DIEGO FUSARO Epicuro e l`etica del limite

DIEGO FUSARO Epicuro e l'etica del limite
https://www.youtube.com/watch?v=BXukuLQO2Ps
[ 04:43 - 09:09 ]
Diego Fusaro:
Io vi ringrazio per questo splendido dono filosofico, e vi ringrazio per la meravigliosa
accoglienza avuta in queste terre stupende.
Del resto, se c’è un
valore fondamentale che Epicuro ha messo a tema nella sua
filosofia, è proprio il valore dell’ amicizia , della
filia , il sapersi relazionare in maniera
amichevole agli altri.
Questo potrebbe essere un modo per avvicinarsi al pensiero di Epicuro.
Non voglio tuttavia fare una lezione noiosa questa sera su che cosa ha detto Epicuro.
Voglio invece provare a porre una domanda che forse può interessare anche chi
propriamente non è un addetto al lavoro, anche chi non si occupa di filosofia tutti i
giorni.
Voglio provare a
rovesciare il punto di vista: non cosa diciamo oggi di Epicuro, ma
cosa
direbbe Epicuro oggi se fosse tra noi,
quale sarebbe l‘immagine del mondo che Epicuro può darci.
Cosa dovrebbe dire Epicuro oggi?
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Inizio ricordando che poche altre filosofie nella storia del pensiero occidentale hanno
avuto un’avventura tanto particolare sui generis, come la filosofia tenuta a battesimo da
Epicuro.
E’ una filosofia che ha avuto una storia del tutto particolare, forse unica nell’intera storia
del pensiero occidentale.
Lo si trova provato, ad esempio, dal fatto che nel lessico comune
il termine
“epicureismo” , o anche il semplice aggettivo epicureo, ha preso a significare tutta
una serie di valori e atteggiamenti che non solo non rimandano direttamente al verbo
originario del pensiero di Epicuro, ma che in maniera diamentralmente opposta
ne
sono la negazione.
Nel
lessico comune “epicureo” è sinonimo di dissoluto, smisurato,
sregolato.
Epicureismo è il contegno tipico di chi senza curarsi di alcun limite
delle cose porta tutto all’eccesso, soprattutto il godimento
eccessivo.
Sei un epicureo = Godi illimitatamente dei beni che la vita ti mette a disposizione.
Epicuro stesso aveva ampiamente messo in guardia i suoi seguaci rispetto a queste
possibili cadute, dicendo appunto che
il vero compito dell’epicureo non è quello di godere illimitatamente ,
ma semmai di
porre dei limiti al godimento .
Questo è un primo tema su cui sarà bene insistere.
Il paradosso infatti a cui voglio far riferimento riguarda il fatto che, caso unico forse nella
storia del pensiero occidentale, l’epicureismo diventa oggi una filosofia che non solo non
riproduce nemmeno in mimima parte il messaggio originario del fondatore della
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(Epicuro), ma addirittura dice l’esatto opposto rispetto a quello che il pensatore del
Giardino, Epicuro, aveva messo a tema.
Se
Epicuro aveva insegnato come valore fondamentale la
misura , il saper usare bene in maniera misurata, limitata dei piaceri, oggi l’epicureismo
ha preso a indicare l’esatto opposto, il godimento illimitato, assenza di misura.
Potremmo anzi dire, per tornare ad un autore a me particolarmente caro, Marx, che
Epicuro sta all’epicureismo come Marx sta al marxismo.
Tali e tanti sono stati i fraintendimenti e i travisamenti del pensiero dei due fondatori del
movimento, da indurre a pensare che Epicuro è più efficace antidoto contro
l’epicureismo, proprio come Marx è il più efficace antidoto contro il marxismo (inteso
come visione volgare ed economica delle cose.)
C’è forse un parallelo tra questi due autori a me così cari, le cui vite parallele si
intrecciano nella misura in cui Marx ha fatto una tesi di laurea su Epicuro, e l’ha assunto
come pensatore di riferimento, soprattutto per il tema della libertà umana, tema sul quale
mi piacerebbe poi ritornare.
[ 09:09 - 18:05 ]
Epicuro sta all’Epicureismo come Marx sta al Marxismo.
Potremmo anzi utilizzare questa volta come pensatore di riferimento Nietzsche (in
particolare nei frammenti della Volontà di potenza) quando dice che la chiesa è
esattamente ciò contro cui Cristo ha lottato e insegnato a lottare.
Potremmo dire quindi che l’epicureismo è ciò contro cui Epicuro ha lottato e contro cui ha
insegnato a lottare.
C’è un passo molto bello dell’epistola a Meneceo che tratta la felicità, un testo
magnifico di poche pagine, che tutti possono e dovrebbero leggere.
Tutti possono e dovrebbero leggerla perché è rivolta a tutti, come sempre accade con
l’autentica filosofia.
L’autentica filosofia è infatti quella che appunto si rivolge all’uomo in quanto tale, che è
sempre filosofo perché si pone domande per loro stessa natura filosofica.
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Invito tutti, soprattutto i giovani, a
diffidare di quelle filosofie che adottano un
gergo da specialisti, inaccessibile , impenetrabile, o che si occupano di
microproblemi, lontani sideralmente da quelli della vita quotidiana.
E’ quella che io, con il grande filosofo del ‘900 Lukács, chiamo
“l’idiotismo
specialistico”.
L’ Idiotismo specialistico è l’occuparsi in maniera esatta di pseudo-problemi, cioè che
non riguardano l’uomo nella sua vita concreta, nei suoi problemi storici e sociali.
Quindi l’epicureismo inteso come messaggio di Epicuro (e non come travisamento del
suo messaggio) è una filosofia che parla alle persone di ogni tempo, perché solleva pene
e problemi che riguardano la vita di tutti noi: come essere felici; come affrontare il
problema della morte, del dolore, della sofferenza; come raggiungere la felicità e il vivere
piacevole; come essere imperturbabili.
Questa lettera si apre appunto esattamente con
un’esortazione rivolta a tutti, a
fare filosofia: non esiti a filosofare chi è giovane e non smetta di farlo chi è
anziano, perchè
la filosofia è la via per essere felici , e non c’è
un’età privilegiata per essere felici.
Ogni uomo in ogni fase della vita, secondo Epicuro, è
chiamato a percorrere la via della possibile felicità.
E quindi la filosofia in quanto tale (come la concepisce Epicuro e in questo mi
ritengo epicureo)
deve essere un’occupazione che riguarda tutti, e che
riguarda fondamentalmente i problemi dell’esistenza di tutti.
Destino paradossale, dicevo, quello dell’epicureismo: una filosofia che arriva a significare
esattamente l’opposto di quello che Epicuro stesso diceva.
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E’ un destino paradossale, specialmente se si considera il fatto che fin dall’inizio Epicuro
aveva concepito il proprio pensiero come un dogoma, un catechismo laico per
raggiungere la felicità.
Le sue lettere sono toccanti, anche per il fatto che sono una testimonianza antichissima di
un rapporto autentico tra amici, quale ad esempio non si trova nei Dialoghi di Platone.
Se leggete i dialoghi di Platone, gli interlocutori di Socrate figurano come altrettante
maschere di carattere, volte a far procedere il dialogo: non hanno una funzione di amici
con cui discutere autenticamente.
In Epicuro invece, le lettere sono rivolte ad amici autentici, con cui Epicuro discute a
distanza, con cui comunica le proprie scoperte filosofiche, le proprie scoperte sul campo.
Epicuro era un filosofo attento all’amicizia e profondamente autentico ,
coerente.
Tematizzava il problema della sofferenza e al tempo stesso la provava sulla propria pelle,
perchè scontava una malattia molto grave che lo faceva soffrire: non parlava per
“sentito dire” parlava di esperienze che aveva fatto in prima persona.
Coraggio e coerenza sono due valori fondamentali del
filosofo.
Ed è un tema a me caro, di cui non potrò dire molto questa sera, ma che sarebbe bene
affrontare.
Epicuro è un filosofo della coerenza.
Appunto dicevo, è un verbo che si pensa come dogmatico, un dogma che permette
all’uomo di sempre, in ogni tempo, di essere felice.
A questo proposito è interessante ricordare come nel secondo secolo dopo Cristo un
cultore di Epicuro (Diogene di Enoanda), proprio in ossequio del maestro, fece scolpire
sulle mura della sua città, le parole di Epicuro, proprio per immortalarle come “acquisto
per l’eternità” per usare la bella formula di Tucidide.
Ogni uomo poteva richiamarsi a quelle parole che erano imperiture, toccavano problemi
intramontabili.
Ebbene , questo è il modo in cui Epicuro e i suoi immediati successori mettono a tema il
messaggio epicureo, che poi cambia continuamente, fino all’odierno nostro tempo, dove
l’epicureismo è l’opposto che insegna Epicuro.
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A questo paradosso se ne accompagna un altro che mi piace sottolineare fin da ora e su
cui tornerò più attentamente: come viene spesso presentato Epicuro nella manualistica.
(Nella manualistica, nelle forme della tautologia organizzata, nelle forme manualistiche
con cui non si interpreta in maniera critica un autore, ma si propongono letture già
collaudate, una sorta di versione storiografica di quello che Heidegger in essere tempo
chiamava “il si dice” anonimo, impersonale, che domina sovranamente nella letteratura
filosofica...)
I manuali son tutti uguali, ripropongono sempre e solo la stessa visione delle cose, e
hanno come solo scopo quello di non far capire nulla agli studenti, di non farli
appassionare alla filosofia.
Ebbene, in questa visione preconfezionata che purtroppo è dominante, Epicuro viene
sempre presentato immancabilmente come una sorta di pensatore ormai fuori dal
momento magico della grecità, fuori da quella fioritura straordinaria del pensiero greco
germogliato con le cosiddette figure dei presocratici.
(I “presocratici” sono una categoria altrettanto scivolosa di cui la storiografia dominante
continua ad abusare: come qualificare dei pensatori che vengono prima di Socrate con
termini come “presocratici”? Mica si qualificavano in tal maniera essi evidentemente...
Mi piace piuttosto chiamarli con Heidegger: “pensatori dell’origine” semmai.
Pensate anche a Platone ed ad Aristotele, che in qualche misura è il canto del cigno...
così si dice nella manualistica della grecità.
Epicuro e con lui le figure della cosiddetta età ellenistica, sarebbero secondo questa
visione manualistica fuori ormai dall’orizzonte di senso della grecità. Sarebbero esterne
rispetto ad essa, come se appunto fossero un momento di ripensamento della filosofia, al
di là della grecità, proprio appunto in quel momento che Droysen volle qualificare come
“Ellenismo”.
Un’epoca che, si badi, ha tali e tante affinità con la nostra, che nella mia relazione mi
spingerò più volte a parlare del nostro presente come di un secondo Ellenismo.
Qual è la cifra dell’Ellenismo, l’epoca di Epicuro e delle grande conquiste di Alessandro
magno?
Qual è la cifra dell’ellenismo? Il fatto che viene meno la
polis, come comunità limitata nello spazio di cittadini che si
relazionano e che decidono sovranamente delle loro sorti.
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Ellenismo significa anzitutto fine della polis e significa appunto la
dispersione del pensiero greco e della vita greca su scala
cosmopolitica.
Alessandro Magno che si spinge fino all’India con le sue conquiste...
E allora l’uomo greco è sbilanciato, si sente fuori dai perimetri
rassicuranti dell’agorà cittadina, e ripiega allora verso il
cosmopolitismo dello stoicismo, o in maniera opposta (ma è un
opposto antitetico e solidale rispetto a questo) ripiega nell’interiorità
dell’individuo ormai estratto dalla comunità politica.
Cosmopolitismo e individualismo convivono nell’età ellenistica come opposti
interni allo stesso orizzonte culturale. Così si dice appunto nella manualistica, su cui ci
sarebbero ancora molte altre cose da dire, ma mi limito a questo.
[ 18:05 - 33:12 ]
Il senso del mio intervento vorrebbe essere allora questo: provare a vedere cosa
Epicuro direbbe se fosse qui con noi, e soprattutto provare a farlo smontando e
decostruendo criticamente questa visione preconfezionata che presenta
Epicuro come ormai esterno all’orizzonte della grecità, o addirittura come interno
all’epicureismo inteso come travisamento del messaggio di Epicuro stesso.
Allora dovrò provare a mostrare in che senso Epicuro (lungi
dall’essere esterno rispetto al pensiero greco) sia un
momento interno della grecità, e in che senso sia questi il
momento fondamentale di critica dell’epicureismo inteso
come travisamento del messaggio epicureo.
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Il
paradosso del nostro presente, detto in estrema sintesi, sta nel fatto che un’epoca
iperepicurea (nel senso dell’epcureismo come travisamento del messaggio di epicureo) è
per ciò stesso un’epoca che può essere fecondamente criticata tramite Epicuro,
stante il fatto che Epicuro critica ante litteram l’epicureismo.
Nella già citata lettera a Meneceo, Epicuro dice: “Quando noi parliamo di
edoné, non alludiamo a godimenti illimitati
piacere,
con ragazzi, con cibi
sontuosamente allestiti, come alcuni ci attribuiscono malignamente.
Prende le distanze rispetto a una visione degenerata che doveva già essere operativa
all’epoca, e che oggi giunge a compimento tramite l’identificazione dell’epicureismo
tout court con questa visione.
Il piacere (edoné) dice Epicuro, è invece la misura, il
godimento limitato.
È il toglimento di una situazione di sofferenza, il
raggiungimento di una situazione di imperturbabilità che ci
permetta di essere sereni e di godere della vita.
La nostra è un’epoca iper-epicurea.
È un secondo ellenismo per molti versi, è l’epoca della cosmopoli globalizzata, in cui
appunto
si fugge nello spazio infinito del mondo, o si ripiega invece
in maniera opposta, ma segretamente complementare,
nello spazio minimo dell’individuo isolato, frammentato,
atomizzato.
La società Tatcheriana, che non esiste: vi sono solo gli individui.
Cosmopoli e individuo.
Epoca di un secondo ellenismo evidente, mi pare.
E allora può essere utile tornare a svolgere alcune considerazioni proprio a partire da
Epicuro, sull’epoca di questo secondo ellenismo.
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Ma prima di arrivare a questo, vi chiedo di prestare un po’ di attenzione su questo tema,
che per me è decisivo anche per arrivare a parlare del nostro presente.
La Grecità di Epicuro.
In che senso Epicuro è un pensatore quintessnzialmente greco, che metabolizza il
messaggio della polis greca, della polis classica, se volete, e non è invece il momento di
tramonto?
Per capire questo punto bisogna intendersi su qual è l’essenza del mondo greco, e su
qual è l’essenza del pensiero greco.
Anche qui non bisogna cedere alle lusinghe e alle tentazioni e alle alcinesche seduzioni
dell’idiotismo specialistico.
Di quell’idiotismo specialistico che a questo punto dovrebbe intervenire e bloccarci,
dicendoci: “non puoi occuparti del pensiero greco nella sua complessità, puoi conoscere
solo limitati aspetti, mai la totalità.”
L’idiotismo specialistico che oggi, ad esempio, regna sovrano nelle università,
che dovrebbero essere luoghi di riproduzione del sapere e che invece diventano
spesso luoghi di riproduzione del potere.
“Il cuore della grecità”.
Nel libro prima richiamato Minima mercatalia ho affrontato questo tema, argomentando
più a fondo le tesi che qui esporrò in maniera succinta e telegrafica.
Il cuore della grecità sta in questo: nella metafisica della
giusta misura, ovvero nel senso del giusto limite.
Il pensiero greco a ogni latitudine, in ogni polis, in ogni momento storico,
è un pensiero
della misura .
Potremmo anzi dire che il concetto di misura e di limite (metron peras per usare la sintassi
greca) sono concetti che svolgono la funzione di simboli collettivi, di funzioni sociali
collettive, alla cui luce si possono interpretare fecondamente tutte le realizzazioni
maturate in terra greca.
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La cultura greca è una cultura del limite, e lo si evince benissimo se ad esempio pensate
alle varie massime che hanno scolpito l’immaginario greco e che continuano a parlare.
Parole che purtroppo sono mai quanto oggi verba ventis...
Metron ariston, la misura è la cosa migliore.
Meden agam , nulla di troppo: così sul tempio di Delfi.
Nulla di troppo, la misura è la cosa migliore.
Se si leggono i cosiddetti “Sette savi”, si trova continuamente declinato questo tema
della giusta misura, no?
La giusta misura come distanza dagli eccessi, vuoi
dall’iperbole del troppo, vuoi dal difetto del troppo poco.
Uno dei sette savi, Talete, quando gli fu chiesto “qual è la polis migliore?”
rispose “quella in cui non vi sono cittadini nè troppo ricchi, nè troppo poveri”
Appunto, il criterio della giusta misura.
Già da questo capite come viviamo in un’epoca totalmente anti-greca.
Totalmente.
Il fatto stesso che
sui manuali di storia della filosofia il pensiero greco venga
sempre presentato in una rimozione esiziale della sua dimensione politica
e sociale , e che i pensatori greci vengano presentati come scienziati
ancora imperfetti, artigianali, che preparano l’avvento della scienza
perfetta contemporanea, in una rimozione totale di questa dimensione
politica e sociale di una giusta misura , è significativo.
Marx avrebbe detto che
è l’esempio riuscito dell’ideologia che deve
rimuovere il problema, renderlo invisibile sempre.
Tutti i pensatori greci, anche i cosiddetti presocratici, sono pensatori della
comunità.
Sono pensatori politici.
Anche Epicuro, che è apparentemente un pensatore apolitico (come viene talvolta
definito), in realtà ha una sua visione politica , che è quella del
ripiegamento in un’epoca in cui la politica è impossibile per via della
globalizzazione o del cosmopolitismo ,
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come si potrebbe dire in riferimento a quel momento storico.
La politica deve rinchiudersi nel giardino degli amici, cioè
di una comunità protetta in cui la polis greca torni a
rinascere in una forma che io nei miei testi, richiamandomi anche a Costanzo Preve,
chiamo
“amicalismo ”: una forma di comunitarismo che risorge come amicalismo
all’interno del giardino.
Il messaggio greco è quello della giusta misura, e si potrebbero fare in questo caso 1000
esempi diversi, pensate anche solo all’arte greca:
l’arte greca è la ricerca
dell’armonia, della giusta misura delle parti, della porporzione.
Pensate anche solo
(ed è emblematico per quella ideologia di cui ormai dicevo)
al fatto che i pitagorici sui
manuali di storia della filosofia vengano presentati quasi come se fossero dei docenti
ordinari di matematica dei dipartimenti universitari, e si
rimuova invece il fatto che
erano dei legislatori sociali operanti a Crotone.
I pitagorici avevano individuato nell’aritmos, il numero, il principio di tutte le cose, perchè
soltanto il numero permetteva di porre in essere una giusta misura sociale in grado di
garantire l’equilibrio stabile nella polis di Crotone.
Per questo i pitagorici avversavano la città di Sipari, che invece era nota e ancora
proverbialmente lo è per la sua dissolutezza su misura.
Questo dicevano i pitagorici.
Aristotele nella metafisica ci ricorda che la prima coppia pitagorica è quella limiteillimitatezza.
Dove il limite è il principio positivo e l’illimite quello negativo.
Ma si pensi ancora come Eraclito, il pensatore che viene presentato come
antidemocratico e come aristocratico che rigetta la vita comunitaria nella polis, fosse in
realtà è un comunitario al mille.
E in uno dei suoi frammenti dice che il sole non varcherà la giusta misura, se no Dike lo
punirà.
Metaforicamente il tema del peras, del limite, è continuamente ribadito.
Pensate ancora a Platone: nel Filebo Platone costruisce un dialogo magnifico tutto
incentrato sull’idea del giusto limite, che poi nella Repubblica viene anche delineato sul
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piano politico, con una critica sferzante a quella che Platone chiama pleonektein (28:13),
altro tema decisivo per capire il nostro presente.
Questo pleonektein, il voler avere di più, è la cifra del
nostro presente, nell’epoca del secondo ellenismo.
Ma pensate ad Aritsotele nella politica.
Aristotele distingue tra crematistica ed economia: l’economia è la ricerca della misura
interna all’oikos, alla casa, è la giusta amministrazione sociale comunitaria della
comunità domestica e civile.
Invece la crematistica, che è quella che noi per inciso
chiamiamo “economia”, è la ricerca dell’arricchimento fine
a sè stesso, e perciò stesso non ha limiti, dice Aristotele.
Deve essere demonizzata in ogni modo, perchè porta alla
dissoluzione della comunità,
dove appunto se ogni individuo cerca il bonum commune cerca il proprio arricchimento
illimitato, per ciò stesso l’unità comunitaria viene infranta, viene distrutta sotto la spinta
centrifuga dell’illimitatezza dell’arricchimento.
Ma pensate ancora alla tragedia, che in molti giustamente hanno identificato con la
realizzazione più stupenda fiorita in terra greca.
La tragedia, in tutte le sue manifestazioni come Eschilo, Eurpide, Sofocle, è sempre
incentrata sull’idea di uno
scavalcamento della giusta misura, causato dalla
hybris, la tracotanza umana, in forza della quale l‘uomo trascende i propri limiti di
ente finito e vuole diventare un dio.
La dismisura ce si realizza e che fa scaturire l’evento
tragico.
I persiani di Eschilo, o la vicenda edipica...
La vicenda edipica è un vicenda di dismisura: si uccide il padre e si gode della madre.
Quale violazione maggiore del giusto limite? Godere con la madre significa godere
illimitatamente, senza più alcuna autorità, senza più alcun limite.
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Cosa centra Epicuro in tutto questo? Si può dire che Epicuro sia esterno a questo
orizzonte e quindi non sia greco, si può dire che sia fuori da questo orizzonte di senso? Io
credo di no.
E’ chiaro che
Epicuro, come già si diceva, è nel momento in cui la polis è al
tramonto, r registra drammaticamente questo declino della polis greca.
Epicuro effettivamente non mette a tema una vita politica in cui i cittadini si trovano e
decidono sovranamente tramite il dialogo filosofico, che è il prodotto più bello della
democrazia ateniese oltretutto, no?
Socrate, che non era per la democrazia, nondimeno, è stato possibile grazie alla
democrazia.
Il principio del logon didonai, il rendere ragione dialogicamente.
Quando questo non c’e più, quando la polis non c’è più, la vita politica non è più
possibile, ma epicuro cerca di ricomporla all’interno del giardino, in una raccolta cerchia
di amici che dialogano filosoficamente tra loro, che ricostituiscono in una comunità
nell’epoca della dissoluzione della comunità.
Dicevo che epicuro ha registrato in maniera drammatica la fine della
polis , lo svuotamento di senso di un mondo in cui viene meno la vita
politica e comunitaria, in cui la norma dell’illimitatezza prende il
sopravvento.
I grandi principi della filosofia epicurea (l’atomismo): i soli principi che epicuro ammette
sono infatti gli atomi e il vuoto, sono al tempo stesso una grandiosa metafora della
dissoluzione della comunità, di un mondo cioè in cui i singoli individui precipitano nel
vuoto, in cui manca una dimensione comunitaria.
Si possono solo casualmente ricomporre aggregati comunitari quando singoli atomi si
incontrano e danno luogo agli aggregati.
Non è solo una visione fisica quella di Epicuro, incorpora anche un elemento chiaramente
sociale e politco, l’epoca dello svuotamento di senso del venire meno della comunità si
caratterizza proprio per questo precipitare nel vuoto degli individui, che non hanno
più alcuna dimensione comunitaria e autentica.
Si smarriscono nella cosmopoli illimitata, che è una sorta di atomistica delle solitudini.
Uso qui l’immagine bellissima di Hegel:
atomistica delle solitudini.
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Un composto atomistico di atomi individuali e reciprocamente indifferenti che danno
luogo a quella che con formula abusata siamo soliti chiamare globalizzazione, e che io
preferisco chiamare con formula meno fortunata
universalizzazione degli egoismi.
Questo è la globalizzazione,
l’individualismo atomistico portato su scala
globale.
[ 33:12 - 44:25 ]
Epicuro registra in maniera tragica il venir meno della polis, atomi e vuoto, e nella lettera
a Meneceo lo mette a tema non già sul piano fisico degli atomi e del vuoto, (dovete
leggere la lettera ad Erodoto per vedere invece in atto questo grandioso dispositivo fisico
degli atomi e del vuoto), ma nella lettera a Meneceo,
Epicuro mette a tema la fine della polis e il sopravvivere di
essa all’interno del giardino.
Epicuro fa rivivere all’interno del Kepos, il suo giardino di amici, gli
ideali greci ormai dissolti nello spazio infinito della cosmopoli: il
comunitarismo, cerchia di amici, e poi la giusta misura.
Qui effettivamente si registra, secondo me, il carattere quintessenzialmente greco della
filosofia di Epicuro:
la giusta misura permane stabilmente.
Certo, permane in forma ormai non più sociale politica, non è più il valore fondamentale
della koinonia, della comunità politica, com’era ai tempi di Platone o di Socrate.
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Socrate che nel Critone rifiuta di evadere dalla prigione che pure lo tiene imprigionato
ingiustamente perchè ciò lo porterebbe a commettere una adichia, un’ ingiustizia,contro
la polis e le leggi della patria.
In quel dialogo, con una magnifica porsopopea, prendono a parlare e a rivolgersi a
Socrate.
Socrate, figlio della comunità, non può tradirne le leggi: come
individuo esiste all’interno della comunità e per essa.
Ecco, nell’epoca di Epicuro questo è impensabile, i valori della polis devono essere
ricalibrati su scala individuale, e allora troviamo il valore della giusta misura, che in
Epicuro diventa orientamento ideale della condotta di vita degli individui che si
trovano a convivere nello spazio chiuso del giardino.
Epicuro usa la parola metriotes, la giusta misura.
Risuona nella parola il timbro della mesotes aristotelica, la giusta misura.
Ogni virtù, diceva Aristotele, è giusta misura tra gli eccessi.
Il coraggio ad esempio è giusta misura tra la viltà e l’arditezza.
La generosità è giusta misura tra l’avarizia e l’eccessiva prodigalità, la dilapidazione dei
propri beni.
Epicuro metabolizza tutto questo, metabolizza la metafisica greca della misura nella
forma della metriotes: la giusta misura nella condotta individuale, con cui critica il proprio
tempo, e con cui critica quella direzione che certa sua filosofia aveva preso in forza del
fraintendimento di cui dicevamo sopra.
Allora nella lettera a Meneceo ci è ricordata. Dice Epicuro:
edonè non è un piacere cinetico
per noi il piacere
(registrate questa espressione).
Non è il piacere della rincorsa di godimenti illimitati sempre rinascenti, non è
ricerca del piacere illimitato.
Per noi il piacere è il piacere catastematico , dice Epicuro, piacere
stabile, fisso, di chi soddisfa i propri bisogni naturali, senza rincorrere le false illusioni dei
piaceri indotti, i piaceri non necessari, i desideri non naturali nè necessari.
L’individuo deve appunto auto-limitarsi.
Tutta la galassia concettuale della filosofia di Epicuro è sempre giocata sul
raggiungimento della felicità superando gli ostacoli che si frappongono ad essa. Il
piacere inteso come edonè è pensato come alupia, come assenza di dolore.
La felicità è pensata come atarassia, cioè assenza di turbamento.
E così via.
L’alpha privativo presso i greci indica sempre presso i greci una situazione di rivazione.
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La felicità è intesa da Epicuro in senso negativo: bisogna
liberarsi di qualcosa, ristabilire una misura nel mare
magnum dei desideri illimitati e dei turbamenti illimitati che
attraversano l’animo umano.
Bisogna imporre la legge della giusta misura in noi stessi.
Questo tema ricorre continuamente, lo trovate nelle lettere e anche nelle cosiddette
sentenze di Epicuro. Non sto a fare citazioni, ma le potete trovare facilmente.
La filosofia di Epicuro ha come proprio cardine l’idea del
calcolo del piaceri: ricercare quei piaceri naturali e
necessari, rifuggendo invece da quelli non naturali nè
necessari.
I piaceri naturali e necessari sono quelli dando soddisfazione ai quali noi siamo in pace
con noi stessi, e gli esempi che fa sono emblematici: soddisfare la fame quando si ha
fame, soddisfare la sete quando si ha sete, non godere illimitatamente con banchetti
infiniti.
O bere bevande raffinate e dispendiose.
Quelli sono bisogni indotti, diremmo oggi, che l’industria della cultura e della pubblicità
continuamente rilancia per mettere in moto il cattivo infinito che epicuro stigmatizza.
Questa misura come cardine della filosofia di Epicuro ritorna nel suo pensiero.
Anche nel modo in cui Epicuro si riporta al dolore, un tema decisivo nella sua filosofia: il
dolore, dice Epicuro, non deve indurre turbamento, non deve indurre tarakè, perchè se è
lungo non è intenso, e se è intenso è breve.
Quindi è limitato sempre, il dolore.
E lo stesso dicasi per la morte.
Perchè la morte non la incontriamo mai: quando ci siamo noi non c’è lei , e quando c’è
lei non ci siamo noi.
Argomento invero un po’ capzioso che evita di dirci il momento in cui effettivamente ci
diamo il cambio con la morte, e non a caso Heidegger in essere tempo criticherà questa
visione di Epicuro, ma qui traspare un ottimismo esistenziale quasi esasperato.
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Nell’idea che sia nelle nostre mani la possibilità di essere felici se solo
riusciamo a porci dei limiti, se solo riusciamo a comprendere la natura di
enti limitati e finiti quali siamo, ed evitiamo la brama dell’illimitatezza, che
non ci compete in quanto uomini.
Siamo finiti, e dobbiamo contentarci della nostra finitezza.
In questo modo, così si conclude l’epistola a Meneceo, potremmo godere di beni infiniti
essendo finiti, nella nostra finitezza.
Beni imperituri da un certo punto di vista.
Questo è il modo in cui Epicuro resta legato all’ideale greco, profondamente legato alla
grecità, in maniera tragica, testimoniale, come critico di un tempo che segna il tramonto
della grecità, l’epoca dell’ellenismo.
Epicuro è un critico dell’ellenismo, potremmo anche dire forzando un po’ la mano.
Crtica l’ellenismo riproponendo in nuova forma, declinando in modo originale i grandi
temi della filosofia greca.
Ma cos’ha allora da dirci Epicuro oggi, cos’ha da
dirci oggi Epicuro, nell’odierna notte del mondo,
come la chiama Heidegger?
Weltnacht, la notte del mondo in cui tutto è buio, c’è un buio totale, manca
l’illuminazione.
Epicuro oggi ci aiuta a comprendere, io credo, i tratti di quello che ho definito un
secondo ellenismo: viviamo nell’epoca della cosmopoli globalizzata dell’individualismo
che convive in questa cosmopoli.
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Viviamo se volete nell’epoca dell’epicureismo realizzato, nel senso della
degenerazione del messaggio di Epicuro , e quindi nell’epoca in cui più
proficuamente può esercitarsi la critica svolta da Epicuro all’epicureismo già allora
nascente.
Questo significa essere epicurei dal mio punto di vista: reintrodurre il senso
della misura nell’epoca odierna dell’illimitatezza.
Stiamo vivendo in un ‘epoca di epicureismo realizzato nel senso deteriore, nel senso
della ????? (42:11???), come dicevo, dell’illimitatezza divenuta il solo senso di un mondo
insensato... Divenuta la logica illogica del regno animale dello spirito come o chiama
Hegel, o dell’epoca della compiuta peccaminosità, come lo chiama Fichte.
Il nostro è un tempo dell’illimitatezza.
Più di ogni mia parola può valere a darvi il segno di questa illimitatezza,
la strategia
della dittatura della pubblicità, che continuamente insiste in forme
maniacali sull’illimitatezza.
Quante volte la pubblicità fa perno su questa illimitatezza... tutto senza limiti, telefonate
senza limiti, internet senza limiti... e così via.
E’ il filo rosso che collega tutte le prestazioni eterogenee e proteiformi dell’industria
culturale.
Il nostro tempo è un tempo dell’illimitatezza in cui tutto va bene purchè ce ne sia sempre
di più, come ben sapete.
Illimitatezza domina su tutto il giro d’orizzonte.
E’ un tempo assolutamente epicureo nel senso deteriore del termine.
E qui, può essere utile richiamarsi ancora alla grecità, qui bisogna ritornare a fare i conti
con i greci,
Come in più occasioni mi è capitato di sostenere, se devo autoqualificarmi (ma da Freud
in poi sappiamo che le autoqualificazione del soggetto vanno prese con molta
moderazione) io mi immagino come un pensatore piccolo o grande non importa, sta ad
altri giudicarlo.
Mi sento un nano sulle spalle di giganti... ma appunto mi reputo un pensatore
rivoluzionario e conservatore.
Rivoluzionario perchè rigetto totalmente l’epoca dell’odierna illimitatezza divenuta
mondo, e penso che per rigettarlo si debba essere conservatori, cioè riacquistare il
grande insegnamento della metafisica greca della giusta misura, far sì che torni a
dominare sotto il sole il senso della misura oggi perduto.
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[ 44:25 - 01:02:15 ]
Oggi viviamo in un’epoca di epicureismo realizzato, se volete in
un’epoca
profondamente edipica.
E qui mi ricollego al grande tema edipico a cui facevo riferimento.
La vicenda edipica la conosciamo tutti, uno dei grandi patrimoni culturali
dell’occidente.
La tragedia edipica è una tragedia che come tutte le tragedie greche, ma forse in misura
ancora maggiore, mette a tema l’illimitatezza.
Edipo si macchia di due colpe abominevoli all’insegna dell’illimitatezza.
Uccide il padre, cioè l’idea della giusta misura, del limite, del metro, e gode con la
madre.
Godimento illimitato, senza più freni inibitori.
E il padre, è sempre una funzione di limite.
Il padre, dirà Lacan nel 900, è colui che non oppone il desiderio e la legge, ma li fa stare
assieme, fa coesistere il desiderio con la legge.
Il padre è quello che ti dice cosa puoi fare e cosa non puoi fare. Limita il tuo desiderio, gli
impedisce di espandersi in forma smisurata. Ucciso il padre, tutto diventa possibile.
Per questo dalla generazione del ‘68 in poi viviamo in un’epoca assolutamente edipica:
ucciso il padre diventa tutto possibile, no?
Non c’è più l’autorità, c’è godimento illimitato, tutto e subito, edonismo spasmodico, e
così via.
Sono i mali del nostro tempo che si traducono puntualmente in alcune delle principali
patologie del nostro presente: tossicodipendenza, bulimia, e così via...
Sono tutti mali all’insegna dell’illimitatezza, del sempre di più, della pleonexia anche,
platonicamente il voler avere sempre di più.
Oggi viviamo in un tempo edipico perchè appunto, ucciso il padre,
domina l’illimitatezza su tutto il giro d’orizzonte.
Quando Nietzsche metteva a tema la
morte di Dio , infondo io credo che stesse
dicendo qualcosa di analogo a quando Lacan nel ‘900 diceva l’evaporazione del padre:
Dio in qualche senso è l’equivalente funzionale di senso del padre,
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colui che pone dei valori e dei limiti , che ti ricorda che sei umano e
finito , avrebbe detto Epicuro.
La cui teologia è pure sideralmente distante da quella cristiana.
Ma Epicuro aveva un senso fortissimo del limite, come abbiamo detto prima.
Oggi invece, ucciso il padre, morto Dio, siamo nell’epoca del
godimento illimitato e cieco.
SI gode illimitatamente: tutto va bene purché ve ne sia sempre di più.
Potremmo dire con epicuro che oggi l’umanità si è consegnata ciecamente ai desideri
non naturali e non necessari, abbandonando invece la ricerca dei desideri naturali e
necessari.
La strategia del consumismo, fase suprema del capitalismo
potremmo dire, sta nel fatto che si gioca appunto su questo rilancio
infinito e illimitato dei desideri: nella strategia della pubblicità è
evidente in questo, no?
Si rilancia di continuo il desiderare illimitato.
La stessa strategia del consumismo è quella per cui si promette la salvezza nell’oggetto
del godimento del consumo, il quale torna ogni volta a riapparire, non appena è
consumato, nella circolazione.
Questo meccanismo è perverso, perchè promette di dare soddisfazione, e poi la nega
continuamente perché fa risorgere il desiderio dell’oggetto consumato e rinascente nella
circolazione.
E’ una danza macabra di stati ed azioni che si ripetono tutte uguali.
E’ una fase appunto che io definisco
Kierkegaard,
“la fase estetica del capitalismo” con
la fase estetica è quella dei don giovani postmoderni
che cercano la rincorsa del nuovo sempre uguale a sè stesso.
Don Giovanni infondo fa una cosa sola, sempre la stessa: è un nuovo che sempre o
stesso, seduce continuamente, gode illimitatamente, impedendo appunto il trapasso alla
superiore fase etica, quella della stabilità affettiva e sentimentale, o alla fase religiosa,
quella di una credenza stabile, che ti ricorda il tuo senso della finitezza.
Ora, Epicuro da questo punto di vista è un maestro di misura, e mi avvio alla conclusione.
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E’ un maestro di misura per molti motivi, ed è un maestro di misura perché ci aiuta a
ricordare il senso del limite, a potremmo dire con Heidegger, la funzione di un pensiero
rammemorante, che ricorda qualcosa nell’epoca della sua essenza.
Oggi la condizione neoliberale, propria di questa secondo ellenismo, si
caratterizza per essere una situazione malinconica...
Il malinconico, dice Freud, è colui che sente l’assenza di qualcosa, ma non sa
esattamente cosa sia.
Oggi questo assente si declina in molti modi.
Io credo che sia la politica anzitutto, come forza di gestire comunitariamente le nostre
vite, ma poi anche il senso del limite e della giusta misura.
Epicuro ci ricorda invece questo valore fondamentale.
Ci aiuta a ripensarlo criticamente.
Oggi viviamo nell’epoca del supplizio di Tantalo perfettamente realizzato.
E’ curioso il fatto, per tornare all’etica greca e allo spirito del comunitarismo come mi
piace dire variando il tutolo di un’importante pera novecentesca di Weber.
È interessante il fatto che i greci, come notava Hegel nella sua lezione di estetica, i greci
concepivano i supplizi inflitti dagli dei ai mortali sempre nella forma dell’illimitatezza.
Sisifo, che illimitatamente è costretto a riportare il macigno in cima alla montagna...
Prometeo, il cui fegato viene illimitatamente divorato dalle aquile...
Ma poi ancora Tantalo, che illimitatamente prova ad estinguere la sua sete senza riuscirvi.
Sono supplizi, dice Hegel, del cattivo infinito, dell’andare sempre oltre.
La nostra società dimentica del valore della misura, ha assunto invece questa
insensatezza del cattivo infinito come solo orizzonte di senso.
Il supplizio di Tantalo realizzato si chiama società dei consumi. Si chiama Cocacola.
PIù ne bevi, e più ne berresti: la tua sete rinasce sempre da capo.
Il segreto della Cocacola, e su questo il filosofo slavo Jujeck ha scritto pagine molto belle
e caustiche, sta nel fatto che la sua essenza dove sta?
Nessuno sa dov’è l’essenza della Cocacola.
La Coca-Zero non ha caffeina, zucchero nè niente: cosa c’è?
Ma tu la bevi perchè è un status symbol, ma anche perchè poi rigenera la tua sete, dietro
la promessa di soddisfarla.
Questo è il segreto dell’illimitatezza della società dei consumi che apertamente promette
la soddisfazione dei desideri.
Per la prima volta nella storia umana la salvezza è promessa nell’hic
et nunc, nell’immanenza del godimento immanente terreno ,
e poi segretamente viene invece coltivato l’obiettivo opposto, che il
desiderio non si sazi mai, che risorga sempre il nuovo, in modo che
continuamente ci si affacci al rito del consumo.
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Appunto nell’epoca del supplizio di Tantalo, Epicuro è un maestro di misura, un maestro di
giusta misura a cui bisogna io credo ispirarsi nell’epoca del secondo ellenismo.
La nostra epoca del secondo ellenismo può essere effettivamente inquadrata, io credo, a
partire da Epicuro.
Già lo dicevo: cosmopoli e individuo.
L’odierna società è composta essenzialmente da individui isolati, addirittura privi di un
giardino in cui riflettere, appunto le forme delle sociale sono sempre più disertate
tragicamente, sempre più gli individui sono ridotti ad atomi isolati.
Mi capita spesso sulla metro di Milano di vedere individui che hanno nelle orecchie cuffie
musicali e che non ti guardano neanche n faccia.
C’è una diserzione del sociale terribile, no?
E’ quella che i sociologi chiamano la folla solitaria.
Essere soli pur all’interno in una metropoli di milioni di abitanti: il paradosso
della società contemporanea, atomi isolati.
Del resto Robinson Crusoe è il grande paradigma del soggetto moderno isolato, che
instaura rapporti con l’altro al solo fine di massimizzare il proprio profitto individuale, a
scapito del povero venerdì di turno.
Robinson Crusoe racconta che una volta ritornato a Londra, si sentiva meno solo sull’isola,
che non nella metropoli londinese, dove appunto è solo in mezzo a centinaia di migliaia
di persone come lui.
Questa è la società odierna: individui.
E? quella che io, variando la formula del sociologo Baumann, non esiterei a definire la
società libida, non la società liquida.
Perchè?
Perchè è composta da singoli individui che patiscono sulla loro pelle tutte le
contraddizioni di questa illimitatezza, il sistema della produzione illimitata che distrugge la
vita umana nel pianeta.
Ne percepiscono le contraddizioni, ma al tempo stesso sono impossibilitati a reagire a
questo, proprio perchè sono abbandonati alla loro solitudine: da soli non si può cambiare
il mondo, evidentemente.
Il segreto è questo, lasciare gli individui soli in sè stessi in
modo che non possano creare composti atomici, avrebbe
detto Epicuro, in grado di reagire.
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Per questo la società è fatta di singoli Robinson Crusoe, di singoli atomi di epicuro se
volete, sempre più adirati , sempre più consapevoli, sempre più libidi appunto, per le
contraddizioni che patiscono.
Precariato, miseria, e così via.
Ingiustizie sempre più conclamate ed evidenti... e poi non hanno alcuna possibilità di
agire.
Oggi ci sarebbe paradossalmente un tasso di ira e di senso delle ingiustizie che
basterebbe da solo a far esplodere 10 rivoluzioni francesi e 15 rivoluzioni russe, io credo.
E invece resta rinchiuso nell’antro delle coscienze degli individui. Questo è il paradosso
del nostro tempo.
La società degli individui isolati.
Io credo che Epicuro questo ci insegni: a riscoprire il valore
della comunità nell’epoca della sua dissoluzione, e a
partire da quella comunità di amici provare a ricostruire il
senso di un mondo diverso.
Diceva Italo Calvino nelle Città invisibili che questo è l’inferno dei viventi, e il solo nostro
compito è trovare qualcosa di buono e positivo nell’inferno e di farlo vivere, crescere,
dargli possibilità di sviluppo.
Ora, è proprio questo che Epicuro ha vissuto nell’epoca dell’ellenismo, e che anche noi
stimo vivendo nell’epoca del secondo ellenismo.
Epicuro è maestro di resistenza, se volete.
Una comunità di resistenti nel giardino, che si rifiuta di aderire alle
logiche del cosmopolitismo oggi chiamato globalizzazione, e che
prova a ripensare una comunità umana più alta della miseria
presente.
La lettera a Meneceo dice ad un certo punto nella sua parte finale, facendo un
grandissimo elogio della libertà umana, che bisogna rigettare le idee dei filosofi della
natura, e diremmo noi oggi degli scienziati, che sono i teologi del nostro tempo e hanno
la risposta a tutto...
La scienza oggi si erge a solo sapere consentito, deridendo tutte le altre forme di sapere,
compresa la filosofia.
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Gli scienziati, dice Epicuro (filosofi della natura li chiamava), non vanno presi sul serio,
perchè gli scienziati ti insegnano il senso della necessità del tutto, ti insegnano quella che
Epicuro chiama l’heimarmene, cioè il fato, il destino.
Ma piuttosto di credere al fato degli scienziati, è meglio a credere nei miti degli dei, se
non altro gli dei possono essere rabboniti tramite preghiere.
Si può cambiare il mondo pregando gli dei, quando invece il fato degli scienziati ti
inchioda alla necessità del tutto.
Anche qui, un attualissimo Epicuro.
Oggi, quante volte sentiamo il mondo dell’ingiustizia generale, che è quello in cui stiamo
vivendo, non certo elogiato come il migliore dei mondi possibili ma presentato come se
fosse il solo possibile, come se non si dessero alternative rispetto all’insensatezza evidente
ma presentata come destino ineluttabile?
Epicuro appunto ci sveglia da questo sonno dogmatico, ci ricorda il senso della
possibilità, il senso che appunto possibile resistere, rovesciando il titolo di un
fortunato best-seller del nostro tempo, che invece dice che resistere non serve a nulla...
Resistere serve eccome, guai a quell’umanità che non
resistesse.
Resistere è fondamentale oggi, nell’epoca della logica illogica della produzione illimitata.
Epicuro ci insegna esattamente questo: il senso del limite, e ci insegna a riscoprire il senso
della possibilità: questo è un altro tema fondamentale.
Epicuro è un pensatore della possibilità , e questo è il motivo per inciso per cui
Marx preferiva l’atomismo di Epicuro a quello di Democrito, che a suo dire non lasciava
spazio alla libera azione umana.
Quella di Epicuro invece è una filosofia della libertà umana, della possibilità in situazione.
Una possibilità che agisce all’interno di situazioni concrete, e si misura in tali situazioni.
Epicuro ci insegna che è possibile cambiare le cose.
Del resto non è possibile cambiare le cose se si pensa che non possano
essere cambiate.
Questo lo diceva già molto bene un filosofo a me molto caro, Tommaso Campanella, che
diceva: Homo non potest facere quod non credit posse facere.
L’uomo no può fare ciò che crede non si possa fare.
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Per cui oggi il fatalismo dello spettatore rende fatale il
mondo,
è una profezia che si autoadempia.
Pensando che il mondo sia necessario (quella che io chiamo la
mistica della
necessità ), pensando che sia necessario così com’è e non possano darsi alternative, il
mondo diventa necessario, diventa fatale... se lo pensiamo tale.
E la dittatura della pubblicità, la manipolazione organizzata di una politica che oggi non
ha altro scopo se non riprodurre tautologicamente ciò che c’è già, assecondare il nostro
tempo...
La politica continuamente ci ricorda questo teorema, per cui
non c’è niente da fare, non esistono alternative.
Del resto, i tedeschi hanno l’abitudine di nominare la parola più brutta dell’anno: hanno
questa bizzarra usanza.
Nel 2010 è stata nominata come parola più brutta dell’anno la parola più brutta
dell’anno la parola in cui quando si compendia il senso dell’operato del cancelliere
Merkel, alternativlos, senza alternative.
Questa è la frase della politica, ma anche di quella italiana.
Epicuro invece disincanta il mondo nel senso che spezza questa mistica della necessità.
Per questo epicuro piaceva a Marx.
Ed è questo anche il senso in cui io personalmente mi professo epicureo contro
l’epicureismo dilagante, nel tempo della notte del mondo.
Io credo che si tratti, già questa sera vedo molta gente interessata, di ricostituire un
giardino fatto di amici, ???phyluou??? diceva Epicuro, che tornino a pensare sulle sorti di
sè e del mondo, e tornino a ripensare alla felicità dell’essere finito che l’uomo nell’epoca
invece dell’illimitatezza che porta alla distruzione dell’uomo.
In questo senso io, variando la nota formula che usava Benedetto Croce, “perchè non
possiamo non dirci cristiani”, dico:
non possiamo non dirci epicurei.
E’ una necessità morale, etica, politica se volete.
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INTERVENTI DAL PUBBLICO
[ 01:03:41 - 01:17:00 ]
Diego Fusaro:
Mi provochi nel senso migliore del termine, chiamare fuori ad esporsi su temi che
richiederebbero altre conferenze.
Molto brevemente: a me son sempre piaciuti i filosofi coerenti, e anche gli uomini
coerenti, per questo mi piace dirlo soprattutto qui nel Salento che ha prodotto un grande
filosofo coerente, Vannini.
Coerente fino in fondo ha patito la pena massima sulla propria pelle, la morte, ed è
quindi un esempio magnifico di coerenza.
A me piacciono i filosofi coerenti ma ce ne sono tanti di filosofi coerenti: Socrate,
Gramsci, e tantissimi altri.
Perchè appunto, come Platone, Socrate è un uomo musicale, produce nella sua vita una
magnifica armonia, un magnifico suono, perchè
si accordano parole e azioni.
Il filosofo deve essere coerente: una filosofia in cui l’autore non rispetti i
principi professati è una filosofia che si auto-contraddice.
Quindi penso che la coerenza sia un valore fondamentale. Anche Kant nella seconda
critica lo dice che il primo dovere del filosofo è la coerenza.
Poi sul tema dell’europa si aprirebbe un tema di discussione molto ampio.
Non mi si fraintenda: non sono contro l’europa, anzi, sono assolutamente un sostenitore
dell’europa nel senso di Erasmo da Rotterdam e di Spinelli, cioè dei grandi teorici che
hanno pensato l’ europa come una comunità di stati liberi e uguali che si
riconoscano e agiscano insieme , che progettino assieme il futuro dei popoli.
Ed è proprio perchè amo l’europa che sono contro l’europa in cui siamo oggi, che è
l’esatto contrario.
Non è qualcosa di un po’ diverso e perfezionabile, è l’esatto contrario.
L’europa oggi esiste come moneta unica e basta.
Esiste come sistema eurocratico con cui tramite la coartazione dell’economia e dell’euro
si esercita la violenza, evidentemente, sui popoli più deboli.
Su quello greco in maniera lampante.
La violenza ha cambiato forma nella storia: la violenza ai tempi di Hitler si esercitava con
Auschwitz e con queste atrocità terribili, come nella Russia stalinista si esercitava col
gulag, come in passato si esercitava con le bombe atomiche e così via.
Oggi la violenza diventa economica. Cambia forma.
La violenza si presenta preordinando lo spazio di possibilità dell’azione degli individui.
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Il fatto che le sacre leggi dello spred del mercato non producano le pile di cadaveri che
vedete sui libri di storia riferite ad Auschwitz o ai gulag, non vuol dire che i cadaveri non
ci siano, semplicemente non si vedono.
Del resto Marx nel capitale dice che la vera cifra del mondo capitalistico è che le catene
diventano invisibili... ma ci sono, non scompaiono.
Sono invisibili perché economiche.
Non hai bisogno di coartare un uomo a fare una cosa costringendolo col gulag o con la
pistola.
Economicamente gli neghi alternative, a meno che qualcuno non mi venga a dire che se
le persone fossero veramente libere, andrebbero comunque a lavorare in un callcenter, o
a fare altre cose che dal mio punto di vista solo una coartazione di tipo economico
costringe a fare,
Tornando alla questione euro, io credo che l’euro oggi on sia una moneta, è un
modo di governo, è un modo di governo con cui si impongono in forma
economica rapporti di forza e di dominio.
Per farla molto più esplicita, io credo che la Germania oggi tramite l’euro stia riuscendo a
fare ciò che non era riuscita a fare coi carri armati.
Questo è il punto. Asservire i popoli in forme terribili. Per cui io sono sempre stupito
quando vedo nuovi popoli che entrano in europa ( per esempio la Croazia).
Mi viene sempre da salutarli con le parole di Dante: lasciate ogni speranza voi che
entrate...
Questo è il punto.
Ora, se vogliamo
un’europa di stati che si riconoscano veramente, in cui gli
individui siano liberi di gestire democraticamente la loro vita laddove invece
oggi è gestita non democraticamente, pechè sapere che qualunque decisione noi
prendiamo non vale perchè ci sono i mercati le agenzie di rating e la Banca Centrale
Europea che decidono sovranamente.
Ora, se vogliamo uscire da questa situazione, dobbiamo uscire da questa europa.
Non per tornare agli stati nazionali nel senso peggiore del termine, ma
per provare,
uscendo dall’europa, a ricostruire un’altra europa, basata appunto
su quel libero riconoscimento di popoli liberi ed uguali che oggi
manca.
Del resto, ci sono tre tipi di capitalismo oggi in circolazione.
Quello cinese, che è la forma che unisce in maniera peggiore gli aspetti più terribili del
comunismo e del capitalismo, c’è quello americano, l’american way of lie, la
privatizzazione selvaggia di tutto.
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Tutto diventa privato, liberalizzazione di tutto, rimessa di tutto alla concorrenza, con
l’ovvia conseguenza che dovrei lavorare quarantotto ore al giorno per resistere alla
concorrenza.
E poi c’è quello europeo, che pur coi suoi limiti è il migliore, perchè quello che ha tutte
quelle garanzie sociali di welfare state che non sono state una generosa concessione del
capitale, ma sono state conquistate sul campo, tramite lotte di riconoscimento avrebbe
detto Hegel.
L’Europa serve esattamente a imporre il modello americano spazzando via quello
europeo.
Facile da capire, ci stan togliendo tutti i residui del welfare state, evidentemente.
L’acqua diventa privata, e così via..
L’europa serve a questo essenzialmente, ad americanizzare il capitalismo europeo.
Anche l’uso criminale che si fa della lingua inglese....non solo le canzonette in tv e alla
radio che continuamente parlano inglese, ma anche l’uso criminale di questa lingua in
cui abbiamo il greco il latino e l’italiano (una lingua di Dante e Petrarca) e dobbiamo
parlare l’inglese dello spread e del mercato.
Io mi rifiuto ad esempio di farlo, anche con i miei studenti.
E questo no, proprio per dire che non bisogna piegarsi.
Il primo gesto della critica è quello di dire di no.
Il dire di no della critica, il grande rifiuto.
Sull’europa penso che oggi sia assolutamente da abbandonare.
Ai tempi dello stalinismo si imponevano coercizioni in nome delle leggi della storia, oggi le
si impongono in nome delle leggi dell’economia.
Ma il processo è sempre lo stesso.
Si impongono coercizioni sempre più terribili.
E l’unico mezzo che abbiamo per reintrodurre la legge della misura epicurea quello della
politica.
Ma la politica non può agire nell’epoca della globalizzazione se non all’interno di
comunità limitate. L’odierno elogio costante della globalizzazione e del multiculturalismo,
che in realtà è un monoculturalismo del mercato, in cui ci sono 1000 stili di vita diversi ma
poi sono sempre rapportabili alla mercificazione.
Tutto al plurale ma tutto mercificato al plurale.
Oggi la cifra del nostro tempo è il pluralismo che dice al plurale sempre solo una cosa
sola: consumate merci e sopportate il mondo.
Ora, se questo è l’orizzonte di senso in cui siamo, io credo si tratti di tornare a lottare. Del
resto Marx ce l’ha detto molto bene.
Marx esordisce come studioso di Epicuro e nel Capitale dice che se non ci fossero
resistenze da parte degli uomini, il capitale si prenderebbe l’intera vita dell’uomo.
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Oggi infatti assistiamo ad un oscena atrofia del conflitto, nel senso di opposizione al
capitale. Se manca il conflitto il capitale si prende tutto, e lo stiamo sperimentando
tragicamente. Lo dico anche ai giovani: il precariato, le forme più terribili.
Viviamo nell’epoca in cui tutto è precario e solo il precariato è a tempo indeterminato.
Questi son temi per me molto importanti, e li declino sempre a partire dalla grecità come
senso della misura, della comunità.
Il valore della comunità è un valore fondamentale da riscoprire. I beni comuni e così via..
Il valore della polis.
L’Italia del resto ha come caratteristica storica il fatto di esistere come pluralità di poleis ,
di comuni.... a differenza della Francia che ha Parigi e basta, l’Italia ha come propria
specifica prerogativa il fatto che ci sono 1000 centri, 1000 comunità. Ora il mercato
globalizzato sta spazzando via tutto questo.
Ci impone un’unica cultura delle merci e del mercato.
Ma il paradosso è che la cultura per esistere può esistere solo al plurale. Quando ce ne
sono almeno due.
Per questo il mito del multiculturalismo oggi è falso in partenza, perchè è in realtà il modo
di imporre un’unica cultura fintamente frazionata in diverse culture, che in realtà sono
tutte interscambiabili perchè sono quelle dei mercati.
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