitutto, un'esperienza [...].
Quanto più gli scienziati insistono su asserzioni quantitative, tanto meno sono in grado di
descrivere la natura della coscienza. In psicologia il caso estremo è dato dal behaviorismo che
si occupa esclusivamente di funzioni misurabili e di modelli di comportamento, e che di
conseguenza non è in grado di fare alcuna asserzione sulla coscienza, negandone, di fatto,
persino l'esistenza (Capra 1987, p. 310).
L'approccio "comprendente" weberiano rimane perciò ancora in contrapposizione a quello
comportamentista.
Emerge infine un altro problema: che cos'è il comportamentismo ai giorni nostri e come può
essere definito? Dal momento che tutte le scienze sociali empiriche odierne hanno la propria
matrice nell'ambito comportamentista, il comportamentismo oggi non definisce più nulla, nel
senso che, secondo alcuni, non è possibile fare alcuna distinzione nell'ambito delle scienze
sociali
moderne
tra
ciò
che
è
comportamentismo
e
ciò
che
non
lo
è.
La risposta viene data dagli stessi autori del dibattito comportamentista: essi ritengono che la
rilevanza del comportamentismo vada vista in relazione al periodo storico in cui esso sorge,
come movimento culturale di rottura che segna la nascita delle scienze sociali empiriche e di
una nuova "sensibilità" alla ricerca. Da esso si diramano teorie e approcci scientifici diversi, e
anche contrapposti, che rappresentano contributi specifici e differenziati alla scienza politica
contemporanea.
Sul piano teorico, gli sviluppi più rilevanti del comportamentismo si sono avuti nella fase più
matura, quella degli anni Cinquanta-Sessanta con il passaggio dall'analisi di un singolo
comportamento, o attività, all'analisi di un processo, inteso come insieme complesso di
interazioni e di attività orientate ad uno scopo comune. Da questo momento l'oggetto
privilegiato di studio della scienza politica si sposta dall'analisi del potere all'analisi del sistema
politico.
 Il funzionalismo
Origini e caratteri del funzionalismo: Il funzionalismo si trovava già delineato in forma
moderna ne Le regole del metodo sociologico di Durkheim (1895). Con esplicito riconoscimento
del loro debito verso Durkheim, esso viene sviluppato negli anni '20 e '30 dagli antropologi
sociali B. Malinowski e A. R. Radcliffe-Brown. Attraverso la loro opera il funzionalismo si è
affermato nella sociologia statunitense a partire dagli anni '40 assumendo in tale ambito
59
caratteri
del
tutto
particolari
e
fondendosi
con
le
nuove
prospettive
aperte
dal
comportamentismo più evoluto [analisi dei processi].
Alla base dell'analisi empirica e teorica del funzionalismo sta l'esigenza di studiare ogni società
come una totalità di strutture sociali e culturali tra loro interdipendenti, ciascuna delle quali
fornisce un particolare contributo (funzione) a favore del mantenimento di una o più condizioni
essenziali per l'esistenza e la riproduzione del sistema sociale osservato, inteso come un
insieme organizzato di strutture specializzate a svolgere un particolare compito o funzione. La
spiegazione scientifica privilegiata è quella teleologica, cioè quella che studia le strutture
osservate partendo dalle loro "conseguenze oggettive" o funzioni, le quali esistono per
soddisfare precise esigenze del sistema complessivo; il loro fine è, per i funzionalisti, quello di
"mantenere" (in vari modi) il sistema nel tempo: questa è l'ipotesi centrale della teoria
funzionalista.
Il funzionalismo empirico: Il passaggio dell'analisi funzionalista dall'antropologia alla
sociologia avviene con il "funzionalismo empirico" di Robert K. Merton (1949). Il funzionalismo
empirico si preoccupa di esaminare le unità elementari di analisi più facilmente riscontrabili
nella realtà, servendosi di concetti più precisi e operativamente più efficaci ("teorie a medio
raggio").
Data la definizione di funzione (=conseguenza oggettiva delle strutture entro le quali è
inserita), si può affermare che i concetti base del funzionalismo sono attività e processi.
Le attività rilevanti sono per il funzionalismo non i comportamenti manifesti in senso lato, ma
le funzioni manifeste e latenti, esplicate da una particolare struttura, nel quadro di un più
generale funzionamento del sistema globale.
I processi sono concepiti come interni al funzionamento del sistema e indirizzati a precisi fini, o
requisiti funzionali.
Quadro storico: gli anni 30 e 40 negli Stati Uniti. La società entra in una fase di grandi
rivolgimenti strutturali. Con la presidenza Roosvelt e l'esperienza del New Deal veniva segnata
infatti la fine di un'epoca: la fine della forma liberale di organizzazione dello Stato e la sua
graduale trasformazione in Welfare State ossia in Stato interventista-assistenziale. Vi furono
molteplici riforme sociali e il risanamento dell’economia. Importante è l’attenzione fornita alle
classi lavoratrici e il conseguente evento storico: l'intenso movimento rivendicativo giunse nel
1935 (per la prima volta negli USA) all'occupazione delle fabbriche e vide nel 1938 la vittoria
degli operai dell'acciaio (duramente pagata con l'eccidio di Chicago ad opera della Guardia
Nazionale) che ottennero ferie retribuite, orario settimanale di 40 ore e salario straordinario
per le ore supplementari.
Il funzionalismo partendo da due presupposti diversi e complementari, tende a dare due
risposte diverse a tali esigenze:
60
-con il "funzionalismo empirico" si cerca una verifica dell'efficienza funzionale delle nuove
strutture istituzionali;
-con lo "struttural-funzionalismo" si affronta l'esigenza analitica e teorica di sistematizzare,
entro un quadro coerente, una teoria generale del funzionamento del sistema sociale. Tra le
due, prevarrà la seconda, cioè la tendenza analitica (lo struttural-funzionalismo).
Funzionalismo e struttural-funzionalismo: Le posizioni dell'antropologia sociale britannica
di Malinowski e Radcliffe-Brown, fatte proprie dal funzionalismo americano, verranno criticate
infatti dallo strutturalismo francese con Levi-Strauss, autore de Le strutture elementari della
parentela (1949). La contrapposizione rispetto alla posizione statunitense è d'altra parte
comprensibile se si tiene conto del diverso contesto culturale e politico-sociale entro cui si
sviluppano le due teorie. Lo strutturalismo francese nelle scienze sociali avrà perciò caratteri
assai diversi dal funzionalismo americano. Pertanto, non deve trarre in inganno la similitudine
tra i due termini - strutturalismo e struttural-funzionalismo - poiché fanno capo a due approcci
e due contesti culturali del tutto diversi.
Il sistema sociale di Parsons e il modello AGIL: Obiettivo dello struttural-funzionalismo è
quello di costruire un sistema di categorie analitiche puramente concettuali, coerenti nel loro
insieme, che facciano da supporto indispensabile per giungere ad una vera e propria teoria
empirica del sistema sociale. L’autore rappresentativo è Talcott Parsons (opera: The Social
System -1951-), il quale, promuove l’idea di un sistema concettuale logicamente articolato che
analizza il rapporto tra personalità, struttura sociale e cultura attraverso una serie di processi
che definiscono vari "sistemi di azione".
Punto di partenza di ogni azione è l'attore sociale, il cui comportamento deve essere analizzato
in rapporto al contesto entro cui avviene l'azione, definito come "sistema di azione". L'ipotesi
sostenuta da Parsons è che i processi messi in atto nell'ambito di tali sistemi di azione hanno la
funzione
di
mantenere
un
certo
equilibrio
interno
al
sistema
sociale
complessivo,
neutralizzando quelle variabili che, se lasciate libere di agire, sposterebbero altrove le
coordinate dell'equilibrio del sistema stesso. Affinché le funzioni di "neutralizzazione delle
anomie" siano espletate, occorre che l'attività delle strutture esistenti sia coerente con tali
scopi: lo struttural-funzionalismo va quindi alla ricerca di particolari strutture che assolvono le
funzioni essenziali.
Parsons definisce, in questo senso, i "requisiti funzionali" espletati dalle strutture del sistema,
sostenendo che l'efficienza di un sistema sociale dipende dal grado di differenziazione
strutturale al suo interno e quindi dalla specializzazione funzionale delle strutture rispettive.
Il modello agil di Parsons.
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Tabella riassuntiva della figura
FUNZIONE
STRUTTURA
(requisiti funzionali)
(sottosistema)
(A) Adattamento (rapporti del sistema
Sistema economico
sociale con l'ambiente non umano)
produzione, distribuzione e controllo delle
reperimento delle risorse (mezzi) necessarie
risorse
per la realizzazione dei fini
(G) Perseguimento dei fini (rapporti con
Sistema politico
altre società)
decidere linee di condotta per il
preservazione degli elementi fondamentali
perseguimento dei fini collettivi ed eseguirle
che definiscono il sistema sociale: (per es.
mobilitando le risorse disponibili
difesa del territorio)
(I) Integrazione delle sub-unità
Sistema normativo
integrazione e coordinamento delle unità
diritto positivo (norme), procedure per la
interdipendenti, ruoli e strutture
soluzione delle controversie, regole del gioco,
comunicazione
(L) Mantenimento dei modelli (rapporti
Sistema culturale
con l’ambiente culturale)
- strutture di socializzazione (famiglia, scuola,
mantenimento della conformità alle
mass-media)
prescrizioni del sistema culturale:
- strutture di controllo sociale (applicazione di
- processo di acculturazione
sanzioni)
- processo di controllo sociale
- strutture di controllo delle tensioni
- processo di controllo delle tensioni
(burocrazia, forze armate, carcere)
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Considerazioni:
l'ambiente esterno risulta costituito da altri sistemi (psicologico, culturale, organico, ecc.) i
quali realizzano, secondo Parsons, uno "scambio" col sistema sociale, nella misura in cui
quest'ultimo reagisce riequilibrando al suo interno i medesimi rapporti di forza con una sorta di
equilibrio omeostatico.
Come unico movente di cambiamento viene prevista e legittimata infatti l'autoregolazione
interna del sistema e quindi il riformismo come unica soluzione possibile del mutamento nella
continuità.
La spiegazione teleologica che regge la teoria di Parsons è che il sistema sociale si muove nel
senso della salvaguardia della propria sopravvivenza e durata nel tempo, e quindi nel senso del
mantenimento del proprio equilibrio e della propria identità.
Condizione necessaria perché possa esserci un sistema sociale è che non solo esista una
struttura (ossia un insieme interdipendente di rapporti tra ruoli), ma che esistano anche
determinate funzioni messe in atto dalla struttura; le funzioni di natura distinta, rispetto alle
interazioni delle componenti del sistema con altri elementi, caratterizzano questi ultimi che
saranno considerati allora elementi dell'ambiente esterno. Il collegamento tra questi quattro
momenti è dato dall'attore sociale, il quale ricopre entro il tessuto sociale i vari ruoli: più ruoli
interagenti
costituiscono
una
struttura;
ogni
struttura
esplica
determinate
funzioni;
l'interazione tra le strutture dà vita al sistema sociale.
Il concetto di integrazione coinvolge infatti elementi culturali e simbolici che saldano e
unificano i comportamenti di un gruppo entro un certo "ordine sociale" che si tramanda nel
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tempo e che può risultare di fatto coercitivo, anche in modo inconsapevole. Si parla in tal caso
di coazione. E' questa una forma molto particolare di repressione della devianza, poiché non
avviene tramite forme palesemente autoritarie, ma attraverso la coercizione di precisi processi
di socializzazione.
Non è prevista, da Parsons, l'ipotesi che la condotta individuale e collettiva possa non apparire
più prevedibile né controllabile (crisi di governabilità), quando si manifesta sempre più una
sfiducia nei ruoli istituzionali e si diffonde un comportamento deviante rispetto ad essi.
Elementi della teoria politica di Parsons: La politica di una determinata società, secondo
Parsons, è una parte del sistema sociale definita dai modi in cui le componenti relative del
sistema complessivo sono organizzate rispetto a una delle sue funzioni fondamentali: l'azione
collettiva orientata al raggiungimento delle mete della collettività. La politica è intesa quindi
come l'attività umana orientata al perseguimento del "bene comune" o degli interessi collettivi
(integrazione).
Lo sviluppo politico è analizzabile come quel procedimento attraverso il quale viene costruita e
fatta funzionare l'organizzazione (la struttura) necessaria per l'azione politica, vengono, cioè,
determinati gli scopi dell'azione e mobilitati i mezzi necessari al raggiungimento di questi.
Di particolare importanza è poi il parallelismo indicato da Parsons tra la teoria economica e la
teoria politica. Tanto il sistema economico quanto il sistema politico vengono concepiti infatti
come "sottosistemi funzionali" e analiticamente definiti della società. Ciò che differenzia i due
sottosistemi sono le diverse funzioni fondamentali svolte dalle apposite strutture e i diversi fini
da queste perseguiti.
“l'analisi politica, come viene da noi intesa, è parallela a quella economica nel senso che anche in essa un
ruolo centrale è occupato dal mezzo generalizzato impiegato nel processo d'interazione politica, che è anche
una "misura" dei valori rilevanti. Il potere è da me considerato, appunto, come tale mezzo generalizzato in un
senso direttamente parallelo [...] a quello della moneta come mezzo generalizzato del processo economico.”
Il potere sociale sarebbe perciò, nella definizione di Parsons, "un mezzo circolante analogo alla
moneta" caratteristico non solo del sistema politico, ma dei vari sottosistemi funzionali
(sistema economico, sistema integrativo, sistema di mantenimento dei modelli). Come la
moneta, anche il potere è sia un mezzo simbolico di scambio sia una misura simbolica di
valore. Non ha di per sé un valore d'uso, ma solo un valore di scambio. L'accento viene quindi
posto dall'autore su due caratteristiche essenziali per il potere politico, così come per la
moneta: la sua generalizzazione e la sua legittimazione nell'ambito di un dato territorio. Tale
mezzo deve essere cioè un "simbolo" stabilizzato e generalmente accettato, che gode della
fiducia nella sua mutua accettabilità come "mezzo di scambio" entro precisi confini territoriali.
Ma poiché Parsons fa derivare la legittimità del potere politico dalla norma simbolica
generalizzata, ne segue che, secondo l'autore, è legittimo solo ciò che è legale. Ovvero, la
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norma giuridica, in senso lato, diventa il parametro di riferimento in base al quale viene
definito il potere politico. Questa conclusione si risolve di fatto nella legittimazione del potere
esistente, quello giuridicamente consolidato e giuridicamente prodotto e, in quanto tale, mette
ancora meglio in evidenza gli esiti conservativi cui conduce l'analisi di Parsons: il mutamento
diventa possibile solo se giuridicamente legittimato, l'unico mutamento concepibile è quindi il
riformismo.
Considerazioni critiche: Parsons non fornisce infatti criteri univoci per misurare il grado di
mantenimento del sistema, quindi il ricercatore non potrà mai sapere in realtà, con una certa
attendibilità, se il sistema si sia "adeguatamente" mantenuto. L’analisi rimane solo teorica e
formale perché si ha una teoria scientifica solo se dalle sue proposizioni si possono dedurre
proposizioni confutabili. Come la teoria economica keynesiana della stessa epoca, anche quella
di Parsons è insomma una teoria di breve periodo, che non fornisce i mezzi per prevedere
mutamenti a lungo termine. I limiti maggiori del contributo parsonsiano emergono invece
quando si tende ad assolutizzare il punto di vista "interno" al sistema analizzato e quindi il
problema dell'ordine e del suo mantenimento, pensando che sia l'unico punto di vista possibile
o il più opportuno necessariamente, dal momento che l'approccio struttural-funzionalista coglie
solo un aspetto della politica, come perseguimento del bene comune (integrativa), non
considerando
la
dimensione
della
politica
come
(aggregativa).
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scambio
o
mediazione
dei
conflitti
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