Vladimir Zelinskij La Trasfigurazione segno della vittoria trionfante della Pasqua I Siamo nel periodo pasquale che dura 40 giorni. La Pasqua o la Risurrezione di Cristo è il fondamento della nostra fede. Se Cristo non è risuscitato, dice san Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (15, 14), allora è vana la vostra predicazione ed è vana la vostra fede. L’apostolo non lascia lo spazio al vago e passeggero “senso religioso” che dice che «Dio è nell’anima» e non importa, se ci sia e cosa faccia fuori. Sembra che l’apostolo voglia sottomettere l’impalpabile “tessuto” del credere alla logica aristotelica che esclude la terza via. Non è la logica a essere in gioco, però. Non si tratta di un evento esterno a noi, di un dogma imposto, di un articolo del Credo che siamo costretti a fare nostro. Il messaggio di Paolo può essere letto diversamente: ogni esistenza umana porta dentro di sé il suo fuoco segreto, un nucleo nascosto che si chiama speranza. E’ la fede che dà alla speranza la gioia di crescere nella fiducia in Dio che, nato da uomo, morto da uomo, sia anche resuscitato da uomo. La fede nella risurrezione è il linguaggio della speranza inespugnabile e irriflessiva, messa in noi, che ci parla della vita del «mondo che verrà». Se Cristo non fosse risuscitato, ogni speranza sarebbe una fantasia, un inutile slancio d’animo, l’evidenza della decomposizione generale sarebbe più forte di quella voce pazza dentro di noi che grida, come Giobbe: «Dopo che 1 questa mia pelle sarà distrutta, senza la mia carne vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso» (19,27). La speranza dice che si può gridare di gioia senza cercare le parole corrette e bilanciate perché la notizia della risurrezione porta la promessa folle in cui “io” trovo me stesso solo nell’incontro con il Risorto. La mia vera personalità si rivela solo nella sua rivelazione. Essa tocca me come grano di sabbia nella terra deserta che un giorno, secondo le Scritture, diventerà di nuovo il giardino dell’Eden, come ossa secche che si ricopriranno dalla carne viva nella profezia di Ezechiele. La promessa s’accende con la Luce che illumina ogni uomo, con la Parola che entra e s’incarna nel nostro cuore, col Volto che ci guarda negli occhi. Una volta Cristo manifestò quella luce davanti ai Suoi discepoli come per far gustare a loro la promessa del Suo Regno. Questo Regno o piuttosto la sua anticamera noi siamo chiamati a scoprire dentro di noi o in mezzo di voi. A proposito: le traduzioni di questo brano del vangelo di san Luca sono diverse: in Occidente il versetto 21 del capitolo 17 si legge così : “il regno di Dio è in mezzo a voi!”. Nella traduzione russa, come anche nelle altre traduzioni in lingue dei paesi, chiamati, ortodossi, è scritto il Regno di Dio è dentro di voi. Le ambedue versioni sono corrette, che esprimono però due orientamenti diversi : uno è rivolta più alla trasformazione della società umana, un altro è più preoccupato dalla trasfigurazione interiore, dell’avventura dell’anima nel suo cammino verso Dio. Questa trasfigurazione sulla quale vogliamo riflettere ci introduce nel mistero della Risurrezione. “A voi è dato di conoscere i misteri del regno dei cieli” dice Gesù ai Suoi discepoli e proprio nella trasfigurazione si svela questo mistero del Regno che possiamo scoprire, secondo l’interpretazione ortodossa, “dentro di noi”. 2 Ma vediamo prima cosa dice quel pezzo del Vangelo, dedicato alla Trasfigurazione. II “...Gesù – dice il vangelo di Luca, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare. E mentre pregava il Suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con Lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua disparità che avrebbe portata a compimento a Gerusalemme. Pietro i suoi compagni erano oppressi dal sonno ; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria, e due uomini che stavano con Lui. Mentre questi si separavano da Lui, Pietro disse à Gesù: Maestro è bello per noi è stare qui. Facciamo tre tende, una per Te, una per Mosè e una per Elia. Egli non sapeva quel che diceva. Mentre parlava così, venne una nube e lì avvolse; all’entrare in questa nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce che diceva: “Questo è il Figlio Mio, eletto; ascoltateLo”. Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in questi giorni non riferirono ad alcuno di ciò che avevano visto” Ci sono tanti modi di interpretare questa scena. Si può tirare da essa mille belli prediche o costruire una buona teologia. Devo dire che il mio metodo è quello di cercare il messaggio sotto messaggio, in altre parole il contenuto nascosto della lettera che Dio abbia scritto a noi. Dalla montagna della Trasfigurazione si può sentire uno di più importanti annunzi della Scrittura. Qui sotto la nube vediamo tre apostoli, due profeti e Cristo al centro – sei figure umane. “Ma insieme a loro, dice San Gregorio Palamas c’erano anche il Padre e lo Spirito Santo. Il primo che porta la testimonianza con la Sua voce, il Secondo è Colui che illumina e 3 manifesta l’unità della Luce” (Omelia 34. Sulla Trasfigurazione). La gloria che avvolge Mosé ed Elia e esce da Gesù è l’immagine della luce, presenta e nello stesso tempo nascosta. La gloria si manifesta come luce sfolgorante, che vive oltre la nube del visibile. La scena della Trasfigurazione fu una vera e brillante lezione della pedagogia divina per far vedere agli occhi umani il mondo com’è, come fu all’inizio della creazione. Torniamo all’inizio. Dopo aver creato il cielo e la terra Dio disse: "Sia la luce!" E la luce fu" (Gen 1,3). Poi, solo al quarto giorno "Dio fece le due luci grandi, la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte e le stelle" (Gen 1,16). Ma quella luce iniziale che è uscita dalla Sua parola non era la luce fisica o, direi, non solo fisica, ma prima di tutto la presenza dello spirito Suo nel mondo creato, la rivelazione del Suo volto nella luce della creazione. La teofania è venuta nel mondo ancora prima che il mondo fosse e rimase come nascosta dopo la caduta. L'Incarnazione di Cristo ha fatto questa luce visibile agli occhi della fede. L'Incarnazione è diventata un incontro a faccia a faccia della Parola creatrice con la sua creazione, la rivelazione della luce di Dio nel volto del Figlio. “Tutto quello che si manifesta è luce”, - dice san Paolo (Ef 5,13), tanto più l’uomo alla sua origine, la creatura prediletta. L’amore di Dio lo segna in modo incontestabile e questo segno contiene già tutte “le alleanze e le promesse” (vd. Rom 9,4) che saranno fatte nel futuro. Solo all’uomo è stato dato il dono e il compito di seguire le tracce della luce gettata dentro di lui e di manifestarla davanti al suo Creatore. Solo l’uomo è chiamato a trovare in se stesso il Verbo in principio e quella luce nascosta, in cui si rivela il volto di Dio. Colui che ha mandato il Suo Figlio per salvare il mondo ci ha dotato anche degli organi per accoglierLo e 4 conoscerLo. I nostri orecchi - è questo il dono dello Spirito - sono capaci di aprirsi alla parola di Dio, il cuore - anche qui c'è il mistero della fede - può partecipare alla vita di Dio. Tutta la nostra esistenza è chiamata a diventare così trasparente da poter riflettere la benedizione del Suo sguardo, lo splendore del Suo Volto. Perché quello splendore è “la vera luce che illumina ogni uomo” (Gv1,9), ma noi non ne possediamo che una particella infinitamente piccola. Dalla Scrittura, ma anche dalla nostra esperienza, per quanto essa sia debole e limitata, sappiamo che la fede cristiana nasce e cresce da queste due radici: dalla parola in cui possiamo leggere il pensiero di Dio su di noi e dal Suo sguardo in cui riconosciamo il Suo amore verso di noi e il Suo giudizio su di noi. Il simile è riconosciuto dal proprio simile, dice il proverbio latino (similia similibus cognoscuntur): dalla scintilla gettata in principio nell'essere umano si accende nella mente la luce della Parola, dall’occhio che cogliamo su di noi splende il mistero luminoso del Volto divino. “Alla Tua luce vediamo la Luce”, esclama Davide (Ps 35,10) e la gioia e la nostalgia di questo grido fa la grandezza e il dramma del Primo Testamento. Ricordiamo al suo inizio l’enigmatico racconto della lunga lotta di Giacobbe con Dio (Gen. 32, 26-32), la lotta in cui si può intuire lo spirito e il segreto della rivelazione precristiana. Dio si lascia apparire nell’Ignoto e combatte con Giacobbe così che loro non possono lasciarsi, non possono separarsi. L’uomo vuol conoscere il nome del suo Combattente notturno, vedere Lui “come è”, avere la Sua benedizione, ma Dio che ha preso l’aspetto d’uomo non è ancora uomo, non può svelarsi nella luce del giorno. “Dimmi il Tuo nome” (v.30) – supplica Giacobbe, ed è per lui come chiedere: “Fammi vedere il Tuo volto”. Lui, però, dopo aver colpito e poi benedetto Giacobbe, sparisce “allo spuntare dell’aurora” (v.26). Dio entra nel 5 mondo da Lui creato e nello stesso tempo rifiuta di rivelarsi, “perché il Signore ha deciso di abitare sulla nube” (1 Re, 8, 12). Manifestandosi nel roveto ardente, negli Angeli, nella legge, e sotto tante altre immagini, Egli rimane tuttavia al di là di esse e del mondo umano. Nel momento in cui il Signore ha deciso di rivelare il Suo volto nel volto umano, l’aurora è spuntata e “il popolo immerso nelle tenebre ha visto una grande luce” (Mt.4, 12). Il vecchio Simeone con Gesù tra le braccia parla della “luce per illuminare le genti” (Lc. 2, 32), e Giovanni il Precursore viene per “rendere testimonianza alla luce” (Gv.1, 7). La lotta è finalmente finita, Dio si arrende all’uomo come uno di noi, il sole entra nel nostro mondo oscuro, rivela il Suo nome, non nasconde più il Suo volto. La storia di questa rivelazione, raccontata nel Vangelo come con una linea tratteggiata, raggiunge la piena chiarezza in quel brano profetico che parla della trasfigurazione. Qui traspare una delle tracce che mostrano la strada al mistero della similitudine del volto divino ed umano. Proviamo a rileggere quest’episodio nella versione di San Matteo e poi a meditarlo nello spirito della tradizione cristiana orientale. III “...Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro; il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” – dice san Matteo (17, 1-2). Il tropario bizantino cantato durante la celebrazione liturgica nel giorno della festa della Trasfigurazione dà la sua interpretazione di questo racconto: “Ti trasfigurasti sul monte, o Cristo Dio, mostrando ai tuoi discepoli la 6 Tua gloria, per come potevano. Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna, per l'intercessione della Deipara, o Datore di luce: gloria a Te!”. Il messaggio è lo stesso che si trasforma nella preghiera e nella speranza. “Fa' splendere anche a noi peccatori, la luce tua eterna”, perché la luce ci porterà alla vera conoscenza di Dio nella sua manifestazione accessibile agli uomini o nella Sua “energia”, come dice Gregorio Palamas. Cristo mostra la Sua gloria, ma non avviene in lui alcun cambiamento perché - dice - è: “quella gloria che avevo presso di Te prima che il mondo fosse” (Gv.17, 5). Ciò che cambia è la percezione umana. La Trasfigurazione, secondo l’interpretazione ortodossa, prima di tutto apre gli occhi agli apostoli, trasforma la loro anima e la loro vista, rivelando anche l’autentica natura umana. “Il cambiamento si produsse nella coscienza degli apostoli, - dice Vladimir Lossky, che ricevettero per qualche tempo la facoltà di vedere il loro maestro com’Egli era, risplendente della luce eterna della sua divinità”1. Nello splendore della Trasfigurazione anche loro – Pietro, Giovanni, Giacomo – sono trasfigurati. Come “l’abisso chiama l’abisso” (Ps. 41,8), la luce chiama la luce, il divino fa sviluppare l’umano, risvegliare ciò che dorme in lui, mostra il suo volto nel volto del Verbo. Ma questa visione, dopo una vampata improvvisa, comincia a crescere, spesso in modo impercettibile, nel cuore umano. Tanti anni devono trascorrere ancora prima che Pietro, dopo aver riflettuto sull’esperienza da lui vissuta, scriva dei "beni grandissimi" che ci fanno partecipare “alla natura divina” (2 Pt 1,4). La Trasfigurazione e la Risurrezione dovevano essere rivelate nella loro pienezza nella fede di san Giovanni prima che scrivesse nella sua lettera. “Questo è il 1 Vladimir Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Bologna, 1967, p. 217. 7 messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre” (1 Gv.1,5). Il messaggio di Giovanni, come quello di Luca, Pietro, di Paolo e degli altri apostoli è non solo un frutto della perfetta conoscenza di Dio “come Egli è”(1 Gv.3,2), ma anche la testimonianza discreta degli uomini come loro sono. Vedere Dio “come è” significa raggiungere la somiglianza con Dio e vedere nello spirito ciò che non può essere visto, toccare nel pensiero ciò che non può essere toccato. L’Invisibile apre il suo volto, perché, come dice Sant’Ireneo, Cristo è il visibile di Dio, ma lo stesso Cristo è anche l’invisibile dell’uomo. E lo Spirito Santo quando l’uomo Lo cerca, fa nascere e manifestare l’invisibile nel cuore degli uomini. Il Credo Niceno-Costantinopolitano che nei limiti del possibile vuol descrivere il mistero di Cristo, lo definisce come “Luce da Luce; Dio vero da Dio vero... nato, non creato, della stessa sostanza del Padre...” Ma oltre il mistero di Cristo, il Credo ci rivela anche nella nostra capacità di percepire la Sua luce, di comunicare con essa, di partecipare alla sua sostanza tramite le energie che entrano nella conoscenza e nell’esistenza umana. Tutto ciò che l’uomo può dire di essenziale e di illuminante su Dio riflette questa Luce che cade su di lui dalla Sua “essenza” impenetrabile. Quando, per esempio, nel libro della Genesi Dio si manifesta all’uomo come “un forno fumante e una fiaccola ardente” (15, 17), colui chi vede quell’ardore è capace di percepirlo e di trovarne in sé la sua irradiazione. Quando leggiamo la definizione della Sapienza come “riflesso della luce perenne..., più bella del sole.” (Sap.7,26-29) troviamo, dunque, il piccolo raggio dello stesso sole anche nell’uomo, nella sua natura sapienziale o “cristica”. 8 In Cristo la teofania della luce coincide con la sua esistenza terrena: “Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo” (Gv. 9, 5). “Io sono come luce venuta nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre” (Gv.12, 46). La stessa testimonianza troviamo spesso nelle lettere apostoliche: “Dio abita nella luce inaccessibile” (1 Tim.6,16), ma Egli è anche “Il Padre della luce” (Giac.1,17), “Dio è luce e in Lui non ci sono tenebre” (1 Gv.1, 5). Ma anche la fede in Cristo è definita come vocazione che ci comunica la “stessa sostanza”. “Lui vi ha chiamato dalle tenebre alla Sua ammirabile luce” – dice san Pietro (1 Pt.2,9) e i fedeli fra di loro si chiamano “i figli della luce” (Lc.16, 8, Gv.12,36). Tutta la Scrittura ci porta alla rivelazione della luce in cui si chiarisce anche tutto ciò “che c’è in ogni uomo” (Gv.2,25). Perché in Cristo ogni uomo, anche se immerso nelle tenebre, può avvolgersi della luce che non perde il suo carattere ineffabile. Dal momento della sua creazione ad immagine di Dio, dal suo concepimento per l’amore del Signore, l’uomo è cristico, penetrato dallo splendore del Verbo. L’uomo lo riceve come dono e lo acquista con lo sforzo, e così la vita della sua fede può diventare un avvenimento permanente della teofania interiore. IV L’avvenimento di questa teofania ci porta davanti alla situazione paradossale del cristiano: “la manifestazione della luce” in lui è una cosa assolutamente gratuita, immeritata, e nello stesso tempo essa si acquista con la violenza con cui ci si impadronisce del regno di Dio (Vd.Mt.11,12). Dio si rivela nella chiarezza inesprimibile, e questa rivelazione svela anche il segreto della natura umana. Dopo, 9 però, la luce si ritira, a volte sparisce e per ritrovarla bisogna purificare il “luogo della luce”, far percorrere a se stessi un lungo e difficile cammino. Questo cammino - spirituale, ascetico, contemplativo, caritativo - è anche l’atto della conoscenza di Dio, che occupa e riempia tutta la vita umana. All’inizio della conoscenza si trova un’esperienza dell’incontro, del Volto rivelato. Non si tratta qui di un’esperienza psicologica o sentimentale, ma spirituale in senso iniziale, ontologico: nell’”anima mia” (Ps. 102,1) lo Spirito Santo dipinge l’immagine del Figlio che rivela il Padre ch’è “nei cieli”, ma sono “cieli” aperti proprio nel cuore umano. La rivelazione porta in sè la presenza reale e vivificante del Figlio di Dio, “ricordato” e manifestato dallo Spirito Santo, e il Figlio di Dio e lo Spirito Santo rivelano il Padre come unica fonte del mistero trinitario. Così il mistero si rivolge a noi, si apre a noi e si rivela dentro di noi e noi assistiamo alla sua teofania, in cui Dio mostra nell’anima dell’uomo la gloria del Suo volto trasfigurato. L’avvenimento di questa teofania nella preghiera in quanto ricerca della luce, è uno dei motivi intrecciati nella liturgia bizantina. Ogni gesto, ogni fatto liturgico, oltre al suo senso concreto, può averne un altro, allegorico o teofanico: la rivelazione di Dio all’uomo, ma anche la rivelazione dell’uomo come vero teoforo. Così prima della lettura del Vangelo, nel corso della liturgia di san Giovanni Crisostomo, il sacerdote prega sommessamente, ma in nome di tutto il popolo presente: «Fa' splendere nei nostri cuori, Sovrano amico degli uomini, la nitida luce della tua scienza divina e aprici gli occhi della mente alla 10 comprensione della tua predicazione dell'Evangelo... Sei Tu la luce delle nostre anime e dei nostri corpi, Cristo Dio...» Secondo il senso della preghiera, il Vangelo deve entrare nel cuore, ma il cuore deve essere preparato. Per ricevere la luce della Parola il cuore del comunicante va “infuso del timore per i Tuoi beati precetti”, purificato dalle “pretese della carne” e dalle tentazione di questo mondo. Perché la Parola possa vivere in noi, noi dobbiamo essere partecipi della “stessa sostanza” della Parola: la luce. Il motivo della luce torna nella preghiera per i defunti che fa parte della liturgia: “...riposino Signore le anime dei tuoi servi (...) in un luogo luminoso, in un luogo erboso, in un luogo di refrigerio, dove sono assenti dolore, tristezza... dove veglia la luce del tuo volto». Anche qui troviamo lo stesso messaggio che in modo schematico, ma più chiaro, possiamo spiegare così: preghiamo che le nostre anime “in riposo” trovino la luce del Suo volto che loro hanno portato, hanno fatto crescere durante la vita terrena, e se non è stato così, preghiamo per il perdono e la grazia immeritata di essere con Lui “in un luogo luminoso”. Finalmente, alla conclusione della liturgia, il coro canta nella gioia: “ “Abbiamo visto la vera Luce, abbiamo ricevuto lo Spirito sovraceleste…” 11 La vera Luce qui è Cristo nell’Eucaristia. Nell’Eucaristia vediamo l’icona della Trinità; con il Corpo e il Sangue di Cristo siamo già nel Figlio e nel Figlio riceviamo “lo Spirito sovraceleste” davanti al Padre invisibile, ma sempre presente, perché tutta la liturgia è rivolta a Dio Padre. La comunione ci porta alla luce della deificazione, di cui parlano tutta la Scrittura e la Tradizione patristica. La deificazione è il cambiamento ontologico del nostro essere, che proviene non da un’illuminazione esterna, ma da quel nucleo della luce che esce dal nostro cuore, il frutto del dono incredibile e dello sforzo sovrumano... Così la luce taborica, scoperta, “ricavata”, vissuta nell’esperienza dell’incontro a faccia a faccia dei pochi eletti ci rivela quel mistero che vive in ogni uomo, in un certo senso dipinge anche l’icona dell’uomo, prepara la sua vita in Dio, la deificazione. V La dottrina o la visione della deificazione dell’uomo, a volte scioccante per i cristiani che credono che la distanza fra i cieli e la terra debba rimanere sempre insuperabile, proviene dalle due fonti: l’unione sacramentale con il Signore nell’Eucaristia e l’unione mistica promessa nella Trasfigurazione. Ma si tratta della stessa unione perché la comunione al Corpo e Sangue di Cristo come “farmaco dell’immortalità” (sant’Ignazio d’Antiochia) ci prepara alla comunione alla luce, alla nostra cittadinanza in quell’”ammirabile luce” , in cui “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Gv. 3,2). La salvezza per l’Ortodossia non è tanto la giustificazione dell’uomo peccatore per la misericordia di Dio quanto la rivelazione dell’autentica natura umana, quella che fu in lui fin dal principio. La salvezza è l'apparire del suo volto autentico, visto da Dio nel 12 momento della creazione, della luce nascosta che brucia l’uomo vecchio oscurato dal peccato e lo rende puro e trasparente al suo Creatore. Anche in questo “spazio dell’aldilà” tutto è il dono di Dio, ma è il dono che dobbiamo scoprire noi stessi. Perché la salvezza non è soltanto fulmine di grazia che ci aspetta dopo la morte, ma è la storia, l’avventura, che comincia in ogni momento della nostra vita e ci prepara all’incontro con la luce. Questa preparazione si chiama santità. “Per vedere la luce divina, scrive Vl.Lossky, con gli occhi corporei, come l’hanno vista i discepoli sul Monte Tabor, bisogna partecipare a questa luce, esserne in misura più o meno grande trasformati. L'esperienza mistica presuppone dunque un cambiamento della nostra natura, che viene trasformata dalla grazia. San Gregorio Palamas lo dice in modo esplicito: "Colui che partecipa all'energia divina... diviene egli stesso, in qualche modo, luce; è unito alla luce e con la luce vede con piena coscienza quel che resta nascosto a coloro che non hanno la grazia; oltrepassa così non soltanto i sensi corporali, ma tutto ciò che può essere conosciuto..., perché i puri di cuore vedranno Iddio... che, essendo Luce, abita in loro e si rivela a quelli che l’amano, ai suoi diletti”2. La santità come “cammino nella luce” (vd. Gv12, 35) o la comunione alla luce escatologica indica il Regno venuto “con potenza” (Mc. 9,1), che è vicino (Mt.3,2), ma questa vicinanza rimane spesso nascosta o oscurata. Palamas parla dell’unione della nostra natura con l’immateriale fuoco di Dio che dalla Sua inaccessibilità assoluta purifica l’anima umana, libera “la luce che è in te” (Lc.11,35), la luce che è nello stesso tempo il Volto. La trasfigurazione è l’apparizione del Volto di Cristo, raffigurato “en 2 vd. Vl. Lossky, pp.217-218. 13 arché”, in principio di ogni essere umano. La “deificazione” è il ritorno al principio, il ritrovamento della somiglianza con il Volto trasfigurato dentro di noi, quel Volto che illumina ogni uomo e manifesta la nostra santità nascosta... “Tu sei la nostra Luce, Tu illumini l’anima per amarti insaziabilmente”, dice San Silvano, il santo ortodosso del ventesimo secolo3. La santità è in un certo senso la “processione” dal Regno, nascosto dentro di noi, a quello che si apre fuori di noi, dalla luce invisibile al visibile. L’irradiazione del Regno, che si può vedere a volte negli occhi del cittadino del Regno, in modo impercettibile penetra e avvolge tutto ciò che lo circonda: il suo deserto o il suo bosco, la sua famiglia o la sua comunità, le sue parole o il suo silenzio, la sua missione o il suo eremitaggio, anche il suo corpo mortale o la memoria che lui lascia dopo la morte. La memoria di lui si cristallizza nella sua immagine dipinta o nell’arte dell’icona, cioè, in un’altra manifestazione o nella processione della luce “intellettuale” dell’Areopagita, che esprime l’idea o il mistero del volto umano ch’è sempre quello di Cristo... Perché “è Dio che disse, - scrive san Paolo, - Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor.4,6). VI Dopo aver visto questo volto nella luce taborica, Pietro, quasi ubriacato dalla gloria divina che lo ha liberato dalla “nube oscura”, 3 Arch. Sofronio, Le staretz Siluan, Parigi, 1952, p. 137. (in russo). 14 esclama: “E’ bello per noi restare qui; se vuoi, farò qui tre tende....” (Mt.17, 4). In queste tre tende, simboli della Trinità, si può trovare lo spazio vitale e spirituale per tutto il genere umano. Le tende che Pietro non riuscì a fare perché la luce della Trasfigurazione apparve solo per un attimo, rimangono la nostra patria di cui siamo sempre alla ricerca. “E’ bello per noi restare qui...”, ma restare non si può sulla vecchia terra e con la vecchia anima, perciò percorriamo la via del ritorno alla bellezza che “abbiamo veduto con i nostri occhi... che le nostre mani hanno toccato” (1 Gv.1,1). Così si fa “il cammino nella luce” di san Giovanni, quel cammino al Volto di splendore ineffabile che abbiamo riconosciuto, perché l’abbiamo già visto in questa luce, nascosta da qualche parte dentro di noi... San Gregorio il Teologo (con gli altri Padri) dice: “Dio si è fatto uomo perché l’uomo possa divenire Dio”. Se ci poniamo sulle tracce di questa sentenza, osiamo dire che Cristo ci ha mostrato il suo splendore perché noi potessimo mostrare la luce che ci ha illuminati “in principio”. Possiamo dire che Cristo si è trasfigurato perché noi vedessimo le cose che “Dio ha preparato per coloro che lo amano” (1 Cor. 2, 9). Cristo ha manifestato la sua gloria perché anche ogni volto umano diventasse quello del Figlio di Dio. VII Ma, vi ricordo, siamo nel periodo pasquale, perciò concludiamo la nostra riflessione sulla Trasfigurazione tornando di nuovo alla Risurrezione. La Risurrezione è chiamata nella Chiesa ortodossa la “Festa delle Feste”, che non entra nella struttura fissa delle Dodici feste più importanti dell’anno liturgico ortodosso perché le supera 15 come “il sole supera le stelle” (San Gregorio il Teologo). Le altre feste sono legate alla storia, ma Pasqua sorpassa il tempo, spalanca le porte del regno che viene sulla terra. “L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte”, dice san Paolo (1 Cor 15, 26). Non solo la morte, ma anche l’inferno e la dannazione. L’immagine della Risurrezione è spesso raffigurata come metafora della salvezza dei dannati, di tutti quelli che sono vissuti prima della venuta del Salvatore. Dalla tomba Cristo scende nel mondo dei morti per “annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione”, dice San Pietro. Gesù stende la mano destra ad Adamo e da la mano sinistra ad Eva, i capostipiti dell’umanità. Accanto a loro vediamo i profeti e i re dell’Antico Testamento che portano il nimbo sopra la testa - il segno della santità, della redenzione già compiuta. Il rosso che domina nell’immagine è il colore della gioia. Ma le icone possono essere dipinte non solo con i colori, ma anche con le parole. San Giovanni Crisostomo nell’omelia che da 15 secoli si legge nelle chiese ortodosse nella notte di Pasqua ci da un’immagine, la vittoria della luce sulle tenebre, della vittoria sulla morte e sull’inferno. Nessuno pianga di peccati: perdono, infatti, è sorto dalla tomba. Nessuno tema la morte: ce ne ha infatti affrancato la morte del Signore l'ha spenta Lui, che ne è stato trattenuto; ha depredato l'Inferno, Lui che è sceso all'Inferno; Egli l'ha amareggiato, quando quello gustò della sua carne. Lo previde Isaia, ed esclamò: L'Inferno fu amareggiato, incontrandoti là sotto. 16 Amareggiato, e infatti fu annientato. Amareggiato, e infatti fu imbrogliato . Amareggiato, e infatti fu ucciso. Amareggiato, e infatti fu distrutto. Amareggiato, e infatti fu incatenato. Prese un corpo, e si trovò davanti Dio. Prese terra, e incontrò cielo. Prese quel che vedeva, e cadde per quel che non vedeva. Dov'è, o Morte, il tuo aculeo? dov'è, o Inferno, la tua vittoria? È risorto Cristo, e sei precipitato! È risorto Cristo, e sono caduti i demoni! È risorto Cristo, e gioiscono gli Angeli! È risorto Cristo, e la vita trionfa! È risorto Cristo, e non c'è un più un sol morto nel sepolcro! 17