Rivista di Diritto Civile, n. 3/2014.

ISSN 0035-6093
N. 3 MAGGIO-GIUGNO
ANNO LX
2014
FONDATA E RETTA DA
WALTER BIGIAVI
E
ALBERTO TRABUCCHI
(1955-1968)
(1968-1998)
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PAOLO SPADA VINCENZO VARANO
E
GUIDO CALABRESI ERIK JAYME DENIS MAZEAUD
ÁNGEL ROJO FERNÁNDEZ-RIO
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E
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE
I N D I C E D E L F A S C I C O L O 3o
(maggio-giugno 2014)
SAGGI
Vincenzo Scalisi, Il diritto civile nelle « prolusioni » del secondo
Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Giovanni D’Amico, La proprietà « destinata » . . . . . . . . . . . . . .
Emanuela Navarretta, Principio di uguaglianza, principio di non
discriminazione e contratto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Matteo Mattioni, Sul ruolo dell’equità come fonte del diritto dei
contratti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Oriana Clarizia, Innovazioni e problemi aperti all’indomani del
decreto legislativo attuativo della riforma della filiazione . . .
Pietro Sirena, Il problema della trascrivibilità della domanda di
riscatto legale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Enrico Camilleri, Appunti sulla struttura dell’espromissione cumulativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Paolo Spada, Paradigmi del pensiero giuridico e concezione della società per azioni nei « Principi e problemi » di Carlo Angelici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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» 525
»
547
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567
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»
627
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OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO
Piet Abas, Un nuovo diritto delle obbligazioni in Svizzera . . . . .
»
675
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685
COMMENTI
Francesco Paolo Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
Bianca Checchini, Anonimato materno e diritto dell’adottato alla
conoscenza delle proprie origini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Amalia Chiara Di Landro, I vincoli di destinazione ex art. 2645
ter c.c. Alcune questioni nell’interpretazione di dottrina e
giurisprudenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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»
727
S A
G
G
I
Vincenzo Scalisi
Prof. emerito dell’Università di Messina
IL DIRITTO CIVILE NELLE « PROLUSIONI »
DEL SECONDO NOVECENTO (*)
Sommario: 1. Le prolusioni nella temperie della transizione dal « moderno » al « postmoderno ». — 2. Le prolusioni del decennio 1940-1950: la « crisi » del diritto e la difficile
ricerca di un’affidabile àncora di salvataggio. — 3. Aperture e fermenti di rinnovamento nelle prolusioni degli anni ’50: tra istanze di revisione, « disgelo » costituzionale,
nuova sistematizzazione dei fatti e rivisitazione delle situazioni giuridiche effettuali. —
4. Il vento del cambiamento nelle prolusioni degli anni ’60: postulati moderni al tramonto, Costituzione in azione, diritto privato al sociale, legislazione per principi, realtà
pratica e valori in funzione esplicativa del senso normativo. — 5. Gli anni settanta e la
fine di un genere letterario: l’appello per un « diritto civile costituzionale » e l’emergere
di un diritto legale « liquido » alle prese con integrazione europea e tensioni e conflitti
della postmodernità.
1. — Nella efficace rappresentazione grossiana il Novecento non è il secolo « breve » di Eric J. Hobsbawm (1), ma è un secolo « lungo », un secolo che
occupa gli altri secoli (in parte l’ottocento e anche l’attuale) (2), il secolo, nel
corso del quale prende progressivamente forma e consistenza una visione
nuova e diversa del mondo, antifondazionista e disincantata, essenzialmente
basata sul « pensiero del molteplice », che si è soliti denominare « postmodernità », e che non è ancora un « approdo » (a una nuova e sicura riva), ma
certamente un « congedo », un distacco, una definitiva e irreversibile presa di
distanza dai miti fondativi della Modernità.
Nei secondi anni quaranta del Novecento questo processo di graduale disfacimento dell’edificio categoriale moderno è in pieno svolgimento e rovescia
sul terreno del diritto civile, come in ogni campo del « giuridico », tutto il suo
carico di inquietudini e di insoddisfazioni, di incertezze e di contraddizioni,
quali salenti dalla concreta e complessa realtà storico-sociale dell’esperienza,
(*) Lo scritto riproduce la relazione svolta al convegno organizzato dal prof. Giovanni
Furgiuele su « Le prolusioni civilistiche dalla fine dell’ottocento al 1980: significato e valore di un’esperienza. A proposito de “Le prolusioni dei civilisti”, rist. ESI, Napoli, 2012 »
(Firenze, 25 ottobre 2013). Sono state eliminate le parole di circostanza e aggiunte le note.
( 1 ) Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 (1994), trad. it. (con il
titolo, Il secolo breve. 1914/1991) di B. Lotti, 11a ed., Milano 2006.
( 2 ) P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, Università degli Studi Suor
Orsola Benincasa, Napoli 2011, p. 14; e in Id., Introduzione al Novecento giuridico, RomaBari 2012, p. 3; nonché, per più compiuti riferimenti alle nozioni e ai principi fondanti della modernità giuridica, Id., Mitologie giuridiche della modernità, 3a ed., Milano 2007.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
quelle stesse che la Modernità, invece, con il suo procedere per categorie
astratte, decontestualizzate, atemporali, era stata molto abile a occultare (3).
La riflessione scientifica dei civilisti ha piena contezza della crisi di transizione e si avvale della solenne liturgia della prolusione, a volte per dotare di
più solide basi teoriche antiche categorie e istituti, o per proporre nuovi indirizzi metodologici o anche soltanto per additare nuovi sentieri di investigazione, ma altre volte per illustrare l’impatto di nuovi principi e valori, oppure
per segnalare l’irrompere sulla scena di nuovi conflitti e tensioni, o anche soltanto per fare il punto sul mutato volto di molte figure o di intere aree e settori del diritto civile.
Quella delle prolusioni è stagione anch’essa assai lunga, che dall’ultimo
quarto dell’ottocento giunge sino alla fine degli anni settanta del secolo appena decorso. Molte di tali prolusioni si collocano tra fine Ottocento e inizio Novecento, la maggior parte nel periodo fra le due guerre, un numero minore nei
secondi anni quaranta del Novecento, segno forse premonitore del progressivo
affievolimento e successivo declino di tale genere letterario. Si tratta di un
fronte, assai rilevante, del pensiero civilistico italiano, rimasto sino ad oggi,
salva qualche rara eccezione (4), pressoché sostanzialmente inesplorato nella
sua globalità, quando invece, non foss’altro che per la statura di molti dei
suoi protagonisti, già da tempo avrebbe dovuto formare oggetto di puntuale
investigazione al fine di mettere a fuoco significato e valore, che questa esperienza ha rappresentato e continua a rappresentare, non soltanto dal punto di
vista della elaborazione teorica e concettuale, ma anche e soprattutto dal punto di vista di ciò che di vivo e vitale essa ancora testimonia in termini sia di
rinnovamento e avanzamento degli studi sia di contributo offerto alla soluzione dei molteplici problemi che anche nel tempo presente agitano la vita del
diritto civile.
Le riflessioni, che seguono, sono dedicate all’ultima stagione di prolusioni, quelle che si collocano nei secondi anni quaranta del Novecento (5), ma,
perché il discorso non resti generico, una ulteriore periodizzazione s’impone e
anche alcune distinzioni appaiono necessarie.
2. — Per quanto può qui interessare, tre grandi eventi dominano fondamentalmente la stagione del decennio 1940-1950, che si era appena lasciata
( 3 ) Specialmente, S. Toulmin, Cosmopolis — The Hidden Agenda of Modernity (1990),
trad. it. (Cosmopolis. La nascita, la crisi e il futuro della modernità) di P. Adamo, Milano
1991, spec. pp. 54 ss., 112 ss.
( 4 ) Il riferimento è, ancora, a P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico
1860-1950, Milano 2000; Id., Le « prolusioni » dei civilisti e la loro valenza progettuale
nella storia della cultura giuridica italiana, Introduzione a Le prolusioni dei civilisti, raccolta in tre volumi a cura della SISDIC, Napoli 2012.
( 5 ) E precisamente quelle contenute nel vol. III (1940-1979) della già citata opera Le
prolusioni dei civilisti.
SAGGI
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alle spalle la storica polemica sui concetti giuridici (6): l’immane tragedia del
secondo conflitto mondiale, l’emanazione dell’attuale codice civile, l’entrata
in vigore il 1o gennaio 1948 della Costituzione italiana.
Le prolusioni di questo periodo tacciono della Costituzione, mentre una
sola è dedicata al nuovo Codice, quella napoletana di Francesco Santoro-Passarelli (7), per segnalare « l’apparizione all’orizzonte del diritto civile di una
nuova costellazione », l’impresa, assurta a motivo sistematico dell’intera codificazione e nel contempo rivelatrice anche di un metodo nuovo, il metodo dell’economia, che esige corrispondenza tra forme giuridiche e sostanza economica dei fenomeni regolati. Nel nuovo assetto normativo la riflessione santoriana vi scorge il superamento di quegli schemi concettuali tradizionali, che
erano soliti ridurre l’intera fenomenologia del mondo reale o a « cose » o a
« persone », mentre l’impresa non è cosa e neppure persona, in quanto, pur
atteggiandosi a vivente organismo della realtà economica e come tale iscriventesi in quel movimento ascensionale che dalle cose a volte porta alle persone, non assurge tuttavia a soggetto di diritto, arrestandosi alla condizione di
« centro di attività e di rapporti giuridici non personalizzato ». A siffatto fenomeno il codice si sarebbe limitato a dare veste giuridica, recependo un dato
d’esperienza.
Delle devastazioni della guerra non è parola nelle prolusioni, ma nelle
menti riflessive degli studiosi è ben presente che leggi inique e « insopportabilmente ingiuste » avevano inflitto al « diritto » una delle sconfitte più cocenti, tanto da costringere i giudici di Norimberga ad appellarsi agli insopprimibili principii di natura. La scienza giuridica ora si interroga sulla « crisi »
del diritto (8), una crisi che ormai toccava e coinvolgeva anche se stessa (9).
Nella prolusione catanese del ’46, il filosofo del diritto Orazio Condorelli
non esita ad additare la legge come principale responsabile, per essersi piegata ai fini dello Stato, scadendo a valore strumentale, a « mezzo attraverso il
quale lo Stato raggiunge i suoi fini », con singolare inversione di un rapporto,
( 6 ) Ne erano stati protagonisti S. Pugliatti, A.C. Jemolo, G. Calogero, e W. Cesarini
Sforza, i cui scritti possono ora leggersi nel volume a cura di N. Irti, La polemica sui concetti giuridici, nella collana Civiltà del diritto, vol. 71, Milano 2004.
( 7 ) L’impresa nel sistema del diritto civile (1942), ora in Le prolusioni dei civilisti
(1940-1979), cit., p. 2372 ss.
( 8 ) « Il discorso e l’idea si fanno ripetuti, ossessivi, negli anni susseguenti alla catastrofe
bellica, alla caduta del Regime, al cambio istituzionale »: P. Grossi, Scienza giuridica italiana, cit., p. 275. Al tema è dedicato un intero volume La crisi del diritto, Padova 1953,
rist. 1963, che raccoglie il corso di conferenze svoltesi per iniziativa della Facoltà giuridica
patavina dall’aprile al maggio 1951. Vi figurano i nomi di eminenti studiosi: G. Ripert, G.
Capograssi, A. Ravà, G. Delitala, A.C. Jemolo, G. Balladore Pallieri, P. Calamandrei, F.
Carnelutti.
( 9 ) S. Pugliatti, Crisi della scienza giuridica (1948), in Id., Diritto civile. Metodo-teoria-pratica, Saggi, Milano 1951, p. 691 ss.; e ora in Id., Scritti giuridici, III (1947-1957),
Milano 2010, p. 819 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
in forza del quale dovrebbe invece lo Stato stare a servizio del diritto (10). E
se alcuno, autorevole civilista, come Luigi Cariota-Ferrara (11), aveva colto
nella solennità di un cerimoniale accademico l’occasione per ridisegnare confini teorici e spazi operativi di controverse figure civilistiche, quale l’obbligo
di trasferire, in altri i guasti prodotti dall’assolutismo potestativo di leggi lasciate del tutto fuori controllo avevano suscitato l’impellente bisogno di ricercare altrove un’affidabile àncora di salvataggio.
Nella prolusione romana del 1948 Emilio Betti (12), anticipando linee di
più compiute e future ricerche (13), nonché percorsi e svolgimenti propri dell’ermeneutica gadameriana (14), ravvisa nell’interpretazione lo strumento in
grado di garantire l’adattamento e l’adeguazione della norma alle esigenze e
agli interessi reali della nostra vita presente (15), paragonando l’ordine giuridico a « un organismo in perenne movimento » (16), che come tale dev’essere
di continuo rielaborato attraverso il dispiegamento (da parte, appunto, dell’ermeneutica) di una vera e propria funzione normativa mai definitiva (17),
in grado di riportare in ogni momento il senso della norma al diritto che è
« veramente vivo e vigente » nella esperienza di vita dei consociati (18).
Ma, come segnala lo stesso Betti, il problema, il vero problema di una interpretazione in funzione normativa e quindi inevitabilmente creativa, è quello della difficile antinomia dialettica « tra l’inevitabile soggettività dell’intendere e la necessaria oggettività del senso » da attribuire alla norma (19), diffi( 10 ) La crisi del diritto, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., pp. 2404 ss.,
spec. 2409 ss.
( 11 ) L’obbligo di trasferire, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2523
ss., prolusione al corso di Istituzioni di diritto privato letta nell’Università di Napoli il 15
gennaio 1949.
( 12 ) Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Le prolusioni dei civilisti, III (19401979), cit., p. 2445 ss.; e in lingua tedesca, con il titolo Zur Grundlegung einer allgemeinen
Auslegungslehre: ein hermeneutisches Manifest, in Festschrift für Ernest Rabel, II, Tübingen, 1954, p. 79 ss., con più ampi riferimenti di letteratura.
( 13 ) E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), 2a ed. riveduta e ampliata a cura di G. Crifò, Milano 1971; Id., Teoria generale della
interpretazione, I e II, ed. corretta e ampliata a cura di G. Crifò, Milano 1990.
( 14 ) H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1972), trad. it. (con il titolo Verità e metodo)
e cura di G. Vattimo, Milano 1994; Id., Wahrheit und Methode — Ergänzungen — Register
(1986/1993), trad. it. (con il titolo Verità e metodo 2. Integrazioni) e cura di R. Dottori, Milano 1996. Ma v. L. Mengoni, La polemica di Betti con Gadamer, in Id., Diritto e valori, Bologna 1985, p. 59 ss.; e, da ultimo, G. Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione. Studi su ermeneutica e diritto, Torino 2014, p. 105 ss., spec. p. 118 ss.
( 15 ) Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., pp. 2462, 2464.
( 16 ) Op. ult. cit., p. 2473.
( 17 ) Op. ult. cit., p. 2475 s.
( 18 ) Op. ult. cit., p. 2477.
( 19 ) Op. ult. cit., p. 2455.
SAGGI
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cile antinomia che è necessario riuscire a governare attraverso la individuazione e applicazione di appropriati canoni ermeneutici, onde scongiurare non
tanto il rischio di una legalità liquida e come tale perennemente fluida, quanto piuttosto la ben più grave minaccia di un nuovo dispotismo rappresentato
dell’arbitrio dell’interprete.
A siffatto compito dovrebbe attendere secondo Domenico Barbero, autore
della prolusione milanese del ’49 su « Empirismo e dogmatica del diritto » (20), la scienza giuridica, purché agente libera da ogni irriverente empirismo come pure da ogni astratto dogmatismo. Anzi, a suo dire, la legge non
fallirebbe ai propri scopi se solo si limitasse a « trasformare in norme pratiche
i risultati teoretici rintracciati dalla scienza nelle realtà naturali » (21). Fiducia
illuministica nella infallibilità della scienza, ma da valutare non più che come
una professione di fede, dal momento che neppure la scienza, in quanto parte
essenziale e protagonista essa medesima del procedimento ermeneutico (c.d.
inclusione del ricercante nella ricerca), può dirsi sicura garanzia di oggettiva
riproduzione dei dati di esperienza e come tale immune da soggettive applicazioni.
Nella prolusione pavese su « Il sentimento del diritto soggettivo in Alexis
de Tocqueville » Gino Gorla (22), da parte sua, esprime disagio ma anche avversità nei confronti di una giuridicità tutta elargita e derivata dallo Stato e
con riferimento al diritto soggettivo, nel quale — a suo avviso — si esprimerebbe l’indipendenza e la dignità stessa della personalità dell’individuo non
più « astrattamente » ma « storicamente » e « realisticamente » considerato,
egli esalta e condivide la concezione politico-giuridica di Alexis de Tocqueville, che del diritto soggettivo aveva difeso la intrinseca « originarietà », da intendersi non già in senso giusnaturalistico o razionalistico, bensì in un senso
eminentemente storico, in quanto, appunto, « istituzione storica », istituzione
cioè radicata nella storia e nella tradizione, non concessione della legge dello
Stato, ma conquista e forza etica della personalità, frutto del travaglio della
coscienza e dell’esperienza politico-giuridica dei cittadini.
Ampliare l’orizzonte oltre la legge, guardare a quella che il filosofo del
diritto Rodolfo De Stefano ha chiamato « legalità sociale originaria » (23), in
quanto immediatamente calata e radicata nella concreta e storica esperienza
di vita dei consociati, attingere direttamente da questa giuridicità « altra » e
« diversa » i necessari correttivi e dispositivi tecnici contro le insidie e le deviazioni della legge, non dev’essere considerato un percorso proibito. D’altra
parte connaturato al diritto, quello oggettivo, è anche un incontestabile fon( 20 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1975), cit., p. 2500 ss.
( 21 ) Ivi, p. 2520.
( 22 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2416 ss.
( 23 ) L’accettazione della legge, in Id., Scritti sul diritto e sulla scienza giuridica, Milano
1990, p. 157 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
damento etico-sociale (24) e di conseguenza non deve considerarsi ultroneo
esigere che la stessa legge positiva resti vincolata al sistema di regole etico-sociali quali praticate dalla comunità, e nel contempo pretendere che anche
l’agire dei privati, come del resto pure quello dei pubblici poteri, siano pienamente e integralmente conformi ai corrispondenti e correlativi standards valutativi.
La massima « fraus omnia corrumpit » ha sostanzialmente questo significato e in quanto tale, spiega Luigi Carraro nella prolusione patavina del
’49 (25), possiede anche valore di principio generale, oltre i casi di rilevanza
della buona fede, siccome fonte di exceptio doli e causa, ricorrendone i presupposti dell’art. 2043, anche di responsabilità extracontrattuale, pure in ipotesi di agire privato che dovesse risultare formalmente e sostanzialmente valido. La validità non può annullare la illiceità.
Ma restava intatto e sostanzialmente irrisolto, anche nella linea di pensiero di entrambe le prolusioni da ultimo considerate, il problema della fondabilità conoscitiva e della controllabilità oggettiva sia della legalità sociale originaria sia del sistema di regole etico-sociali praticate dalla comunità: un problema, come vedremo, sempre ritornante, quando si tratta di non limitarsi al
sistema positivo ma di immergersi nel fluire storico dell’ordinamento della vita sociale (26).
Intanto però il decennio si chiudeva allo stesso modo in cui si era aperto.
Si era aperto con la prolusione maceratese del romanista Giovanni Pugliese su
« Diritto romano e scienza del diritto » (27); si chiudeva con la prolusione genovese di un altro insigne romanista Riccardo Orestano su « Il diritto romano
nella scienza del diritto » (28). Concordi entrambi sull’importanza della disciplina romanistica in funzione di studio dell’esperienza giuridica, discordi invece nel sostenere l’uno, il Pugliese, fautore del carattere unitario del fenomeno giuridico, la fondabilità sul diritto romano di concetti e principi e verità
costanti da offrire anche al (progresso del) diritto del presente e nell’escludere
invece l’altro, l’Orestano, convinto assertore della intrinseca e integrale « storicità » di tutti i fenomeni giuridici, ogni possibilità di « attualizzazione » del
diritto romano, attualizzazione resa improponibile da doppia storicità, quella
( 24 ) S. Pugliatti, Gli istituti del diritto divile, I. Introduzione allo studio del diritto, 1.
Ordinamento giuridico, soggetto e oggetto del diritto, Milano 1943, pp. 4, 8, 13, 15; e ora
in Id., Scritti giuridici, II (1937-1947), Milano 2010, pp. 728, 732, 739, 741.
( 25 ) Valore attuale della massima « fraus omnia corrumpit », in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2552 ss.
( 26 ) Per la distinzione tra sistema e ordinamento, il nostro Regola e metodo nel diritto
civile della postmodernità, ora in Id., Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola
giuridica » nell’epoca della postmodernità, Milano 2012, p. 81 ss.
( 27 ) Letta nella Università di Macerata per l’anno accademico 1940-1941, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2327 ss.
( 28 ) Letta nella Università di Genova il 16 dicembre 1950, in Le prolusioni dei civilisti,
III (1940-1979), cit., p. 2575 ss.
SAGGI
507
del dato e quella del soggetto. Anche il diritto romano si negava così a risollevare il diritto dalla profonda crisi in cui eventi storici e mutamenti sociali
sembrava lo avessero definitivamente precipitato.
3. — Il decennio 1951-1960 è chiamato a misurarsi con i problemi tipici
e i mutamenti indotti, nelle condizioni di vita e nel costume, da una società —
quale quella italiana — passata da agricola a industriale e ora in sempre più
rapido e crescente sviluppo, con la impresa ormai al centro del sistema produttivo e i consumi ascesi a livello di fenomeno di massa.
Continuare a lavorare con i vecchi concetti non sembra più possibile e
un’opera di revisione e aggiornamento dell’apparato concettuale preesistente
appare essenziale e ineludibile (29).
Ma la dottrina del diritto civile di questo periodo — secondo un giudizio
largamente condiviso (30) — sembrò starsene in disparte, indifferente, distaccata, in una condizione di quasi « straniamento » persino rispetto alla stessa
Carta costituzionale, fatta oggetto, con il pretesto di una supposta « programmaticità » delle sue disposizioni (31), se non di vero e proprio rifiuto, certamente di quasi indifferenza (32), e così dando vita, attraverso una sorta di costituzionalizzazione della normativa codicistica vigente, a quella che è stata
definita una vera e propria inversione della gerarchia delle fonti (33).
Sebbene non in termini di immediato nesso causale, di certo ebbe un peso anche il clima culturale dell’epoca. Il 1950, presentato come l’anno della
svolta (34), segnò l’ingresso ufficiale nella cultura giuridica italiana della me( 29 ) Sui problemi posti dalla società industriale e sul ruolo del giurista nel nuovo contesto,
quale esperto della vita sociale in funzione non solo di dicere legem, ma soprattutto di dicere ius
e come tale con compiti non solo di tecnico della normatività ma anche e specialmente di mediatore sociale tra conservazione e innovazione e quindi « anche dell’equilibrio sociale », richiamava l’attenzione S. Cotta, Il compito del giurista nell’ora presente, in Iustitia, 1966, p. 165 ss.
( 30 ) Per tutti, N. Irti, Una generazione di giuristi, in La civilistica italiana dagli anni
’50 ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative, Congresso dei civilisti italiani (Venezia
23-26 giugno 1988), Padova 1991, pp. 971, 973; Id., La filosofia di una generazione, in
Id., Diritto senza verità, Roma-Bari 2011, p. 91; e in P. Perlingieri e A. Tartaglia Polcini
(a cura di), Novecento giuridico: i civilisti, Atti dell’omonimo Convegno svoltosi a Telese
Terme nei giorni 29-30 ottobre 2010, Napoli 2013, p. 335.
( 31 ) Cfr. A. Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, in Storia dell’Italia repubblicana, II,
2, Torino 1995, p. 129.
( 32 ) R. Nicolò, Diritto civile, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Atti
del Convegno svoltosi a Messina-Taormina nei giorni 3-8 novembre 1981, Milano, 1982, p.
68. Ma v. altresì, L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari
1999, p. 56 ss.
( 33 ) L. Campagna, Famiglia legittima e famiglia adottiva, Milano 1966, p. 46; nonché:
L. Mengoni, La tutela dei figli nati fuori del matrimonio, in Sociologia, 1970, p. 135 ss.; M.
Dogliotti, La Corte costituzionale estende il rapporto di parentela naturale, in F. it.,
1980, I, c. 909.
( 34 ) N. Irti, Una generazione di giuristi, cit., p. 972.
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todologia analitica nella teorizzazione che di essa aveva offerto Norberto
Bobbio con il noto saggio « Scienza del diritto e analisi del linguaggio » (35). E
il nuovo indirizzo indubbiamente contribuiva anch’esso a distogliere l’attenzione della dottrina giuridica dalle trasformazioni sociali in atto, accentuandone la tradizionale deriva formalistico-legalitaria, in quanto, essendo fondamentalmente basato su rigore linguistico e coerenza logica, produceva — come è stato acutamente messo in rilievo (36) — de-storicizzazione, soggettiva,
oggettiva e contenutistica delle proposizioni normative, e la scienza giuridica
riduceva « a una sorta di algebrica frigidità » fuori dal tempo e dallo spazio.
La penetrazione, in quegli anni, di formalismo e purismo kelseniani avrebbe
fatto il resto.
Non erano, tuttavia, mancate in quel medesimo torno di anni anche autorevoli voci, dichiaratamente fuori dal coro, di aperto dissenso, rivolte a sollecitare un vero e proprio cambio di rotta sia nei metodi che nei contenuti, al
fine di adeguare la ricerca scientifica ai nuovi dati della realtà. Era stata questa l’indicazione più intima che veniva dallo storicismo pragmatico e realistico di matrice ascarelliana, dalla concezione pugliattiana della giurisprudenza
come scienza pratica — assumente a nuovo principio sistematico organizzatore dell’intero diritto positivo quello della massima attuazione possibile della
Costituzione —, e ancora il metodo comparatistico nell’impulso che ad esso
avevano già dato gli studi di Gino Gorla.
Le prolusioni di questo decennio riservano la rassicurante sorpresa di voler raccogliere quest’ultimo, anche se non maggioritario, ordine di sollecitazioni, e, se non proprio dissonanti, di sicuro appaiono disallineate, manifestamente disallineate rispetto al pensiero giuridico dominante.
In questa direzione, e non poteva essere diversamente, si era mossa la
prolusione romana di Tullio Ascarelli del 1953 su « Teoria della concorrenza
e interesse del consumatore » (37), la quale, nel quadro di un reinterpretato
diritto dell’economia e di una rinnovata teoria della concorrenza in senso sia
strutturale che soprattutto funzionale e delle finalità da perseguire, pone al
centro della riflessione l’interesse dell’imprenditore, ma, con una impressionante visione anticipatrice, in fondamentale dialogo con l’esigenza di tutela
della figura del consumatore, quale categoria esponenziale non già di particolari interessi, sibbene di un vero e proprio interesse pubblico allo sviluppo
culturale e industriale, cui si ritiene debba restare sempre e in ogni caso vincolata ogni libertà di iniziativa economica, compresa quella di concorrenza.
( 35 ) L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, cit., p. 84 ss.; V. Villa,
Filosofia del diritto, in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino 2002, p. 368 ss.; M. Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del
diritto, Bologna 2011, p. 208 ss. Il saggio di N. Bobbio, al quale si fa riferimento nel testo,
venne pubblicato in R. trim. d. proc. civ., 1950, p. 342 ss.
( 36 ) N. Irti, La filosofia di una generazione, cit., pp. 93-94.
( 37 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2675 ss.
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Gli aveva fatto eco Rosario Nicolò nella prolusione romana del 1956 (38),
con la invocazione del coraggio di chiudere la fase c.d. romanistica della dottrina del diritto civile e di aprire un nuovo corso, la fase commercialistica, « il
cui substrato — egli scrive — sia rappresentato da quella che è la concreta
realtà economico-sociale del tempo moderno, nelle sue articolazioni strutturali e nei suoi aspetti funzionali » (39). E ciò a partire dalla figura dell’impresa,
il cui più sicuro inquadramento sistematico (dal punto di vista della schematizzazione concettuale del fenomeno) l’autorevole civilista ritenne di individuare nello schema del diritto soggettivo, inquadramento, che per quanto sia
potuto sembrare — come in effetti lo era — asfittico e devitalizzante (40), aveva tuttavia il merito di elevare il dato della realtà alla dignità del valore (41),
con attribuzione di una tra le più forti tutele privatistiche, quale quella appunto rappresentata dal diritto soggettivo.
La Costituzione è ancora taciuta, ma a inaugurare la fase del « disgelo »
costituzionale anche nel cerimoniale accademico delle prolusioni (42) sono la
prolusione bolognese del ’56 di Michele Giorgianni su « I problemi attuali del
diritto di famiglia » e quelle, maceratese e pavese, di Pietro Rescigno rispettivamente del ’54 e del ’59, dedicate l’una a « Sindacati e partiti nel diritto privato » e l’altra a « Gruppi sociali e lealtà » (43).
In Michele Giorgianni è la ferma denuncia del carattere discriminatorio del
trattamento riservato dal codice alla filiazione naturale, in quanto inficiato da
insanabile contrasto con la precettiva disposizione costituzionale dell’art. 30, il
cui limite (quello di cui al comma 3o) egli proponeva di considerare, con interpretazione restrittiva all’epoca sicuramente innovativa, siccome afferente alle
sole ipotesi di « concorrenza in concreto » di diritti di membri della famiglia legittima (44). Insostenibile per contrasto invece con il principio costituzionale di
parità (art. 29 cost.) — a suo dire però programmatico — veniva giudicata anche la disciplina codicistica dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi,
ma di essa anche il giurista sensibile ai valori costituzionali ritenne di salvare la
( 38 ) Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del
diritto civile, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2827 ss.
( 39 ) Op. ult. cit., p. 2832.
( 40 ) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano 2002, p. 142;
Id., Le « prolusioni » dei civilisti e la loro valenza progettuale nella storia della cultura giuridica italiana, cit., p. XXXVIII.
( 41 ) S. Rodotà, voce Nicolò Rosario, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX
secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, vol. II, Bologna 2013, p.
1437.
( 42 ) Sul fenomeno del c.d. disgelo costituzionale quale si sarebbe sviluppato sui diversi
fronti a partire soprattutto dagli anni sessanta, A. Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, cit.,
p. 113 ss.
( 43 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., rispettivamente pp. 2777 ss.,
2741 ss., 2868 ss.
( 44 ) Ivi, p. 2780.
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riserva al marito della funzione direttiva del governo della famiglia (art. 144
c.c.), in quanto — con discutibile valutazione — supposta a garanzia del principio, anch’esso costituzionale, di unità della famiglia (45).
Nelle pagine prolusive di Pietro Rescigno il riferimento alla Costituzione
acquista il senso pieno del superiore principio ordinante, anche se non sempre
anche quello di finale criterio di giudizio e di valutazione. Suscita stupore nell’insigne giurista che entità, quali sindacati e partiti politici, assurte a rilievo
costituzionale con una disciplina, scarna sì, ma essenziale nella enunciazione
di fondamentali principi regolatori (artt. 39 e 49 della Cost.), fossero invece
già allora sempre più attratte e trovassero più sicuro rifugio in schemi e concetti e tutele del diritto privato. Espressamente Rescigno parlò di « impegno
costituzionale tradito » (46). Alle formazioni sociali la Costituzione concede
ampia garanzia e protezione, ma sempre in funzione dell’individuo che vi è
tutelato e protetto quale soggetto storico concreto sociale, che svolge in quelle
la sua personalità (art. 2 Cost.). Al riguardo la fine e pensosa pagina del sensibile studioso delle comunità intermedie invita a riflettere sul tema della lealtà e sui laceranti conflitti, che, in nome di un’etica a essa ispirata, assai spesso
insorgono tra individuo e gruppo sociale e tra i diversi gruppi sociali per sfociare il più delle volte in dolorose e tragiche scelte. In questi casi — e la realtà
odierna ci offre numerosi e significativi esempi (47) — non sempre al diritto,
anche in versione costituzionale, è possibile venire in soccorso e l’essere umano resta in solitudine a vivere il dramma della scelta tra il tormento del dubbio e l’angoscia della decisione.
Con le riflessioni di Pietro Rescigno, che ritroveremo anche nelle successive prolusioni dello stesso autore, il discorso giuridico era prepotentemente
tornato a parlare all’individuo, all’individuo in carne e ossa, e nel contempo a
interrogarsi sulla condizione dell’uomo contemporaneo, ormai colto ed esplorato nei suoi bisogni, nelle sue inquietudini e intime contraddizioni, nelle sue
angosce esistenziali.
Ma il nuovo ethos culturale e valoriale si espande, contagia, attraversa
anche le prolusioni di questo periodo, più direttamente impegnate sul fronte
della sistematizzazione dogmatica e concettuale di categorie e istituti del diritto civile.
Avviene così che il « fatto giuridico », da sempre considerato tale in quanto « causa di effetti giuridici », a un certo punto si emancipa dalla efficacia per
iscriversi direttamente alla categoria della « rilevanza giuridica », quale fonte
primaria della propria qualificazione giuridica, come tale non più riconducibile
a una investitura formale proveniente ab externo (quale, appunto, il ricollega( 45 ) Ivi, p. 2798 ss.
( 46 ) Sindacati e partiti nel diritto privato, cit., p. 2763 ss.
( 47 ) Per una esemplificazione, il volume di G. Calabresi e Ph. Bobbit, Tragic Choices
(1978), trad. it. (con il titolo Scelte tragiche) a cura di C.M. Mazzoni e V. Varano, Milano
1986.
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mento di effetti), sibbene immediatamente a una sua pretesa essenza o qualità
intrinseca, che Renato Scognamiglio, nella prolusione urbinate del 1954 (48),
individua in una non meglio identificata importanza o « valore specifico » o efficienza dinamica del fatto nel campo del diritto (49). Nella realtà non si trattava però di una assoluta novità, in quanto già anni prima la metodologia degli
interessi teorizzata da Angelo Falzea aveva consentito di individuare nell’interesse evidenziato dal fatto, e quindi in una intrinseca e oggettiva valenza assiologica del fatto medesimo, il punto di incontro o, se si vuole, la sicura linea di
mediazione tra il fatto e il diritto, istitutiva della rilevanza giuridica del primo
rispetto al secondo (50). Con l’avvertenza però che non l’interesse in sé ha valore fondativo, bensì soltanto in quanto riscontrato conforme all’interesse fondamentale della comunità giuridica, così scongiurandosi non solo il rischio di possibili sopraffazioni del dover-essere sull’essere, ma anche l’opposto e non meno
inquietante pericolo di inammissibili prevaricazioni « a rovescio » del fatto sul
diritto, dell’essere sul dover-essere.
Anche nel diverso campo dei fatti illeciti, è pur sempre nell’interesse (efficace o anche solamente rilevante), in quanto riscontrato oggetto di immediata e diretta lesione, da riporre il criterio della qualificazione normativa del
fatto in termini di illiceità. Non anche però il fondamento della responsabilità
civile. Quello tra illiceità e responsabilità è « gemellaggio » tutto moderno, un
sodalizio imputabile alla Modernità, ma smentito dalla realtà dell’esperienza,
perché a volte si dà responsabilità senza illiceità (c.d. responsabilità da atto
lecito) e altre volte illiceità senza responsabilità (in ipotesi di assenza di ingiustizia del danno) (51). E tutto questo perché sulla configurazione di responsabilità incide non soltanto la natura degli interessi giuridici lesi facenti capo alla vittima dell’illecito, ma anche e soprattutto la valutazione comparativa della contrapposta posizione giuridica dell’autore del fatto illecito, valutazione
alla quale è appunto finalizzata la clausola della ingiustizia del danno: una
clausola che ha la funzione di riscattare la responsabilità civile dall’appiattimento sulla qualificazione di illiceità, ma che nel contempo, quando non rimossa o addirittura dissolta nel concetto stesso di danno, è stata da sempre di
difficile e controversa determinazione (52).
( 48 ) Fatto giuridico e fattispecie complessa. Considerazioni critiche intorno alla dinamica del diritto, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-979), cit., p. 2645 ss.
( 49 ) Ivi, spec. p. 2670 ss.
( 50 ) A. Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 10 ss.;
e successivamente, e più diffusamente, Id., voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, pp. 457 ss., 481 ss.; Id., voce Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p.
941 ss.: entrambe ora in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II. dogmatica giuridica, Milano 1997, pp. 64 ss., 125 ss., 331 ss.
( 51 ) Cfr. il nostro Illecito civile e responsabilità: fondamento e senso di una distinzione,
in questa Rivista, 2009, I, p. 663 ss.
( 52 ) V. il nostro Danno e ingiustizia nella teoria della responsabilità civile, nonché, Id.,
Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, entrambi ora in Id., Categorie e
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
La prolusione milanese del 1960 di Piero Schlesinger (53) ha il merito di
riportare l’anzidetta clausola sul terreno concreto storico reale, sul quale da
sempre la tutela aquiliana insorge e si dispiega, il terreno cioè del conflitto
d’interessi tra danneggiato e danneggiante, con la illiceità sempre quale fattore scatenante del conflitto in quanto violazione del precetto dell’alterum non
laedere, e la ingiustizia invece concepita quale criterio di risoluzione del conflitto in favore del danneggiato per assenza nel danneggiante di uno specifico
diritto che ne autorizzi e giustifichi il comportamento dannoso (54). Certo la
identificazione del danno ingiusto con il danno non giustificato (55) può sembrare, e in effetti è, riduttiva e incompleta, in quanto di sicuro non esaurisce
la tipologia dei conflitti aquiliani, nella realtà assai più vasta e molto più
complessa, ma indubbiamente valeva ad assicurare alla responsabilità civile
una più convincente ed efficace linea di pensiero, direttamente ancorata alla
concreta e storica trama degli interessi umani incisi dal fatto illecito.
Quello tra essere e dover-essere, mondo dei fatti e mondo del diritto, è
rapporto in costante tensione dialettica e il problema, con il quale la dottrina
è stata in ogni tempo chiamata a fare i conti e a misurarsi, è da sempre quello
della determinazione del criterio di decisione della partecipazione dei fatti alla
vita del diritto. Orbene, sembra potersi tranquillamente affermare che le prolusioni degli anni cinquanta hanno decisamente segnato un netto punto a favore di una più rassicurante e conciliativa linea di pacificazione del mondo
del diritto con il mondo della realtà storico-sociale, passante per la elevazione
del « fatto » a protagonista della vita del diritto piuttosto che spettatore inerte
e passivo alla mercé dell’ordine giuridico. E non è un caso se Domenico Rubino nella prolusione romana del 1957 (56) si sia appellato proprio alla categoria dei fatti per inquadrare anche la pubblicità, da lui qualificata come « fatto
giuridico permanente ».
Ma appunto perché esposto alle continue sollecitazioni provenienti dai
concreti rapporti storico-reali della vita, un equilibrio instabile e sempre mutevole contraddistingue il mondo del dover-essere giuridico, la c.d. realtà effettuale del diritto, sicché spetta alla elaborazione teorica sia dottrinale che
giurisprudenziale verificare in ogni momento i mutamenti, le deformazioni o
anche le rotture prodottesi, al fine di apportare le revisioni e gli adattamenti
necessari a riportare a nuovo equilibrio e a nuova sintesi e unità l’ordine giuridico turbato. Sotto questo aspetto, soprattutto il tema delle situazioni sogistituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, rispettivamente pp.
737 ss., 779 ss.
( 53 ) La « ingiustizia » del danno nell’illecito civile, in Le prolusioni dei civilisti, III
(1940-1979), cit., p. 2896 ss.
( 54 ) Ivi, p. 2904.
( 55 ) Ivi, p. 2902.
( 56 ) La pubblicità come fatto permanente, in Le prolusioni dei civilisti, III (19401979), cit., p. 2855 ss.
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gettive, dei diritti e dei doveri, aveva da sempre rappresentato un fronte caldo
e alquanto problematico. Non vi avevano fatto eccezione la figura della obbligazione e la connessa situazione di credito, assai spesso formante oggetto di
pensiero negativo sino alla stessa messa in dubbio della sua appartenenza alla
categoria del diritto soggettivo (57), per la difficoltà che le diverse teorie personali e patrimoniali della obbligazione avevano incontrato nell’assegnare al
credito un autonomo contenuto rispetto all’obbligo.
A siffatto ordine di questioni rivolgeva la sua attenzione Luigi Mengoni
nella prolusione triestina del 1951 su « L’oggetto dell’obbligazione » (58). Sebbene fondamentalmente intesa a fissare definitivamente nel risultato del facere
debitorio l’oggetto della obbligazione, la riflessione mengoniana, attraverso
una rigorosa messa a fuoco della complessa struttura del rapporto obbligatorio,
svolge un discorso di più ampio respiro, volto proprio a riscattare l’autonoma
consistenza del diritto di credito, quale situazione dotata di proprio contenuto
(il risultato appunto da realizzare, idest la soddisfazione dell’interesse creditorio), contenuto che, sebbene legato da nesso di correlatività funzionale al contenuto dell’obbligo (rappresentato dal comportamento dovuto), non è per
Mengoni il precipitato intrinseco di questo e neppure si identifica con esso,
stante la insostenibilità teorica e positiva di una loro simmetrica identità. Il credito in questo modo non solo recuperava la sua piena autonomia concettuale,
ma poteva anche marcare una netta differenza e distanza rispetto alle stesse situazioni reali. Certo non era qui ancora il Mengoni che attinge dalla filosofia
dei valori la forza dell’argomentazione giuridica, e però la critica bettiana di
aver condotto « un’arida analisi formale » (59) appare senz’altro eccessiva (60),
anche se già all’epoca la elaborazione dogmatica poteva contare su ricostruzioni dottrinali del rapporto obbligatorio rigorosamente condotte in termini di interessi ed esigenze reali di vita sottese al medesimo (61).
4. — Gli anni ’60 segnano un nuovo inizio. Scrive Paolo Grossi: « Saranno gli anni sessanta il terreno storicamente fertile perché gli sparsi germi del
decennio precedente divengano una fruttificazione copiosa » (62).
( 57 ) Per tutti, D. Barbero, Il diritto soggettivo, in Id., Studi di teoria generale del diritto, Milano 1953, p. 79 ss., costituente la prolusione triestina al corso di diritto civile letta il
24 novembre 1938.
( 58 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2614 ss.
( 59 ) E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano 1953, Prefazione, p. 6 e nt.
3, richiamato dallo stesso L. Mengoni, Diritto e valori, cit., Prefazione, p. 5.
( 60 ) Secondo A. Nicolussi (Luigi Mengoni e il diritto privato, in L. Nogler e A. Nicolussi (a cura di), Luigi Mengoni o la coscienza del metodo, Padova 2007, p. 37 ss.) la prolusione in questione sarebbe « forse lo scritto concettualmente più denso di tutta l’opera di
Mengoni » (ivi, p. 61).
( 61 ) A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano 1947, spec.
p. 31 ss.
( 62 ) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, cit., p. 145.
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È la Modernità che ormai velocemente corre verso il suo epilogo finale,
sotto l’irrompere di un nuovo ordine storico-sociale sempre più pluralista e
complesso: con il soggetto concreto, storico, reale, che prende il posto dell’astratto, virtuale, seriale soggetto unico della modernità; con la centralità
dello Stato sempre più insidiata dalla diffusione di enti e formazioni intermedie, da monoclasse divenuto pluriclasse, da entità accentratrice ora costretto a
cedere poteri e funzioni; con il codice civile sempre più eroso nella sua funzione di rappresentanza esclusiva della disciplina privatistica da una invasiva
molteplicità di leggi speciali, istitutive di veri e propri statuti di gruppi; con il
diritto formalmente stabilito, che, dovendo assicurare, oltre alla eguaglianza
formale, anche e soprattutto quella sostanziale e la solidarietà tra i cittadini,
chiama lo Stato a intervenire sempre più frequentemente nei rapporti economico-sociali e che, per essere effettivamente eguale, si fa ora « diseguale »,
cioè a misura dei concreti bisogni delle persone; con la Costituzione, non più
misconosciuta e ora eretta a presidio di una « legalità » di tipo nuovo, basata
non solo sulla legge ma anche sul diritto che sta oltre la legge, ossia sulle necessità reali di vita dei consociati, i c.d. « valori », quelli espressamente enunciati ma anche quelli che una società in movimento continuamente genera ed
esprime; con la cultura giuridica, infine, non più arroccata su posizioni statalistiche e legalistiche, ma ormai disposta anch’essa a uscire, secondo la celebre
formula kantiana, dal lungo « sonno dogmatico » e a ripensare categorie e
concetti per farne, attraverso un’appropriata opera di « demitizzazione » e vera e propria « demistificazione », degli strumenti elastici, storicamente condizionati, come tali capaci di assicurare rispondenza e coerenza tra ordine giuridico e mutamento sociale o, se si vuole, tra forme giuridiche e bisogni reali
dei consociati.
La dottrina del diritto civile partecipa al cambiamento e anzi del cambiamento si rende protagonista anch’essa. Ne sono testimonianza viva proprio le
prolusioni del nuovo decennio, attestate tutte su un fronte ancora più avanzato, in posizione di avanguardia.
È ancora Michele Giorgianni con la prolusione napoletana del 1961 intitolata « Il diritto privato e i suoi attuali confini » (63) a segnalare la svolta e il
mutato volto del diritto privato che, perduto il suo originario significato « costituzionale » e il carattere di esclusiva tutela dell’individuo, andava sempre
più assumendo la fisionomia di un diritto privato « socializzato », funzionale
cioè alla diretta tutela anche di interessi della intera società o di determinate
categorie o gruppi sociali quali enti esponenziali di interessi collettivi costituzionalmente garantiti ai commi 2 e 3 dell’art. 41 Cost. L’analisi prendeva le
mosse dal massiccio fenomeno « interventistico » dello Stato nell’economia,
che aveva comportato incisive limitazioni alla libertà di iniziativa economica
privata e a volte anche l’assunzione diretta di attività private da parte della
pubblica amministrazione, e si chiudeva con il perentorio invito rivolto alla
( 63 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2945 ss.
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dottrina privatistica ad adeguare i propri strumenti e le tradizionali categorie
alla mutata realtà economica e normativa, pena il declino delle forme ordinanti del diritto.
E nel tempo che già, con singolare inversione storica, si apprestava a celebrare pure il ritorno agli status (64), puntuale giunge, con la prolusione bolognese del 1961 su « Immunità e privilegio » (65), la voce critica e come sempre ammonitrice di Pietro Rescigno contro le disparità e le discriminazioni
connesse a un diffuso sistema di immunità e privilegi a diversi livelli (sociale,
economico, individuale e di gruppi), immunità e privilegi che, in quanto costituenti vere e proprie esenzioni dal diritto comune, rappresentano un autentico vulnus non solo alla eguaglianza « giuridica », ma allo stesso sistema di
democrazia sostanziale quale delineato dell’art. 3, comma 2o, della Cost., e finalizzato proprio ed espressamente alla rimozione di ogni ostacolo (sociale o
economico) comunque limitativo di fatto della libertà e della uguaglianza dei
cittadini.
Nella stessa direzione è il recupero della dottrina dell’abuso del diritto
che Rescigno compie nella successiva prolusione bolognese del 1965 dedicata
al tema (66). Solo un malinteso pensiero liberale aveva potuto giustificare il rifiuto del divieto di abuso per preteso contrasto con i principi di uguaglianza
formale e di esclusività dell’ordinamento statale, a supposta garanzia della libertà individuale e della certezza del diritto. Ma di fronte a una società, scrive
Rescigno, « dominata dall’egoismo e dalla disuguaglianza », sindacabilità e
controllo di libertà e atti di autonomia privata, di poteri e diritti, sulla base di
criteri anche extralegali, sono, più che una necessità, un’urgenza resa ineludibile ancora una volta dal sopra richiamato disposto costituzionale dell’art. 3,
comma 2o, nonché dallo stesso art. 2. Anche se — annota Rescigno — non basta certo il divieto di abuso a moralizzare il diritto, ma quanto meno forse
servire ad arrestarne « la progressiva disumanizzazione ».
Anche un giurista, come Giuseppe Stolfi, convinto assertore dell’autonomia della volontà e fautore di una visione marcatamente individualistica del
diritto, non esita, nella prolusione romana del 1964 su « Il principio di buona
fede » (67), ad assegnare alle regole di correttezza una funzione integrativa e
persino correttiva dell’ordine legale.
E la Costituzione? La Costituzione restava sempre lì, a indicare in rigida forma imperativa norme, principi, valori, costituenti ormai — come si
( 64 ) Su cui, in particolare, G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle
differenze individuali, Roma-Bari 1993, p. 31 ss.; ma già, P. Rescigno, Situazione e status
nell’esperienza del diritto, in questa Rivista, 1973, I, p. 222 s.; nonché, N. Irti, L’età della
decodificazione, in D. e società, 1978, p. 631; e ora in Id., L’età della codificazione, 4a ed.,
Milano 1999, p. 41.
( 65 ) Op. ult. cit., p. 2911 ss.
( 66 ) Op. ult. cit., p. 3003 ss.
( 67 ) Op. ult. cit., pp. 2979 ss., spec. p. 2998 s.
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disse — « direttive interne di sistema » (68) e come tali esigenti una intensa e
severa opera di rivisitazione e revisione dell’intero edificio privatistico. Ma a
un certo punto troppo grande è dovuto apparire il gap accumulatosi tra ordine legale e società reale per non suscitare il dubbio che non fosse proprio
il codice, il codice civile, con la sua rigida disciplina regolamentare essenzialmente basata su tipizzazione di comportamenti e fissità di ipotesi già definite, a rappresentare un serio ostacolo alla necessaria espansione dei principi costituzionali anche nella disciplina dei rapporti di diritto privato (69);
che non fosse in altri termini proprio il codice a impedire quel necessario
rinnovamento dell’ordinamento privatistico in grado di agganciare il divenire storico dell’esperienza e tracciare anche le linee direttive di una società in
trasformazione.
Da qui la proposta lanciata da Stefano Rodotà, nella prolusione maceratese del 1966 su « Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile » (70), di
una legislazione di tipo nuovo e diversa, una legislazione per principi esprimentesi in clausole generali, reputata più idonea a garantire la penetrazione
nell’ordine giuridico delle esigenze della vita sociale come pure a dettare regole prospettive della organizzazione sociale, con giudici e giuristi nel ruolo anch’essi di protagonisti, gli uni — i giudici — in funzione di equilibrio tra regolazione giuridica e ricostruzione della realtà; gli altri — i giuristi — non più
in funzione di notai della storia, ma con compiti fondativi di una cultura giuridica nuova, diversa, « altra », non più soltanto ricostruttiva, bensì anche
creativa e riformatrice a un tempo.
Fiducia illuministica nella razionalità del legislatore, come scrisse Natalino Irti (71), oppure necessità di un metodo nuovo di fare diritto, diritto sottratto, per intima aderenza a principi e valori costituzionali, alla indifferenza
contenutistica e come tale diritto legittimo e non più soltanto legale?
Sappiamo tutti com’è andata. Una massiccia proliferazione, come si è
già anticipato, di leggi speciali, assai spesso improvvisate, quasi sempre disorganiche e contingenti, a volte contrattate e — quel che è peggio — nella
maggior parte dei casi portatrici di esasperato particolarismo giuridico se
non proprio di caos normativo, di sicuro non istitutive di generali linee direttive o regole prospettive della vita sociale né espressive di discipline che,
per quanto conformi a corrispondenti principi costituzionali, potessero va( 68 ) S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Le prolusioni dei
civilisti, III (1940-1979), p. 3094. Ma v. altresì, S. Cotta, Il giurista e la società in trasformazione, in Iustitia, 1966, p. 297.
( 69 ) Scrive G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari
2000, p. 340: « quello (cioè il Codice civile del 1942) diviene un ostacolo alla diffusione e
alla pratica applicazione dei nuovi valori costituzionali garantiti dalla Costituzione repubblicana anche nei rapporti tra privati governati dal Codice civile ».
( 70 ) Ivi, p. 3091 ss.
( 71 ) Una generazione di giuristi, cit., p. 38.
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lutarsi « in netta contraddizione con il sistema espresso dal codice » (72).
Più che il proficuo dibattito suscitato dal tema delle « clausole generali » (73), sarà piuttosto il processo di internazionalizzazione e complessificazione delle fonti del diritto, e soprattutto il processo di integrazione giuridica
europea — per tutto ciò che questo ha rappresentato e continua a rappresentare in termini di affermazione di nuovi valori, principi e diritti — a restituire
rinnovato vigore a quella indicazione, non esistendo, a mio avviso, alternative
valide alla costruzione di un comune diritto privato europeo che non sia fondato sull’unità nella diversità: l’unità appunto di principi generali uniformi e
la diversità di adattative regole nazionali di fattispecie (74).
Che poi spetti alla cultura giuridica un ruolo di primissimo piano anche
nella edificazione di un coerente quadro di principi ordinanti dell’intero sistema è verità sicuramente incontrovertibile (75). Ma la constatazione è che, a
parte il legislatore, neppure gli altri protagonisti coinvolti nel progetto si mostrarono all’altezza del compito. La giurisprudenza, in funzione di mediazione dei conflitti sociali, determinò esiti che vennero subito giudicati « del tutto
sconfortanti » (76). La dottrina del diritto civile, a sua volta, quando non preferì riaffermare i valori tradizionali (77), sembrò mancare anch’essa l’obiettivo, come dimostra per tutti il rapido spegnersi del dibattito suscitato dalla
proposta di Pietro Barcellona di un uso alternativo del diritto (78). E non è un
( 72 ) R. Nicolò, Diritto civile, cit., p. 75.
( 73 ) Al riguardo, nella Prefazione (Quarant’anni dopo) alla ristampa di Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli 2007, S. Rodotà parla di « piccola battaglia
vinta » (p. 13), ma aggiungendo subito dopo che « non ci si può fermare a qualche soddisfatta constatazione » (p. 14).
( 74 ) Per più ampi svolgimenti di tale assunto, V. Scalisi, Il nostro compito nella nuova
Europa, ora in Id., Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, cit., p. 329 ss.; nonché, Id., Per un diritto privato comune europeo (nel centenario della nascita di Alberto Trabucchi), ivi, p. 453 ss.
( 75 ) Già verso la metà degli anni cinquanta pagine memorabili sulla importanza del
ruolo della cultura giuridica nel processo di realizzazione dei valori giuridici aveva scritto il
fine e sottile indagatore della cultura umana quale base della egemonia planetaria dell’uomo, R. De Stefano, Il problema del diritto non naturale, Milano 1955, pp. 245 s., 250 ss.,
256 ss., nonché, con particolare riferimento alla cultura in generale, i due volumi dello stesso A., Per un’etica sociale della cultura, I. Le basi filosofiche dell’umanesimo moderno, Milano 1954; II. La cultura e l’uomo, Milano 1963.
( 76 ) G.B. Ferri, La cultura del civilista tra formalismo e antiformalismo, in R. d.
comm., 1993, I, p. 171; e in Id., Le anamorfosi del diritto civile attuale, Saggi, Padova
1994, p. 99.
( 77 ) G.B. Ferri, Antiformalismo, democrazia, codice civile, in R. d. comm., 1968, I, p.
347 ss.
( 78 ) Cfr. gli atti del noto incontro di studio, svoltosi a Catania nei giorni 15-17 maggio
1972, per iniziativa di P. Barcellona, raccolti in due volumi a cura dello stesso, L’uso alternativo del diritto, I. Scienza giuridica e analisi marxista, II. Ortodossia giuridica e pratica
politica, Roma-Bari 1973, nonché le pagine introduttive redatte dallo stesso curatore. Per
un’ampia disamina critica su ascesa e declino di tale movimento di pensiero: P. Costa,
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caso, se alla fine degli anni settanta, Pietro Rescigno potrà annotare che non
sono ancora « numerosi i contributi specifici sulle materie del diritto privato
in cui possa avvertirsi un rapporto immediato e immediatamente percettibile
tra sistema costituzionale e diritto privato » (79).
Anche di qui, più attuale che mai, l’invito, formulato da Pietro Perlingieri nella prolusione camerte del 1969 (80), a evitare — oltre all’utopia dei soli
principi — pericolose fratture tra produzione scientifica e realtà pratica (81),
attraverso il ripudio di ogni concettualismo (sia dogmatico che sociologico) e
la conseguenziale messa in campo di una necessaria e creativa attività di interpretazione in funzione di costante adeguamento e commisurazione della
norma al fatto da regolare: adeguamento e commisurazione, che, in nessun
caso però, stante il rapporto di costante tensione dialettica tra norma e rapporti economico-sociali, dovrebbero prescindere per un verso dalla storicizzazione delle categorie giuridiche e per altro verso da una rilettura sistematica
di Codici e leggi alla luce dei principi costituzionali.
Poteva bastare? Può bastare ripristinare l’ordine dei fattori, anche di
quelli costituzionali, per conseguire la piena corrispondenza della norma alla
vivente realtà della società?
Secondo Nicolò Lipari (prolusione barese del 1968 su « Il diritto civile
tra sociologia e dogmatica » (82)) era ormai tempo di guardare oltre lo schermo formale del dato legale e cioè direttamente all’esperienza giuridica nella
concretezza del suo storico divenire, all’esperienza — secondo la incisiva formula di Enrico Paresce (83) — in quanto « matrice feconda dei valori », per
dare alla norma quel senso, che, appunto in chiave di valore, « è presente, secondo le condizioni storiche e sociali del momento, nella totalità dell’esperienza » e che spetterebbe all’interprete cogliere e ricostruire con procedimento
necessariamente creativo, secondo criteri non tecno-sistematici e formalisticoL’alternativa « presa sul serio »: manifesti giuridici degli anni Settanta, in Dem. e d., 1987,
n. 3, p. 15 ss., e ora ripubblicato in Dem. e d., 2010, n. 1-2, p. 242 ss., con una Nota dello
stesso A., ivi, p. 279 ss.
( 79 ) P. Rescigno, Diritti civili e diritto privato, in Aa.Vv., Attualità e attuazione della
Costituzione, 2a ed., Roma-Bari 1982, p. 237.
( 80 ) Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, in Le prolusioni dei
civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3181 ss.
( 81 ) Nello stesso arco temporale a sollecitare il superamento di ogni frattura tra scienza
e pratica del diritto è anche C.M. Bianca, Il principio di effettività come fondamento della
norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Estudios de
derecho civil en honor de Castàn Tobeñas, II, Pamplona, 1969, spec. p. 63 ss., secondo cui
la norma va assunta « così come essa si presenta nella realtà dell’esperienza di un determinato tempo e di un determinato luogo », avuto riguardo alla giurisprudenza come indice di
effettività della stessa (ivi, p. 67 ss.). Dello stesso A., per analogo ordine di considerazioni,
Interpretazione e fedeltà alla norma, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, I, 1, Milano
1978, p. 147 ss.
( 82 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3137 ss.
( 83 ) Voce Dogmatica giuridica, in Enc. dir., XIII, Milano 1964, p. 689.
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legalitari bensì anch’essi direttamente tratti dalla realtà storica e dal contesto
del tessuto sociale, in modo da sociologizzare la dogmatica, ma dogmatizzando nel contempo la sociologia (84). In questo senso anche il rigido limite del
dettato costituzionale, non meno della norma ordinaria, resterebbe ancorato
alla storia e ai mutamenti della realtà sociale.
La positività normativa cedeva così il posto alla positività della « realtà
sociale » dei valori e questa, a sua volta, suscitava e poneva angosciose e inquietanti domande, tra tutte quella della concreta e oggettiva conoscibilità
della realtà sociale, e l’altra della concreta e oggettiva individuazione dei valori che quella manifesta e realizza. Il rinvio alla sociologia, proposto da Lipari, non è la soluzione, ma la semplice trasposizione di un problema, che rimaneva e rimane aperto e sicuramente destinato ad aggravarsi, ove si volesse ritenere — come pure più recentemente proposto (85) — di utilizzare l’analisi
sociologica anche per risolvere la concorrenza tra fonti (legali e di fatto), con
l’ulteriore rischio, che pure si dichiara di voler scongiurare, di fare della giuridicità la « mera registrazione di un accaduto », piuttosto che il limite all’accadere e alla mera fruizione di rapporti di forza.
Il richiamo ai valori, quali entità storico-reali dell’esperienza, non costituiva né costituisce in realtà una novità per la dottrina italiana neppure per
quella più recente (86). Ma non si può non convenire che l’applicazione che
ora si proponeva di farne al diritto civile conferiva oggettivamente ulteriore e
più forte spinta al processo di definitiva affrancazione anche di questa vasta
area della giuridicità da quell’onda lunga di esasperato formalismo legalistico
e rigido dogmatismo che si trascinava dalla pandettistica, confermando anche
per il diritto civile il carattere di realtà vivente radicata nel profondo della società prima ancora che forma e decisum di un potere legislativo sovrano (87).
E in tale assunto, ma solo in tale assunto, può anche riassumersi la cifra di
tutto il pensiero civilistico quale si era venuto sviluppando nelle prolusioni del
decennio.
5. — Il decennio degli anni sessanta, che appena si chiudeva, aveva suscitato, ma lasciato sostanzialmente irrisolti, inquietanti interrogativi: dal
problema della isolabilità e comprensione della esperienza giuridica a quello
( 84 ) Scrive N. Lipari, op. ult. cit., p. 3175: « il giurista deve interpretare sociologicamente la norma o il sistema e dogmaticamente la realtà o il dato sociale ».
( 85 ) Dallo stesso N. Lipari, Diritto e sociologia nella crisi istituzionale del postmoderno,
in R. crit. d. priv., 1998, p. 409 ss., spec. p. 421.
( 86 ) Il riferimento è soprattutto all’opera del filosofo del diritto R. De Stefano, su cui il
nostro Assiologia e teoria del diritto (rileggendo Rodolfo De Stefano), ora in Id., Fonti —
teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, cit.,
p. 227 ss.
( 87 ) In questo senso una sperimentazione innovativa poteva considerarsi il volume curato dallo stesso N. Lipari, Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Roma-Bari
1972.
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dei criteri decisori dei contenuti normativi della legge; dal problema della
soggettività interpretante a quello della fondabilità conoscitiva e controllabilità dei valori (88); dal problema del politeismo e anomia di tali valori a quello
della relatività e storicità degli stessi principi e fondamenti costituzionali e
persino della possibile conflittualità tra i medesimi (89).
Ma le prolusioni si spengono e il decennio degli anni settanta ne testimonia il definitivo tramonto. L’opera di rivisitazione e revisione prosegue, ma
predilige altre sedi: il convegno, la rivista (90), il trattato, il commentario, la
monografia di alto impegno teorico-dogmatico. Dibattiti, all’epoca anche
molto accesi, come quello già ricordato sull’uso alternativo del diritto (91),
sull’analisi economica del diritto (92), sulla politica del diritto (93), sulla decodificazione o l’esegesi come ultima razionalità rimasta al giurista (94), non lasciarono particolari segni di svolta. Al convegno messinese sui Cinquant’anni
di esperienza giuridica in Italia, svoltosi a Taormina nel novembre del 1981,
Rosario Nicolò poteva dichiarare che quella appena decorsa non sembrava
« una stagione felice » per gli studi civilistici e neppure forse per gli studi giuridici in generale (95). Eppure proprio in quegli anni nuovi orizzonti avevano
aperto anche allo studio del diritto civile l’assiologismo storico-realistico di
Angelo Falzea (96) e il c.d. « pensiero per valori » o « dogmatica dei valori »
( 88 ) In tema, G. Palombella, Si possono conoscere i valori nel diritto? Per un modello
epistemologico e pratico, in R. crit. d. priv., 1998, p. 7 ss.
( 89 ) Sulla compresenza in Costituzione di « più valori e più principi che possono trovarsi in situazione di conflitto »: M. Fioravanti, Le dottrine dello Stato e della Costituzione, in
R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano. Dall’unità a oggi, Roma 1995, p. 421.
( 90 ) È questo il periodo in cui si assiste a una crescita quantitativa e qualitativa delle riviste: S. Rodotà, in P. Grossi (a cura di), La « cultura » delle riviste giuridiche italiane, Atti
del primo incontro di studio (Firenze, 15-16 aprile 1983), Milano 1984, p. 86.
( 91 ) Supra, nt. 78.
( 92 ) Spec. P. Trimarchi, L’analisi del diritto: tendenze e prospettive, in Quadr., 1987,
pp. 563-582. E per applicazioni, Id., Rischio e responsabilità oggettiva, Milano 1961; nonché: Aa.Vv., Interpretazione giuridica e analisi economica, Milano 1982; Aa.Vv., Analisi
economica del diritto privato, Milano 1998.
( 93 ) Simbolo di tale movimento di pensiero la rivista, Politica del diritto, fondata nel
1970, da Stefano Rodotà (v. l’editoriale che apre il primo numero della rivista). Tra i protagonisti: G. Tarello, Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna 1988. Sul rapporto
politica-diritto, le illuminanti pagine di L. Mengoni, Diritto e politica nella dottrina giuridica, in Iustitia, 1974, p. 337 ss., ora in Id., Scritti, I. Metodo e teoria giuridica (a cura di C.
Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi), Milano 2011, p. 149 ss.
( 94 ) N. Irti, L’età della decodificazione, cit., passim.
( 95 ) Diritto civile, cit., p. 76. Per una rivisitazione della cultura privatistica degli anni settanta, L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Milano 2008; e ivi, il contributo dello stesso curatore del volume, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta, pp. 1-27.
( 96 ) In particolare, Introduzione alle scienze giuridiche, giunta alla 6a ed., Milano 2008;
Voci di teoria generale del diritto, 3a ed., Milano 1985; Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, I. teoria generale del diritto, Milano 1999; II. dogmatica giuri-
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di Luigi Mengoni (97). Sono stati anche anni di importanti innovazioni legislative, tra cui l’introduzione del divorzio, l’abbassamento della maggiore età, la
legalizzazione dell’aborto, la riforma soprattutto del diritto di famiglia e quella sulla locazione di immobili urbani, ma la dottrina, che pure si mostra sensibile e attenta a cogliere le novità ma anche i ritardi, è ormai attratta da
quella che è stata definita la cultura giuridica del riflusso e del ritorno al privato, con il diritto civile che « sembra risolversi in una tecnica difensiva e
protettiva » dell’individuo in quanto tale (98). La stessa rilettura costituzionale di codici e leggi speciali accusa insufficienze e limiti di varia natura, per assenza — come si disse (99) — di una puntuale e precisa individuazione della
rilevanza di norme e principi costituzionali nei singoli rapporti concreti.
In questo quadro di elaborazione scientifica « liquida », tipicamente postmoderna, che rifletteva a sua volta una stagione del diritto divenuto anch’esso « liquido », e che tuttora si protrae, Pietro Perlingieri scrive l’ultima pagina
di un genere letterario che pure — come si è visto — molto aveva contribuito
all’avanzamento degli studi civilistici e traccia il manifesto di un nuovo itinerario, che garantisca l’approdo a una nuova stagione del diritto civile, quella del
« diritto civile costituzionale »: è la prolusione napoletana del 1979 intitolata
« Norme costituzionali e rapporti di diritto civile » (100), avente del manifesto
scientifico, a giudizio di Natalino Irti, « il pathos e la fertilità » (101).
dica, Milano 1997; III. scritti d’occasione, Milano 2010. Sull’assiologismo di Angelo Falzea,
P. Grossi, Omaggio ad Angelo Falzea, in Giornate in onore di Angelo Falzea (15-16 febbraio 1991), Milano 1993, p. 149 ss.; D. Farias, La teoria generale del diritto tra vita e
scienza, ivi, p. 2001 ss.; N. Irti, La filosofia di una generazione, cit., p. 97; nonché V. Scalisi, I professori del genere civilistico istituzionale a Messina (dalla tragedia del terremoto
al secondo conflitto mondiale), e Dalla Scuola di Messina un contributo per l’Europa, entrambi ora in Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca
della postmodernità, cit., pp. 168 ss., 276 ss.
( 97 ) Spec. Diritto e valori, cit.; nonché, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Saggi, Milano 1996.; ma v. altresì, La questione del « diritto giusto » nella società postliberale, in Fenomenologia e società, 1988, p. 9 ss.; Diritto e tecnica, in R. trim. d. proc. civ., 2001, p. 1
ss. Per una puntuale ricostruzione nell’ottica dei valori: N. Lipari, Luigi Mengoni ovvero la
dogmatica dei valori, in R. trim. d. proc. civ., 2002, p. 1063 ss.; e più in generale sul pensiero di Luigi Mengoni: L. Nogler e A. Nicolussi (a cura di), Luigi Mengoni o la coscienza
del metodo, cit.; nonché gli Atti del Convegno « Luigi Mengoni dieci anni dopo » (Milano,
21 ottobre 2011), in Europ. d. priv., 2012, p. 3 ss. (tra cui, per quanto può qui interessare,
relazioni di P. Grossi, G. Zaccaria, G. Benedetti).
( 98 ) N. Irti, Una generazione di giuristi, cit., p. 980 s.
( 99 ) P. Perlingieri, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Le prolusioni dei
civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3213.
( 100 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3211 ss. Ma per la fondazione di un « diritto civile costituzionale », dello stesso A., Scuole civilistiche e dibattito ideologico: introduzione allo studio del diritto privato in Italia, in questa Rivista, 1978, I, p. 414
ss.; ora in Id., Scuole tendenze e metodi. Problemi di diritto civile, Napoli 1989, p. 83 ss.
( 101 ) N. Irti, Quattro giuristi del nostro tempo, in Scuole e figure del diritto civile, 2a
ed., Milano 2002, p. 436.
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Al centro dell’intero edificio privatistico viene chiamato il principio di legalità costituzionale, ma non più in funzione soltanto di « limite » ai fini dell’incidente di incostituzionalità della norma ordinaria, bensì soprattutto quale
principio fondativo di un nuovo « giudizio di meritevolezza » degli enunciati
normativi. Vi fa riscontro la proposta di una nuova metodologia interpretativa diversa da quella tradizionale, ossia una metodologia interpretativa « costituzionalmente orientata », in quanto rivolta a trasferire il precetto costituzionale direttamente nel contenuto della norma ordinaria. Fondamentale viene giudicata in ogni caso la disposizione gerarchica dei valori costituzionali
con la persona umana e il suo libero sviluppo in posizione apicale e di vertice,
quale Grundwert dell’intero sistema, e le situazioni patrimoniali conseguentemente piegate a funzione strumentale di quelle esistenziali. Ma il principio di
legalità costituzionale risulterebbe depotenziato se non si riconoscesse immediata Drittwirkung, ossia diretta rilevanza applicativa, alla norma costituzionale, in quanto non soltanto regola ermeneutica ma anche e soprattutto norma anch’essa di comportamento direttamente e immediatamente operativa
nei rapporti interprivati (102), quale necessaria conseguenza dei principi di legalità, gerarchia e unitarietà del sistema (103).
Un nuovo inizio, che ha sicuramente prodotto frutti cospicui soprattutto
nella formazione e nel lavoro delle giovani generazioni e che a oggi conserva
tutta intatta la sua attualità e validità (104).
Certo nel frattempo altri e imponenti fenomeni avrebbero intercettato la
vita del diritto civile: il processo di integrazione giuridica europea con la conseguente necessità di costruire un diritto privato comune europeo; la forza
crescente di una globalizzazione divenuta sempre più pervasiva e avvolgente
con il diritto fattosi inevitabilmente « sconfinato » (105); l’avvento postindustriale e l’impetuoso esplodere della complessità sociale che, tra diversità e
conflitti, ha reso quasi impossibile la ricerca di nuove sintesi unitarie e di
nuovi equilibri; l’inarrestabile dispiegarsi della potenza della tecnica, anche
sul nascere e il morire, e ciononostante sempre meno remissiva e disponibile
( 102 ) Su posizioni divergenti, P. Rescigno, Introduzione al Codice civile, 2a ed., RomaBari 1992, p. 62 ss.; C. Salvi, Norme costituzionali e diritto privato, in R. crit. d. priv.,
2004, p. 241.
( 103 ) Nel solco di tali enunciati i volumi dello stesso A., Il diritto civile nella legalità costituzionale, 1a ed., Napoli 1984; Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli 1992; e ora Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3a ed., del tutto rinnovata e corredata
di note, Napoli 2006 (sul cui pregio le lucide riflessioni di P.Grossi, Il diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. d. civ., 2009, p. 914 ss.).
( 104 ) Secondo M. Pennasilico, Legalità costituzionale e diritto civile, in P. Perlingieri e
A. Tartaglia Polcini, Novecento giuridico: i civilisti, cit., p. 281: « la “costituzionalizzazione” del diritto civile è un dato ormai interno alla scienza e all’esperienza giuridiche ».
( 105 ) M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale,
Roma-Bari 2006.
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ai controlli; il prepotente emergere di un nuovo idolo planetario, il mercato,
con la sua insopportabile pretesa egemonica di dominio; la postmodernità con
le sue inquietanti aporie decostruttive e antifondazioniste.
Tutti temi del nostro tempo presente, con i quali di certo anche la dottrina del diritto civile è chiamata a misurarsi, ma per i quali forse il terreno della prolusione può apparire troppo angusto e inadatto. Resta, tuttavia, almeno
in chi appartiene ormai ad altra generazione, un sottile filo di rimpianto per
un cerimoniale liturgico, che nel tempo ha sicuramente saputo segnalare problemi ma anche indicare sentieri di sincero rinnovamento degli studi.
Giovanni D’Amico
Prof. ord. dell’Università « Mediterranea » di Reggio Calabria
LA PROPRIETÀ « DESTINATA »
Sommario: 1. Premessa. La « destinazione » a uno scopo e i poteri (di godimento e di disposizione) del proprietario. — 2. Destinazione e diritti dei terzi. La destinazione come atto
di conformazione/funzionalizzazione del diritto di proprietà da parte del suo titolare. —
3. La novità dello strumento introdotto dall’art. 2645 ter. — 4. Destinazione e interessi
meritevoli di tutela.
1. — Nella letteratura, ormai copiosa, che si è formata sull’atto di destinazione ex art. 2645 ter, non si è mancato di evidenziare — tra le tante chiavi di lettura che sono state proposte — il profilo per cui l’istituto in esame interferisce specificamente con il tema della proprietà (prima e più ancora che
col tema della tutela del credito).
Dei due « effetti » che l’atto di cui parla l’art. 2645 ter produce — ossia
l’effetto di « destinazione » e l’effetto di « segregazione » (o creazione di un
patrimonio separato) — il primo è senza dubbio quello determinante, apparendo in un certo senso come un prius del secondo, sia dal punto di vista logico che dal punto di vista pratico.
Ora, se ci si interroghi su cosa significhi « destinare » un bene ad uno scopo (ovvero — detto altrimenti — imporre ad un bene un vincolo di destinazione), è agevole rispondere che ciò significa (comunque, e anzi tutto) limitare la
facoltà di uso e/o la facoltà di disposizione del proprietario di tale bene.
L’effetto di destinazione dovrà essere individuato, dunque, entro dette
coordinate.
Orbene, le limitazioni delle facoltà (di godimento e di disposizione) del
proprietario di una cosa — a parte quelle che discendono dalla necessità di rispettare (e non ledere) diritti altrui, sia di natura pubblica (ad es. rispetto di
distanze nell’interesse pubblico) che di natura privata (ad es.: divieto di immissioni) — possono derivare o da « poteri » che un terzo soggetto (ancora
una volta: pubblico o privato) abbia in relazione a quella cosa (1), oppure da
( 1 ) Si pensi, da un lato, a vincoli di tipo « pubblicistico » (come ad es. un vincolo di
inedificabilità preordinato alla espropriazione di un terreno in vista della realizzazione di
un’opera dichiarata di pubblica utilità); dall’altro, ai tradizionali diritti reali su cosa altrui
(come un diritto d’uso, una servitù, un usufrutto). Oppure — passando ad esaminare le limitazioni e i vincoli al potere di disposizione del dominus — si pensi al vincolo di inalienabilità che può accompagnarsi per alcuni anni alla proprietà di beni ottenuti in virtù di agevolazioni pubbliche (come ad es. un alloggio di edilizia economica e popolare), o al « limite » che il proprietario subisca in relazione all’esistenza di un diritto di prelazione (legale o
convenzionale).
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una « conformazione » che la proprietà (o, se si preferisce, l’esercizio delle facoltà ad essa inerenti) subisce per la necessità di realizzare la funzione sociale
di cui all’art. 42, comma 2o, Cost. (si parla, in questi casi, di un limite « interno »).
Le prime domande da porsi sono allora — direi — le seguenti:
a) posto che l’effetto di destinazione di cui all’art. 2645 ter consiste —
come detto — nell’imposizione di un vincolo al proprietario della cosa, tale
vincolo riguarda il potere di godimento, quello di disposizione, oppure entrambi?
b) in che termini (e con quale contenuto) può prospettarsi — a fronte
del vincolo gravante sul proprietario (o sul gestore, cui il proprietario abbia
affidato la « gestione » destinata della cosa) — un diritto e/o una (posizione
comunque di) « pretesa » dei terzi rispetto alla cosa?
Alla prima domanda è possibile rispondere alquanto agevolmente. Sembra, infatti, abbastanza sicuro che la « destinazione » del bene ad uno scopo
non comporti — di per sé — limiti particolari al potere del proprietario di
trasferire (con atto inter vivos, o in virtù di una vicenda successoria mortis
causa) il bene a terzi (2). Lo dimostra il fatto che tra i « terzi » cui la trascrizione rende opponibile l’atto di destinazione non si dubita che rientrino anche
i c.d. « aventi causa » (il che presuppone che ci si trovi di fronte ad un bene
che abbia formato oggetto di trasferimento); lo dimostra altresì — se si vuole
avere un riscontro testuale più immediato — la circostanza che è lo stesso art.
2645 ter, laddove ipotizza una durata del vincolo di destinazione sino a 90
anni (o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria), a prevedere
(implicitamente) che il vincolo possa sussistere (durare) anche dopo la morte
del « conferente » (3), e dunque in capo a soggetti (eredi o legatari) ai quali il
bene sia stato trasferito mortis causa (in particolare attraverso un testamento) (4). E, se non sussistono limiti al trasferimento del bene (con il vincolo che
lo connota) per effetto di una successione mortis causa, non si vede perché limiti siffatti possano porsi (in considerazione della presenza del vincolo) con
riguardo ad atti di trasferimento del bene inter vivos (5).
( 2 ) Questo non esclude che il singolo, concreto, atto di destinazione possa anche prevedere un divieto di alienazione. Con riferimento ad ipotesi siffatte (che — comunque — non
costituiscono probabilmente le ipotesi da assumere come « tipiche ») può esser vera l’affermazione che ravvisa la novità dell’art. 2645 ter nell’aver introdotto una deroga al principio
di cui all’art. 1379 c.c.: così Luminoso, Contratto fiduciario, trust e atti di destinazione ex
art. 2645 ter c.c., in R. not., 2008, p. 993 ss., pp. 997-98.
( 3 ) Così la norma in esame chiama — con singolare espressione — l’autore dell’atto di
disposizione.
( 4 ) Sull’acquisto mortis causa (a titolo di eredità o di legato) del bene gravato da un
vincolo di destinazione v., in generale, Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione: nuove sfide per la pubblicità immobiliare, Padova 2012, p. 39 ss., nonché De Rosa, Atti di destinazione e successione del disponente, in www.scuoladinotariatodellalombardia.org.
( 5 ) Semmai, il « potere di disposizione » del proprietario potrà risultare « limitato »
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Più complessa è invece la risposta al secondo quesito, come vedremo subito nel paragrafo che segue.
2. — Acclarato che la « destinazione » si traduce in una limitazione (soprattutto, se non esclusivamente) della facoltà di godimento (6) che inerisce
alla titolarità (proprietà) del bene, occorre chiedersi se a detta limitazione (in
capo al proprietario) corrisponda un « diritto sulla cosa » che possa configurarsi in capo al beneficiario (o ai beneficiari) previsti dall’atto di destinazione (7).
Ora, benché non sia da escludere che la « destinazione » del bene possa
consistere anche nell’attribuzione a terzi (i beneficiari) del potere di godimento diretto del bene medesimo (si pensi alla destinazione di un terreno privato
a « parco giochi » per i bambini di una scuola, o della parrocchia; o, ancora,
alla destinazione di un fabbricato a « mensa per i poveri » (8), affidata alla
gestione del Comune), non può nemmeno escludersi per altro verso che la
« destinazione » di un bene a vantaggio di uno o più soggetti prescinda affatto dal godimento « diretto » di tale bene da parte del/dei beneficiario/i, e
comporti soltanto un obbligo di impiego delle « rendite » in suo/loro favore (9).
Del resto — a parte la considerazione che, volendo configurare la posizione del beneficiario (di un atto di destinazione) in termini di « diritto reale »,
ci si dovrebbe porre il problema di quanto ciò sia compatibile con il principio
del numerus clausus dei diritti reali — ad escludere la prospettiva qui considerata sta anche l’osservazione secondo la quale non bisogna confondere la
opponibilità (ai terzi) del vincolo con la realità. Quest’ultima è una caratteristica della situazione giuridica e dipende dalla ricorrenza di una serie di cadall’atto di destinazione, non tanto nel senso che quest’ultimo implichi un divieto di disporre della cosa, ma piuttosto nel senso che esso possa (esplicitamente o implicitamente) comportare un obbligo di disporre per la realizzazione dello scopo (ad es. un obbligo di dare in
locazione il bene, per destinare le « rendite » al soddisfacimento dei bisogni del beneficiario
dell’atto di destinazione).
( 6 ) Anche nel senso, eventualmente, di escludere un godimento diretto del bene, e di
imporre una sua utilizzazione « fruttifera » (= concessione del godimento a terzi, verso corrispettivo). V. testo e nota precedente.
( 7 ) In altri termini, si tratta di stabilire se tali soggetti (terzi) acquistino, in virtù dell’atto di destinazione, un diritto accostabile ai tradizionali diritti reali su cosa altrui (come
l’uso, l’usufrutto, la servitù, ecc.), e quindi appunto qualificabile in senso proprio come un
diritto sulla cosa.
( 8 ) O a casa di riposo per anziani, per riprendere un esempio proposto da Cian, Riflessioni intorno ad un nuovo istituto del diritto civile: per una lettura analitica dell’art. 2645
ter c.c., in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, I, Padova 2007, p. 83 ss.
( 9 ) Si potrebbe sostenere che un diritto del beneficiario di far propri i « frutti » (rendite) della cosa, sarebbe analogo al diritto dell’usufruttuario. Ma, anche ammesso questo, ciò
non basterebbe a far dire che ci troviamo di fronte ad un diritto « reale » (= sulla cosa), se
difetta (come qui supponiamo) il carattere della « immediatezza » del rapporto (con la cosa).
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ratteri (inerenza del diritto alla cosa, immediatezza, ecc.) dai quali discende
anche la c.d. « assolutezza » (intesa come possibilità di far valere il diritto erga omnes); l’opponibilità, invece, prescinde — come tale — dalla natura
(reale o personale) del diritto.
I terzi hanno dunque una « pretesa » (non sulla cosa, bensì) verso il proprietario al rispetto della destinazione impressa alla cosa, sia che ciò si traduca in una possibilità loro concessa di utilizzazione della cosa stessa, sia che
comporti un beneficio « mediato » (avente ad oggetto, cioè, i frutti della cosa,
o — per meglio dire — la « pretesa » ad un certo impiego degli stessi).
Negare (come abbiamo appena fatto) che questa « pretesa » (recte: interesse) consista in un potere diretto e immediato sulla cosa (quale tipicamente
sussiste nel caso dei diritti reali in re aliena) (10) non significa, peraltro, dover
giocoforza riconoscere che ci si trova di fronte ad un (semplice) diritto di credito (11). L’opponibilità ai terzi della destinazione del bene, infatti, sta comunque ad indicare l’esistenza di un quid che riguarda la cosa come tale, ancorché questa « pretesa » non si esprima — lo si ripete — nella forma di un
(tradizionale) diritto reale.
E — se è consentito aprire una breve parentesi — proprio perché qui è la
( 10 ) Per la tesi, invece, che ipotizza il sorgere in capo al beneficiario (del vincolo di destinazione) di un diritto reale (atipico), v. Bianca-D’Errico-De Donato-Priore, L’atto notarile di destinazione, Milano 2006, p. 45; D’Errico, Le modalità della trascrizione e i possibili conflitti che possono porsi tra beneficiari, creditori ed aventi causa del conferente, in
Aa.Vv., Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata,
Quaderni della Fondazione italiana per il Notariato, Il Sole-24 Ore, Milano 2007, p. 86 ss.
Critiche a questa tesi si leggono ad es. in Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione,
cit., p. 28 ss., spec. p. 31 ss. (ed ivi ulteriori riferimenti).
( 11 ) Così invece Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, in Giust. civ., 2006, p. 179
(pur precisando che si tratterebbe di una « obbligazione » che attribuirebbe al creditore
non soltanto i tradizionali rimedi connessi all’inadempimento — in particolare il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. —, ma altresì rimedi più efficaci — e, per così dire,
« specifici » —, cui apre la porta la « opponibilità ai terzi » del vincolo di destinazione, se e
in quanto trascritto).
Decisamente critico nei confronti di questa tesi è Spada, Il vincolo di destinazione e la
struttura del fatto costitutivo, cit., § 4, il quale scrive: « L’azione “popolare” (di qualsiasi
interessato alla realizzazione dell’interesse) è solo un prezzo legale della separazione: la separazione rende ex lege il comportamento funzionale e genera una specie di class action.
L’idea di un creditore della destinazione (e, per di più, nella persona del beneficiario — come suggerisce Gazzoni) non ha senso alcuno. ... ».
E nella medesima logica — di non costruire una posizione soggettiva (quanto meno non
in termini di « diritto soggettivo ») in capo al beneficiario — sembra porsi chi ha richiamato la categoria dell’« interesse legittimo alla corretta amministrazione dei beni » vincolati
ad una destinazione (cfr. U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile
ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., in Aa.Vv., Atti di destinazione e trust. Art. 2645 ter del codice civile, a cura di G. Vettori, Padova 2008, p. 103, e anche in R. not., 2007, p. 1069 ss.; e
v. anche Ghironi, La destinazione dei beni ad uno scopo nel prisma dell’art. 2645 ter c.c.,
in R. not., 2011, p. 1130 ss.), oppure chi si è chiesto se non sia da valutare l’alternativa di
considerare il beneficiario (anziché come un creditore) come « un semplice legittimato ad
agire ai sensi della norma in oggetto » (così Bullo, op. ult. cit., p. 34; corsivo aggiunto).
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trascrizione (del vincolo) a rendere possibile una opponibilità ai terzi che altrimenti non sussisterebbe (mancando appunto — in ipotesi — un diritto
« reale ») (12), hanno ragione — sembra da riconoscere — quelle posizioni
dottrinali che affermano il carattere costitutivo, che nella fattispecie in esame
la pubblicità riveste (13). Né è persuasiva l’affermazione secondo la quale, in
assenza della trascrizione, il vincolo di destinazione comunque varrebbe tra le
« parti » (rectius: tra il proprietario e il beneficiario (14)): un semplice rapporto « obbligatorio » — quale, allora, si potrebbe configurare — sarebbe infatti
cosa ben diversa (è appena il caso di evidenziarlo) da quel fenomeno « destinatorio », che la disposizione in esame delinea, configurandolo come fatto
( 12 ) Si accoglie qui, evidentemente, l’idea che l’opponibilità ai terzi sia connaturata
« concettualmente » alla figura del diritto reale: ciò che corrisponde all’opinione forse maggiormente diffusa, e tuttavia non incontestata, atteso che esistono posizioni dottrinali che
ricollegano l’opponibilità ai terzi, anche per i diritti reali, alla attuazione in concreto della
pubblicità (per una riflessione sul punto cfr. Comporti, Diritti reali in generale2, in Tratt.
Cicu-Messineo, cont. da Mengoni e Schlesinger, Milano 2011, p. 95 ss.).
( 13 ) Cfr., ad es. Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., spec. p. 105 ss.
( 14 ) Non è detto che questi due soggetti siano (o debbano diventare) « parti » di un
contratto. Sebbene non possa escludersi che la « destinazione » (della cosa) scaturisca da
un « accordo » tra proprietario e terzo beneficiario (accordo che potrebbe financo assumere
carattere « oneroso »: così anche Lenzi, voce Atto di destinazione, in Enc. dir., Annali, V,
Milano 2012, p. 61), nemmeno può escludersi che essa scaturisca (come, anzi, accadrà il
più delle volte) da un atto negoziale unilaterale.
Al più potrà discorrersi se questo atto (in tal caso, necessariamente, a titolo gratuito)
— comportando un beneficio nei confronti di un terzo — richieda comunque un « consenso » da parte di quest’ultimo (o, almeno, un non dissenso), onde possa parlarsi (secondo uno schema concettuale ben noto) di un atto unilaterale con struttura a rilievo
bilaterale.
Deve comunque ritenersi (secondo l’opinione prevalente) che il vincolo di destinazione
— anche se sorto in virtù di un atto unilaterale — non possa venir meno in virtù di una
volontà di « revoca » dello stesso successivamente manifestata dal « conferente », in particolare se questa volontà intervenga dopo che l’imposizione del vincolo sia stata comunicata al beneficiario, e ancor più se quest’ultimo abbia già dichiarato di volerne profittare
(cfr. sul punto Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore,
Milano 2007, p. 259 ss.; e Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., pp.
51-52).
Peraltro, quando la costituzione del vincolo a favore di uno o più beneficiari sia avvenuta a titolo gratuito, si può porre — riteniamo — il problema di una applicazione analogica
di disposizioni come l’art. 1809, comma 2o (che prevede il diritto del comodante di richiedere la « restituzione » immediata della cosa comodata se sia sopravvenuto un urgente e
impreveduto bisogno del comodante stesso) o come l’art. 803 c.c. (che prevede la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli; norma la cui applicazione è estesa dall’art. 809 c.c. anche alle liberalità non donative).
Nella stessa logica (ma con soluzione tecnicamente diversa) qualche autore suggerisce di
inserire nell’atto notarile di destinazione « una condizione risolutiva con la quale subordinare l’efficacia del contratto al sopraggiungere di una situazione esistenziale espressione di
un interesse prioritario rispetto alla destinazione » (così G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 75). Soluzione che lascia aperto comunque il problema per le ipotesi in
cui una clausola siffatta non sia prevista nell’atto di destinazione.
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« oggettivo » (ossia relativo all’oggetto), e dunque in essenziale rapporto proprio con la « opponibilità ai terzi » (del vincolo) (15).
Tornando adesso alla linea principale del discorso, c’è — a questo punto
— da porsi la (ulteriore) domanda: se l’atto di destinazione non crea in capo
a terzi (beneficiari) un diritto reale sulla cosa, ma per altro verso non si riduce nemmeno ad un mero vincolo « obbligatorio » che il proprietario assuma
nei confronti del beneficiario (o dei beneficiari), in che termini è descrivibile
l’effetto di questo atto?
Un’idea alquanto suggestiva è che l’atto di destinazione sia espressione di
un potere di conformazione della proprietà che sarebbe attribuito al proprietario stesso, e che consentirebbe di dar vita ad un modello proprietario atipico (16).
Sviluppando la suggestione, si potrebbe vedere nell’art. 2645 ter una sorta
di delega allo stesso proprietario, titolare del diritto, del potere di funzionalizzare la proprietà, ossia di prevederne modalità di godimento (e di disposizione)
tali da consentire di realizzare — non solo in via di fatto, ma in virtù di un assetto giuridico acquisito dal bene — (anche) interessi di terzi ovvero interessi
sociali. Si invererebbe insomma, in tal modo — in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale, e dunque facendo ricorso alla stessa autonomia negoziale (17)
( 15 ) Non avrebbe alcun senso considerare l’ipotetico (mero) « effetto obbligatorio » di
cui si parla nel testo alla stregua di una specie di « effetto minore » che l’atto di destinazione possa produrre, in caso di sua mancata trascrizione.
Quel che deve ribadirsi, insomma, è che atto di destinazione, ai sensi e per gli effetti di
cui all’art. 2645 ter, è solo quello che risulti trascritto/trascrivibile. Un atto non destinato
alla trascrizione e/o non trascritto non integra il fenomeno di cui si occupa la norma in
questione, e andrà « qualificato » in base a norme diverse.
( 16 ) Così Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 31 ss., ove si richiama
altresì la posizione di Benatti, Vincoli di destinazione, in Tratt. Gambaro-Morello, II, Milano 2011, p. 355 ss., spec. p. 385 ss.
Ante litteram, si veda La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli 1994, p. 79 ss. Prima dell’introduzione dell’art. 2645 ter c.c. è dubbio peraltro, a nostro avviso, che un simile effetto di « conformazione » della proprietà (anche a tacere del
problema di come renderlo « pubblico », stante il principio di tipicità degli atti trascrivibili)
potesse ritenersi conseguibile — in presenza di una regola del numerus clausus dei diritti
reali — in applicazione del riconoscimento dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322
c.c. (sarebbe, infatti, mancato l’interesse meritevole di tutela, nel significato in cui ne parla
la disposizione in questione), e quale esplicazione del più ampio potere di disposizione spettante al proprietario (così, invece, Palermo, Contributo allo studio del trust e dei negozi di
destinazione disciplinati dal diritto italiano, in R. d. comm., 2001, I, p. 391 ss.). Il potere
riconosciuto all’autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c. avrebbe potuto infatti consentire
(prima della introduzione dell’art. 2645 ter) di riconoscere al più (la legittimità di) un negozio di destinazione con effetti esclusivamente obbligatori.
( 17 ) Cfr., al riguardo, la formulazione dell’ult. comma dell’art. 118 Cost. (quale introdotto ad opera dell’art. 4 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), alla stregua del quale « Stato,
regioni, Città metropolitane favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà ».
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— quel precetto della funzione sociale della proprietà (art. 42, comma 2o,
Cost.), sin qui affidato per lo più (se non esclusivamente) ad interventi conformativi del diritto dominicale di matrice (eminentemente) eteronoma (18). Naturalmente l’intervento « conformativo » riguarderebbe, in questo caso, non
una tipologia di beni individuata (a priori) dal legislatore in considerazione
della idoneità a soddisfare interessi diversi da quelli del proprietario (e in particolare interessi di natura collettiva e/o sociale), bensì (e giocoforza, vista la genesi « autonoma » del vincolo) uno o più beni singoli, sui quali lo stesso proprietario (e non potrebbe farlo se non rispetto a beni di sua spettanza) imprimerebbe un vincolo funzionale al soddisfacimento di interessi altrui (19).
Al di là della suggestione, non ci si può nascondere — tuttavia — che anche questa idea deve fare i conti con il principio del « numero chiuso dei diritti reali », ossia col principio che riserva alla legge il potere di conformare la
proprietà stabilendo quali vincoli e quali restrizioni possono limitare il contenuto del diritto dominicale (e, quindi, anche il valore di tale diritto).
Sotto tale profilo, peraltro, potrebbero acquisire un significato ben preciso proprio le limitazioni che l’art. 2645 ter pone all’autonomia privata nella
creazione di vincoli sulla proprietà: la « meritevolezza » degli interessi che attraverso questo strumento possono perseguirsi andrebbe pertanto intesa in
senso pregnante, in quanto sarebbe indicativa di una tendenziale « eccezionalità » dei vincoli imposti alla proprietà (vincoli che — volenti o nolenti — collocano, quanto meno di fatto, il bene fuori dal mercato, per di più per un periodo di tempo che può essere anche molto lungo), i quali devono poter trovare la loro giustificazione in effettive esigenze di natura « sociale », che possaIn argomento si veda il contributo monografico di De Felice, Principio di sussidiarietà e
autonomia negoziale, Napoli 2008 (il quale tuttavia non menziona specificamente l’istituto
di cui all’art. 2645 ter).
( 18 ) Sulla clausola della « funzione sociale » della proprietà, cfr. da ultimo il dibattito a
più voci ospitato sul n. 4/2013 della Rivista critica di diritto privato (sotto il titolo « Il ritorno della funzione sociale della proprietà »), con interventi di L. Nivarra, U. Mattei e
M.R. Marella.
( 19 ) Come vedremo più avanti, l’accoglimento di una tale « chiave di lettura » dell’art.
2645 ter ha una evidente ricaduta sul tema (assai discusso) della natura e della consistenza
dell’interesse meritevole di tutela che può supportare validamente l’imposizione di un vincolo di destinazione sui beni.
È evidente, infatti, che dare dell’art. 2645 ter una lettura in termini di applicazione del
principio di « sussidiarietà orizzontale » in materia di realizzazione della funzione sociale
della proprietà, orienta verso una concezione dell’« interesse meritevole di tutela » in termini decisamente di interesse non egoistico. Con la precisazione che, per interesse « egoistico »
non va inteso soltanto quello individuale del proprietario del bene, ma anche l’interesse di
componenti della sua famiglia. Non deve — sotto questo profilo — trarre in inganno il riferimento agli interessi di « persone con disabilità », che ben possono essere persone appartenenti alla cerchia familiare: quel che rileverebbe, infatti — anche in questo caso — è che la
« destinazione » di uno o più beni al soddisfacimento dei « bisogni » di questi soggetti deve
in qualche modo porsi come attuazione privata (= attraverso beni privati) di quel valore di
« solidarietà sociale », che dovrebbe primariamente essere realizzato dallo Stato (e, in genere, dai soggetti pubblici).
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no legittimare il sacrificio non solo di interessi privati (come quelli dei creditori « generali » del proprietario), ma anche dell’interesse pubblico racchiuso
nel principio di « libertà della proprietà », quale principio idoneo a favorire la
più ampia circolazione della ricchezza (20).
Tali esigenze potranno anche riguardare persone determinate (e, al limite, persino una singola persona), ma non meno legittimamente (e anzi — si
direbbe — ancor più persuasivamente) esse potranno riferirsi a « categorie »
di soggetti non previamente individuate (21) (gli allievi di una scuola, i poveri
del quartiere, gli anziani del paese, e così via), che possano essere interessati
all’uso del bene (o dei beni) che il proprietario decida di vincolare per il soddisfacimento (anche) di bisogni di altri (22).
3. — La percezione della « novità » dell’istituto introdotto dall’art. 2645
ter è un dato che accomuna tutti gli interpreti che hanno analizzato la portata
della disposizione (23).
Quasi tutti gli autori insistono, al riguardo, sulla circostanza che la disposizione dell’art. 2645 ter — pur inserendosi in un trend legislativo che (soprattutto negli ultimi anni) si è mosso decisamente all’insegna dell’abbandono del tradizionale principio della « universalità » della responsabilità patri( 20 ) È in questa prospettiva che va letto anche il limite temporale che l’art. 2645 ter
pone al vincolo di destinazione (massimo 90 anni, o alternativamente per la durata della
vita del beneficiario), limite la cui ratio va, con tutta evidenza, ravvisata « nell’esigenza di
non svuotare la proprietà del suo contenuto economico in perpetuo ovvero per un lungo periodo di tempo e correlativamente di evitare che i beni siano sottratti a finalità produttive »
(così Bullo, Separazioni patrimoniali, cit., p. 51 e nt. 105, ove ulteriori citazioni).
Attesa la ratio ora indicata, dovrebbe escludersi la possibilità di un « rinnovo »/reiterazione del vincolo se questo abbia operato per il tempo massimo previsto (90 anni o la durata della vita del beneficiario), mentre non escluderemmo che un tale « rinnovo » sia possibile se la durata originariamente prevista fosse inferiore ai 90 anni e/o se alla scadenza del
vincolo il beneficiario sia ancora in vita.
( 21 ) La circostanza indicata nel testo conferma prima facie che l’apposizione del vincolo
di destinazione non fa sorgere (o può non far sorgere) « diritti » in capo a terzi (che presuppongono la individuazione di uno più « titolari »), ma non è decisiva per escludere definitivamente un simile esito, essendo noto che la configurabilità di una situazione giuridica soggettiva non richiede l’attuale esistenza (e individuabilità) del soggetto, ciò che diviene necessario solo nel momento in cui si passi alla fase della realizzazione della situazione giuridica medesima.
( 22 ) Si pensi — per proporre uno dei tanti esempi possibili — ad un vincolo che il proprietario privato di importanti opere d’arte imponga su detti beni allo scopo di consentirne
(per un certo numero di anni e con determinate modalità) la fruizione da parte di terzi (il
vincolo potrebbe — ad es. — essere disposto a seguito e in esecuzione di un « accordo » con
il Comune, interessato ad incrementare i flussi turistici sul proprio territorio, e disposto a
contribuire — o addirittura ad accollarsi interamente — alle spese per la realizzazione della
destinazione programmata).
( 23 ) Talora — come vedremo — criticando il legislatore, che non avrebbe sufficientemente ponderato il vulnus introdotto nel sistema della responsabilità patrimoniale; talaltra,
apprezzando, invece, l’apertura alla autonomia privata che la disposizione realizza.
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moniale in favore di un opposto principio di « specializzazione » di tale responsabilità (24) — segnerebbe tuttavia, in questa direzione, una « accelerazione » (25), e anzi probabilmente il raggiungimento del punto di arrivo finale
che si sarebbe potuto (in astratto) immaginare: ossia l’attribuzione alla autonomia privata (con implicita abrogazione della « riserva di legge » contenuta
nell’art. 2740 c.c. (26)) del potere, in generale, di creare patrimoni separati, ai
quali il titolare imprima una particolare « destinazione ».
Ad avviso di chi scrive, la suggestione di questo rilievo non deve essere
enfatizzata. Da un lato, infatti — sul piano normativo — non devono essere
sottovalutati i limiti che (come già accennato) l’art. 2645 ter pone alla trascrivibilità dell’atto di destinazione, e dunque anche all’effetto « reale » (opponibilità ai terzi del vincolo) che a tale forma di pubblicità consegue, specie
( 24 ) Sul fenomeno cfr. la puntuale ricostruzione di Morace Pinelli, Atti di destinazione,
cit., spec. p. 72 ss.
( 25 ) Pericolosa, secondo alcuni.
( 26 ) Sul punto è bene spendere qualche considerazione. Di fronte all’art. 2645 ter, la
dottrina si è divisa, alcuni autori ritenendo che la disposizione sia « attuativa » della riserva
di legge (in ordine alla creazione di patrimoni separati) prevista dall’art. 2740 c.c., altri invece — e all’opposto — ritenendo che detta riserva sarebbe stata (quanto meno dal punto
di vista sostanziale) « violata ».
Orbene, senza entrare specificamente in questa discussione (che potrebbe, per alcuni
versi, rivelarsi come puramente « teorica » o accademica), ci sembra vada comunque osservato che la norma dell’art. 2740 c.c. che contiene la c.d. « riserva di legge » in materia, è
comunque una norma ordinaria (e non una norma costituzionale), onde essa può ben essere
derogata/modificata (o addirittura abrogata) da una disposizione di legge (ordinaria) successiva. Dal che discende che l’assunto della « violazione » della riserva di legge da parte
dell’art. 2645 ter rimane privo di qualsiasi conseguenza pratica, posto che non si può certamente far discendere dalla (supposta) « violazione » la « illegittimità » della disposizione
normativa che l’ha prodotta (come avverrebbe se, invece, la « riserva di legge » avesse rango costituzionale).
Detto questo, bisogna comunque ammettere che è vero che l’introduzione dell’art. 2645
ter infligge probabilmente il colpo più duro (almeno da un punto di vista « concettuale »)
al principio di « universalità » della responsabilità patrimoniale, « principio » che poteva
ancora dirsi tale (nonostante il numero continuamente crescente delle « eccezioni » e delle
« deroghe » ad esso apportate) sino a quando è rimasto riservato al legislatore il potere di
apportarvi deroga, mentre una volta che questa possibilità sia riconosciuta (sia pure non illimitatamente) anche all’autonomia privata, è evidente che non solo appare dubbia la possibilità di continuare a parlare di un principio di « ordine pubblico » (e v., per una sottolineatura siffatta, già prima dell’introduzione dell’art. 2645 ter, Gambaro, Trust, in Dig. disc.
priv. - sez. civ., XIX, Torino 1999, p. 467), ma diventa probabilmente sempre più difficile
anche solo parlare di un principio « generale » (cfr. ad es. Lenzi, Atto di destinazione, cit.,
pp. 58-59, ove si legge che il mutato assetto del diritto positivo consente di formulare « un
rilievo di portata sistematica, carico di rilevanti ricadute applicative, e cioè di ritenere superata la concezione secondo cui le figure tipiche di separazione da destinazione sarebbero da
considerare di stretta interpretazione, in quanto fattispecie eccezionali »; ma v., all’opposto,
per una valutazione che ribadisce — nonostante tutto — la natura di principio generale alla
regola della responsabilità patrimoniale illimitatata, M. Bianca, Vincoli di destinazione e
patrimoni separati, cit., pp. 243 ss., 252; in argomento cfr. anche Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. Sacco, Torino 2011, pp. 67 ss., 229 ss.).
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sotto il profilo della c.d. « segregazione » del bene. Dall’altro — sul piano fattuale — va evidenziato che la decisione di imporre ad un proprio bene un
vincolo di destinazione — proprio perché un tale vincolo pone sostanzialmente (come già si è accennato) il bene fuori mercato — è una decisione che il
proprietario non prenderà (è da supporre) troppo facilmente, anche quando
dovessero sussistere in ipotesi tutti i presupposti richiesti dalla legge (e in particolare l’« interesse meritevole di tutela », del quale si è già detto, e sul quale
si ritornerà fra poco) (27).
Sotto questo profilo, è agevole prevedere che l’art. 2645 ter (come pure
l’istituto del trust, che consente — con modalità diverse — di conseguire risultati in parte analoghi) configuri uno strumento che sarà realmente appetibile solo a chi possiede un patrimonio sufficientemente ampio da consentirgli
(senza eccessivo pregiudizio per il proprio interesse) di « staccare » uno o più
beni per destinarli a finalità « sociali » (o comunque non egoistiche) (28).
Se quanto detto è vero, allora, non possono non apparire eccessive le
preoccupazioni di quanti hanno immaginato una corsa alla trascrizione di
vincoli di destinazione (corsa, non a caso, smentita — almeno sin qui — dai
fatti, che raccontano piuttosto di un ricorso ancora modesto, se non addirittura esiguo, all’istituto in esame), probabilmente sulla base dell’assunto che la
possibilità di ottenere l’effetto « segregativo » (leggi: sottrazione del bene ai
propri creditori, o a buona parte di essi) avrebbe spinto diversi soggetti ad
( 27 ) Anche il requisito dell’atto pubblico, richiesto dalla legge, conferma l’idea della
« gravità » degli effetti della destinazione del bene ad uno scopo, idea che ha spinto il legislatore ad esigere — attraverso il ministero del notaio — la garanzia di una indagine volta
ad accertare la consapevolezza del « disponente » circa le conseguenze dell’atto che egli pone in essere, oltre che a consentire una corretta formulazione della volontà « destinatoria »
(anche a tutela dei terzi — in funzione della eventuale circolazione giuridica del bene).
Cfr., in proposito, Petrelli, La trascrizione, cit., p. 163 ss., e Ceolin, Destinazione e vincoli
di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex
art. 2645 ter c.c., Padova 2010, p. 197 ss.
( 28 ) Chi, al contrario, dovesse disporre di un patrimonio esiguo — al limite costituito,
essenzialmente, da un unico bene (immobile) — difficilmente si priverà della possibilità di
esercitare (liberamente), rispetto a questo (unico) bene, i poteri di godimento e di disposizione che ineriscono al diritto di proprietà; e ciò non solo quando tale privazione dovesse ridondare a beneficio di soggetti « estranei » (verso i quali possano nutrirsi sentimenti di mera « solidarietà sociale », che troverebbero — verisimilmente — minor spazio di esplicazione, nella situazione ipotizzata), ma anche quando essa fosse finalizzata a destinare il bene a
vantaggio di un soggetto appartenente alla propria cerchia familiare (ad es., un figlio disabile). La sottrazione del bene al mercato — che consegue all’imposizione del vincolo di destinazione — potrebbe infatti rivelarsi una scelta infelice, che non solo esclude ad es. la
possibilità di « smobilizzare » il bene (per convertirlo in danaro, come pur potrebbe — per
vari motivi — sorgere l’esigenza di fare), ma impedisce (o comunque limita fortemente) anche la possibilità di utilizzarlo come « garanzia » per possibili eventuali terzi creditori che
potrebbero profilarsi in relazione a « cause » estranee alla destinazione di cui trattasi (si
pensi alla necessità di costituire un’ipoteca a garanzia di un prestito necessario per sottoporre ad un costoso intervento chirurgico un membro della famiglia, diverso da quello a favore del quale è stato costituito il vincolo di destinazione).
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utilizzare proprio per questa finalità lo strumento messo a disposizione dal legislatore.
C’è in questo modo di ragionare una notevole dose di ingenuità, in quanto, a tacer d’altro, si tralascia di considerare: a) che i beni costituiscono « garanzia » non soltanto dei creditori attuali, ma soprattutto di quelli « potenziali » (vale a dire di quelli che potrebbero « fare credito » al soggetto in futuro,
a condizione naturalmente di trovare sufficiente capienza — e dunque garanzia, sia pure solo generica, di soddisfacimento del credito — nel patrimonio
del debitore); e b) che rispetto ai creditori attuali (e in parte anche con riguardo a quelli futuri, ove ci si trovi di fronte ad una « dolosa preordinazione ») operano comunque le norme sulla revocatoria di cui all’art. 2901
c.c. (29), e questo dovrebbe escludere (in linea di principio, almeno) che possa
ritenersi consentito (e men che mai favorito) un uso « fraudolento » dell’atto
di destinazione (30).Del resto, non meno ingenuo è pensare che il legislatore
potesse introdurre un istituto che si presti per sua natura (e in via, per così
dire, di utilizzazione ordinaria e normale) ad un uso « fraudolento ».
Diverse (da quelle sin qui considerate) devono essere, dunque, le ragioni
sottese alla scelta effettuata con l’introduzione dell’art. 2645 ter. L’esame di
tali ragioni aiuta anche ad individuare l’effettivo « spazio » che il nuovo isti( 29 ) Sull’applicabilità dell’azione revocatoria anche rispetto all’atto di destinazione v.
Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., p. 183, Meucci, La destinazione dei beni tra
atto e rimedi, Milano 2009, p. 458 ss., nonché Maltoni, il problema dell’effettività della destinazione, in Aa.Vv., Negozi di destinazione. Percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 82 ss., e Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 53.
Gli ultimi due autori si occupano anche della possibile simulazione (assoluta) dell’atto
di destinazione, desumibile in particolare dalla circostanza che la destinazione programmata non abbia in realtà ricevuto alcuna attuazione, rivelando in tal modo il suo carattere fittizio (e, presumibilmente, fraudolento).
Sembrerebbe invece limitare la possibilità di ricorso all’azione revocatoria (nei confronti di un atto di destinazione) ai soli casi in cui l’apposizione del vincolo si accompagni
ad una vicenda (anche) traslativa del bene, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 70 ss. Peraltro — e non senza contraddizione — lo stesso a. afferma più
avanti (op. cit., 79) che se in relazione ad un atto di destinazione (senza effetto traslativo) si accerta la prevalenza dell’interesse del terzo creditore rispetto all’interesse del beneficiario, ciò comporterà « l’inefficacia relativa della separazione patrimoniale e, quindi,
l’esecutabilità dei beni vincolati » (ossia — si noti — gli stessi effetti che conseguirebbero
all’esercizio vittorioso della revocatoria, e che qui sembrerebbero conseguire alla impugnazione di un vincolo di destinazione illegittimamente trascritto, e così reso indebitamente opponibile ai terzi).
( 30 ) Proprio uno dei presupposti della revocatoria, e cioè il « pregiudizio » (potenziale)
che il creditore può ricevere dal compimento dell’atto di disposizione, che potrebbe avere
reso il (residuo) patrimonio del debitore insufficiente a « garantire » l’adempimento del
credito (o la realizzazione dell’obbligazione risarcitoria, in cui lo stesso si converta in caso
di inadempimento), conferma quanto dicevamo più sopra: e cioè che un atto di destinazione che ambisca a non essere « impugnabile » dovrà (e potrà) verisimilmente essere posto in
essere solo da chi disponga (anche) di altri beni (diversi da quello o da quelli che vengono
« destinati »).
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tuto può legittimamente ambire a ritagliarsi (e l’effettiva novità che esso
esprime).
a) La prima di tali ragioni ci sembra da individuare nella crisi della
« soggettivazione » come tecnica per realizzare destinazioni particolari dei beni (31) (si pensi al classico istituto della fondazione, ma anche alla utilizzazione del meccanismo della creazione di una nuova società allo scopo di convogliare nella stessa risorse che si vogliono riservate ad un determinato affare e
ai creditori coinvolti nello stesso). La creazione di un nuovo soggetto giuridico
ha dei costi « transattivi », ma anche dei costi di « mantenimento » (organi
amministrativi e direttivi del « soggetto »/persona giuridica; dipendenti, sedi,
ecc.), che possono risultare eccessivi rispetto all’obiettivo da raggiungere, o
tali comunque da assorbire una parte consistente delle risorse destinate a un
determinato obiettivo.
b) La seconda di tali ragioni consiste nella remora che — in talune situazioni — si può avere a dismettere un proprio bene a favore di un terzo che lo
acquisti con il vincolo di destinarlo ad un certo scopo. Gli strumenti della donazione modale o anche del trust o di un negozio fiduciario — che si basano
su un meccanismo di questo genere — possono, ad es., e in taluni casi, risultare non del tutto « congeniali » e/o « appropriati », per varie ragioni: ad es.
perché il soggetto a cui si affida il bene rischia di impiegare una parte del valore del bene stesso per mantenere la propria organizzazione (si pensi ad un
trustee professionale; si pensi ad un soggetto pubblico che debba affrontare
delle spese ingenti per la gestione « dedicata » del bene o dei beni che gli sono
trasferiti); oppure perché il (potenziale) « disponente » non ha fiducia (piena)
sulle effettive capacità del terzo di gestire il bene per realizzare la destinazione programmata; o, ancora, semplicemente perché il soggetto vuole realizzare
la destinazione per un certo periodo, ma senza privarsi definitivamente del
bene (che egli vuole invece conservare nel proprio patrimonio, per disporne
successivamente inter vivos ovvero per trasmetterlo ai propri eredi). Ecco allora che l’imposizione di un vincolo di destinazione — opportunamente congegnato — può consentire di realizzare lo scopo, tenendo conto però al contempo degli elementi sopra richiamati.
4. — Il secondo « effetto » che l’art. 2645 ter ricollega all’atto di destinazione è il c.d. effetto di « segregazione » (del bene o dei beni vincolati), che
l’ultimo inciso della disposizione in esame esprime con la formula secondo cui
« I beni conferiti e i loro frutti [possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e] possono costituire oggetto di esecuzione, salvo
( 31 ) Come osserva (fra i tanti) Lenzi, Atto di destinazione, cit., p. 55, la preferenza verso la soluzione della « personificazione », fortemente radicata nella mentalità tradizionale,
« può dirsi recessiva nel pensiero giuridico contemporaneo, come dimostra la presenza già
nel nostro codice civile, ma soprattutto nella legislazione più recente, di istituti fondati sulla
separazione patrimoniale in senso stretto, nei quali all’effetto separatorio da destinazione
non si accompagna un contestuale mutamento del regime di titolarità del patrimonio ».
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quanto previsto dall’art. 2915, comma 1o, solo per debiti contratti per tale
scopo ».
L’effetto « segregativo » — così delineato — non sarebbe, di per sé, essenziale alla realizzazione della « destinazione »; serve piuttosto (solo) a « rafforzarla » (32). Non c’è dubbio, peraltro, che l’art. 2645 ter preveda questo effetto come necessariamente collegato all’atto di destinazione trascritto, che (è
bene ricordarlo) è il solo fenomeno (o, se si vuole, la fattispecie) a cui si riferisce la norma in esame (33), tanto che non sarebbe azzardato riferire l’interesse
( 32 ) È chiaro, infatti, che anche se all’atto di destinazione non si accompagnasse l’effetto di separazione patrimoniale (del bene o dei beni destinati), la destinazione potrebbe comunque operare sub specie di limitazione dei poteri del proprietario (in part., del potere di
godimento), con efficacia altresì — sempre che l’atto sia stato trascritto (e sia, pertanto, divenuto « opponibile ») — nei confronti dei terzi aventi causa.
Per l’idea, invece, che ai fini del passaggio da una nozione « generica » di destinazione
(quale ricorre in una serie eterogenea di fenomeni: dalle pertinenze, alle universalità, alle
servitù, al mutuo di scopo, ecc.) ad una nozione « tecnica », sia necessario che la destinazione del bene risulti dotata — quale « elemento integrativo qualificante » — della « separazione » patrimoniale, v. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in G.
Vettori (a cura di), Atti di destinazione e trust, cit., e anche in questa Rivista, 2007, I, p.
201 ss., § 2 (ove si legge anche che « Una destinazione del patrimonio che non comportasse
un effetto di separazione sarebbe pressoché inutile in quanto la separazione è strumentale
alla conservazione della destinazione »).
( 33 ) Intendiamo con ciò ribadire che una destinazione senza trascrizione (e, dunque, tale da restare confinata nell’ambito di un mero rapporto obbligatorio tra disponente e beneficiario) è fenomeno che non ha nulla a che vedere con quello regolato dall’art. 2645 ter.
In questo senso, l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione (opponibilità che consegue alla trascrizione), più che un effetto, è un elemento della fattispecie prevista e regolata dall’art. 2645 ter.
È equivoca, pertanto, e fonte di possibili fraintendimenti, la posizione di chi assume che
si possa dare un « atto di destinazione » (ai sensi dell’art. 2645 ter) anche senza la trascrizione, ponendosi pertanto il problema se ci possa essere un « atto di destinazione » valido
ma non trascrivibile, e distinguendo pertanto una « meritevolezza » (dell’interesse) che potrebbe essere sufficiente a far ritenere valido l’atto, ancorché inidoneo ad essere trascritto (e
dunque a conseguire l’effetto della « opponibilità ai terzi » del vincolo di destinazione): cfr.
— fra i tanti che aderiscono a questa impostazione — Bullo, Separazioni patrimoniali e
trascrizione, cit., p. 58, e, più di recente, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza » degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in F. nap., 2014, p. 54 ss., specie p. 60 ss. (dove si legge che « il controllo di meritevolezza dell’art. 2645 ter c.c. è richiesto soltanto ai fini della separazione patrimoniale, sì che il negozio di destinazione, già di per sé lecito e
meritevole ex art. 1322 c.c. (e quindi valido e produttivo di effetti tra le parti), sarà anche
opponibile ai terzi creditori ed agli aventi causa, se supera il controllo dell’art. 2645 ter c.c.
... Ne deriva che la conseguenza, in caso di mancato superamento del controllo ex art. 2645
ter c.c., non è la nullità ma la sola inopponibilità ai terzi dell’effetto di destinazione e, quindi, del vincolo gravante sui beni »).
Va qui ribadito che l’atto di destinazione ex art. 2645 ter, è solo quello (trascrivibile e)
trascritto. Atti che non abbiano questa finalizzazione (o ai quali comunque non segua la
trascrizione, perché risulti insussistente un « interesse meritevole di tutela ») non sono atti
di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter. Dopodiché non è neanche esatto dire che si tratta
di atti nulli (per mancanza di causa) ai sensi della disposizione in esame (così, ad es., Ceolin, op. cit., p. 205): semplicemente si tratterà di atti che difettano dei requisiti per essere
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
meritevole di tutela direttamente alla trascrizione (34). Il che — sia detto per
inciso — avrebbe, fra l’altro, il vantaggio di rendere (più) evidente che il giudizio di meritevolezza va condotto avendo riguardo (come termini di confronto) entrambi gli effetti che il legislatore riconnette (inscindibilmente) alla suddetta trascrizione: e dunque non solo l’effetto « segregativo » (che coinvolge i
terzi creditori), ma anche l’effetto di « destinazione » (che coinvolge direttamente il bene).
Proprio per quanto appena detto, lascia perplessi l’atteggiamento della
dottrina, che ha invece concentrato l’attenzione pressoché esclusivamente sull’effetto segregativo, finendo — a nostro avviso — per porre la lettura dell’art.
2645 ter sotto un angolo visuale non del tutto corretto (se non, addirittura,
fuorviante).
Nella prospettiva della centralità dell’effetto segregativo (35) è stata infatricondotti allo « schema » di cui all’art. 2645 ter, impregiudicata una loro possibile qualificazione alla stregua dello schema di un negozio tipico (di cui eventualmente presentino i requisiti: es. una donazione modale, un atto con cui il proprietario costituisca sul proprio fondo una servitus altius non tollendi, o un diritto reale di uso a favore di una determinata
persona, ecc. ecc.) ovvero al limite di uno schema « atipico », sempreché (in quest’ultimo
caso) risulti superato il vaglio di « meritevolezza » ex art. 1322 c.c. (vaglio che — è appena
il caso di sottolinearlo — dovrà essere condotto sulla base di parametri diversi da quelli utilizzati ai fini dell’art. 2645 ter, atteso che il richiamo che quest’ultima disposizione fa all’art. 1322 c.c. va inteso proprio nella prospettiva di una « specializzazione » del giudizio di
meritevolezza quando esso sia riferito ad un « atto di destinazione » che si voglia opponibile
ai terzi).
Un’ultima considerazione. Alla luce di quanto sopra affermato, ci sembra che risulti altresì evidente che l’« atto di destinazione » di cui parla l’art. 2645 ter debba considerarsi
un atto « negoziale » tipico, atteso che esso trova nella disposizione in esame sia la descrizione della « fattispecie » (seppure delineata in maniera alquanto ampia e generica) sia la
« disciplina degli effetti » (effetto di destinazione ed effetto segregativo) (sulla « tipizzazione » della causa dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter cfr. Oberto, Atti di destinazione
[art. 2645 ter c.c.] e trust: analogie e differenze, in Contratto e impr./Europ., 2007, p. 351
ss.), sia la disciplina delle modalità (pubblicitarie) che devono necessariamente accompagnare l’atto (leggi: trascrizione).
Non bisogna, in conclusione, confondere la « atipicità »dell’effetto segregativo (« atipicità » che attiene al fatto che, adesso, questo effetto non richiede una specifica previsione di
legge, ma può conseguire anche ad un atto di autonomia privata), con una (pretesa e, per le
ragioni appena dette, insussistente) « atipicità » dell’atto negoziale che dà vita alla separazione patrimoniale.
( 34 ) Si è giustamente sottolineato che, mentre nell’art. 1322 c.c. il giudizio di meritevolezza viene riferito direttamente all’atto « a prescindere dall’essere lo stesso trascrivibile o
meno ed in concreto trascritto oppure no », nell’art. 2645 ter « la mancanza di meritevolezza dell’interesse riferibile ai soggetti ivi indicati non consente la trascrizione stessa dell’atto, e quindi non permette il prodursi né dell’effetto dell’opponibilità ai terzi del vincolo né
l’effetto segregativo sui beni oggetto di destinazione » (così Bullo, Separazioni patrimoniali
e trascrizione, cit., pp. 58-59).
( 35 ) In radicale controtendenza v., tuttavia, la posizione di Falzea, Introduzione e considerazioni generali, in Aa.Vv., Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo
cammino di un’idea (a cura di M. Bianca e A. de Donato), Quaderni della Fondazione italiana del Notariato, Il Sole - 24 Ore, Milano 2013, p. 19 ss.
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ti pressoché interamente « assorbita » la questione (cruciale) della determinazione di quali siano (e come debbano intendersi) gli « interessi meritevoli di
tutela », di cui la norma parla come presupposto perché possa farsi luogo alla
imposizione di vincoli di destinazione sui beni.
Premesso che nella valutazione complessiva del nuovo istituto la dottrina
si è sostanzialmente divisa in due « schieramenti » determinati proprio dalla
posizione rispetto all’effetto di segregazione — vi sono stati autori che hanno
criticato (o comunque espresso preoccupazione nei confronti del)la disposizione dell’art. 2645 ter, accusando il legislatore di aver rimesso all’autonomia
privata il potere di creare patrimoni separati, con correlativo « sacrificio » degli interessi dei creditori « generali » (e creando comunque un vulnus alla tutela del credito, nonostante il « rilievo » anche costituzionale che a tale tutela
deve riconoscersi (36)), mentre per converso altri autori hanno visto nella norma in esame nulla più che l’epilogo (e, per così dire, la naturale evoluzione)
di una tendenza ormai risalente alla erosione del principio di universalità della garanzia patrimoniale, guardando con favore (o, quanto meno, senza toni
« allarmistici ») all’ampliamento degli spazi dell’autonomia negoziale che essa realizza (37) — è successo che i due descritti atteggiamenti si siano riflessi
L’illustre Maestro, partendo dalla distinzione tra limitazioni del patrimonio e limitazioni
di responsabilità, arriva a negare qualsiasi contrasto dell’atto destinatorio (in quanto atto
che non inciderebbe direttamente sulla responsabilità del soggetto, bensì — secondo l’a. —
sul suo patrimonio) con la regola dell’art. 2740 c.c. Solo per le limitazioni di responsabilità
varrebbe il principio di cui all’art. 2740 c.c., mentre per gli atti che incidono direttamente
sul patrimonio troverebbe applicazione il rimedio dell’azione revocatoria (ragionando diversamente — afferma Falzea — « tutti gli atti di alienazione, e, più in generale tutti gli atti di disposizione, dovrebbero considerarsi come limitativi della responsabilità patrimoniale
e cadere sotto il divieto posto indirettamente dall’art. 2740 c.c. E se non lo sono gli atti di
alienazione a fortiori non possono neppure esserlo gli atti di separazione, che certamente
rappresentano un minus rispetto ad essi »).
( 36 ) In argomento cfr., fra gli altri: Barbiera, Responsabilità patrimoniale2, in Comm.
Schlesinger-Busnelli, Milano 2010, p. 6 ss., e Roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi
di conservazione, in Tratt. Bessone, IX, t. 3, Torino 2005, p. 7.
Ma si veda, allora, quanto scrive Palermo, Configurazione dello scopo, opponibilità del
vincolo, realizzazione dell’assetto di interessi, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto
negoziale di destinazione, Milano 2007, p. 79, laddove l’a. osserva che non si rinviene
« nella Carta repubblicana una configurazione degli interessi del ceto creditorio, che possa
far ritenere tali interessi — sia nell’ottica dell’art. 2 sia in quella dell’art. 41, comma 2o —
in assoluto intangibili... mentre le esigenze del mercato ... non sembrano richiedere, in vista
di un miglior assetto dei rapportin intersoggettivi, un tale sacrficio del potere di disposizione, che, condotto all’estremo limite, sia suscettibile di tradursi addirittura nel freno di quella stessa iniziativa privata, che l’art. 41 Cost. vuole libera, in linea di principio... ». Dello
stesso a. v. anche il saggio I negozi di destinazione nel sistema del diritto privato, in Rass.
d. civ., 2011, p. 83 ss.
( 37 ) Si veda, ad es., Doria, Il patrimonio « finalizzato », in questa Rivista, 2007, I, pp.
485 ss., 490, 498 (ove si legge che la disposizione dell’art. 2645 ter « piuttosto che un’epifania rivoluzionaria, rappresenta null’altro che il punto terminale di un particolare percorso
evolutivo della nozione di patrimonio del soggetto », spiegando che « la parabola normativa
a cavallo di fine millennio, compendiata, oggi da una generale possibilità offerta al soggetto
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
(come era facile, se non inevitabile, che avvenisse) sulla fondamentale questione relativa alla interpretazione del concetto di « interessi meritevoli di tutela » (decisiva per individuare quali possano essere — al di là della esemplificazione che fornisce lo stesso legislatore nella disposizione dell’art. 2645 ter
— codesti interessi).
In particolare ciò ha comportato la formazione — anche a questo proposito — di due (correlativi) orientamenti contrapposti (38): il primo, che
tende ad identificare la « meritevolezza » degli interessi in questione con la
non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ossia
(e in una parola) con la (mera) liceità degli interessi medesimi; il secondo,
invece, che assume il concetto di « meritevolezza » come espressivo di una
apprezzabilità sociale, che va al di là del semplice requisito (negativo) della
non illiceità (39), e che — secondo i più — implica la necessità che l’interesse che il vincolo di destinazione è preordinato a soddisfare (anche, eventualdi selezionare autonomamente la sfera di interessi attorno ai quali ordinare, con funzione
segregante, una parte del proprio patrimonio, consegna, dunque, una nozione di patrimonio, per così dire, “capovolta”, perché quelle stesse esigenze di affermazione della persona,
di tutela del credito e di ordinato sviluppo dell’economia, che, tradizionalmente, postulavano l’unitarietà del patrimonio, spingono, oggi, verso una sua frantumazione »).
( 38 ) È appena il caso di sottolineare che i due orientamenti di cui si parla nel testo rappresentano, per altro verso, la riproposizione (scontata, e forse anche un po’ banale — per
lo meno nella misura in cui sia praticata senza alcuno sforzo di « adattamento » del discorso alla specificità della fattispecie di cui all’art. 2645 ter) delle discussioni che da tempo si
agitano intorno al modo in cui intendere il requisito della « meritevolezza degli interessi »
con riferimento ai contratti atipici (art. 1322 c.c.).
( 39 ) Per l’identificazione dell’interesse meritevole di tutela ex art. 2645 ter con l’interesse « lecito » v., ad es.: Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in R. d. civ., II,
2006, p. 179 ss.; Russo, Il negozio di destinazione di beni immobili e beni mobili registrati
(art. 2645 ter c.c.), in Vita not., 2006, p. 1243 ss., Gentili, Le destinazioni patrimoniali
atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. d. civ., 2007, p. 12 (e si veda anche Id., La
destinazione patrimoniale. Un contributo della categoria generale allo studio della fattispecie, in R. d. priv., 2010, p. 62), Vettori, Atto di destinazione e trascrizione. L’art. 2645
ter, in Aa.Vv., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 176.
Nel senso invece che il giudizio di meritevolezza ex art. 2645 ter non possa esaurirsi
nella mera verifica della assenza di illiceità dell’interesse al cui soddisfacimento è preordinato il vincolo di destinazione si pronuncia, sia pure con varietà di accenti, la maggioranza
della dottrina: cfr. U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai
sensi dell’art. 2645 ter c.c., in G. Vettori (a cura di), Atti di destinazione e trust (Art. 2645
ter del codice civile), Padova 2008, p. 103 (e anche in R. not., 2007, p. 1069 ss.); Morace
Pinelli, Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina, in questa
Rivista, 2008, II, p. 451 ss.; Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 329; Gazzoni, Osservazioni, cit., p. 179; C. Scognamiglio, Negozi di destinazione, trust e negozi fiduciari, in
Scritti in onore di G. Cian, Padova 2010, t. 2, p. 2313 ss.; Nuzzo, L’interesse meritevole di
tutela tra liceità dell’atto di destinazione e opponibilità dell’effetto della separazione patrimoniale, in Aa.Vv., Famiglie e impresa: strumenti negoziali per la separazione patrimoniale, Milano 2010, p. 29; Id., L’evoluzione del principio di responsabilità patrimoniale illimitata, in Aa.Vv., Gli strumenti di articolazione del patrimonio. Profili di competitività del sistema (a cura di M. Bianca e G. Capaldo), Milano 2010, p. 316 ss.; Lenzi, voce Atto di destinazione, cit., p. 57.
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mente, con sacrificio degli interessi creditori) abbia rilevanza costituzionale (40).
A noi sembra che — al di là della parte di vero che ci possa essere in ciascuna di queste posizioni — un rilievo critico che a tutte può essere mosso risiede nel fatto che queste opinioni sono comunque accomunate dall’idea (non
condivisibile) che il « contraltare » dell’interesse che sta a base del vincolo di
destinazione sia costituito (esclusivamente) dalla tutela degli interessi del ceto
creditorio (41).
Se, invece, è vero quanto abbiamo cercato di evidenziare nelle pagine
precedenti — e cioè che la destinazione ad uno scopo si traduce, in primo luogo, in una conformazione del diritto di proprietà che limita le possibilità di
godimento e di disposizione che altrimenti sarebbero inerenti al diritto medesimo — deve dirsi piuttosto che l’interesse che può fungere da « limite » degli
atti di destinazione va ricercato, anzitutto, sul terreno della disciplina dei beni
e della loro circolazione nel mercato (42).
Ora, in questa disciplina, la possibilità di apporre limitazioni al diritto di
proprietà (ossia alle facoltà di godimento e di disposizione del proprietario)
— al di là dei limiti che sono imposti dalla coesistenza tra diritti dominicali
appartenenti a diversi soggetti — è, in base all’art. 42 Cost., legata all’esigen( 40 ) Cfr., nella logica di un « bilanciamento » tra l’interesse perseguito attraverso il vincolo di destinazione e gli interessi dei creditori, Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in Trusts, 2007, p. 169 ss.
Il riferimento alla rilevanza « costituzionale » dell’interesse tutelato ex art. 2645 ter è
frequente: agli autori già citati nella penultima nota, adde — ad es. — Maggiolo, Il tipo
della fondazione non riconosciuta nell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in R. not.,
2007, p. 1153 ss.
( 41 ) Esplicito nel senso che il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 2645 ter va condotto con riguardo all’effetto di separazione che consegue alla trascrizione dell’atto di destinazione, Di Raimo, Considerazioni sull’art. 2645 ter c.c.: destinazione di patrimoni e categorie dell’iniziativa privata, in Rass. d. civ., 2007, p. 983.
( 42 ) Del resto può darsi che la capienza del patrimonio del « conferente » sia tale da
non lasciar presagire (ragionevolmente) alcun problema di eventuale compromissione degli
interessi dei suoi creditori (attuali e futuri). Forse che questo escluderebbe la necessità di
effettuare un controllo di meritevolezza circa l’imposizione sul bene di un « vincolo di destinazione »? Riteniamo di no, e pensiamo che questa risposta sia la migliore riprova del fatto
che è (quanto meno) riduttivo concentrare l’attenzione esclusivamente sul profilo del « pregiudizio » che l’atto di destinazione può apportare alle ragioni dei creditori, pregiudizio ad
evitare il quale — oltre tutto — sono già previsti altri tipi di rimedi, e segnatamente quello
dell’azione revocatoria (v. anche retro).
Né si dica che l’azione revocatoria tutela adeguatamente i creditori anteriori all’atto di
destinazione, ma non altrettanto quelli « successivi », che sarebbero costretti — per poter
utilizzare questo strumento di tutela — a fornire la difficile prova della « dolosa preordinazione ». In realtà, la migliore tutela di questi ultimi creditori sta nella attenta valutazione delle condizioni del patrimonio del debitore al momento in cui sorge il loro credito, a conferma
del fatto che il problema posto dagli « atti di destinazione » ex art. 2645 ter non è solo (o tanto) un problema di tutela del credito, quanto un problema di tutela della proprietà (recte:
della salvaguardia delle prerogative che ineriscono al diritto dominicale, e che ne definiscono
anche la collocazione nel sistema di creazione e di circolazione della ricchezza).
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za di garantire la funzione sociale della proprietà, formula sintetica attraverso
la quale si intende evocare la possibilità che la regolamentazione legislativa (43) di alcune categorie di beni si atteggi in maniera tale da consentire —
in forme variamente individuabili — la realizzazione (attraverso i beni in
questione) di interessi ulteriori rispetto all’interesse del titolare del diritto (interessi, in senso lato, di carattere « sociale », in quanto riferibili a gruppi o
categorie di soggetti, portatori di bisogni meritevoli di tutela).
Non c’è dubbio che interventi del legislatore sulla proprietà privata in vista della realizzazione della funzione sociale possono legittimamente limitare
l’interesse allo sfruttamento economico e alla circolazione dei beni (con conseguenze suscettibili di riverberarsi anche sugli interessi dei creditori del titolare
del diritto di proprietà, ma che sono — nella loro essenza — soprattutto limitazioni delle regole di mercato con le quali si coordina la disciplina ordinaria
della proprietà) (44).
Orbene, l’introduzione dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter ha
l’effetto — a nostro avviso — di consentire oggi che una « funzionalizzazione » della proprietà privata (e, quindi, una sua più o meno ampia sottrazione
al mercato — nel senso appena sopra chiarito) si possa verificare (con riferimento necessariamente — questa volta — a beni determinati, e non a categorie generali di beni) anche in virtù e come conseguenza di scelte (non del legislatore, ma) dell’autonomia privata, a condizione che — appunto — ricorrano interessi (« meritevoli di tutela ») tali da poter giustificare un simile esito
(che non si esaurisce solamente — si ripete — nella « segregazione » del bene,
ossia nella sottrazione di esso all’azione esecutiva dei creditori, ma che importa conseguenze più ampie, che riguardano il sistema generale della produzione e della circolazione della ricchezza).
( 43 ) Qui c’è veramente una riserva di legge nel senso proprio del termine, ossia una riserva di legge posta da una disposizione costituzionale.
Non diremmo però che l’art. 2645 ter — col consentire (secondo l’interpretazione qui
accolta) all’autonomia privata di conformare il diritto di proprietà (con effetto erga omnes)
— violi la suddetta « riserva ». È infatti pur sempre il legislatore che — attraverso la disposizione in esame (e, in particolare, attraverso il requisito della « meritevolezza » degli interessi perseguiti) — ha dettato le condizioni essenziali di tale conformazione, sia nel senso di
individuarne la possibile « causa » (l’atto di destinazione), sia nel senso di definirne le conseguenze (l’effetto « destinatorio » e quello « segregativo »), nonché — per finire — le modalità attuative (la « trascrizione » dell’atto di destinazione, in maniera da rendere evidente
ai terzi l’esistenza del vincolo relativo a quel bene).
( 44 ) E così, ad es., le limitazioni (sia sul terreno della facoltà di godimento — con vincoli, di vario genere, aventi l’obiettivo di « conservare » il bene, impedendone modificazioni
ed alterazioni —, sia su quello della facoltà di disposizione) che vengano apposte alla proprietà privata di beni di interesse storico, artistico, archeologico, ecc.; le limitazioni di vario
genere che in passato (e in parte ancora oggi) sono state poste al diritto di proprietà di immobili urbani, a tutela degli interessi dei locatari (sia ad uso abitativo che ad uso commerciale); e così via enumerando, sono esempi — tra i tanti che potrebbero farsi — di ipotesi in
cui sono emersi interessi che il legislatore ha ritenuto idonei a giustificare una (almeno parziale) sottrazione della proprietà alle (ordinarie) regole di mercato.
SAGGI
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È esatto, dunque, che solo interessi di rango « superiore » (e, tendenzialmente, interessi aventi rilevanza costituzionale (45)) sono idonei a giustificare
l’imposizione di « vincoli di destinazione » ex art. 2645 ter, ma ciò non in base all’astratta (e frusta) disputa intorno alla questione se la « meritevolezza di
tutela » si possa identificare oppur no con la (mera) « liceità » dell’interesse (46), ma inserendo piuttosto il discorso nel contesto specifico che riguarda il
valore « costituzionale » della proprietà (47) e la possibilità (e i limiti) entro
cui la conformazione del diritto dominicale venga ad essere determinata dalla
considerazione di interessi estranei alla « logica proprietaria » in quanto tale
(perché espressivi di valori di « solidarietà sociale » (48), o comunque di valori
che trascendono la dimensione meramente « individualistica » ed « egoistica »
di un diritto, la cui essenza da sempre è stata identificata proprio nello ius
excludendi alios).
L’« ordine pubblico » col quale deve confrontarsi la « meritevolezza degli
interessi », richiesta perché possa validamente porsi in essere un atto di destinazione ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter c.c., è, dunque, prima
di tutto, costituito da quell’insieme di « valori » che sono sottesi al principio
del numerus clausus dei diritti reali, quale principio che ingloba in sé (tradizionalmente) — oltre al divieto di creare nuovi diritti reali in re aliena — anche il divieto (fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge) di alterare lo
schema del diritto di proprietà, ad es. attraverso la creazione di proprietà « a
termine », di proprietà « risolubili », di proprietà « fiduciarie », e così via.
È in questo contesto che va inquadrata anche la problematica della
( 45 ) Interessi attinenti — ad es. — alla tutela del patrimonio culturale, paesaggistico,
della ricerca scientifica, della salute, e così via enumerando.
Tra gli interessi in questione si possono annoverare anche gli interessi di tipo religioso.
Un esempio di rilevanza ante litteram di un vincolo di destinazione a tutela di un interesse
di culto è offerto dalla disciplina degli edifici (privati) destinati all’esercizio pubblico del
culto cattolico, Dispone al riguardo l’art. 831, comma 2o, del codice civile che « Gli edifici
destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non
possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che
la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano ». In argomento cfr. A. Bucci, Brevi note sul vincolo della destinazione all’uso degli edifici di culto in
Italia, in Caietele Institutului Catolic, VIII (2009, 2), p. 111 ss.
( 46 ) Disputa sulla quale si è concentrata la dottrina (v. riferimenti retro, nelle note 38 e 39).
( 47 ) Non tanto — come si sarà ormai capito — con riferimento alla tutela delle prerogative del proprietario, quanto piuttosto per le implicazioni che sono sottese alla « riserva
di legge » di cui all’art. 42, comma 2o, Cost. Riserva che sta ad indicare, con tutta evidenza,
che la Costituzione ritiene la disciplina della proprietà un elemento essenziale della più ampia costruzione delle regole del sistema economico, tanto da riservare al legislatore (e non
ad altri, foss’anche lo stesso proprietario) il potere di dettare le regole che concernono la
conformazione del diritto di proprietà.
( 48 ) Per una elencazione orientativa di interessi che possono considerarsi « meritevoli »
alla stregua di questo criterio di solidarietà sociale cfr., ad es., De Donato, Gli interessi riferibili a soggetti socialmente vulnerabili, in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 254.
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« proprietà destinata » (49) (formula che abbiamo, nel titolo del presente saggio, proposto per designare le ipotesi di apposizione su un bene di un « vincolo di destinazione » ex art. 2645 ter), fattispecie nella quale — ancor più che
in quelle or ora richiamate (dove il vincolo si esprime, sovente, solo sul piano
obbligatorio, e dunque restando come tale « esterno » rispetto al nucleo dei
poteri « proprietari ») — si assiste ad una conformazione del diritto dominicale, suscettibile di alterare profondamente (sia pure con riferimento ad un
bene determinato) il contenuto e il significato del diritto di proprietà (sia con
riferimento ai poteri di godimento del proprietario, in sé considerati; sia nella
sua proiezione di questi poteri nei rapporti con i terzi).
Né varrebbe osservare che una lettura che identifichi nel modo sopra visto la « meritevolezza dell’interesse » (collegando tale meritevolezza al concetto di utilità o funzione sociale) rischia di risolversi in una interpretazione
« abrogante » (e, comunque, fortemente ridimensionatrice della portata applicativa) dell’art. 2645 ter (50).
È vero che l’interpretazione proposta esclude che si possa far ricorso all’istituto di cui all’art. 2645 ter in numerose ipotesi che pur sono state (sovente) considerate suscettibili di rientrare nel campo di applicazione di tale norma (51). Ma ciò corrisponde — se sono vere le considerazioni sopra svolte — a
( 49 ) Altri preferisce parlare di « proprietà nell’interesse altrui » (cfr. Gambaro, Trusts,
2007, p. 169 ss.), o di « proprietà funzionale » (v. Stefini, La destinazione patrimoniale
dopo il nuovo art. 2645 ter c.c., in G. it., 2008, p. 1823 ss.; Id., Destinazione patrimoniale
ed autonomia negoziale: l’art. 2645 ter c.c.2, Padova 2010, p. 30 ss.).
( 50 ) Cfr. ad es. Muritano, Trusts e atto di destinazione negli accordi fra conviventi more uxorio, in Trusts, 2007, pp. 199 ss., p. 210.
( 51 ) E così, a nostro avviso, lo strumento dell’art. 2645 ter non potrà essere utilizzato
— ad es. — per la composizione dei rapporti patrimoniali tra coniugi (o tra genitori e figli)
in occasione della crisi familiare (separazione, divorzio), perché in tal caso si tratta di interessi meramente patrimoniali e « privati », che non sono sufficienti a giustificare una sottrazione del bene alle ordinarie regole di mercato (ivi comprese le norme poste a tutela dei
creditori).
Come pure esso non potrà essere utilizzato per costituire un « fondo patrimoniale » a
vantaggio dei componenti di un nucleo familiare « di fatto ».
In senso diverso da quanto qui sostenuto, v., ad es.: Trimarchi, Negozio di destinazione
nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Notariato, 2009, p. 426 ss.; Oberto, Atti
di destinazione, cit., p. 393 ss.; Bullo, Separazioni patrimoniali, cit., pp. 66-67 (secondo
la quale « uno dei campi nei quali può certo esplicare le proprie potenzialità la destinazione
patrimoniale ex art. 2645 ter è certamente la famiglia, intesa in senso ampio, settore in cui
le manifestazioni di solidarietà, ancorché rivolte a soggetti determinati, svolgono al contempo una più generale funzione sociale »; affermazione che, però, sembra ritornare all’idea,
ormai superata, della famiglia come seminarium rei publicae).
All’estensione (qui criticata) dell’ambito di applicazione dell’art. 2645 ter c.c. può forse
aver contribuito la considerazione delle motivazioni dichiarate che hanno accompagnato i
disegni di legge da cui è scaturita poi la disposizione in esame (si veda, in proposito, Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione, cit., p. 142 ss., dove si parla di « un iter legislativo frettoloso ed approssimativo »), ma è appena il caso di sottolineare che, una volta formulata la legge, è al suo oggettivo significato che l’interprete deve fare riferimento, non ai
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quella che è precisamente la portata della disposizione in esame, senza che si
possa accusare l’interpretazione proposta di essere (indebitamente, ossia in
contrasto con la lettera e con la ratio della disposizione) « restrittiva » (52).
È da condividere, pertanto, l’idea secondo la quale « interessi meritevoli di tutela » ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter possano considerarsi solo interessi « pubblici » (intesa peraltro l’espressione, semplicemente, nel senso che deve trattarsi di interessi diversi dall’interesse « privato » del proprietario (53) che impone il vincolo di destinazione), e di interessi che devono altresì qualificarsi per una impronta di « solidarietà sociale » (54) (ove l’aggettivo intende, questa volta, non tanto sottolineare che
non possa trattarsi di interessi riferibili anche ad individui singoli, quanto
piuttosto che debba comunque trattarsi di interessi non patrimoniali del
soggetto (55) o dei soggetti beneficiari dell’atto di destinazione) (56).
« motivi » (più o meno chiaramente delineati ed enunciati) che possano emergere dai lavori
preparatori (soprattutto quando questi motivi non risultino univoci).
Del resto è proprio al criterio appena enunciato che si è attenuta (correttamente) la dottrina quando (a proposito di un altro profilo, emerso nell’interpretazione dell’art. 2645 ter)
ha evidenziato come — al di là delle « intenzioni » sottese ai disegni di legge che hanno
portato alla sua introduzione — la disposizione in esame non può assolutamente leggersi
come disciplinante una versione « domestica » dell’istituto del trust (v. anche la nota seguente).
( 52 ) Una simile impressione può essere suggerita solo da una « precomprensione » che
pretenda di leggere l’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter come una « alternativa »
(domestica) al trust. Ma una simile « precomprensione » si rivelerebbe del tutto fuorviante
nella interpretazione (ed applicazione) della disposizione in esame. L’atto di destinazione
non può svolgere (se non in parte, e con modalità comunque differenti) la funzione del
trust, si tratti pure della figura del c.d. « trust autodichiarato », che è quella che maggiormente si avvicina alla fattispecie « tipica » di « atto di destinazione », che sarà di norma un
atto che contempla l’imposizione del vincolo di destinazione senza trasferimento della proprietà del bene. E, in ogni caso, la maggiore ampiezza degli obiettivi perseguibili (e degli
interessi che possono essere soddisfatti) attraverso un trust (c.d. interno) sconta comunque
la necessità di assoggettare la fattispecie ad una normativa straniera (e, comunque, con i limiti di cui agli artt. 15 e 18 della l. 16 ottobre 1989, n. 364, di ratifica ed esecuzione della
Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento).
Sulle differenze tra trust e atto di destinazione ex art. 2645 ter v., per tutti, Zoppini, Destinazione patrimoniale e trust: raffronti e linee per una ricostruzione sistematica, in R. d.
priv., 2007, p. 721 ss., e Oberto, Atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust, cit., p.
351.
( 53 ) Con la precisazione che — almeno secondo il nostro avviso (in dissonanza da una
pressoché unanime diversa opinione, sul punto, della dottrina) — deve farsi rientrare nella
sfera dell’interesse « privato » anche l’ipotesi in cui si intenda perseguire un interesse riferibile ad un membro della « famiglia », salvo che non si tratti di un « soggetto disabile ».
( 54 ) Di « autonomia della solidarietà » parla — con formula suggestiva — P. Spada, Il
vincolo di destinazione e la struttura del fatto costitutivo, in Aa.Vv., Atti notarili di destinazione di beni: art. 2645 ter c.c. (Atti del Convegno della Scuola di Notariato della Lombardia, Milano 19 giugno 2006), consultabile sul sito www.scuoladinotariatodellalombardia.org/relazioni/definitive.doc.
( 55 ) È appena il caso di sottolineare che deve distinguersi il carattere « non patrimonia-
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Così individuata e ricostruita, la figura di cui all’art. 2645 ter c.c. potrebbe rivelarsi uno strumento prezioso per consentire anche nel nostro ordinamento un’articolazione (« dal basso ») delle forme d’uso dei beni, attraverso meccanismi originali ed innovativi.
le » dell’interesse, dalle modalità attraverso le quali l’interesse stesso viene soddisfatto.
Queste ultime modalità possono ben consistere in una prestazione « patrimoniale » (come
l’erogazione di una rendita, o di fondi destinati al sostegno della ricerca scientifica in determinati settori, ecc.) o comunque valutabile patrimonialmente, purché essa sia diretta a soddisfare un interesse non patrimoniale del beneficiario (ad es.: interesse alla ricerca scientifica, interesse alla salute, interesse all’abitazione, interesse al sostentamento vitale; ecc. ecc.).
( 56 ) L’idea espressa nel testo corrisponde a quella autorevolmente sostenuta da Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., pp. 328, 331. Si veda, anche, in senso sostanzialmente
conforme, Cian, Riflessioni, cit., p. 88 (seguito da Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, cit., p. 217 ss.), e Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Aa.Vv., Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 126 (nonché in R. d. soc., 2007, p. 17).
Nel senso invece che l’art. 2645 ter « non presuppone ... il perseguimento di interessi
pubblici, sociali o superindividuali », richiedendo invece soltanto che l’interesse sia « attuativo di valori fondamentali (salute, famiglia, impresa, lavoro, dignità e personalità umana,
risparmio) » senza che peraltro debba trattarsi di « interessi pubblici o socialmente utili »,
si pronuncia, da ultimo, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 68.
A quest’ultima opinione sembra potersi obiettare che — così individuato — l’interesse
« meritevole di tutela » ex art. 2645 ter finisce per essere del tutto indeterminato, in tal
modo assumendo una estensione eccessiva e ingiustificata. Ancor meno condivisibile ci
sembra l’idea che l’atto di destinazione ex art. 2645 ter « possa essere utilizzato anche per
il perseguimento di interessi, oltre che individuali, prettamente patrimoniali » e, addirittura, « per finalità lucrativo-speculative » (così, ancora, G.Perlingieri, op. cit., p. 69). È il legislatore che può — per finalità siffatte — introdurre (eccezionalmente) deroghe al principio di universalità della responsabilità patrimoniale (v. ad es. art. 2447 bis c.c., sui c.d.
« patrimoni destinati ad uno specifico affare »), ma dubiteremmo che una simile possibilità
sia stata accordata in generale all’autonomia privata attraverso lo strumento dell’atto di
destinazione previsto dall’art. 2645 ter.
Emanuela Navarretta
Prof. ord. dell’Università di Pisa
PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA,
PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E CONTRATTO (*)
Sommario: 1. Il principio di uguaglianza e la sua proiezione verticale sul contratto. — 2. Il
divieto di discriminazione: dalla ratio degli interventi normativi al dilemma sul contratto individuale. — 3. Principio di non discriminazione, responsabilità precontrattuale e
controllo sul contenuto del contratto individuale. — 4. La ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico: la proiezione verticale del principio di uguaglianza formale in concreto e la prospettiva sistematica. — 5. Divieto di discriminazione e proiezione orizzontale del principio di uguaglianza. — 6. Contratto e principio di uguaglianza.
1. — La relazione fra principio di uguaglianza e autonomia privata accompagna la genesi e l’evoluzione dell’istituto del contratto.
Il concettualismo pandettistico e le codificazioni ottocentesche, specchio
più o meno consapevole (1) del liberismo borghese e del liberalismo economico, avevano plasmato la categoria del contratto sul presupposto dell’astratta
uguaglianza formale tra i contraenti (2), premessa di quella giustizia « postulata » (3) dall’accordo, che aveva abbandonato le riflessioni groziane in tema
di giustizia contrattuale (4).
Solo agli albori del XX sec. illustri sociologi e filosofi iniziano a rilevare che
l’accordo è basato su una « parità di fatto che di fatto molto spesso non c’è » (5)
(*) Il lavoro riproduce la relazione tenuta al XXII Incontro nazionale del Coordinamento Dottorati di Ricerca in Diritto Privato svoltosi a Trieste il 30 gennaio-1o febbraio 2014
ed è dedicato al Prof. Giovanni Iudica.
( 1 ) Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, Milano 1980, p. 140.
( 2 ) « Libertà di contratto ed eguaglianza formale dei contraenti apparivano [allorché
prevalevano le teorie economiche del laisser faire, laissez-passer] i presupposti non solo del
conseguimento degli interessi particolari [dei contraenti], ma anche dell’interesse generale
della società » così Roppo, Il contratto, Bologna 1977, p. 34.
( 3 ) Il noto aforisma « qui dit contractuel dit juste ».
( 4 ) Grozio, De iure belli ac pacis. Libri tres, Amsterdam 1625, cap. XII, par. XI, p.
159 sensibile alla filosofia aristotelico-tomista, concepiva il contratto come fondato su una
necessaria equivalenza sinallagmatica: « In ipso actu principali haec desideratur aequalitas,
ne plus exigatur quam par est. [...] Quod enim promittunt aut dant, credendi sunt promittere aut dare tamquam aequale ei quod accepturi sunt, utque ejus aequalitatis ratione debitum ».
( 5 ) Breccia, Che cosa è « giusto » nella prospettiva del diritto privato?, in Interrogativi
sul diritto giusto, a cura di Ripepe, Pisa 2001, p. 99.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
e che i contratti, pur « formalmente [...] liberi a tutti, di fatto non sono accessibili a molti » (6).
Ma la constatazione resta puramente fattuale e perché il diritto reagisse
alla distorsione fra la realtà e il modello, si sarebbe dovuto attendere non già
la rinascita di correnti più sensibili al dato reale (7) e tese a riversare sul contratto qualcosa di più di « poche gocce di olio sociale » (8), quanto gli interventi normativi di matrice europea ispirati al pensiero ordoliberista.
Il compito è spettato dunque all’Europa guidata da spinte solo apparentemente antitetiche. L’obiettivo del mercato unico e la tutela delle libertà fondamentali postulate dal Trattato hanno al tempo stesso rafforzato l’autonomia contrattuale (9), ma l’hanno anche fortemente condizionata (10), nella
consapevolezza dell’illusione della mano invisibile e dell’esigenza di costruire
normativamente i presupposti di una reale libera concorrenza. In tale contesto si è venuta a delineare la duplice esigenza della pari opportunità di accesso al mercato e dell’esercizio effettivo del potere di autonomia.
Parallelamente, l’obiettivo di rimuovere ogni impedimento al mercato interno e di promuovere le libertà fondamentali ha posto in risalto l’esigenza di
avversare ogni trattamento discriminatorio fra contraenti di diverse nazionalità, dando origine ad un processo di progressiva incidenza del principio di
non discriminazione sul contratto (11). Tale principio, affrancandosi via via
( 6 ) L’osservazione è sempre di Breccia, Causa, in Il contratto in generale, t. III, a cura
di Alpa-Breccia-Liserre, Torino 1999, pp. 190 s. dove ricorda sia il pensiero di Max Weber
secondo cui: « i contratti — se formalmente sono liberi a tutti — di fatto sono accessibili
soltanto a pochi » sia quello di Jürgen Habermas secondo cui « l’autonomia privata [...] implica un universale diritto d’eguaglianza, ossia un diritto alla parità di trattamento secondo
norme che garantiscano un’eguaglianza giuridica sostanziale » [il corsivo è aggiunto].
( 7 ) Nella fase — tra gli anni ’60 e ’70 — in cui è prevalsa la tendenza, attraverso i
principi costituzionali, a funzionalizzare gli istituti del diritto privato non sono mancate le
proposte — ma si è trattato solo di costruzioni dottrinarie (fra i vari contributi cfr. Nuzzo,
Utilità sociale e autonomia privata, Milano 1975, p. 8) — volte ad utilizzare il paradigma
dell’utilità sociale, di cui al comma 2o dell’art. 41 C. (norma nella quale si ravvisava il fondamento dell’autonomia contrattuale), quale strumento per affermare « il progresso di tutti
in condizioni di eguaglianza » sostanziale (Nuzzo, op. cit., p. 43). L’obiettivo era quello di
un controllo sostanziale e non solo formale sulle clausole vessatorie nei contratti unilateralmente predisposti (Nuzzo, op. cit., p. 106 ss.).
( 8 ) Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, cit., p. 412.
( 9 ) Leible, Fundamental Freedoms and European Contract Law, in Constitutional Values and European Contract Law, ed. by Grundmann, Kluwer, The Nederland 2008, p. 65
ss.
( 10 ) Wagner, Zwingendes Vertragsrecht, in Die Revision des Verbraucher-Acquis, Eidenmüller et al. (a cura di), Tübingen 2011, p. 3 parla addirittura di una « pietrificazione » dell’autonomia privata. cfr. sul punto Patti, Autonomia contrattuale e diritto privato
europeo, in Ragionevolezza e clausole generali, Milano 2013, p. 105.
( 11 ) La sussistenza o meno di una discriminazione nella disciplina dei contratti transfrontalieri rispetto a quelli nazionali è il più frequente parametro attraverso il quale si valuta il contrasto di una legge o di un contratto con le libertà fondamentali. V. i seguenti casi
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dalla genesi mercantilistica, e venendosi a colorare di una valenza più propriamente assiologica, è divenuto quasi il paradigma dei nuovi obiettivi costituzionali dell’Europa (12) che, dopo aver accolto al suo interno le tradizioni
costituzionali comuni, è divenuta essa stessa fautrice del personalismo, con
una specifica vocazione a governare una società sempre più complessa, multietnica e multiculturale.
In sostanza, per un verso, le nuovi visioni economiche e l’obiettivo del
mercato concorrenziale hanno determinato una sorta di funzionalizzazione
dell’autonomia contrattuale (13) che ha subìto a tal fine limitazioni e controlli.
Per un altro verso, l’affermarsi del personalismo quale ulteriore sostrato
costitutivo dell’Unione europea ha assecondato la riscoperta dell’attitudine
del contratto a promuovere anche valori della persona (14) e del diritto civile a
combattere fenomeni di razzismo e di discriminazione (15).
Con l’impatto dei suddetti avvenimenti, l’asse di riferimento del contratto
ha cominciato a virare dall’uguaglianza puramente formale tra i contraenti
all’uguaglianza anche sostanziale, aprendo l’ampio e complesso capitolo dei
contratti asimmetrici e del controllo sulla giustizia contrattuale. Indici normativi di tale orientamento sono tutte le disposizioni che colpiscono gli accordi
iniqui: dalla disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatodella Corte di Giustizia: Société Générale Alsacienne c. Koestler, causa 15/78 del 24 ottobre
1978; Alsthom Atlantique SA e/ Compagnie de Construction Mécanique Sulzer SA e a.,
causa C-339/89 del 24 gennaio 1991; Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano, causa C
281/98 del 6 giugno 2000.
( 12 ) L’apice di tale processo è segnato dal Trattato di Lisbona e dall’inserimento nel
medesimo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché dalla prevista
adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.
( 13 ) Parla di « definizione “funzionale” dell’autonomia contrattuale » Zoppini, Autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in Contratto e antitrust, Roma-Bari 2008, p. 16.
( 14 ) Cfr. Colombi Ciacchi, The Constitutionalization of European Contract Law: Judicial Convergence and Social Justice, in Eur. Review of Contract Law, 2006, p. 167 ss.;
Ead., Party Autonomy as a Fundamental Right in the European Union, in Eur. Review of
Contract Law, 2006, p. 303 ss.; Cherednychenko, The Constitutionalitation of Contract
Law: Something New under the Sun?, in Electronic Journal of Comparative Law, 2004, p.
1 ss.; Grundmann, Constitutional Values and European Contract Law: An Overview, in
Constitutional Values and European Contract Law, cit., p. 3 ss.; Kosta, Internal Market
Legislation and the Private Law of the Member States — The Impact of Fundamental Rights, in ERCL, 2010, p. 409 ss.; Mak, The Constitutional Momentum of European Contract
Law. On the Interpretation of the DCFR in the Light of Fundamental Rights, in European
Review of Private Law, 2009, p. 513 ss.; Ead., Fundamental Rights in European Contract
Law, Kluwer, The Nederlands 2008.
( 15 ) Cfr. Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile, in
Principio di uguaglianza e divieto di compiere atti discriminatori, a cura di Morozzo della
Rocca, Napoli 2002, p. 23. In generale, cfr. Schulze (a cura di), Non-Discrimination in European Private Law, Tubinga 2011, passim.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
ri (16), alla normativa sull’abuso di dipendenza economica (17), dalla disposizione sui ritardi di pagamento (18), alla normativa sulla cessione dei prodotti
agricoli e agroalimentari (19), sino all’abuso di posizione dominante (20), che
consista in un abuso di sfruttamento, e all’ipotesi dei contratti a valle (21). Né
manca un’attenzione privilegiata anche al tema delle c.d. asimmetrie microeconomiche (22) sotto l’influenza dapprima di fonti fatto o fonti extra-ordinem e poi con la loro attrazione nel circuito della disciplina dell’Unione, in
virtù del progetto di CFR, poi confluito nel DCFR e, da ultimo, nella Proposta
di CESL.
Al contempo, l’asse del contratto ha iniziato lievemente ad inclinarsi dall’uguaglianza formale in astratto all’uguaglianza formale in concreto.
Tale deve ritenersi il senso sotteso ai divieti di contemplare clausole discriminatorie che creino uno svantaggio per la concorrenza, previsti nell’ambito dell’abuso di dipendenza economica (23); dell’abuso di posizione dominante (24) e della cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (25).
( 16 ) Artt. 33 ss. del codice del consumo.
( 17 ) Art. 3, comma 2o, della l. 18 giugno 1998, n. 192 che così recita: « L’abuso può
anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto ». [Il corsivo è aggiunto].
( 18 ) Art. 7 del d.l. 9 ottobre 2002, n. 231, come modificato dal d.l. 9 novembre 2012,
n. 192, secondo cui « 1. L’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura
della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti
commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in
danno del creditore ».
( 19 ) Art. 62, comma 2o, lett. a), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con la l. 24
marzo 2012, n. 27, come modificato dall’art. 36 bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la l. 17 dicembre 2012, n. 221.
( 20 ) Art. 102, comma 2o, lett. a) e d), del TFUE, in base al quale: « Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi
d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque; [...] d) nel subordinare
la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso
con l’oggetto dei contratti stessi ». [Il corsivo è aggiunto]. Del medesimo tenore è l’art. 3
della l. 10 ottobre 1990, n. 287.
( 21 ) Ipotizza un’applicazione ai contratti a valle della disciplina sui contratti asimmetrici e, specificamente, di quella sull’abuso di dipendenza economica, Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, II, in Danno e resp., 2005, p. 251. Sul punto ci
sia consentito rinviare a Navarretta, Abuso del diritto e contratti asimmetrici, in Annuario
del contratto, 2011, Torino 2012, p. 87.
( 22 ) Si veda nel DCFR la disciplina degli artt. II.-7:101, II.-7:207 e IVH.-2:104 in materia di unfair exploitation e nella Proposta di CESL l’art. 51 dell’Annex I.
( 23 ) V. supra nt. 16.
( 24 ) L’art. 102, comma 2o, lett. c), del TFUE così recita: « Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: c) nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri con-
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551
E tale è altresì — come si dirà — il senso sotteso al divieto di discriminazioni per ragioni legate a profili personali del contraente: la razza, il colore,
l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o le pratiche religiose (art. 43, comma 2o, d. legisl. 25 luglio 1998, n. 286); la razza o l’origine
razziale (direttiva 2000/43/CE, attuata con il d. legisl. 9 luglio 2003, n.
215); il sesso (direttiva 2000/113/CE, attuata con il d. legisl. 6 novembre
2007, n. 196); la disabilità (l. 1o marzo 2006, n. 67); la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (proposta di direttiva 2 luglio 2008 COM (2008) 426).
Dinanzi ad una tale evoluzione l’interprete non può più limitarsi a giustificare le limitazioni all’autonomia privata, sul presupposto dell’eccezionalità
delle previsioni che derogano al modello tradizionale (26). Al contrario, la tendenza della nuova disciplina a plasmare un nuovo modello e, al contempo, il
suo attuarsi attraverso interventi di tipo settoriale impongono all’interprete un
compito decisamente più arduo: portare a sistema le disposizioni normative,
senza l’illusione di un sistema monolitico (27) e senza addivenire alla distruzione del contratto. È evidente, infatti, che se le diseguaglianze vanno combattute,
è anche vero che, infranto il velo dell’uguaglianza formale, sono tali e tante le
possibili diversità reali che, ad assecondarle tutte, si rischia di rimettere costantemente in discussione la vincolatività dell’accordo. Analogamente, se l’obiettivo della parità in concreto nell’accesso al contratto deve indurre ad un sindacato sulla scelta negoziale, un controllo troppo dilagante e pervasivo potrebbe minacciare la stessa autonomia che è a fondamento del contratto.
2. — Delle aree che risentono della tensione verso l’uguaglianza sostanziale o verso l’uguaglianza formale in concreto, nella loro proiezione verticale
sul contratto, la più difficile da ricondurre a sistema è quella relativa al divieto di discriminazioni per ragioni legate alle qualità del contraente, in quanto
immette nel circuito dell’esercizio dell’autonomia un valore fondante del sistema: la dignità umana (28).
traenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi
uno svantaggio per la concorrenza » [il corsivo è aggiunto]. Identico alla norma del trattato
è il testo della l. 287/1990 dell’art. 3 lett. c) della l. 10 ottobre 1990, n. 287.
( 25 ) L’art. 62, comma 2o, lett. b), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con la l. 24
marzo 2012, n. 27, come modificato dall’art. 36 bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la l. 17 dicembre 2012, n. 221 stabilisce che: « Nelle relazioni commerciali tra
operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui
al comma 1o, è vietato: [...] b) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni
equivalenti » [il corsivo è aggiunto].
( 26 ) « I limiti all’autonomia privata non costituiscono [più] norme eccezionali », scrive Sacco, Il contratto, t. II, a cura di Sacco-De Nova, in Tratt. Sacco, 3a ed., Torino 2004, p. 309.
( 27 ) Parla di « una pluralità di modelli, o meglio, di punti di riferimento » P. Barcellona, voce Libertà contrattuale, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974, p. 493.
( 28 ) È concordemente riconosciuto che il divieto di discriminazione per ragioni che at-
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Il coinvolgimento di un valore di tale rango ha reso imprescindibile una
riflessione in chiave sistematica sulla ratio sottesa ai divieti di discriminazione. I dati normativi e le stesse fonti extra ordinem riferiscono infatti i divieti
talora — come nella direttiva 2004/113/CE e nella relativa normativa di attuazione nonché nei Principi Acquis (29) e nel Draft Common Frame of Reference (30) — alla mera offerta al pubblico, talora — come nell’art. 3 della
Proposta di direttiva 2 luglio 2008 COM (2008) 426 — a coloro che si rivolgono al pubblico nell’esercizio di un’« attività commerciale o professionale »,
talora, infine, — come nella direttiva 2000/43 e nella relativa normativa di
attuazione — alla generica offerta di beni e servizi. Occorre, dunque, sciogliere le perplessità sollevate dal diverso tenore dei testi normativi, specie quelli
che tacciono in merito al presupposto dell’offerta al pubblico — anche se dai
più il silenzio è ascritto ad un mero errore nella traduzione (31) (32) —, e misurare in generale le potenzialità espansive di un principio intriso di una forte
valenza assiologica.
Orbene, se nelle differenti ricostruzioni dottrinarie comune è il riferimento alla dignità umana, il cui rango e valore apparentemente non giustificherebbero una limitazione del divieto alla sola offerta al pubblico (33), tre sono
tengono alla persona del contraente si colleghi al valore della dignità. Cfr. fra gli altri C.M.
Bianca, Il problema dei limiti all’autonomia contrattuale in ragione del principio di non discriminazione, in Discriminazione razziale e autonomia privata. Atti del Convegno di Napoli del 22 marzo 2006, Roma 2006, p. 64 ss.; Gentili, Il principio di non discriminazione
nei rapporti civili, in R. crit. d. priv., 2009, p. 228 ss.; Maffeis, Offerta al pubblico e divieto
di discriminazione, Milano 2007, p. 44 s.; Marella, Il fondamento sociale della dignità
umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, in R. crit. d. priv.,
2007, p. 87 ss.; Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile,
in Principio di uguaglianza e divieto di compiere atti discriminatori, a cura di Morozzo della Rocca, Napoli 2002, p. 38; Strazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine
comparata per un modello « europeo » dell’antidiscriminazione, Padova 2008, p. 258 ss.
( 29 ) Maffeis, Il divieto di discriminazione, in I « principi » del diritto comunitario dei
contratti. Acquis communautaire e diritto privato europeo, a cura di De Cristofaro, Torino
2009, p. 265 ss.
( 30 ) Tommasi, La non discriminazione nel « Draft Common Frame of Reference », in R.
crit. d. priv., 2011, p. 119 ss. Il DCFR dedica al divieto di discriminazione il capitolo II, del
II libro artt. 2:101-2:105. In particolare, l’art. II.-2:101 recita: « A person has a right not
to be discriminated against on the grounds of sex or ethnic or racial origin in relation to a
contract or other juridical act the object of which is to provide access to, or supply, goods,
other assets or services which are available to the public ».
( 31 ) Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., p. 409, nt. 33, ripreso da Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 213.
( 32 ) Contraria ad una lettura restrittiva della direttiva, motivata con l’errore di tradizione, B. Checchini, Divieto di discriminazione e libertà negoziale, in Diritto civile e principi costituzionali, a cura di Salvi, Torino 2012, p. 264 s.
( 33 ) Ma così non è, come diremo in seguito, poiché la tutela della dignità non può spingersi sino ad annientare la libertà contrattuale. In senso contrario, cfr. B. Checchini, op.
cit., p. 268 secondo cui: « se [...] è in gioco la lesione della dignità della persona [...], non
v’è ragione per cui tali divieti di discriminazione non possano applicarsi anche ai rapporti
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553
state le principali rationes ravvisate a fondamento della restrizione del divieto
proprio al campo della negoziazione pubblica.
La prima, accogliendo quale presupposto del ragionamento la normale
insindacabilità delle scelte contrattuali, sostiene che il riferimento all’offerta
al pubblico è dovuto all’esigenza di evitare che sia sfruttata la latitudine del
mercato dal contraente che si avvale della sollecitazione al pubblico, se quel
medesimo soggetto frappone al mercato ostacoli contrastanti con i valori dell’ordinamento (34). Questa prima tesi, per un verso, presuppone la dimostrazione del postulato di base — la normale insindacabilità delle scelte contrattuali — e, per un altro verso, deve evitare la facile obiezione che solo l’accesso
al mercato valorizzi un aspetto primario della persona, quale la dignità (35).
La seconda giustificazione del limite tracciato dall’offerta al pubblico è
che in tal caso l’offesa alla dignità sarebbe esplicitata e non relegata in una
sfera protetta dalla privacy: « la privacy [cessa di] costituire un ambito protetto [...] quando l’autore della scelta discriminatoria decida lui stesso di farne partecipi altri, rinunciando alla propria sfera di riservatezza » (36). Per
converso, nella negoziazione individuale riemergerebbe il rilievo della privacy
e la sua capacità di prevalere, nel bilanciamento di interessi, nei confronti
della dignità. Questa seconda motivazione, non estranea al dibattito europeo (37), deve però giustificare come mai il divieto di discriminazione sia stato
esteso — in dottrina (38) e dalla stessa giurisprudenza, a partire dal noto caso
contrattuali c.d. individualizzati ». Propone l’applicazione del divieto di discriminazione al
di fuori dell’offerta al pubblico anche Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, Napoli 2013, p. 201.
( 34 ) Questa tesi serpeggia nel pensiero di Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., p. 42 s. là dove scrive che: « il diritto contrattuale antidiscriminatorio [...]
si ispira alla equal opportunity secondo il modello importato dagli Stati Uniti d’America
[...] volto a garantire la massima efficienza del sistema degli scambi costitutivo del mercato » e proprio sul punto viene criticato da Gentili, v. nota seguente. Va peraltro sottolineato
come l’Autore immediatamente dopo rimarchi che l’obiettivo del divieto è la pari dignità
[Id., op. cit., pp. 44-45] e l’esigenza di coinvolgere i privati nel « realizzare una misura di
tutela di diritti fondamentali ». Ma il riferimento alla sola dignità non basta, per l’appunto,
a giustificare l’operare del divieto nella sola offerta al pubblico, il che — nella visione dell’Autore — è un postulato di base [p. 215], utilizzato anche per giustificare l’attenuazione
dell’attrito fra il divieto e la libertà contrattuale [p. 53 ss.].
( 35 ) L’obiezione è chiaramente esplicitata da Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 225 dove osserva che « una tesi che riduce una grave umiliazione della dignità della persona ad essere proibita perché non giova al mercato, suscita
qualcosa di più di una perplessità ».
( 36 ) Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile, cit.,
p. 43.
( 37 ) Cfr. Pinto Oliviera & Mac Crorie, Anti-discrimination Rules in European Contract
Law, in Constitutional Values and European Contract Law, a cura di Grundmann, Wolters
Kluwer, The Netherland 2008, p. 115 ss. che distinguono tra « public and private spheres
of the individual ».
( 38 ) Sacco, Il contratto, t. II, cit., p. 307 s.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
milanese del 2000 (39) — anche all’offerta al pubblico che consti di un mero
invito a proporre seguito da un rifiuto discriminatorio, ipotesi nella quale la
ragione discriminatoria non è esposta al pubblico e non è esibita più di quanto non lo possa essere in una negoziazione individuale che espliciti la discriminazione.
Infine, la terza motivazione a sostegno di un sindacato sulla scelta contrattuale discriminatoria limitato all’offerta al pubblico adduce l’esigenza che
ricorrano i presupposti logici per una proiezione orizzontale del principio di
uguaglianza. Mentre, infatti, nell’offerta al pubblico può attuarsi quel giudizio comparativo che è sotteso al concetto di disparità di trattamento (40) e che
consente — come è stato magistralmente spiegato (41) — una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza, viceversa, nella contrattazione individuale simile comparazione non è possibile o comunque non è giustificata.
« Un caso per definizione singolo [...] non è il luogo di regole generali » (42).
In altri termini, non si può porre a confronto una legge individuale con un’altra legge individuale, quando fra di esse non sussiste alcun collegamento se
non sul piano dei motivi, o meglio, del confronto tra i motivi sottesi alle due
negoziazioni: un piano che la legge non va ad indagare neppure nell’ipotesi
dell’illiceità, se questa non ricade sul contenuto o sugli elementi essenziali del
contratto.
Questa terza argomentazione deve, però, a sua volta, confrontarsi con il
caso in cui in una negoziazione individuale la parte esplicitamente rifiuti la
contrattazione dichiarando la ragione discriminatoria e in tal modo svelando
la comparazione virtuale (43) fra il trattamento riservato al contraente discriminato e quello che sarebbe stato riservato a terzi o alla stessa controparte, se
questa non avesse avuto la particolare connotazione personale che suscita la
discriminazione.
Rispetto a tale caso non resta allora che interrogarsi sulla ragionevolezza
di una eventuale distinzione tra discriminazione dichiarata, in cui si espliciti
la comparazione virtuale, e discriminazione sussistente, ma taciuta.
Orbene, al di là dell’ovvia incidenza che la dichiarazione può avere sul
piano probatorio — incidenza che però non ha un valore assoluto — una diversità di trattamento fra la discriminazione dichiarata, considerata per ipote( 39 ) Trib. Milano 30 marzo 2000, in F. it., 2000, I, c. 2040 ss.
( 40 ) Questa motivazione si deve a Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 221.
( 41 ) P. Rescigno, Il principio di uguaglianza nel diritto privato, in Persona e comunità.
Saggi di diritto privato, Bologna 1966, p. 346 ss. In termini analoghi cfr. Carusi, Principio
di uguaglianza, immunità e privilegio: il punto di vista del privatista, in Studi in onore di
Pietro Rescigno, Milano 1988, p. 227 ss.
( 42 ) Gentili, op. cit., p. 223.
( 43 ) Gentili, op. cit., p. 222 non si sottrae all’ipotesi della comparazione virtuale, ma la
ritiene impossibile, un’impossibilità che tuttavia non sembra sussistere a fronte di una dichiarazione esplicita.
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555
si fonte di responsabilità, e quella taciuta, considerata sempre per ipotesi
esente dalla stessa, implicherebbe, sul terreno sostanziale, non soltanto una
soluzione ipocrita (44), ma soprattutto una soluzione irragionevole, poiché a
parità di condizioni pregiudicherebbe chi negozia con trasparenza rispetto a
chi si avvale del silenzio.
Ma allora delle due l’una.
O diciamo che, fintantoché il silenzio sulla scelta contrattuale è legittimo,
allora anche la dichiarazione di scelta, compresa quella discriminatoria, deve
ritenersi irrilevante, quanto meno rispetto all’esercizio dell’autonomia contrattuale; o diciamo che la scelta discriminatoria dichiarata va sindacata, ma
allora, posto che anche il silenzio potrebbe celarla, andrebbe costantemente
imposta una motivazione del rifiuto. In altri termini, ad evitare che il silenzio
nasconda la discriminazione si dovrebbe richiedere di motivare sempre e ab
initio le proprie scelte contrattuali.
Sennonché quest’ultima ipotesi, cioè un vincolo di originaria e generalizzata motivazione della scelta che guida l’interesse individuale, significa convertire la libertà contrattuale in esercizio di un’attività costantemente soggetta
ad un sindacato di discrezionalità, il che equivale non ad una pura limitazione, ma ad una radicale alterazione concettuale dell’autonomia, ossia ad una
sua negazione (45).
Simile conclusione è inaccettabile se si condivide la tesi che l’autonomia
contrattuale abbia un fondamento costituzionale (46), il che vale sia che tale
fondamento venga ravvisato nel diritto all’autodeterminazione e nel libero
svolgimento della personalità (47), ex art. 2 C., sia che venga identificato —
come pare più consono — nell’iniziativa economica privata (48). E, infatti,
( 44 ) Lo stesso Morozzo della Rocca, op. cit., p. 44, riconosce che sia ipocrita differenziare la discriminazione dichiarata da quella taciuta, anche se reputa tale ipocrisia tollerabile in termini di bilanciamento di interessi.
( 45 ) È l’esito a cui conducono sia la tesi di B. Checchini, op. cit., p. 268 sia l’impostazione accolta da Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale,
Napoli 2013, p. 235, che parla di mera limitazione Id., op. cit., p. 195, quando in effetti si
determina invece una sostanziale negazione.
( 46 ) V. infra nt. 47. Ritiene invece auspicabile la presenza di una regola costituzionale
« di garanzia dell’autonomia privata » Castronovo, Autonomia privata e Costituzione europea, in Contratto e Costituzione in Europa, a cura di Vettori, Padova 2005, p. 48 s., mentre a favore di una rilevanza costituzionale solo indiretta dell’autonomia contrattuale cfr.
Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, p. 1 ss.
( 47 ) È la tesi prevalente in Germania e in Portogallo. Cfr. Flume, Allgemeiner Teil del
Bürgerlichen Rechts. Das Rechtsgeschäft, Berlin 1992, p. 17 ss. e Pinto Oliveira and MacCrorie, Anti-discrimination Rules in European Contract Law, in Constitutional Values and
European Contract Law, cit., p. 113. Sul punto in senso critico rispetto all’orientamento tedesco, cfr. Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, cit., p.
139 ss.
( 48 ) Individuano nell’art. 41 C. la fonte di riconoscimento diretto dell’autonomia contrattuale G. Benedetti, Negozio giuridico e iniziativa economica privata, in Il diritto comu-
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tanto il diritto inviolabile, in sede di bilanciamento, quanto il diritto protetto
dalla garanzia di istituto, in sede di limitazione, non possono essere puramente negati né da una legge né da un’interpretazione della legge.
La conseguenza, a questo punto, è che, non potendosi imporre un obbligo generalizzato di motivazione sulle scelte contrattuali, l’eventuale dichiarazione, benché discriminatoria, non è sindacabile rispetto all’esercizio dell’autonomia contrattuale, fintantoché è considerato legittimo il silenzio. Ovviamente, altro problema è se la dichiarazione discriminatoria possa rilevare come manifestazione del pensiero offensiva della dignità della persona, con le
relative conseguenze sul piano risarcitorio.
In altri termini, non si può generalizzare in nome della dignità umana un
costante sindacato sulle scelte contrattuali, comprese quelle individuali, poiché l’obiettivo di tutelare tale valore non può spingersi sino al punto di accedere ad una interpretazione sostanzialmente abrogante della libertà contrattuale.
3. — Il ragionamento che induce ad escludere la possibilità di generalizzare un sindacato sulle scelte individuali sottese al contratto non equivale a
negare che vi possano essere contesti e motivazioni che, viceversa, giustificano
un vaglio sull’esercizio dell’autonomia né che tali ambiti debbano connotarsi
in termini di stretta eccezionalità.
Prima ancora di tornare a riflettere sulle previsioni dettate in materia di
offerta al pubblico, occorre rilevare come una ragione generale che induce
l’ordinamento a sottoporre l’autonomia contrattuale ad un controllo tale da
colorare il relativo esercizio in termini discrezionali è la circostanza che una
parte abbia, nelle relazioni precontrattuali, ingenerato nell’altra un affidamento. Detta circostanza rafforza la relazionalità fra le due parti assoggettando l’esercizio della libertà a quel sindacato di correttezza, che certo non può
reputarsi impermeabile al principio della dignità.
Né vale obiettare che il rifiuto discriminatorio nulla aggiunga al rifiuto
ingiustificato tout court, poiché, mentre questo è sufficiente a far sorgere una
responsabilità precontrattuale ma limitata al risarcimento del danno patrimoniale, viceversa, il rifiuto o, più in generale, la condotta precontrattuale discriminatoria legittimano anche la pretesa del risarcimento del danno non patrimoniale. E neppure deve paventarsi il rischio che attraverso la responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido ma sconveniente si
ne dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli 1997, p.
97 s.; Id., Appunti e osservazioni sul seminario, in Persona e mercato, Milano 1996, p. 139;
Mazzamuto, Note minime in tema di autonomia privata alla luce della Costituzione Europea, in Europ. d. priv., 2005, p. 54 e in Contratto e Costituzione in Europa, cit., p. 96;
Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, cit., p. 31 ss.; C. Scognamiglio, Principi generali, clausole generali e nuove tecniche di controllo dell’autonomia privata, in Annuario del
contratto, 2010, diretto da D’Angelo e Roppo, Torino 2011, p. 27. Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in questa Rivista, 2012, p. 666 ss.
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557
possa costantemente pretendere un sindacato sulle scelte contrattuali, poiché
ab imis è doveroso escludere una generalizzazione tout court di tale fattispecie. La responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido, ma
sconveniente (49), prima ancora di produrre ricadute sulla disciplina del contratto discriminatorio, condurrebbe, infatti, all’inaccettabile esito di abrogare
di fatto la disciplina sui vizi del consenso, là dove qualunque vizio incompleto
— finanche un banale errore sui motivi — consentirebbe con la prova della
scorrettezza di ottenere, tramite il risarcimento del danno, una sorta di correzione del contratto, che è più di quanto conceda il rimedio dell’annullamento.
Se poi dalla responsabilità precontrattuale si procede verso il contratto,
oggetto di sindacato alla luce dei valori costituzionali, e, dunque, del principio di non discriminazione e del valore della dignità, non è più in sé la scelta
contrattuale, ma quella porzione di scelta che le parti vogliono che divenga
« legge privata » e che, pertanto, non può in alcun modo porsi in contrasto
con i principi dell’ordinamento.
Questa progressione dalla scelta in sé alla porzione di scelta che chiede di
divenire « legge individuale » spiega la discontinuità — autorevolmente difesa (50) e altrettanto autorevolmente criticata in dottrina (51) — fra limiti attinenti alle scelte sottese all’autonomia privata e limiti attinenti alla struttura e
al contenuto del contratto: una discontinuità che è logica e non assiologica.
Da questa premessa discende un imprescindibile e costante vaglio sul
contenuto del contratto anche individuale alla luce del principio di non discriminazione.
Si pensi al caso in cui il contratto contenga una condizione discriminatoria, ad esempio che il conduttore non professi una particolare religione o che
il convivente del conduttore non sia dello stesso sesso. Tale clausola certamente deve reputarsi nulla: una nullità che colpisce il contratto sia che l’altra
( 49 ) Il tema — com’è noto — ha animato il dibattito della dottrina specie dopo le pronunce: Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, in F. it., 2006, c. 1105 ss., con nota di Scoditti;
Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, in Danno e resp., 2008, p. 525 ss.,
con note di Roppo e di Bonaccorsi; nonché Cass. 8 ottobre 2008 n. 24795, in F. it., 2009, I,
c. 440 ss., con nota di Scoditti. Contrario, in particolare, alla generalizzazione della responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido, ma sconveniente D’Amico,
La responsabilità precontrattuale, in Tratt. Roppo, V, Rimedi, Milano 2006, p. 1132 ss.
( 50 ) Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 18 ss.
( 51 ) P. Barcellona, voce Libertà contrattuale, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974, p. 491,
secondo cui « la distinzione fra limiti attinenti al potere privato di autodeterminazione e limiti attinenti alla struttura del contratto lascia alquanto perplessi, giacché il contenuto della disciplina sulla struttura non può non riflettersi sul modo di essere del potere privato e
viceversa ». L’osservazione è certamente acuta ma deve anche considerare che il modo di
essere del potere privato affonda le proprie ragioni in una molteplicità di scelte e in quella
sfera variegata dei motivi e degli interessi perseguiti dalle parti che il legislatore di regola
non indaga neppure nell’ipotesi dell’illiceità; viceversa, la struttura e il contenuto del contratto riguardano quella porzione della scelta che i privati intendono tradurre in vincolo
giuridico e che dunque non può contrapporsi ai valori dell’ordinamento giuridico da cui
vuole trarre legittimazione.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
parte non rientri fra i soggetti discriminati — il che è il segno della sanzione
verso l’illiceità del contenuto — sia che l’altra parte rientri fra i soggetti discriminati, nel qual caso si affianca al rimedio della nullità quello del risarcimento del danno, anche non patrimoniale.
Alle medesime conclusioni si può addivenire con riguardo a ulteriori
possibili clausole discriminatorie. Si pensi alla clausola che autorizzi la sublocazione, ma la vieti per gli extracomunitari o per tale ipotesi contempli
un incremento del canone. Una simile clausola potrà, applicando il comma
1o dell’art. 1419 c.c., determinare la nullità dell’intero contratto e allora al
discriminato resterà il rimedio del risarcimento del danno non patrimoniale
o la nullità della sola clausola e allora basterà rimuoverla dal contratto o,
se necessario in relazione al suo contenuto, integrare il medesimo con la
corrispondente clausola non discriminatoria, che si inferisce dallo stesso atto (52).
La prospettiva del controllo sul contenuto del contratto, se si volge lo
sguardo dal contratto in generale alla molteplici possibili tipologie negoziali,
apre due fronti non privi di criticità rispetto al principio di non discriminazione: l’ambito dei contratti associativi, da una parte, e quello degli atti di liberalità e degli atti mortis causa, da un’altra parte.
Relativamente ai primi la loro stessa struttura implica la previsione di regole di ingresso di nuovi associati o soci, sicché ne discende l’interrogativo
sulla compatibilità fra il principio di non discriminazione e le clausole di gradimento o di mero gradimento. Orbene, la latitudine di tali previsioni non
consente di accedere ad un giudizio aprioristico di illiceità, ma introduce certamente l’esigenza — supportata dal raccordo fra la regola di correttezza e il
principio della dignità — di sottoporre la loro applicazione al vaglio della non
discriminazione.
Ancora più complesso è misurarsi con l’ambito delle liberalità e degli atti
mortis causa rispetto ai quali l’orientamento prevalente esclude — anche nel
caso dell’offerta al pubblico — l’applicabilità delle leggi antidiscriminatorie
sul presupposto dell’insindacabilità dello spirito di liberalità (53). Orbene, se
tale deduzione è accettabile sul fronte del vaglio relativo alla scelta negoziale,
non pare, viceversa, porsi negli stessi termini il controllo inerente al contenuto
dell’atto che — vale la pena ribadirlo — consta della possibilità di tradurre
un regolamento di interessi in legge privata, il che è subordinato al rispetto
della liceità. Occorre, all’uopo, ricordare che, negli atti in esame, il regime
operante nel caso dell’illiceità dell’onere, del motivo esplicitato o della condi( 52 ) Né può escludersi che in una negoziazione individuale ricorrano anche i presupposti di un contratto asimmetrico, nel qual caso risulterebbe precluso l’esito della nullità dell’intero contratto, mentre non si deve cedere alla tentazione — come si dirà — deviante ed
ingiustificata di reputare il discriminato automaticamente un contraente debole.
( 53 ) Scarselli, Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in
questa Rivista, 2001, I, p. 823.
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zione, salvo qualche dubbio relativamente a quest’ultima (54), è quello della
loro non incidenza sull’atto, a meno che il fattore illecito sia stato, oltre che
esplicitato nell’atto, il solo che abbia determinato il disponente a porre in essere il medesimo. Ma allora, ove ricorra tale circostanza, vi è da chiedersi per
quale ragione l’offesa alla dignità realizzata attraverso una pattuizione discriminatoria debba avere minore valore rispetto ad altre cause di illiceità della
clausola (55).
Da ultimo, che il regolamento contrattuale in quanto « legge privata »
debba essere compatibile con i valori dell’ordinamento e, dunque, con il valore della dignità sotteso al divieto di discriminazione viene confermato da una
recente sentenza della Corte d’Appello di Milano, che sottopone un contratto
individuale ad una interpretazione ex fide bona ispirata al principio di non
discriminazione. Il caso è quello deciso dalla pronuncia 29 marzo 2012 (56)
che ha interpretato la clausola di un contratto di lavoro relativa all’assistenza
sanitaria privata pagata con un contributo trattenuto in busta paga come
estesa, alla luce del principio di non discriminazione, anche al convivente more uxorio dello stesso sesso.
In definitiva, la prima conclusione cui è dato giungere è che, essendo il
fondamento della discriminazione l’offesa alla dignità, il contratto individuale
non può essere rispetto ad essa impermeabile.
Tuttavia, altro è sottoporre al rispetto di tale valore quella porzione di
scelta che le parti vogliono tradurre in legge individuale, ossia il contenuto del
contratto, altro è controllare in sé la scelta contrattuale, il che, se non si vuole
annientare la stessa autonomia, è ammissibile solo in particolari contesti e per
particolari ragioni.
4. — Tornando dal controllo sulla liceità del contratto al vaglio sulla
scelta contrattuale, occorre verificare quali ragioni, oltre a quelle sottese alla disciplina generale sulla responsabilità precontrattuale, passano giustifi( 54 ) Anche alla condizione parrebbe più ragionevole applicare la stessa regola dettata
per l’onere e per i motivi.
( 55 ) Chiaramente il punto sarà poi quello di accertare la natura effettivamente illecita
della clausola alla luce della ragionevolezza o non ragionevolezza della disparità di trattamento rispetto al contenuto dell’atto. Si immagini il caso in cui una comunità etnico-religiosa decida di effettuare una donazione con una precisa clausola di destinazione del bene a
soggetti appartenenti a quella etnia o religione. In un’ipotesi del genere l’esigenza — sottesa
alla clausola — di garantire una continuità di appartenenza di determinati beni ad una comunità culturale non evidenzia certamente alcuna offesa alla dignità della persona. Diverso
sarebbe il caso in cui un datore di lavoro offrisse omaggi ai suoi dipendenti con l’esplicita
clausola che debba trattarsi di lavoratori non extracomunitari o quello nel quale l’anziana
nonna disponesse un lascito al nipote ponendo come imprescindibile condizione che egli
non vada a convivere con una persona dello stesso sesso. Né deve nuovamente paventarsi
che la nullità svantaggi il discriminato, poiché tale rimedio resta sembra affiancato da quello del risarcimento del danno non patrimoniale.
( 56 ) La sentenza è inedita.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
care un sindacato di merito alla luce del divieto di discriminazione.
Una tale riflessione riconduce al quesito iniziale sul significato e sulla ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico.
Come abbiamo già anticipato, per giustificare l’operare del divieto nella
sola offerta al pubblico non basta addurre la presenza unicamente in tale ambito di un termine di comparazione, posto che anche in una negoziazione individuale la discriminazione dichiarata esplicita una comparazione virtuale.
Parimenti, non basta prospettare l’argomento che invoca la copertura della
privacy nella negoziazione individuale e la vede dileguarsi nell’offerta al pubblico, poiché altrimenti non potrebbe ricomprendersi nel raggio operativo del
divieto l’invito ad offrire non discriminatorio che rinvii al momento dell’offerta della controparte di palesare la discriminazione; all’inverso, dovrebbe dubitarsi di poter sottrarre al divieto una negoziazione individuale che espliciti,
magari anche in presenza di terzi, la ragione discriminatoria, poiché in tale
fattispecie risulterebbe arduo invocare la copertura della privacy.
Riemerge allora la terza motivazione, quella che vuole soccombente rispetto alla dignità la posizione di chi, offrendo al pubblico, sfrutta la latitudine del mercato. Ma è di tutta evidenza lo stridere (57) di una logica di tipo
mercantile, che pure non è estranea alle spinte originarie dell’Unione europea (58), rispetto ad un valore così alto quale la dignità.
Sennonché la lettura del fenomeno, alla luce delle direttive e della Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non risiede in tale logica di tipo
mercantile bensì nel bilanciamento di interessi che ha operato il legislatore fra
l’autonomia contrattuale del singolo, che sfrutta il vantaggio dell’offerta al
pubblico con la quale può intercettare una pluralità di contraenti, e le pari
opportunità di accesso al mercato di una pluralità di soggetti altrimenti estromessi. Dunque, il sacrificio dei più rispetto all’interesse del singolo nell’esercizio dell’autonomia contrattuale è la ragione che induce il legislatore ad infrangere il vincolo della normale insindacabilità delle scelte contrattuali, il
che immediatamente dà risalto al coinvolgimento della dignità e dà voce alla
pari dignità (59) di accesso all’esercizio dell’autonomia, realizzando — attraverso il divieto — un’azione positiva a vantaggio dell’uguaglianza formale in
concreto.
Se questa è la ratio delle previsioni normative riferite all’offerta al pubblico, è su di essa che deve misurarsi il quesito sistematico sulla possibile
proiezione del controllo anche al di fuori del perimetro normativo.
( 57 ) Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 225.
( 58 ) Per il raccordo fra libertà economiche fondamentali e divieto di discriminazione
per ragioni legate alla nazionalità si veda l’originario art. I-4, rubricato « Libertà fondamentali e non discriminazione », di cui al titolo I del Trattato che intendeva istituire una
Costituzione per l’Europa. Il testo si può leggere in Contratto e Costituzione in Europa, cit.,
p. 275. Si veda altresì supra nt. 11 sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia
di divieto di discriminazione e libertà fondamentali.
( 59 ) Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., spec. p. 44.
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Orbene, com’è chiaro, il bilanciamento di interessi fra la libertà del singolo e le pari opportunità di esercizio dell’autonomia di una pluralità di soggetti non può esportarsi al di fuori dell’offerta al pubblico, poiché proiettato
sul conflitto individuale vede venir meno proprio l’elemento della pluralità
degli esclusi. D’altro canto, neppure è possibile invocare in via automatica la
lesione della libertà contrattuale del singolo rispetto ad un isolato comportamento discriminatorio, poiché questo di per sé non esclude la possibilità di
negoziare con terzi (60).
Questa medesima ragione impedisce di proiettare tout court al di fuori
della previsione normativa il divieto di discriminazione previsto rispetto all’accesso al contratto di lavoro, poiché se l’intervento normativo si giustifica
come azione positiva — ma non imprescindibile — a favore dell’accesso ad
un valore di rango costituzionale, è anche vero che la singola discriminazione
non pregiudica in assoluto il diritto del singolo che può rivolgersi anche ad altri contraenti e, dunque, il modello normativo non basta nuovamente a supportare una proiezione sistematica al di fuori del campo operativo della legge.
Tali considerazioni, se impediscono l’automatica riproduzione del divieto
al di fuori del suo campo operativo, non chiudono, tuttavia, le possibili implicazioni sistematiche.
Al contrario, nell’applicazione delle leggi antidiscriminatorie alla stessa
offerta al pubblico, inducono a riflettere sul trattamento da riservare ai casi
nei quali la discriminazione attuata attraverso tale offerta sia così diffusa in
una determinata area o in un particolare mercato da impedire in concreto
l’esercizio dell’autonomia privata del singolo, che si trova a non avere alternative sul mercato. Orbene, dinanzi alla prova di una effettiva diffusione del
comportamento discriminatorio in un ambito rilevante del mercato, non è da
escludere la possibilità di invocare tutele poste a presidio della libertà contrattuale, a partire dall’obbligo a contrarre (61), rimedio assai più efficace del mero risarcimento del danno.
In una seconda direzione, ritorna il dilemma sulla capacità espansiva della ratio della legge e dei principi rispetto all’ipotesi in cui negoziazioni individuali realizzino il risultato dell’esclusione del singolo dall’accesso a un bene.
L’ipotesi è tendenzialmente più teorica che pratica, là dove si dovrebbe immaginare l’impedimento all’accesso a un bene realizzato dalla condotta di
( 60 ) È questa la ragione per cui non convince la tesi di Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, cit., spec. p. 194 ss. secondo cui il fondamento del
divieto di discriminazione sarebbe proprio il pari esercizio della libertà contrattuale, rilevante, a suo parere, anche a fronte di una singola e isolata discriminazione.
( 61 ) Sulla possibile applicazione di tale rimedio anche al di fuori delle espresse previsioni normative e, specificamente, nell’ambito della normativa antitrust, cfr. C. Osti, L’obbligo a contrarre: il diritto concorrenziale tra comunicazione privata e comunicazione pubblica, in Contratto e antitrust, cit., p. 34 ss. e Meli, Diritto « antitrust » e libertà contrattuale:
l’obbligo di contrarre e il problema dell’eterodeterminazione del prezzo, in Contratto e antitrust, cit., p. 55 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
uno o più privati che non si avvalgano dell’offerta al pubblico. Sennonché
dalla teoria può addivenirsi facilmente alla pratica se si passa da un concetto
di impedimento assoluto alla negoziazione ad un concetto assai più relativo.
Simile passaggio può giustificarsi non in generale, ma se l’autonomia privata
è funzionale all’accesso ad un bene di valore fondamentale, come ad esempio
l’abitazione (62). Si immagini il caso in cui in un’area delimitata dalla ragionevole raggiungibilità del posto di lavoro sia negato l’accesso al bene abitazione da una medesima condotta discriminatoria di tutti i proprietari di case
che diano in locazione i loro immobili con negoziazioni puramente individuali
o dalla condotta dell’unico proprietario di case date in locazione a titolo individuale nella zona. In tale ipotesi, non può dirsi negata in assoluto l’autonomia privata rispetto all’accesso al bene abitazione, poiché il soggetto potrebbe
spostarsi in altra zona, ma proprio la rilevanza fondamentale del bene può legittimare un giudizio più relativo, che chiaramente non deve tradursi nell’assecondare la convenienza o la scelta di comodo, ma deve giudicare l’oggettiva
impossibilità relativa di accedere al bene fondamentale.
Orbene, ove si verificassero tali condizioni limite, è da ritenere che l’interprete, sull’onda lunga della ratio normativa e dei principi, possa effettivamente ravvisare una ulteriore giustificazione ad un vaglio sull’esercizio dell’autonomia privata anche al di fuori dell’offerta al pubblico. E infatti, mentre nel caso del conflitto fra due libertà contrattuali non negate, l’offesa alla
dignità attuata nei modi di esercizio di una delle due non può spingersi sino
alla negazione della stessa autonomia privata, per converso dinanzi ad una libertà oggettivamente negata, in termini assoluti o anche in termini meno assoluti ma oggettivamente e ragionevolmente rilevanti, non può invocarsi proprio il valore dell’autonomia che nei confronti della controparte risulta radicalmente escluso. Dunque si riapre l’esigenza di un sindacato sul relativo
esercizio.
5. — Se la ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico
è stata ravvisata nell’esigenza di preservare la pari dignità di accesso di
una pluralità di soggetti all’esercizio dell’autonomia contrattuale e dunque
nella proiezione verticale sull’esercizio dell’autonomia dell’uguaglianza formale in concreto, va ulteriormente rilevato che il medesimo divieto tende
ad evocare anche una proiezione in senso orizzontale del principio di uguaglianza.
Le previsioni normative nel dettare la parità di trattamento coordinata
con il divieto di discriminazione non si riferiscono invero ad un banale vincolo di applicazione delle medesime condizioni contrattuali, bensì realizzano per
l’appunto una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza ma solo nei
( 62 ) Sul diritto all’abitazione cfr. per tutti Breccia, Diritto all’abitazione, Milano 1980,
passim; Id., Diritto all’abitare, in Immagini del diritto privato, I, Teoria generale, fonti, diritti, Torino 2013, p. 539 ss.; Id., Itinerari del diritto all’abitazione, ibidem, p. 559 ss.
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563
limiti di un suo adattamento al contesto contrattuale e solo nei limiti del divieto di discriminazione.
Quest’ultima affermazione può apparire singolare ove si consideri che,
nella loro valenza verticale, principio di uguaglianza e principio di non discriminazione (63) sono l’uno la derivazione dell’altro ed entrambi sono sottoposti
al vaglio della ragionevolezza. Il legislatore non può operare trattamenti irragionevolmente differenziati né equiparare irragionevolmente situazioni differenti (64). Ne discende che la violazione dei divieti di cui all’art. 3 C. lede il
principio di uguaglianza, salvo che la diversità di trattamento non si dimostri
ragionevole, così come diversità di trattamento irragionevoli possono risultare
discriminatorie e lesive dell’uguaglianza, anche al di fuori degli espliciti divieti di cui art. 3 C. (65), oggi integrati da quelli dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Sennonché, il passaggio dalla valenza verticale a quella orizzontale del
principio di uguaglianza implica evidentemente degli adattamenti.
In primo luogo, tale differente prospettiva comporta che il vaglio della
ragionevolezza debba essere plasmato non con riguardo alla legge ma con riferimento al contenuto del contratto: si pensi al divieto di accedere a talune
prestazioni per persone con particolari disabilità, là dove ad esse possano derivare problemi di salute.
In secondo luogo, nella sua proiezione orizzontale il principio di non discriminazione non opera in tutta la latitudine che gli viene dall’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento rispetto alla legge, proprio perché rispetto al contratto non rileva, al di fuori del divieto di discriminazione, il principio di uguaglianza. Se, dunque, può convenirsi sull’opportunità che le ragioni
discriminatorie possano estendersi oltre quelle indicate dalle singole leggi e direttive (66), è, viceversa, da dubitarsi che esse possano oltrepassare quelle espli( 63 ) I due principi sono contemplati unitariamente nell’art. 3 C., mentre sono stati articolati su due norme nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, artt. 20 e 21.
Cfr. Ghera, Il principio di uguaglianza nella Costituzione e nel diritto comunitario, Padova
2003, p. 20 ss.; Militello, Principio di uguaglianza e di non discriminazione tra Costituzione italiana e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, WP C.SD.L.E. « Massimo D’Antona ». INT, 77/2010, p. 1 ss.
( 64 ) Cfr. Barbera, Discriminazioni e eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano 1991,
p. 34 ss.
( 65 ) Tale posizione è stata affermata a partire dalla sentenza della C. cost. 29 marzo
1960, n. 15, in G. cost., 1960, p. 147, con nota di Paladin.
( 66 ) Il caso C-303/6 S. Coleman v. Attridge Law deciso dalla Corte di Giustizia il 10 luglio 2006, in European Antidiscrimination Law Review, 2007, p. 51 ha di recente prospettato il problema della discriminazione perpetrata nei confronti di un soggetto che non è direttamente portatore del carattere che suscita la discriminazione, nel caso specifico si trattava della disabilità, ma è uno stretto congiunto del disabile, nella specie si trattava della
madre. Sul tema cfr. Waddington, Protection for Family and Friends: Discrimination by
Association, ibidem, p. 13 ss. Il problema era già emerso nel caso « Six complainants v. a
public house », deciso dall’Equality Tribunal, 27 gennaio 2004, DEC-S/2004/009-014, di
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
citate dall’art. 3 C. e dal più dettagliato art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sulla base unicamente di una presunta irragionevolezza del trattamento contrattuale, poiché una simile deduzione rischia di sovrapporre alle ragioni delle parti le ragioni dell’interprete. Una diversità di
trattamento non riconducibile ai paradigmi normativi dettati dai principi costituzionali può rilevare in campo contrattuale non in base ad una irragionevolezza tout court, ma sul presupposto dell’offesa nei confronti della dignità (67).
6. — La breve disamina sul principio di non discriminazione mostra la
sua valenza emblematica, non soltanto, nel palesare in che termini e limiti sia
ammissibile una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza, ma soprattutto nell’evidenziare alcuni aspetti peculiari della proiezione verticale del
principio di uguaglianza nel suo graduale distacco da una concezione puramente astratta e formale.
Il primo elemento di rilievo è quello sistematico-istituzionale. Il principio
di non discriminazione dimostra come il superamento del monopolio del legislatore negli interventi limitativi dell’autonomia privata non possa condurre ad
un nuovo monopolio, questa volta dell’interprete, che rischia — attratto dalla
giustizia del caso concreto — di rimettere costantemente in discussione i capisaldi del contratto. Per converso, occorre accedere ad una sinergia fra legislatore e interprete, che deve riempire i vuoti dell’approccio normativo settoriale,
evitando irragionevoli disparità di trattamento ma senza accedere ad una distruzione del modello. Il medesimo problema metodologico si pone anche al di
fuori del divieto di discriminazione con riguardo sia alle previsioni normative a
favore dell’uguaglianza sostanziale (68) sia a quelle a favore dell’uguaglianza
Dublino che si era occupato dell’esclusione dall’accesso a un pub di un gruppo di clienti,
tra i quali una persona con alcune disabilità.
( 67 ) Diverso è solo il caso dei contratti con la pubblica amministrazione sulla cui fase
conclusiva si riflette proprio la prospettiva pubblicistica di tutela dell’interesse generale e di
difesa del principio di uguaglianza, tant’è che l’art. 2 del codice dei contratti pubblici prevede, al comma 1o, II parte, che « l’affidamento [...] di opere e lavori pubblici, servizi e forniture deve [...] rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel [...] codice ». Il corsivo è aggiunto.
( 68 ) Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Abuso del diritto e contratti asimmetrici, cit., p. 85 ss. [prima ancora Ead., Causa e giustizia contrattuale a confronto, in questa Rivista, 2006, p. 419 ss.] dove abbiamo rilevato che l’approccio ai contratti asimmetrici deve essere di natura tipologica, occorre cioè estrapolare dai dati normativi le tipologie di asimmetrie giuridicamente rilevanti — l’asimmetria informativa, da sola o abbinata alla mancanza di potere di negoziazione, la mancanza di alternative sul mercato —
e i tipi di interventi e di controlli sui contratti che esse richiedono, avendo consapevolezza dei ruoli sul mercato e dei diversi ruoli fra imprenditore e consumatore, ma senza
che ciò debba determinare una netta cesura tra ruolo dell’imprenditore e ruolo del consumatore e l’impossibilità che siano condivise tipologie di debolezze e tipologie di interventi di tutela. Non è un caso che possa trovarsi in una situazione di mancanza di alternative sul mercato non solo l’imprenditore, cui la disciplina sulla subfornitura è stata
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formale in concreto rapportata al mercato concorrenziale, ambiti che si devono
affrontare con un approccio tipologico (69), solo apparentemente messo in crisi
dall’introduzione dell’art. 62 della l. 24 marzo 2012, n. 27 (70). Tale disciplina,
infatti, — come quella sui ritardi di pagamento — nell’omettere il presupposto
dell’asimmetria di potere, non intendono introdurre un puro e generalizzato
controllo sull’esercizio dell’autonomia né si colorano di eccezionalità, bensì
identificano aree nelle quali sussiste, al di fuori di accordi o posizioni dominanti, un comportamento anticoncorrenziale talmente diffuso da giustificare la
previsione di un controllo sull’esercizio dell’autonomia. Dette ipotesi, dunque,
non richiedono la dimostrazione di una dipendenza economica e neppure possono automaticamente esportarsi al di fuori del loro campo applicativo, ma
possono divenire modelli per ulteriori interventi sull’autonomia nei casi in cui
la diffusione di taluni comportamenti — ad esempio dello stesso comportamento discriminatorio — giungano ad alterare l’esercizio dell’autonomia contrattuale e a giustificare un controllo sulle relative scelte.
Oltre al profilo sistematico-istituzionale, il principio di non discriminazione è altresì paradigmatico in una seconda direzione: nel segnalare il rilievo
che dimostra attualmente il riconoscimento costituzionale dell’autonomia
contrattuale. Se nella società di stampo liberale il valore ontologicamente basilare dell’autonomia era talmente radicato da far ritenere inutile il ricercare
un tale fondamento nella Costituzione (71), il superamento di quel modello dà
viceversa un significato pregnante a detta riflessione (72), consentendo al contratto, peraltro rafforzato dalle libertà fondamentali dell’Unione, di resistere
all’impatto dei valori personali.
Il riferimento alla Costituzione, tuttavia, non va manipolato, non deve divenire l’itinerario diretto a far calare sul contratto funzioni di giustizia sociale, come in parte si è verificato nella giurisprudenza tedesca, a partire dai casi
applicata in una prospettiva generale dalle sez. un. Cass. 25 novembre 2011, n. 24906,
in F. it., 2012, I, c. 805 ss., ma anche il consumatore che agisca a valle di intese antitrust (così Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, cit., p.
251); parimenti la mancanza di potere di negoziazione può riguardare non solo il consumatore ma anche l’imprenditore che aderisca a condizioni generali di contratto; o ancora l’asimmetria informativa è riferibile non solo al consumatore ma anche al piccolo
imprenditore, cui infatti sono state estese talune tutele proprie del consumatore sia da
recenti direttive sia dalla recente legislazione che ha applicato loro la disciplina sulle
pratiche commerciali sleali (v. la l. 24 marzo 2012, n. 27, attuativa del d.l. 24 gennaio
2012, n. 1.).
( 69 ) V. nota precedente.
( 70 ) V. supra nt. 19 e 25.
( 71 ) Cfr. per tutti Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, cit., p. 1 ss. nonché le
considerazioni di Macario, Autonomia privata (profili costituzionali), di prossima pubblicazione sugli Annali dell’Enciclopedia del diritto.
( 72 ) Viene meno il rilievo di Schlechtriem, Grundgesetz und Vertragsordnung, in 40
Jahre Grundgesetz, Heidelberg 1990, p. 39 secondo cui quello della rilevanza costituzionale
dell’autonomia contrattuale sarebbe « tema ingrato e poco fecondo ».
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Handelsvertreter del 1990 (73) e Bürgschaft del 1993 (74), che hanno utilizzato la Costituzione per infondere valori personalistici rafforzativi della libertà
contrattuale di una parte economicamente o socialmente debole (75), onde
farla prevalere sulla controparte (76). Una simile operazione ermeneutica rischia di far gravare sul contratto ogni problema di diseguaglianza e di ingiustizia anche sociale, che viceversa devono equamente essere distribuite sul sistema; inoltre tale modello finisce per attribuire al giudice in via esclusiva il delicato compito di decidere quali siano le differenze e le asimmetrie di potere
giuridicamente rilevanti. Per questa ragione non si può cadere nella tentazione
di reputare il soggetto discriminato automaticamente un soggetto debole: lo sarà soltanto se ricorreranno ragioni di effettiva debolezza contrattuale, legate o
alla mancanza di alternative sul mercato o a fattori contingenti che inficiano la
sua piena autonomia, secondo il modello dell’unfair exploitation (77).
Questi ultimo rilievi conducono alla terza ragione che rende importante
la riflessione sul principio di non discriminazione. Il contratto non soltanto
non deve confliggere con i valori della persona, ma può essere anche strumento per promuovere tali valori, a condizione che ciò avvenga entro il limite di
bilanciamenti di valore che non possono eliminare o alterare nella sua essenza
l’autonomia, ma devono preservare il contratto, essendo lo stesso funzionale
al benessere della persona. Simile chiave di lettura rende il contratto perfettamente coerente con la logica dell’economica sociale di mercato (78), ossia con
l’idea che il mercato regolamentato produca benessere e possa anche promuovere la persona, ma sia ontologicamente limitato, non sia cioè in grado di garantire tutta la giustizia necessaria e soprattutto non possa sostituirsi ai doverosi interventi di politica sociale generale, cui compete la funzione della giustizia distributiva.
( 73 ) BVerfG, 7.2.1990, in BVerfGE 81, 242.
( 74 ) BverfG, 19.10.1993, in BVerfGE 89, 214.
( 75 ) Cfr. Colombi Ciacchi, The Constitutionalization of European Contract Law: Judicial Convergence and Social Justice, cit., p. 167 ss.; Ead., Party Autonomy as a Fundamental Right in the European Union, cit., p. 303 ss.; Cherednychenko, Subordinating Contract
Law to Fundamental Rights, in Constituzional Values and European Contract Law, cit., p.
47; Lurger, Grundfragen des Vertragsrecht in der Europäischen Union, Wien, New York
2002, p. 242. In tempi meno recenti cfr. Grunsky, Vertragsfreiheit und Kräftegleichgewicht,
Berlin-New York 1995, p. 12 ss.
( 76 ) Osservava opportunamente Mengoni, op. cit., p. 20 « Mi permetto soltanto di manifestare l’impressione che l’enucleazione dall’art. 2 GG di una garanzia costituzionale diretta della libertà di contratto sia servita al BVG solo per fondare il ricorso costituzionale
del contraente danneggiato, mentre non sembra indispensabile per fornire la premessa
maggiore alla sua argomentazione in proposito ».
( 77 ) Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Causa e giustizia contrattuale a confronto,
cit., p. 419 ss.
( 78 ) Cfr. per tutti Libertini, A « highly competitive social market economy » as a founding element of the European Economic Constitution, in Concorrenza e mercato, 2011, p.
498 s.
Matteo Mattioni
Dottorando di ricerca
SUL RUOLO DELL’EQUITÀ
COME FONTE DEL DIRITTO DEI CONTRATTI (*)
Sommario: 1. Premessa. — 2. La dottrina italiana sull’equità dalla codificazione al diritto di
derivazione europea: una breve panoramica. — 3. Segue: gli anni Sessanta e Settanta
del secolo scorso. — 4. L’equità come strumento di « giustizia contrattuale ». — 5.
Equità e buona fede nei Principles of European Contract Law e nel Draft Common Frame of Reference. — 6. La vocazione del nostro tempo per l’equità in campo contrattuale.
1. — L’inclusione di una riflessione sull’equità nell’ambito di un discorso
intorno alle fonti non legislative del diritto richiede un chiarimento preliminare, imposto dalla circostanza che — a fronte di un’antica e ormai superata
opinione che scorgeva nell’equità una fonte di produzione del diritto (1) — si
registra oggi l’esclusione pressoché unanime di tale figura dal novero delle
fonti normative (2). La ragione di questa esclusione può riassumersi nella
considerazione che, se il concetto di fonte normativa (3) postula quello di diritto oggettivo come complesso di norme (4), e se il concetto di norma implica
(*) Studio pubblicato nell’ambito della ricerca PRIN 2008 sul tema « Le fonti non legislative del diritto dei contratti ».
( 1 ) Si tratta di un’opinione piuttosto risalente nel tempo (v. gli A. cit. da M. Rotondi,
Equità e principii generali di diritto [estr. da questa Rivista], Milano 1924, p. 3, nt. 2, e in
particolare G. Maggiore, L’equità e il suo valore nel diritto, in Riv. int. fil. dir., 1923, p.
256 ss.), in seguito ampiamente smentita (cfr. M. Rotondi, Equità, cit., p. 3; V. Frosini,
voce Equità (nozione), in Enc. dir., XV, Milano 1966, p. 78 s.), benché autorevolmente riproposta in tempi più recenti (cfr. A. Trabucchi, Il nuovo diritto onorario, in questa Rivista,
1959, I, p. 506 ss.: « [i]n un sistema che, essenzialmente costruito sulla legalità, tende tuttavia ad una affermazione sempre più concreta di giustizia, l’equità resta fonte sussidiaria
del diritto » [ivi, 507, corsivo aggiunto]).
( 2 ) In tal senso è anche la letteratura istituzionale, ivi compresa la manualistica: v. per
tutti Salv. Romano, voce Equità (dir. priv.), in Enc. dir., XV, Milano 1966, p. 78 s.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato16, Napoli 2013, p. 32 s.; P. Zatti, Manuale di diritto civile5,
Padova 2012, p. 47.
( 3 ) Si parla qui di fonte in senso materiale, identificandosi la fonte sulla base del suo
contenuto o risultato normativo, e non già in senso formale (ossia mediante rinvio alle regole dell’ordinamento sulla produzione giuridica): cfr., per questa distinzione, R. Guastini,
Teoria e dogmatica delle fonti, in Tratt. Cicu-Messineo, I, 1, Milano 1998, p. 57 ss., ove si
osserva come la dottrina giuridica tenda, di fatto, a far propria una nozione mista di fonte
(ivi, p. 68); amplius, F. Modugno, voce Fonti del diritto. I) Diritto costituzionale, in Enc.
giur. Treccani, XVI, Roma 1989, p. 2 ss.
( 4 ) In tal senso, V. Crisafulli, voce Fonti del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., XVII, Milano 1968, p. 947.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
il carattere della generalità (5), non può ritenersi che l’equità — la cui funzione è, nel nostro sistema, quella di provvedere concretamente a situazioni determinate — costituisca una fonte in senso tecnico di norme giuridiche.
Sennonché, una volta acquisito che la nozione di fonte dipende concettualmente da quella di norma (6), occorre rilevare che quello connotato dai
caratteri di generalità e astrattezza non è l’unico concetto possibile di norma, essendo anzi diffusa l’opinione che di norma si possa parlare anche con
riferimento a precetti singolari e concreti come, ad esempio, quelli statuiti
dall’autorità giudiziaria o posti dall’autonomia privata (7). Ne consegue che
anche la sentenza e il regolamento contrattuale potrebbero considerarsi fonti
di produzione del diritto (8) e che, contribuendo l’equità a fondare la decisione del giudice (9) nonché — come subito si dirà — a determinare detto
( 5 ) Così V. Crisafulli, Fonti, cit., p. 949, ove si legge che « risponde ad una esigenza
logica che la generalità sia carattere “naturale” delle norme costituenti il diritto oggettivo,
poiché questo è ordinamento e non è concepibile ordinamento che non abbia un certo grado
di stabilità e permanenza nel tempo [...]. Non fa ordinamento un insieme seriale di precetti
individuali, esaurentisi ciascuno una tantum, né precetti di questo tipo sarebbero d’altronde i più idonei a oggettivarsi distaccandosi dai fatti ed atti dai quali derivano ». L’A. fornisce inoltre una dimostrazione, basata sul diritto positivo, del fatto che il nostro ordinamento non ha inteso discostarsi dalla nozione tradizionale di norma giuridica (v. sul punto pure
Id., voce Atto normativo, in Enc. dir., IV, Milano 1959, p. 245 s., cui si rinvia anche per ulter. riferim. dottrinali; più di recente, R. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici,
in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2010, p. 11 ss. e spec. p. 15 ss.).
( 6 ) Così, testualmente, R. Guastini, Teoria, cit., p. 63.
( 7 ) Questa impostazione può farsi risalire al pensiero di H. Kelsen, Teoria generale del
diritto e dello Stato (trad. it.), Milano 1994 (rist. 2000), p. 134 ss.; Id., La dottrina pura
del diritto2 (trad. it.), Torino 1966, p. 260 ss. (e spec. p. 262, ove si legge che « [i]l rapporto esistente fra la norma giuridica generale prodotta per statuizione o consuetudine e la sua
applicazione mediante tribunali o organi amministrativi, è sostanzialmente eguale a quello
che intercorre fra la costituzione e la produzione di norme giuridiche generali da essa determinate. La produzione di norme giuridiche generali costituisce applicazione della costituzione tanto quanto l’applicazione delle norme giuridiche generali da parte dei tribunali o
degli organi amministrativi costituisce produzione di norme giuridiche individuali ») — e
già Id., Lineamenti di dottrina pura del diritto (trad. it. della prima ed. della Reine Rechtslehre), Torino 2000, p. 104 ss. —; ulter. riferim. in R. Guastini, Teoria, cit., p. 63, nt. 21.
Più di recente, v. A. Rentería Díaz, in G. D’Elia-A. Rentería Díaz, Teoria e pratica delle
fonti del diritto, Roma 2008, p. 121 ss. e spec. p. 128 ss. sulla giurisdizione come fonte del
diritto; cfr. anche A. Pizzorusso, Comparazione giuridica e sistema delle fonti del diritto,
Torino 2005, p. 20 ss.
( 8 ) Tale conclusione — essendole estranea la suddivisione dei precetti « singolari » tra
quelli che, logicamente impliciti in norme preesistenti, costituiscono applicazione di queste
e quelli che, invece, derogano a norme preesistenti — è peraltro criticata da chi ritiene aliene al fenomeno della produzione del diritto sia la mera ripetizione di norme preesistenti, sia
la formulazione di precetti che di tali norme costituiscono mere conseguenze logiche (così
R. Guastini, Teoria, cit., pp. 59 e 64).
( 9 ) In ordine al giudizio di equità, sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede, v. almeno E. Grasso, voce Equità (giudizio), in Dig. disc. priv. - sez. civ., VII, Torino 1991, p. 470 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim.; F. Galgano, Diritto ed equità
SAGGI
569
regolamento, anch’essa potrebbe riguardarsi alla stregua di una fonte materiale.
In ogni caso, non è dubbio che l’equità sia evocata dal legislatore italiano
tra le fonti d’integrazione del contratto (10), sia pure come fonte subordinata
o di secondo grado, venendo in rilievo soltanto « in mancanza » di legge punnel giudizio arbitrale, in Contratto e impr., 1991, p. 461 ss.; V. Frosini, Il giudizio di
equità e il giudice di pace, in questa Rivista, 1996, I, p. 143 ss., cui fa seguito la replica di F. Galgano, Dialogo sull’equità (fra il filosofo del diritto e il giurista positivo), in
Contratto e impr., 1996, p. 401 ss.; G. Tucci, L’equità del codice civile e l’arbitrato di
equità, in Contratto e impr., 1998, p. 469 ss.; R. Calvo, Giurisdizione di equità e gerarchie assiologiche, in Contratto e impr., 2005, p. 118 ss.; ampiamente, C. Tenella
Sillani, L’arbitrato di equità. Modelli, regole, prassi, Milano 2006, passim; da ultimo,
G. Iudica, Arbitrato di diritto e arbitrato d’equità, in Aa.Vv., Appunti di diritto dell’arbitrato2, Torino 2012, p. 79 ss.
( 10 ) L’espressione è entrata nell’uso corrente a seguito del contributo di S. Rodotà, Le
fonti di integrazione del contratto, Milano 1964 (rist. Milano 2004), cui si rinvia per
un’ampia indagine circa il fondamento teorico dell’integrazione del contratto, ad esito della
quale l’A. — rifiutati sia l’assunto che il regolamento contrattuale debba necessariamente
« rispondere all’esclusiva logica dei privati » (ivi, p. 87), pur restando la fonte privata « il
motore del contratto » (ibid.) e l’elemento qualificante la fattispecie, sia la contrapposizione
teorica tra contenuto ed effetti del contratto (ivi, p. 77 ss. e spec. p. 89 ss.), sia ogni sovrapposizione tra interpretazione e integrazione (ivi, p. 105 ss.) — individua nel regolamento
contrattuale il prodotto di un « concorso di fonti » (ivi, p. 105): il problema dell’integrazione viene così risolto in quello della costruzione del regolamento contrattuale, fermo restando che all’attività delle parti deve riconoscersi, come detto, valore qualificante la fattispecie, la quale conserva carattere negoziale (aprendosi, altrimenti, « prospettive di estrema
incertezza »: ivi, p. 90).
Più di recente, sul punto, v. A. Giuliani, L’integrazione del contratto, in Aa.Vv., I contratti in generale, IV, p. 1, in Giur. Bigiavi, Torino 1991, p. 117 ss.; F. Galgano, in F. Galgano-G. Visintini, Degli effetti del contratto. Della rappresentanza. Del contratto per persona da nominare (Art. 1372-1405), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1993, p.
65 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto, Milano 1998, p. 471 ss.; R. Sacco, in R.
Sacco-G. De Nova, Il contratto3, II, in Tratt. Sacco, Torino 2004, p. 417 ss.; G.B. Ferri, Il
negozio giuridico2, Padova 2004, p. 253 ss.; E. Capobianco, La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Milano 2006, p. 389 ss., ove ampia bibliografia; in prospettiva
europea, M.A. Livi, L’integrazione del contratto, in Tratt. Lipari2, III, Padova 2003, p. 380
ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Torino 2006, p. 65 ss. (e già
Id., Un breve commento sull’integrazione del contratto, in Quadr., 1988, p. 524 ss.); C.
Scognamiglio, L’integrazione, in Aa.Vv., I contratti in generale2, 2, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I, Torino 2006, p. 1147 ss.; A. Federico, Profili dell’integrazione del contratto, Milano 2008, p. 29 ss. (per una sintesi, Id., Nuove nullità ed integrazione del contratto, in
Aa.Vv., Le invalidità nel diritto privato, Milano 2011, p. 329 ss.); U. Breccia, voce Fonti
del diritto contrattuale, in Enc. dir., Ann., III, Milano 2010, p. 394 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione del contratto e potere correttivo del giudice, Padova 2010, pp. 1 ss. e 193 ss.
Da ultimo, v. M. Franzoni, Degli effetti del contratto. II. Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori2, in Comm. Schlesinger, Milano 2013, p. 3 ss., nonché — con prospettiva peculiare — S. Pagliantini, L’integrazione del contratto tra Corte di Giustizia e
nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in Contratti, 2013, p.
406 ss., e A. D’Adda, La correzione del « contratto abusivo »: regole dispositive in funzione
« conformativa » ovvero una nuova stagione per l’equità giudiziale?, in Aa.Vv., Le invalidità, cit., p. 361 ss. e spec. p. 380 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
tuale (art. 1374 c.c.) (11). Dunque, anche a non volerle riconoscere il rango di
fonte di diritto oggettivo, non può negarsi che essa concorra — insieme con la
legge e gli usi normativi — alla determinazione del regolamento contrattuale
obbligatorio (12). La peculiarità del fenomeno integrativo, che ha bensì per
oggetto il contratto, ma al tempo stesso partecipa alla costruzione di questo (13), sembra quindi giustificare che dell’equità si discorra — sia pure, a
non voler concedere di più, su un piano meramente descrittivo (14) — come di
una fonte del diritto dei contratti. E tale discorrere appare viepiù fondato —
almeno sullo stesso piano descrittivo — ove dall’equità c.d. integrativa si passi a considerare le diverse modalità del richiamo all’equità da parte del diritto
positivo, vuoi in sede interpretativa (art. 1371 c.c.), vuoi in funzione « determinativa » (art. 1349 c.c.).
Tali considerazioni, peraltro, se — come sembra — possono valere a
escludere la totale inconferenza del riferimento all’equità nell’ambito di un
discorso sulle fonti, non giustificano di per sé sole un ritorno sul tema in
esame, già fatto oggetto (anche in anni vicini) di studî differenti per indole
ed ambito disciplinare (15). Conviene subito segnalare, quindi, come una riflessione sull’equità non appaia del tutto priva d’interesse alla luce di taluni recenti interventi normativi, i quali sembrano suggerire la necessità di
una nuova meditazione (che in questa sede non può essere proposta che
nelle sue linee essenziali) intorno al ruolo di essa nel diritto privato e alle
differenze fra tale ruolo e quello attribuitole dalla dottrina in tempi meno
recenti.
Proprio da una sintetica ricostruzione dell’evoluzione del pensiero giuridico sul tema in esame conviene prendere le mosse: non per impostare un discorso di carattere storico intorno al concetto di equità (16), ma al solo fine —
( 11 ) Che il riferimento alla legge, operato dall’art. 1374 c.c., abbia ad oggetto la legge
puntuale — non potendosi altrimenti ipotizzare, operando l’analogia legis e iuris, la « mancanza » di legge cui la stessa disposizione fa riferimento — è stato dimostrato da F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano 1970, p. 260 s., nt. 290, e p. 287; cfr. anche Id.,
Manuale, cit., p. 787.
( 12 ) Sulle ragioni che rendono preferibile discorrere di regolamento piuttosto che di
contenuto del contratto, v. S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 76 ss. e spec. p. 88, ove ulter. riferim. sub nt. 148.
( 13 ) L’osservazione è di S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 12.
( 14 ) Del resto, lo stesso concetto di fonte del diritto è evidentemente un traslato: cfr., in
chiave storica, L. Mossini, Fonti del diritto. Contributo alla storia di una metafora giuridica, in St. sen., 1962, p. 139 ss.
( 15 ) Un’ampia e accurata bibliografia sul tema dell’equità (utile tanto allo storico quanto allo studioso del diritto vigente, sia di common che di civil law, con particolare riguardo
— quanto a quest’ultima area — agli ordinamenti italiano e tedesco), suddivisa per aree tematiche, è posta a conclusione del saggio storico di O. Bucci, Il principio di equità nella
storia del diritto, Napoli 2000, p. 74 ss.
( 16 ) Per cui v. almeno Salv. Romano, Equità, cit., p. 83 ss. e spec. p. 91 ss. e, più di recente, R. Calvo, L’equità nel diritto privato, in Studi Palazzo, I, Torino 2009, p. 91 ss. (di
SAGGI
571
ben più limitato — di mostrare come l’interesse della nostra dottrina per tale
concetto e per il ruolo di esso nell’ordinamento — almeno a partire dal momento in cui l’indagine in materia ha assunto l’aspetto di un problema di diritto positivo — si sia manifestato in modo ciclico, con l’alternarsi di periodi
d’intensa elaborazione teorica e momenti di sostanziale indifferenza. Un andamento, questo, che conferma la validità dell’osservazione di chi, nel corso
di uno di quei « cicli », ebbe a osservare come l’interesse teorico per l’equità
« si accompagn[i] a momenti di transizione nelle strutture socio-economiche e
nella cultura giuridica » (17).
2. — L’avvento delle codificazioni e il fiorire del positivismo giuridico (18) portarono con sé una più o meno latente ostilità della dottrina nei confronti dell’equità giudiziale (19), atteggiamento ben compendiato nel celebre
ditterio — frutto del rovesciamento, operato da Vittorio Scialoja, di un antico
brocardo (20) — « aequitas legislatori, ius iudici magis convenit » (21).
quest’ultimo A. v. ora anche L’autorevole codice civile: giustizia ed equità nel diritto privato, Milano 2013, p. 63 ss.). Da ultimo, cfr. M. Franzoni, Degli effetti, cit., p. 111 ss.
( 17 ) S. Rodotà, Quale equità?, in Aa.Vv., L’equità, Milano 1975, p. 47 (il volume, che
raccoglie gli atti del convegno leccese del novembre 1973 organizzato dal Centro nazionale
di prevenzione e difesa sociale, è emblematico del fervore dottrinale sul tema in esame negli
anni Settanta del secolo scorso; vi si ritrovano, fra l’altro, contributi di Vittorio Frosini, Stefano Rodotà, Nicolò Lipari, Adolfo di Majo, Cesare Salvi, C. Massimo Bianca, Guido Alpa,
Mario Bessone ed Enzo Roppo).
( 18 ) Se ne veda una solenne professione nelle parole conclusive della prolusione camerte, pronunciata il 23 novembre 1879, di V. Scialoja, Del diritto positivo e dell’equità, in
Studi giuridici, III, Roma 1932, p. 23 (ora anche in Le prolusioni dei civilisti, I, Napoli
2012, p. 77 ss.).
( 19 ) Di una vera e propria « guerra all’equità », con riferimento al pensiero di Scialoja,
parla B. Biondi, Esistenzialismo giuridico e giurisprudenza romana, in Scritti Carnelutti, I,
Padova 1950, p. 109, peraltro in senso critico: osserva, infatti, quest’ultimo A. che, « [s]e si
ritiene che [l’equità] sia una entità pericolosa, ciò dipende non dalla sua essenza né dalla
sua funzione, che sono insopprimibili, ma dal modo con cui si applica » (ibid.). In definitiva, conclude Biondi, l’atteggiamento di Scialoja si giustifica in base non tanto a una diffidenza verso l’equità in sé e per sé, quanto alla « diffidenza per il giurista o per il giudice;
ciò vuol dire che l’uno e l’altro non sono all’altezza della loro funzione » (ibid.).
( 20 ) Recentemente attribuito al giurista tedesco Marquard Freher, allievo di Cuiacio, da
F. Petrillo, Interpretazione degli atti giuridici e correzione ermeneutica, Torino 2011, p.
93, nt. 157 (per P. Bonfante, Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1986, p. 34, si tratterebbe invece di un brocardo medievale).
( 21 ) Il motto fu pronunciato dal giurista nella già citata prolusione (V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 15), che oltre trent’anni più tardi veniva ancora annoverata dal filosofo Benvenuto Donati, nella sua prolusione perugina del 7 dicembre 1912, tra « le migliori meditazioni che a questo riguardo conti la nostra letteratura » (B. Donati, Sul principio di equità
[estr. da Ann. fac. giur. Perugia], Perugia 1913, p. 10; v. pure, ancor più tardi, P. Bonfante, L’equità [estr. da Notiz. lav.], in questa Rivista, 1923, p. 192, il quale fa riferimento al
contributo di Scialoja come allo « studio più penetrante ed esatto che sia stato scritto sull’equità »).
572
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
L’equità — vista come una forza magmatica e minacciosa, che spinge verso la
modificazione o, in mancanza, la sistematica violazione del diritto positivo (22) — fu relegata dagli studiosi negli angusti spazî riservati ad essa dai
puntuali richiami di legge, volti perlopiù a « rinviare il giudice alla propria
coscienza ed al sentimento universale » (23). E se, a fronte di un simile ostracismo culturale, non mancò qualche accento di rammarico (24), la civilistica,
ormai saldamente attestatasi su tale posizione, parve perdere comprensibilmente ogni interesse per l’equità, nel cui campo d’indagine si trattenne soltanto qualche cultore di studî filosofici (25).
Una nuova ventata d’interesse scientifico per l’equità e un rinnovato fervore d’indagine percorse la dottrina privatistica del primo dopoguerra, riversandosi in saggi d’indole teorico-generale (26). Lo stimolo a questo nuovo filone d’indagine — destinato, per la verità, a esaurirsi nel breve volgere di un
lustro — può rintracciarsi nel sorgere, durante il periodo bellico e postbellico,
di numerose giurisdizioni speciali di equità, istituite — anche in materia civile
— al fine di sottrarre alla giustizia ordinaria (e all’applicazione del diritto comune) le materie disciplinate dalla legislazione di guerra per far fronte alle
( 22 ) « [A]ccanto al diritto positivo si manifesta l’azione di una forza, la quale, dapprima sottomessa al diritto stesso, a poco a poco gli si ribella, finché giunge il momento nel
quale o il diritto viene modificato regolarmente, [...] ovvero [...] esso viene nella pratica
continuamente violato » (V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 13 s.); soggiunge poco oltre l’A.
che « nell’equità la materia giuridica si trova allo stato amorfo e non depurata, nel diritto
positivo invece essa è schietta e cristallizzata » (ivi, p. 14).
( 23 ) V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 22. Non mancarono, peraltro, posizioni di minor
sfavore e diffidenza nei confronti delle spinte equitative al diritto positivo: cfr. V. Miceli,
Sul principio di equità. Brevi considerazioni, in Studi V. Scialoja, II, Milano 1905, p. 81 ss.
e spec. p. 86 ss.
( 24 ) Si pensi alle parole di N. Coviello, Dell’equità ne’ contratti [estr. da Studi nap.],
Napoli 1896, p. 15 (cit. da F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in questa
Rivista, I, 2001, p. 538), il quale — pur saldamente inserito nel solco del positivismo giuridico (come chiaramente emerge dal suo Manuale di diritto civile italiano. Parte generale3,
Milano 1924 [rist. Napoli 1992], p. 8 s.) — ebbe a dolersi della « troppo limitata e meschina e pressoché nulla efficacia che l’equità può avere. Bisogna pur dirlo con rammarico e
sconforto di quanti amano la giustizia ».
( 25 ) Si vedano il saggio di A. Falchi, Intorno al concetto scientifico di diritto naturale e
d’equità [estr. da Riv. fil. sc. aff.], Bologna 1903, nonché quello (cit. supra, nt. 21) di Benvenuto Donati, in cui si ritrova una compiuta sistemazione teorica del concetto di equità,
considerata come « il sistema dei giudizi di valutazione giuridica concreta », che sono
« specificazione della giustizia » — definita, per converso, come « il sistema dei giudizi di
valutazione giuridica astratta » —: una forza, dunque, « che si fa valere nella pratica giuridica » (B. Donati, Sul principio, cit., p. 19, donde sono tratte anche le citaz. prec. [cors.
dell’A.]; l’opinione dell’A., sotto quest’ultimo aspetto, presenta singolari tratti di affinità rispetto all’idea vichiana, eminentemente pratica, dell’equità, su cui v. A. Falchi, Intorno al
concetto, cit., p. 21 ss.).
( 26 ) V., per es., L. Raggi, Contributo all’apprezzamento del concetto di equità, in Filangieri, 1919, p. 31 ss.; G. Maggiore, L’equità, cit., p. 256 ss.; M. Rotondi, Equità, cit., p.
1 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim.
SAGGI
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contingenze del momento (27). La più attenta dottrina si mostrò consapevole
di essere nel mezzo di una fase temporanea, tipica di « quei periodi di transizione in cui la società, oscillando tra i vecchi principî di un diritto che si crea,
cerca affannosamente il suo nuovo stabile assestamento » (28); decisamente
negativo (anche a causa del retaggio positivista) fu, peraltro, il giudizio complessivo su tale tendenza legislativa, considerata alla stregua di un « fenomeno morboso, [...] un meschino ripiego adottato [...] da legislatori che vivono
alla giornata » (29).
Fu così che l’equità, com’è stato affermato, giunse alla codificazione del
1942 « sostanzialmente screditata » (30). Ed è bensì vero che i richiami ad essa
da parte del codice vigente sono più numerosi di quelli contenuti nel codice
abrogato (31), ma — ciò che appare più significativo — mentre in questo all’equità integrativa era riservato un rango pari a quello di legge e usi (32), in
quello — come già accennato — essa è, al pari degli usi, una fonte d’integrazione subordinata alla legge (33). Di fronte a un tale depotenziamento dell’equità,
relegata a un ruolo interstiziale, all’interprete non fu più possibile guardare ad
essa come a un mezzo per far breccia nell’ordinamento, introducendovi istanze
contrastanti con quelle già da esso desumibili (34); né quei richiami potevano
essere svalutati leggendovi niente più di un particolare invito al giudice a prendere in considerazione le esigenze del caso concreto, essendo già implici( 27 ) V., in argomento, l’ampio saggio di P. Calamandrei, Il significato costituzionale
delle giurisdizioni di equità, in Opere giuridiche, III, Napoli 1968, p. 3 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim. Sulle giurisdizioni d’equità v., inoltre, F. Gazzoni, Equità, cit., p. 65
ss.
( 28 ) P. Calamandrei, Il significato, cit., p. 48.
( 29 ) Così P. Calamandrei, Il significato, cit., p. 4. Emblematiche dell’atteggiamento del
tempo nei confronti dell’equità sono le parole di G. Piola, voce Equità, in Dig. it., X, Torino 1926, 503, secondo cui — nel solco del ricordato motto scialojano —, « se è desiderabile
che, nel dettare le norme giuridiche il legislatore si ispiri all’equità, è desiderabile anche che
l’uso della stessa sia il meno che è possibile lasciato a coloro che sono incaricati della applicazione della norma giuridica » (tal quale è il pensiero di C. Perris, Equità, in Nuovo dig.
it., V, Torino 1938, p. 448).
( 30 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 49.
( 31 ) Per una rassegna delle epifanie normative dell’equità, si rinvia a G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo » e « riconduzione ad equità » nell’art. 7, d. lgs. n. 231 del 2002, in
Contratto e impr., 2006, p. 177 ss., e a V. Varano, voce Equità. I) Teoria generale, in Enc.
giur. Treccani, XIV, Roma 1989, p. 13.
( 32 ) Disponeva, infatti, l’art. 1124 c.c. abr. (su cui v. almeno C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova 1983 [rist.], p.
189 ss., ove ulter. riferim.) che « [i] contratti [...] obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano ».
( 33 ) Art. 1374 c.c.: « [i]l contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo
espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità ».
( 34 ) Lo osserva S. Rodotà, Quale equità?, cit. p. 50.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
ta nella stessa attività giudicante l’adesione piena alle peculiarità del caso (35).
In effetti, com’è stato dimostrato sulla scorta di argomenti normativi,
l’equità codicistica non è altro che lo strumento grazie al quale penetrano nell’ordinamento privatistico le esigenze della razionalità economica e le regole
di esperienza desumibili dai rapporti di mercato (36). E ciò, in ambito contrattuale, al fine non già di garantire l’equilibrio economico delle prestazioni (37), posto che il modello liberista già sconta la disparità di « forza » degli
agenti economici, bensì « di fronteggiare situazioni abnormi [per es., l’approfittamento e la laesio enormis di cui all’art. 1448 c.c.], il cui indiscriminato
ripetersi turberebbe il formarsi degli equilibri sul mercato » (38). Più che un
ampliamento dei poteri decisorî del giudice nel senso di una maggiore discrezionalità, sembrò dunque corretto scorgere nei rinvii del codice all’equità una
finalizzazione di tali poteri a un risultato coerente con le logiche di mercato.
L’ideologia sottostante a tale impostazione è naturalmente quella, di
stampo liberista, secondo cui « il mercato è il luogo dove si formano gli equilibri meglio corrispondenti agli interessi in giuoco e, quindi, per definizione
equi » (39), secondo la nota massima « qui dit contractuel, dit juste » (40). Es( 35 ) In questo senso, v. già V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 19 (« [c]he se finalmente questo concetto dell’equità significhi che il giudice debba aver presenti tutti gli elementi giuridici
che sogliono trovarsi nei casi da decidere, [...] a me pare che tra questa specie di equità e il
puro diritto non vi sia differenza »); accenti analoghi in N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p.
171 s. V. pure, sul punto, le considerazioni di F. Geny, Méthode d’interprétation et sources en
droit privé positif2, I, Paris 1954, p. 212: « [e]n la supposant parfaite et complète, la loi ne
peut, à elle seule, porter directement toutes les injonctions, de nature à satisfaire les besoins
tout concrets de la vie juridique. Entre ces besoins, si complexes, si variés, si fuyants, et la
formule rigide du texte légal, il faut un intermédiaire, qui puisse et sache adapter cette formule aux situations et circonstances, pour lesquelles elle est écrite. Cet intermédiaire, c’est
précisément l’interprète du droit, et, particulièrement, dans les litiges concrets, le juge ».
( 36 ) V., in tal senso, S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 50 ss.
( 37 ) Basti leggere la Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile (rist. Roma
2010), n. 626, ove si avverte che con l’art. 1371 c.c. (secondo cui il contratto oscuro dev’essere inteso, se a titolo oneroso, « nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti ») « non si è voluto attribuire al giudice un potere generale di revisione
dei contratti, né si è voluto introdurre il principio dell’equilibrio contrattuale » (cors. agg.).
Più in generale, v. R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova
2003, p. 73 ss. Di recente, si è espresso nel senso dell’estraneità del controllo giudiziale sull’equilibrio contrattuale al sistema del codice del 1942 A. Federico, Profili, cit., p. 83.
( 38 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 52. Un ulteriore esempio di tale indirizzo legislativo può ritrovarsi nella disciplina del contratto di appalto (artt. 1660 e 1664 c.c.), laddove
la legge intende garantire all’appaltatore una remunerazione adeguata alle variazioni del
progetto o all’onerosità e alla difficoltà di esecuzione dell’opera: cfr., in argomento, D. Rubino-G. Iudica, Appalto (Art. 1655-1677)4, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma
2007, p. 273 ss. e p. 319 ss.
( 39 ) Ancora S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 56.
( 40 ) Si tratta della celebre formula di A. Fouillée, La science sociale contemporaine,
Paris 1880, p. 410, ove — nell’illustrare il concetto di fraternité accostandolo all’idea della
contrattualità — l’A. spiega che « [n]ous sommes frères parce que nous acceptons volontai-
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575
sendo pertanto l’equità, così intesa, immanente alle relazioni di mercato, non
vi era bisogno d’altro che di uno strumento — il rinvio normativo — che consentisse di traslare il medesimo concetto sul piano giuridico.
3. — L’avvento della Costituzione e — qualche lustro più tardi — il fiorire dell’interesse della dottrina civilistica per i profili privatistici di essa e per
la loro portata sistematica determinarono un ritorno al tema dell’equità giudiziale e del suo ruolo nel diritto vigente. Sorse così l’interrogativo, forse ancor oggi attuale, di Stefano Rodotà: « può davvero il vecchio strumento dell’equità [...] costituire la risposta ai nuovi problemi che sorgono quando ogni
illusione sulla concorrenza e la perfezione del mercato è venuta meno? » (41).
L’equità codicistica, infatti, si trovava di fronte a un mercato assai diverso da quello, c.d. perfetto, vagheggiato dall’ideologia di riferimento delle codificazioni liberali (42): un mercato segnato da distorsioni e squilibrî ignoti ai
fautori del modello liberista, e dal quale s’innalzava la domanda di un’equità
differente. Si sarebbe potuto rispondere a tale istanza mediante un diverso
utilizzo del criterio equitativo evocato dalla legge, nel segno di un’eterogenesi
dei fini orientata dal dettato costituzionale?
Ciò parve rappresentare, in realtà, un vero e proprio imperativo alla luce
dell’art. 3 cpv. Cost., il quale — imponendo di « confrontare le posizioni giuridico-formali con le realtà di fatto » (43) — aveva determinato il definitivo superamento dell’impostazione che, bandito l’apprezzamento dei concreti rapporti
socio-economici di forza, legittimava soltanto il recepimento giudiziale degli
squilibrî esistenti nel mercato — salvo il limite, cui sopra si è accennato, dell’abnormità. Quella stessa norma, però, indicava al contempo una via diversa
dal semplice recupero dell’equità intesa secondo il concetto pseudoaristotelico
di « giustizia del caso concreto » (44): la portata individualizzante del principio
non poteva più essere riferita ai singoli rapporti, ma doveva esserlo alle situazioni collettive di conflitto sociale e richiedeva di esser posta alla base non già
rement un même idéal en entrant dans la société et que nous nous obligeons à former une
même famille; nous sommes frères aussi parce que nous sommes naturellement membres
d’un même organisme, parce que nous ne pouvons vivre ou nous développer les uns sans les
autres, parce que notre moralité même est liée à l’état social et à la moralité de l’ensemble.
En définitive, l’idée d’un organisme contractuel est identique à celle d’une fraternité réglée
par la justice, car qui dit organisme dit fraternité, et qui dit contractuel dit juste » (enfasi
dell’A.). Recentemente, ha parlato di una « presunzione di giustizia del contratto » A. Cataudella, La giustizia del contratto, in Rass. d. civ., 2008, p. 627.
( 41 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 57.
( 42 ) Su cui v. ora R. Calvo, L’equità nel diritto privato. Individualità, valori e regole
nel prisma della contemporaneità, Milano 2010, p. 63 ss., e, amplius, R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 1 ss.
( 43 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 58.
( 44 ) Sull’impossibilità di attribuire tale costruzione ad Aristotele (come spesso, invece,
si vede fare), cfr. V. Frosini, Equità, cit., p. 69 ss.; Id., Il giudizio, cit., p. 146.
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di una giurisprudenza diseguale, bensì di una legislazione diseguale (45).
Ne conseguiva la radicale inutilizzabilità a tale scopo dell’equità civilistica — principio eminentemente logico, contrastante con la tendenza generalizzante della legge, e non politico (46) —, che anzi occorreva superare mediante
« più penetranti interventi legislativi e [lo] stesso impiego da parte del giudice
di strumenti foggiati sulla base di [...] principi costituzionali o riferiti ad alcune clausole generali presenti nel codice » (47).
Secondo una diversa prospettiva, l’art. 3 cpv. Cost. avrebbe avuto essenzialmente una valenza di criterio-guida per il giudice chiamato ad applicare
la legge, non attenendo al momento legislativo e imponendo, invece, di ritenere contraria al diritto ogni sentenza che, pur emessa in applicazione di legge,
realizzi, di fatto, il risultato di limitare la libertà, l’eguaglianza e lo sviluppo
della persona (48). In altre parole, la norma costituzionale porrebbe in capo al
giudice, il quale rilevasse che una certa interpretazione del diritto conduce a
( 45 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 58 ss. Esempio emblematico di tale modello di legislazione doveva essere quello consumeristico, l’interesse per il quale sorse nella dottrina
italiana proprio in quegli anni: v. ora sul punto A. Nicolussi, I consumatori, in Aa.Vv., Gli
anni settanta del diritto privato, Milano 2008, p. 397 ss. Questa impostazione, come rilevato da V. Varano, Equità, cit., p. 6, non implica « che l’equità scompaia dagli ordinamenti
codificati [...]; significa invece che dell’equità si appropria il legislatore, che ne fa un suo
strumento operativo ».
( 46 ) V., in tal senso, A. di Majo, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 177.
( 47 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 60. Ciò in linea col pensiero dell’A., già espresso
nella sua prolusione maceratese del 18 dicembre 1966 (Id., Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in R. d. comm., 1967, I, p. 83 ss. [ora anche in Le prolusioni dei civilisti, III, Napoli 2012, p. 3089 ss.]), in cui — constatati sia il superamento sul piano storico e
metodologico della Begriffsjurisprudenz, sia l’emergere di nuove classi d’interessi sovraindividuali consacrati dalle costituzioni del XX sec. (ivi, p. 84 ss.) — egli propugna un nuovo
modo d’intendere gli interventi riformatori, come volti a tracciare « le grandi linee secondo
cui la dinamica sociale vuol essere indirizzata », mediante una legislazione « concepita in
opposizione allo schema corrente della legislazione regolamentare, articolata in massime
generali, elastiche, feconde di conseguenze future » (ivi, p. 89, donde è tratta anche la citaz.
prec.; è qui totale il mutamento di prospettiva rispetto al giuspositivismo di V. Scialoja, Del
diritto, cit., p. 20, secondo il quale « [u]na buona legge non pone i principii; essa detta comandi [...]. Da questi comandi si possono astrarre i principii »), costituenti l’« espansione
dei principi costituzionali » (ivi, p. 95). Lo stesso A. avrebbe in seguito chiarito come la legislazione per principî, lungi dal determinare una mortificazione del momento legislativo,
costituisca « il recupero da parte del legislatore, di quel potere di indirizzo globale rispetto
ai comportamenti della società, che [...] la legislazione minuta, frammentaria, [...] ha fatto
perdere al parlamento » (S. Rodotà, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 248). Sull’attualità di questa impostazione, v. ora S. Patti, Arte e tecnica della legislazione civile (nel pensiero di Stefano Rodotà e di Justus Wilhelm Hedemann), in Diritto privato e codificazioni europee2, Milano 2007, p. 37 ss. e spec. p. 54 ss. (ed ora pure in Ragionevolezza e clausole generali, Milano 2013, p. 113 ss.); critico, invece, F. Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri), nota a
Cass. 13 ottobre 2007, n. 21748, in D. fam., 2008, I, p. 122 s., nt. 29, e Id., Manuale, cit.,
p. 51.
( 48 ) Così N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 172.
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un risultato iniquo sotto i profili della libertà, dell’uguaglianza, ecc., il dovere
di ricercare una diversa interpretazione al fine di realizzare un risultato di
giustizia sostanziale, rimanendo obbligato — ove tale interpretazione alternativa non fosse possibile — a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma applicabile. L’art. 3 cpv. Cost., con la sua portata rivoluzionaria, avrebbe
quindi « trasferito il giudizio di equità dall’esterno all’interno del giudizio di
legalità, qualificandolo come momento [...] necessario dell’applicazione della
regola al regolato » (49) e realizzando così il punto di congiunzione e di equilibrio tra i due fondamentali momenti dell’equità: quello della razionalizzazione del sistema e quello del superamento del sistema stesso (50).
Non distante da quest’ultima impostazione (se non altro, per la dichiarata centralità del ruolo del giudice) è poi la teoria secondo cui sarebbe possibile, già sulla base del diritto vigente, un intervento cogente dell’equità sul regolamento contrattuale: un intervento, cioè, operato dal giudice non già per
colmare un vuoto regolamentare, bensì in funzione di ristrutturazione del regolamento, ossia al fine di dichiarare l’invalidità — e segnatamente la nullità,
con applicazione dell’art. 1419, comma 1o, c.c. — per iniquità di talune clausole eventualmente aggiunte dai privati allo schema tipico, o caratterizzanti
quello atipico, le quali non potrebbero continuare a sussistere senza determinare l’iniquità del regolamento stesso (51). Ciò si giustificherebbe, sul piano
della ratio, in relazione allo sviluppo assunto dalla legislazione civile (specialmente in materia economica), cui non avrebbe corrisposto una adeguamento
degli strumenti giuridici di valutazione; mentre, sotto il profilo tecnico-giuri( 49 ) N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 173.
( 50 ) Non si è mancato di osservare, in contrario, che l’equità viene così relegata al momento interpretativo e sostanzialmente appiattita su di esso, come obbligo d’interpretare la
legge secondo il dettato costituzionale: così C. Giannattasio, in Aa.Vv., L’equità, cit., p.
250 s. Per altro verso, v. le considerazioni di P.G. Monateri, Interpretare la legge (I problemi del civilista e le analisi del diritto comparato), in questa Rivista, 1987, I, p. 585, secondo cui « [i]l giurista italiano, orfano del sistema, cerca di ispirarsi ai valori costituzionali, e
le ampie formule di una Costituzione moderna si prestano naturalmente a declamare quei
principi interpretativi che l’animo umano è contento di ascoltare. Uguaglianza, ragionevolezza, ecc. consentono di avvalorare le opinioni di politica del diritto dell’interprete, permettendogli di ammantarle dell’aureo rispetto di cui tali principi godono ».
( 51 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 324 ss. Contra, A. De Cupis, Precisazioni sulla funzione
dell’equità nel diritto privato, in questa Rivista, 1971, I, p. 638, nt. 8, secondo cui
« un’esuberante applicazione dell’art. 1374 [...] contrasta colla manifesta e deliberata prudenza del legislatore, il quale ha inteso reagire all’iniquità del contratto solamente in relazione a fattispecie ben delimitate » (il saggio si ritrova in Id., Studi e questioni di diritto civile, Milano 1974, p. 93 ss.).
Un’anticipazione dell’impostazione ricordata nel testo può forse ritrovarsi nelle parole
di A. Trabucchi, Il nuovo diritto, cit., p. 506 ss., il quale aveva osservato come, nel contesto
normativo del codice vigente, « se le parti sono autonome, pur nel rispetto della correttezza,
il giudice, che sempre è chiamato a dare il suo contributo umano nell’adeguare la regola alla vita, talvolta è invece investito del potere di applicare un suo criterio, per integrare, per
supplire alle incompletezze o, in taluni casi, perfino alle incongruenze del regolamento altrui » (ivi, p. 506, cors. agg.).
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dico, l’invalidità — la quale può risultare dal complesso della disciplina legale
e dalla relativa terminologia — sarebbe prevista da una norma imperativa
quale l’art. 1374 c.c. (contenente l’emblematica espressione « obbliga [...] a
tutte le conseguenze ») (52). Il giudice, in ogni caso, dovrebbe intervenire « facendo salvi gli interessi fondamentali delle parti » (53), avendo come « punto
di riferimento di ogni sua attività ricostruttiva [...] la sostanziale attuazione e
il raggiungimento dello scopo perseguito dai contraenti » (54), e come « direttive di giudizio » le disposizioni costituzionali di principio (55).
Ma se, da un lato, il legislatore si avviava ormai lungo la strada della
« legislazione diseguale » invocata in nome dell’equità sociale (56), dall’altro
lato il tramonto di quella stagione di studî — nei quali « la norma non segna
l’ultimo orizzonte del giurista [...], ma è considerata un’opera aperta, un dato
parziale e incompiuto, uno spiraglio, che permette di toccare una realtà più
intima e corposa » (57) — portava con sé una nuova caduta dell’interesse dottrinale per l’equità privatistica, che ben si era prestata a quella « esplorazione
mistica dell’interprete » (58) condotta dalla civilistica del tempo alla ricerca
dei valori sociali sottesi al diritto positivo.
( 52 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 334 ss.
( 53 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 353.
( 54 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 353. In ciò questo A. individua una fondamentale differenza rispetto all’incidenza pratica dell’intervento giudiziale operato in base alla clausola
generale d’ordine pubblico.
( 55 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 359 ss.; contra, A. De Cupis, Precisazioni, cit., p. 635,
nt. 3, nonché — più di recente — R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p.
420. Cfr., sul punto, V. Varano, Equità, cit., p. 11 ss.
( 56 ) Strada che avrebbe condotto a un diritto speciale, come osserva L. Nivarra, Ipotesi
sul diritto privato e i suoi anni settanta, in Aa.Vv., Gli anni settanta, cit., p. 17 s. Cfr. sul
punto A. di Majo, Libertà contrattuale e dintorni, in R. crit. d. priv., 1995, p. 5 ss. e spec.
p. 17 (donde le citaz. seg.), a proposito dell’ondata di « paternalismo contrattuale » che ha
portato alla disciplina specifica di « contratti sociologicamente qualificati dalle persone dei
contraenti ». V., inoltre, le considerazioni di F. Macario, L’autonomia privata, in Aa.Vv.,
Gli anni settanta, cit., p. 193, in ordine alla difficoltà di comprendere se il legislatore abbia
fatto propria la lezione degli anni Settanta, anche tenuto conto che « la maggior parte delle
novità legislative in materia provengono direttamente da Bruxelles, e tutte si allineano alla
logica della correzione dei fallimenti del mercato ».
( 57 ) Sono parole di N. Irti, voce Diritto civile, in Dig. disc. priv. - sez. civ., VI, Torino
1990, p. 146. Per uno sguardo d’insieme sugli studî privatistici negli anni Settanta del secolo scorso — incentrati, più o meno dichiaratamente, sui rapporti tra politica e scienza
giuridica —, v. pure Id., Esame di coscienza di un civilista e Una generazione di giuristi,
entrambi in Scuole e figure del diritto civile2, Milano 2002, rispettivam. p. 116 ss. e p. 134
ss. Per una più ampia ricognizione della dottrina privatistica del tempo, v. ora Aa.Vv., Gli
anni settanta, cit., ove sono raccolte le relazioni svolte al convegno palermitano del 2006,
fra cui si segnalano particolarmente quella, di carattere generale, di L. Nivarra, Ipotesi sul
diritto privato e i suoi anni settanta (p. 1 ss.) — ove si ritrovano (p. 3 s., nt. 2) considerazioni critiche sul già ricordato saggio di N. Irti, Diritto, cit. — e quella di F. Macario, L’autonomia, cit., p. 119 ss. (e spec. p. 157 ss. in tema di equità e buona fede).
( 58 ) Ancora N. Irti, Diritto, cit., p. 146.
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4. — Appare quantomeno singolare, ad ogni modo, che quella legislazione, ispirata da istanze equitative ben distanti dall’equità civilistica evocata
nei rimandi del codice, abbia finito col servirsi essa stessa del rinvio — diretto
o indiretto — all’equità giudiziale, riponendovi talvolta addirittura la regola
di validità degli accordi.
È questo il caso dell’art. 7, comma 1o, d. legisl. 231/2002 (in tema di
« lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali », attuativo della direttiva 2000/35/CE), il quale dispone che « [l]e clausole relative al
termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per
i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono
nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore », con
(eventuale) applicazione degli artt. 1339 e 1419, comma 2o, c.c. (59). Si è qui
( 59 ) La disposizione è stata recentemente modificata dall’art. 1, comma 1o, lett. g, d. legisl. 192/2012, che — fra l’altro — ne ha soppresso il precedente comma 3o, il quale attribuiva al giudice il potere di ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo, una volta dichiaratane la nullità (v., in proposito, M.C. Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto. Profili della nuova disciplina dei ritardi di pagamento, Padova 2004,
p. 117 ss.; S. Monticelli, Considerazioni sui poteri officiosi del giudice nella riconduzione
ad equità dei termini economici del contratto, in Contratto e impr., 2006, p. 215 ss.; C.
Chessa, Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale nelle transazioni commerciali, in questa Rivista, 2006, II, p. 443 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 140 ss. e p.
229 s.; sulla portata della riforma, v. il recente contributo di S. Pagliantini, L’integrazione,
cit., p. 414 ss.).
Il nuovo testo prosegue stabilendo che « [i]l giudice dichiara, anche d’ufficio, la nullità
della clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento
dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura
della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare
al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero » (comma 2o). Vengono inoltre fissate
due presunzioni di grave iniquità: l’una, assoluta, in relazione alla clausola che esclude
l’applicazione degli interessi moratorî (comma 3o); l’altra, relativa, per la clausola che
esclude il risarcimento dei costi di recupero delle somme dovute a titolo d’interessi moratorî
e non tempestivamente corrisposte (comma 4o).
Su questa normativa v. almeno C. Chessa, Il potere, cit., p. 439 ss., cui si rinvia anche
per il ragguardevole apparato bibliografico; G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p.
166 ss., ove si sottolinea come l’iniquità evocata dalla disposizione in esame non valga ad
altro che a richiamare l’abuso contrattuale (ivi, p. 174 ss.); G. Amadio, Nullità anomale e
conformazione del contratto (note minime in tema di « abuso dell’autonomia contrattuale »), in Letture sull’autonomia privata, Padova 2005, p. 233 ss.; A. Perrone, L’accordo
« gravemente iniquo » nella nuova disciplina sul ritardato adempimento delle obbligazioni
pecuniarie, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 65 ss.; S. Zucchetti, sub art. 7, in
Aa.Vv., La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Nuove l.
civ. comm., 2004, p. 571 ss.; A. Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento nei contratti
commerciali: prove (maldestre) di neodirigismo?, in R. d. priv., 2003, p. 715 ss.; D. Maffeis,
Abuso di dipendenza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, in
Contratti, 2003, p. 623 ss.; V. Pandolfini, La nullità degli accordi « gravemente iniqui »
nelle transazioni commerciali, ivi, p. 501 ss.; E. Minervini, La nullità per grave iniquità
dell’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento, in D.
banca e mer. fin., 2003, I, p. 189 ss.; R. Alessi, Transazioni commerciali e redistribuzione
tra le parti del costo del ritardato pagamento: per una lettura del d. lgs. 231/2002 al ripa-
580
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di fronte a una peculiare figura di eterodeterminazione della regola di validità
del contratto (60), di matrice non già normativa, ma giudiziale, basata sul criterio-guida dell’equilibrio contrattuale (61): il rinvio della norma all’equità
giudiziale, secondo il dettato della stessa legge, è uno strumento volto ad adeguare il contratto alle condizioni di mercato. Dispone, infatti, il comma 2o del
citato art. 7 che il giudice dichiari la nullità della clausola avuto riguardo, fra
l’altro, al « grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il
principio di buona fede e correttezza »: a dover guidare il giudicante nell’apprezzamento dell’iniquità della clausola non è, dunque, il suo personale senso
di giustizia, ma la consuetudine del mercato di riferimento (per individuare il
quale la legge richiama « la natura della merce o del servizio oggetto del contratto ») e il rispetto della clausola generale di buona fede.
Al rinvio all’equità operato dal d. legisl. 231/2002, da un lato, sembrano
attagliarsi le osservazioni dottrinali — più sopra ricordate — formulate qualche decennio addietro in ordine all’equità codicistica: anche nella normativa
in esame — per espressa previsione della stessa — l’equità funge da tramite
per la conformazione del contratto in base alle norme di esperienza desumibili dai rapporti di mercato (62). Dall’altro lato, tuttavia, il riferimento della disposizione alle clausole generali di buona fede e correttezza, di cui il giudice
deve tener conto nel valutare lo scostamento della pattuizione dalla prassi
commerciale, manifesta l’inclinazione del legislatore a sovrapporre tali strutture normative all’equità (63). Com’è stato osservato, ciò — di fatto — « significa abbandonare il canone equitativo e sostituirlo con il richiamo a clausole generali » (64) e — sul piano teorico — implica non tanto il riconoscimento del ruolo integrativo della clausola di buona fede (65), né una commiro dall’ambiguo richiamo all’« equità », in Studi Palazzo, III, Torino 2009, p. 1 ss.; C.M.
Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 118 ss.
( 60 ) Non più, invece, dello stesso contenuto contrattuale, dopo la modifica operata dal
d. legisl. 192/2012, su cui v. nt. prec.
( 61 ) V., in tal senso, G. Amadio, Nullità, cit., p. 234 s., il quale assimila l’ipotesi in esame a quella dell’eterodeterminazione in base alla normativa regolamentare delle Autorità
indipendenti (e segnatamente all’ipotesi di cui all’art. 117, comma 8o, d. legisl. 385/1993).
( 62 ) Cfr. S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 50 ss.
( 63 ) Osserva G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p. 189, come sia « arduo [...]
comprendere se [...] l’equità è mero strumento [sic] della buona fede o risulta criterio dominante ». Cfr. pure C. Chessa, Il potere, cit., p. 460 s., ove ulter. riferim. sul rapporto tra
equità e buona fede nella normativa in esame.
( 64 ) Così G. Amadio, Nullità, cit., p. 244 (cors. agg.); sull’estraneità del richiamo operato dalla normativa in esame all’equità vera e propria, v. pure G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p. 174 ss.
( 65 ) Il dibattito sul punto è noto. L’opinione secondo cui la buona fede esecutiva di cui
all’art. 1375 c.c. (regola la cui area d’incidenza coinciderebbe con quella dell’art. 1175
c.c.) deve ritenersi inclusa — pur nel silenzio dell’art. 1374, di cui la disposizione seguente
rappresenterebbe lo sviluppo — nel novero delle fonti d’integrazione del contratto è stata
sostenuta da S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 111 ss. e spec. p. 175 ss. In senso contrario, F.
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stione tra regole di validità e regole di comportamento (66), quanto piuttosto
Gazzoni, Equità, cit., p. 284 ss. (opinione successivamente confermata dall’A. nel suo Manuale, cit., p. 801), fondamentalmente in base alla considerazione che il ruolo integrativo
della buona fede si risolverebbe nella « svalutazione del criterio integrativo dell’equità e
[nel]la sostituzione ad esso del criter[i]o della correttezza » (Id., Equità, cit., p. 289), dal
momento che « non può essere utilmente operata una contrapposizione tra correttezza ed
equità » (ivi, p. 288), riconducibili entrambe ad « un medesimo ordine di idee » (ivi, p.
285) — cfr., in quest’ultimo senso, anche U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, in Tratt. Cicu-Messineo, XVI, 1, Milano 1974, p. 7 ss. e spec. p. 12 ss., e già, nel senso della non eterogeneità delle due figure, C. Grassetti, L’interpretazione, cit., p. 211 ss.
Delle due opinioni è stata la prima — fondata sul superamento della distinzione teorica
fra contenuto ed effetti del contratto (S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 77 ss. e spec. p. 89 ss.; v.
anche R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 421, e da ultimo C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 9 s.) — ad aver avuto storicamente la meglio (cfr. almeno
C.M. Bianca, Diritto civile. 3, cit., p. 472 ss.; v., inoltre, A. di Majo, Libertà, cit., p. 21 ss.;
M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e
impr., 1999, p. 83 ss.; A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, La buona fede, in Tratt.
Bessone, XIII, Torino 2004, p. 33 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim.; E. Capobianco,
La determinazione, cit., p. 413 ss., ove pure ulter. riferim.; P. Gallo, Contratto e buona fede. Buona fede in senso oggettivo e trasformazioni del contratto, Torino 2009, p. 407 ss.,
con ampia casistica giurisprudenziale; U. Breccia, Fonti, cit., p. 396 s.; da ultimo, M. Franzoni, Degli effetti, cit., p. 211 ss.; in chiave storica, G. Alpa, La completezza del contratto:
il ruolo della buona fede e dell’equità, in Aa.Vv., Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino 2002, p. 219 ss.), al punto che può ben dirsi ormai smarrito il senso
della distinzione tra equità e buona fede, entrambe autorevolmente ricondotte — nel segno
di un agnosticismo quanto mai franco e realista (cfr. M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 87)
— entro il generico contenitore delle « regole di opinione » (R. Sacco, in R. Sacco-G. De
Nova, Il contratto, cit., II, p. 431 ss., secondo cui « [l]e contrapposizioni fra un’equità dal
contenuto ineffabile, tutta legata al giudice e al giudizio, una correttezza oggettivizzata e
ben definibile, una buona fede come elemento di riferimento di una clausola generale, sono
il risultato di edificazioni teoriche che contrappongono i vari sistemi considerati in base a
caratteristiche che poi in realtà emergono o scompaiono a seconda dell’ottica in cui la regola di opinione viene osservata » [ivi, p. 433]; contra L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in R. crit. d. priv., 1986, p. 16, il quale rileva come la diffidenza verso
le clausole generali e la distinzione di esse da altre strutture normative (principî generali,
standards) sia destinata a perdurare « [f]ino a quando non saranno rimosse le difficoltà di
una discussione razionale sui valori » (una distinzione è stata recentemente tentata da E.
Capobianco, La determinazione, cit., p. 417 ss.).
L’opinione minoritaria sopra ricordata, tuttavia, è stata ultimamente sostenuta da C.
Scognamiglio, L’integrazione, cit., p. 1170 ss. e spec. p. 1173 ss., nonché, in termini più
netti, da A. Federico, Profili, cit., p. 85 ss., e da M. Barcellona, Clausole, cit., p. 150 ss. e
spec. p. 166 ss., del quale — per inciso — è pienamente condivisibile la considerazione (di
cui tener conto ai fini di una più approfondita indagine sul punto, e perfettamente riferibile
anche allo studio dell’equità civilistica) che « [l]a vicenda interpretativa degli artt. 1374 e
1375 [...] difficilmente si presta ad essere compresa nella dimensione decisamente pragmatica e a-temporale, che talvolta si vorrebbe dare alla scienza giuridica » (ivi, p. 65, e già in
Id., Un breve commento, cit., p. 524).
( 66 ) Infatti, i casi in cui la legge prevede l’invalidità del contratto iniquo sembrano riconducibili alla previsione di cui all’art. 1418, comma 3o, c.c.
In generale, sulla commistione tra i due ordini di regole nella giurisprudenza e nella legislazione, cfr. V. Roppo, Il contratto del duemila3, Torino 2011, p. 81 ss.; con particolare
riferimento alla buona fede oggettiva, A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 249
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
la tendenziale identificazione del canone equitativo con la clausola di correttezza. Non sembra potersi condividere del tutto, pertanto, l’affermazione
« che al centro del c.d. giudizio di equità [...] altro non vi sia se non l’equilibrio economico » (67): se ciò vale per altri provvedimenti normativi (68), non
può dirsi altrettanto per l’art. 7 d. legisl. 231/2002, laddove al criterio quantitativo si affianca, per espressa previsione di legge, quello relativo alla condotta delle parti.
A parte, tuttavia, quest’ultima norma, sembra che sull’equilibrio (o meglio il riequilibrio) economico siano effettivamente imperniati i rinvii normativi all’equità giudiziale (69) operati dalla legislazione speciale di derivazione
comunitaria. Il legislatore ha esteso così il presidio dell’adeguatezza economica dello scambio — attivo già da tempo in materia di lavoro subordinato (70) — a nuove e più ampie aree di contrattazione caratterizzate dall’asimmetria di potere contrattuale tra le parti (71), senza peraltro provvedere alla puntuale definizione quantitativa di tale equilibrio (72). È questa la
tecnica mediante la quale si è scelto di realizzare la giustizia contrattuale (in
senso normativo ed economico) (73), ponendo rimedio agli abusi dell’autonoss. In senso critico, v. in particolare E. Lucchini Guastalla, Obblighi informativi dell’intermediario finanziario e responsabilità nei confronti dell’investitore, nota ad App. Milano 19
dicembre 2006, in Resp. civ., 2007, p. 1679 ss.; Id., Violazione degli obblighi di condotta e
responsabilità degli intermediari finanziari, ivi, 2008, p. 741 ss., ove ulter. riferim.; da ultimo, Id., Il contratto e il fatto illecito, Milano 2012, p. 323 ss., ove si osserva che « la nullità
virtuale non può essere dichiarata che nei casi in cui la norma imperativa mira direttamente a impedire la conclusione del contratto, e non anche laddove essa tenda semplicemente
ad evitare la conclusione di un contratto svantaggioso » (ivi, p. 324).
( 67 ) Così, ancora, G. Amadio, Nullità, cit., p. 245 (cors. dell’A.). Sull’eversività dei vincoli normativi che impongono l’equilibrio contrattuale (originario), cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 74 ss., il quale ne rileva il carattere « tendenzialmente recessivo nell’evoluzione di un ordinamento sempre più informato a logiche di privatizzazione/liberalizzazione »
(ivi, p. 75).
( 68 ) Si pensi alla l. 192/1998, di cui si dirà tra breve.
( 69 ) Sui precedenti normativi in tema di congruità del corrispettivo contrattuale, v. le
sintetiche osservazioni di V. Roppo, Il contratto, cit., p. 77 s. Cfr. inoltre F. Galgano, Sull’equitas [sic] delle prestazioni contrattuali, in Contratto e impr., 1993, p. 419 ss.
( 70 ) Si vedano, pur nella loro diversa portata e con differenti implicazioni, gli artt. 36,
comma 1o, Cost. e 2125, comma 1o, c.c.
( 71 ) Requisito, quest’ultimo, peraltro non sempre « formalizzato » dalle normative in
esame: cfr. G. Amadio, Nullità, cit., p. 248 s.
( 72 ) Per tali considerazioni, v., amplius, V. Roppo, Il contratto, cit., p. 78 s., e ivi, p. 79
ss., circa l’estraneità a tale trend normativo della disciplina in tema di usura introdotta dalla
l. 108/1996 (sulla quale cfr. D. Russo, Sull’equità dei contratti, Napoli 2001, p. 135 ss.).
( 73 ) V., per l’evoluzione del concetto anche nel diritto italiano e per i suoi rapporti col
principio dell’autonomia privata, U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, in Tratt.
Bessone, XIII, Torino 1999, p. 71 ss.; G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in R.
d. priv., 2000, p. 21 ss., ove ampia bibliografia sul tema; E.M. Pierazzi, La giustizia del contratto, in Contratto e impr., 2005, p. 647 ss.; E. Navarretta, Buona fede oggettiva, contratti
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mia privata (74) al fine ultimo di assicurare la struttura concorrenziale del
mercato — « vero obiettivo del nuovo diritto europeo dei contratti d’impresa » (75). In questo modo, l’equità giudiziale è posta al servizio dell’idea di
giustizia contrattuale, rinsaldando un legame che già era stato colto, quasi
tre secoli fa, da Pothier, il quale vide nei contratti di scambio il regno dell’equità intesa come equilibrio economico (76).
In questo senso sembra doversi leggere le disposizioni del d. legisl. 206/
2005 (c.d. codice del consumo), il cui art. 2, comma 2o, lett. e, contempla fra
i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti quello « alla correttezza,
alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali ». E che anche in tal
caso l’equità debba intendersi come principio di giustizia contrattuale è parso
emergere dall’art. 33, comma 1o, del medesimo provvedimento, in base al
quale « [n]el contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a
carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi
derivanti dal contratto » (77).
di impresa e diritto europeo, in questa Rivista, 2005, I, p. 507 e spec. p. 525 ss.; Ead., Causa
e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma, in Aa.Vv., Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma? (atti del convegno per il cinquantenario di questa Rivista svoltosi a Treviso nel marzo 2006), Padova 2006, p. 411 ss., ove ulter. riferim.; più di
recente, A. Cataudella, La giustizia, p. 624 ss. Sui rapporti tra buona fede oggettiva e giustizia contrattuale v. l’ampia analisi di A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 155 ss.
( 74 ) Cfr. G. Amadio, Nullità, cit., p. 246 ss., il quale, rilevato il carattere paradossale di
tale espressione con riferimento al paradigma codificato dell’autonomia, compie un tentativo di tracciare i limiti (de iure condito) del sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale.
V., inoltre, la relazione governativa al d. legisl. 231/2002 (cit. da E. Minervini, La nullità,
cit., p. 198 s.), secondo cui « l’opzione normativa in favore della sanzione di nullità è sistematicamente giustificata dalla considerazione che il legislatore comunitario reprime la violazione di una norma imperativa di divieto di abuso della libertà contrattuale ». Osserva,
infatti, G. Vettori, Autonomia, cit., p. 37, che « non è rilevante lo squilibrio in sé, ma in
quanto frutto di un abuso o di un contegno in mala fede ».
( 75 ) Così, ancora, G. Amadio, Nullità, cit., p. 252. Sul legame fra giustizia contrattuale e
concorrenza v. R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., I, p. 22 ss. e spec. p. 26 ss.
( 76 ) R.J. Pothier, Traité des obligations, selon les regles tant du for de la conscience,
que du for extérieur2, I, Paris-Orléans 1764, p. 45 s.: « [l]’équité doit regner dans les conventions, d’où il fuit que dans les contrats intéressés dans lesquels l’un des contractans donne ou fait quelque chose, pour recevoir quelqu’autre chose comme le prix de ce qu’il donne
ou de ce qu’il fait, la lésion que souffre l’un des contractans, quand même l’autre n’auroit
recours à aucun artifice pour le tromper, est seule suffissante par elle-même pour rendre
ces contrats vicieux. Car l’équité en fait de commerce consistant dans l’égalité, dès que cette égalité est blessée, et que l’un des contractans donne plus qu’il ne reçoit; le contrat est vicieux, parce qu’il peche contre l’équité qui y doit regner ». Una simile impostazione si ritrova, nella nostra dottrina, nel pensiero di N. Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla
estinzione delle obbligazioni, Ranciano 1895, p. 190, ove ulter. riferim.
( 77 ) V. in tal senso G. De Nova, Contratto: per una voce, in R. d. priv., 2000, p. 653, sia
pure con riferim. agli abrogati artt. 1, comma 2o, lett. e, l. 30 luglio 1998, n. 281, e 1469 bis,
comma 1o, c.c., omologhi degli attuali artt. 2, comma 2o, lett. e, e 33, comma 1o, d. legisl.
206/2005 (il saggio si ritrova in Id., Il contratto. Dal contatto atipico al contratto alieno, Pa-
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Significativa è pure la norma che, in tema di abuso di dipendenza economica nei rapporti tra imprese, prevede la nullità del contratto attraverso il
quale l’abuso si realizzi, determinando « nei rapporti commerciali [...] un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi » anche mediante l’« imposizione di
condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose » (art. 9, commi 1o, 2o e
3o, l. 192/1998) (78). E sempre in quest’ultima normativa si ritrova la disposizione che sancisce la nullità del « patto con cui il subfornitore disponga, a
favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale » (art. 6, comma 3o).
La tendenza legislativa in esame ha visto accrescere la propria portata
col recente art. 62 d.l. 1/2012 (79), il quale, pur non contenendo espressi richiami all’equità (80), merita di essere qui segnalato per la sua affinità con le
fattispecie normative poc’anzi evocate.
dova 2011, p. 1 ss.); F. Gazzoni, Manuale, cit., p. 799 s.; amplius, F. Camilletti, L’art. 2 del
Codice del consumo e i diritti fondamentali del consumatore nei rapporti contrattuali, in
Contratti, 2007, p. 907 ss. e spec. p. 915, secondo il quale « la nozione di equità di cui all’art.
2 va letta in relazione all’art. 33 comma 1o » (ibid.); ulter. riferim. sul punto in A.M. Mancaleoni, sub art. 2, in G. De Cristofaro-A. Zaccaria, Commentario breve al diritto dei consumatori (Codice del consumo e legislazione complementare), Padova 2010, p. 63. Di diverso
avviso appare G. Vettori, sub art. 2, in Aa.Vv., Codice del consumo annotato con la dottrina
e la giurisprudenza, Napoli 2009, p. 13 ss. e spec. p. 15. Sulla questione se lo squilibrio rilevante ex art. 33, comma 1o, d. legisl. 206/2005 debba intendersi in senso puramente normativo o anche economico — come l’art. 34, comma 2o, del medesimo provvedimento parrebbe
escludere —, v. per tutti S. Troiano, sub art. 33, in G. De Cristofaro-A. Zaccaria, Commentario, cit., p. 248 ss. (ove ulter. riferim.), il quale condivisibilmente rileva che « qualsiasi
clausola del contratto [...] è potenzialmente in grado di incidere sulla convenienza anche economica dell’affare [...] in quanto il contratto è, per definizione, strumento per regolare la sfera dei rapporti patrimoniali dei contraenti » (ivi, p. 249).
( 78 ) V., sul punto, D. Russo, Sull’equità, cit., p. 81 ss.; D. Maffeis, Abuso, cit., p. 623
ss., ove ulter. riferim.; C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 150 ss.
( 79 ) Il provvedimento, recante « Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo
delle infrastrutture e la competitività », è stato conv. con l. 27/2012. Le modalità applicative dell’articolo in parola sono poi state specificate (come previsto dal comma 11o bis dello
stesso) dalla normativa secondaria del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali con d.m. 199/2012, recante il relativo « Regolamento di attuazione ». Su tale normativa v. almeno l’ampio commento di L. Russo, I contratti di cessione dei prodotti agricoli e
alimentari (e quelli di cessione del latte crudo): nuovi tipi contrattuali per il mercato
agroalimentare?, in Nuove l. civ. comm., 2013, p. 199 ss. (con ulter. riferim. ivi, p. 212, nt.
36), e quello di S. Rizzioli, La disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione
di prodotti agricoli e alimentari tra prospettive di diritto dell’Unione Europea e legislazione
alimentare interna, ivi, p. 239 ss., nonché — da ultimo — A.M. Benedetti-F. Bartolini, La
nuova disciplina dei contratti di cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari, in questa
Rivista, 2013, p. 641 ss., e S. Pagliantini, Il « pasticcio » dell’art. 62, l. n. 221/2012: integrazione equitativa di un contratto parzialmente nullo o responsabilità precontrattuale da
contratto sconveniente?, in G. D’Amico-S. Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione
del contratto. Saggi, Torino 2013, p. 171 ss., ove ulter. riferim.
( 80 ) Può tuttavia condividersi l’opinione di L. Russo, I contratti, cit., p. 227, il quale ricostruisce la ratio della normativa in parola con riferimento all’inadeguatezza del diritto comune a « ricondurre ad una “equità sostanziale” i rapporti tra gli operatori della filiera agroalimentare ».
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L’articolo, rubricato « Disciplina delle relazioni commerciali in materia
di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari », esordisce con una disposizione dedicata ai « contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti
agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale », prevedendone requisiti di forma e contenuto, e stabilendo che essi « devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e
reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti »
(comma 1o) (81). La norma prosegue con una previsione dall’ambito di applicazione apparentemente assai più ampio (82), secondo cui, « [n]elle relazioni
commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad
oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1o, è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni
contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali
e retroattive; b) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni
equivalenti; c) subordinare la conclusione, l’esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di
prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto degli uni e delle altre;
d) conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o
dal contenuto delle relazioni commerciali; e) adottare ogni ulteriore condotta
commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento »
(comma 2o) (83).
La portata civilistica di tali disposizioni — e, in particolare, la loro idoneità a determinare, se violate, la nullità del contratto (84) — potrebbe apparire dubbia, in primo luogo, per l’eliminazione, sopraggiunta dopo l’emana( 81 ) Bisogna segnalare che tale comma è stato così modificato dall’art. 36 bis d.l. 179/
2012 (conv. con l. 221/2012), il quale ha fra l’altro eliminato l’espressa comminatoria di
nullità che accompagnava le prescrizioni contenutistiche di cui al primo periodo. Sull’effettiva portata di tale modifica, v. però le considerazioni di L. Russo, I contratti, cit., p. 218
ss.
( 82 ) Ma v. L. Russo, I contratti, cit., p. 220, secondo cui il comma 2o della disposizione
andrebbe letto « all’interno del contesto generale di riferimento, [...] intende[ndo] il riferimento agli operatori economici non in senso generale ma pur sempre limitato a coloro che
operano all’interno delle filiere agroalimentari » (conf. S. Rizzioli, La disciplina, cit., p.
261).
( 83 ) Sui rapporti fra la normativa in parola e gli artt. 9 l. 192/1998 e 7 d. legisl. 231/
2002, cui si è accennato più sopra, v. L. Russo, I contratti, cit., p. 223 ss., ad avviso del
quale i commi 1o e 2o dell’art. 62 d.l. 1/2012 dovrebbero considerarsi norme speciali rispetto al citato art. 9 l. 192/1998 (ivi, p. 225).
( 84 ) Sul punto, cfr. ancora L. Russo, I contratti, cit., p. 221, il quale propende, seppure
dubitativamente, per l’esclusione dell’invalidità (ivi, nt. 62), salvo prospettare la nullità ex
art. 9 l. 192/1998 delle clausole contra legem (ivi, p. 226; v. nt. prec.). Da ultimo, in senso
nettamente contrario alla nullità virtuale, v. A.M. Benedetti-F. Bartolini, La nuova disciplina, cit., p. 646 ss.
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zione della norma, dell’espressa comminatoria di nullità che accompagnava le
prescrizioni contenutistiche di cui al primo periodo del comma 1o (85) e, secondariamente, per la circostanza che la repressione della violazione dei commi 1o e 2o è affidata a sanzioni pecuniarie di natura amministrativa, sulla cui
irrogazione è chiamata a vigilare l’Autorità garante per la concorrenza e il
mercato (commi 5o, 6o e 8o) (86). Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, deve ricordarsi come la previsione di una sanzione extracivilistica per il caso di violazione di una norma non sia affatto idonea, di per sé, ad escludere l’invalidità dell’atto, occorrendo pur sempre un’indagine circa l’incompatibilità o la
cumulabilità di quella sanzione con l’altra, civilistica, dell’invalidità (87). Sotto il primo profilo, invece, sembra difficile non scorgere nel comma 2o una
norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, comma 1o, c.c. (88) — di talché la
sua violazione determinerebbe la nullità (virtuale) del contratto —, sia che si
aderisca all’impostazione per cui la nullità andrebbe esclusa quando, ricostruita la ratio della norma violata, questa appaia espressione d’interessi non
già generali, ma meramente settoriali (89), sia che si ritenga necessaria un’indagine condotta sulla scorta di criterî diversi, volta a « individuare la natura,
indisponibile o meno, dell’interesse [...] protetto, e così valutare [...] se la
conseguenza della nullità appaia congruente o si riveli invece esorbitante rispetto alla ratio della disposizione disattesa » (90): infatti, sembra fondato ritenere che l’obbiettivo di politica legislativa consistente nella garanzia dell’equilibrio contrattuale — pur trovando i proprî punti di emersione in peculiari e ben determinati settori dell’ordinamento (peraltro sempre più numero( 85 ) V. supra, nt. 81.
( 86 ) Ad avviso di L. Russo, I contratti, cit., p. 226, tale apparato sanzionatorio « segnala la sostanziale inadeguatezza del sistema della responsabilità civile [...] tutte le volte in
cui le norme di legge tendono a conformare il contenuto di contratti conclusi in serie ».
( 87 ) Cfr. almeno G. Passagnoli, Il contratto illecito, in Tratt. Roppo, II, cit., p. 444.
( 88 ) V. in tal senso S. Pagliantini, Il « pasticcio », cit., p. 178 ss. Il « carattere cogente »
della normativa in esame è, inoltre, espressamente affermato da L. Russo, I contratti, cit.,
p. 230. Fin troppo noto è il dibattito circa il fondamento dell’imperatività della norma ai fini della nullità virtuale: sul punto, basti rinviare a G. Passagnoli, Il contratto, cit., p. 439
ss., ove sono ricostruite (con dovizia di riferim.) le fondamentali posizioni della dottrina sul
punto — da quella che scorge il tratto distintivo dell’imperatività nell’inderogabilità a quella che ha riguardo al fondamento giuridico del divieto normativo (a seconda che vi si possa
scorgere, o no, una ratio d’interesse generale).
( 89 ) Cfr. per tutti F. Gazzoni, Manuale, cit., p. 997: trattasi di un’impostazione ben radicata nella giurisprudenza (v. almeno Cass. 3 settembre 2001, n. 11351, in Rep. F. it.,
2001, Tributi in gen., p. 1178, secondo cui « le norme tributarie, essendo poste a tutela di
interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione
che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali, che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico »; numerosi
altri riferim. in M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in Tratt. Roppo, IV, Milano
2006, p. 44 s.).
( 90 ) Così M. Mantovani, Le nullità, cit., p. 47.
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si) — non possa più riguardarsi, oggi, come un’istanza di carattere meramente settoriale (91), e che la sanzione della nullità sia proporzionata alla violazione di una disposizione — quale l’art. 62, comma 2o, d.l. 1/2012 —
evidentemente volta a impedire un determinato « risultato » negoziale.
5. — L’equità compare anche nell’ambito dei Principles of European
Contract Law, elaborati dalla Commission on European Contract Law presieduta da Ole Lando, in particolare nella disposizione dedicata all’eccessiva
onerosità sopravvenuta dell’esecuzione del contratto per « Change of Circumstances » (art. 6:111). È infatti stabilito che, in tale ipotesi, « the parties are
bound to enter into negotiations with a view to adapting the contract or terminating it » (§ 2), e che, ove non intervenga un accordo delle parti « within
a reasonable period », al giudice sono attribuiti due poteri fra loro alternativi:
« the court may [...] end the contract at a date and on terms to be determined
by the court; or [...] adapt the contract in order to distribute between the parties in a just and equitable manner the losses and gains resulting from the
change of circumstances » (§ 3). Un riferimento all’equità può ritrovarsi anche nei principî che fanno riferimento alla fairness del regolamento contrattuale: così — in chiave rimediale — nell’art. 4:109 in tema di « Excessive Benefit or Unfair Advantage » e nell’art. 4:110 in tema di « Unfair Terms not
Individually Negotiated », ma pure — in materia d’interpretazione — all’art.
5:102.
Significativa, poi, è la previsione dell’art. 6:102 (rubricato « Implied Terms ») in tema d’integrazione del contratto: la disposizione afferma che, « [i]n
addition to the express terms, a contract may contain implied terms which
stem from [...] the intention of the parties, [...] the nature and purpose of the
contract, and [...] good faith and fair dealing ». La buona fede rientra a pieno titolo, dunque, tra le fonti d’integrazione del contratto, accanto al fair
dealing: può quindi ritenersi che nella soft law europea sia stata senz’altro superata, a favore di un’espansione dell’area d’influenza della clausola generale
di buona fede, la limitazione — sostenuta da una parte della dottrina italiana (92) — della rilevanza di quest’ultima al solo momento esecutivo del contratto.
Nel più recente Draft Common Frame of Reference, che in parte costituisce l’evoluzione dei predetti Principles, vengono sostanzialmente conservate
numerose disposizioni contenute in questi ultimi. Si pensi, ad esempio, alla
previsione del potere giudiziale di « vary the obligation in order to make it
reasonable and equitable in the new circumstances » (art. III. — 1:110, § 2,
lett. a) — previsione estesa, nel Draft, all’obbligazione in generale, indipendentemente dalla fonte di essa. Viene conservata anche la regola dell’integra( 91 ) Cfr. G. Vettori, Autonomia, cit., p. 33 ss., il quale reputa lecita la domanda se
possa parlarsi di un nuovo ordine giuridico in fase di formazione.
( 92 ) V. supra, nt. 65.
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zione del contratto in base ai « requirements of good faith and fair dealing »
(art. II. — 9:101), la cui portata appare — per converso — limitata rispetto
ai Principles, dal momento che l’integrazione sembra essere riservata al giudice (§ 2: « [w]here it is necessary to provide for a matter which the parties have not foreseen or provided for, a court may imply an additional term [...] »)
ed è espressamente esclusa nei casi in cui « the parties have deliberately left a
matter unprovided for, accepting the consequences of so doing » (§ 4).
Ma ciò che appare più significativo è che il Draft riservi un’intera sezione
(la quarta del capitolo IX — dedicato a « Contents and effects of contracts »
— del libro II) agli « Unfair terms », ossia alle condizioni contrattuali inique,
cui è riservata una disciplina articolata in dieci disposizioni di carattere inderogabile (come dispone l’art. II. — 9:401) (93).
Tale disciplina è riferita in prevalenza ai contratti conclusi tra un consumatore e un professionista, e proprio con riferimento a questi essa fonda anzitutto
una presunzione d’iniquità sulla mancata redazione e comunicazione delle condizioni predisposte unilateralmente (« terms not individually negotiated ») in forma semplice e chiara (« plain, intelligible language ») (art. II. — 9:402) (94).
Al di fuori di tale presunzione, l’unfairness delle condizioni dev’essere valutata alla stregua delle definizioni fornite dagli artt. II. — 9:403, II. — 9:404
e II. — 9:405, relative rispettivamente ai contratti del consumatore, a quelli
conclusi « between non-business parties » e a quelli « between businesses ».
Nei primi, « a term [not individually negotiated] is unfair [...] if it is supplied
by the business and if it significantly disadvantages the consumer, contrary to
good faith and fair dealing ». Nei secondi, invece, « a term is unfair [...] only
if it is a term forming part of standard terms supplied by one party and significantly disadvantages the other party, contrary to good faith and fair dealing ». Infine, nei terzi, « [a] term [...] is unfair [...] only if it is a term forming part of standard terms supplied by one party and of such a nature that
its use grossly deviates from good commercial practice, contrary to good faith
and fair dealing » (95).
Alla iniquità delle condizioni contrattuali consegue, ai sensi dell’art. II.
— 9:408, l’inefficacia delle stesse per la parte che non le abbia predisposte,
fermo restando che, « [i]f the contract can reasonably be maintained without
the unfair term, the other terms remain binding on the parties ». La sezione si
( 93 ) Al di fuori di tale sezione, una norma particolare è dettata dall’art. III. — 3:711, in
tema di « Unfair terms relating to interest », ove si precisa che l’unfairness di un termine di
pagamento degli interessi si riscontra laddove quest’ultimo « grossly deviates from good
commercial practice, contrary to good faith and fair dealing » (§ 3).
( 94 ) La disposizione in discorso, infatti, sancisce che, « [i]n a contract between a business and a consumer a term which has been supplied by the business in breach of the duty
of transparency imposed [...] may on that ground alone be considered unfair ».
( 95 ) L’art. II. — 9:406 stabilisce alcune esclusioni dall’« unfairness test »: si tratta delle
condizioni basate su disposizioni della legge sostanziale applicabile, su convenzioni internazionali o sulle stesse regole del Draft.
SAGGI
589
conclude con un lungo elenco di clausole che, nei contratti del consumatore,
si presumono inique se predisposte dal professionista (art. II. — 9:410).
Coerentemente con la ricerca del rigore terminologico che ne ha animato
la redazione, il Draft definisce in modo espresso good faith and fair dealing
(art. I. — 1:103), unificandoli in un’endiadi che ricorda quella domestica di
buona fede e correttezza: il sintagma, infatti, « refers to a standard of conduct
characterised by honesty, openness and consideration for the interests of the
other party to the transaction or relationship in question » (§ 1) (96).
6. — La dottrina italiana più recente appare saldamente attestata su un
concetto di equità corrispondente a quello di equilibrio contrattuale (97) e di
« giusta proporzione delle prestazioni » (98). In un quadro normativo in cui
l’iniquità sanzionata dalla legge corrisponde, in definitiva, all’abuso della libertà negoziale (99), l’equità — per converso — non rappresenta altro che il
criterio del corretto esercizio di quella stessa libertà. Tale concetto finisce, così, per coincidere con quello di buona fede oggettiva (100), al punto che non
( 96 ) Il § 2 della disposizione soggiunge che « [i]t is, in particular, contrary to good faith
and fair dealing for a party to act inconsistently with that party’s prior statements or conduct when the other party has reasonably relied on them to that other party’s detriment ».
Può segnalarsi, infine, che l’importanza dell’equità nel Draft emerge con evidenza dalla
circostanza che essa riveste un ruolo determinante anche in settori disciplinari estranei a
quello contrattuale, divenendo per es. criterio decisivo al fine di fondare la responsabilità
dell’incapace naturale: v., infatti, l’art. VI. — 5:301 in tema di « Mental incompetence »,
secondo cui « [a] person who is mentally incompetent at the time of conduct causing legally
relevant damage is liable only if this is equitable, having regard to the mentally incompetent person’s financial means and all the other circumstances of the case [...] » (§ 1); si vedano, inoltre, gli artt. V. — 2:102, § 2, sulla responsabilità del gestor alieni negotii, V. —
3:104, § 2, sui diritti del medesimo, VI. — 2:101, §§ 2 e 3, sull’individuazione dei danni
risarcibili in materia di responsabilità aquiliana, VI. — 6:103 sui limiti alla compensatio
lucri cum damno e VI. — 6:202 sulla riduzione equitativa del risarcimento.
( 97 ) V. almeno F. Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, in R. trim. d.
proc. civ., 1999, p. 837 ss.; M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 83 ss.; F.D. Busnelli, Note, cit.,
p. 537 ss., cui si rinvia anche per i numerosi riferim.; D. Russo, Sull’equità, cit., p. 18 ss.; N.
Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in R. trim. d. proc. civ., 2006, p. 726 ss.; da ultimo, U. Breccia, Fonti, cit., p. 418.
( 98 ) Così R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 116, secondo cui per
l’invalidazione di un accordo economicamente iniquo basterebbe ricorrere alla regola del
buon costume, posto che « [i]l legislatore ha condannato il contratto contrario al buon costume per salvaguardare l’esigenza di colpire i contratti immorali, e i contratti lesivi della
giustizia, dell’equità e della buona fede sono immorali »; si richiama all’ordine pubblico,
invece, U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, cit., 195 ss. In senso contrario a
entrambe le opinioni v. A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 222 ss.
( 99 ) Cfr., in tal senso, S. Zucchetti, sub art. 7, cit., p. 578, ove ulter. riferim.
( 100 ) In tal senso cfr. R. Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, in Aa.Vv., Diritto
privato 1997. III. L’abuso del diritto, Padova 1998, p. 217 ss., secondo cui « [r]egola di
buona fede e divieto di abusare della libertà non sono entità né diverse, né lontane, né incompatibili » (ivi, 234).
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parrebbe avventato parlare di un ritorno a quell’antica fusione sostanziale di
equità e buona fede nel segno di un’idea di giustizia commutativa (101) che
ancora traspariva nel pensiero di Domat (102). Ciò, se da un lato conferma la
validità dell’orientamento oggi prevalente in ordine alla tradizionale questione dell’inclusione della buona fede nel novero delle fonti d’integrazione del
contratto (103), non sembra richiedere d’altro canto un ripensamento della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento (104), posto che i casi in cui la legge prevede l’invalidità del contratto iniquo appaiono riconducibili alla previsione di cui all’art. 1418, comma 3o, c.c.
Possono rilevarsi, a questo punto, due generali linee di evoluzione del sistema.
Da una parte, l’appiattimento del concetto di equità sulle regole di mercato sembra aver condotto a una sostanziale trasmutazione della stessa in una
( 101 ) Cfr. F.D. Busnelli, Note, cit., p. 537 s., ove riferim. sul punto.
( 102 ) J. Domat, Les loix civiles dans leur ordre natureln.e., I, Paris 1777, p. 24, dove si
legge che « c’est par l’équité naturelle que l’associé est obligé de prendre soin de l’affaire
commune, qui est en ses mains », risolvendosi dunque l’equità in una fonte di obblighi di
correttezza (conf. G. Alpa, La completezza, cit., p. 223).
( 103 ) V. supra, nt. 65. Non è possibile soffermarsi in questa sede sui rapporti tra l’equità,
la buona fede e il concetto di ragionevolezza, assunto come equivalente semantico della reasonableness di derivazione anglosassone, ossia come « indice di giustizia nell’applicazione
delle leggi » (A. Ricci, La ragionevolezza nel diritto privato: prime riflessioni, in Contratto e
impr., 2005, p. 630; cfr. anche U. Breccia, Fonti, cit., p. 397 s., che qualifica espressamente
il concetto come clausola generale). Tale concetto è stato recentemente fatto oggetto d’indagine da parte di una dottrina, al fine d’individuarne uno spazio di autonomia: si è affermato,
così, che ragionevolezza e buona fede tenderebbero bensì al medesimo risultato di giustizia,
ma che mentre questa costituirebbe una regola etica di condotta, quella si caratterizzerebbe
per una più spiccata oggettività, rinviando alla razionalità umana e a criterî di normalità sociale (cfr. A. Ricci, La ragionevolezza, cit., p. 644; amplius, S. Troiano, La « ragionevolezza » nel diritto dei contratti, Padova 2005, p. 458 ss. [per una sintesi, Id., « Ragionevolezza »
e concetti affini: il confronto con diligenza, buona fede ed equità, in Obbl. contr., 2006, p.
679 ss.]; peraltro, se già da tale sistemazione emerge la labilità del criterio distintivo tra le
due figure, ogni alterità sembra smarrirsi allorché si sostiene che, « [d]i fatto, la ragionevolezza è “misura” anche della buona fede, atteso che questa può essere invocata solo nei limiti
di un suo ragionevole uso » [A. Ricci, La ragionevolezza, cit., p. 645]); che dal criterio della
diligenza la ragionevolezza si distinguerebbe per il maggior grado di discrezionalità che questa lascia all’interprete, « arresta[ndosi] ad uno stadio di specificazione anteriore rispetto a
quello espresso dalla indicazione normativa di precisi gradi di diligenza » (così S. Troiano,
La « ragionevolezza », cit., p. 335 ss. e spec. p. 354, donde è tratta la citaz.; ma anche questa
distinzione viene sminuita dal rilievo che la ragionevolezza è talvolta un equipollente della
diligenza, mentre altre volte evoca un modello di condotta analogo a quello imposto dalla regola della buona fede [ivi, p. 189 ss.]); che, con riferimento all’equità, potrebbe parlarsi di
una sostanziale coincidenza dei concetti quantomeno nelle ipotesi in cui la ragionevolezza è
assunta a criterio di garanzia dell’equilibrio contrattuale (ivi, p. 443 ss.). Da ultimo, sul punto, v. S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, in R. trim. d. proc. civ., 2012, p. 1 ss., in
senso critico circa l’inclusione della ragionevolezza nel novero delle clausole generali (spec.
ivi, p. 10 s.; tale saggio si ritrova ora in Id., Ragionevolezza, cit., p. 7 ss.).
( 104 ) Qualche essenziale riferim. sul punto è stato fornito sub nt. 66.
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591
clausola generale analoga a quella di buona fede (105). È ben nota la voce dottrinale che, quasi trent’anni or sono, constatava l’esigenza di liberare la buona
fede da ogni commistione con l’equità (106), marcando il confine tra le due figure, che hanno bensì entrambe « la funzione di promuovere la piena realizzazione dello scopo del contratto » (107), ma mentre « questa funzione è adempiuta
dal giudice, quando è costituito dalla legge ministro di equità, integrando o
adattando il regolamento negoziale per conformarlo a esigenze di giustizia provenienti da circostanze di fatto peculiari, [...] il giudizio secondo buona fede
svolge una valutazione del contratto alla stregua di tipi normali di comportamento riconosciuti come norme sociali, dai quali il giudice trae un criterio di
interpretazione del regolamento negoziale oppure un criterio di esplicitazione
di modalità esecutive » (108). Sennonché, l’aver adottato un concetto di equità
in gran parte svincolato da quello di « giustizia del caso concreto », ha finito
con l’investire la stessa equità della funzione — propria delle clausole generali
— « di conservazione di aspettative fondate su modelli di condotta già consolidati dall’esperienza » (109) e, segnatamente, dalla pratica del mercato (110).
Per altro verso, può constatarsi come la legislazione, assumendo l’equità giudiziale come regola di validità delle convenzioni, abbia fatto propria la tecnica
sanzionatoria indicata da chi aveva delineato un intervento cogente dell’equità in
funzione di ristrutturazione del regolamento contrattuale iniquo (111). È, quindi,
attraverso lo strumento della nullità che il legislatore d’ispirazione comunitaria
va oggi alla ricerca del « punto di equilibrio tra la tutela del mercato e la garanzia
della persona, due sfere che la cultura sottostante al nostro codice civile riteneva,
salvo casi limite, del tutto indipendenti ed autonome » (112).
( 105 ) A ciò si è già accennato sub nt. 65.
( 106 ) Si tratta, naturalmente, del pensiero di L. Mengoni, Spunti, cit., p. 8.
( 107 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 13.
( 108 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 13. Sulle clausole generali, v. inoltre — anche per ulter. riferim. — A. Guarneri, Clausole generali, in Dig. disc. priv. - sez. civ., II, Torino 1988,
p. 403 ss.; più di recente, V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano 2010, ed E. Fabiani, voce Clausola generale, in Enc. dir., Ann., V, Milano 2012,
p. 183 ss., ove ampia bibliografia. Da ultimo, S. Patti, L’interpretazione delle clausole generali, in questa Rivista, 2013, p. 263 ss. (nonché in Id., Ragionevolezza, cit., p. 33 ss.; ma
v. pure, dello stesso A., Clausole generali e discrezionalità del giudice, in R. not., 2010, I,
p. 303 ss., e ora anche in Studi Cataudella, III, Napoli 2013, p. 1693 ss.).
( 109 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 14.
( 110 ) Il rilievo sembra essere condiviso da M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 87, secondo il
quale, « [s]e è sulla base del mercato che l’integrazione del contratto secondo equità tende ad
uniformarsi, la differenza tra questa e le clausole generali [...] si assottiglia notevolmente ».
( 111 ) Si tratta dell’opinione, più sopra riferita, di F. Gazzoni, Equità, cit., p. 324 ss.
( 112 ) Sono parole di N. Lipari, Per una revisione, cit., p. 735 s.; secondo tale A., il tema
del « contratto giusto » rappresenta « il nervo scoperto dell’esperienza giuridica del nostro
tempo » (ivi, p. 735). In merito a tale utilizzo della nullità, v. E. Navarretta, Causa e giustizia, cit., p. 425 ss., ove ulter. riferim.; più in generale, per una critica al ricorso eccessi-
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Sempre più numerose sono le epifanie normative dell’equità nell’ambito
delle leggi speciali, anche fuori dal campo contrattuale. Per limitarsi ai provvedimenti più recenti — e a tacere delle disposizioni di carattere più marcatamente pubblicistico, fra cui quelle in tema di equità dei conti pubblici (113) o
nell’accesso all’assistenza sanitaria (114), nonché di quelle (più prossime al
terreno privatistico) informate al principio di equità retributiva (115) —, la figura in esame è evocata dall’art. 2, comma 1o, lett. p, l. 180/2011 nell’ambito
dell’elencazione dei « principi generali [...] che concorrono a definire lo statuto delle imprese e dell’imprenditore ».
In particolare, quest’ultima disposizione sancisce « il riconoscimento e la
valorizzazione degli statuti delle imprese ispirati a principi di equità, solidarietà e socialità », anche al fine di « garantire alle imprese condizioni di equità
funzionale operando interventi di tipo perequativo per le aree territoriali sottoutilizzate » (art. 2, comma 1o) (116). E l’equità, sub specie di « equità sociale », viene evocata in materia imprenditoriale anche dalla norma istitutiva del
Fondo per la crescita sostenibile, di cui all’art. 23 d.l. 83/2006 (117), volto a
« favorire la crescita sostenibile e la creazione di nuova occupazione nel rispetto delle contestuali esigenze di rigore nella finanza pubblica e di equità sociale,
in un quadro di sviluppo di nuova imprenditorialità, con particolare riguardo
al sostegno alla piccola e media impresa e di progressivo riequilibrio socio-economico, di genere e fra le diverse aree territoriali del Paese » (comma 1o).
In ciò può forse ritrovarsi un’ulteriore conferma della vocazione « mercatista » dell’equità come strumento nelle mani del legislatore. Ma se anche
oggi — specialmente con riferimento a disposizioni come quella del già evocato art. 7 d. legisl. 231/2002 — si possono replicare le parole di chi, oltre
vamente « disinvolto » alla nullità da parte del legislatore, v. E. Lucchini Guastalla, Nullità della compravendita immobiliare per contrarietà a norma regionale: il caso della certificazione energetica, in Studi Lipari, I, Milano 2008, p. 1451 ss., nonché — da ultimo — Id.,
Il contratto, cit., p. 325.
( 113 ) Si veda, da ultimo, il d.l. 201/2011 (conv. con l. 214/2011) recante « Disposizioni
urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici ».
( 114 ) Il riferimento è all’art. 5, comma 1o, d.l. 158/2012 (conv. con l. 189/2012) recante « Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello
di tutela della salute ».
( 115 ) Si veda la l. 233/2012 in tema di « Equo compenso nel settore giornalistico ».
( 116 ) Con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese situate in « aree
sottoutilizzate », l’art. 16, comma 4o, stabilisce che « lo Stato garantisce [...] l’adozione di
misure volte a garantire e rendere più effettivo il principio di equità e di libera concorrenza
nel pieno rispetto della normativa dell’Unione europea ».
( 117 ) Tale provvedimento, recante « Misure urgenti per la crescita del Paese », è stato
conv. con l. 134/2012. Il Fondo da esso istituito è « destinato [...] al finanziamento di programmi e interventi con un impatto significativo in ambito nazionale sulla competitività
dell’apparato produttivo », con riguardo — fra l’altro — alla « promozione di progetti di ricerca, sviluppo e innovazione di rilevanza strategica per il rilancio della competitività del
sistema produttivo » (comma 2o).
SAGGI
593
trent’anni fa, rilevava come « l’idea di un’ampia ed autentica libertà del singolo imprenditore molto spesso sia più apparente che reale » (118), potendo il
giudice sindacare l’equilibrio contrattuale raggiunto dagli agenti economici
nell’esercizio della propria autonomia, non deve dimenticarsi che tale sindacato è ancora confinato entro ben precisi settori dell’ordinamento (119) e nel
( 118 ) G. Iudica, Autonomia dell’imprenditore privato e interventi pubblici, Padova
1980, p. 83.
( 119 ) Non mancano, peraltro, voci favorevoli a un’estensione della tutela dell’equilibrio contrattuale a favore dei « contraenti deboli » oltre i settori specifici interessati dalla normazione in
esame, per il tramite di un’interpretazione evolutiva dell’art. 1366 c.c.: così F.D. Busnelli, Note, cit., p. 552; cfr. anche F. Criscuolo, Il giudizio dell’arbitro di equità e l’equità del contratto,
nota ad Arb. Genova 31 maggio 2001, in R. arbitrato, 2001, p. 762 ss. e spec. p. 768 s.
Più di recente, si è ipotizzata — peraltro con espressa riserva di ulteriore approfondimento — la configurabilità di « un’azione residuale, volta a punire con la nullità ogni contratto che palesemente non sia espressione di autonomia in senso sostanziale [...] non solo
per le condizioni in cui è stato concluso, ma anche per lo squilibrio a danno della parte debole che esso esprime » (così A.M. Garofalo, La causa del contratto tra meritevolezza degli
interessi ed equilibrio dello scambio, in questa Rivista, 2012, II, p. 612). L’opinione si fonda, sul piano normativo, sul combinato disposto degli artt. 1325, n. 1, e 1418, comma 2o,
c.c. e, sotto il profilo teorico, su un concetto soggettivistico di accordo in base al quale « esso dovrebbe ritenersi assente ogni qual volta uno dei paciscenti, stante la sua poca preparazione tecnica, non abbia realisticamente potuto formarsi un convincimento circa il regolamento contrattuale che ha pur mostrato di approvare e che però risulta palesemente lesivo,
senza che si possano applicare norme legislative volte a correggere la situazione di squilibrio creatasi » (ibid.). A tale impostazione, per quanto espressa in forma solo embrionale,
sembra potersi muovere due fondamentali rilievi (e ciò a tacer d’altro, come la difficoltà
d’immaginare un’azione di nullità esperibile soltanto in assenza di altri rimedî volti alla rimozione del vincolo, o di ricondurre lo squilibrio economico del contratto all’area dell’accordo e non invece a quella della causa, come parrebbe forse più plausibile — e v. sul punto i già evocati contributi di U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, cit., p. 71 ss.,
ed E. Navarretta, Causa e giustizia, cit., p. 425 ss.).
In primo luogo, essa appare riportarsi — propugnando un assoluto soggettivismo nell’apprezzamento dell’accordo contrattuale — alla nota concezione volontaristica del negozio giuridico (sostenuta, nella sua accezione più « pura », da F.C. v. Savigny, Sistema del
diritto romano attuale [trad. it.], III, Torino 1900, p. 342, e da B. Windscheid, Diritto delle
pandette [trad. it.], I, Torino 1930 [rist.], p. 203 s. [nel testo e in nt.]; per le origini di tale
impostazione — dall’emersione dell’elemento interiore nei documenti negoziali medievali
fino alla scuola storica tedesca, passando attraverso il pensiero giusnaturalista —, v. F. Calasso, Il negozio giuridico2, Milano 1959, p. 113 ss. e spec. pp. 122 ss. e 329 ss.), concezione definitivamente superata dall’elaborazione dottrinale di tale figura e dallo stesso diritto
vigente, in favore di una di tipo obbiettivo (v., anche per riferim., R. Scognamiglio, voce
Negozio giuridico. I) Profili generali, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma 1990, p. 4 s.; V.
Scalisi, Il negozio giuridico tra scienza e diritto positivo, Milano 1998, p. 14 ss.; amplius,
G.B. Ferri, Il negozio, cit., p. 43 ss. e p. 200 ss.). In particolare, l’impostazione dell’A. sembra rievocare, aderendovi, la c.d. teoria della volontà, secondo cui la fattispecie negoziale
dovrebbe ricostruirsi alla sola stregua della volontà del soggetto e non già con riferimento
alla sua dichiarazione, che rappresenterebbe soltanto un segno accidentalmente necessario
mediante il quale la volontà stessa — « unico elemento importante ed efficace » — viene
esteriorizzata (v., per tutti, F.C. v. Savigny, Sistema, cit., p. 342, donde è tratta la citaz.
preced.; amplius, B. Windscheid, Wille und Willenserklärung, in Arch. f. d. civil. Praxis,
1880, p. 72 ss. [di tale studio riferisce ampiamente V. Scialoja, Volontà e dichiarazione di
594
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
volontà, in G. it., 1880, IV, p. 36 ss.]; celebre è la critica mossa a questa impostazione da
E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, Torino 1952 [rist. corr.], pp. 51 ss. e 166
ss.; cfr. pure, sempre in senso critico, A. Passerin d’Entreves, Il negozio giuridico, Torino
1934 [rist. Torino 2006], p. 77 ss. e spec. p. 95 ss.).
Sennonché, come detto, lo stesso diritto positivo, in un’ottica di tutela dell’affidamento,
mostra di fondare l’accordo (e, più in generale, la fattispecie negoziale) sulla dichiarazione di
volontà, limitando a poche ipotesi tassative la rilevanza del contrasto fra tale dichiarazione e
l’interno volere del soggetto, o fra l’interno volere correttamente dichiarato ma viziato e quello che si sarebbe formato in condizioni corrette d’informazione e ponderazione (sul punto v.
ampiamente V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova
1990, p. 1 ss. e spec. p. 29 ss.): di fronte a ciò, la dottrina ha da tempo dovuto « rompere un
sogno che si svolge così leggiadramente sulle ali del dogma » (D. Barbero, Empirismo e dogmatica nel diritto, in Scritti Carnelutti, I, cit., p. 264), riconoscendo il tendenziale sacrificio
del principio della volontà laddove la volontà dichiarata e quella interna non coincidano —
ciò che non accade, peraltro, nei casi « normali » — (v. per tutti R. Sacco[-P. Cisiano], Il fatto, l’atto, il negozio, in Tratt. Sacco, Torino 2005, p. 356 ss. e spec. p. 365 ss., ove il rapporto
fra i principî della volontà e della dichiarazione è delineato in termini non già di contrapposizione, ma di ausiliarietà del secondo rispetto al primo, in nome della tutela dell’affidamento e
del coessenziale principio di autoresponsabilità), se non addirittura costruendo l’accordo, di
cui all’art. 1325, n. 1, c.c., in termini di mera conformità tra le autonome dichiarazioni di
proposta e accettazione (è il caso delle c.d. teorie analitiche del contratto, su cui v. per riferim. F. Realmonte, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 2, in Tratt. Bessone, XIII, Torino
2000, p. 6 s.). L’opinione in esame, in definitiva, sembra svalutare eccessivamente il generale
principio di solidarietà, in base al quale l’ordinamento impone al dichiarante l’assunzione del
rischio per l’affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione (v. almeno, sul
punto, F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli 1966, p. 145 ss. e
spec. p. 148, ove si precisa che — trattandosi di un « rischio non per la dichiarazione in sé,
sibbene per l’affidamento, che essa sia obiettivamente idonea a determinare [...] e determini
in concreto » [ivi, p. 148] —, se tale affidamento non sorga o sorga per colpa dell’interessato,
non vi è ragione di sacrificare la volontà che sta dietro la dichiarazione [ibid., testualmente];
tale considerazione, tuttavia, attiene al caso in cui tra volontà e dichiarazione sussista un
contrasto, e non al caso differente — cui fa riferimento la tesi qui in esame — in cui la volontà sia correttamente dichiarata, ma risulti « viziata » da scarsa informazione o ponderazione,
o risulti economicamente sconveniente per il contraente).
In secondo luogo, l’opinione in esame finisce con l’attrarre nell’area della nullità anche
fattispecie che, invece, appaiono sostanzialmente omogenee alla casistica normativa in tema
di vizî del volere (in particolare, errore e dolo) e che, ove considerate a quest’ultima stregua,
potrebbero non presentare nemmeno i requisiti necessarî a determinare l’annullabilità del
contratto (è il caso dei c.d. vizî incompleti, su cui cfr. M. Mantovani, « Vizi incompleti » del
contratto e rimedio risarcitorio, Torino 1995, p. 187 ss.), cosicché la tutela del contraente
« svantaggiato » potrebbe risiedere soltanto nella responsabilità precontrattuale della controparte (oggi generalmente riconosciuta anche nel caso in cui le parti siano pervenute alla
conclusione di un valido contratto: v. almeno, sul punto, G. Patti, in G. Patti-S. Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard [artt. 1337-1342], in Comm. Schlesinger,
Milano 1993, p. 95 ss.; M. Mantovani, « Vizi incompleti », cit., p. 135 ss.; L. Rovelli, in
Aa.Vv., Il contratto in generale, 2, cit., p. 301 ss.; R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 248 s.; in senso critico, G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in
Tratt. Roppo, V, Milano 2006, p. 1007 ss.), la quale abbia silenziosamente approfittato della
« poca preparazione tecnica » della controparte (per usare le parole di A.M. Garofalo, La
causa, cit., p. 612) violando il dovere d’informazione discendente dall’art. 1337 c.c. (su cui
cfr. M. Mantovani, « Vizi incompleti », cit., p. 227 ss., ove ulter. riferim.; R. Sacco, in R. Sac-
SAGGI
595
ristretto ambito dei puntuali richiami di legge all’equità giudiziale (120).
Né appare opportuno, di fronte al dubbio nascente dall’interrogativo circa quale equità sia idonea a soddisfare la relativa domanda nell’attuale momento storico (121), muovere verso un concetto di equità diverso da quello codicistico. Il modello economico liberista-concorrenziale, cui sono sostanzialmente ispirati i numerosi rinvii normativi all’equità, non sembra infatti versare in una crisi di legittimazione tale da richiedere un radicale ripensamento
della portata sostanziale di essi: a prescindere dalle suggestioni della cronaca (122), la dottrina economica non sembra giustificare, infatti, sguardi eccessivamente allarmati nei confronti del modello del libero mercato (123).
Pare quindi improbabile che la deflagrazione, vaticinata da chi aveva letto
nei « sussurri e fremiti » dottrinali in tema di equità il « presagio di un’esploco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 257 ss., secondo cui « la buona fede impone di illuminare la controparte » [ivi, p. 258]; contra G. D’Amico, La responsabilità, cit., p. 1025 ss.).
Del resto, l’antica opinione che vedeva nelle regole di risarcimento un eccezionale correttivo
alle regole di validità è oggi generalmente rifiutata, riconoscendosi anzi alle prime una portata generale e alle seconde il ruolo di « limitazioni alla regola generale di correttezza, introdotte per garantire la certezza sull’esistenza dei fatti giuridici » (così V. Pietrobon, Errore, cit.,
p. 117 ss., donde è tratta anche la citaz. preced. [ivi, p. 118]; cfr. inoltre R. Sacco[-P. Cisiano], Il fatto, cit., p. 369, ove nella regola di cui all’art. 1337 c.c. viene ritrovato il limite generale alla possibilità d’invocare il principio dell’affidamento).
( 120 ) In tal senso, da ultimo, cfr. M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 89 (« l’equità si pone
come criterio residuale di integrazione del contratto solo quando il legislatore abbia espressamente fatto ad essa riferimento »); conf. V. Varano, Equità, cit., p. 7. Non sembra potersi
prendere troppo sul serio, quindi, la provocazione di G. Amadio, Nullità, cit., p. 253 s., il
quale ha paventato che il passo sia breve dal giudizio di iniquità avente ad oggetto una pattuizione riproduttiva della disciplina legale al diretto sindacato giudiziale dell’equità di
quest’ultima — con sua conseguente disapplicazione — anche in difetto di una sua trasposizione pattizia: in contrario, infatti, è agevole osservare che la legge séguita a consentire tale sindacato con esclusivo riferimento ai prodotti dell’autonomia contrattuale.
( 121 ) Il riferimento è, naturalmente, a S. Rodotà, Quale equità?, cit.
( 122 ) Sulla percezione psicologica della recente crisi finanziaria da parte dei cittadini
statunitensi, v. A.S. Deaton, The financial crisis and the well-being of Americans, in National Bureau of Economic Research Working Paper Series, consultabile alla pagina internet
http://www.nber.org/papers/w17128; v. inoltre, sulla polarizzazione ideologica della popolazione come conseguenza della crisi, A. Mian-A. Sufi-F. Trebbi, Resolving Debt Overhang:
Political Constraints in the Aftermath of Financial Crises, consultabile all’indirizzo http://
faculty.arts.ubc.ca/ftrebbi/research/mst4.pdf.
( 123 ) Anche di recente non si è mancato di rilevare, da un lato, gli influssi negativi sulla
crescita economica dell’intervento pubblico in economia (sugli effetti nefasti della difesa dei
c.d. campioni nazionali, cfr. K. Fogel-R. Morck-B. Yeung, Big business stability and economic growth: Is what’s good for General Motors good for America?, in Journ. of Financial
Econ., 2008, p. 83 ss.) e, dall’altro lato, gli effetti benèfici sulla stessa crescita della liberalizzazione dei mercati finanziarî e della loro concorrenzialità (R. Levine, International Financial Liberalization and Economic Growth, in Rev. of Intern. Econ., 2001, p. 688 ss.;
R.M. Stulz, The Limits of Financial Globalization, in Journ. of Finance, 2005, p. 1595 ss.).
In generale, circa l’incidenza delle istituzioni economiche sulla crescita, v. D. Acemoglu-S.
Johnson-J.A. Robinson, Institutions as a Fundamental Cause of Long-Run Growth, in
Aa.Vv., Handbook of Economic Growth, 1A, Amsterdam, 2005, p. 385 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
sione che, prima o poi, dovrà verificarsi » (124), avvenga in breve tempo. E,
d’altra parte, l’equità giudiziale del nostro tempo non deve far temere pericolose « individualizzazioni giudiziarie » del diritto privato (125) — una deriva paventata già dall’autore del celebre aforisma « optima est lex, quae minimum
relinquit arbitrio iudicis » (126). È ormai trascorso più di un secolo da che si è
affermato che « l’equità non è e non può essere un fatto puramente arbitrario,
quantunque in casi singoli possa condurre ad arbitrî ed a confusioni » (127), e
tale osservazione vale oggi, a fortiori, per l’equità evocata dal nostro diritto positivo, la quale si risolve nel rinvio alle regole del mercato (128). Se essa seguiterà a costituire — come fu detto, non senza un tratto di affettuosa simpatia —
« una specie di piccolo scandalo agli occhi del puro giurista » (129), ciò non potrà dipendere che da un più o meno grave difetto d’inquadramento.
( 124 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 47.
( 125 ) L’espressione è di F. Geny, Méthode, cit., I, p. 213. Questo timore è stato espresso
da P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, c. 231, il quale ha evocato « lo spettro dell’introduzione nel nostro sistema di una figura generale di “contratto a
prestazioni squilibrate”, con il rischio che i giudici si sentano legittimati a sindacare in via
pregiudiziale la “equità” di qualsiasi pattuizione, per verificare se le prestazioni a carico delle
parti possano o meno giudicarsi “proporzionate”, mettendo a confronto i sacrifici sostenuti o
promessi da ciascuna di esse », ed ha auspicato una rapida e rigida tipizzazione del concetto
di squilibrio, alla quale dovranno provvedere dottrina e giurisprudenza, « rifiutandosi comunque di concedere rilievo a qualsiasi ipotesi di asserita mancanza di equivalenza economica delle prestazioni sinallagmatiche, ove il supposto divario non raggiunga confini di particolare rilievo » (ibid.). Di diverso avviso appare N. Lipari, Per una revisione, cit., p. 736, secondo il quale, « in un momento in cui il contratto tende sempre più a diventare modello di governo della società, [...] il diritto non può [...] limitarsi, negando se stesso, a ratificare i rapporti di forza consumati nel mercato e deve farsi carico di una gerarchia di valori intorno ai
quali ruota l’equilibrio stesso della convivenza civile » (cors. agg.); analogam. C.M. Bianca,
Diritto civile. 3, cit., p. 494. Cfr. sul punto anche R. Sacco, L’abuso, cit., p. 232 s.
( 126 ) F. Bacon, De dignitate et argumentis scientiarum, VIII, in The works of Francis
Bacon, III, Boston s.a., p. 151. Il motto (collocato nella sez. De Curiis Praetoriis et Censoriis dell’Exemplum Tractatus de Justitia Universali, sive de Fontibus Juris, in uno titulo, per
Aphorismos [aforisma XLVI]) prosegue con le parole « optimum judex, qui minimum sibi ». Del resto, che l’equità sia « una specie di un genere più ampio che è il potere discrezionale » è stato affermato anche in tempi più recenti da C. Goretti, Il valore delle massime di
equità, in Scritti Carnelutti, I, cit., p. 310.
( 127 ) V. Miceli, Sul principio, cit., p. 87.
( 128 ) Anziché di « tecnica sanzionatoria individualizzante » (F. Gazzoni, Manuale, cit.,
p. 799) parrebbe quindi più corretto parlare di rinvio, ai fini della determinazione della regola di validità degli accordi, a criterî desumibili dalla prassi del mercato.
( 129 ) V. Miceli, Sul principio, cit., p. 86, laddove per « puro giurista » ben potrebbe intendersi il giudice tratteggiato da H.U. Kantorowicz, La lotta per la scienza del diritto (trad.
it.), Milano-Palermo-Napoli 1908, p. 57 (« un alto funzionario governativo, materiato di coltura accademica, chiuso nella sua cella ed armato soltanto d’una finissima macchina pensante. Unico mobile, uno scrittoio sul quale gli sta davanti il Codice statale della legge. Càpita un
caso qualunque, autentico o soltanto immaginato; ed eccolo, in adempimento al dover suo,
risolverlo mercé operazioni schiettamente logiche e d’una tecnica riposta, da lui solo intelligibile, conforme le decisioni del Codice stesso, predeterminate dal legislatore »).
Oriana Clarizia
Ricercatore nell’Università « Federico II » di Napoli
INNOVAZIONI E PROBLEMI APERTI ALL’INDOMANI
DEL DECRETO LEGISLATIVO ATTUATIVO
DELLA RIFORMA DELLA FILIAZIONE
Sommario: 1. L’unicità dello stato di figlio quale principio ispiratore della riforma. — 2. Segue: dall’esercizio della potestà alla nozione, più ampia ed unitaria, di responsabilità genitoriale. Il novellato art. 317 bis c.c.: non più norma sull’esercizio della potestà nei
confronti dei figli naturali bensì precetto a tutela del diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. — 3. Rimodulazione della disciplina
dell’azione di disconoscimento della paternità e dei termini di decadenza per il suo esercizio nel segno di un progressivo ampliamento delle occasioni di accertamento della verità biologica. Imprescrittibilità dell’azione in ipotesi di proposizione da parte del figlio
e superamento del limite temporale di esercizio. — 4. La disciplina del riconoscimento
dei figli nati fuori dal matrimonio (art. 250 c.c.): il procedimento di riconoscimento in
ipotesi di opposizione del genitore che abbia effettuato il riconoscimento. — 5. L’autorizzazione del giudice al riconoscimento della filiazione c.d. incestuosa e coordinamento
con la tutela dettata, in sede successoria, dagli artt. 580 c.c. e 594 c.c.: residua applicazione ai figli riconoscibili ma non riconosciuti. — 6. Impugnazione del riconoscimento
per difetto di veridicità da parte dell’autore consapevole della sua falsità (art. 263 c.c.).
Mancata scelta legislativa e soluzione in favore di un contemperamento tra esigenze di
certezza dello status filiationis e diritto del minore alla conoscenza della propria identità
biologica. — 7. Accertamento della maternità e diritto all’anonimato materno ex art.
30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396. Pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia): contrasto tra la normativa italiana in
materia di accesso dell’adottato alle informazioni relative alla propria madre e l’art. 8
Cedu. Sentenza della Corte costituzionale, 22 novembre 2013, n. 278: diniego dell’accesso alle informazioni sulle proprie origini e incostituzionalità del mancato accertamento concernente la persistenza della volontà materna di non essere nominata. Opportunità di una riforma legislativa in grado di contemperare il diritto all’anonimato della
madre biologica con la tutela dei diritti inviolabili del figlio.
1. — La recente riforma legislativa (l. delega 10 dicembre 2012, n. 219,
« Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali » e d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 — in vigore dal 7 febbraio 2014 — « Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della l. 10
dicembre 2012, n. 219 ») (1) segna il raggiungimento di importanti traguardi
( 1 ) In aggiunta alla bibliografia citata nelle note successive, cfr. M. Bianca (a cura di),
Filiazione. Commento al decreto attuativo, Milano 2014; R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia. La riforma della filiazione, Napoli 2014; Aa.Vv., Modifiche al codice
civile e alle leggi speciali in materia di filiazione, Napoli 2014; Aa.Vv., La riforma del diritto della filiazione (l. n. 219/12), in Nuove l. civ. comm., 2013; T. Auletta, Diritto di famiglia. Appendice di aggiornamento alla legge 10 dicembre 2012, n. 219, Torino 2013; P.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
nel percorso verso l’affermazione di una disciplina della filiazione attenta all’evoluzione sociale e non condizionata dalle modalità istitutive del vincolo familiare (2). Fedele al perseguimento dell’obiettivo della piena attuazione del
principio di eguaglianza, la novella sancisce, quale principio ispiratore dell’intera riforma, l’unicità dello status di figlio (art. 315 c.c.) (3), a prescindere
se il fondamento della filiazione consista nel matrimonio, in convivenze su di
esso non basate (4) ovvero, ancóra, in vincoli affettivi conseguenti al ricorso
alla procedura della procreazione medicalmente assistita (5). Eloquenti, al riCorder, Note in tema di procedimenti di famiglia e minorili alla luce dell’entrata in vigore
della legge n. 219/2012, in Rass. d. civ., 2014, p. 126 ss.; M. Dossetti, Finalità, struttura e
contenuto della l. 10 dicembre 2012, n. 219, nonché Ead., Termini, strumenti, princìpi della delega, in Ead., M. Moretti e C. Moretti, La riforma della filiazione. Aspetti personali,
successori e processuali, Bologna 2013, rispettivamente pp. 11 ss. e 74 ss. e G. Paesano,
Brevi riflessioni a margine della legge n. 219 del 10 dicembre 2012, in Corti salernitane,
2013, p. 51 ss.
( 2 ) Per uno studio attento, critico e problematico dell’incidenza della giurisprudenza
costituzionale sulla disciplina delle azioni di stato e sul cammino verso la parità tra la filiazione naturale e quella fuori dal matrimonio cfr., ampiamente, S. Pagliantini, Princìpi costituzionali e sistema della filiazione, in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, Napoli 2006, p. 507 ss. Sulla pari dignità dei modelli familiari diffusi in Europa, con particolare attenzione alla giurisprudenza
delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, V. Scalisi, « Famiglia » e « famiglie » in Europa, in questa Rivista, 2013, p. 7 ss., nonché Id., Le stagioni della famiglia nel diritto dall’unità d’Italia a oggi. Parte prima: dalla « famiglia-istituzione » alla « famiglia-comunità »: centralità del « rapporto » e primato della « persona », ivi, p. 1043 ss. Sul tema, in generale, F. Prosperi, La famiglia nell’ordinamento giuridico, in D. fam., 2008, p. 790 ss.; G.
Stanzione, Rapporti di filiazione e terzo genitore: le esperienze francese e italiana, in Fam.
e d., 2012, p. 201 e A. D’Angelo, La famiglia nel XXI secolo: il fenomeno delle famiglie ricomposte, in D. Amram e A. D’Angelo (a cura di), La famiglia e il diritto fra diversità nazionali e iniziative dell’Unione Europea, in I quaderni della Rivista di diritto civile, 2011, p.
91 ss.
( 3 ) Sul tema M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e sistema dello stato civile, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 323 e M. Bianca, La riforma della filiazione (l. 10 dicembre 2012, n. 219). Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in
Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, in Nuove l. civ. comm., cit., p. 507 ss. Sulla
prioritaria esigenza, perseguita dalla riforma, di garantire la superiorità dell’interesse del
minore ad un sano ed armonico sviluppo psico-fisico, G. Ballarani e P. Sirena, Il diritto dei
figli di crescere in famiglia e di mantenere rapporti con i parenti nel quadro del superiore
interesse del minore, ivi, p. 534 ss.
( 4 ) Cass., 11 gennaio 2013, n. 601, in F. it., 2013, I, c. 1193 ss., con nota di richiami
di G. Casaburi, esclude la preconcetta ammissione di pregiudizi per il minore che, in séguito
all’affidamento ad uno soltanto dei genitori, viva in una famiglia incentrata su un’unione
omosessuale, precisando che « alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di
quel contesto familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d’appello ha
preteso fosse specificamente argomentata ».
( 5 ) Con sentenza del 9 aprile 2014 (ad oggi in attesa di pubblicazione in Gazzetta Uffi-
SAGGI
599
guardo: la novella dell’art. 315 c.c., rubricato « Stato giuridico della filiazione » (6), che esplicita il principio secondo il quale « tutti i figli hanno lo stesso
stato giuridico » (7) e la disciplina dettata dal comma 11o dell’art. 1 della legge delega, la quale elimina residue discriminazioni terminologiche precisando
che, nel codice civile, i sintagmi « figli legittimi » e « figli naturali », ovunque
ricorrono, sono sostituiti dall’espressione « figli ». A ciò si aggiunge la delega
(ex art. 2, comma 1o, lett. a) conferita al Governo al fine di procedere alla
predetta sostituzione in tutta la legislazione vigente (« salvo l’utilizzo delle denominazioni di “figli nati nel matrimonio” o di “figli nati fuori del matrimonio” quando si tratta di disposizioni ad essi specificamente relative »); delega
attuata da molteplici articoli del decreto legislativo che modificano le norme
del codice civile (8) e di leggi speciali (9) sopprimendo, accanto alle parole
ciale), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa (art. 4, comma 3o, l. 19 febbraio 2004, n. 40) e della sanzione amministrativa pecuniaria prevista da tale legge in ipotesi di utilizzo, a fini procreativi, di gameti
di soggetti estranei alla coppia richiedente (art. 12, comma 1o, l. n. 40/2004). Osserva M.
Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del 2012. The
Equality of the Legal Status of Children under the Recent Law No. 219 of 2012, in Giust.
civ., 2013, p. 207, che « l’uguaglianza dei figli proclamata nel 2012 appare definitivamente
sganciata dallo status dei genitori o della famiglia, e proprio per queste ragioni si tratta di
un’uguaglianza che riguarda esclusivamente lo status filiationis, quale status della persona
umana, la cui situazione di parità non risulta più condizionata dall’appartenenza a questa o
a quella comunità familiare, o a comportamenti che riguardano o hanno riguardato i genitori ».
( 6 ) La precedente formulazione di tale articolo (rubricato « Doveri del figlio verso i genitori ») così disponeva: « Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione
alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive
con essa ».
( 7 ) Tale norma rappresenta « una svolta epocale nel diritto della filiazione », in quanto
« realizza quella separazione tra filiazione e matrimonio in forza della quale la condizione
giuridica del figlio è tutelata in ogni ordine di rapporti come valore autonomo e indipendente dal vincolo eventualmente esistente tra i genitori » (così G. Ferrando, La nuova legge
sulla filiazione. Profili sostanziali, in Corr. giur., 2013, p. 527). È pur vero però — come
precisato da L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, in Nuova g. civ. comm., 2013,
p. 207 — che, specie con riferimento alle diverse norme in materia di azioni di stato, la differenza tra filiazione legittima e naturale permane, pur nascosta da etichette nuove, sì che
« l’unicità della categoria di “figlio” non è effettiva » (corsivo originale). In favore di una
piena equiparazione tra figli, F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice civile annotato con la
dottrina e la giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, Napoli, I, 2010, p. 924; G. Morani,
L’inadeguata tutela della prole nata fuori dal matrimonio nel nostro ordinamento, in D.
fam., 2012, p. 478 ss. e C.M. Bianca, Verso un più giusto diritto di famiglia, in Iustitia,
2012, p. 237 ss., nonché Id., La riforma della filiazione: alcune note di lume, in Giust. civ.,
2013, p. 439 ss. Pone l’accento sullo status personae, piuttosto che sullo status familiae, G.
Biscontini, La filiazione legittima, in Il diritto di famiglia, III, Famiglia e adozione, in
Tratt. Bonilini-Cattaneo, 2a ed., Torino 2007, p. 14 ss.
( 8 ) Cfr. gli artt. del decreto legislativo numeri: 1, 7, 11, 23, 24, 25, 26, 27, 30, 31, 32,
33, 34, 36, 37, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 85, 87, 89.
( 9 ) In tale direzione v., del recente decreto legislativo, gli artt.: 93 (« Modifiche al codi-
600
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
« figlio o figli », le qualificazioni « legittimo-legittimi », « naturale-naturali »,
prevedendo altresì, ove necessario, la sostituzione di tali espressioni con le
formule « nato fuori del matrimonio » e « nato nel matrimonio ».
Affermata la piena eguaglianza, l’abrogazione sia dell’istituto della legittimazione — per effetto dell’art. 1, comma 10o, l. n. 219 del 2012 (10) — sia,
successivamente, dell’art. 261 c.c. (11) (per opera dell’art. 106, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154) rappresenta una scelta coerente e condivisibile, stante
l’esigenza di evitare, in ragione dell’affermazione dell’unificazione dello stato
di figlio, la sussistenza di norme riferibili unicamente al legame tra genitori e
figli nati al di fuori del matrimonio.
Conforme alla ratio sottesa all’intervento riformatore e alle finalità di parità di trattamento si rivela il novellato art. 74 c.c. (12), il quale — di là dalle
problematiche legate al divieto del vincolo di parentela naturale in ipotesi di
adozioni di persone maggiori d’età (13) — introduce la configurabilità di rapce penale in materia di filiazione »); 96 (« Modifiche al regio decreto 30 marzo 1942, n.
318 », recante Disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie),
comma 1o, lettere e, f, g, h; 98 (« Modifiche alla legge 1o dicembre 1970, n. 898 », in materia di Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), comma 1o, lettera c; 100 (« Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 », concernente il Diritto del minore ad una famiglia), comma 1o, lettere i, n, o, q, r, s, t, dd; 101 (« Modifiche alla legge 31 maggio 1995, n.
218 », in tema di Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), comma 1o,
lettere b ed e; 102 (« Modifiche alla legge 19 febbraio 2004, n. 40 », recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita); 103 (« Modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 2011, n. 71 », concernente l’Ordinamento e funzioni degli uffici consolari), comma
1o, lettere a e b.
( 10 ) In particolare: l’art. 1, comma 10o, l. n. 219 del 2012, abroga la sezione II del capo
II del titolo VII del libro I del codice civile; l’art. 2, comma 1o, lett. b, sancisce, tra i princìpi
e i criteri direttivi concernenti la modifica del titolo VII, l’abrogazione delle disposizioni che
rinviano all’istituto della legittimazione; l’art. 105, comma 4o, d.lg. 28 dicembre 2013, n.
154, prevede che « le parole “figli legittimati”, “figlio legittimato”, “legittimato”, “legittimati” ovunque presenti in tutta la legislazione vigente, sono soppresse ». Dubbi sulla compatibilità dell’istituto della legittimazione con l’assetto costituzionale, prima della riforma,
in A. Ciatti, in Id. (a cura di), Famiglia e minori, Torino 2010, p. 273 s.
( 11 ) Tale articolo (rubricato « Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento ») prevedeva che « il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti
i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi ».
( 12 ) Secondo il quale « la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno
stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel
caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di
parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e
seguenti ». Sulle interpretazioni concernenti la precedente formulazione, M. Sesta, I disegni
di legge in materia di filiazione: dalla diseguaglianza all’unicità dello status, in Fam. e d.,
2012, p. 962 ss. Sulle novità della riforma, A. Cagnazzo, Come cambia la parentela, in
Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 63 ss.
( 13 ) Sul punto A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, in questa Rivista, 2013,
p. 258, nonché L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 203, il quale rileva
che « la disparità di trattamento è in linea di principio ingiustificabile » soprattutto quando
l’adozione avviene subito dopo il compimento del diciottesimo anno di età a conclusione di
SAGGI
601
porti di parentela tra il figlio naturale e la famiglia del genitore, collegando la
parentela al fatto procreativo e non già al matrimonio (14) e consentendo l’instaurazione di vincoli giuridici per le persone discendenti da un medesimo stipite senza che il carattere legittimo oppure naturale della filiazione rilevi.
Risultati di tenore analogo si raggiungono in materia di estensione degli
effetti del riconoscimento ai parenti del genitore naturale che lo ha effettuato
(art. 258 c.c.): l’art. 1 della legge delega, nel sostituire il primo comma dell’art. 258 c.c., determina la costituzione di rapporti di parentela tra il figlio
naturale e la famiglia del genitore che lo ha riconosciuto. Così facendo, la riforma esplicita i contenuti che autorevole dottrina, al fine di evitare una « lettura “distorta” », desumeva implicitamente dalla previgente disciplina, rilevando che « la definizione codicistica di “parentela”, anche prima della legge
del 2012, implicitamente ammetteva che anche i figli naturali avessero dei
parenti » (15).
Quanto detto dimostra che l’introduzione del principio dell’unicità dello
stato di figlio, se da un lato consente il superamento di arbitrarie discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali, fondate su un preconcetto rilievo soltanto dei primi, dall’altro conferma l’esistenza, nel nostro ordinamento, di
una lunga vicenda di affidamento, risolta in adozione per i motivi più vari. La diversità di
trattamento appare invece giustificabile all’a. quando l’adottato svolge un’attività di aiuto
dell’adottante: « in questi casi si dovrebbe piuttosto riflettere, più in generale, sull’opportunità stessa di impiegare un istituto come l’adozione, ove il soggetto istituzionalmente oggetto di protezione è l’adottato ».
( 14 ) Sul tema, cfr. l’analisi di G. Frezza, Gli effetti del riconoscimento (art. 258 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 4o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 493 ss. Esclude che il concetto di parentela si sovrapponga a quello di famiglia legittima F. Prosperi, Àmbito di rilevanza della parentela naturale e successione tra
fratelli naturali, in Rass. d. civ., 1980, p. 1146 ss., nonché in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, Napoli 1982, p. 184. In favore della rilevanza giuridica della parentela naturale, Id., La famiglia « non fondata sul matrimonio », Napoli 1980, pp. 115 ss. e 117
s.; U. Majello, Filiazione naturale e comunità familiare, in D. e giur., 1983, p. 12, ove si
precisa che « il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. consente di garantire ai parenti naturali la stessa rilevanza giuridica della parentela fondata sul matrimonio. D’altra
parte la parentela è un connotato sociale della persona, che unisce socialmente l’individuo a
tutte le persone che discendono da uno stesso stipite. Pertanto l’esclusione del connotato socio-giuridico della parentela costituirebbe una menomazione della personalità dell’individuo, sempre che tale esclusione non sia giustificata dall’esigenza di tutela di interessi prevalenti ». In analoga prospettiva G. Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e d., 1998, p. 183 ss. e Ead., Il rapporto di
filiazione naturale, in Il diritto di famiglia, III, Famiglia e adozione, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, cit., p. 128 ss.; F. Lazzarelli, Successione legittima e parentela naturale, in Rass. d.
civ., 2001, p. 821 ss.; M.L. Chiarella, La parentela naturale: dal crinale sociale alla (ir)rilevanza costituzionale, in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni
nella giurisprudenza costituzionale, cit., spec. p. 928 ss.
( 15 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219
del 2012, cit., p. 215. Nella medesima direzione, F. Prosperi, sub art. 258 c.c., in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 956 s. (ivi ulteriore dottrina citata).
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
una pluralità di modelli familiari, non più identificabili unicamente nello
schema della famiglia legittima (16).
2. — L’abrogazione delle qualificazioni « figli legittimi » e « figli naturali » rende palese che l’obbligo dei genitori di mantenere, istruire ed educare
assume identico contenuto, indipendentemente dal fondamento della filiazione (17). Avvalorano tale prospettiva le modifiche (18) alla rubrica del titolo IX
del libro I del codice civile, che muta la precedente formulazione — « Della
potestà dei genitori » — nel più significativo e articolato sintagma « Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio » (19). Nella medesima
( 16 ) Già P. Perlingieri, Sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, in Id., Rapporti
personali nella famiglia, cit., p. 15, avvertiva che « non esiste un concetto unitario di famiglia. È quindi assurdo che si stabiliscano regole rigide e precise per la famiglia astrattamente considerata quando nella realtà esistono famiglie completamente diverse ed estremamente differenziate. E allora un discorso in tema di riforma del diritto di famiglia che non tenda in primo luogo ad attuare un’omogeneizzazione della famiglia, eliminando le differenziazione che l’art. 3 prevede come ostacoli di fatto, che condizionano dall’esterno la stessa
famiglia, rimarrà sterile ». Cfr., inoltre, Id., Sui rapporti personali nella famiglia, ivi, p. 20
ss.; V. Scalisi, « Famiglia » e « Famiglie » in Europa, cit., p. 7 ss.; T. Auletta, La famiglia
rinnovata: problemi e prospettive e F. Galletta, I nuovi assetti familiari e l’interesse del minore, entrambi in Scritti in onore di Cesare Massimo Bianca, II, Milano 2006, rispettivamente pp. 28 ss. e 261 ss. (in questo volume cfr., inoltre, F. Ruscello, Diritto alla famiglia
e minore senza famiglia, p. 470 ss., il quale esclude che la famiglia costituisca un valore in
sé, soffermandosi sull’esigenza che essa sia sempre sottoposta ad un giudizio di meritevolezza); G. Giacobbe, Famiglia o famiglie: un problema ancora dibattuto, in D. e fam., 2009, p.
305 ss.; P. Stanzione, Filiazione e « genitorialità ». Il problema del terzo genitore, Torino
2010, p. 41 ss.; R. Pane, Il nuovo diritto di filiazione tra modernità e tradizione e A. Di Fede, La famiglia legittima e i modelli familiari diversificati: luci ed ombre, scenari e prospettive, entrambi in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia, cit., rispettivamente
pp. 9 ss. e 41 ss.
( 17 ) Il genitore naturale convivente con il figlio è legittimato, iure proprio, a chiedere il
contributo per il mantenimento all’altro genitore naturale e « può agire nei confronti [di quest’ultimo] per tutto il periodo di decorrenza dalla nascita del figlio, poiché l’obbligo di essere
mantenuto sorge automaticamente per il fatto della filiazione » e « ha lo stesso contenuto dell’analogo obbligo previsto per il figlio legittimo »: Trib. Salerno, 23 gennaio 2013 e, nella
stessa prospettiva, Trib. Bari, 6 febbraio 2013, entrambe consultabili sulla banca dati dejure
on line. Prima ancóra, secondo Cass., 10 aprile 2012, n. 5652, in G. it., 2013, p. 45 ss., con
nota di G. Malavenda, Responsabilità dei genitori per violazione dell’obbligo di mantenimento dei figli naturali non riconosciuti, se al momento della nascita il figlio è riconosciuto soltanto da uno dei genitori, non viene meno l’obbligo dell’altro al mantenimento per il periodo
anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale.
( 18 ) Prima ex art. 1, comma 6o, l. 10 dicembre 2012, n. 219 e poi anche ex art. 7, comma 10o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154.
( 19 ) I commi 11o e 12o dell’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, hanno distinto, inoltre, il Titolo IX in due Capi: Capo I, rubricato « Dei diritti e doveri del figlio » e Capo II,
rubricato « Esercizio della responsabilità genitoriale a séguito di separazione, scioglimento,
cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio ».
SAGGI
603
direzione si pone l’art. 315 bis (20) (introdotto dall’art. 1, comma 8o, della l.
n. 219 del 2012), il quale, nel prevedere un vero e proprio statuto dei diritti e
dei doveri dei figli, sancisce il diritto dei minori di mantenere rapporti significativi con i parenti e di essere ascoltati nelle questioni e nelle procedure loro
concernenti (21), esplicitando così « diritti che avevano già trovato ingresso in
leggi speciali ma che ora hanno una sistemazione unitaria e una portata generale » (22).
Inoltre, in attuazione della delega (23)conferita al Governo per l’« unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei con( 20 ) Secondo il disposto normativo di tale articolo « il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità,
delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto
gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere
ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa ». Cfr. la particolareggiata analisi di M. Costanza, I diritti dei figli: mantenimento, educazione, istruzione ed assistenza morale (art. 315 bis c.c., inserito dall’art. 1, comma 8o, l. n. 219/12), in Aa.Vv.,
Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 526 ss.
( 21 ) Cfr., inoltre, l’art. 336 bis c.c. (rubricato « Ascolto del minore »), inserito dall’art.
53, comma 1o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 e l’art. 98 del medesimo decreto, che modifica l’art. 4, comma 8o, l. 1o dicembre 1970, n. 898, in materia di Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio. Sul diritto del minore all’ascolto, Cass., 2 agosto 2013, n. 18538,
in Rep. F. it., 2013, voce Filiazione, n. 68. Per un quadro della dottrina, sia antecedente
che successiva alla riforma, E. La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari, Milano 2005,
p. 205 ss.; O. Caleo, Il diritto di ascolto del minore nella crisi familiare, in Fam. pers. succ.,
2011, p. 776 ss.; G. Campese, L’ascolto del minore nei giudizi di separazione e divorzio, tra
interesse del minore e principi del giusto processo, in Fam. e d., 2011, p. 958 ss.; P. Perlingieri, Sull’ascolto del minore, in R. giur. Mol. Sannio, 2012, p. 125 ss.; G. Recinto, La situazione italiana del diritto civile sulle persone minori di età e le indicazioni europee, in D.
fam., 2012, p. 1295 ss.; F. Parente, L’ascolto del minore: i princìpi, le assiologie e le fonti,
in Rass. d. civ., 2012, pp. 459 ss. e 465 ss.; P. Pazé, L’ascolto in famiglia e nelle procedure,
in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 133 ss. L’interesse del minore assume grande rilievo in àmbito sovranazionale: cfr., in particolare, la Convenzione
europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale tutela la vita privata e
familiare (art. 8) e sancisce il divieto di discriminazioni (art. 14); la Convenzione di New
York, 20 novembre 1989, riguardante i diritti dei fanciulli (ratificata con l. 27 maggio
1991, n. 176); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: c.d. Carta di Nizza
(cfr., in particolare l’art. 21, il quale vieta qualunque discriminazione basata sulla nascita);
la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996; le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio
d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010.
( 22 ) C.M. Bianca, La legge italiana conosce solo figli, in questa Rivista, 2013, p. 3. I diritti del figlio « vengono enunciati positivamente in modo esplicito, aggiungendo altresì il
diritto ad essere assistito moralmente, che attualmente non trova formale equivalenza nei
doveri dei genitori (cfr. art. 30, comma 3o, cost. e art. 147 c.c.) »: così, nel commentare il
disegno di legge sulla filiazione, R. Carrano, Lo stato giuridico di figlio e il nuovo statuto
dei diritti e doveri, in Giust. civ., 2011, p. 187.
( 23 ) Cfr. l’art. 2, comma 1o, lettera h, l. 10 dicembre 2012, n. 219.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
fronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio » e al
fine di « delinea[re] la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale » (24), l’art. 39 del più volte menzionato
decreto legislativo abbandona il concetto di potestà e, nel sostituire l’art. 316
c.c., introduce — sebbene in assenza di una sua definizione (25) — la nozione
di responsabilità genitoriale (26), da esercitarsi, in considerazione delle capacità, delle inclinazioni e delle aspirazioni del figlio, da entrambi i genitori di
comune accordo oppure dall’unico genitore che ha effettuato il riconoscimento. Scompare l’indicazione del termine finale della responsabilità genitoriale,
prima individuato, con riferimento alla potestà, nel compimento della maggiore età o nell’emancipazione del minore (27). La scelta è particolarmente significativa, poiché rende manifesti gli ampi contenuti sottesi alla nozione di
( 24 ) Sul tema, ampiamente, G. Recinto, Legge n. 219 del 2012: responsabilità genitoriale o astratti modelli di minori di età?, in D. fam., 2013, p. 1475 ss., il quale pone in evidenza, incisivamente, le perplessità e i limiti derivanti dallo scopo, imposto dalla legge delega, di modellare la responsabilità genitoriale « quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale ». Si veda, inoltre, G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione, cit., p. 527, la
quale sottolinea la necessità di coordinare la nuova disciplina con gli artt. 147 e 148 c.c.
(successivamente sostituiti dagli artt. 3 e 4, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154) poiché il dovere di mantenimento nei confronti dei figli « riguarda i genitori in quanto tali e non in quanto coniugi » (Ead., o.c., p. 529). Discorre di « disarmonia » del sistema A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, cit., p. 261, precisando che la riforma avrebbe dovuto incidere, in maniera coerente, anche sugli articoli 147 c.c. (riguardante i doveri dei genitori
uniti in matrimonio nei confronti dei figli) e 261 (in materia di diritti e doveri in capo al
genitore che ha effettuato il riconoscimento), non modificati dalla legge delega. Occorre
tuttavia precisare che tali modifiche sono intervenute, successivamente, ad opera del d.lg.
28 dicembre 2013, n. 154, il quale, all’art. 106, ha abrogato l’art. 261 c.c. e, all’art. 3, ha
sostituito il previgente articolo 147 c.c., aggiungendo nel suo contenuto normativo sia l’obbligo di assistere moralmente i figli sia il richiamo all’art. 315 bis c.c., in materia di diritti e
doveri di tutti i figli, a prescindere dalla loro nascita nel matrimonio ovvero al di fuori di
esso. Il novellato art. 147 c.c., risultante dalle predette modifiche, così dispone: « Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere
moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis ».
( 25 ) La Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo esplicita la precisa scelta di non definire — come, del resto, già avvenuto per la nozione di potestà — il concetto di
responsabilità genitoriale, al fine di consentire un suo adeguamento all’evoluzione socioculturale dei rapporti tra genitori e figli.
( 26 ) Sul punto G. Sergio, Potestà versus responsabilità genitoriale. La sofferta evoluzione della regolazione giuridica dei rapporti tra genitori e figli e F. Carimini, Il binomio
potestà-responsabilità: quale significato?, entrambi in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere
della famiglia, cit., rispettivamente pp. 81 ss. e 111 ss.; M. Velletti, Dei diritti e doveri dei
figli e della responsabilità genitoriale, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., pp. 83 ss. e 89 ss. e A. Palazzo, La Filiazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano
2013, p. 591 ss.
( 27 ) Diversamente, per le norme che presuppongono l’incapacità di agire del minore, il
decreto legislativo (cfr. artt. 43, 44 e 48, che modificano, rispettivamente, gli art. 318, 320
e 324 c.c.) individua, quale riferimento temporale per l’esercizio della responsabilità genitoriale, la maggiore età o l’emancipazione.
SAGGI
605
responsabilità genitoriale senza circoscrivere l’impegno dei genitori entro predefiniti limiti temporali ma subordinandone la durata in ragione delle esigenze del singolo rapporto di filiazione. È tuttavia fatta salva, per ciascun genitore, la possibilità di rivolgersi, in ipotesi di contrasto su questioni particolarmente importanti, al giudice, il quale deciderà dopo aver ascoltato il minore
dodicenne (oppure infradodicenne, se capace di discernimento). Al genitore
che non esercita la responsabilità genitoriale spetta il cómpito di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio (testo precedentemente dettato dall’art. 317 bis, ult. comma, c.c. e ora confluito nel nuovo art. 316, comma 5o, c.c.). Analoga disciplina si rinviene nell’art. 337 quater c.c. (introdotto dall’art. 55, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 e rubricato
« Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso »), il
quale, in ipotesi di affidamento ad uno soltanto dei genitori, consente a quello
non affidatario di ricorrere al giudice, se reputa siano state assunte decisioni
pregiudizievoli per l’interesse del figlio.
L’accoglimento della nozione di responsabilità genitoriale, in luogo dell’ormai anacronistico concetto di potestà, sancisce in un’unica norma i contenuti dell’impegno dei genitori nei confronti di tutti i figli, a prescindere se nati nel matrimonio ovvero al di fuori di esso, e, al contempo, consente il superamento delle perplessità concernenti, in séguito all’entrata in vigore della
legge delega (n. 219/2012), la sorte dell’art. 317 bis. In attesa dell’emanazione del decreto legislativo di attuazione, infatti, l’art. 317 bis, nella sua precedente formulazione — finalizzata ad attribuire l’esercizio della potestà sui figli naturali ad entrambi i genitori conviventi oppure all’unico genitore convivente con il minore — assumeva un discusso significato poiché, specie in séguito all’esplicita affermazione dell’unicità dello stato di figlio (art. 315 c.c.),
risultava alquanto contraddittorio conservare una norma dedicata precipuamente all’esercizio della potestà sui figli naturali. Invero, già con l’affermazione della bigenitorialità nell’esercizio della potestà, introdotta dalla legge sull’affido condiviso (l. 8 febbraio 2006, n. 54), la Cassazione (28) aveva attribuito al principio che affida l’esercizio della potestà ad entrambi i genitori
« efficacia pervasiva, e, pertanto, implicitamente abrogante di ogni contraria
disposizione di legge ». Su tali basi, l’art. 317 bis era considerato « tacitamente abrogato », in quanto incompatibile con il principio della bigenitorialità dettato dagli artt. 155 ss. c.c. e con il contenuto dell’art. 4, comma 2o, l. n.
54/2006, poiché quest’ultimo, nel disporre l’applicabilità delle disposizioni in
tema di affidamento condiviso « anche in caso di scioglimento, di cessazione
degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi
ai figli di genitori non coniugati », sembrava perseguire lo scopo di disciplina( 28 ) Pronuncia del 10 maggio 2011, n. 10265, in F. it., 2012, I, c. 822, con nota di G.
De Marzo; di C. Sgobbo, L’esercizio della potestà sui figli naturali da parte dei genitori non
conviventi, in G. it., 2012, p. 790 ss., nonché di M. Sesta, L’esercizio della potestà sui figli
naturali dopo la l. n. 54/2006: quale sorte per l’art. 317 bis cod. civ.?, in Nuova g. civ.
comm., 2011, p. 1206 ss.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
re tutti i rapporti tra genitori e figli naturali, senza limitare la sua operatività
alle vicende caratterizzate da controversie in atto.
Tale orientamento è disatteso dalla più recente giurisprudenza di merito (29), favorevole all’applicazione dell’art. 317 bis ogniqualvolta non fosse in
corso un procedimento giurisdizionale di regolamentazione della convivenza,
sì da attribuire, anche in séguito alla l. n. 54/2006, l’esercizio della potestà
sul figlio naturale ad entrambi i genitori soltanto se conviventi.
A fronte della legge delega n. 219 del 2012, che nulla ha previsto, sì da
lasciare irrisolti i dubbi concernenti la tacita abrogazione dell’art. 317
bis (30), il decreto legislativo ha modificato il contenuto di tale articolo: in
luogo dell’esercizio della potestà sui figli naturali, la norma è ora espressamente dedicata alla legittimazione degli ascendenti a far valere il diritto di
mantenere rapporti significativi con i minori (31), sancendo la possibilità di
adire l’autorità giudiziaria affinché prenda, ove tale diritto sia negato o ostacolato nel suo esercizio, i provvedimenti più opportuni nell’interesse dei minori. La previgente formulazione dell’art. 317 bis, comma 2o, c.c., che attri( 29 ) Trib. min. Bari, 17 novembre 2010, in Fam. dir., 2011, p. 722 ss., con commento
di I. Torre, Cessazione della convivenza nella famiglia di fatto: esercizio della potestà e affidamento condiviso; Trib. dei minorenni di Milano, decr. 7 febbraio 2012, in Nuova g. civ.
comm., 2012, p. 736 ss., con commento adesivo di G. Mansi, L’art. 317 bis cod. civ. resta il
referente normativo primario per l’esercizio della potestà sui figli naturali e di M. Sesta,
Per l’esercizio comune della potestà dei genitori naturali occorre la convivenza, in Fam. e
d., 2012, p. 609 ss. Contrari alla tacita abrogazione dell’art. 317 bis, E. La Rosa, Esercizio
della potestà, sub art. 317 bis c.c., in Comm. Gabrielli, Della famiglia, artt. 177-342 ter, a
cura di Balestra, II, Torino 2010, p. 874 ss.; M. Sesta, L’esercizio della potestà sui figli naturali dopo la l. n.54/2006: quale sorte per l’art. 317 bis cod. civ.?, cit., p. 1206 ss.; Id. e
M. Baldini, La potestà dei genitori, in Id. e Arceri (a cura di), L’affidamento dei figli nella
crisi della famiglia, Torino 2012, p. 136; G. Ferrando, L’adozione in casi particolari:
orientamenti innovativi, problemi, prospettive, in Nuova g. civ. comm., 2012, p. 690, la
quale, con riferimento all’esercizio della potestà sui figli naturali di genitori che non hanno
mai convissuto, nega che l’applicazione della regola della bigenitorialità possa costituire il
risultato di una scelta del legislatore, essendo necessaria una valutazione caso per caso, rispettosa delle differenze tra le fattispecie nelle quali il bambino convive, sin dalla nascita,
con entrambi i genitori (senza che rilevi se siano sposati) da quelle nelle quali il minore vive
soltanto con un genitore. « In questi ultimi casi l’affidamento condiviso non può costituire
la “prima scelta”. Il genitore dovrà, per così dire, entrare in punta di piedi nella vita del figlio, sperando di essere accettato. Né potrà vantare un pari potere decisionale in forza del
diritto alla bigenitorialità che la legge gli riconosce. Quando manchi l’accordo tra i genitori,
il giudice dovrà regolare in concreto l’esercizio della potestà tenendo conto dell’interesse di
ciascun bambino ».
( 30 ) Sul tema, sia pure in diversa prospettiva, L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 215, nonché V. D’Antonio, La potestà dei genitori ed i diritti e i doveri del figlio dopo l’unificazione dello status filiationis, consultabile sul sito www.comparazionedirittocivile.it e M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. e d., 2013, p. 238.
( 31 ) Sulla positiva incidenza di tale rapporto sullo sviluppo della personalità del minore
cfr., già prima della riforma, M. Bianca, Il diritto del minore all’amore dei nonni, in Studi
in onore di Cesare Massimo Bianca, II, cit., p. 117 ss.
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buiva la potestà (oggi responsabilità genitoriale) ad entrambi i genitori che
hanno effettuato il riconoscimento, è ora confluita nel nuovo art. 316, comma
4o, c.c. Importante osservare che, diversamente rispetto al passato, non è più
prevista, ai fini dell’esercizio della responsabilità genitoriale, alcuna distinzione basata sulla convivenza del genitore con il figlio riconosciuto: l’attuale art.
316, comma 4o, c.c., infatti, afferma che « se il riconoscimento del figlio, nato
fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi » (32).
Le predette modifiche consentono di superare il ricorso a specifiche normative per i figli nati fuori dal matrimonio e di riunire in un’unica norma la
disciplina della responsabilità genitoriale — a prescindere dalla convivenza e
dal fondamento della filiazione — confermandone il valore sistematico.
3. — In aggiunta alle innovazioni legislative sin qui analizzate — orientate
all’affermazione del principio dell’unicità dello stato di figlio e alla sua influenza
sull’atteggiarsi dell’impegno genitoriale nei confronti dei figli — molteplici sono
le riforme, operate sia dalla legge delega sia dal decreto legislativo attuativo, che
realizzano un modello di disciplina della filiazione attuativa dei precetti dell’eguaglianza e della dignità della persona. Tra queste, assumono particolare
rilievo, al punto da meritare precise considerazioni in questa sede, le riforme
che promuovono e tutelano, nel rispetto dei princìpi costituzionali, l’interesse
dei figli ad acquisire lo status filiationis. Il riferimento corre, in particolare,
alla ridefinizione della disciplina in materia di disconoscimento della paternità e dei termini per l’esercizio della relativa azione (artt. 243 bis e 244 c.c.);
alle modifiche concernenti l’autorizzazione dell’infrasedicenne ad effettuare il
riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c.) e alla riforma in materia di
riconoscimento dei figli incestuosi (art. 251 c.c.) (33). Non mancano zone
( 32 ) Il previgente art. 317, comma 2o, c.c., invece, così disponeva: « se il riconoscimento
è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi
qualora siano conviventi ».
( 33 ) Alle predette modifiche si aggiungono quelle in tema di legittimazione passiva alla
dichiarazione giudiziale di maternità e di paternità naturale (art. 276 c.c.). È agevole ricordare che l’art. 276 c.c., nella sua versione originaria, consentiva, in ipotesi di morte del genitore, la proposizione della domanda giudiziale di paternità o di maternità naturale unicamente nei confronti degli eredi del genitore. Su tali basi, la giurisprudenza (cfr. Cass., sez.
un., 3 novembre 2005, n. 21287, in G. it., 2006, I, p. 54 e, nella stessa direzione, Trib. Milano, 22 giugno 2009, in Fam. pers. succ., 2010, p. 108 ss., con nota di A. Buldini, La legittimazione passiva alla dichiarazione giudiziale di paternità dopo la morte del presunto
genitore) negava la possibilità di individuare negli eredi degli eredi i destinatari della domanda, in aggiunta agli eredi legittimi o testamentari [sul tema, E. Carbone, sub art. 276,
in L. Balestra (a cura di), Della famiglia, artt. 177-342 ter, cit., p. 620 s.]. Chiamata a
pronunciarsi sulla conformità dell’art. 276 c.c. agli artt. 3 e 24 cost. — nella parte ove non
prevedeva, allorquando fosse premorto sia il preteso genitore sia i suoi eredi, la possibilità
di agire per l’accertamento della paternità o maternità naturale in contraddittorio con un
curatore speciale oppure con gli eredi dei defunti eredi diretti del preteso genitore — la
Consulta (con sentenza del 29 ottobre 2009, n. 278, in G. cost., 2009, p. 3887; cfr. sul te-
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
d’ombra e questioni non risolte dalla riforma: ad esse saranno dedicate più
ampie riflessioni nel prosieguo del presente lavoro.
Con riferimento alla disciplina dell’azione per il disconoscimento della
paternità, il principio di delega dettato dall’art. 2, comma 1o, lettera d), perseguiva lo scopo di procedere alla « ridefinizione della disciplina del disconoscimento di paternità, con riferimento in particolare all’articolo 235, comma
1o, numeri 1, 2 e 3, del codice civile, nel rispetto dei princìpi costituzionali ».
In attuazione di tale norma, l’art. 106 del decreto legislativo ha abrogato
l’art. 235 c.c. e all’art. 17 ha introdotto una nuova normativa: l’art. 243 bis
del Capo III (rubricato « Dell’azione di disconoscimento e delle azioni di contestazione e di reclamo dello stato di figlio ») del Titolo VII del Libro primo
del codice civile (34). Analogamente a quanto già sancito dal precedente art.
235 c.c., si nega la legittimazione attiva all’esercizio della predetta azione ai
terzi estranei alla famiglia, consentendola unicamente al marito, alla madre e
al figlio, aggiungendo altresì la legittimazione, nell’interesse del figlio minore,
del curatore speciale nominato dal giudice (art. 244, comma 6o, c.c.). Permane, in quanto non indicato tra i soggetti legittimati a proporre l’azione, l’impossibilità per il padre naturale di agire in giudizio per far disconoscere la paternità di altri (35).
Particolare rilievo assume la soppressione dell’analitica elencazione dei
presupposti (mancata coabitazione, impotenza e adulterio della moglie) ai
quali era subordinata l’azione di disconoscimento. Tale disciplina lascia spazio, nel nuovo art. 243 bis c.c., ad una normativa meno articolata, in grado di
superare le rigide condizioni prima imposte dall’art. 235 c.c., prevedendo che
« chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre » (36). L’introduzione di tale norma auma, prima ancóra, Corte cost., 20 marzo 2009, n. 80, in Fam. e d., 2009, p. 545 ss. e, precedentemente, Corte cost., 21 dicembre 2007, n. 450, in G. cost., 2008, p. 4879 ss.) ha dichiarato la questione inammissibile, precisando che un’eventuale pronuncia additiva rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore, unicamente al quale spetterebbe « indicare
quale legittimato passivo della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, in caso di premorienza del genitore e dei suoi eredi, un curatore speciale, ovvero [...] individuare i legittimati negli eredi degli eredi del preteso genitore ». Si conforma a
tale posizione il legislatore della riforma, il quale ha superato i limiti derivanti dal tenore
letterale del previgente articolo 276 c.c. aggiungendo nella sua novellata formulazione che,
in mancanza di genitore e di eredi, l’azione può essere proposta « nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso ».
( 34 ) Tale Capo — in virtù dell’art. 7, comma 5o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 — si
sostituisce all’originaria Sezione III del Capo I del Titolo VII del Libro I del codice civile.
( 35 ) Secondo la giurisprudenza, l’intervento, nel processo di disconoscimento, del presunto padre è inammissibile in quanto portatore di un mero interesse di fatto: cfr. Cass., 8
febbraio 2012, n. 1784, in Foro it., 2012, I, c. 1033 ss., sulla quale v. A. Frassinetti, Giudizio di disconoscimento della paternità e difetto di legittimazione a intervenire dal preteso
padre naturale (e dei suoi eredi), in Fam. e d., 2012, p. 876 ss. e Cass., 12 marzo 2012, n.
3934, in Rep. F. it., 2012, voce Filiazione, n. 47.
( 36 ) Il terzo comma dell’articolo 243 bis, in maniera del tutto identica al precedente art.
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menta le occasioni di ricorso all’azione di disconoscimento al fine di rimuovere lo status di figlio legittimo e di accertarne il concepimento in capo a persona diversa dal presunto padre (37), favorendo un ampliamento delle ipotesi di
accertamento della verità biologica nel segno di una prevalenza del favor veritatis sul favor legitimitatis (38).
Riguardo, invece, al connesso profilo concernente la previsione dei termini di decadenza per l’esercizio dell’azione in questione, l’art. 18 del decreto
legislativo sostituisce il disposto normativo del previgente art. 244 c.c. al fine
di adeguarlo, sul piano tanto letterale quanto sostanziale, alle numerose pronunce della Corte costituzionale intervenute sul tema. In particolare, con sentenza del 14 maggio 1999, n. 170 (39), la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 244, comma 2o, c.c., là dove non sanciva che, nell’ipotesi
di impotenza soltanto di generare (ex art. 235, comma 1o, n. 2, c.c.), il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità decorreva tanto per il marito quanto per la moglie dal giorno nel quale si fosse avuta
conoscenza dell’impotenza di generare. In attuazione di tale esito decisorio, il
comma 2o del novellato art. 244 c.c. prevede che il termine di sei mesi per la
proposizione dell’azione di disconoscimento decorre, per la madre, (dalla nascita del figlio oppure) « dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento ». Per il marito, invece, il termine di un anno per la proposizione della domanda decorre, « se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della
moglie (40) al tempo del concepimento, dal giorno nel quale ne ha
235, comma 2o, c.c., sancisce che « la sola dichiarazione della madre non esclude la paternità ».
( 37 ) In tale direzione già Corte cost., 6 luglio 2006, n. 266, in Corr. giur., 2006, p.
1367 ss., con nota di V. Carbone, Basta la prova del dna e non più dell’adulterio per disconoscere la paternità, la quale, nel disattendere l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva l’esame ematologico e genetico, ex art. 235 comma 1o, n. 3, c.c., soltanto previa dimostrazione dell’adulterio della moglie, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
235, comma 1o, n. 3, c.c., là dove subordinava l’esame delle prove tecniche, dalle quali risultavano caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie.
( 38 ) Con particolare attenzione al favor veritatis nell’esercizio dell’azione di disconoscimento, R. Pane, « Favor veritatis » ed azione di disconoscimento di paternità, in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, cit., p. 125 ss. Più in generale, sulle implicazioni
del favro veritatis, F. Turlon, Nuovi scenari procreativi: rilevanza della maternità “sociale”, interesse del minore e favor veritatis, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 712 ss.
( 39 ) In Foro it., 2001, I, c. 1116 ss.
( 40 ) Con sentenza del 6 maggio 1984, n. 134, in Corr. giur., 1985, p. 783 ss., con nota
di V. Carbone, Il padre può disconoscere il figlio da quando sa che non è suo (cfr., inoltre,
A. Amatucci, Disconoscimento per adulterio: effetti della sentenza additiva della Corte costituzionale, in F. it., 1985, I, c. 2532 ss. e A. De Cupis, Adulterio e decorrenza dell’azione
di disconoscimento della paternità, in G. it., 1985, I, p. 1153 ss.), la Corte costituzionale
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 24, comma 1o, cost., dell’art. 244, comma 2o, c.c., nella parte ove non disponeva, per il caso previsto dal n. 3 del-
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avuto conoscenza » (41). Inoltre, diversamente rispetto alla disciplina antecedente, ai figli è consentito conservare il proprio status là dove tanto la madre
quanto il padre non abbiano promosso l’azione decorsi cinque anni dal giorno
della nascita (art. 244, comma 4o, c.c.).
Significativa si rivela altresì l’introduzione dell’imprescrittibilità dell’azione in ipotesi di proposizione da parte del figlio, là dove, prima della riforma, ciò era consentito « entro un anno dal compimento della maggiore età
o dal momento in cui veniva successivamente a conoscenza dei fatti che rend[evano] ammissibile il disconoscimento ». La modifica si spiega in ragione
dell’esigenza di realizzare una maggiore omogeneità con la disciplina in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, la quale, nel
novellato art. 263, comma 3o, c.c., conserva l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio (già sancita dalla precedente formulazione dell’art. 263, comma 3o, c.c.) ma aggiunge limiti di decadenza, prima non previsti, per gli altri
legittimati (42).
Riguardo, infine, alla promozione dell’azione da parte del curatore speciale, l’ult. comma dell’art. 244 c.c. — in luogo della previsione che subordinava l’istanza del figlio al compimento del sedicesimo anno — sancisce l’abbassamento dell’età del minore al quattordicesimo anno, consentendo di promuovere l’istanza, in ipotesi di età inferiore, non soltanto al pubblico ministero (come nella formulazione precedente) ma anche all’altro genitore.
4. — Con riferimento alla disciplina del riconoscimento di figlio naturale
(art. 250 c.c.), in aggiunta alla modifica terminologica — che sostituisce
l’espressione « figlio naturale » con « figlio nato fuori del matrimonio » —
condivisibilmente si modifica, in ragione di un più ampio rispetto della personalità e della capacità di autodeterminazione (43), l’età in presenza della qual’art. 235 c.c., che il termine per proporre l’azione di disconoscimento decorresse dal giorno
in cui il marito fosse venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie.
( 41 ) Invece, come sancito anche dalla precedente formulazione dell’art. 244, comma 2o,
c.c., il termine decorre « dal giorno della nascita quando [il marito] si trovava al tempo di
questa nel luogo in cui è nato il figlio ». Benché collocata in un contesto temporale antecedente alle riforme segnate dal decreto legislativo, Cass., 30 maggio 2013, n. 13638, in Foro
it., 2013, I, c. 2472 ss., ha chiarito che, in ipotesi di esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità per adulterio della moglie, il termine annuale di decadenza per la proposizione della domanda decorre, per il marito, dalla data di acquisizione della conoscenza
dell’adulterio e non già da quella nella quale si raggiunge (ad esempio in séguito ad indagini ematologiche che escludono la paternità) la certezza negativa.
( 42 ) Cfr. § 6.
( 43 ) Sul punto, V. Santarsiere, Le nuove norme sui figli nati fuori dal matrimonio. Superamento di alcuni aspetti discriminatori, in G. mer., 2013, p. 522 ss.; S. Troiano, Le innovazioni alla disciplina del riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 2o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit.,
p. 451 ss. Sottolinea A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, cit., p. 262, che « sarebbe stato più opportuno sostituire le presunzioni basate sull’età con l’unica nozione di ca-
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le si richiede il consenso del minore, abbassandola dai sedici ai quattordici
anni (44) e prevedendo, al di sotto di tale limite temporale, il consenso del genitore che abbia effettuato il riconoscimento (45).
All’ult. comma permane, invece, per i genitori, il compimento dei sedici
anni quale dies a quo per effettuare il riconoscimento. Tale limite « da rigido
diventa elastico » (46), consentendo al giudice di superarlo « valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio » (art. 250, comma 5o, c.c.).
Il comma 4o del medesimo articolo è interamente riscritto (47): si prevede,
pacità di discernimento — da accertare caso per caso — e rendere obbligatoria — in ossequio alla giurisprudenza più recente della Cassazione — la motivazione del giudice in ordine al mancato accoglimento della volontà espressa dal minore la quale sottolinea l’opportunità di presunzioni basate non sull’età ma sull’effettiva e concreta capacità di discernimento ».
( 44 ) Sì che, in luogo dell’originaria previsione, dettata dall’art. 250, comma 2o, c.c. —
secondo la quale « il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso » — il novellato comma 2o dell’art. 250 c.c. afferma che non produce effetto, senza il suo assenso, il riconoscimento del figlio « che ha compiuto i quattordici anni ».
( 45 ) In particolare, secondo l’art. 250, comma 3o, c.c., « il riconoscimento del figlio che
non ha compiuto i quattordici anni » — e non già sedici, come nella precedente formulazione — « non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento ». Prima della riforma, attribuisce rilievo all’interesse del minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, in ipotesi di opposizione dell’altro genitore, Cass., 3 gennaio 2008, n. 4, in Giust. civ., 2008, p. 1116 ss., secondo la quale tale interesse « è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in
particolare, dal diritto all’identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica ».
( 46 ) Così G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione, cit., p. 530.
( 47 ) La norma è modificata dall’art. 1, comma 2o, lett. d, l. 10 dicembre 2012, n. 219.
Riguardo alla disciplina antecedente, la Corte costituzionale (con le pronunce 11 marzo
2011, n. 83, in F. it., 2011, I, c. 1289 ss. e 10 novembre 2011, n. 311, in Giur. cost., 2011,
p. 4215 ss.) aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art.
250, comma 4o, c.c. — sollevata per violazione degli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 cost. —
nella parte ove non prevedeva, per il figlio che non avesse ancóra raggiunto i sedici anni di
età, « adeguate forme di “tutela” dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di
autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti ». La
questione è considerata non fondata dalla Consulta ben potendo il giudice a quo procedere
ad un’interpretazione adeguatrice dell’art. 250 c.c., tale da individuare nel minore infrasedicenne coinvolto nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda « un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e
interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse ». Al minore, pertanto, va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di
opposizione, ex art. 250, comma 4o, c.c. e, in ipotesi di conflitto di interessi, anche in via
potenziale, il giudice è tenuto alla nomina di un curatore speciale (Corte cost., 11 marzo
2011, n. 83, cit.). Precisa che, nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale (ex art. 250, comma 4o, c.c.), il minore di anni sedici deve necessariamente
essere sentito Cass., 13 aprile 2012, n. 5884, in Fam. e d., 2012, p. 653 ss., con commento
di V. Carbone, Opposizione al riconoscimento di figlio naturale: il minore infrasedicenne
non solo dev’essere sentito ma è parte del processo.
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in ipotesi di consenso del genitore che abbia effettuato il riconoscimento, un
modello normativo basato sul silenzio-assenso, in virtù del quale il genitore
che voglia procedere al riconoscimento del figlio ricorre, in ipotesi di rifiuto
dell’altro genitore, al giudice, il quale fissa un termine per la notifica del ricorso. Decorsi trenta giorni e in assenza di opposizione dell’altro genitore, il
giudice emette una sentenza sostitutiva del consenso mancante. In ipotesi di
opposizione, dopo aver disposto l’audizione del figlio che abbia compiuto i
dodici anni oppure, se capace di discernimento, di età inferiore, il giudice
emette sentenza sostitutiva del consenso mancante, indicando altresì i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento, al mantenimento e al cognome del minore.
La novella ha il merito di superare i limiti sottesi alla precedente disciplina e denunciati da attenta dottrina, la quale, con riferimento al compimento
dei sedici anni quale presupposto indispensabile per superare (ex art. 250,
ult. comma, c.c., antecedente alla riforma) la preclusione che impediva al minore di effettuare il riconoscimento, opportunamente aveva posto in evidenza
come la « soluzione desta[sse] perplessità, impedendosi l’esercizio di una situazione esistenziale garantita dalla Costituzione (art. 30, comma 1o) non a
séguito dell’accertamento dell’inidoneità del genitore a svolgere i propri compiti (art. 30, comma 2o, cost.), ma soltanto dell’incapacità legale a compiere
l’atto di riconoscimento (48) ». Il nuovo disposto normativo argina tale effetto
preclusivo ammettendo la possibilità, per il genitore naturale infrasedicenne,
di procedere al riconoscimento, purché sussista la previa autorizzazione del
giudice.
5. — Significative le modifiche concernenti il divieto di riconoscimento
della filiazione incestuosa (art. 251 c.c.). La riforma incide, in particolare,
sulle condizioni — ignoranza da parte del genitore, al tempo del concepimento, del vincolo esistente oppure dichiarazione di nullità del matrimonio dal
quale derivava l’affinità — in presenza delle quali la disciplina antecedente
consentiva il riconoscimento. Il divieto — ancor più dopo l’intervento della
Corte costituzionale (49) che, con una sentenza « connotata da una forte voca( 48 ) F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 926 s.
( 49 ) Decisione del 28 novembre 2002, n. 494, in Fam. e d., 2003, p. 119 ss., con commento di M. Dogliotti, La Corte costituzionale interviene a metà sulla filiazione incestuosa
[sul tema, v. anche C.M. Bianca, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini
sulla paternità e maternità di cui all’art. 278, comma 1, c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), in G. cost., 2002, p. 4068 ss.; G. Di Lorenzo, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale dei figli nati da rapporto incestuoso, ivi, 2003, p. 446 ss.; G.
Ferrando, La condizione dei figli incestuosi: la Corte costituzionale compie il primo passo,
in Familia, 2003, p. 848 ss.; Ead., I diritti negati dei figli incestuosi, in Scritti in onore di
Cesare Massimo Bianca, II, cit., p. 222; R. Quadri, Filiazione naturale e diritto successorio,
in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni, cit., p. 886 s.] la quale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, comma 1o, c.c., nella parte in cui
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zione sistematica » (50), ha considerato lesivo della dignità umana il trattamento discriminatorio riservato dal codice civile ai figli nati da genitori legati
da vincoli di parentela — appariva in tutta la sua irragionevolezza (51), risultando « profondamente ingiusto che la condizione giuridica dei figli nati da
incesto dipend[esse] da uno stato soggettivo (buona fede o mala fede) che riguarda i loro genitori » (52).
In séguito alla riforma, la buona fede dei genitori e la dichiarazione di
nullità del matrimonio non assumono rilievo in quanto l’interesse dei figli
prevale sulla ripugnanza dell’incesto. Nel rimuovere (ex art. 1, comma 3o, l.
10 dicembre 2012, n. 219) « un’odiosa discriminazione che portava a discriminare i figli solo in ragione delle colpe dei genitori » (53), la riforma muta la
rubrica dell’art. 251 c.c., sostituendo l’intitolazione « Riconoscimento dei figli
incestuosi » con il sintagma « Autorizzazione al riconoscimento ». La predetta
modifica anticipa, con eloquenza, il contenuto normativo del novellato articolo, il quale segna il raggiungimento di un importante traguardo di civiltà giuridica poiché supera il divieto previgente e ammette la riconoscibilità del figlio incestuoso previa autorizzazione del giudice (54), avuto riguardo all’inteescludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative
indagini, nei casi ove, a norma dell’art. 251, comma 1o, del codice civile, il riconoscimento
dei figli incestuosi è vietato. Benché chiamata a pronunciarsi sia sull’art. 251 c.c. sia sull’art. 278 c.c., la Consulta circoscrive la sentenza di incostituzionalità all’art. 278 c.c., precisando che tale accoglimento « non coinvolge il parallelo divieto di riconoscimento nelle
medesime ipotesi ».
( 50 ) E « che fa giustizia di alcune (preconcette) interpretazioni del passato e, nel contempo, si fa carico di leggere, in modo più confacente a Costituzione, il rapporto tra famiglia (intesa come istituzione) ed i singoli membri che la compongono »: ampie riflessioni riguardo alla pronuncia n. 494/2002 della Corte costituzionale in S. Pagliantini, Princìpi costituzionali e sistema della filiazione, cit., p. 570.
( 51 ) Perplessità nei confronti della scelta del legislatore del 1942, che riconduceva le
ipotesi dei figli incestuosi alla categoria dei figli irriconoscibili, sono manifestate da A.C. Jemolo, I figli incestuosi, in questa Rivista, 1976, II, p. 564 (nella sua celebre rubrica « Gli
occhiali del giurista »). Prima ancóra, la filiazione incestuosa dovrebbe essere riconosciuta
per F. Santoro Passarelli, La filiazione nel progetto di codice civile, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 463.
( 52 ) F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 937. Favorevole al riconoscimento, per il figlio naturale, del « diritto alla
propria identità biologica e personale, anche se frutto di una relazione deprecabile tra i genitori », V. Carbone, È costituzionalmente legittimo il divieto di riconoscere il figlio incestuoso?, in Fam. e d., 2002, pp. 474 ss. e spec. 479.
( 53 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del
2012, cit., p. 220.
( 54 ) L’articolo, già modificato dalla legge delega, è ulteriormente novellato dall’art. 22,
d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, il quale ha sostituito al sintagma « tribunale per i minorenni » l’espressione più generica di « giudice », al fine di riservare alle disposizioni di attuazione l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente. Riguardo all’età — se soltanto in
ipotesi di minore ovvero anche per il maggiorenne — in presenza della quale l’autorizzazione
del giudice si rivela necessaria, cfr. L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 206.
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resse del figlio e alla necessità di evitare pregiudizi (55). Nel rimuovere l’assoluto divieto al riconoscimento e nel rimettere la decisione all’apprezzamento
del giudice, secondo il concreto interesse del figlio, la nuova disciplina distingue tra figli incestuosi il riconoscimento dei quali non sia stato chiesto o autorizzato e figli riconosciuti a séguito di autorizzazione giudiziale, ex art. 251
c.c.
La riforma, sia nella legge delega sia nel decreto legislativo di attuazione,
tace sull’incidenza del venir meno dell’assoluta preclusione al riconoscimento
dei figli incestuosi sulla disciplina, dettata dagli artt. 580 e 594 c.c. e rimasta
immutata, che pone in una posizione di disfavore, in sede successoria, i figli
(prima della riforma) non riconoscibili, i quali sono esclusi dalla successione
a titolo universale ab intestato, avendo diritto unicamente ad un assegno vitalizio commisurato alla rendita della quota di eredità spettante se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta (56). Sorge spontaneo l’interrogativo
su come coordinare la nuova disciplina dettata dal novellato art. 251 c.c. con
il permanere della normativa successoria dei figli incestuosi.
A fronte del silenzio del legislatore, sembrerebbe, prima facie, che la vigenza della normativa successoria che riserva ai figli non riconoscibili unicamente l’assegno vitalizio determini una palese incongruenza nella disciplina
della filiazione, risultando — in virtù dell’affermazione del principio di unicità dello stato di figlio, affermato dal novellato art. 315 c.c. — priva dell’originaria ragione giustificatrice, stante l’eliminazione della categoria dei figli prima reputati sempre irriconoscibili e la parificazione, anche sul piano succes( 55 ) Cfr. G. Lisella, Riconoscimento di figlio nato da relazione incestuosa e autorizzazione del giudice, in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia, cit., p. 57 ss.; T.
Auletta, Riconoscimento dei figli incestuosi (art. 251 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 3o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 475 ss.; G. Palazzolo, Riconoscimento dell’incesto e induzione al reato nel nuovo art. 251 c.c.: sulla perdurante importanza dell’azione di mantenimento ex art. 279 c.c. e dei diritti alimentari e successori dei figli incestuosi, in Corti salernitane, 2013, p. 62 ss., nonché Id., Riconoscimento
dell’incesto e induzione al reato, in R. Cippitani e S. Stefanelli (a cura di), La parificazione degli status di filiazione, Atti del Convegno di Assisi 24-25 maggio 2013, Perugia-Roma-México 2013, p. 219 ss.
( 56 ) In luogo dell’assegno, il figlio ha diritto alla capitalizzazione in denaro ovvero, a
scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari (art. 580 c.c.). Dubbi sulla conformità a Costituzione di tale disciplina in U. Majello, Intervento, in La riforma del diritto di famiglia, Atti del I Convegno di Venezia del 30 aprile-1o maggio 1967, Padova 1967, p. 188; D. De
Robertis Scapinelli, La giurisprudenza costituzionale in tema di filiazione naturale: lineamenti e spunti critici, in R. trim., 1976, p. 344; C. Miraglia, Riconoscibilità dei figli incestuosi e tutela della personalità umana, in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, cit., p. 206 e A. Ambanelli, La filiazione non riconoscibile, in Il diritto di famiglia, III,
Famiglia e adozione, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, 2a ed., cit., p. 236. In opposta direzione,
esclude l’incostituzionalità della norma, rinvenendo nella peculiare condizione dei figli incestuosi la ragione del diverso trattamento, R. Scognamiglio, sub art. 580 c.c., in Comm.
alla riforma del diritto di famiglia Carraro-Oppo-Trabucchi, t. 1, II, Padova 1977, p. 859
s.
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sorio, tra figli nati nel matrimonio e figli nati al di fuori di esso (57). Ne consegue che, se si intendesse l’àmbito di applicazione degli artt. 580 e 594 c.c. limitato ai soli figli che — secondo la previgente disciplina — non potevano
proporre l’azione di stato in quanto incestuosi (58), l’abrogazione tacita della
normativa concernente il loro trattamento successorio costituirebbe una scelta
obbligata.
Una diversa soluzione può essere argomentata riferendo l’applicazione
degli artt. 580 e 594 c.c. sia ai figli incestuosi tout court (ossia a quelli per i
quali l’autorizzazione è negata) sia a quelli riconoscibili (in astratto) ma non
riconosciuti in concreto (59) o perché, in ipotesi di figlio incestuoso, sia stata
negata l’autorizzazione del giudice ovvero per effetto dei limiti generali al riconoscimento del figlio naturale derivanti dall’art. 250 c.c.
In tali fattispecie, ancorché marginali, la soluzione dell’abrogazione tacita degli artt. 580 e 595 c.c. appare incongrua poiché permane l’esigenza di ricorrere alla tutela specifica dettata dalle norme in questione (60): si pensi alle
ipotesi di figlio ultraquattordicenne non riconoscibile stante l’assenza del pro( 57 ) L’art. 71, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha abrogato la norma (art. 537, comma
3o, c.c.) che consentiva ai figli legittimi il diritto di commutazione. Per un’analisi dei profili
successori, M. Paradiso, Status di filiazione e diritti successori nella riforma e R.D. Cogliandro, Diritti successori e commutazione, entrambi in R. Cippitani e S. Stefanelli (a cura di),
La parificazione degli status di filiazione, cit., rispettivamente pp. 239 ss. e 261 ss., nonché
A.P. Di Flumeri, Nuovi scenari e prospettive del diritto successorio alla luce della riforma
della filiazione, in R. Pane, Nuove frontiere della filiazione, cit., p. 159 ss. e F. Delfini, Riforma della filiazione e diritto successorio, in Corr. giur., 2013, p. 545 ss.
( 58 ) In tale direzione, L. Carraro, sub art. 594, in Comm. alla riforma del diritto di famiglia, cit., p. 871 s.
( 59 ) In passato, per un’applicazione non limitata soltanto ai figli che non possono proporre l’azione di stato, G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in
Tratt. Rescigno, 5, t. 1, 2a ed., Torino 1997, p. 480. Secondo L. Mengoni, Delle successioni
legittime, sub artt. 565-586, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1985, p. 75, il riferimento dell’art. 580 c.c. ai figli non riconoscibili « non ha un valore privativo nei confronti dei figli riconoscibili, ma soltanto un valore incrementativo: significa, cioè, che questi
figli (non riconosciuti) non sono più, in nessun caso, ridotti al semplice assegno vitalizio,
essendo loro consentito, senza più alcun limite, di provare la filiazione anche con una domanda di accertamento di stato ». In favore dell’estensione della normativa dettata dagli
artt. 279, 580 e 594 ai figli riconoscibili e dichiarabili, ma privi di stato, G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, Napoli 1991, pp. 14 ss., 50 ss. e 58 ss. (sul quale v. G. Lisella,
« I diritti dei figli privi di stato »: a proposito di un recente contributo, in Rass. d. civ.,
1993, p. 356 ss.). Sul tema cfr., inoltre, G. Marinaro, Àmbito di operatività della normativa di cui agli articoli 580 e 594 c.c., in tema di assegno successorio, in Rass. d. civ., 1981,
p. 428 ss. La categoria dei figli naturali non riconoscibili aventi diritto all’assegno successorio non coincide con quella dei figli incestuosi per G.W. Romagno, La successione dei figli
privi di stato alla luce di una recente sentenza della Corte costituzionale, in questa Rivista,
2003, II, p. 575 ss.
( 60 ) Il tema è discusso da M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti
delle relazioni familiari, cit., p. 238 s., secondo il quale gli articoli 580 c.c. e 594 c.c. conservano piena validità, risultando applicabili a talune fattispecie di figli non riconoscibili
ancora rientranti nell’àmbito di applicazione dell’art. 279 c.c.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
prio consenso (novellato art. 250, comma 2o, c.c.) ovvero al figlio inferiore di
anni quattordici non riconoscibile per mancanza sia del consenso del genitore
che abbia già effettuato il riconoscimento (art. 250, comma 3o, c.c.) sia dell’autorizzazione del giudice (art. 250, comma 4o, c.c.), nonché alla vicenda
del figlio non riconoscibile in quanto nato da genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e che, valutate le circostanze e avuto riguardo
al loro interesse, non siano stati autorizzati dal giudice (art. 250, comma 5o,
c.c.) (61). Del pari, in ipotesi di figlio riconoscibile, ma non riconosciuto, il
quale, piuttosto che agire per far accertare il proprio stato di figlio naturale,
preferisca conseguire i soli diritti successori previsti dagli articoli 580 e 594
c.c., appare irragionevole negare a priori la scelta tra accedere alla predetta
tutela ovvero agire per ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità o di
maternità naturale (62).
6. — Il quadro normativo sin qui tracciato rende evidente che i contenuti
innovativi della riforma, « al di là dell’importanza tecnica, assum[ono] un valore culturale e simbolico di inestimabile portata » (63).
( 61 ) In tale direzione V. Barba, Le successioni mortis causa dei figli naturali dal 1942 al
disegno di legge recante « Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali », in
Fam. pers. succ., 2012, p. 665 s., secondo il quale le ipotesi nelle quali l’autorizzazione al riconoscimento è negata dal giudice legittima la vigenza nel nostro ordinamento di uno « statuto successorio dei figli non riconoscibili ». Pertanto, in tali fattispecie, le norme dettate dagli artt. 580 e 594 c.c. « non po[ssono] essere toccate e il disegno di legge in parola, pur comprimendo, nei fatti, ancóra assai significativamente, l’area della loro applicazione, non può
dirsi che ne tolga il diritto a rimanere in vigore. Non vacilla, dunque, l’orizzonte di domande e
problemi sollevati dalle predette regole, pur nella consapevolezza della residualità del caso ».
( 62 ) Così anche V. Barba, o.c., p. 666. Del pari, reputa inaccettabile la posizione di chi
preclude il ricorso all’assegno vitalizio al figlio che volontariamente non abbia agito per la
dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, A. Ciatti, in Id. (a cura di),
Fam. e min., cit., p. 272 s. Ulteriori approfondimenti in M. Dossetti, in V. Cuffaro e F.
Delfini, Delle successioni. Artt. 565-712, 2, in Comm. Gabrielli, Torino, 2010, p. 70 ss.
( 63 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del
2012, cit., p. 206. In favore della piena eguaglianza tra figli cfr., prima della riforma (e con
esplicito riferimento a Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Nuova g. civ. comm., 1998,
I, p. 678 ss., con nota di G. Ferrando, Crisi della famiglia di fatto, tutela dei figli naturali,
assegnazione della casa familiare), Corte cost., 21 ottobre 2005, n. 394 — in Notariato,
2006, p. 11 ss.; in Corr. giur., 2005, p. 1675 ss., con nota di V. Carbone, Anche il genitore
affidatario di figli naturali può trascrivere il titolo di assegnazione della casa familiare —
secondo la quale « la condizione dei figli deve essere considerata come unica, a prescindere
dalla qualificazione del loro status, e non può incontrare differenziazioni legate alle circostanze della nascita: ciò perché il “principio di responsabilità genitoriale” di cui all’art. 30
della Costituzione rappresenta il fondamento di “quell’insieme di regole, che costituiscono
l’essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole” [...], regole che debbono trovare uniforme applicazione
indipendentemente dalla natura, giuridica o di fatto, del vincolo che lega i genitori. Conseguentemente, “il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti fra genitori e figli — legittimi e naturali riconosciuti — identico essendo il contenuto dei doveri,
oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri” ».
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Non mancano, tuttavia, perplessità tali da alimentare il sospetto di un
deliberato silenzio del legislatore riguardo a talune ulteriori questioni non risolte dalla riforma.
Testimonianza eloquente di tale disagio si rintraccia nella perdurante incertezza caratterizzante la controversa problematica concernente la possibilità
di riconoscere il diritto, ex art. 263 c.c., di impugnare il riconoscimento del
figlio naturale al genitore che lo abbia effettuato nella consapevolezza della
sua falsità (64). La giurisprudenza, in passato (65), reputava ammissibile tale
impugnazione indipendentemente dalla situazione soggettiva dell’autore del
riconoscimento, in quanto la corrispondenza tra gli stati familiari e la situazione reale era considerata rispondente ad un’esigenza pubblicistica superiore, in grado di giustificare l’impugnazione di chiunque ne avesse interesse,
compreso l’autore in mala fede della falsa dichiarazione di riconoscimento. A
fronte della consapevolezza secondo la quale, così facendo, si consentirebbe a
chiunque di precedere ad un riconoscimento di figlio naturale non veridico,
attribuendo perfino all’autore in mala fede la legittimazione ad impugnarlo in
qualsiasi momento, si osservava — in aggiunta a quanto precisato in una delle pronunce più risalenti, secondo la quale l’impugnazione del riconoscimento
non comporterebbe una deroga alla sua irrevocabilità (66) — che « solo un intervento correttivo dell’odierno legislatore potrebbe ovviare al grave inconveniente di cui or ora si è detto » (67); ciò in ragione del principio di ordine superiore di tutela della verità (68).
( 64 ) L’art. 263 c.c. è sostituito dall’art. 28 del decreto legislativo n. 154 del 2013. La
riforma (sulla quale v. R. Rosetti, Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 46 ss.) non ha inciso sul
problema affrontato nel testo, essendo rimasto immutato il comma 1o, secondo il quale « il
riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse ». Tra le innovazioni
apportate dalla novella alla norma in questione si registrano: l’eliminazione della disposizione che consentiva il riconoscimento anche dopo la legittimazione; la precisazione secondo la quale l’imprescrittibilità dell’azione opera esclusivamente riguardo al figlio; la possibilità per i soggetti legittimati (diversi dall’autore) di impugnare il riconoscimento entro il
termine di cinque anni dall’annotazione sull’atto di nascita; la previsione del termine, a decorrere dalla medesima circostanza, di un anno quale lasso temporale entro il quale è consentito all’autore di procedere all’impugnazione del riconoscimento. Riguardo a tale ultimo
profilo, la Consulta — chiamata a pronunciarsi sulla conformità a Costituzione della predetta norma, nella parte ove, prima della riforma, ometteva di sottoporre ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione di impugnazione per difetto di
veridicità — aveva dichiarato la questione inammissibile, affermando che è cómpito del legislatore procedere all’indicazione delle modalità e dei termini per sollevare l’azione prevista dall’art. 263 c.c.: Corte cost., 12 gennaio 2012, n. 7, in Giur. cost., 2012, p. 45 ss.
( 65 ) Cass., 24 maggio 1991, n. 5886, in F. it., 1992, I, c. 449 ss.
( 66 ) Cass., 16 luglio 1956, n. 2721, in Rep. F. it., 1956, voce Filiazione, n. 93.
( 67 ) Cass., 24 maggio 1991, n. 5886, cit.
( 68 ) Cfr. Cass., 16 luglio 1956, n. 2721, cit., secondo la quale « la legge, per i motivi di
ordine pubblico che prevalgono nelle questioni di stato, consente che l’autore del riconosci-
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In opposta direzione, un orientamento diffuso specie nella giurisprudenza
di merito più recente (69), ha precisato che l’interpretazione dell’art. 263 c.c.
conforme ai princìpi fondamentali dell’ordinamento vigente « impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza
della sua falsità », poiché « attribuire la legittimazione ad impugnar[lo] a chi
lo abbia in mala fede effettuato, o concorso ad effettuare, ha sul piano logico
la stessa valenza di una revoca, vietata espressamente dalla legge (art. 256
c.c.) » (70). Su tali presupposti e alla luce del parallelismo con la giurisprudenza in materia di fecondazione eterologa — la quale nega la legittimazione
all’azione di disconoscimento al marito che abbia prestato il proprio consenso
alla fecondazione assistita (71) — il diritto di impugnare il riconoscimento di
figlio naturale è negato all’autore consapevole della sua falsità.
Divergenze di pari rilievo si registrano in dottrina (72), ove alla ricostruzione contraria all’impugnazione del riconoscimento per l’autore consapevole
mento provi di aver mentito » nel rendere la falsa dichiarazione. Si ispira al « principio di
ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere » Corte cost., 18 aprile
1991, n. 158, in G. cost., 1991, p. 1373, la quale considera non fondata — in riferimento
agli artt. 2, 3, 30 e 31 cost. — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c.,
nella parte ove non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per
difetto di veridicità possa essere accolta soltanto quando sia reputata dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso. Significativamente la pronuncia afferma che, « mentre a
fondamento della legittimazione all’impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità
del riconosciuto o del terzo sono individuabili posizioni di interesse personale, sia morale
sia patrimoniale, nella legittimazione dell’autore del mendacio può residuare soltanto l’interesse disinteressato alla verità, mero pentimento per la falsità dichiarata ». In analoga direzione, Corte cost., 22 aprile 1997, n. 112, in Foro it., 1999, I, c. 1764 ss. e Trib. Genova,
26 aprile 2012, consultabile sulla banca dati Pluris online.
( 69 ) Trib. Roma, 5 ottobre 2012, in Rass. d. civ., 2013, p. 926 ss., con commento di P.
Virgadamo, Falso e consapevole « riconoscimento » del figlio naturale o vero atto (illecito)
comportante l’assunzione della responsabilità genitoriale? Per un’interpretazione non formalistica dell’atto privato; Trib. Roma, 17 ottobre 2012, in Corr. giur., 2013, p. 343 ss.,
con commento di F. Festi, Riconoscimento consapevolmente non veritiero di figlio nato fuori dal matrimonio e ripensamento; M.G. Stanzione, Interesse del minore e verità biologica
nel riconoscimento di compiacenza, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 349 ss.; S. Cherti,
« Io non ti conosco, io non so chi sei... »: note sull’impugnazione per difetto di veridicità, in
G. it., 2013, p. 849 ss.; F. Farolfi, Riconoscimento per compiacenza e legittimità dell’impugnazione, in Fam. e d., 2013, p. 911 ss. e L. Attademo, Mala fede nel riconoscimento del
figlio naturale e possibilità di impugnazione ex art. 263 c.c., in Corr. merito, 2013, p. 155
ss. Cfr., inoltre, Trib. Napoli, 11 aprile 2013, in F. it., 2013, c. 2040 ss. e Trib. Napoli, 28
aprile 2000, in G. napoletana, 2000, p. 277 ss. Con particolare attenzione alla giurisprudenza del Tribunale e della Corte d’appello di Napoli, M.R. Scotti, Status personae e impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, in Foro nap., 2014,
p. 107 ss.
( 70 ) Trib. Roma, 17 ottobre 2012, cit.
( 71 ) Per l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa (art. 4, comma 3o, l.
19 febbraio 2004, n. 40) cfr. Corte cost., 9 aprile 2014 (ad oggi in attesa di pubblicazione
in Gazzetta Ufficiale).
( 72 ) Per un’efficace sintesi delle diverse ricostruzioni, P. Virgadamo, o.c., p. 932 ss.
SAGGI
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della sua falsità (73), si oppone chi considera conforme all’interesse del minore
l’accertamento di filiazione non veridica (74). Parimenti, plaude a tale impostazione la posizione che pone l’accento sull’esigenza di superare ogni falsa
apparenza dello status filiationis (75) e chi sottolinea l’opportunità « di un’interpretazione evolutiva » che sappia affermare tale legittimazione e, al contempo, ricercare adeguate soluzioni contro riconoscimenti di figli naturali effettuati — diversamente da quanto previsto in materia di adozioni — con
troppa facilità (76).
Una simile contrapposizione di opinioni e di esiti decisori avrebbe richiesto una maggiore attenzione da parte del legislatore della riforma, imponendogli di prendere posizione in modo non equivoco per l’una o l’altra posizione. Invero, il problema è oggi suscettibile di una nuova valutazione in ragione
delle recenti modifiche apportate all’art. 263 c.c. dall’art. 28, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, le quali sembrano aprire la strada ad un’interpretazione
della disciplina in favore della legittimazione all’impugnativa all’autore in
mala fede del falso riconoscimento. La riforma sancita dal decreto, nel sostituire la formulazione del precedente disposto normativo, ha eliminato una
delle più evidenti e discusse differenze dell’impugnazione del riconoscimento
per difetto di veridicità rispetto all’esercizio dell’azione di disconoscimento, là
dove quest’ultima, in quanto conforme al favor legittimitatis a fondamento
della filiazione nel matrimonio, è basata su brevi termini di decadenza per il
suo esercizio; la prima, invece, non prevedeva alcun termine di decadenza a
base dell’azione.
La nuova disciplina introduce, nel segno di una maggiore congruenza tra
le due normative, termini brevi di decadenza anche per l’impugnazione del riconoscimento, sia per l’autore — il quale può agire entro un anno dall’anno( 73 ) L’impugnativa non può essere proposta dall’autore del riconoscimento, se non provando la sua buona fede, per F.D. Busnelli, La disciplina dei vizi del volere nella confessione e nel riconoscimento dei figli naturali, in R. trim. d. proc. civ., 1959, p. 1263 s., secondo
il quale tale ricostruzione è compatibile con il rilievo generale che assume la buona fede nel
diritto di famiglia e, più in particolare, nell’art. 263 c.c., nel quale « può riscontrarsi appunto una delle applicazioni più significative ed appropriate di quel principio ». Replica a
tale ricostruzione A. D’Antonio, Filiazione naturale (1950-1969), in questa Rivista, 1961,
II, p. 369 s., secondo il quale la ragione giustificatrice dell’impugnativa per difetto di veridicità si rinviene nella necessaria corrispondenza tra realtà giuridica e realtà di fatto, sì da
non poter condizionare la preminenza di siffatto interesse allo stato soggettivo dell’autore
del riconoscimento. Inoltre, riguardo al rilievo generale della buona fede, si precisa che
« questa affermazione potrebbe essere accettata solo nel caso in cui la buona fede dovesse
operare a favore del soggetto, non contro; nel senso cioè di escludere una limitazione, non
d’imporla » [Id., o.c., p. 370].
( 74 ) Esclude che, ai fini dell’impugnazione del riconoscimento, rilevino gli stati soggettivi dell’autore E. Carbone, sub art. 263, in L. Balestra, Della famiglia, artt. 177-342 ter,
cit., p. 586 s.
( 75 ) G. Savi, L’impugnazione dello status filiationis per difetto di veridicità da parte
dell’autore del riconoscimento in mala fede, in G. it., 2013, pp. 1552 e 1549 s.
( 76 ) F. Festi, Riconoscimento consapevolmente non veritiero, cit., pp. 349 ss. e 351.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
tazione del riconoscimento sull’atto di nascita — sia per gli altri legittimati
(entro cinque anni dall’annotazione). Così facendo, la prevalenza del favor
veritatis, a fondamento della filiazione al di fuori del matrimonio, non assume
un rilievo assoluto ma è mitigata, nel segno di una più ampia tutela del minore, dalle predette limitazioni temporali, al fine di evitare il rischio di rapporti
di filiazione esposti sine die ad eventuali impugnazioni. Il ragionevole contemperamento di interessi, in tal modo raggiunto, coniuga la preminenza del
diritto alla verità biologica (77) — ossia l’esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status nella filiazione non basata sul matrimonio — con il soddisfacimento delle esigenze di certezza e di stabilizzazione dello status filiationis
(anche se non fondato sul vincolo matrimoniale), sì da rendere auspicabile un
nuovo intervento legislativo che, nel tener conto di tale soluzione desunta in
maniera sistematica, attribuisca in maniera esplicita all’autore in mala fede
l’impugnativa del riconoscimento c.d. per compiacenza. Ciò in quanto la previsione di un ristretto termine di decadenza per l’impugnativa ha un duplice
merito: da un lato, nei limiti dell’intervallo di un anno dall’annotazione, consente l’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica (78) e
agevola la tutela del diritto alla verità circa le proprie origini; dall’altro, di là
dagli stringenti confini temporali, stabilizza e conferisce certezza allo status di
figlio naturale acquisito con il riconoscimento.
Una distinta riflessione investe la problematica concernente i pregiudizi
subiti dal minore a causa del riconoscimento consapevolmente non veridico.
Benché la riforma, introducendo brevi termini di decadenza, abbia circoscritto i danni per il minore alla sua prima fase di vita, non può tacersi che il
comportamento in mala fede dell’autore del riconoscimento integri una condotta penalmente rilevante (79), tale da legittimare un’azione di risarcimento
( 77 ) Sul rilievo del diritto alla verità, a fondamento dell’art. 263 c.c., G. Bonilini, Disconoscimento della paternità e dies a quo della decadenza dalla relativa azione, in Fam.
pers. succ., 2012, p. 410 s.
( 78 ) « Non vi può essere conflitto tra “favor veritatis” e “favor minoris”, ove si consideri
che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità »: Cass., 15 aprile 2005, n. 7924, in Fam. e
d., 2005, p. 436 ss.
( 79 ) Il riconoscimento in mala fede integra — secondo U. Majello, Della filiazione naturale e della legittimazione, sub artt. 250-290, in Comm. Scialoja-Branca, 2a ed., Bologna-Roma, 1982, p. 136 s. — un delitto contro la fede pubblica, ex art. 495 c.p. (« Falsa
attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri »). In tale direzione, Cass. pen., 28 giugno 1994, n. 8996, in R. pen., 1995, p.
1195 ss., la quale, dopo aver escluso che, in ipotesi di riconoscimento di figlio naturale, il
pubblico ufficiale che riceve la dichiarazione possa rispondere del reato previsto dall’art.
479 c.p., stante l’assenza della sua attestazione circa la veridicità della dichiarazione, precisa che « commette, invece, il reato di cui all’art. 495 c.p. colui che dichiara falsamente al
pubblico ufficiale la propria qualità di padre e l’altrui qualità di figlio, in relazione al riconoscimento di paternità compiuto ». Si discute se tale condotta integri un’ipotesi di alterazione di stato, ex art. 567, comma 2o, c.p.: il problema è accennato da U. Majello, o.c., p.
137, nota n. 10. Lo esclude Corte cost., 10 novembre 1989, n. 500, in G. cost., 1989, I, p.
SAGGI
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dei danni patrimoniali e non patrimoniali ex art. 2059 c.c., stante la sussistenza non soltanto di una fattispecie penalmente rilevante quanto, soprattutto, della lesione dei diritti inviolabili del figlio, il quale rimane privo dello status che fino a quel momento aveva contraddistinto la sua esistenza.
7. — Problematiche di eguale rilievo si annidano intorno alle differenze
tra l’accertamento della maternità di donna coniugata e quello di madre non
coniugata, nonché, correlativamente, riguardo al diritto della madre biologica
all’anonimato (80).
È noto infatti che la filiazione da donna coniugata si instaura previo accertamento dell’ufficiale di stato civile che riceve la dichiarazione di nascita
dai soggetti legittimati, sì che lo status di figlio della madre si costituisce con
la menzione di quest’ultima nell’atto di nascita, salvo che si avvalga della facoltà di non essere nominata (espressamente prevista dall’art. 30, comma 1o,
d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396) (81). Diversamente, la filiazione fuori del
matrimonio si accerta mediante l’atto di riconoscimento di ciascun genitore
(art. 252 c.c.) ovvero, in mancanza, con dichiarazione giudiziale di maternità
o di paternità naturale (artt. 269 ss. c.c.).
Il diverso sistema di accertamento — per impulso dell’ufficiale di stato
civile, in ipotesi di donna coniugata; in séguito ad un atto di volontà della
donna, per il riconoscimento del figlio naturale (82) — è alla base dell’eviden2332 ss., la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità
costituzionale dell’art. 567, comma 2o, c.p., sollevata con riferimento agli artt. 3 e 30, comma 2o, cost., nella parte ove non prevede che il falso riconoscimento di figlio naturale successivo alla formazione dell’atto di nascita possa essere ricompreso nell’ipotesi di alterazione di stato, piuttosto che in quella stabilita dall’art. 495 c.p. per il reato di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale sull’identità o qualità di altri. Per una sintesi riguardo alle diverse
fattispecie penali configurabili, M. Di Nardo, Venire contra factum proprium: applicabilità
del principio in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nota a
Trib. Civitavecchia, 19 dicembre 2008, in G. mer., 2010, p. 1250 ss.
( 80 ) Il tema è affrontato, ampiamente, da A. Renda, L’accertamento della maternità.
Profili sistematici e prospettive evolutive, Torino, 2008, p. 3 ss. (cfr., inoltre, Id., L’accertamento della maternità: anonimato materno e responsabilità per la procreazione, in Fam. e
d., 2004, p. 510 ss.) e da M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e
sistema dello Stato civile, cit., p. 323 ss. In passato, perplessità erano manifestate già da F.
Santoro Passarelli, La filiazione naturale nel progetto di codice civile, cit., p. 443 s. Più in
generale, A. Renda, Equiparazione o unificazione degli status filiationis? Proposte per una riforma del sistema di accertamento della filiazione, in questa Rivista, 2008, II, p. 103 ss.; G.
Bonilini, Lo status o gli status di filiazione?, in La filiazione verso un unico status, Atti del
Convegno di Como 23-24 giugno 2006, 2/2006, p. 11 ss., consultabile sul sito www.aiaf.avvocati.it. Sul punto cfr., inoltre, M. Porcelli, Spunti per una riforma del sistema di accertamento della filiazione, in R. g. Mol. Sannio, 2012, p. 403 ss., nonché Ead., Note preliminari
allo studio sull’unificazione dello stato giuridico dei figli, in Dir. fam., 2013, p. 654 ss.
( 81 ) Secondo tale norma, « la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un
procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito
al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata ».
( 82 ) Sul tema A. Palazzo, Atto di nascita e riconoscimento nel sistema di accertamento
622
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
te incongruenza che legittima la madre a rimanere nell’anonimato e a mantenere il segreto sulla sua identità, impedendo al figlio di venire a conoscenza
della propria storia parentale. Tale « posizione di preminenza della donna in
ordine alla costituzione dello status di figlio » (83) fa sì che, come lucidamente
avvertito da autorevole dottrina (84), la madre possa avvalersi del diritto all’anonimato non soltanto se il figlio sia nato in conseguenza di una relazione
extraconiugale quanto, addirittura, se concepito con il marito (85), osteggiando la costituzione dello status di figlio legittimo, nonostante il rischio di incorrere nelle conseguenze previste in materia di delitto di alterazione di stato
(art. 567 c.p.) (86).
della filiazione, in questa Rivista, 2006, p. 152 e M. Dossetti L’accertamento della filiazione legittima tra automatismo e principio volontaristico, in Scritti in memoria di Giovanni
Cattaneo, II, Milano 2002, p. 817 ss. « Naturalmente è assurdo pensare che questa differenza » — presupponendo un accertamento « “automatico” » per la filiazione nata nell’àmbito del matrimonio; rispondente invece al principio « “volontaristico” », per quella fuori
dal matrimonio — « possa essere eliminata con riguardo all’accertamento della paternità
[...]. Viceversa una unificazione dei criteri legislativi è tutt’altro che assurda con riguardo
all’accertamento dell’identità della madre. Tale unificazione potrebbe attuarsi [...] con
l’estensione del criterio dell’accertamento automatico anche alla madre naturale, e cioè con
l’accoglimento del principio mater semper certa est »: G. Cattaneo, Della filiazione legittima, sub artt. 231-249, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 10. Sull’estraneità al quadro dei princìpi costituzionali del principio volontaristico a base dell’accertamento della maternità, A. Renda, L’accertamento della maternità, cit., p. 256 s. (corsivo
originale), secondo il quale « se è vero che la madre che non riconosce il figlio pone in essere una scelta che determina una situazione conflittuale con il principio di solidarietà sociale, è altrettanto vero che è l’ordinamento, nel predisporre una disciplina facoltizzante nei riguardi della maternità, a dar luogo ad un’inadeguata realizzazione del principio costituzionale di responsabilità e, correlativamente, del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2
cost., che meriterebbe di essere corretta attraverso l’adozione di un sistema di accertamento
idoneo a garantire l’assunzione della responsabilità materna non intermediata da un atto di
volontà » (corsivo originale).
( 83 ) M. Mantovani, o.c., p. 328.
( 84 ) M. Mantovani, o.l.u.c., nonché Ead., Il primato della maternità nell’accertamento
dello status di figlio, in Liber Amicorum per Dieter Henrich, I, Torino 2012, p. 138 ss.
( 85 ) Per una sintesi dei diversi orientamenti riguardo al controverso problema se la facoltà di non essere nominata spetti anche alla madre coniugata di figlio nato fuori del matrimonio, cfr. A. Zaccaria, M. Faccioli, R. Omodei Salè e M. Tescaro, Commentario all’ordinamento dello stato civile. Aggiornato alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 (in materia di
riconoscimento dei figli naturali), Santarcangelo di Romagna 2013, p. 185 ss.
( 86 ) Cfr. M. Mantovani, o.c., pp. 329 e 332. Di recente, la Corte costituzionale — con
sentenza del 23 febbraio 2012, n. 31, in F. it., 2012, I, c. 1992 (sulla quale v. Mar. Mantovani, La Corte costituzionale fra soluzioni condivise e percorsi ermeneutici eterodossi: il caso della pronuncia sull’art. 569 c.p., in G. cost., 2012, p. 377; D. Chicco, Se proteggere un
figlio diventa una condanna: la Corte costituzionale esclude l’automatismo della perdita
della potestà genitoriale, in Fam. e d., 2012, p. 544 ss.) — ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p., nella parte ove prevede che, in caso di condanna pronunciata contro il
genitore per il delitto di alterazione di stato, ex art. 567, comma 2o, c.p., debba conseguire
automaticamente la perdita della potestà genitoriale, precludendo al giudice ogni possibilità
di valutazione dell’interesse del minore.
SAGGI
623
La disciplina in esame assume un significato ancor più preoccupante in
ragione dell’evoluzione che si registra in àmbito sovranazionale in materia di
accesso dell’adottato alle informazioni relative alla propria madre. La Corte
europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 25 settembre 2012 (87), ha
sancito la violazione dell’art. 8 della Convenzione di Strasburgo da parte della normativa italiana — in particolare, l’art. 28, comma 7o, l. 4 maggio 1983,
n. 184, poi sostituito dall’art. 177, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 — che non
consente all’adottato l’accesso alle informazioni relative alla madre che alla
nascita abbia dichiarato di non volere essere nominata (88), in quanto la disciplina in questione impedisce al figlio adulto, non riconosciuto e adottato da
terzi, di accedere alle informazioni identificative delle proprie origini familiari
e non consente di verificare la persistenza della volontà della madre biologica
di non essere identificata.
Dal suo canto, la giurisprudenza costituzionale, conformandosi a tale
pronuncia, segna il raggiungimento di un importante risultato con la decisione del 22 novembre 2013, n. 278 (89), la quale ha dichiarato l’incostituziona( 87 ) Sentenza Godelli c. Italia, pubblicata in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 103 ss., con
commento di J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a
oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata; sul tema cfr. V. Carbone,
Corte Edu: conflitto tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere
le proprie origini, in Corr. giur., 2013, p. 940 ss.; G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 544 ss.; P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme
che tutelano il segreto del parto in anonimato?, ivi, p. 822 ss. (il quale, dopo alcuni rilievi
critici alla sentenza, richiama l’attenzione sull’esigenza di rispettare il diritto della madre
alla tutela della propria vita privata, evitando intrusioni finalizzate ad indagare su scelte
personali fatte in contesti affettivi e personali di particolare gravità) e, prima ancóra, Id.,
L’adottato alla ricerca delle proprie origini. Spunti di riflessione, ivi, 2011, p. 204 ss.
( 88 ) Secondo l’art. 177, comma 2o, d.lgs. 30 giugno 2003, 196, « il comma 7o dell’articolo 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente:
“L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1o, del decreto
del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396” ». Sulla complessità di tale disciplina e sui numerosi interessi coinvolti, R. Pane, Favor veritatis e diritto dell’adottato di
conoscere le proprie origini nella recente riforma delle adozioni, in Rass. d. civ., 2003, p.
240 ss.; G. Lisella, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e
accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo
dell’art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. d. civ., 2004, p. 413 ss.; M. Petrone, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano, 2004; L. Lenti, Adozione e
segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, p. 241 ss.; L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini fra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori
biologici, in Familia, 2006, p. 161 ss.
( 89 ) In Fam. e d., 2014, p. 11 ss., con commento di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato ed adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato
materno, il quale auspica una riforma legislativa in grado di bilanciare il diritto all’anonimato sia con la responsabilità per il fatto della procreazione sia con i diritti del figlio. Sul tema,
incisivamente, M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche.
Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, p. 1768 ss. Precedentemente, la Consulta (con sen-
624
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
lità dell’art. 28, comma 7o, l. 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad
una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2o, del decreto legislativo
30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali),
« nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la
persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre
biologica ». Sul presupposto secondo il quale « il diritto del figlio a conoscere
le proprie origini — e ad accedere alla propria storia parentale — costituisce
un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona »,
si contesta l’irreversibilità della scelta per l’anonimato, precisando che una simile decisione, se da un lato può comportare una « rinuncia irreversibile alla
“genitorialità giuridica” », dall’altro « può [...] ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale” »,
poiché se così fosse « risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto
destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di
fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost. ».
Su tali basi la pronuncia invita il legislatore ad « introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della
madre naturale di non voler essere nominata » e, al contempo, « a cautelare
in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali
che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli
uffici competenti, ai dati di tipo identificativo » (90).
I nuovi scenari, dottrinali e giurisprudenziali, impongono di porre rimedio
agli inconvenienti lasciati aperti dalla riforma e procedere ad una rimeditazione del problema: « non si riesce infatti a capire » — come autorevolmente rilevato prima della riforma, benché riguardo ad un problema affine (91) — « in
tenza del 25 novembre 2005, n. 425, in Familia, 2006, p. 161 ss., con nota di L. Balestra, Il
diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione
del riserbo dei genitori biologici; di L. Carletti, Informazioni sulle proprie origini: legittimo il
divieto ove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, in Dir. fam., 2006, p.
884 ss. e di F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, in Fam. e d., 2006, p.
130 ss. Sul rapporto con i precedenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, E. Lamarque, I diritti dei figli, in M. Cartabia, I diritti in azione, Bologna 2007, p.
285 s., nonché, per un’analisi del problema nel contesto europeo, E. Bolondi, Il diritto della
partoriente all’anonimato: l’ordinamento italiano nel contesto europeo, in Nuova g. civ.
comm., 2009, p. 281 ss.) ha dichiarato la questione infondata, atteso che la norma impugnata è considerata « espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda ». Cfr., inoltre, le ordinanze di inammissibilità e di restituzione
degli atti al giudice remittente: Corte cost., 22 giugno 2004, n. 184, in G. cost., 2004, p.
1868 ss. e Corte cost., 16 luglio 2002, n. 350, ivi, 2002, p. 2636 ss.
( 90 ) Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, cit.
( 91 ) S. Pagliantini, Princìpi e sistema della filiazione, cit., p. 555, con particolare attenzione al divieto, ex art. 9, comma 4o, r.d.lg. 8 maggio 1927, n. 798, per gli istituti assistenziali, di rivelare ai minori non riconosciuti e ospitati i risultati delle indagini condotti sulla
maternità e alla pronuncia (Corte cost., 15 luglio 1975, n. 207, in F. it., 1975, I, c. 2677
ss.) di infondatezza della questione di legittimità costituzionale di tale norma.
SAGGI
625
che modo il segreto sull’identità anagrafica della madre dovrebbe giovare a chi
chiede, del tutto legittimamente, l’accertamento giudiziale del proprio status filiationis ». Del pari, non è chiaro come la predetta disciplina « possa coesistere
con una disposizione — l’art. 269 nuovo testo — che ammette la ricerca, della
paternità e della maternità naturale, con ogni mezzo di prova » (92).
In ragione di tali precisazioni, contro l’ampio potere della donna di determinare la costituzione dello status di nato avvalendosi del diritto all’anonimato, convince la posizione di quella parte della dottrina che pone l’accento
sull’esigenza di limitare la facoltà della donna coniugata di non essere nominata nell’atto di nascita a fronte del diritto del nato alla propria identità personale, sì da ammettere la predetta facoltà unicamente nelle ipotesi nelle quali il nato sia concepito ad opera di persona diversa dal marito e « non invece
al fine di privare il nato di uno stato legittimo che gli spetta, allorché sia stato
effettivamente concepito ad opera del marito della madre » (93). Consegue che
il diritto all’anonimato della madre, se riletto in funzione applicativa dei princìpi costituzionali e in considerazione della tutela del diritto del minore allo
status di figlio legittimo, giammai può comportare un arbitrio della madre nel
precludere l’accertamento della filiazione legittima (94).
Al termine dell’analisi sin qui svolta, l’approfondimento dei contenuti
realmente innovativi e delle lacune non colmate dalla riforma rende evidenti
le difficoltà derivanti dalla tensione tra le spinte emancipatrici — inclini a superare le disparità di trattamento tra figli — e le ricostruzioni tese a prospettare soluzioni del tutto disancorate da posizioni del passato, le quali ancóra
riecheggiano in talune problematiche non risolte dall’intervento riformatore.
Il processo di rimeditazione non può dirsi concluso: valorizzare tale prospettiva significa proseguire nel cammino verso l’evoluzione della disciplina della
filiazione nel segno di un rinnovato equilibrio, finalizzato alla piena attuazione dell’interesse del minore, alla concreta affermazione della responsabilità
genitoriale per il fatto della procreazione e alla preminenza del favor veritatis
in ogni vincolo familiare, a prescindere dalle circostanze del concepimento.
( 92 ) S. Pagliantini, o.l.u.c.
( 93 ) M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e sistema dello
Stato civile, cit., p. 331. Cfr., inoltre, G. Ferrando, La filiazione: problemi attuali e prospettive di riforma, in Fam. e d., 2008, p. 643 s. (nonché Ead., Libertà, responsabilità e procreazione, Padova 1999, p. 153) secondo la quale, tuttavia, l’obbligo di rispettare la volontà della
madre all’anonimato non vincolerebbe il marito, il quale potrebbe comunque denuciare il figlio come legittimo, consentendogli di acquisire il relativo status anche nei confronti della
madre. Del pari, esclude l’obbligo per il marito di rispettare la volontà della moglie di non essere nominata M. Dossetti, L’accertamento della filiazione legittima tra automatismo e principio volontaristico, cit., p. 835 (v., inoltre, Ead., Sull’accertamento dello status del figlio nato in costanza di matrimonio, in Fam. e d., 2007, p. 84 ss.). Rilievi critici a tale posizione sono espressi da A. Renda, L’accertamento della maternità, cit., p.149, nota n. 78.
( 94 ) La prospettiva sistematica ed assiologica e l’attuazione del principio di solidarietà,
nell’interpretazione dell’art. 30, comma 1o, d.p.r. n. 396/2000, è valorizzata da A. Renda,
op. cit., pp. 131 ss. e 139 s.
Pietro Sirena
Prof. ord. dell’Università di Siena
IL PROBLEMA DELLA TRASCRIVIBILITÀ
DELLA DOMANDA DI RISCATTO LEGALE (*)
Sommario: 1. La tesi tradizionale secondo cui la domanda di riscatto legale e la sentenza
che l’accolga sarebbero trascrivibili ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c. e, rispettivamente,
dell’art. 2651 c.c. — 2. La posizione di coloro che hanno avuto causa dal riscattato prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del riscatto legale. — 3. La posizione di
coloro che hanno avuto causa dal riscattato dopo che era scaduto il medesimo termine:
la critica della tesi secondo cui la domanda di riscatto legale sarebbe allora trascrivibile
ai sensi dell’art. 2645 c.c. — 4. Segue: la critica della tesi secondo cui la domanda di riscatto legale sarebbe allora trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c. — 5. La coerenza della tesi tradizionale dal punto di vista del sistema della pubblicità legale: il tertium comparationis della trascrizione della domanda di annullamento del contratto per
l’incapacità legale della parte contraente ai sensi dell’art. 2652, n. 6, c.c. — 6. Segue: il
tertium comparationis della trascrizione della domanda di devoluzione del fondo enfiteutico ai sensi dell’art. 2653, n. 2, c.c.
1. — In alcuni precedenti in materia di prelazione agraria (1), la Corte di
Cassazione ha affermato che la sentenza la quale accolga la domanda di riscatto legale di un immobile è un « valido titolo per la trascrizione ai sensi dell’art.
2651 c.c., consistendo in una sentenza da cui risulta acquistato il diritto di
proprietà su un bene immobile »: essa, infatti, « non deve contenere la condanna degli acquirenti a trasferire il fondo ma solo constatare il già avvenuto trasferimento ». Affermata tale soluzione, non sussiste alcuna ragione per escludere che essa valga anche per le restanti ipotesi di prelazioni legale (2), nonostan(*) Il saggio è destinato agli Scritti in memoria di Giovanni Gabrielli.
( 1 ) Cass. 17 agosto 1988, n. 4957, in Giur. agr. it., 1989, p. 91 ss.; Cass. 26 ottobre
1979, n. 5606, in R. not., 1980, II, p. 515 ss.
( 2 ) Ai sensi dell’art. 732, comma 1o, c.c., qualora una quota della comunione ereditaria
(o parte di essa) sia stata alienata a un estraneo senza che la relativa proposta fosse stata
notificata agli altri coeredi, ciascuno di costoro, in quanto è per legge prelazionario (c.d.
prelazione ereditaria), può riscattarla dall’acquirente e da ogni successivo avente causa,
finché dura la comunione ereditaria (c.d. retratto successorio). Tale disposizione legislativa
è poi espressamente richiamata dall’art. 230 bis, comma 5o, c.c. a proposito della divisione
ereditaria ovvero del trasferimento dell’azienda mediante la quale si eserciti un’impresa familiare. Qualora soddisfi i requisiti di cui all’art. 8 della l. 26 maggio 1965, n. 590 (Disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice), l’affittuario di un fondo rustico, a parità
di condizioni, ha diritto di prelazione (c.d. agraria) nella sua vendita ovvero nella sua concessione in enfiteusi (comma 1o). Nel caso in cui il proprietario abbia alienato il medesimo
fondo senza notificare la proposta all’affittuario prelazionario, quest’ultimo può, entro un
anno dalla trascrizione del contratto di vendita, esercitare il diritto di riscatto nei confronti
628
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
te essere possano considerate giuridicamente eterogenee da altri punti di vista.
Premesso che la trascrizione delle sentenze di cui all’art. 2651 c.c. ha
l’effetto di una mera notizia (3), si deve pertanto ritenere che il riscattante
prevalga senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato, per
quanto essi possano aver anteriormente trascritto (o iscritto) il loro acquisto.
Analogamente deve dirsi a proposito della domanda di riscatto legale, la
quale, in quanto è diretta alla rivendicazione ovvero all’accertamento della
proprietà di un bene immobile, deve considerarsi trascrivibile ai sensi dell’art.
2653, n. 1, c.c. (4). Tale pubblicità legale può infatti produrre soltanto un effetto di diritto processuale, ma, come si dirà meglio nel prosieguo, non è idonea sul piano del diritto sostanziale a far salvo l’acquisto di coloro che abbiano avuto causa dal convenuto (ossia, dal riscattato) in base a un atto anteriormente trascritto (o iscritto) (5).
Il capoverso dell’art. 2653, n. 1, c.c. statuisce infatti che, trascritta la domanda diretta a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su
beni immobili ovvero diretta al loro accertamento (6), la sentenza pronunciata
del terzo acquirente e di ogni successivo avente causa (comma 5o). L’art. 7, comma 2o, n.
2), della l. 14 agosto 1971, n. 817 (Disposizioni per il rifinanziamento delle provvidenze
per lo sviluppo della proprietà coltivatrice) ha successivamente previsto che, nel caso in cui
il fondo rustico non sia stato concesso in affitto, un’analoga prelazione legale spetta al proprietario di fondi confinanti che sia un coltivatore diretto: nel caso in cui sia stato pretermesso, anche quest’ultimo potrà pertanto esercitare il diritto di riscatto legale di cui si è
detto. L’art. 38 della l. 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) statuisce che chi ha preso in locazione un immobile a uso non abitativo ha diritto di
prelazione (c.d. urbana) nel suo trasferimento a titolo oneroso; nel caso in cui sia stato pretermesso, l’art. 39, comma 1o, della medesima legge (ancor oggi c.d. sull’equo canone) può,
entro sei mesi, riscattare l’immobile dall’acquirente e da ogni successivo avente causa. Ai
sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. g), della l. 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti a uso abitativo), la medesima prelazione legale è
stata successivamente estesa anche a favore del locatario a uso abitativo, quanto, alla prima
scadenza quadriennale del contratto, il locatore intenda vendere l’immobile a un terzo e
non abbia la proprietà di altri immobili a uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito
a propria abitazione. Per un’ampia analisi di tali discipline giuridiche, v. recentemente Sirgiovanni, Prelazione legale e acquisto della proprietà, Milano 2012.
( 3 ) Per tutti, v. Gazzoni, Trattato della trascrizione, 1., La trascrizione degli atti e delle sentenze, II, Torino 2012, p. 439 ss.; Id., Manuale di diritto privato16, Napoli 2013, p.
298 s. Anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. inoltre Zaccaria-Troiano, Gli effetti
della trascrizione2, Torino 2008, p. 145 ss.
( 4 ) Trib. Milano 21 giugno 1982, in R. not., 1983, p. 951 ss., sul quale v. infra, n. 4.
( 5 ) Natoli, sub art. 2653, in Comm. cod. civ., Della tutela dei diritti2, Torino 1971, p.
181; G. Gabrielli, La pubblicità immobiliare, in Tratt. Sacco, Torino 2012, p. 152; Triola, Della tutela dei diritti. La trascrizione3, in Tratt. Bessone, IX, Torino 2012, p. 283 ss.
(e ivi, alla nt. 212, esaustive indicazioni giurisprudenziali).
( 6 ) La trascrivibilità di tali domande giudiziali non era prevista dal codice civile previgente. L’art. 19, lett. h), del T.U. 30 dicembre 1923, n. 3272 (Approvazione del testo di
legge sulle tasse ipotecarie), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 117 del 17 maggio 1924,
la introdusse nel nostro ordinamento giuridico, imponendola anzi come obbligatoria, ma
soltanto a fini fiscali. Ciononostante, la giurisprudenza dell’epoca non si peritò di ricono-
SAGGI
629
contro il convenuto indicato nella trascrizione della domanda ha effetto anche
contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base a un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda (7), ivi compresi i creditori pignoranti e quelli che intervengono nell’esecuzione (8). Per evitare una disparità di
trattamento che sarebbe ingiustificata ai sensi dell’art. 3, comma 1o, Cost., si
deve ritenere che la medesima soluzione sia applicabile anche nei confronti
dei creditori ipotecari o separatisti in base a un atto iscritto dopo la trascrizione della domanda di cui si tratta (9).
L’effetto giuridico di tale pubblicità legale è costituito pertanto da una
scere alla trascrizione della domanda di rilascio di un immobile acquistato con scrittura
privata non autenticata (e pertanto non trascrivibile) l’effetto sostanziale di precludere l’efficacia delle trascrizioni posteriormente eseguite a favore di altri aventi causa dallo stesso
autore (in senso favorevole, v. Venzi, La domanda diretta a rivendicare la proprietà e la
sua trascrizione, in Studi in onore di Mariano D’Amelio, III, Roma 1933, p. 382 ss.; in senso contrario, cfr. L. Coviello, La domanda di rivendica e la sua trascrizione, in G. it.,
1928, I, 1, c. 1347; Gorla, Revisione critica in tema delle nuove trascrizioni, in Ann. dir.
comp., IX, 1934, III, p. 443; Stolfi, Sulla trascrizione di una c.d. domanda di rivendica, in
Giur. compl. Cass. civ., 1944, p. 325 ss.). È stato notato da Nicolò, La trascrizione. La
trascrizione delle domande giudiziali. Dispense dal Corso di Diritto Civile tenuto dal Prof.
Rosario Nicolò, III, Anno accademico 1972-1973, a cura di D. Messinetti, Milano 1973, p.
6 che tale tesi era doppiamente erronea: da un lato, perché presupponeva che la trascrivibilità delle domande di rivendicazione ricomprendesse anche quelle di rilascio di un immobile
(c.d. rivendicazione in senso improprio), laddove le une si basano sulla titolarità della proprietà (o di un altro diritto reale) e le altre su quella di un’obbligazione di consegna; dall’altro lato, perché quell’effetto preclusivo avrebbe dovuto essere semmai ricollegato alla
trascrizione delle domande dirette a far verificare giudizialmente le sottoscrizioni, per le
quali la legge fiscale non aveva tuttavia previsto l’obbligo della trascrizione (per ulteriori
indicazioni bibliografiche, v. L. Ferri, Rilievi in tema di trascrizione della domanda di rivendicazione, in R. trim. d. proc. civ., 1948, p. 276 ss.).
( 7 ) Ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c., anche il legatario deve essere considerato come un
avente causa dal convenuto. Se la trascrizione della domanda di rivendicazione nei confronti del de cuius è posteriore al momento in cui è stato trascritto l’acquisto del legatario,
nei confronti di quest’ultimo non si produrranno quindi gli effetti della sentenza che la accolga. Il punto è tuttavia controverso (nel senso qui sostenuto, v. Nicolò, op. cit., p. 167;
nel senso opposto, cfr. L. Ferri-Zanelli, Della trascrizione immobiliare3, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma 1995, p. 310 s.). La tesi che, per quanto
qui rileva, esclude i legatari dagli aventi causa dal convenuto si basa sul fatto che essi non
sono stati partecipi del loro acquisto; tale argomento non è tuttavia giustificato, poiché la
formula « diritti acquistati da terzi in base a un atto trascritto » è idonea a ricomprendere
anche il diritto acquistato dal legatario in base a un atto (ossia, la disposizione testamentaria), la cui trascrizione è preveduta dall’art. 2948 c.c. in funzione della pubblicità dell’acquisto mortis causa a titolo particolare (Mengoni, Gli acquisti « a non domino »3, Milano
1975, p. 263, nt. 19; ma cfr. Id., Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, in R.
d. proc., 1969, p. 393).
( 8 ) Ferri-Zanelli, op. cit., p. 313, i quali, per quanto qui rileva, equiparano alla trascrizione del pignoramento quella del sequestro conservativo (arg. art. 2906, comma 1o,
c.c.), della cessione dei beni ai creditori (arg. art. 2649 c.c.) e della sentenza di fallimento
(arg. art. 45 l.fall.)
( 9 ) Nicolò, op. cit., p. 191.
630
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
deroga alla regola generale la quale disciplina i limiti soggettivi di efficacia
della sentenza quando si sia verificato il trasferimento a titolo particolare del
diritto controverso.
Premesso che il processo prosegue allora tra le parti originarie (art. 111,
comma 1o, c.p.c.), la regola generale statuisce che la sentenza pronunciata
contro l’alienante spiega i propri effetti anche contro il successore a titolo particolare (art. 111, comma 4o, c.p.c.) (10). Si tratta dunque di una sostituzione
processuale (11), la quale è preveduta dall’ordinamento giuridico nonostante il
divieto generale che è posto dall’art. 81 c.p.c.
Trascritta la domanda giudiziale, la suddetta regola generale è derogata
dall’art. 111, comma 4o, c.p.c., nel senso che il momento a partire dal quale
opera la sostituzione processuale di cui si è detto è determinato non già dall’instaurazione del processo mediante la proposizione della domanda attorea,
bensì dalla trascrizione di quest’ultima.
I terzi che, per quanto abbiano avuto eventualmente causa dal convenuto
prima dell’inizio del processo (12), non abbiano trascritto (o iscritto) il loro
acquisto dal convenuto prima della trascrizione della suddetta domanda sono
vincolati dalla sentenza che la accolga, sebbene non abbiano partecipato al
processo (13): tale sentenza varrà pertanto come titolo esecutivo anche nei loro
confronti (14), segnatamente per quanto riguarda la condanna del convenuto
soccombente al rilascio ovvero alla consegna del bene (15).
( 10 ) La tesi secondo la quale gli effetti contro il successore a titolo particolare sarebbero
spiegati dalla sentenza soltanto dopo il suo passaggio in giudicato, la quale era stata sostenuta da Maiorca, in Codice civile. Commentario, diretto da D’Amelio, Libro della Tutela
dei Diritti, Firenze 1943, p. 240, non ha più alcuna giustificazione normativa, se si considera che, ai sensi dell’art. 282 c.p.c. vigente, la sentenza di condanna di primo grado è
provvisoriamente esecutiva (tra le parti).
( 11 ) Cass. 13 aprile 1999, n. 3623; Cass. 2 maggio 1996, n. 4024; Cass. 7 agosto 1990,
n. 7970. In dottrina v. Proto Pisani, sub art. 111, in Comm. Allorio, I, 2, Art. 69-162, Torino 1973, p. 1235 ss.
( 12 ) Nicolò, op. cit., p. 189.
( 13 ) Cass. 29 gennaio 2002, n. 1155, in G. it., 2002, p. 1582 ss., con nota di Caraffa
Braga (p. 1575 ss.).
( 14 ) Cass., sez. un., 3 novembre 2011, n. 22727; Cass. 13 marzo 2008, n. 2748. Ma sul
problema v., in generale, Colesanti, Processo esecutivo e trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1968; Id., Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1972, e
già Id., Il terzo debitore nel pignoramento di crediti, II, Milano 1967, p. 227, nt. 33. Più di
recente, v. soprattutto Luiso, L’esecuzione ultra partes, Milano 1984, p. 219 ss., nonché
Balestra, Le restituzioni nel fallimento, in R. trim. d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le
azioni di restituzione da contratto, p. 51 ss.
( 15 ) Nicolò, op. cit., p. 66 s.; Luiso, Le azioni di restituzione da contratto e la successione nel diritto controverso, in R. trim. d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le azioni di
restituzione da contratto, p. 147. È peraltro noto che, secondo un orientamento dottrinale
particolarmente rigoroso (Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali. Artt. 111
c.p.c. e 2652-2653 c.c., Napoli 1968, p. 90 ss.; Id., Opposizione di terzo ordinaria, Napoli
1965, p. 93 ss., p. 143 ss.), l’efficacia di tale sentenza nei confronti dell’avente causa dal
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Essi non saranno assoggettati invece alle obbligazioni personali che la
sentenza impone al convenuto dal quale hanno avuto causa (16). Ciò non toglie che, quando abbiano esercitato il possesso del bene, dovranno restituire i
frutti qualora siano stati fin dall’inizio in mala fede, fermo restando il rimborso delle spese sostenute per la loro produzione e il raccolto ai sensi dell’art.
1149 c.c.; in ogni caso, avranno diritto a essere rimborsati delle spese che abbia sostenuto per le riparazioni, i miglioramenti e le addizioni alla cosa, secondo quanto statuisce l’art. 1150 c.c. (17). È stato peraltro escluso dalla dotconvenuto non si estenderebbe alla statuizione di condanna alla restituzione del bene. Facendo principalmente leva sull’art. 2038 c.c., si afferma al riguardo che l’obbligazione di
restituire il bene al suo proprietario (ovvero al titolare di un diritto reale su cosa altrui),
trovando il proprio titolo nel pagamento dell’indebito ovvero nell’azione generale di arricchimento senza causa, è personale del convenuto, cosicché non succede nella sua titolarità
colui al quale il convenuto attribuisca la proprietà ovvero il diritto reale di godimento su
cosa altrui che sta esercitando: non verificandosi alcuna successione a titolo particolare, all’obbligazione di restituire il bene al proprietario ovvero al titolare del diritto reale di godimento su cosa altrui esercitato dal convenuto non sarebbe applicabile l’art. 111 c.p.c., con
la conseguenza che la sentenza di accoglimento della domanda attorea non avrebbe efficacia esecutiva nei confronti dell’avente causa dal convenuto, a meno che, com’è ovvio, quest’ultimo non sia stato chiamato in causa ovvero non sia intervenuto (Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali, cit., p. 108 ss.; in senso critico, cfr. Mengoni, Note sulla
trascrizione delle impugnative negoziali, cit., p. 375 ss.; Id., Gli acquisti a non domino, cit.,
p. 265 ss., seguito da Pacia, La pubblicità degli atti simulati nei rapporti fra simulato alienante e creditori o aventi causa dal titolare apparente, in questa Rivista, 2011, I, p. 821
ss.). Quest’ultima soluzione, la quale non ha trovato seguito in giurisprudenza, non sembra
tuttavia condivisibile, in quanto, se è indubbiamente vero che si tratta di un’obbligazione
restitutoria, è altresì vero che, proponendo la domanda di rivendicazione, l’attore non ha
allegato a fondamento del proprio diritto l’autonomo titolo del pagamento dell’indebito ovvero dell’azione generale di arricchimento senza causa (domanda c.d. autodeterminata),
come pure avrebbe ovviamente potuto, ma ha allegato la violazione del suo diritto di proprietà: a seguito di tale domanda (c.d. eterodeterminata), il « diritto controverso » che costituisce l’oggetto del processo è pur sempre costituito dalla proprietà, cosicché sussistono
senz’altro i presupposti per l’applicazione dell’art. 111 c.p.c. (per uno studio approfondito
della questione, v. Chizzini, L’intervento adesivo, II, Struttura e funzione, Padova 1992, p.
733 ss.). La tesi qui criticata è poi fin dall’inizio rifiutata da coloro i quali ritengono che il
diritto controverso di cui all’art. 111 c.p.c. sia costituito (non già da una situazione giuridica sostanziale, ma) da una situazione processuale costituita dal diritto al provvedimento di
merito, favorevole o sfavorevole che esso sia (per tutti, v. Picardi, La trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1968, p. 315 ss., spec. p. 343 ss.; ma in senso critico, cfr. Mengoni, Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, cit., p. 395 ss.). Occorre dare atto
che la giurisprudenza si è decisamente orientata in quest’ultimo senso (ad es., v. Cass. 17
luglio 2012, n. 12305 e Cass. 26 maggio 2003, n. 8316, le quali hanno statuito che l’acquirente di un immobile deve essere considerato ai sensi dell’art. 111 c.p.c. come successore
del diritto controverso nel processo sulla validità, la risoluzione o l’esecuzione di un contratto preliminare avente a oggetto lo stesso bene e precedentemente stipulato dal suo dante
causa con un terzo; in senso opposto, cfr. peraltro Cass. 27 gennaio 2012, n. 1233; su tale
contrasto interpretativo, v. l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite Cass. 4 maggio
2010, n. 10747).
( 16 ) Nicolò, op. cit., p. 192.
( 17 ) Nicolò, op. cit., p. 192 s.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
trina che, anche quando siano in buona fede, essi possano avvalersi del diritto
di ritenzione che è previsto dall’art. 1152 c.c. (18).
Sono invece processualmente salvaguardati i terzi che, per quanto abbiano avuto eventualmente causa dal convenuto dopo l’inizio del processo, hanno trascritto (o iscritto) il loro acquisto prima della trascrizione della domanda che lo ha introdotto.
Come si è già accennato, tuttavia, ciò significa soltanto che è loro assicurata una posizione processuale indipendente, ma non che il loro acquisto sia
fatto salvo sul piano del diritto sostanziale: essi potranno infatti essere pur
sempre convenuti autonomamente da colui che aveva già agito nei confronti
del loro dante causa, esercitando di nuovo l’azione di rivendicazione dello
stesso bene (19). Dal punto di vista processuale, fra l’altro, se la sentenza che
ha accolto la domanda di rivendicazione nei confronti del loro dante causa è
divenuta definitiva, essi non la potranno contestare nel giudizio instaurato nei
loro confronti, nel quale sarà pertanto definitivamente accertato che hanno
acquistato da chi non era legittimato a trasferire loro la proprietà o un altro
diritto reale di godimento (20): al fine di chiedere la reiezione della domanda
attorea, essi non potranno pertanto invocare che il perfezionamento di un acquisto a non domino, e segnatamente dell’usucapione (decennale ovvero ventennale, a seconda che siano o meno in buona fede rispetto al difetto di titolarità del loro dante causa) (21).
Per altro verso, se il bene non sia ancora stato loro consegnato, al fine di
conseguirne il possesso gli aventi causa dal convenuto non potranno limitarsi
a far valere l’inefficacia nei loro confronti della sentenza che accoglie una delle domande di cui all’art. 2653, n. 1, c.c., ma dovranno esercitare l’azione di
rivendicazione nei confronti dell’attore che l’ha ottenuta, assoggettandosi così
al relativo onere probatorio (22).
Resta peraltro fermo che nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa
dal convenuto posteriormente alla pronuncia della sentenza mediante la quale
sia stata accolta la domanda attorea (post rem iudicatam) opera quella estensione dei limiti soggettivi del giudicato che è specificatamente disposta dall’art. 2909 c.c. (23). Indipendentemente dal sistema della pubblicità legale, tale sentenza è pertanto efficace nei confronti di tali terzi, anche per quanto ri( 18 ) Nicolò, op. cit., p. 192 s.
( 19 ) Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali6, Padova
2008, p. 535 ss.; Triola, op. cit., p. 287.
( 20 ) Cass. civ. 12 novembre 1997, n. 11153.
( 21 ) A tal fine, essi potranno unire al proprio possesso quello del loro dante causa, ai
sensi dell’art. 1146 c.c. (v. Nicolò, op. cit., p. 194).
( 22 ) Nicolò, op. cit., p. 189.
( 23 ) Cass. 28 ottobre 1981, n. 5597; Cass. 8 gennaio 1964, n. 19, in F. it., 1964, I, c.
801 ss. A proposito dell’acquisto del possesso, v. Cass. 14 giugno 2001, n. 8065.
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guarda la sua esecuzione (24). Non soggiacciono inoltre al giudicato gli acquisti a titolo originario (25).
2. — All’applicabilità degli artt. 2653, n. 1, e 2651 c.c. alla domanda di
riscatto legale e, rispettivamente, alla sentenza che l’accoglie consegue pertanto che il riscattante prevalga senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal
riscattato, anche nel caso in cui essi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto prima della trascrizione della medesima domanda ovvero della sentenza
che l’accoglie.
Tale soluzione è stata senz’altro approvata dalla dottrina laddove il bene sia stato subalienato prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del
riscatto legale, in quanto, poiché il subacquirente ben sa, o dovrebbe sapere,
che è allora assoggettato all’eventuale riscatto da parte del prelazionario legale (26), il suo eventuale affidamento sulla definitività dell’acquisto da parte
del suo dante causa (ossia, il riscattato) è evidentemente irragionevole e non
può essere comunque ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento
giuridico. Ne consegue che il riscattante prevale senz’altro nei confronti di
coloro che abbiano subacquistato il bene dal riscattato in base a un titolo
anteriore alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale, sebbene
nel frattempo essi abbiano eventualmente trascritto o iscritto il loro acquisto (27).
Dal punto di vista della parità di trattamento, una conferma in tal senso
è stata ravvisata nel dato normativo dell’art. 2653, n. 3, c.c., il cui capoverso
statuisce che, se le domande o le dichiarazioni di riscatto sono trascritte dopo
sessanta giorni dalla scadenza del termine per l’esercizio di tale diritto, l’acquisto dei terzi (aventi causa dal riscattato) che sia posteriore alla scadenza
del medesimo termine è fatto salvo, purché sia stato trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della dichiarazione di riscatto.
Tale considerazione sembra prendere le mosse dall’assunto secondo cui la
trascrizione delle dichiarazioni di recesso di cui all’art. 2653, n. 3, c.c. non
( 24 ) V. ampiamente Zucconi Galli Fonseca, Note schematiche intorno al rapporto fra
pubblicità ed efficacia della sentenza contro gli aventi causa post rem iudicatam, in R.
trim. d. proc. civ., 1968, p. 1420 ss., nonché G. Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, in questa Rivista, 1991, I, p. 35.; Id., La pubblicità immobiliare, cit., p. 125 s.; Natoli,
op. cit., p. 181.
( 25 ) Cass. 2 maggio 2011, n. 9643.
( 26 ) Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 500 s.; G. Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge e pubblicità immobiliare dell’atto di esercizio, in questa Rivista,
2004, I, p. 697; Carpino, voce Riscatto (diritto privato), in Enc. dir., XL, Milano 1989, p.
1116.
( 27 ) In senso contrario, cfr. Carusi, La natura del riscatto urbano ex art. 39 l. 392 del
1978 e il termine per il suo esercizio, in questa Rivista, 1990, II, p. 311, il quale ritiene invece che, se la dichiarazione di retratto non sia stata trascritta, i successivi aventi causa dal
retrattato prevalgano mediante la tempestiva trascrizione del loro acquisto (ancorché sia
avvenuto anteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale).
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
avrebbe alcuna rilevanza (né in senso positivo, né in senso negativo) nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa dal compratore prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del riscatto: dall’art. 1504, comma 1o, c.c. si desumerebbe infatti che essi non sarebbero in alcun modo tutelati dall’ordinamento giuridico, così come non lo sarebbero coloro che abbiano acquistato un
diritto assoggettato a una condizione risolutiva che si sia poi tempestivamente
avverata (28). L’art. 2653, n. 3, c.c. servirebbe piuttosto a tutelare i terzi che
abbiano avuto causa dal compratore dopo che sia scaduto il termine per esercitare il diritto di riscatto, trascrivendo o iscrivendo per primi il loro acquisto:
nei loro confronti il venditore recedente soccomberebbe infatti laddove, pur
avendo effettuato la dichiarazione di riscatto tempestivamente (29), l’abbia
trascritta tardivamente, ossia dopo la scadenza del termine di sessanta giorni
posto dalla medesima disposizione legislativa (30). In altri termini, l’art. 2653,
n. 3, c.c. porrebbe un argine alla illimitata retroattività dell’effetto risolutivo
del riscatto (31).
Laddove sia invece tempestiva non solo la dichiarazione di riscatto, ma
anche la sua trascrizione, in quanto quest’ultima sia stata eseguita prima della scadenza del termine di sessanta giorni posto dall’art. 2653, n. 3, c.c., resterebbe ferma l’illimitata retroattività di tale effetto risolutivo, cosicché i terzi che abbiano avuto causa dal compratore dopo che sia scaduto il termine
per l’esercizio del riscatto soccomberebbero, quantunque il loro acquisto sia
stato trascritto o iscritto per primo. Pertanto, chi abbia causa dal compratore
(ormai divenuto non dominus a seguito della dichiarazione di riscatto) nei
sessanta giorni successivi alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto
non consoliderebbe il proprio acquisto mediante la sua sola trascrizione o
iscrizione, ma sarebbe destinatario di una fattispecie acquisitiva in corso di
formazione, la cui efficacia reale (nei confronti del dominus) richiederebbe un
ulteriore elemento costitutivo, ossia la mancata trascrizione della dichiarazione di riscatto nel medesimo termine di sessanta giorni che è posto dall’art.
2653, n. 3, c.c. (32).
Si giunge così ad ammettere che sarebbe previsto dalla legge un periodo
di sessanta giorni durante il quale il criterio della priorità non funzionerebbe,
poiché, trascrivendo la propria dichiarazione, il venditore riscattante prevarrebbe in ogni caso su coloro che abbiano avuto causa dal compratore dopo la
( 28 ) Nicolò, op. cit., p. 216.
( 29 ) Ossia, prima che scada il termine previsto dal patto di riscatto per esercitare tale
diritto. Laddove la dichiarazione di riscatto sia invece effettuata tardivamente (ossia, dopo
la scadenza del termine previsto dal patto per l’esercizio di tale diritto), il problema di tutelare i terzi acquirenti dal compratore non si pone neppure, perché essi hanno allora acquistato a domino senz’altro (Nicolò, op. cit., p. 217).
( 30 ) Nicolò, ibidem.
( 31 ) Nicolò, ibidem.
( 32 ) Nicolò, ibidem.
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scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, anche quando essi abbiano
trascritto o iscritto il loro acquisto per primi (33). Tale tesi è tuttavia inficiata
da un gravissimo e, in definitiva, ingiustificato scostamento dai principî generali in materia di pubblicità legale e, dal punto di vista della politica del diritto, compromette irragionevolmente la certezza della circolazione dei beni
iscritti in pubblici registri.
Com’è ovvio, si può obiettare che il medesimo inconveniente si verificherebbe a maggior ragione nei confronti di coloro che abbiano avuto causa dal
compratore prima della scadenza del termine entro il quale il venditore può
esercitare il riscatto, in quanto, pur avendo trascritto o iscritto il loro acquisto
per primi, essi soccomberebbero illimitatamente, anche nel caso in cui la dichiarazione di riscatto non sia stata trascritta affatto. Ma tale possibile obiezione, proprio perché paradossale, dimostra a sufficienza non già che si deve
allora accettare la tesi che si sta qui criticamente esaminando, bensì, proprio
all’inverso, che occorre piuttosto abbandonare il presupposto generale dal
quale essa ha preso le mosse, ossia che per sua natura l’effetto risolutorio del
riscatto sarebbe illimitatamente retroattivo.
In realtà, l’art. 1504, comma 1o, c.c. statuisce sì che il venditore riscattante può ottenere il rilascio della cosa anche dai successivi acquirenti, ma
precisa subito dopo che ciò ha luogo (non illimitatamente, ma) soltanto là dove il patto di riscatto sia a essi opponibile (34). L’opponibilità del patto di riscatto non è pertanto disciplinata dall’art. 2653, n. 3, c.c., il quale stabilisce
invece quando siano opponibili le dichiarazioni (giudiziali e stragiudiziali) di
riscatto (35): movendo dalla riconducibilità di tale patto alla clausola della
condizione risolutiva (meramente potestativa), si deve piuttosto ritenere che
( 33 ) Nicolò, ibidem.
( 34 ) L’esigenza di distinguere l’opponibilità del patto da quella della dichiarazione di
riscatto è chiaramente affermata proprio da Nicolò, op. cit., p. 210 ss. e sviluppata sulla
base dell’indubbia riconducibilità di tale istituto alla condizione risolutiva (meramente potestativa). Si deve tuttavia fin d’ora rilevare che l’opponibilità del patto di riscatto costituisce una formula verbale di comodo, la quale non può essere intesa in senso rigorosamente
dogmatico: se si vuole evitare di sdoppiare artificiosamente la realtà giuridica, si deve infatti ammettere che è proprio e solo la dichiarazione di riscatto a produrre l’effetto giuridico
che è suscettibile di essere opposto ai terzi subacquirenti, laddove il patto che attribuisce al
venditore il diritto di riscatto non può rilevare che come preparazione di tale effetto giuridico. Per quanto qui rileva, la pubblicità legale del patto di riscatto produce allora un quasieffetto giuridico (secondo la terminologia di Falzea, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir.,
XIV, Milano 1965, p. 484), il quale, come si vedrà meglio nel prosieguo del testo, è costituito dalla prenotazione dell’opponibilità della dichiarazione di riscatto: una volta che quest’ultima sia trascritta, essa è pertanto opponibile ai terzi dal giorno (non della sua trascrizione, ma) della pubblicità legale del patto che attribuisce il venditore il diritto di compierla.
( 35 ) Il punto è messo in rilievo da Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 143,
il quale non esclude tuttavia l’eventualità che, facendo riferimento all’opponibilità del patto
di riscatto, l’art. 1504, comma 1o, c.c. abbia potuto riferirsi invece a quella della dichiarazione di riscatto.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
esso sia opponibile se e in quanto sia stato menzionato nella nota di trascrizione, ai sensi dell’art. 2659, comma 2o, c.c. (36).
Laddove invece il patto di riscatto non sia stato annotato nella nota di
trascrizione del titolo di provenienza del loro dante causa, è conforme ai principî generali in materia di pubblicità legale che i terzi aventi causa dal compratore soccombano soltanto laddove non abbiano trascritto o iscritto il loro
acquisto anteriormente alla trascrizione della dichiarazione di riscatto da parte del venditore, ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c. (37).
La regola generale non è dunque che i terzi aventi causa dal compratore
soccombano sempre e illimitatamente nei confronti del venditore riscattante,
ma che essi soccombono soltanto laddove nella nota di trascrizione del titolo
di provenienza del loro dante causa sia stato annotato il patto di riscatto, ai
sensi dell’art. 2659, comma 1o, c.c. Tale soluzione è conforme ai principî generali in materia di pubblicità legale, posto che essi hanno allora trascritto o
iscritto il loro acquisto posteriormente alla suddetta annotazione, la quale
prenota l’opponibilità della dichiarazione di riscatto che sarà a sua volta trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c.
Nonostante l’opinione contraria sia largamente diffusa, tale soluzione è
altresì conforme alla regola valevole per la condizione risolutiva, poiché, se è
vero che, ai sensi dell’art. 1360 c.c., gli effetti del suo avveramento generalmente retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, è altresì vero
che anche tale vicenda risolutoria, così come quella provocata dal riscatto di
cui si tratta, deve essere intesa conformemente ai principî generali in materia
di pubblicità legale: ai terzi controinteressati la retroattività di tale risoluzione
potrà infatti essere pur sempre opposta nel solo caso in cui la condizione risolutiva sia stata menzionata nella nota di trascrizione del contratto, ai sensi
( 36 ) Pugliatti, La trascrizione immobiliare, II, Messina 1946, p. 7; Luzzatto, La
compravendita, ed. postuma a cura di Persico, Torino 1961, p. 457; Luminoso, La vendita con riscatto, in Comm. Schlesinger, Art. 1500-1509, Milano 1987, p. 402 ss. Nel
senso che la menzione (del patto di riscatto) di cui all’art. 2659, comma 2o, c.c. svolga
una funzione di mera notizia, cfr. Nicolò, op. cit., p. 211 ss.; Ferri-Zanelli, op. cit., p.
76 ss. e già L. Ferri, Vendita (rassegna di giurisprudenza), in R. trim. d. proc. civ.,
1947, p. 680. Più in generale si deve rilevare che, sebbene la soluzione esposta nel testo
possa essere considerata come prevalente, la questione della pubblicità legale del patto
di riscatto ai fini della sua opponibilità è ampiamente controversa in dottrina. È stato in
particolare sostenuto che, quando sia contenuto in un documento separato da quello del
contratto di vendita, il patto di riscatto sia autonomamente trascrivibile (Ferri-Zanelli,
op. cit., p. 362; ma in senso critico, cfr. Triola, op. cit., p. 51), ovvero che lo sia in
ogni caso, ossia anche quando faccia parte integrante del documento contrattuale (Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 145 ss.); tale trascrizione dovrebbe essere
effettuata contro l’acquirente e a favore dell’alienante, trattandosi di un vincolo di indisponibilità del bene.
( 37 ) Rubino, La compravendita2, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, Milano 1961, p. 1036
s.; Luminoso, op. cit., p. 403 s.; Sirena, I recessi unilaterali, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a
cura di Costanza, Milano 2006, p. 137.
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637
dell’art. 2659, comma 2o, c.c. (38); nel caso in cui invece non lo sia stata, essa
sarà opponibile soltanto dal momento dell’annotazione che è prevista dall’art.
2655 c.c. (39).
Tornando ora all’art. 2653, n. 3, cpv., c.c., si deve rilevare che tale disposizione legislativa pone un controlimite alla regola generale che è stata sopra enunciata, ricollegandolo alla tardività della trascrizione della dichiarazione di riscatto. Se tale pubblicità legale è eseguita dopo sessanta giorni dalla
scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, l’ordinamento giuridico, movendo dal presupposto che essa sia tardiva, disconosce l’effetto prenotativo
dell’annotazione di tale patto nei confronti dei terzi che abbiano acquistato
dal compratore dopo la scadenza del medesimo termine: poiché la dichiarazione di riscatto è allora ordinariamente opponibile dal momento della sua
trascrizione, tali terzi prevalgono se prima di essa abbiano trascritto o iscritto
il loro acquisto.
Per quanto qui rileva, l’art. 2653, n. 3, cpv., c.c. statuisce pertanto che
nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa dal compratore dopo la scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, l’effetto prenotativo dell’annotazione del patto si estingue sessanta giorni dopo la scadenza del medesimo termine.
Nei confronti degli aventi causa dal compratore prima della scadenza del
termine per l’esercizio del riscatto, questa limitazione dell’effetto prenotativo
della pubblicità legale del patto che lo prevede non opera: poiché hanno acquistato dal compratore prima che scadesse in termine entro il quale il venditore poteva esercitare il diritto di riscatto attribuitogli, e poiché ciò era a essi
noto in virtù dell’annotazione del patto ai sensi dell’art. 2659 c.c., l’eventuale
loro affidamento sul mancato esercizio di tale diritto è infatti irragionevole e
comunque non è ritenuto dall’ordinamento giuridico meritevole di essere tutelato nei confronti del venditore riscattante.
Negli stessi termini, non è ragionevole che coloro i quali abbiano avuto
causa dal riscattato prima che sia scaduto il termine per l’esercizio del riscatto
legale facciano affidamento sulla definitività (del titolo di provenienza del loro dante causa, e perciò) del loro acquisto. Posto che l’esistenza della prela( 38 ) In tal senso, v. Pugliatti, op. cit., p. 7; R. Scognamiglio, Nota a Trib. Napoli, 22
marzo 1948, in D. e giur., 1948, p. 282 ss. e, più recentemente, G. Gabrielli, Pubblicità
degli atti condizionati, in questa Rivista, 1991, I, p. 25 ss., il quale, fra l’altro, premessa la
somiglianza tra il patto di riscatto e la condizione risolutiva, trae argomento proprio dall’art. 1504, comma 1o, c.c. per sostenere che l’annotazione di cui all’art. 2659, comma 2o,
c.c. generalmente abbia efficacia dichiarativa, nonché, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, Carusi, Condizione e termini, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di Costanza,
cit., p. 349. Le soluzioni esposte nel testo sono tuttavia ampiamente controverse in dottrina
(v. al riguardo Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 946, nonché Baralis, La pubblicità immobiliare fra eccezionalità e specialità, Padova 2010, p. 72 ss., spec. nt. 37; Grandi,
La retroattività della condizione: il problema e le prospettive, in Contratti, 2011, p. 289
ss.).
( 39 ) Sirena, op. cit., p. 137 s., ferme restando le avvertenze di cui alla nota che precede.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
zione legale è loro nota indipendentemente da qualsiasi pubblicità legale, o
dovrebbe esserlo, sarebbe infatti sistematicamente incoerente che essi fossero
trattati più favorevolmente di quanto l’art. 2653, n. 3, c.c. non faccia rispetto
ai subacquirenti dal compratore assoggettato al riscatto convenzionale (40), ai
quali l’esistenza di tale patto è nota, o dovrebbe esserlo, a seguito della pubblicità legale di cui all’art. 2659, comma 2o, c.c.
3. — In base al tertium comparationis dell’art. 2653, n. 3, c.c., la dottrina ha peraltro avvertito l’esigenza di tutelare l’eventuale affidamento sulla
definitività del precedente acquisto da parte di coloro che abbiano subacquistato dal riscattato dopo la scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale, mettendoli al riparto da eventuali dichiarazioni di riscatto che, per
quanto tempestivamente effettuate, siano rimaste occulte (41).
Movendo dal presupposto secondo cui la dichiarazione di riscatto legale
determinerebbe ex nunc un ulteriore trasferimento della proprietà dal riscattato (o da un suo successivo avente causa) al riscattante, e che produrrebbe
pertanto l’effetto giuridico che è menzionato dall’art. 2643, n. 1, c.c., è stato
allora ammesso che essa sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 c.c.
A tale tesi è stato obiettato che, applicando senza correttivo il criterio selettivo di cui all’art. 2644 c.c., si sacrificherebbe ingiustificatamente il riscattante nei confronti di coloro che abbiano avuto causa dal riscattato subito dopo la scadenza per l’esercizio del retratto, in quanto, premesso che quest’ultimo è generalmente esercitato subito prima che tale termine scada, sarebbe
praticamente impossibile che il riscattante possa provvedere alla trascrizione
della propria dichiarazione prima che i terzi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto: si giungerebbe pertanto alla conclusione assurda secondo la quale
chi eserciti un diritto di riscatto pattizio sarebbe tutelato più intensamente nei
confronti degli aventi causa dal riscattato di chi eserciti invece un diritto di riscatto previsto dalla legge (42).
( 40 ) Contrariamente a quanto affermato da Carusi, La natura del riscatto urbano, cit.,
p. 311, non si tratta quindi di un’espropriazione.
( 41 ) Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 501; Gabrielli, La pubblicità immobiliare, cit., p. 155 s.; Id., Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 700; Carpino,
op. cit., p. 1116.
( 42 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attributi dalla legge, cit., p. 704, il quale fraintende
tuttavia l’affermazione di Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I2, in Comm. Schlesinger,
Milano 1998, p. 616, secondo cui « sarebbe infatti davvero assurdo che il riscattante fosse
pienamente tutelato in ipotesi di riscatto convenzionale e dovesse invece vedere consumato
il proprio potere anche nei confronti degli aventi causa dal terzo, i quali acquistassero durante lo spatium deliberandi e trascrivessero prima » (la sottolineatura è aggiunta): proprio
sulla base di questo inciso finale, infatti, è evidente che il fine di tale affermazione non è
quello di sostenere che, onde evitare una contraddizione sistematica rispetto all’art. 2653,
n. 3, c.c., il riscattante legale debba prevalere su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato dopo la scadenza del termine per l’esercizio del retratto (sebbene essi abbiano trascritto o iscritto per primi il loro acquisto), bensì di sostenere che egli debba prevalere su coloro
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In realtà, la naturale retroattività del riscatto, a maggior ragione quando
esso sia legale, implica che, sostituendosi retroattivamente al riscattato, il riscattante si consideri al posto di quest’ultimo come acquirente ex tunc del bene in base al medesimo titolo di acquisto, così com’è peraltro sostenuto dalla
giurisprudenza unanime e dalla dottrina largamente prevalente (43): non trattandosi di un ulteriore ritraferimento ex nunc della proprietà (o di un altro
diritto), non è pertanto applicabile l’art. 2643, n. 1, c.c., e a maggior ragione
neppure l’art. 2645 c.c.
4. Movendo da quest’ultima ricostruzione concettuale, è stato allora sostenuto che, come si desumerebbe dall’art. 1403, comma 2o, c.c. a proposito
del contratto per persona da nominare, la sostituzione retroattiva dell’acquirente di un bene sarebbe assoggettata alla stessa forma di pubblicità legale
che è richiesta per il contratto di alienazione originariamente stipulato (44).
Ma gli effetti della trascrizione della dichiarazione di riscatto legale sarebbero
pur sempre quelli preveduti dall’art. 2653, n. 3, c.c., senza che ciò violi il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali che è posto dall’art.
14 disp. prel., trattandosi piuttosto di una interpretazione estensiva della suddetta disposizione codicistica (45).
che abbiano avuto causa dal riscattato prima della scadenza del medesimo termine. Pertanto, l’esigenza di evitare tale contraddizione sistematica non può essere addotta come argomento a favore dell’applicabilità dell’art. 2653, n. 3, c.c. alle dichiarazioni di riscatto legale, poiché è indubbio che, escludendo tale pubblicità legale, il riscattante legale prevale
senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato anteriormente alla scadenza del
termine, così come il venditore riscattante, e anzi a maggior ragione (considerato che quest’ultimo ha pur sempre l’onere di menzionare il patto di riscatto nella nota di trascrizione,
ai sensi dell’art. 2659, comma 2o, c.c.); escludendo tale pubblicità legale, per altro verso,
non può neppure ritenersi che il riscattante soccomba nei confronti di coloro che, avendo
avuto causa dal riscattato posteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, abbiano trascritto o iscritto per primi il loro acquisto. In altri termini, l’applicabilità
dell’art. 2653, n. 3, c.c. può essere teleologicamente prospettata soltanto in virtù dell’esigenza di tutelare i terzi subacquirenti dal rischio di un riscatto occulto da parte di un loro
dante causa mediato, ma non anche (o invece) in virtù dell’esigenza di tutelare il riscattante dalla tempestiva trascrizione dell’acquisto da parte di coloro che abbiano avuto causa dal
riscattato posteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto.
( 43 ) In dottrina, v. Baralis, op. cit., p. 19 s.
( 44 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 700 s. In senso analogo,
ma al precipuo fine di sostenere la generale compatibilità fra l’effetto retroattivo di un atto
e la sua trascrivibilità, v. Baralis, op. cit., p. 71 ss., p. 94 ss. Sul controverso problema della pubblicità legale della dichiarazione di nomina (c.d. electio amici) di cui all’art. 1403,
comma 2o, c.c., v. recentemente Mass. Nuzzo, Il contratto con riserva di nomina, Campobasso 2012, p. 233 ss.; Pennasilico, La trascrizione del contratto per sé o per persona da
nominare, in Scritti in onore di Marco Comporti, III, a cura di Pagliantini, Quadri e Sinesio,
Milano 2008, p. 2118 ss.
( 45 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 702 s.; Id., La pubblicità
immobiliare, cit., p. 156. Cfr. tuttavia Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività
nella trascrizione immobiliare. Trascrizioni, annotazioni, cancellazioni dalla « tassatività »
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
In senso contrario, si rinviene un (non più recente) decreto del Presidente
del Tribunale di Milano, il quale, pronunciandosi ai sensi dell’art. 745 c.p.c.,
ha deciso invece che la dichiarazione di riscatto a titolo di prelazione legale
(quella agraria, nel caso di specie) sia trascrivibile ai sensi non già dell’art.
2653, n. 3, c.c., ma dell’art. 2653, n. 1, c.c. (46).
Tale affermazione negativa è stata motivata anzitutto sulla base del dettato letterale dell’art. 2653, n. 3, c.c., il quale, menzionando espressamente la
« vendita di beni immobili », si riferirebbe al solo riscatto convenzionale. Una
conferma in tal senso sarebbe inoltre costituita dalla Relazione del Ministro
Guardasigilli, nella parte in cui essa afferma che mediante la suddetta disposizione legislativa è stata introdotta nell’ordinamento giuridico « la trascrizione delle domande o delle dichiarazioni di riscatto nella compravendita immobiliare » (47). È tuttavia evidente che si tratta di argomenti non decisivi.
Si deve infatti rilevare che, secondo un’acquisizione che può essere ormai
considerata come definitiva, il principio di tassatività della pubblicità legale
deve essere riferito non già alle fattispecie degli atti che sono stati elencati dal
legislatore, bensì ai loro effetti giuridici. Al fine di escludere che anche il riscatto legale sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., non è pertanto
decisivo che tale disposizione legislativa abbia menzionato soltanto quello
convenzionale.
Il richiamo dei lavori preparatori non costituisce inoltre notoriamente un
criterio insuperabile di interpretazione della legge, in quanto, pur esprimendo
il convincimento dei redattori di un testo normativo, esso non vale di per sé a
individuare la « intenzione del legislatore » di cui all’art. 12, comma 1o, disp.
prel.
Per quanto qui rileva, si deve piuttosto notare che le dichiarazioni di riscatto legale producono un tipo di effetto giuridico che è senz’altro differente
da quello delle dichiarazioni di riscatto previste dall’art. 2653, n. 3, c.c. Queste ultime determinano infatti la risoluzione del contratto di alienazione del
bene, cosicché il venditore riscattante torna a essere l’originario titolare del
diritto che aveva trasferito al compratore assoggettato al riscatto; quelle di riscatto legale tengono invece ferma l’efficacia traslativa di tale contratto, facendo piuttosto sì che il riscattante si sostituisca al riscattato come acquirente
del bene a titolo derivativo.
Tali rilievi possono indurre a dubitare che, contrariamente all’impostaalla « tipicità », Napoli 2009, p. 368, il quale, premessa l’impossibilità di escludere la trascrizione del riscatto sulla base del presunto (e, secondo l’a., inesistente) principio di tassatività degli atti trascrivibili, afferma che l’applicazione a tale fattispecie degli artt. 1403 e
2653, n. 3, c.c. non sarebbe possibile in base a una loro interpretazione estensiva, trattandosi invece di fare ricorso all’istituto dell’analogia.
( 46 ) Trib. Milano 21 giugno 1982, in R. not., 1983, p. 951 ss., sul quale v. anche supra,
n. 1.
( 47 ) Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile, riproduzione anastatica a cura del Consiglio Nazionale Forense, Roma 2010, n. 1086, p. 250.
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zione concettuale e terminologica più diffusa, il riscatto legale e quello convenzionale costituiscano due specie dello stesso istituto, le quali si distinguerebbero semplicemente dal punto di vista della fattispecie costitutiva del diritto esercitato dal riscattante (la legge ovvero l’accordo tra le parti); in ogni caso, essi sono sufficienti per escludere che le dichiarazioni di riscatto legale siano trascrivibili ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., appunto in quanto producono
un effetto giuridico diverso da quello delle dichiarazioni menzionate da tale
disposizione legislativa.
Ciò è confermato dal fatto che, per quanto qui rileva, le dichiarazioni di
riscatto legale determinano un conflitto attributivo che è inequivocabilmente
diverso da quello risolto dall’art. 2653, n. 3, c.c., in quanto è nella qualità
giuridica di avente causa dal venditore che il riscattante si oppone al terzo subacquirente dal riscattato, laddove il venditore che eserciti il riscatto convenzionale si oppone al terzo subacquirente dal compratore nella qualità giuridica di originario titolare del diritto.
Tenendo fermo che la dichiarazione di riscatto legale non determina un
ritrasferimento ex nunc del diritto acquistato, ma la sostituzione ex tunc del
riscattante al riscattato, si deve pertanto giungere alla conclusione che essa
non sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., risultando dunque illimitatamente opponibile anche a coloro che abbiano avuto causa dal riscattato
posteriormente alla scadenza per l’esercizio del diritto di riscatto, sebbene abbiano eventualmente trascritto o iscritto il loro acquisto.
5. — Per quanto possa essere criticabile dal punto di vista della politica
del diritto, in quanto assoggetta i terzi subacquirenti al rischio di un riscatto
occulto da parte di un loro dante causa mediato, la conclusione che si è esposta non può essere ritenuta sistematicamente incoerente, né suscettibile di determinare una disparità di trattamento che risulti ingiustificata, o comunque
irragionevole.
Se infatti è indubbio che, com’è stato osservato (48), il sistema della pubblicità legale generalmente consente all’acquirente di un immobile di accertare preventivamente se l’acquisto del suo dante causa non sia stato annullato,
rescisso, risoluto o revocato, è altresì vero che ciò non è sempre assicurato
laddove tale vicenda caducatoria dipenda da un presupposto legale che è suscettibile di essere oggettivamente e direttamente verificato dal terzo subacquirente, indipendentemente da qualsiasi accertamento concreto dell’accordo
tra le parti contraenti ovvero di altre circostanze di fatto.
L’art. 1445 c.c. statuisce, in particolare, che la sentenza di annullamento
del contratto la quale dipenda dall’incapacità legale di una delle parti contraenti è illimitatamente opponibile agli aventi causa dall’altra parte (49), fer( 48 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 701.
( 49 ) A tale proposito, v. per tutti G. Gabrielli, Invalidità e diritti dei terzi, in Le invalidità del contratto, a cura di Bellavista e Plaia, Milano 2011, p. 1 ss., nonché le classiche
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mo restando quanto è preveduto dal capoverso dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c.
a proposito della trascrizione c.d. tardiva della domanda (50).
È stato obiettato che, poiché le sentenze di annullamento sono pubblicate
ai sensi dell’art. 133 c.p.c., i subacquirenti della parte che l’ha subìta potrebbero pur sempre prenderne conoscenza, laddove al di fuori delle risultanze
dei registri immobiliari non esiste alcuna possibilità, legalmente presidiata,
che essi possano verificare se un diritto legale di riscatto sia stato esercitato (51). Si tratta tuttavia di una argomentazione debole.
La pubblicazione delle sentenze che è prevista dall’art. 133 c.p.c. non costituisce infatti un mezzo di pubblicità legale che le renda conoscibili ai terzi,
anche soltanto per la (pur banale) considerazione pratica secondo cui, stante
la generale derogabilità della competenza per territorio che è preveduta dall’art. 28 c.p.c., esse potrebbero essere state pronunciate in un qualsiasi foro.
In realtà, gli artt. 1445 e 2652, n. 6, cpv., c.c. fanno chiaramente e illimitatamente gravare sul subacquirente l’incertezza che un precedente dante
causa abbia ottenuto una sentenza di annullamento del proprio atto traslativo
per la sua incapacità legale (fermo restando sempre quanto è preveduto dal
pagine di Mengoni, Gli acquisti « a non domino », cit., p. 243 ss. Per la dottrina processualistica, v. recentemente Carratta, Diritto e processo nelle azioni di restituzione, in R. trim.
d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le azioni di restituzione da contratto, p. 128 ss.
( 50 ) Tale disposizione legislativa statuisce che, se la domanda (di annullamento) sia
trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione del contratto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. È
stato sostenuto che tale acquisto a non domino non si verifichi quando il contratto sia annullabile per l’incapacità legale dell’altra parte contraente, in quanto l’esigenza di tutelare
l’incapace prevarrebbe pur sempre su quella di tutelare i terzi subacquirenti in buona fede
(C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto2, Milano 2000, p. 675). La tesi si pone tuttavia
(consapevolmente) in contrasto con il dettato letterale dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c., il quale nella sua prima parte fa senz’altro salvi i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di
buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione tardiva della domanda di annullamento, anche quando essa sia stata proposta in base all’incapacità
legale di una delle parti contraenti (in tal senso, v. Ferri-Zanelli, op. cit., p. 344, i quali si
rifanno al precedente di Cass., 19 novembre 1959, n. 3407, in F. it., 1960, I, c. 393 ss.);
laddove la domanda di annullamento non sia stata tardivamente trascritta, l’art. 2522, n.
6, cpv., c.c. riafferma invece nella sua seconda parte una regola analoga a quella dettata
dall’art. 1445 c.c., secondo la quale l’acquisto dei terzi subacquirenti che pure abbiano anteriormente trascritto o iscritto il loro titolo è fatto salvo soltanto se la medesima domanda
è stata proposta per una causa diversa dall’incapacità legale, e sempre che sussistano i requisiti della loro buona fede e della onerosità del titolo. In definitiva, se la domanda di annullamento è proposta per l’incapacità legale della parte contraente, il regime è lo stesso
della nullità: affinché il terzo subacquirente (a qualunque titolo) in buona fede sia tutelato
non sarà sufficiente la priorità della trascrizione dell’atto di acquisto rispetto alla trascrizione della domanda, ma dovrà anche essere trascorso un periodo di almeno cinque anni (in
caso di acquisto di diritti immobiliari) o di almeno tre anni (in caso di acquisto di diritti su
beni mobili registrati) tra la trascrizione dell’atto annullabile e la trascrizione della domanda giudiziale (così Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 1008).
( 51 ) Gabrielli, ibidem.
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capoverso dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c. a proposito della trascrizione c.d. tardiva della domanda); e ciò vale non soltanto nei confronti di coloro che abbiano acquistato dalla parte soccombente prima della scadenza del termine di
prescrizione dell’azione di annullamento (cosicché il loro eventuale affidamento sul suo mancato esercizio non sarebbe senz’altro ragionevole e comunque meritevole di essere tutelato dall’ordinamento giuridico), ma anche nei
confronti di coloro che abbiano subacquistato dopo.
6. — Per quanto qui rileva, è poi particolarmente significativa la disciplina della devoluzione del fondo enfiteutico, segnatamente per quanto riguarda
la sua opponibilità nei confronti dei terzi.
Premesso che la relativa domanda è trascrivibile ai sensi dell’art. 2653,
n. 2, c.c. (52), si deve rilevare che, secondo quanto è previsto dal capoverso di
quest’ultima disposizione, la sentenza di devoluzione ha effetto anche nei
confronti di coloro che abbiano acquistato diritti dall’enfiteuta in base a un
atto trascritto posteriormente alla trascrizione della domanda. Si ritiene pertanto che tale pubblicità legale abbia propriamente ed esclusivamente l’effetto
processuale di circoscrivere i limiti soggettivi di efficacia della sentenza pronunciata nei confronti del convenuto, secondo la regola che è dettata dall’art.
111, comma 4o, c.p.c. (53): analogamente a quanto si è già detto a proposito
della trascrizione della domanda diretta alla rivendicazione ovvero all’accertamento della proprietà (o di un altro diritto reale di godimento) (54), sul piano del diritto sostanziale non è invece fatto salvo l’acquisto di coloro che abbiano avuto causa dall’enfiteuta in base a un atto trascritto prima della trascrizione della domanda di cui si tratta.
Premesso che, come risulta dagli artt. 972 e 973 c.c., la devoluzione del
fondo enfiteutico presuppone la violazione degli obblighi che sono posti dall’art. 959 c.c. a carico dell’enfiteuta (55), si deve pertanto rilevare la trascrizione della domanda di cui si tratta produce un effetto assai più limitato di
quelli della trascrizione della domanda giudiziale di risoluzione del contratto
per inadempimento: la sentenza che accoglie quest’ultima, non pregiudica infatti i diritti acquistati dai terzi in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (ma soltanto quelli da loro acquisti
mediante un atto trascritto o iscritto posteriormente), così com’è statuito dall’art. 2652, comma 1o, n. 1, cpv., c.c. In quest’ultimo caso, la pubblicità lega( 52 ) La trascrivibilità di tali atti non era prevista dal codice civile del 1865. La disposizione legislativa vigente riprende quella che era stata già ipotizzata nel Progetto Scialoja e
poi recepita nel Progetto Reale (a tale proposito, v. Nicolò, op. cit., p. 155 s.).
( 53 ) Nicolò, op. cit., p. 196 ss., seguito da Mariconda, La trascrizione2, in Tratt. Rescigno, XIX, Torino, 1997, p. 164; Ferri-Zanelli, op. cit., p. 358 s.
( 54 ) V. supra, n. 1.
( 55 ) Al riguardo, v. C.M. Bianca, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano 1999, p. 579;
Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 257.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
le serve pertanto non solo come criterio di diritto processuale per stabilire se i
terzi aventi causa del convenuto siano assoggettati all’efficacia della sentenza
pronunciata nei confronti del loro autore (art. 111, comma 4o, c.p.c.), ma anche come criterio di diritto sostanziale per stabilire se essi siano assoggettati a
quel postulato del principio consensualistico che si riassume nel brocardo resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis (56).
Ciò si spiega in quanto, mentre la risoluzione del contratto per inadempimento generalmente non pregiudica l’acquisto degli aventi causa dal convenuto, a meno che la domanda giudiziale non sia stata appunto trascritta anteriormente alla trascrizione o all’iscrizione del loro titolo (c.d. retroattività reale limitata), la devoluzione del fondo enfiteutico rimuove fin dall’inizio qualsiasi
diritto che l’enfiteuta abbia attribuito a un terzo, indipendentemente dalla trascrizione del suo titolo. La maggiore intensità degli effetti giuridici della devoluzione del fondo enfiteutico rispetto alla risoluzione del contratto per inadempimento è dovuta al fatto che gli obblighi posti dall’art. 959 c.c. a carico dell’enfiteuta non rilevano come obbligazioni qualsiasi che egli si sia volontariamente assunto, ma gli sono imposti dalla legge come limiti interni del suo diritto reale di godimento, il quale, com’è noto, è per il resto equiparabile a quello
di proprietà (57): la violazione di tali obblighi legali non è pertanto trattata dall’ordinamento giuridico come un inadempimento qualsiasi, ma come un abuso
del diritto dell’enfiteuta, a fronte del quale l’ordinamento giuridico dispone che
sia ripristinata fin dall’inizio la proprietà del concedente sul fondo enfiteutico.
Si deve fra l’altro rilevare che la retroattività dell’effetto giuridico della
devoluzione del fondo enfiteutico nei confronti dei terzi è superiore non soltanto a quella che caratterizza l’annullamento del contratto costitutivo dell’enfiteusi, il quale, se non dipende da incapacità legale, non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (art. 1445 c.c.) (58), ma
addirittura a quella che caratterizza la sua nullità: in tali casi, infatti, non sono quanto meno pregiudicati i diritti che a qualunque titolo sono stati acquistati dai terzi in buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione tardiva della domanda (art. 2652, comma 1o, n. 6, cpv.,
c.c.), laddove neppure questa ipotesi di acquisto a non domino può operare in
caso di devoluzione del fondo enfiteutico.
Non è pertanto sistematicamente incoerente che la dichiarazione di riscatto legale sia opponibile a coloro che abbiano avuto causa dal ritrattato dopo la
scadenza per l’esercizio del diritto di riscatto, tenuto conto che essi erano o
avrebbero comunque dovuto essere a conoscenza della precarietà del titolo di
acquisto da parte del loro dante causa, così come ne sono o devono comunque
esserne a conoscenza coloro che abbiano avuta causa dall’enfiteuta.
( 56 ) V. supra, n. 5.
( 57 ) Sulla questione, in generale, v. Bianca, op. ult. cit., p. 563 ss.
( 58 ) V. supra, n. 5.
Enrico Camilleri
Prof. straord. dell’Università di Palermo
APPUNTI SULLA STRUTTURA
DELL’ESPROMISSIONE CUMULATIVA
Sommario: 1. L’espromissione tra linearità di statuto e fraintendimenti. — 2. Portata innovativa delle norme sulla espromissione e condizionamenti dogmatici. — 3. Le tesi contrattualistiche e le distorsioni in sede applicativa. — 4. L’espromissione cumulativa ed i
margini per l’impiego di congegni alternativi al contratto. — 5. Contratto con obbligazioni del solo proponente e semplificazione analitica della fattispecie: critica. — 6. Promesse unilaterali ed espromissione cumulativa.
1. — Tra i congegni negoziali che realizzano una modificazione del lato
passivo del rapporto obbligatorio, l’espromissione è tradizionalmente reputato
il più lineare in punto di causa e struttura.
Di ciò è complice la lettera stessa dell’articolo 1272 c.c., che, al comma
1o, fissa nell’assunzione del debito altrui — fatta dal terzo al creditore, pur
senza delegazione da parte dell’obbligato — l’architrave dell’intera fattispecie, così traducendo quelle istanze di speditezza e praticità, enfatizzate già in
seno alla Relazione al Codice civile al riguardo del più generale fenomeno della successione nel debito (1).
Non pare, in effetti, revocabile in dubbio che proprio l’assunzione della
posizione passiva altrui, cui pure sono vocate anche le figure congeneri della
delegazione e dell’accollo (2), assurga a tipico sostegno causale dell’impegno
dell’espromittente (3), vieppiù secondo tratti a tal punto definiti da presidiare
il distinguo con la fideiussione, solo prima facie affine in quanto retta dalla
diversa funzione di garanzia dell’altrui adempimento (4).
( 1 ) Cfr. Relazione al Re, n. 584.
( 2 ) Cfr. per tutti Rescigno, Studi sull’accollo, Milano 1958, p. 1 e ss.
( 3 ) In giurisprudenza si veda, ad esempio, Cass. 13 dicembre 2003, n. 19118, in Contratti, 2004, p. 652 e ss. L’inquadramento del momento causale nei termini di cui al testo
presiede, peraltro, al distinguo tra l’espromissione e la delegazione, rappresentata come
schema generale i cui due rapporti di base (quello di valuta e di provvista) possono bene
reggersi su profili causali molteplici: si vedano, in proposito, le osservazioni di Rescigno,
voce Delegazione (dir. civ.), in Enc. dir., XI, p. 930, Cicala, Espromissione, Napoli 1995,
91 e ss., Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 2011, p. 83; analoghe valutazioni sono già rinvenibili in Bigiavi, La delegazione, Padova 1940, p. 3. Parimenti parrebbe doversi dire in relazione all’accollo c.d. esterno, per lo
meno ove se ne accolga la ricostruzione nei termini di una applicazione dello schema generale (e, per definizione, causalmente neutro) del contratto a favore di terzo: cfr. Rescigno,
Studi sull’accollo, cit., 238, Cicala, op. ult. cit., p. 91 e ss., nonché p. 101 e ss.; La Porta,
L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2009, p. 207 e ss.
( 4 ) Cfr. Carpino, Espromissione cumulativa e fideiussione, in questa Rivista, 1969, I, p.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Pacifico è poi che, sempre nella espromissione, il congegno negoziale
preordinato all’assunzione del debito riguardi unicamente creditore e terzo (5), certo sull’orma del rapporto di valuta tra debitore e creditore (arg. ex
art. 1272, comma 3o, c.c.) ma, per lo meno sul piano formale, a prescindere
da quello di provvista, in tesi persino eventuale (arg. ex art. 1272, comma 2o,
c.c.) (6); per l’appunto, un ulteriore indice della cifra di maggiore « agilità »
che contraddistingue lo schema espromissorio, a paragone delle complesse intelaiature di posizioni soggettive e rapporti che ricorrono tanto nella delegazione quanto nell’accollo (esterno) e che vedono in ogni caso direttamente
coinvolto il debitore originario (7).
Come bene ha, però, sottolineato la dottrina cui si deve il maggiore contribuito all’approfondimento teorico dell’istituto in esame, la linearità dell’espromissione è stata talvolta foriera anche di una qualche approssimazione nella compiuta comprensione della relativa fattispecie, quando non già di
equivoci interpretativi intorno ad essa (8); equivoci tra i quali ci pare vada
annoverata anche la prevalente lettura della norma di riferimento (l’art.
1272, c.c.) che alla dimensione del contratto — ed unicamente ad essa —
395 e ss.; Stella, Le garanzie del credito, Milano 2010, pp. 82-83; Briganti, L’espromissione, in Briganti-Valentino, Le vicende delle obbligazioni. La circolazione del credito e
del debito, Napoli 2007, p. 335 e ss. In giurisprudenza cfr., ad esempio, Cass. 7 dicembre
2012, n. 22166, in Mass. Giust civ., 2012, 12, p. 1388, nonché Cass. 16 febbraio 2004, n.
2932, in Mass. Giust. civ., 2004.
( 5 ) Seppure, come si dirà, con il primo soggetto non sempre necessariamente chiamato
a vestire i panni di « parte » in senso tecnico del negozio, ben potendo infatti essere anche
un mero destinatario della volontà impegnativa altrui. Descrive icasticamente l’espromissione come « l’unico schema negoziale destinato a regolare i soli interessi dell’assuntore e
del creditore che si esauriscono nell’assunzione del debito in sé considerata » Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, cit., p. 83.
( 6 ) Mette appena conto sottolineare come l’estraneità del debitore espromesso sia da intendere in senso tecnico, ossia limitata al negozio terzo-creditore. Del resto — ed è opportuna considerazione che si deve già alle riflessioni di Betti, Della differenza fra expromissio e
delegatio con riguardo alla responsabilità del delegante per insolvenza del delegato, in
Ann. di dir. comp., 1931, v. VI, Parte I, f. II, p. 577 e ss., ma spec. 584 — sebbene il comma 2o dell’articolo 1272 c.c. subordini ad una espressa convenzione tra espromittente e creditore la possibilità che l’uno possa opporre all’altro le eccezioni relative al rapporto che lo
lega all’espromesso, è piuttosto irrealistico pensare ad un intervento del terzo che sia del
tutto sganciato da un previo concerto con il debitore, accadendo anzi nella normalità dei
casi che in tanto il terzo intervenga in quanto a ciò tenuto sulla base di precisi vincoli giuridici intercorrenti con il debitore, salva la residuale prospettiva di un intervento sorretto da
spirito liberale. Le medesime considerazioni valgono a relegare più alla teoria che non alla
prassi concrea la eventualità, pure formalmente non revocabile in dubbio, che il rapporto
c.d. di provvista neppure esista.
( 7 ) Vedi, in tal senso, le osservazioni di Rodotà, voce Espromissione, in Enc. dir., XV,
Milano 1966, p. 783. Basti dire, al riguardo, della regola dettata dall’articolo 1274 c.c., che
unicamente al delegante ed all’accollato, in ragione del ruolo attivo da essi assunto nella vicenda modificativa, addossano il rischio della insolvenza del terzo.
( 8 ) Cfr. Cicala, L’adempimento indiretto del debito altrui, Napoli 1968, 9.
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appiattisce la struttura del negozio da cui il rapporto può trarre titolo (9).
Non soltanto, beninteso, laddove il dispositivo negoziale dia vita ad una
variante ab origine privativa, in cui in effetti il consenso del creditore, oltre
che imprescindibile ai fini del prodursi dell’effetto liberatorio (arg. ex art.
1272, comma 1o, c.c.), sta in rapporto sinallagmatico con l’assunzione dell’impegno da parte del terzo ed implica dunque di necessità la cornice contrattuale. Bensì pure allorché il titolo del nuovo vincolo sia scaturigine di una
variante solo cumulativa dell’espromissione, poco importa se poi seguita dalla
dichiarazione di affrancazione da parte dell’espromissario e tale dunque da
divenire essa stessa liberatoria (10).
In altri termini, quell’unitarietà del fenomeno espromissorio che opportunamente si è ritenuto di dover valorizzare, in ragione del ricorrere comunque
— privativa o meno che ne sia la versione — di una c.d. « minima unità effettuale » data dall’assunzione del debito altrui (11), ha finito col travalicare il
piano causale, condizionando anche quello della struttura dell’atto di autonomia privata (12), nel senso di accreditare la necessità dell’accordo pure laddove la tipologia degli effetti prodotti (vincolo cumulativo) consentirebbe di farne a meno.
Si palesa, però, in tal modo una evidente precomprensione del momento
strutturale, tanto più marcata quanto solo si considerino due distinti fattori.
Il primo è costituito dalla eminenza che la stessa norma di fattispecie assegna agli effetti giuridici, rispetto al titolo che li genera; l’articolo 1272 c.c.
risulta infatti più vago nel mettere a fuoco le fonti del rapporto espromissorio
di quanto non sia nel tracciare i due diversi scenari (effettuali) in cui questo
può risolversi (13), cosicché la nettezza dell’indirizzo prevalente circa la fisio( 9 ) Sul punto della fungibilità di diversi schemi negoziali (unilaterali oltre che contrattuali) quale possibile scaturigine degli effetti espromissori, a seconda che si abbia espromissione cumulativa o liberatoria, è tuttavia lo stesso Cicala, op. ult. cit., 5, nt. 2, ad abbracciare una lettura estremamente schematica della fattispecie, giungendo a tacciare di inconsapevolezza le opinioni (invero assai vaghe) espresse dai primi commentatori che si sono
espressi a favore di una possibile non esclusività dello strumento contrattuale: cfr. Pettiti,
Rapporto cartolare ed espromissione, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1952, II, p. 1660; analogamente Striani, Sulla figura della espromissione condizionata e sulla sua disciplina come
negozio atipico, in F. it., 1956, I, cc. 1944-1947.
( 10 ) Su cui si rinvia, sin d’ora, a Cicala, Espromissione, cit., p. 20; Grasso, Delegazione,
espromissione e accollo, cit., p. 85.
( 11 ) Così ancora Cicala, L’adempimento indiretto, cit., pp. 48, 64; Id., Espromissione,
cit., p. 73 e ss.
( 12 ) Vedi in tal senso già Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano 1936, p.
244; con riguardo al Codice vigente netta appare sul punto la posizione di Rescigno, Studi
sull’accollo, cit., p. 4 ad avviso del quale « Il creditore è parte del contratto di espromissione: su questo punto non può esservi incertezza ».
( 13 ) Del resto, può aggiungersi, è giusto sulla scorta di questo primato della dimensione
effettuale su quella genetica che è stato possibile annettere al paradigma dell’espromissione
numerose ipotesi di assunzione ex lege del debito altrui Si veda, in proposito, lo studio di
648
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
nomia pattizia di quelle si radica di necessità su di un piano altro da quello
meramente positivo.
Il secondo risiede, invece, nella singolare « dissociazione » del metodo interpretativo, cui si è finito col dar luogo onde corroborare (rectius: non smentire) l’assunto di partenza della indefettibilità del contratto.
Metodo interpretativo, infatti, ora — in punto di ricostruzione della dimensione causale e dell’oggetto del vincolo obbligatorio — ispirato all’analisi
semantica del dettato positivo, così da valorizzare il significato più proprio
dell’espressione « assumere il debito altrui » e trarne tutti i corollari effettuali (14); ora, invece — allorché orientato alla indagine strutturale — per l’appunto condizionato da una sorta di dogmatismo pancontrattualista (15) e disancorato da un dato letterale che viceversa, col menzionare il solo agire del
terzo ed il tacere su qualsivoglia accettazione espressa da parte del creditore (16), di certo lascia ampi margini per sostenere quanto meno la fungibilità
tra struttura unilaterale (rectius: promessa) e contratto, ai fini della genesi del
vincolo obbligatorio in capo all’assuntore.
2. — La presenza stessa, nel corpo del Codice Civile, di una norma dedicata alla espromissione costituisce, come noto, un elemento di discontinuità rispetto alla tradizione precedente, informata alla impostazione del code
Napoléon, che riconduce la modificazione soggettiva passiva del rapporto
obbligatorio alla sola novazione, di questa configurando infatti tre diverse
varianti (art. 1271) tra cui quella in cui « parl’effet d’un nouvel engagement, un nouveau créancier est substitué à l’ancien » (art. 1271, n. 3, cod.
nap.).
Sarebbe, tuttavia, per lo meno corriva una lettura che pretendesse di attribuire portata meramente formale al nuovo corso inaugurato con la codificazione del 1942.
Tomassetti, Assunzione unilaterale ed espromissione « ex lege », in R. trim. d. proc. civ.,
1997, p. 29 e ss., ma spec. p. 43.
( 14 ) Segnatamente la degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’originario debitore. Vedi per tutti Cicala, Espromissione, cit., p. 29 e ss. nonché Campobasso, Coobbligazione cambiaria e solidarietà diseguale, Napoli 1974, p. 268 e ss. Sottolinea altresì l’identità di oggetto tra il vincolo obbligatorio originario e quello assunto dal terzo espromittente
Briganti, L’espromissione, in Briganti-Valentino, Le vicende delle obbligazioni. La circolazione del credito, cit., p. 329.
( 15 ) Sul punto sono, ancora di recente, piuttosto paradigmatiche le argomentazioni impiegate a sostegno da Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166.
( 16 ) Si vedano, sul punto, le incisive osservazioni di Bianca, Diritto Civile, 4, L’obbligazione, Milano 1993, pp. 665 (ed ivi anche nt. 10) - 666; analogamente Tomassetti, Assunzione unilaterale ed espromissione « ex lege », cit., pp. 66-67. Diversamente, invece, Cicala,
L’espromissione, cit., p. 11, il quale, pur essendo un fautore convinto della esclusività del
contratto quale congegno in grado di dar vita al rapporto espromissorio, ritiene però che
nessun argomento, circa la composizione strutturale della fattispecie, sia dato inferire dal
testo dell’articolo 1272 c.c.
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649
Vero è, infatti, che l’expromissio (17) è schema che affonda le proprie radici sin già nel diritto romano e che il codice civile del 1865, sotto le insegne
della novazione soggettiva passiva, disciplinava (art. 1270 c.c. abr.) una fattispecie sostanzialmente riconducibile alla espromissione privativa (18), pur
tra le incertezze classificatorie legate alla disputa tra novazione e successione
nel debito, che ancora riecheggia nella Relazione al Re (19).
Vero è del pari, tuttavia, che l’articolo 1272 c.c. codifica — ed eleva anzi
a modello ordinario — pure l’allotropo cumulativo della fattispecie, così tipizzando uno schema in passato al più prefigurato in chiave di atipicità (20); ed
ancora, che l’effetto di degradazione a sussidiaria della responsabilità del debitore originario, non liberato dal creditore, ancorché dettato per la sola delegazione (art. 1268, comma 2o, c.c.) va reputato in realtà comune anche ad
espromissione cumulativa ed all’accollo esterno, siccome parimenti riconducibili alla categoria delle obbligazioni con solidarietà passiva diseguale (21).
Del resto, proprio alla luce delle novità introdotte con la codificazione, in
primis la rilevanza tipica attribuita alla distinzione tra i due tipi di espromissione, la migliore dottrina ha sollecitato una rimeditazione teorica di numerose questioni relative alla fattispecie negoziale nel suo insieme, specie in punto
di struttura oltre che di causa (22).
Nondimeno, le indagini condotte in tale direzione non sono approdate a
quegli esiti « eterodossi » che sarebbe stato forse lecito attendersi, in ciò probabilmente scontando due diversi ordini di condizionamenti.
Un primo, per così dire esogeno, esercitato dalla codificazione tedesca.
Questa, infatti, pur non disciplinando autonomamente l’espromissione (23),
bensì un più generale paradigma di accollo di debito (§§ 414-419), contempla sì l’assunzione della posizione debitoria altrui (§ 414 BGB), ma in
forma unicamente liberatoria (privative Schuldübernahme) (24) e quale
( 17 ) Si vedano al riguardo Betti, Della differenza tra « expromissio » e « delegatio »,
cit., p. 9 e ss., nonché Masi, voce Expromissio, in Nov. D., VI, Torino 1960, p. 1092 e ss.
( 18 ) Cfr. Bigiavi, La delegazione, cit., p. 35.
( 19 ) Cfr. Relazione al Re, n. 584, cit.
( 20 ) Attraverso il riferimento all’adpromissio: cfr. Rodotà, voce Espromissione, cit.,
782.
( 21 ) Sul punto vedi comunque infra. Sin d’ora appare comunque imprescindibile il rinvio a Rescigno, Studi sull’accollo, cit., pp. 66 e ss., 703 ss.; Campobasso, Coobbligazione,
cit., p. 268 e ss.
( 22 ) Così Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 782.
( 23 ) Così come le altre fattispecie che inverano, secondo il nostro codice civile, modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio.
( 24 ) Invero la dottrina tedesca ammette da tempo anche una variante (atipica e) cumulativa di assunzione del debito altrui (kumulative Schuldübernahme): cfr. già Larenz, Lehrbuch
des Schuldrechts, Band I, Allgemeiner Teil, München-Berlin 1963, § 31, p. 357 e ss.; più ampi riferimenti in Campobasso, Coobbligazione cambiaria e solidarietà diseguale, Napoli
1974, p. 268, nt. 48 e Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli 1972, p.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
contratto tra terzo e creditore (Vertrag zwischen Gläubiger und Übernehmer).
Un secondo, certo assai più pregnante e tutto interno al sistema, legato
invece all’idea del primato indiscusso del contratto tra i congegni a disposizione dell’autonomia privata, ed alla correlativa minimizzazione dei margini
operativi assegnati alle promesse unilaterali.
Da qui, per l’appunto, il consolidarsi, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, dell’opinione secondo cui la fattispecie dell’articolo 1272 c.c.,
metta capo o meno ad un effetto cumulativo, dovrebbe originare pur sempre
da un contratto tra creditore e terzo (25).
Certo non è mancata qualche apertura nella direzione di modalità perfezionative meno canoniche rispetto allo scambio di promessa ed accettazione
conforme, postulandosi in particolare il ricorso al modello operativo dettato
dall’articolo 1333, c.c. (26); ciò è tuttavia avvenuto pur sempre all’insegna
della conventio ad excludendum verso forme di assunzione puramente unilaterale del vincolo obbligatorio e più in generale verso una reale fungibilità tra
contratto ed altre strutture negoziali (promesse in testa), quale modo di esplicazione dell’autonomia privata.
Sostanzialmente minoritarie sono invece rimaste le voci inclini ad ammettere una alternatività piena — in tema di espromissione cumulativa — tra
fonte pattizia e non, peraltro dovendosi ulteriormente distinguere tra coloro i
quali si sono espressi a favore del possibile ricorso a vere e proprie promesse
unilaterali (27) e quanti hanno invece prefigurato, più genericamente, la sem260, nt. 81. V., altresì, nella letteratura più recente, Lang, Die Kumulative Schuldübernahme
in der Rechtsprechung des Reichsgerichts und in der zeitgenössichen literatur, Frankfurt am
Main 2004, passim.
( 25 ) Cicala, L’adempimento indiretto, cit., pp. 6, 43-45; Rescigno, Studi sull’accollo,
cit., p. 4; Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 783, il quale, in parte rifacendosi al pensiero
di Nicolò (L’adempimento dell’obbligo altrui, cit., p. 270) circa la « fondamentale uniformità » di caratteri essenziali tra le varie figure negoziali che attuino interventi del terzo diversi dall’adempimento della prestazione già dovuta dal debitore, condivide l’assunto secondo cui tali figure hanno « in comune la natura contrattuale ». Nello stesso senso v. altresì Carpino, Espromissione cumulativa e fideiussione, cit., pp. 400-402; Ceci, La contrattualità dell’espromissione cumulativa, in Rass. d. civ., 1989, p. 289. In giurisprudenza cfr.,
tra le pronunzie più recenti, Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit.; Cass. 10 novembre
2008, n. 26863, in Obbl. e Contr., 2009, p. 500 e ss., con nota di Tomassetti; Cass. 13 dicembre 2003, n. 19118, in Contratti, 2004, p. 652 e ss.; Cass. 5 aprile 2001, n. 5076, in
Mass. Giust civ., 2001, p. 716.
( 26 ) Cfr. La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 170 e ss. Una indicazione nella medesima direzione si coglie comunque già in Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, VI,
2a ed., Torino 1975, p. 32. Ammette la possibilità di far ricorso, per la sola espromissione
cumulativa, al modello di formazione dettato dall’articolo 1333 c.c. anche Nappi (Commento all’art. 1272, in Commentario del codice civile dir. da E. Gabrielli, Delle obbligazioni —
artt. 1218-1276, a cura di V. Cuffaro, Torino 897), alla sola condizione, tuttavia che il terzo assuma il debito senza contrattare con il creditore alcun corrispettivo.
( 27 ) Cfr. Bianca, Diritto civile, cit., pp. 665-666; Mancini, L’espromissione, in Tratt. Re-
SAGGI
651
plice versatilità allo scopo di un paradigma (astratto) di negozio giuridico
unilaterale recettizio (28).
Non può comunque sottacersi, e sul punto si tornerà nel prosieguo dell’indagine, che i segnali più interessanti di discontinuità rispetto alla tralatizia
impostazione contrattualistica si apprezzano oggi nella stessa giurisprudenza
della Suprema Corte di Cassazione, allorché nel 2006 (29), prima, e nel
2009 (30), poi, ha esplicitamente preso posizione giusto a favore della fungibilità tra fonte bilaterale e meramente unilaterale, ai fini della genesi del rapporto espromissorio. Indicazione, questa, che meriterebbe forse di venire valorizzata nell’ambito di una riflessione di più ampio respiro sulla diffusione di
tecniche di formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, già del resto evidente sul fronte delle garanzie personali (31).
3. — Centrale, nelle tesi contrattualistiche, è l’assunto del concorso necessario del creditore ai fini del perfezionamento del negozio espromissorio,
quale riflesso, in punto di struttura, della sostanza effettuale della fattispecie,
sia privativa che cumulativa. Valutazione ineccepibile nel primo caso, assai
meno persuasiva nel secondo
In ordine alla variante liberatoria, è invero la lettera stessa dell’articolo
1272 c.c. a richiedere il consenso espresso del creditore, ai fini della affrancazione del debitore originario, coerentemente con il principio di relatività degli
effetti del negozio (32) e stante l’indole svantaggiosa del venir meno della garanzia costituita dal vincolo obbligatorio in capo al soggetto passivo originario.
Escluso così che una semplice dichiarazione impegnativa del terzo possa
scigno, vol. 9, 2a ed., Torino 1999, p. 504. Sia, inoltre, consentito rinviare a Camilleri, La
formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, Torino 2004, 39. Una posizione a sé viene espressa da Di Giovanni, Le promesse unilaterali, Padova 2010, p. 175, il quale ritiene
possa al più postularsi il ricorso ad una promessa di pagamento ex art. 1988 c.c., il che però è altra cosa dal prefigurare una reale formazione unilaterale del rapporto obbligatorio
che coinvolge il terzo: sul punto v. comunque infra.
( 28 ) Cfr. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli 1972, p. 258 e ss.,
testo e note.
( 29 ) Cfr. Cass. 12 aprile 2006, n. 8622, in Mass. Giust. civ., 2006, p. 4.
( 30 ) Cfr. Cass. 26 novembre 2009, n. 24891, in Mass. Giust civ., 2009, p. 1633, ove la
Corte, ai fini della configurazione strutturale dell’espromissione, giunge addirittura a ritenere più appropriato il paradigma del negozio unilaterale rispetto a quello del contratto.
( 31 ) In tema di fideiussione si vedano Cass. 13 febbraio 2009, n. 3525, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 300 con nt. di Cuccovillo; nonché Cass. 13 giugno 2006, n.
13652, in Mass. F. it., 2006, p. 1286; in tema di patronage forte si veda Cass. 3 aprile
2001, n. 4888, in G. it., 2001, p. 2254.
( 32 ) Sulle condizioni per la cui possibile deroga si rinvia ai lavori di Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano 1969, passim, ma spec. p. 204; Moscarini, I negozi a
favore del terzo, Milano 1970, 170; Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, cit.
Nella letteratura più recente cfr. altresì Mazzarese, Invito beneficium non datur: gratuità
del titolo e volontà di ricevere l’attribuzione, in R. crit. d. priv., 2001, p. 3 e ss.
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mettere capo ad una assunzione liberatoria del debito altrui, si è ritenuto non
potersi avere altrimenti espromissione privativa che in dipendenza di un consensus ad idem di espromittente ed espromissario, perfezionativo di un contratto ad efficacia diretta (33).
Di più, che l’obbligarsi dell’espromittente e la disposizione liberatoria
dell’espromissario siano avvinti da un preciso nesso di corrispettività, alla cui
stregua — a parte le ricadute di più immediata evidenza, quali la risolubilità
del contratto ex art. 1453 c.c. — la liberazione dell’originario debitore integri
atto dispositivo del credito, compiuto dal suo titolare e dettato dalla volontà
di conseguire l’effetto satisfattivo che si riannoda alla assunzione del terzo
(controprestazione) (34), donde la subordinazione dell’eventuale interesse
contrario del debitore al mero apprezzamento del soggetto attivo, ai sensi dell’art. 1180, comma 2o, c.c. (35).
Non diversamente, nel senso della indefettibilità del contratto, si è tuttavia opinato anche in merito all’allotropo cumulativo della fattispecie.
Come già anticipato, si deve ai contributi della migliore dottrina, e può
ormai ben dirsi sicura acquisizione teorica, la ascrizione della stessa espromissione al paradigma delle c.d. obbligazioni con solidarietà diseguale, nelle
quali cioè il vincolo solidale, in linea con quanto prevede l’articolo 1293 c.c.,
si articola diversamente dall’ordinario e vede degradare a sussidiaria l’esposizione di uno dei soggetti passivi (36).
( 33 ) Cfr. Cicala, Esromissione, cit., p. 22. Riporta l’espromissione liberatoria al paradigma del contratto a favore di terzo (il debitore espromesso), seppur con taluni adattamenti rispetto al modello consueto, Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 238. Contro questa
lettura si è, tuttavia osservato come il prodursi degli effetti verso il terzo non risulterebbe
ricollegabile, nella espromissione, ad un modo d’essere accidentale di una vicenda altrimenti circoscrivibile a stipulante (espromissario) e promittente (espromittente): vedi Briganti,
L’espromissione, cit., p. 322.
( 34 ) In tal senso già Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, cit., p. 262. Vigente il
codice del 1942 cfr. Cicala, L’adempimento indiretto del debito altrui, cit., pp. 43-45; Id.,
Espromissione, cit., pp. 22-23; Rodotà, op. ult. cit., pp. 784 e 787. Nel medesimo senso v.
altresì Bianca, Il contratto, cit., pp. 671-672; Briganti, L’espromissione, cit., p. 317; Grasso, Delegazione, cit., p. 85.
( 35 ) Cfr. Cicala, Espromissione, cit., pp. 23-24; Nappi, Commento all’art. 1272, c.c.,
cit., pp. 888-889. Contra tuttavia Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 116.
( 36 ) Con riguardo all’espromissione v. già Quagliariello, L’espromissione, Napoli
1953, p. 89 e ss. L’intuizione di questo primo A. è tuttavia poi stata ripresa ed ulteriormente sviluppata da Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 67 e ss.; Cicala, Espromissione, cit., p.
29 e ss., ma spec. p. 37 e ss. La categoria delle obbligazioni con solidarietà passiva diseguale, richiamata nel testo, è individuata e descritta da Campobasso, Coobbligazione cambiaria, cit., p. 246 e ss. ed è ad essa che l’autore persuasivamente riconduce l’espromissione
cumulativa (ivi, p. 268 e ss.). L’estensione dell’articolo 1268 c.c. all’espromissione è stata
invero sottoposta ad articolata critica da Grasso, Assunzione cumulativa del debito, in
Scritti in onore di Falzea, Milano 1991, II, t. 2, p. 389 e ss.; lo stesso A. ha tuttavia mutato
opinione in un lavoro più recente, prendendo posizione a favore di una sussidiarietà attenuata: cfr. Id., Delegazione, cit., p. 94.
SAGGI
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Con particolare riguardo alla figura al nostro esame, ove pure la nozione
di solidarietà viene espressamente richiamata dall’articolo 1272, comma 1o,
c.c., si è persuasivamente argomentato che il significato letterale da attribuire
alla formula della assunzione del debito altrui importi, ad instar delle altre
fattispecie congeneri della delegazione e dell’accollo, lo spostamento del peso
economico dell’obbligazione sul terzo assuntore, rendendo per l’appunto solo
sussidiaria la responsabilità a carico del debitore originario, attraverso il delinearsi di un beneficium ordinis a suo favore.
Alla espromissione sarebbe, in definitiva, applicabile analogicamente la disposizione dettata dall’articolo 1268, comma 2o, c.c. in tema di delegazione, donde la imposizione al creditore dell’onere di richiedere (/attendere) il previo adempimento del terzo assuntore, prima di potersi rivolgere all’espromesso (37).
Ebbene, giusto in questa sorta di vincolo procedurale al più pieno enforcement del diritto di credito si è scorto un effetto svantaggioso o potenzialmente tale per chi ne sia titolare; dal che, in una con l’interdizione del suo
prodursi in dipendenza di una fonte semplicemente unilaterale quale la sola
manifestazione di volontà del terzo assuntore, ancora una volta la ritenuta
necessità del ricorso allo schema del contratto (38).
Di più, persino nell’ipotesi di espromissione cumulativa si è giunti a prefigurare un nesso di corrispettività tra l’assunzione del vincolo da parte del
terzo e la degradazione a sussidiaria della posizione passiva del debitore originario, non ritenendosi, questa seconda, effetto « che possa prodursi senza il
consenso del creditore » ed anzi scorgendovisi il contenuto della (contro)prestazione a carico del soggetto attivo del rapporto obbligatorio (39).
Senonché, a differenza di quanto non possa dirsi per la versione privativa
della fattispecie che ci occupa, la tesi che accredita come indefettibile la cornice contrattuale anche per quella cumulativa mostra evidenti limiti, vuoi sotto il profilo più squisitamente ricostruttuivo, vuoi sotto quello pratico.
Rinviando la disamina degli uni al prosieguo dell’analisi, può osservarsi,
riguardo agli altri, come l’opzione contrattualistica accrediti in effetti una rigidità del momento genetico del rapporto espromissorio che tradisce gli obiettivi di speditezza perseguiti dal legislatore e che si presta vieppiù anche ad assecondare esiti per lo meno iniqui, consistenti in ciò, che chi pure (il terzo)
abbia ingenerato un affidamento ragionevole sulla impegnatività delle proprie
dichiarazioni si ritrovi poi nelle condizioni di poter invocare agevolmente la
« insufficienza » di queste ultime ai fini della venuta ad esistenza di una obbligazione a proprio carico.
( 37 ) Vedi chiaramente Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 66 e ss. Per la identificazione
come sussidiaria della responsabilità dell’accollato, in ipotesi di accollo (esterno) cumulativo si veda Cass. 24 maggio 2004, n. 9982, in F. it., 2004, I, c. 9405.
( 38 ) Così, ad esempio, Cicala, Espromissione, op. e loc. ult. cit.
( 39 ) Cfr. Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788. In senso analogo già Di Giovine, Note
sulla causa del negozio di espromissione cumulativa, in D. e giur., 1965, p. 600.
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Rappresentativa di una situazione che pure si osserva costante nei vari
ambiti di impiego della assunzione (espromissoria) del debito altrui può dirsi
la casistica in tema di assicurazione della responsabilità civile, regolata dall’articolo 1917 c.c., norma che ha conservato un significativo raggio d’azione
pure all’indomani della entrata in vigore della legge sulla obbligatorietà della
RCA (l. 24 dicembre 1969, n. 990) (40).
Premesso, infatti, come dalla stipulazione del contratto assicurativo non
derivi alcun rapporto giuridico diretto tra l’assicuratore ed il singolo danneggiato (41), l’adesione all’idea della indefettibilità del contratto ai fini del sorgere del rapporto di espromissione conduce ad escludere che l’iniziativa spontaneamente assunta dal primo soggetto, il quale contatti direttamente il secondo (creditore) e gli manifesti ad esempio l’intenzione di provvedere al pagamento diretto del risarcimento dovutogli dal danneggiante-assicurato —
magari persino liquidando la relativa somma — possa costituire fonte idonea
al sorgere del vincolo espromissorio; e ciò pure ad onta delle condotte anche
solo omissive (ad esempio l’omissione di atti interruttivi della prescrizione)
che il destinatario di quelle dichiarazioni possa aver tenuto, per l’appunto facendo affidamento sulla loro impegnatività.
4. — Certo non v’è dubbio che le distorsioni appena descritte, cui minaccia di mettere capo la prevalente ricostruzione circa la modalità perfezionativa della espromissione, non sono di per sé sufficienti a confutare gli argomenti che a quella stessa impostazione sottostanno.
Sarebbe d’altronde fuorviante ritenere qui decisiva, ai fini dell’accreditamento di eventuali fonti dell’obbligazione (del terzo) alternative al contratto,
giusto la verifica di effettività, prevedibilità e ragionevolezza di quella reliance del creditore (42) che pure rischia di venire sovente frustrata. Come si dirà,
infatti, una dichiarazione nella quale si menzioni l’obbligo già gravante su altri e si espliciti l’intenzione di farsene carico, ovvero addirittura si prometta di
adempierlo, è da reputare autosufficiente sotto il profilo giustificativo, veicolando, il suo stesso contenuto, una expressio causae (43); da qui il carattere
( 40 ) Il cui art. 18, come è noto, ha introdotto il principio dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, per l’appunto derogando a quanto invece previsto dall’art. 1917 c.c., che non trova pertanto più applicazione nell’ambito della assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile da circolazione di autoveicoli.
( 41 ) Cfr. Cass. 5 aprile 2001, n. 5076, cit.; contra v., comunque, Cass. 12 aprile 2006,
n. 8622, cit.
( 42 ) Queste, in punto causale, le principali « condizioni » per ammettere fattispecie atipiche di promessa unilaterale: cfr. Camilleri, La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, cit., p. 71 e ss., p. 139 e ss.
( 43 ) Tale promessa, in altri termini — analogamente alle altre ipotesi tipiche di promessa — soddisferebbe già sotto il profilo formale la prescrizione causale: per questa impostazione v., per tutti, Spada, Cautio quae indiscretae loquitur: lineamenti funzionali e strutturali della promessa di pagamento, in questa Rivista, 1978, I, p. 673 e ss. ma spec., p. 754.
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neutro dell’affidamento eventualmente riposto dal promissario, ai fini del
puntello di vincolatività della dichiarazione stessa.
È però per altra via che quella impostazione contrattualistica merita di
essere attentamente riconsiderata, a vantaggio di una sostanziale fungibilità
tra accordo e promessa, per lo meno sul terreno della espromissione cumulativa.
Non è, invero, controvertibile che l’espromissione assuma forma contrattuale allorché, liberatoria o cumulativa che sia, l’iniziativa della sua genesi
venga assunta dal creditore. In tal caso sarà il soggetto attivo dell’originario
rapporto obbligatorio a formulare una proposta all’indirizzo di un soggetto
terzo, di talché la dichiarazione assuntiva che questi si determini ad emettere
non risulterà altrimenti inquadrabile che quale accettazione conforme della
proposta rivoltagli.
Del pari può dirsi, poi, in relazione all’ipotesi in cui l’espromissione sia sì
privativa ma tale fin dal sorgere del relativo rapporto giuridico.
Essendo necessaria, già a mente dell’articolo 1272, comma 1o, c.c., una
espressa manifestazione di volontà del creditore, affinché il debitore possa essere affrancato dal vincolo a proprio carico, quella manifestazione di volontà
ammonterà ad accettazione conforme di una proposta del terzo, già orientata
alla liberazione altrui; ovvero, senza che la cornice contrattuale ne venga però
minimamente intaccata, a controproposta dello stesso soggetto attivo, accettata poi dal terzo, quante volte l’originario atto prenegoziale di quest’ultimo risultasse anche solo muto circa le sorti del debitore espromittendo.
Diverse conclusioni sembra tuttavia legittimo trarre vuoi in presenza di
espromissione cumulativa, vuoi a fronte di una espromissione che liberatoria
divenga solo successivamente e per autonoma iniziativa del solo creditore.
Prendendo le mosse da questa ultima ipotesi giova richiamare l’autorevole insegnamento secondo cui la dichiarazione di liberazione dell’originario
soggetto passivo potrebbe anche intervenire autonomamente rispetto all’assunzione del vincolo obbligatorio da parte del terzo, atteggiandosi a mò di
elemento autonomo, esterno allo schema negoziale e tale da rendere semmai
complessa una fattispecie (quella dell’espromissione, appunto), altrimenti
semplice (44).
Fatta allora questa premessa, mette conto rilevare come altro sia escludere, in ragione della necessità del consenso del creditore, che l’allotropo già ab
origine privativo del rapporto giuridico possa discendere da un negozio unilaterale riferibile al terzo, ed anzi reputare che la manifestazione di volontà di
quest’ultimo — poco importa se in veste di proposta o accettazione — non
Vedi però una penetrante critica a questo approccio formalistico in Scalisi, voce Negozio
astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano 1978, p. 52 e ss., ma spec. p. 88.
( 44 ) Cfr. Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 113, nt. 5; Cicala, L’adempimento indiretto, cit., p. 34 e ss.; Campobasso, Coobbligazione cambiaria, cit., p. 274 e ss. Di supplemento di fattispecie parla anche Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, Torino 1962,
p. 226.
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possa che far corpo con la dichiarazione liberatoria resa dal creditore e dar vita ad un contratto a prestazioni corrispettive; altra cosa è invece ritenere che
la cornice contrattuale rimanga comunque indispensabile pure allorquando la
liberazione del debitore semplicemente segua, cronologicamente, il sorgere del
vincolo dell’espromittente, e ne resti distinta per titolo, discendendo da un
mero negozio (unilaterale) remissorio, riconducibile al soggetto attivo del rapporto obbligatorio.
Invero, la tesi del possibile carattere successivo della liberazione è stata
sottoposta a critica da quanti respingono l’idea di una graduazione delle responsabilità tra debitore originario e terzo assuntore, ritenendo piuttosto
sussistere tra di essi un vincolo del tutto ordinario di solidarietà, in stretta
aderenza con quanto espressamente evocato dallo stesso articolo 1272 c.c.
(« il terzo ... è obbligato in solido... ») (45); da qui la supposta ripartizione
interna pro quota tra i condebitori e, soprattutto, la prefigurazione degli effetti di cui all’articolo 1301 cod civ. in dipendenza di una remissione che il
comune soggetto attivo eventualmente rivolga a beneficio di uno solo dei
coobbligati.
A confutazione di tale opinione è tuttavia sufficiente rifarsi ancora una
volta alla persuasiva dimostrazione circa il carattere in realtà solo sussidiario
della solidarietà che si instaura tra espromesso ed espromittente (46).
Detto già dello spostamento sul terzo assuntore del peso economico del
debito, può aggiungersi intanto come tra quest’ultimo ed il debitore originario
difetti quell’Interessengemeinschaft che presiede alla regola di ripartizione interna pro quota ex art. 1298 c.c., donde non a caso la simmetria tra l’inciso
finale dell’articolo 1272, comma 3o (sui limiti alla eccezione di compensazione) e l’articolo 1302, comma 1o, c.c.; ed inoltre, che le rispettive posizioni
passive di entrambi i soggetti si riferiscono ad obbligazioni autonome, traenti
titolo da fonti distinte (47), sebbene l’esistenza dell’una concorra a definire il
sostegno causale dell’altra e vi sia identità d’oggetto tra di esse.
Corroboratane la piena ammissibilità gli è, però, che quante volte la dichiarazione di affrancazione (48) per l’appunto segua la genesi del rapporto
( 45 ) Cfr. Carpino, Espromissione cumulativa, cit., p. 400, alla cui analisi si rifà adesivamente anche Bianca, Diritto civile, cit., p. 671, nt. 25.
( 46 ) Su cui si rinvia alle tesi già richiamate nel precedente paragrafo 3.
( 47 ) Cfr. Campobasso, op. cit., p. 274 e ss., traendo ulteriore conferma della analisi di
cui al testo anche attraverso il regime delle eccezioni opponibili ricavabile dall’art. 1272,
comma 2o, c.c., siccome in effetti parzialmente divergente sia dall’art. 1247 che dall’art.
1945, c.c.
( 48 ) Che va inquadrata nell’ambito del negozio di remissione del debito ex art. 1236,
c.c.: cfr. Grasso, Delegazione, cit., p. 86; Briganti, L’espromissione, cit, p. 332. Di dichiarazione di natura remissoria parla altresì Campobasso, op. cit., p. 275, nonché ivi nt. 61.
Mette appena conto osservare come la dottrina prevalente assegni alla opposizione del debitore natura risolutiva, nel senso, più esattamente, che essa varrebbe a rimuovere retroattivamente le conseguenze già prodottesi in dipendenza della dichiarazione del credi-
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espromissorio, accade che in una con l’obliterazione del nesso sinallagmatico
tra di essa e l’assunzione del vincolo da parte del terzo venga fatalmente meno anche il più solido argomento a sostegno della indole necessariamente contrattuale del titolo da cui la nuova obbligazione origina.
Nulla, certo, impedisce che di contratto sia anche in tal caso dato discorrere; ma, ed è questo il punto, quid iuris laddove l’intera fattispecie (complessa) prenda forma attraverso il susseguirsi di due distinte dichiarazioni unilaterali, quali quella con cui il terzo assume il debito altrui e quella, successiva,
con cui il creditore dichiari di liberare il debitore originario?
Indiscussa la natura unilaterale del negozio remissorio, attuato dal creditore ex art. 1236 c.c. (49), l’interrogativo testè posto rimanda, a ben vedere,
alla riflessione sulle possibili varianti di struttura del negozio che dia vita alla
espromissione cumulativa. Ed è però su questo terreno che ci si imbatte in
prese di posizione contrarie che appaiano più legate ai presunti ostacoli che si
frapporrebbero all’impiego di congegni alternativi al contratto, che non ad
elementi effettivamente comprovanti la indefettibilità di questo ultimo, tanto
più che la persuasiva confutazione di ogni nesso sinallagmatico tra vincolo
dell’espromittente e degradazione della responsabilità dell’espromesso (50)
priva, anche qui, la tesi della necessità dell’accordo del suo principale puntello.
Così, alle laconiche affermazioni di parte della dottrina, secondo cui la
necessità del contratto trarrebbe alimento dalla impossibilità di « far discendere effetti obbligatori dalla sola promessa », in ragione del « regime rigoroso » previsto dall’articolo 1987 c.c. (51), fa in certo senso eco, ancor di recente, la Suprema Corte di Cassazione, allorché rileva come una eventuale dichiarazione impegnativa del solo espromittente dovrebbe farsi, in tesi, rientrare tra le promesse unilaterali, le quali tuttavia, a mente dell’articolo 1987
c.c., sono inidonee a determinare effetti obbligatori giuridicamente tutelabili » al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, tra cui non rientrerebbe quello di specie (52).
5. — Coerente con la direttiva interpretativa che tende a marginalizzare
il ruolo delle promesse unilaterali può dirsi, d’altra parte, anche l’orientamento che, ai fini della genesi di una espromissione cumulativa, propone di guartore, a mò di una condizione risolutiva legale: vedi, per tutti, Breccia, Le obbligazioni,
Milano 1991, p. 710.
( 49 ) Cfr. per tutti Benedetti, Struttura della remissione. Spunti per una dottrina del negozio unilaterale, in R. trim. d. proc. civ., 1962, p. 1308 e ss.
( 50 ) Si veda Cicala, Espromissione, cit., p. 17, secondo cui la degradazione a sussidiaria
della responsabilità del debitore originario, lungi dal potere essere identificata come sacrificio a carico del creditore, costituisce un effetto automatico della assunzione del debito altrui, operata dall’espromittente.
( 51 ) Così Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 784.
( 52 ) Così Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit.
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dare (anche) all’articolo 1333 c.c. (53), seppur accreditando come unilaterale
il negozio che vi è cristallizzato.
Secondo questa impostazione, infatti, il vincolo obbligatorio dell’espromittente potrebbe sì originare da un congegno altro da quello bilaterale, e più
esattamente da una manifestazione di volontà del solo assuntore, ma pur
sempre in presenza di quelle condizioni cui è legata la derogabilità del principio di non interferenza delle sfere giuridiche altrui (54), ossia indole vantaggiosa dell’attribuzione patrimoniale (55) e possibilità, per il terzo, di schermare la propria sfera giuridica, mediante la rifiutabilità degli effetti attributivi
che gli sono indirizzati.
È però questo secondo requisito che, sempre stando alla ricostruzione in
commento, risulterebbe soddisfatto unicamente dal contratto con obbligazioni
del solo proponente e non anche dalla promessa unilaterale.
Laddove, infatti, lo schema di struttura dell’articolo 1333 c.c. mostra di
conciliare unilateralità dell’atto obbligatorio (dell’espromittente) e potere di
rifiuto dell’oblato (espromissario), non altrettanto si ritiene possa dirsi in relazione ad una mera dichiarazione promissoria del terzo, della quale si assume anzi la netta alterità dal paradigma del negozio unilaterale soggetto a rifiuto, per via dell’attitudine « ad attribuire immediatamente un diritto di credito (non rifiutabile) al destinatario », cui non rimarrebbe, infatti, che il ricorso allo strumento della remissione ex art. 1236 c.c. (56).
Per altro verso, poi, delle promesse si rammenta ancora una volta la re( 53 ) Cfr. già Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, VI, Torino 1975, p. 32; Nappi,
Un’ipotesi discutibile di espromissione cumulativa mediante proposta tacita, in D. e giur.,
1976, p. 745 e ss., ma spec. p. 747 e ss. La tesi viene da ultimo ripresa da La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 170 e ss. e spec. p. 179; ancora Nappi, Commento all’art.
1272, cit., p. 897, per l’ipotesi in cui il terzo assuma il debito altrui senza contrattare alcun
corrispettivo con il creditore. Tende ad escludere, invece, che l’espromissione possa prendere vita mediante semplice proposta dell’espromittente seguita dal mancato rifiuto dell’espromissario Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788, ma in ragione della asserita corrispettività della fattispecie cumulativa; diversamente Cicala, Espromissione, cit., p. 18, il
quale si basa, infatti, sul presupposto della indole non puramente vantaggiosa dell’effetto di
automatica degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’espromesso. Essendo, questo, uno dei principali argomenti contro l’eventuale impiego delle promesse unilaterali all’ambito che ci occupa se ne rinvia la disamina critica al paragrafo seguente.
( 54 ) Si vedano, al riguardo, i lavori già citati supra in nt. 32.
( 55 ) La natura puramente vantaggiosa dell’effetto attributivo a favore del terzo viene
tuttavia ridimensionata nella prospettiva di quanti, in forza del distinguo tra corrispettività
ed onerosità, ammettono che l’effetto in capo al terzo possa comportare per quest’ultimo
degli elementi di onerosità, quali ad esempio alterazioni sì negative della propria sfera patrimoniale ma funzionali all’esercizio o alla conservazione del diritto stesso che viene attribuito: così al riguardo della compatibilità tra accollo e degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’accollato già Cicala, Saggi sull’obbligazione e le sue vicende, Napoli 1976,
p. 98; la tesi è ripresa ed ulteriormente sviluppata da La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 176 e ss.
( 56 ) Così La Porta, op. ult. cit., pp. 181-182 e spec. nt. 150.
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gola di tipicità legale, la quale ne restringerebbe il raggio d’azione a quelle sole ipotesi — promessa di pagamento/ricognizione del debito — non già produttive di rapporti obbligatori nuovi (tra i quali dovrebbe certamente farsi
rientrare anche quello tra espromittente ed espromissario), bensì dirette unicamente alla semplificazione della fattispecie di quelli già esistenti (57).
Pur prescindendo per il momento dalle valutazioni strettamente attinenti
le promesse unilaterali, gli è che un’attenta analisi della posizione illustrata
rivela comunque l’essere non conducente, ai fini del ridimensionamento della
indefettibilità dell’accordo contrattuale in sede espromissoria, il rinvio al
meccanismo dell’art. 1333 c.c., alla stregua delle ben note obiezioni alla tesi
che vi accredita la cristallizzazione positiva del negozio unilaterale soggetto a
rifiuto (58).
Anche a non voler ritenere dirimenti rubrica e testo della norma citata, ove
pure si fa parola di contratto, milita, infatti, nella medesima direzione la distanza che si appalesa tra il meccanismo perfezionativo che in quella è tracciato
e quanto viceversa dettato dall’articolo 1334 c.c. in tema di atti unilaterali.
Altro è prevedere che il terzo debba avere la possibilità di mantenere la
propria sfera giuridica immune dagli effetti — pur vantaggiosi — che gli sono
rivolti; altra cosa è ritenere che il vincolo del dichiarante si perfezioni solo laddove, entro un lasso di tempo determinato, non intervenga una dichiarazione
di rifiuto da parte del terzo medesimo. Il che è, nondimeno, quel che accade nel
contratto con obbligazioni del solo proponente, a misura che il silenzio (rectius
mancato rifiuto) dell’oblato condiziona il completamento della fattispecie negoziale, la quale dunque non potrà che dirsi in buona sostanza espressione del
volere di entrambe le parti, seppur diversamente manifestato (59).
L’opposto risulta, invece, nelle ipotesi anche solo tipiche di promessa
unilaterale, quali ad esempio la promessa al pubblico, ove l’eventuale rifiuto
dell’oblato non può che atteggiarsi a rinunzia di un diritto già acquisito (60).
( 57 ) Così ancora La Porta, op. cit., p. 182, il quale peraltro ritiene che la rigorosa tipicità delle figure di promessa — ridotte, come detto, a promessa di pagamento e ricognizione del debito — si giustificherebbe in ciò, che la solo la preesistenza del vincolo obbligatorio neutralizza il cennato rischio di interferenza nella sfera altrui, legato alla (supposta) non
rifiutabilità dell’effetto attributivo discendente dalla dichiarazione promissoria, che viceversa si profila in relazione a promesse « atipiche ». L’A. mostra, invero, di non contemplare
nel novero delle promesse la fattispecie della promessa al pubblico; una impostazione del
genere è, tuttavia, irricevibile se non altro perché stride palesemente con il dettato legislativo, a meno di non ritenere che, con il passaggio citato, l’autore abbia inteso riferirsi solo alle fattispecie promissorie individualizzate.
( 58 ) La lettura dell’art. 1333 c.c. come norma che dia cittadinanza, nel sistema, al negozio unilaterale soggetto a rifiuto si deve a Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale,
cit., p. 121 e ss.
( 59 ) In linea, del resto, con le ricostruzioni più critiche verso il dogma consensualistico:
cfr. già Vitucci, I profili della conclusione del contratto, Milano 1968.
( 60 ) Si vedano, in tal senso, già i rilievi di Castronovo, Problema e sistema nel danno
da prodotti, Milano 1979, pp. 287-287.
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Di più, poi, pur senza disconoscere la indubbia peculiarità del procedimento di formazione della fattispecie ai sensi dell’articolo 1333 cc. e la deviazione cui esso mette capo rispetto al modello dell’accordo quale sintesi di due
manifestazioni di volontà, gli è che indubitabilmente contrattuale rimane comunque il rapporto cui si dà vita: un contratto a formazione semplificata,
certo, ma pur sempre un contratto (61).
Con il che, dalla prospettiva che ci occupa, se non si frappone certo alcun
ostacolo a che si possa fare impiego anche di questo schema semplificato ai fini
del perfezionamento della fattispecie assuntiva del debito altrui, resta comunque il fatto che l’apertura ad un negozio espromissorio realmente unilaterale
sbiadisce a mera petizione di principio, priva di riscontri concreti per lo meno a
misura che si tengano ferme le valutazioni critiche riguardanti le promesse.
Né più fruttuosa, nella direzione segnalata, appare del resto la proposta di
« stemperare l’affermata necessità della natura contrattuale dell’espromissione »
accreditando la possibilità di una promessa di pagamento (del debito altrui) resa, ex art. 1988 c.c., dall’espromittente all’indirizzo dell’espromissario (62).
Anche a non voler ridurre, infatti, la promessa di pagamento al mero effetto processuale della relevatio ab onere probandi (63) ed accogliendo, viceversa, la teorica della c.d. semplificazione analitica della fattispecie, resta comunque ferma la necessità che un vincolo giuridico tra promittente (terzoespromittente) e promissario (creditore espromissario) preesista alla dichiarazione del primo.
Vero è, infatti, che nella ricostruzione richiamata, la fonte originaria del
rapporto degrada a causa o mera giustificazione di quella obbligazione che la
promessa medesima viene ad incorporare, facendosene essa stessa fatto costitutivo; e vero è del pari che ciò realizza di per sé un effetto che può già dirsi
sostanziale, in quanto sposta l’onere della prova (contraria), a carico del promissario, dal fatto costitutivo del vincolo alla mancanza della causa dell’attribuzione patrimoniale (64).
Tuttavia, la dichiarazione impegnativa in tanto potrà mettere capo alla
estrapolazione di un segmento obbligatorio di un pregresso (più articolato)
rapporto, in quanto questo esista tra le medesime parti, poi coinvolte in veste
( 61 ) Cfr. per tutti Sacco, Contratto e negozio a formazione unilaterale, in Studi in onore
di P. Greco, II, Padova 1965, p. 953 e ss.; Roppo, Il Contratto, Milano 2001, p. 127. L’attribuzione di natura propriamente contrattuale alla fattispecie che pure prenda vita ai sensi
dell’art. 1333 è, di recente, condivisa anche da Rossi, Silenzio e contratto, Silenzio dell’oblato e costituzione del rapporto contrattuale, Torino 2001, passim, ma spec. pp. 150-153; Damiani, Il contratto con prestazioni a carico del solo proponente, Milano 2000, p. 174 e ss.
( 62 ) Cfr. Di Giovanni, Le promesse unilaterali, Padova 2010, pp. 175-179.
( 63 ) Per una panoramica delle diverse posizioni in proposito cfr. ancora Di Giovanni,
ult. cit., p. 98 e ss.; Camilleri, Le promesse unilaterali, Milano 2002, p. 104 e ss., ma spec.
p. 117 e ss.
( 64 ) Cfr. Di Majo, voce Promessa unilaterale (dir. priv.), in Enc. dir., XXXVII, Milano
1988, p. 59.
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di promittente e promissario; quanto dire, nella ipotesi al nostro esame, della
necessità che il rapporto espromissorio trovi titolo aliunde rispetto alla eventuale dichiarazione unilaterale del terzo-espromittente (65).
6. — L’analisi sin qui svolta dovrebbe consentire di isolare agevolmente
il doppio ordine di ostacoli usualmente addotti contro l’eventualità che la
espromissione cumulativa tragga titolo da una mera dichiarazione impegnativa del (solo) espromittente.
Da un canto ci si appunta sulla refrattarietà della stessa fattispecie espromissoria a venire ricondotta entro il paradigma del negozio unilaterale, in ragione della supposta indole non esclusivamente vantaggiosa — per il creditore
— del degradare a sussidiaria della responsabilità dell’espromesso.
Dall’altro si esclude ogni possibile ruolo delle promesse unilaterali, a causa del principio di tipicità che discende(rebbe) dall’articolo 1987 c.c. e che ne
circoscrive(rebbe) il raggio d’azione alle sole ipotesi contemplate agli articoli
1988 e 1989 c.c. D’altronde, non solo le promesse costituiscono una species
del negozio unilaterale, così da soggiacere alla medesime condizioni generali
che si danno in apicibus per la sua configurabilità (66); ma compendiano la
quasi totalità delle figure che a quello stesso genus sono riconducibili, per lo
meno sul terreno degli effetti obbligatori (67), sicché è fatale che ogni ipotesi
su dispositivi alternativi a quello pattizio si appunti su di esse.
Contro l’assunto della non vantaggiosità (per l’espromissario) della dichiarazione assuntiva del terzo, a cagione dell’arretramento in seconda linea
della responsabilità del debitore originario, basterebbe invero obiettare che il
rafforzamento della situazione soggettiva attiva, che consegue al delinearsi di
una nuova posizione debitoria ad essa contrapposta, fa in ogni caso premio su
ogni eventuale disagio legato all’imposizione del beneficium ordinis (68).
Di più, però, va osservato che giusto quest’ultimo, a differenza del più
pregnante beneficium excussionis, non importa alcun condizionamento significativo del modus operandi del creditore, cui non è infatti imposto di avviare
una procedura esecutiva contro un debitore, prima di poter agire in executivis
contro gli altri coobbligati, bensì soltanto « l’onere di chiedere l’adempimento
( 65 ) Mette, peraltro, conto segnalare come ad avviso di parte della dottrina la semplificazione analitica della fattispecie non potrebbe che riferirsi a rapporti fondamentali scaturenti da contratti a prestazioni corrispettive: cfr. D’Angelo, Le promesse unilaterali, in
Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 1996, p. 548.
( 66 ) Cfr. in tal senso le decisive osservazioni di Oppo, Dal contratto al negozio unilaterale. Recensione a Giuseppe Benedetti, in questa Rivista, 1973, I, p. 372 e ss., il quale sottolinea il difetto di ogni attendibile ragione sistematica per dare luogo ad un diverso trattamento.
( 67 ) Cfr. Graziani, Le promesse unilaterali, in Tratt. Rescigno, vol. 9, Obbligazioni e
contratti, I, Torino 1999, p. 773 e ss., ma spec. p. 807 e ss.
( 68 ) In questo senso ci pare si orienti Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali,
cit., p. 259 ed ivi nt. 80.
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di uno dei condebitori; se la richiesta rimane infruttuosa, c’è la possibilità di
rivolgersi all’altro » (69).
Ove solo si ponga mente al fatto che l’infruttuoso spirare del termine di
adempimento — necessariamente accompagnato (obbligazioni querables) o
meno (obbligazioni portables) dalla intimazione di pagamento (70) — costituisce il prodromo indispensabile per l’attivazione dei rimedi satisfattivi del
credito, dovendo colui che agisce allegare pur sempre l’inadempimento altrui
quale presupposto della propria azione, ci si avvede di come allora in nulla
possa dirsi deteriore la posizione dello stesso creditore, allorché onerato di rispettare un beneficium ordinis a vantaggio di uno dei coobbligati (71).
Mancando l’adempimento del debitore principale (espromittente) —
spontaneo o intimato, poco importa — ecco inverata la condizione che legittima a promuovere ogni azione esecutiva anche contro il soggetto passivo originario, senza che sia prefigurabile a carico del creditore l’onere di un supplemento di attesa o di una ulteriore intimazione.
Ed è, d’altronde, in forza di questo dato che appare persuasivo il rilievo
che assegna alla sussidiarietà il compito semmai di organizzare l’attività solutoria dei condebitori, ponendo a carico di quello principale l’onere di assumere l’iniziativa dell’adempimento, senza anche coartare in alcun modo, o modificare negativamente, la libertà di azione del creditore (72).
Inoltre, nel solco dell’autorevole opinione secondo cui si avrebbe la messa
in non cale della sussidiarietà quante volte il responsabile in via principale
versi in una condizione di impossibilità giuridica di adempiere, ad esempio
perché fallito (73), potrebbe giungersi a prospettare una eguale irrilevanza del
beneficium ordinis a fronte di quelle ipotesi in cui, stante una genesi per l’appunto non contrattuale del rapporto espromissorio (74), si delinei l’insolvenza
civile dell’espromittente, già sussistente al tempo della assunzione ovvero insorta successivamente ad essa (75).
( 69 ) Così Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 68; analogamente Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788, Bianca, Diritto civile, cit., p. 670.
( 70 ) L’esercizio della pretesa creditoria a mezzo intimazione dello stesso soggetto attivo
è reputato essere il logico prius dell’attuazione del rapporto obbligatorio, e dunque ammesso anche in presenza di obbligazioni portabili, da Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, t. 1, Milano 1974, p. 47 e ss.
( 71 ) Cfr. Grassi, L’espromissione. Considerazioni sulla struttura e sulle eccezioni, Napoli 2001, p. 8.
( 72 ) Cfr. Grasso, Delegazione, espromissione, accollo, cit., pp. 92 e 94. La tesi della natura « affievolita » della sussidiarietà della responsabilità dell’espromittente è stata tuttavia
illustrata dal medesimo A. già in Assunzione cumulativa del debito, cit., p. 404 e ss.
( 73 ) Cfr. Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 69.
( 74 ) Dovendo, in caso contrario, prevalere l’autoresponsabilità del creditore che non si
sia avveduto della insolvenza del terzo espromittente con cui abbia concluso il contratto.
( 75 ) Ci si riferisce in tal caso alla insolvenza civile non già come inutile escussione del
patrimonio debitorio, nel qual caso il problema segnalato nel testo non avrebbe ragion d’es-
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Acquisito, così, che la solidarietà passiva diseguale non si traduce in una situazione incompatibile con la indole vantaggiosa degli effetti che il negozio unilaterale attributivo deve di necessità generare, resta da chiarire in che misura le altre « condizioni d’uso » che presiedono ai congegni strutturalmente alternativi al
contratto — vale a dire il potere del terzo di schermare la propria sfera giuridica
dall’effetto attributivo dell’altrui impegno e la causalità del vincolo assunto —
possano ugualmente dirsi sodisfatte nella materia che ci occupa.
Quanto dire di un’analisi che si sposta fatalmente sulla versatilità allo
scopo da parte delle promesse. Sia perché queste si ritengono tali da esaurire
la categoria stessa degli atti unilaterali produttivi di obbligazioni, specie una
volta fugati gli equivoci classificatori intorno all’articolo 1333 c.c. e risospinta
la relativa fattispecie entro l’alveo del contratto. Sia, soprattutto, perché il
travisamento della lettera dell’articolo 1987 c.c., su cui poggia il presunto
principio di loro rigorosa tipicità, affonda giusto nella supposta refrattarietà
del congegno promissorio a soddisfare i presupposti di ammissibilità dei negozi unilaterali, prima richiamati (76).
Senonché, dal punto di vista della salvaguardia della sfera del promissario è agevole rilevare come la soggezione delle promesse unilaterali alla regola
dettata dall’articolo 1334 c.c., se individualizzate, o a quella di cui all’articolo
1989 c.c., se a destinatario indeterminato, e l’essere dunque immediatamente
impegnative per il promittente non appena giunte a conoscenza del destinatario ovvero rese pubbliche, nulla toglie alla piena legittimità di un atto per così
dire eliminativo da parte del creditore il quale intenda « ridurre in pristino »
la propria sfera soggettiva, espungendovi giusto il diritto di credito che per effetto della promessa vi ha fatto ingresso.
A corroborare la plausibilità sistematica di una dinamica siffatta basti
osservare che identica situazione si palesa nella stipulazione a favore del terzo, laddove infatti « il terzo acquista il diritto (...) per effetto della stipulazione » intervenuta tra promittente e stipulante (art. 1411, comma 2o, c.c.).
Nel caso della promessa unilaterale di espromissione cumulativa, la salvaguardia della sfera del promissario potrà dunque apprezzarsi non solo in
virtù dell’effetto vantaggioso in cui si è visto risolversi l’acquisizione di altra
sere, bensì quale lesione della garanzia patrimoniale e dunque quale situazione di pericolo,
alla cui stregua risulti messa a rischio la soddisfazione spontanea o coattiva della pretesa
creditoria; situazione, questa, la cui fenomenologia si arricchisce oggi alla stregua del fenomeno del sovraindebitamento del debitore civile, inquadrato e regolato dalla l. 27 gennaio
2012, n. 3: per una accurata disamina del concetto di insolvenza civile (anche) quale prodromo di una più complessa nozione di « crisi » del debitore v. Modica, Profili giuridici del
sovraindebitamento, Napoli 2012, passim ma spec., p. 110 e ss.
( 76 ) Tra i primi a denunciare l’equivoco interpretativo sorto intorno all’art. 1987 c.c. G.
Ferri, Autonomia privata e promesse unilaterali, in Banca, borsa, tit. cred., 1960, p. 482 e
ss. Per una ricostruzione del retroterra ideologico del principio di tipicità delle promesse
unilaterali, nonché per la disamina gli argomenti di ordine tecnico che quel principio hanno
finito con l’alimentare: cfr. Camilleri, La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio,
cit., p. 27 e ss.
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situazione soggettiva passiva, contrapposta a quella creditoria; ma vieppiù alla stregua della disponibilità di un congegno abdicativo cui eventualmente fare ricorso onde « rifiutare » il (rectius: rinunziare al) « nuovo » vincolo dell’espromittente, già comunque perfezionatosi.
Apparentemente più complicato si direbbe il profilo della causalità dell’attribuzione, vero punto critico delle promesse ed argomento principe della
loro supposta tipicità (77).
La struttura unilaterale, infatti, implica l’assenza di uno scambio in senso economico e di un accordo, l’uno e l’altro, peraltro, neppure surrogati da
prescrizioni di forma ovvero dalla necessità di traditio rei; da qui la carenza
di garanzie sufficienti circa la serietà dell’intento di obbligarsi e la giuridicità
dell’impegno assunto (78).
È tuttavia nel solco delle letture più avanzate sulla causa degli spostamenti di ricchezza (79), che gli studi più recenti si sono incaricati di dimostrare la versatilità delle promesse a veicolare gli eterogenei interessi che si collocano tra l’area dello scambio propriamente detto e la gratuità pura di tipo donativo e che possono ricondursi vuoi a funzioni tipiche quali quella solutoria
o di garanzia, vuoi ad altre propriamente atipiche (80).
Fissata questa cornice, non vi può essere allora dubbio sulla causalità
della promessa che dia vita ad una espromissione cumulativa, tanto più che
l’interesse perseguito dal promittente e la funzione associabile al vincolo che
egli assume sono non soltanto oggettivati nella dichiarazione di assumere il
debito altrui, ma vieppiù già positivamente apprezzati dal legislatore, che infatti, contrariamente a quanto talora affermato in giurisprudenza (81), questa
ipotesi di promessa tipizza giusto attraverso l’articolo 1272 c.c. (82).
In altri termini, se in quanto « interessate », dal punto di vista del promittente, e tali da ingenerare un affidamento ragionevole nel promissario, le
promesse mostrano di soddisfare appieno la direttiva causale e di riuscire a
guadagnare anche la dimensione della atipicità (83), a maggior ragione dovrà
reputarsi « causata » la fattispecie promissoria al nostro vaglio, in cui la giu( 77 ) Cfr. Di Majo, voce Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1998,
p. 3.
( 78 ) Cfr. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., p. 221.
( 79 ) Nella vasta letteratura in argomento è d’obbligo il riferimento ai lavori di Giorgianni, voce Causa (dir. priv.), in Enc. dir., vol. VI, 1960, p. 537 e ss., ma spec. p. 563,
specie riguardo alla causa delle prestazioni isolate, e G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria
del negozio giuridico, Milano 1968, p. 251 e ss., in ordine alla composizione dei momenti
soggettivo ed oggettivo.
( 80 ) Di Majo, Le promesse unilaterali, Milano 1989, p. 74.
( 81 ) Si veda Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit.
( 82 ) Per la qualificazione della promessa di espromissione cumulativa quale ipotesi tipica cfr. già Mancini, L’espromissione, cit., p. 504.
( 83 ) Ci sia consentito di rinviare ancora al nostro La formazione del rapporto obbligatorio, p. 71 e ss.
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stificazione dello spostamento patrimoniale e la serietà del vincolo assunto risultano già tipicamente apprezzati dal legislatore e consistenti nella assunzione di debito.
Affermare la tipicità della promessa di espromissione cumulativa val peraltro quanto dire della ininfluenza — in senso contrario — dell’argomento di
tassatività dei congegni promissori, che si pretende di trarre dall’articolo
1987 c.c.
Mette tuttavia conto precisare, in termini generali, come giusto l’accertata uniformazione delle promesse unilaterali alle direttive sistematiche di causalità delle attribuzioni patrimoniali e derogabilità circostanziata del principio di relatività degli effetti del negozio offra buon gioco nel rileggere la formula stessa dell’articolo 1987 c.c., così da scorgere dietro il riferimento ai
« casi ammessi », non già il rigido ripiegamento del sistema sulle sole ipotesi
tipiche, peraltro più numerose rispetto a promessa di pagamento e promessa
al pubblico, come l’articolo 1272 c.c. si incarica bene di dimostrare. Bensì la
semplice subordinazione del giudizio sulla validità delle fattispecie atipiche al
soddisfacimento delle condizioni di ammissibilità prima considerate.
La ricostruzione che si è provato ad argomentare in queste pagine, ossia
quella tendente ad evidenziare una sostanziale fungibilità tra contratto e promessa ai fini della venuta ad esistenza della espromissione cumulativa, ha peraltro ricevuto indiretto avallo in alcune recenti prese di posizione della Suprema Corte, allorché i giudici di legittimità hanno ammesso esplicitamente
che l’impegno dell’espromittente possa perfezionarsi, nei confronti del creditore, al momento in cui questi ne venga a conoscenza e senza necessità alcuna
di un atto di accettazione (84). Al che può poi aggiungersi, riprendendo un più
datato spunto giurisprudenziale, che non sarebbe da escludere neppure il ricorso ad una variante in incertam personam per il medesimo vincolo del terzo, ossia sotto forma di promessa al pubblico, quante volte la fattispecie concreta — ad esempio l’elevato numero di creditori — mal si concili con una dichiarazione a destinatario determinato (85).
Il processo di emersione di ipotesi — tipiche o atipiche, poco importa —
di formazione unilaterale del rapporto obbligatorio si arricchisce così di un
ulteriore tassello, oltre a quelli già evidenziatisi sempre in tema di modificazioni del lato passivo del rapporto obbligatorio, nell’impegno assunto dal delegato verso il delegatario (delegatio promittendi) (86) e, soprattutto, sul terreno delle garanzie personali. Con il che, però, simmetricamente, il totem della
indefettibilità del contratto fa mostra sempre più di sbiadire ad anacronistico
retaggio di Begriffjurisprudenz.
( 84 ) Cfr. Cass. 26 novembre 2009, n. 24891, cit.
( 85 ) Cfr. Cass. 17 settembre 1983, n. 5625, in G. it., 1984, 1, c. 1634, con nota di Vella.
( 86 ) Cfr. Bianca, Diritto civile, cit., pp. 636-637.
Paolo Spada
Prof. emerito dell’Università di Roma « La Sapienza »
PARADIGMI DEL PENSIERO GIURIDICO E CONCEZIONE
DELLA SOCIETÀ PER AZIONI NEI « PRINCIPI
E PROBLEMI » DI CARLO ANGELICI (*)
Sommario: 1. Parte generale del diritto azionario e « concezione » della società per azioni.
— 2. Le « categorie » del diritto privato, come figure riferibili al comportamento individuale, e la società per azioni, come fenomeno metaindividuale. — 3. Segue: origini culturali delle « categorie » e loro rimodulazione nello studio del diritto azionario. — 4. Oltre il dialogo tra fenomeno azionario e « categorie » del diritto privato. — 5. Segue:
scomposizione funzionale del fenomeno e le « risposte » del diritto positivo. — 6. Dubbia utilità conoscitiva della « concezione ».
1. — Nel presentare al pubblico il Libro di Carlo Angelici, l’Editore, da
un lato, rivendica un’articolazione innovativa del Trattato Cicu-Messineo,
della quale il volume sarebbe la prima epifania; e, dall’altro, attrae l’attenzione sulla selezione e sulla progressione tematiche del testo.
« Per la prima volta — si legge nella scheda di presentazione — il Trattato Cicu-Messineo non è riservato alle classiche monografie di singoli maestri, ma si apre a una trattazione della materia in un’insolita pluralità di voci
e di volumi ». D’onde il numero uno che, in cifra romana, compare sotto il titolo « La società per azioni ».
Il primo dei volumi sulla società per azioni (tre lo seguiranno) non si denomina « Parte generale », bensì — per una scelta di understatement dell’autore, suppongo — « Principi e problemi »; l’obiettivo delle oltre 500 pagine è
di orientare il lettore nella « comprensione » (il termine è usato più volte) di
un fenomeno della coesistenza regolata (ed, in questo senso, di un fenomeno
giuridico) e di condividere con il lettore una « concezione » del fenomeno. Ed
è su questo terreno — quello della « concezione » del fenomeno società per
azioni — che il libro ha cominciato ad essere discusso: alludo al saggio di Denozza, pubblicato nel 3o numero del 2013 di Giurisprudenza Commerciale
con il titolo Quattro variazione sul tema « contratto, impresa e società nel
pensiero di Carlo Angelici ».
« Il punto di vista — dichiara l’autore (p. 50) nel motivare un passo
cruciale del suo pensiero sul fenomeno — ... è quello del giurista » e « deve perciò avvalersi degli strumenti analitici di esso propri ... ». Carlo Ange(*) Intervento all’Incontro di studio su La Società per Azioni oggi – presentazione del
volume La società per azioni, Principi e problemi di Carlo Angelici (Tratt. Cicu-MessineoMengoni, continuato da Piero Schlesinger, Giuffrè, Milano 2013) – Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 13 gennaio 2014.
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lici non esplicita quale sia, per lui, il punto di vista del giurista e quali ne
siano gli strumenti analitici, ma la progressione tematica che risulta dall’indice svela che l’autore sviluppa il suo progetto facendo dialogare un fenomeno storicamente colto nell’ambivalenza funzionale « industria » e « finanza » (v. l’Introduzione) con « le categorie (culturali e poi giuridiche)
come il “diritto soggettivo”, la “persona” e il “patrimonio” e, soprattutto, il
“contratto” » (parole, queste, che si leggono nella citata presentazione dell’opera da parte dell’Editore). Categorie (o « paradigmi » — come son certo preferirebbe esprimersi Angelici che molto ascolta la lezione di Kuhn),
che, naturalmente, sono rivisitate e rimodulate attingendo a molteplici registri: quello giurisprudenziale (pratico e teorico), quello economico-finanziario, quello politico-istituzionale, tutti ragguagliati ad un’esperienza insofferente di tempi e di spazi; in un approccio olistico alla realtà esaminata, direi, più che globale.
Il risultato conoscitivo del dialogo tra fenomeno e paradigmi è fondamentalmente questo: che « diritto », « persona », « patrimonio », « contratto » sono figure parametrate al comportamento individuale ed inter-individuale e,
pertanto, insuscettibili di essere proficuamente utilizzate, tali e quali la tradizione del pensiero giuridico le ha conformate, nel ricercare, attraverso l’applicazione di regole promananti da fonti legali, sub-legali e private (stavo per
dire negoziali, se non m’avesse trattenuto la consapevolezza di parlare ancora
il linguaggio parametrato al comportamento individuale), composizioni plausibili degli interessi mobilitati da un fenomeno che è « industria e finanza »
(la società per azioni, appunto) e rispetto al quale l’identità degli individui
(degli « uomini nati da ventre di donna » — avrebbe detto Ascarelli) è una
variabile di marginale importanza.
2. — Per chi condivida, almeno in parte, le congetture sugli intenti dell’autore e sugli obiettivi dell’opera che ho appena tentato di esporre, la sorpresa generata dall’indice si attenua fino a dissolversi e il piacere intellettuale
del confronto delle idee la rimpiazza.
La comparsa dei termini (non a caso virgolettati) « proprietà » e « persona » nella intitolazione dei primi due capitoli — termini che l’ordine del V libro del codice civile non saprebbe legittimare e che non troverebbero una radice conoscitivamente persuasiva neppure per coloro (e chi vi parla vi si annovera) che optassero per analizzare il materiale regolamentare movendo da
quella sintesi tra « industria e finanza » che coglie l’immagine di lunga durata
della società per azioni — rende evidente la scelta del dialogo tra fenomeno
metaindiviale e paradigmi individuali del pensiero giusprivatistico ed avvia
uno sforzo ammirevole di modulazione e di rinnovazione dei paradigmi che
probabilmente si lascia compendiare nella transizione dal « diritto soggettivo » — come astrazione delle regole sull’appartenenza e sulla pretesa dell’individuo — al « potere » — come astrazione dei « modi giuridicamente rilevanti per la produzione di un’azione » (p. 55, nt. 85).
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La declinazione dei temi del « patrimonio » e del « contratto » — ai quali
sono dedicati i capitoli III e IV — mi sembra tutta, in potenza, nella teoria
delle situazioni soggettive dell’azionista; questa sviluppandosi — tra acquisiti
dogmatici e realismo socio-economico — ragionando su « proprietà » e « persona ».
3. — Qui dirò che la (vera e propria) passione che Angelici coltiva per la
storia della rivoluzione francese (della quale è divenuto uno specialista e sulla
quale ha tenuto corsi universitari) e la suggestione (che di quella passione si
alimenta) sul suo pensiero esercitata dalla codificazione, in coeva formazione,
possono averlo convinto ad eleggerne il manifesto gius-politico come prospettiva d’avvio dell’analisi del fenomeno azionario. Non è un caso, credo, che
nella Introduzione si citino le parole usate da Cambacérès nel presentare il
progetto del codice civile del 1795. Queste: « Tre cose sono necessarie e bastanti all’uomo in seno alla società: essere padrone della propria persona;
possedere beni per soddisfare i propri bisogni; poter disporre ... della propria
persona e dei propri beni » (p. 15, nt. 30); parole dalle quali Angelici ricava
che, in allora, al centro del sistema del diritto privato sulla via della codificazione il problema necessario e sufficiente fosse (come certamente era) quello
dei « modi giuridici in cui il privato potesse, appropriarsi, godere e disporre
della ricchezza » (p. 15): « dunque, i paradigmi della persona, dei suoi diritti
e del contratto » (ivi). Suppongo — e azzardo — che in quella passione ed in
quella suggestione si radichino la scelta di far dialogare la realtà meta-individuale della società per azioni (istituzione industriale e finanzaria insensibile
all’avvicendamento degli individui) con i paradigmi individuali, e la ricerca
di una modulazione di questi piuttosto di un loro radicale rimpiazzo.
4. — Grande è l’utilità di questo approccio per la storia della cultura giuridica. Più opinabile mi sembra che lo sia quando si colga — come chi vi parla ha, da molto tempo ormai, fatto e dichiarato — lo specifico del pensiero
giuridico nella ricerca delle regole vigenti in un dato tempo ed in dato spazio,
delle condizioni d’applicazione di queste e dei loro destinatari, con l’obiettivo
primario di contribuire alla validità persuasiva della motivazione di un dispositivo che conclude una lite. E solo in seconda battuta alla progettazione di
nuove regole. Naturalmente scelte « apicali » di quest’ordine scaturiscono
dalla storia personale e dal personale gusto di chi pensa studiando e, quindi,
sono nobilmente « arbitrarie ».
Ma il più convinto omaggio all’opera sulla quale qui riflettiamo credo
scaturisca non tanto dal censimento dei passi dell’opera sui quali si consente
(e sono la maggior parte), quanto dal vaglio dei contributi dei quali essa è capace anche a beneficio di chi si dia un obiettivo diverso da quello del dialogo
tra realtà azionaria e paradigmi immaginati per governare le regole del comportamento individuale in termini di interessi appagati o negati (regole che,
sul lungo periodo, ben possiamo denominare « diritto privato »). Ed è un
670
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
conciso campionario di questi contributi che qui mi propongo di condividere
con voi; accettando consapevolmente il rischio che mi si addebiti — come un
dotto Amico che ha letto anticipatamente questa traccia già mi ha addebitato
— di parlare non tanto delle idee dell’Autore del libro che qui si presenta
quanto delle idee dell’autore di un libro che ancora non c’è. Insomma delle
mie idee.
5. — Un impegno con il medesimo Editore del volume di Carlo Angelici,
infatti, mi attende; e, forse, proprio oggi comincio ad adempierlo. Anch’io mi
accingo a scrivere una Parte Generale della società per azioni. Ed è più o meno così che l’ho pensata.
5.1. L’immagine di lungo periodo (il fenomeno) della società per azioni,
come momento della coesistenza regolata dal quale partire, è quella che Angelici ci addita, adottando il binomio « industria e finanza ». Nihil sub sole
novi, potrebbe dirsi; ma l’opera di Angelici sa coniugare in modo convincente
le testimonianze della storia (sulle quali mi sono non poco intrattenuto anch’io) con le declinazioni argomentative dell’analisi economica del diritto. E
questo è un primo, fondamentale contributo alla selezione consapevole e motivabile del materiale normativo da esaminarsi, in ragione della sua pertinenza alla realtà regolata.
5.2. Per chi guarda alle regole, alle condizioni d’applicazione di queste
ed ai loro destinatari al fine di propiziare motivazioni retoricamente corrette,
quest’immagine si lascia scomporre nei seguenti « fotogrammi », da pensarsi
in sequenza:
a) provvista di risorse da destinare all’esercizio di una produzione duratura di beni o servizi, funzionalmente molteplice (lucrativa, consortile —
secondo il diritto comune — e via elencando secondo il diritto speciale e singolare);
b) decisioni (impieghi delle risorse destinate nello sviluppo del programma);
c) dichiarazioni (contegni che, avvalendosi di simboli — per antonomasia del lessico di una lingua istituzionale — e/o di segni « esternano » le
decisioni, provocando attribuzioni reali — alienazioni — o personali — assunzione di obbligazioni; o, ancora, ulteriori destinazioni);
d) provvista di risorse altrui per alimentare finanziariamente la produzione;
e) circolazione delle unità di partecipazione all’iniziativa (suscettibile
di istituzionalizzarsi in un mercato, in flussi regolamentati di domanda e di
offerta delle unità di partecipazione);
f) remunerazione della destinazione a servizio dell’iniziativa e rischio.
5.2.a) Al primo « fotogramma », corrisponde, per l’analisi giuridica, il
regime dei conferimenti — da intendersi, come anticipato, quali destinazioni
alle quali corrisponde, al termine della produzione, una riappropriazione del
saldo patrimoniale da parte dei destinanti o dei loro aventi causa o una de-
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voluzione del saldo stesso (ciò dipendendo dalla funzione della destinazione);
5.2.b) e c) a questi due « fotogrammi » (decisioni e dichiarazioni) appartiene la teoria dell’organizzazione — da intendersi come insieme di regole
sui procedimenti decisionali e dichiarativi (nel linguaggio corrente: organizzazione, controllo e rappresentanza);
5.2.d) questo terzo « fotogramma » (provvista finanziaria) stimola l’analisi giuridica dell’indebitamento finanziario della società, individuale e collettivo — dunque anche i processi di indebitamento obbligazionario e le misure
di tutela degli obbligazionisti;
5.2.e) al penultimo « fotogramma » appartiene il regime di circolazione
delle unità di partecipazione all’iniziativa: dunque delle azioni e delle tecniche di trasferimento immediato (di diritto comune o cartolare) e intermediato
(c.d. dematerializzazione) delle stesse; non senza una qualche apertura ad un
terreno normativo ormai tanto vasto da raccomandare una specializzazione
conoscitiva, quello del mercato delle unità di partecipazione e di debito, soprattutto con l’intento di coglierne la retroazione sull’organizzazione della società (nel senso giuridicamente « forte » che qui si è attribuito e vuolsi conservare al termine « organizzazione »);
5.2.f) l’ultimo (remunerazione e rischio) ferma i problemi della remunerazione periodica della destinazione (dell’investimento, come è corrente dire)
e degli antidoti alla traslazione del rischio sui creditori: dunque, innanzi tutto,
impone l’esame delle regole sul capitale nominale.
5.3. Chi voglia rispettare quello specifico dell’analisi giuridica che ho or
ora enfatizzato (regole, condizioni d’applicazioni di queste, loro destinatari —
con l’obiettivo di motivare correttamente un dispositivo che ponga termine ad
una lite, reale o potenziale) si avvede che i paradigmi della « proprietà », della « persona », del « contratto » stesso non sono producenti ai fini di un’analisi utile. Insomma: dei paradigmi del comportamento individuale può farsi —
io credo che possa farsi — a meno senza danni conoscitivi ed applicativi.
L’analisi giuridica della società per azioni come realtà meta-individuale non
è, allora, impacciata da un repertorio concettuale concepito a misura di individuo e di relazioni tra individui.
Mi provo a fare qualche proposta che mi sembra particolarmente probante tra quelle che, nell’economia di una riflessione non condizionata dal
tempo di un intervento come il mio in questa sede prestigiosa, potrebbero
concepirsi:
5.3.1. da parte la dialettica tra interesse dell’azionista e proprietà dei
mezzi di produzione, sembra utile (stavo per dire: necessario) evidenziare che
nella disposizione di chi sviluppa l’iniziativa produttiva (collettività, ma —
oggi — anche individuo o ente, privato o pubblico) si coglie non già un’attribuzione ma una destinazione: e questo sopprime la necessità di gerarchie descrittive (e per me ingannevoli) tra creditori che tali sono per un titolo trai
tanti che scandiscono il divenire dell’attività sociale e azionisti, definiti questi
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
ultimi (infelicemente) creditori residuali (pretendenti al saldo attivo patrimoniale all’esito dell’attività); perché mentre all’attribuzione corrisponde — nel
mondo degli affari — un debito dell’attributario, alla destinazione corrisponde una aspettativa di riappropriazione del saldo dell’iniziativa. Spostando
l’obiettivo sul piano oggettivo della disposizione, l’indagine fa a meno del paradigma individuale del diritto soggettivo.
5.3.2. Le decisioni e le dichiarazioni (quando procedimentalmente separabili dalle prime) sono certamente manifestazione di autonomia privata (fare
o non fare qualcosa e come); ma le decisioni che scandiscono lo sviluppo dell’iniziativa produttiva che si atteggi come società per azioni costituiscono —
diversamente da quelle che si sommano nel quotidiano di ciascuno di noi —
una variante dell’autonomia privata che proposi molti anni fa di qualificare
funzionale per contrapporla all’autonomia libera. L’autonomia funzionale —
diversamente da quella libera — è ancorata ad un interesse precostituito —
intendendo per « precostituito » che esso è, non già isolabile nel fluire degli
interessi di questo o di quell’individuo ma, oggettivato dalla legge o dall’atto
giuridico nel quale l’iniziativa produttiva si manifesta — ed in ragione di
quell’interesse scrutinabile (diversamente da quanto accade per l’autonomia
libera della quale sono predicabili soltanto la rilevanza/irrilevanza e la liceità/
illiceità). Il lessico di Angelici è diverso dal mio ma la sua critica, garbatamente scettica, alla nozione di « interesse sociale » declina una visuale tanto
simile da essere sovrapponibile.
In questa prospettiva (quella dello scrutinio delle manifestazioni dell’autonomia funzionale), è e resterà ammirevole il « colpo d’ala » di Angelici, laddove prospetta (p. 57 ss.) una concorrenza tra rimedi invalidanti e rimedi risarcitori, guardando alle irritualità procedurali delle decisioni non meno che
all’infedeltà di quanto deciso all’interesse precostituito. Angelici continua a
dar fiducia alla prospettiva delle situazioni soggettive (laddove suggerisce che
il diritto trascolori in potere) e non evoca — se non incidentalmente — quella
dimensione funzionale dell’autonomia che a me sembra conoscitivamente decisiva; ma ciò che conta è il risultato rimediale: irritualità ed infedeltà funzionali possono essere rimediate (i) sia rimuovendo la decisione che (ii) stralciando dal conteggio del risultato dell’attività ragguagliato alla partecipazione
azionaria l’onere economico dell’atto irrituale o funzionalmente infedele. La
legge parla di risarcimento, ma Angelici (guardando agli artt. 2377 e 2497
c.c. [p. 74]) avverte che il risarcimento ha, in questa prospettiva, una curvatura indennitaria. Curvatura che prescinde dalla ripartizione legislativa tra
aliquote del rapporto (o del capitale, come è corrente dire avvalendosi del capitale quale metafora del rapporto sociale) che legittimano l’azionista assente,
dissenziente o astenuto alla rimozione dell’atto viziato e aliquote che lo legittimano ad una pretesa detta risarcitoria (art. 2377, commi 3o e 4o).
5.3.3. Venendo al rischio, se si dà per acquisito — e tale è ancora, alla
luce del principio di civiltà giuridica dell’autoresponsabilità — che il comportamento debba sempre gravare su chi lo tiene si tratta poi di comportamento
SAGGI
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che si atteggia come manifestazione di autonomia libera o funzionale), i rimedi al sovraindebitamento sono tendenzialmente di due ordini: o del coinvolgimento dei patrimoni personali di quanti adottano l’iniziativa nella garanzia
patrimoniale delle obbligazioni che segnano il divenire dell’attività (immediatamente o attraverso la mediazione di un’obbligazione risarcitoria); ovvero
dell’interruzione della produzione, del rimpiazzo della produzione con la mera conservazione dell’esistente patrimoniale in vista della soddisfazione delle
ragioni dei creditori (e dunque non dei soci, che hanno non già una pretesa
scaturita da un’attribuzione ma un’aspettativa di riappropriazione di quanto
hanno destinato a servizio dell’iniziativa).
Nella società per azioni il rimedio è — allo stato del diritto positivo — del
secondo ordine e si avvale del congegno, imperfetto e discusso, del capitale
nominale. Naturalmente non c’è nulla di necessario o di immutabile e la comparazione offre esemplari di gestione alternativa del rischio (primo, fra tutti,
quello dei test di solvenza). Ma ad oggi le cose stanno così.
Anche qui l’analisi del fenomeno società per azioni, orientata a quel positivismo giudiziario che ho prescelto come specifico dell’analisi giuridica e
concisamente illustrato, non passa utilmente attraverso i paradigmi delle situazioni soggettive: parlare di un diritto alla responsabilità limitata serve a
poco o nulla.
6. — Che ne è, nella prospettiva che qui ho condiviso, della « concezione » della società per azioni, alla quale pure Angelici dichiara di tenere? Nulla: contratto, istituzione, organismo (come da ultimo propone Denozza, cedendo ad un linguaggio metaforico difficile a de-metaforizzarsi) non rendono,
per me, utili servizi nel trovare regole appropriate alla congiuntura degli interessi isolabili in una lite e nel trasformare correttamente le parole della legge
— alle quali sole la nostra Costituzione proclama soggetti i giudici — nelle
parole di un dispositivo plausibile.
Molto, per contro, servono la storia, l’analisi dei costi e dei benefici, gli
esemplari di esperienze comparabili e comparate: e di questa ricchezza conoscitiva il libro di Angelici è straordinariamente prodigo.
OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO
Piet Abas
Prof. emerito dell’Università di Amsterdam
UN NUOVO DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI IN SVIZZERA
Sommario: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il diritto civile in Svizzera. — 3. Obiettivi
del progetto di riforma OR/CO2020. — 4. La struttura di OR/CO2020. — 5. Analisi di
alcuni articoli del progetto OR/CO2020. — 6. La Svizzera e l’Europa. — 7. La fattibilità del progetto OR/CO2020.
1. — Negli ultimi tempi tutta l’Europa è pervasa da progetti ed istanze di
ricodificazione; nell’attesa di un non peraltro imminente codice europeo, in
numerossi stati sono stati avviati progetti di riforma; il punto di partenza è
ovviamente costituito dall’ordinamento tedesco, dove nel 2002 è stato profondamente riformato il diritto delle obbligazioni (Schuldrechtsreform); in seguito anche in area francese sono stati pubblicati ben tre progetti di riforma del
codice Napoleone, i quali hanno suscitato un intenso dibattito, i cui esiti non
sono peraltro ancora del tutto prevedibili; non diversa è la situazione in Spagna, dove è stato pubblicato un progetto di riforma del codice civile; in questo
quadro occorre infine ricordare un recente progetto di riforma del codice svizzero delle obbligazioni (1), alla cui analisi sono dedicate le seguenti pagine.
2. — Per ragioni storiche in Svizzera non esiste un unico codice civile. In
particolare sono stati emanati due differenti codici; il Zivilgesetzbuch (ZGB)/
Code Civil che regola il diritto civile, fatta eccezione per il diritto delle obbligazioni; nonché l’Obligationenrecht (OR)/Code des obligations. Entrambi sono entrati in vigore il 1o gennaio 1912. In particolare l’OR consta di due parti:
l’Erste Abteilung, Allgemeine Bestimmungen/Partie première, Dispositions
générales (art. 1-183); nonché la Zweite Abteilung/Partie deuxième (art. 184
ss.), la quale disciplina i contratti tipici. Il progetto di ricodificazione si riferisce soltanto alla parte generale. Il titolo del progetto è: OR2020/CO2020. Nonostante l’ampiezza del titolo, il progetto di riforma si riferisce soltanto alla
parte generale, con conseguente sostituzione degli articoli esistenti con quelli
previsti dal progetto (artt. 1-220 OR/CO 2020).
3. — Nelle premesse vengono in primo luogo indicate le finalità della riforma: « die im Laufe der letzten hundert Jahre verloren gegangene Übersichtlichkeit wieder herzustellen und damit das Auffinden der gesuchten
Norm zu erleichtern » (RZ1). (Per restituire la trasparenza perduta nel secolo
( 1 ) Consultabile on line al seguente indirizzo: http://or2020.ch/.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
scorso e facilitare la ricerca della norma ricercata (2)). A questo proposito viene enunciato il seguente motto: « Bewährtes ist zu erhalten — Neuem ist
Raum zu schaffen ». (Conservare il valido - dare spazio al nuovo).
Il progetto è il risultato della collaborazione di tutte le università della
Svizzera: Basel, Bern, Fribourg, Genève, Lausanne, Luzern, Neuchâtel. St.
Gallen, Zürich. In particolare hanno collaborato al progetto 23 persone, sotto
la presidenza di Claire Huguenin e Reto M. Hilty; i lavori si sono svolti a Zurigo. La commissione era sostanzialmente bilingue, dato che 16 membri erano di lingua tedesca e sette di lingua francese; in questo modo è stato possibile elaborare un testo bilingue, in tedesco e francese; in seguito è stata aggiunta una versione in lingua italiana, tenuto conto del fatto che l’italiano è la terza lingua ufficiale della Svizzera, nonché una versione in inglese per consentire una maggior diffusione del progetto anche all’estero (RZ6-12).
Uno degli obiettivi avuti di mira dalla commissione è stata la chiarezza e
la concisione (clarté et concision) del testo. Per questa ragione si è cercato di
non superare i tre commi per ogni articolo ed una frase per ogni comma. Il risultato è la straordinaria leggibilità del progetto in ciascuna lingua in cui è
stato redatto. Anche altri legislatori dovrebbero seguire questo esempio!
Il progetto ha cercato di colmare le lacune presenti nel testo originario
del codice delle obbligazioni; si segnala in particolare l’adeguamento del contratto in caso di sopravvenienza, nonché la disdetta nei contratti di durata
(artt. 19 e 145 OR/CO2020); notevole interesse riveste altresì la nuova disciplina dell’inadempimento e della prescrizione (RZ31-32).
I lavori della commissione sono iniziati il 1o ottobre 2007 e sono finiti nel
corso del 2012. La restante parte del 2012 è stata utilizzata per redigere i
« Motivi » dei singoli ariticoli.
4. — La struttura del progetto OR/CO2020 è la seguente:
Titolo 1: Della formazione delle obbligazioni.
Capitolo 1: Delle obbligazioni derivanti da contratto (art. 1-45).
Capitolo 2: Delle obbligazioni derivanti da atti illeciti (art. 46-63).
Capitolo 3: Dell’indebito arricchimento (art. 64-72).
Capitolo 4: Delle obbligazioni derivanti dalla gestione d’affari senza
mandato (art. 73-84).
Titolo 2: Dell’adempimento e dell’inadempimento delle obbligazioni.
Capitolo 1: Dell’adempimento (art. 85-117).
Capitolo 2: Dell’inadempimento (art. 118-134).
Titolo 3: Dell’adempimento delle obbligazioni e della disdetta dei contratti di durata.
Capitolo 1: Dell’adempimento delle obbligazioni (art. 135-143).
( 2 ) Per ragioni di onestà scientifica e tracciabilità i motivi del progetto sono riportati in
versione originale. Segue tra parentesi la traduzione in lingua italiana realizzata dall’autore.
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Capitolo 2: Della disdetta dei contratti di durata (art. 144-147).
Titolo 4: Della prescrizione e della perenzione.
Capitolo 1: Della prescrizione (art. 148-161).
Capitolo 2: Della perenzione (art. 162).
Titolo 5: Della cessione di crediti e dell’assunzione dei debiti.
Capitolo 1: Della cessione di crediti (art. 163-177).
Capitolo 2: Dell’assunzione di debito (art. 178-186)
Titolo 6: Speciali rapporti obbligatori.
Capitolo 1: Della rappresentanza (art. 187-197).
Capitolo 2: Della solidarietà (art. 198-208).
Capitolo 3: Delle condizioni (art. 209-220).
L’impianto appare a prima vista molto solido, anche se non mancano alcune perplessità. In particolare, forse sarebbe stato preferibile collocare la disdetta dei contrati di durata nel titolo secondo invece che nel terzo; in secondo
luogo anche la rappresentanza avrebbe forse dovuto essere collocata nei primi
titoli, in quanto istituto di generale applicazione.
5. — Ovviamente non intendo prendere in considerazione tutte le disposizioni contenute nel progetto OR/CO2020. Mi limiterò dunque ad esaminare
alcuni aspetti che rivestono particolare interesse anche in una prospettiva europea; in particolare soffermerò la mia attenzione sugli artt. 19, 41, 47, 54,
55, 145 e 220 OR/CO2020.
a) Art. 19 OR/CO2020: « Ove le circostanze siano mutate in maniera
imprevedibile dopo la conclusione del contratto, sicché non è più ragionevole
aspettarsi, riguardo alle regole della buona fede, che un contraente adempia
la propria prestazione, il tribunale può adattare il contratto o porvi fine ».
I « Motivi » di questo articolo sono stati scritti da Hans-Ueli Vogt (professore dell’Università di Zürich) e sono piuttosto articolati. Quest’articolo in
particolare regola in modo specifico la clausola rebus sic stantibus che nel diritto svizzero vigente è fondata sull’art. 2, comma 2o, ZGB/CC: « Il manifesto
abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge ». Questa disposizione trova applicazione in caso di mutamento delle circostanze dopo la conclusione
del contratto. In caso di squilibrio originario, trova viceversa applicazione la
disciplina del « Grundlagenirrtum » / « l’errore che concerne una determinata
condizione di fatto » ai sensi dell’art. 24 OR/CC; disciplina che in presenza di
determinati presupposti, come per esempio l’errore de futuris, potrebbe trovare applicazione anche con riferimento a circostanze sopravvenute (RZ2). Il
mutamento può essere imprevidibile sia in modo oggettivo che soggettivo
(RZ4). Il criterio non è peraltro più costituito da una « gravierende Äquivalenzstörung » (un grave disturbo del rapporto di equivalenza tra le prestazioni reciproche) ma semplicemente dalla contrarietà alla buona fede. Contrasto
che di per sé può costituire la ragione per l’adeguamento (RZ5). La scelta se
risolvere o adeguare è peraltro rimessa alla prudente valutazione del giudice.
Salva ovviamente la facoltà per i contraenti di scongiurare l’intervento del
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
giudice modificando il regolamento contrattuale, cosa che è sempre possibile:
« wobei die Parteien selbstverständlich auch ohne Mitwirkung des Gerichts
den Vertrag ändern können ». (RZ7). (Per cui le parti possono modificare il
contratto ovviamente senza la collaborazione del tribunale.) Per evitare l’intervento del giudice, le parti hanno in altre parole sempre la facoltà di raggiungere una nuova intesa: « Eine entsprechende Verhandlungspflicht wird jedoch bewusst nicht vorgesehen, (...) » (RZ10). (Una tale obbligazione di negoziare non è peraltro prevista espressamente). La rinegoziazione può addirittura aver luogo prima del verificarsi della sopravvenienza. In conclusione cito
i « Motivi » integralmente: « Das geltende Recht enthält keine ausdrückliche
Regelung der clausula rebus sic stantibus, doch ist sie geltendes (Richter-)
Recht. Mit Art. 19 OR2020 werden die grundlegenden Voraussetzungen, welche Lehre und Rechtsprechung aufgestellt haben, kodifiziert. An ihnen will
Art. 19 OR2020 nichts ändern. » (Il diritto codificato non prevede in modo
esplicito la clausola rebus sic stantibus che è peraltro accolta da parte della
giurisprudenza; con l’art. 19 OR2020 viene codificato l’istituo della presupposizione, così come delineato da dottrina e giurisprudenza; a questo proposito l’art. 19 OR2020 non aggiunge nulla). Si tratta di conclusioni ovvie; colpisce peraltro che questa sintonia con la giurisprudenza non viene illustrata facendo riferimento all’ultima sentenza-standard in questa materia: ATF 24
aprile 2001, RO 127 III 300 (Jolieville); si veda per questa pronuncia Pierre
Tercier, Le droit des obligations, Zürich 2009, nr. 971 ss.
In conclusione, l’art. 19 costituisce una disciplina moderna della sopravvenienza, che dovrebbe costituire un esempio anche per altri legislatori.
b) Art. 41 OR/CO2020:
1. « Chi è vittima di una lesione al momento del contratto può invalidare l’accordo ».
2. « Si verifica lesione quando una delle parti abusa dei bisogni, della
leggerezza o dell’inesperienza dell’altra, o di qualsivoglia altra compromissione della libertà di decisione per farsi promettere una controprestazione in
sproporzione manifesta con la propria prestazione ».
Il nucleo di questo articolo è costituito dalla lesione, la quale deve consistere in una sproporzione manifesta. Lo svantaggio deve in altre parole assumere la consistenza di uno squilibrio di carattere patrimoniale tra le prestazioni. Sotto questo profilo, la norma appare meglio formulata rispetto all’art.
3:44, comma 4o, BW olandese in cui è stata cancellata in extremis la necessità
che il danno sia patrimoniale (questo in base ad una lettura non corretta di
una sentenza della Corte Suprema olandese del 1964). I « Motivi » sono stati
scritti da Wolfgang Ernst (professore all’Università di Zürich), il quale considera come la nuova disciplina corrisponda a grandi linee con quanto previsto
dall’art. 21 OR (RZ2). Aggiunge inoltre che: « Sprachliche Änderungen zielen
auf einen zeitgemässen Wortlaut, nicht auf einen anderen materiellen Regelungsgehalt. Es muss eine beeinträchtigte Entscheidungsfreiheit vorliegen
(beispielshaft, aber nicht abschliessend genannte Ursachen: Notlage, Uner-
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fahrenheit oder Leichtsinn); diese muss vom anderen Teil ausgenutzt werden
sein, sodass sich zwischen Leistung und Gegenleistung ein offenbares Missverhältniss ergibt. Auf die Judikatur zu Art. 21 OR kann zurückgegriffen werden. » (Innovazioni linguistiche hanno come obiettivo l’uso del linguaggio
contemporaneo, non necessariamente anche l’innovazione del diritto materiale. Deve risultare provata una compromissione della libertà di decisione (per
esempio, in via esemplificativa: stato di bisogno, inesperienza o leggerezza);
di questa compromissione deve aver abusato l’altra parte, con conseguente
manifesta sproporzione fra prestazione e controprestazione. Con riferimento
all’art. 21 OR è sufficiente far riferimento all’elaborazione giurisprudenziale).
Benché questo testo sia chiarissimo per un giurista professionista, più dubbio
è se l’espressione « beeinträchtigte Entscheidungsfreiheit » / « compromissione della libertà di decisione » sia facilmente comprensibile per i non addetti ai
lavori. Problemi analoghi potrebbe peraltro porre anche l’espressione inglese:
« impairment of freedom of decision »; in questa prospettiva sarebbe stata forse auspicabile la scelta di una terminologia più accessibile.
In caso di abuso delle circostanze (« undue influence »), ai sensi dell’art.
43, comma 2o, OR/CO2020 l’invalidità può essere anche soltanto parziale
(RZ3). Il progetto svizzero OR/CO2020, diversamente da quanto previsto
dall’art. 3:54 BW olandese, non contempla viceversa la possibilità di mantenere in vita il regolamento contrattuale, salve le necessarie modifiche per ricondurlo ad equità; fattispecie che peraltro non ha trovato molte applicazioni
anche nel diritto olandese.
c) Art. 47 OR/CO2020: « Il danno consiste in una perdita patrimoniale o
in un’altra perdita ». Il danno può dunque consistere in una perdita patrimoniale o anche semplicemente nella perdita di una chance, o altro ancora
(RZ2).
I « Motivi » sono stati scritti da Walter Fellmann (professore all’Università di Luzern), Christoph Müller (professore all’Università di Neuchâtel) e
Franz Werro (professore all’Università di Fribourg). Il successivo art. 48 attribuisce al giudice la facoltà di quantificare il danno « avuto riguardo all’ordinario andamento delle cose »; l’art. 49 disciplina il risarcimento del danno
alla persona e l’art. 50 il danno da morte (RZ1).
d) Art. 54 OR/CO2020: « La maniera e la misura del risarcimento per il
danno prodotto sono determinate dal tribunale avuto riguardo alle circostanze ».
Art. 55 OR/CO2020: « Il giudice può ridurre o finanche negare il risarcimento, se circostanze, per le quali il danneggiato è responsabile, hanno contribuito a cagionare o ad aggravare il danno ».
I « Motivi » di questi due articoli sono stati scritti dalle stesse persone indicate nel commento dell’articolo precedente; in particolare secondo questi
autori: « L’art. 54 et l’art. 55 CO2020 traitent de la fixation de l’indemnité
et de sa réduction. L’unité de la matière abordée justifie de traiter ces deux
dispositions ensemble. Fixer l’indemnité, c’est au besoin la réduire. » (RZ1).
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
(L’art. 54 e l’art. 55 CO2020 trattano la determinazione del risarcimento del
danno e la sua riduzione. L’unità della materia giustifica un trattamento unitario di queste disposizioni. Determinare il risarcimento può significare, ove
occorra, ridurlo). Sempre secondo questi autori: « D’une manière générale,
l’art. 54 et l’art. 55 CO2020 n’apportent pas de modification substantielle au
régime de l’art. 43 et de l’art. 44 CO. Avec le même laconisme, l’art. 54
CO2020 reprend les principes de l’art. 43 CO, l’art. 55 CO2020, ceux de
l’art. 44 CO » (RZ2). (In modo generale l’art. 54 e l’art. 55 CO2020 non
comportano una modifica sostanziale del regime dell’art. 43 e dell’art. 44 CO.
Con la medesima concisione l’art. 54 CO2020 riprende i principi dell’art. 43
CO, l’art. 55 CO2020 quelli dell’art. 44 CO). Seguono le seguenti considerazioni: « L’art. 54 et l’art. 55 CO2020 suppriment à juste titre la référence à
la faute, qui n’est plus énoncée à l’art. 46 CO2020 » (RZ3). (L’art. 54 e l’art.
55 CO2020 sopprimono giustamente ogni riferimento alla colpa, la quale non
è stata più inserita nell’art. 46 CO2020). Si noti in particolare che nel progetto di riforma la determinazione dell’entità del risarcimento è del tutto sganciata dalla gravità della colpa. Gli autori spiegano le ragioni che rendono auspicabile questa soluzione: « Dans l’art. 54 CO2020, la référence à la gravité
de la faute de l’art. 43 al. 1 CO n’est pas reprise. Dès lors que la faute est absorbée dans la notion de manquement au devoir général de comportement, il
ne se justifie pas de la mentionner séparément » (RZ4). (Nell’art. 54 CO2020
il riferimento alla gravità della colpa non è più ripreso. Perché la colpa è assorbita nella nozione di un mancato dovere di comportamento non è più giustificato nominarla separatamente). In senso diverso dispone viceversa l’art.
43 al. 1 CO vigente, ai sensi del quale il giudice in sede di quantificazione del
danno è tenuto a prendere in considerazione la « gravité de la faute ». Principio che nel diritto svizzero trova ancora regolare applicazione. Il progetto OR/
CO2020 innova peraltro radicalmente sotto questo profilo, anche se gli autori
ci tengono a precisare che: « Rien ne doit empêcher le tribunal de tenir
compte du peu de gravité du manquement pour atténuer l’obligation de réparer. Il pourra se fonder à cette égard sur l’ensemble des circonstances ». (Nulla impedisce al tribunale di tener conto della scarsa gravità della violazione
per alleggerire l’obbligazione di risarcire. A questi fini si dovrà tener conto
dell’insieme delle circostanze).
Per il resto vien confermato il regime vigente, salva ancora l’abrogazione
di un’altra norma palesemente desueta: « Pour le reste, l’art. 54 et l’art. 55
CO2020 ne modifient pas le régime mis en place par l’art. 43 et l’art. 44 CO.
Néanmoins, compte tenu de sa désuétude, l’art. 44 al. 2 CO, qui codifie la réduction de l’indemnité due en cas gêne, a finalement été abandonné » (RZ6).
(Per il resto, l’art. 54 e l’art. 55 CO2020 non modificano il regime degli art.
43 e 44 CO. Tuttavia a ragione della sua desuetudine è stato finalmente abrogato l’art. 44, comma 2o, CO che codifica la riduzione del risarcimento del
danno, ove il risarcimento potrebbe ridurre in stato di bisogno la persona responsabile). L’attuale art. 44, comma 2o, CO prevede ancora il potere del giu-
OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO
681
dice di ridurre l’entità del risarcimento ove l’adempimento potrebbe ridurre
in stato di bisogno il debitore; regola che appare peraltro ormai desueta.
e) Art. 145 OR/CO2020:
1. « Un contratto di durata può essere disdetto per motivi gravi; vale
segnatamente motivo grave ogni circostanza che non permette ragionevolmente di esigere da chi ha dato la disdetta che abbia a continuare nel contratto ».
2. « Mancando un motivo grave, la disdetta di un contratto di durata
si presume disdetta ordinaria ».
I « Motivi » sono stati scritti da Reto M. Hilty (professore all’Università
di Zürich) e Tina Purtschert (avvocato). Mentre l’art. 144 OR/CO2020 disciplina la didetta ordinaria, l’art. 145 OR/CO2020 disciplina la disdetta straordinaria, la quale può aver luogo solo in presenza di un grave motivo; in particolare si è in presenza di un grave motivo ogniqualvolta l’adempimento non
potrebbe più essere esigibile. Piuttosto ci si potrebbe interrogare circa i rapporti con la disciplina della sopravvenienza (art. 19). Si consideri tuttavia che
mentre l’art. 19 del progetto si riferisce ad ogni mutamento sopravvenuto delle circostanze, l’art. 145 si riferisce ad ogni motivo che può rendere inesigibile
la prestazione; il che non vale peraltro a fugare del tutto i dubbi circa i rapporti tra le due norme in questione, che per lo meno in parte si sovrappongono; la sopravvenienza legittima in altre parole la risoluzione o la revisione
giudiziale del contrattto o viceversa il recesso stragiudiziale? In quali casi si
applica la prima soluzione ed in quali casi la seconda? Ovviamente sarebbe
auspicabile che venissero chiariti meglio i rapporti tra questi due istituti; una
possibile soluzione potrebbe consistere nel ritenere che occorre rivolgersi al
giudice ogniqualvolta vi sono ancora margini per la revisione del contratto, e
le parti non riescono a raggiungere una nuova intesa, mentre negli altri casi il
rapporto può essere terminato in virtù del recesso; si consideri ancora la possibilità di raggiungere all’incirca i medesimi risultati in applicazione del principio di buona fede e del divieto dell’abuso del diritto (art. 2, comma 2o, CC).
f) L’art. 220 OR/CO2020:
1. « L’ammontare della pena convenzionale è lasciato all’arbitrio delle
parti; il tribunale deve ridurre le pene convenzionali che ritiene eccessive ».
2. « Essa è invalida quando sia destinata a convalidare un’obbligazione contraria al diritto imperativo o all’ordine pubblico ».
3. « Essa non è dovuta ove il debitore provi che l’inadempimento deriva da una circostanza di cui non è responsabile ».
I « Motivi » sono stati scritti da Pascal Pichonnaz (professore all’Università di Fribourg), il quale considera che: « L’art. 220 CO2020 ne modifie pas
l’art. 163 CO sur le fond; néanmoins, la forme a été adaptée pour tenir
compte du régime différent de l’inexécution dans le projet (al. 2 et al. 3). En
outre, la liberté des parties et le devoir de tribunal de réduire les peines excessives ont été mis dans le même alinéa (al. 1) pour bien montrer la limite de
la liberté des parties. » (RZ1). (L’art. 220 CO2020 non cambia nella sostan-
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
za l’art. 163 CO. Tuttavia la forma è stata adattata al differente regime dell’inadempimento così come disciplinato nel progetto (commi 2o e 3o). Inoltre
la libertà delle parti ed il dovere del tribunale di ridurre le pene eccessive sono
collocati nello stesso comma (1o) per dimostrare che sussiste un limite alla libertà delle parti). Inoltre: « Le montant de la peine conventionnelle ne dépend pas du montant du dommage (art. 219 al. 1 CO2020); partant, c’est
bien l’accord des parties qui en détermine l’ampleur. L’art. 220 CO2020
commence ainsi par rappeler ce principe qui découle de la disposition précédente. » (RZ2). (L’ammontare della pena convenzionale non dipende dell’ammontare del danno (art. 219, comma 1o, CO2020); ma dall’accordo delle
parti. L’art. 220 CO2020 inizia col ricordare questo principio che deriva dalla disposizione precedente). Ne consegue che: « Conformément à l’art. 163 al.
3 CO l’art. 220 CO2020, in fine, limite la liberté des parties en imposant au
tribunal de réduire une peine conventionnelle excessive. Une peine excessive
n’est toutefois pas nulle, mais seulement réductible. » (RZ3). (In conformità
con l’art. 163, comma 3o, CO, l’art 220 CO2020, in definitiva, limita la libertà delle parti obbligando il tribunale a ridurre una pena convenzionale eccessiva. Tuttavia una pena eccessiva non è nulla ma soltanto suscettibile di riduzione). A questo proposito si consideri tuttavia che La Corte di Giustizia UE
nella sentenza del 30 maggio 2013 (oss. 60) ha espresso un diverso parere
per quanto riguarda i contratti dei consumatori. Ancora diversa è la questione
circa la rilevabilità d’ufficio (RZ4); il punto di partenza è molto chiaro: « Le
tribunal ne doit pas examiner d’office le caractèr excessif d’une peine conventionnelle. » (Il tribunale non può esaminare d’ufficio il carattere eccessivo di
una pena convenzionale). Questo principio viene però subito ridimensionato:
« Toutefois, l’obligation de réduire la peine s’impose au tribunal en ce sens
que si la partie affectée par la peine conventionnelle la rejette et allège des
faits qui permetteraient d’opérer une réduction, le tribunal n’a pas besoin
d’une requête spécific, mais doit déjà opérer cette réduction. Selon le Tribunal fédéral, il s’agit d’une norme d’ordre public, donc impérative, que le juge
doit appliquer même si le débiteur n’a pas demandé expressément de réduction (ATF 133 III 201 c. 5.2). Le fardeau de preuve du caractèr excessif reste
toutefois à charge du débiteur de la peine conventionnelle. » (Tuttavia l’obbligazione di ridurre la pena s’impone al tribunale ogniqualvolta la parte gravata dalla pena convenzionale la rigetti ed avvanzi fatti che permetterrebbero
una sua riduzione, in queste circostanze il tribunale non ha bisogno di una richiesta specifica, ma deve applicare d’ufficio la riduzione. Secondo la Corte
Suprema si tratta di una norma d’ordine pubblico, dunque imperativa, alla
quale il giudice si deve attenere anche nel caso in cui il debitore non ha invocato espressamente la riduzione (ATF 133 III 201 oss. 5.2). L’onere della
prova del carattere eccessivo resta comunque sempre a carico del debitore
della pena convenzionale).
Nei « Motivi » si legge ancora: « Le groupe a finalement renoncé à établir
une liste de critères à prendre en compte pour déterminer si une peine
OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO
683
conventionnelle est ou non excessive. En effet, les tribunales doivent pouvoir
apprécier la situation principalement au regard du cas concrete. Jusqu’à présent le Tribunal fédéral a toujours refusé de fixer des critères stricts ou un
pourcentage spécifique. » (RZ6). (Il gruppo infine ha rinunciato ad individuare una lista di criteri da prendere in osservazione per determinare se una
pena convenzionale sia eccessiva oppure no. Praticamente i tribunali devono
apprezzare la situazione del caso concreto. Fino ad oggi la Corte Suprema ha
sempre rifiutato di fissare criteri rigidi od una percentuale determinata). In
questa prospettiva: « Une intervention du tribunal n’est nécessaire que si le
montant fixé est si élevé qu’il dépasse toute mesure raisonnable, au point de
n’être plus compatible avec le droit et l’équité. Il faut ainsi se demander s’il y
a une disproportion crasse entre le montant convenu et l’intérêt du créancier
à maintenir la totalité de sa prétention, mesuré concrètement au moment de
la violation contractuelle » (RZ7). (Un intervento del tribunale sarà necessario soltanto se l’ammontare è talmente elevato da oltrepassare ogni misura ragionevole, a tal punto da non essere compatibile con il diritto e l’equità. Occorre poi verificare se sussista una sproporzione rigorosa tra l’ammontare
convenuto e l’interesse del creditore al mantenimento della sua pretesa integrale, misurata concretamente al momento della violazione contrattuale). Con
la conseguenza che: « Malgré l’insistance du Tribunal fédéral sur le caractère
casuistique de l’approche et le fait qu’il ne faut pas adopter un approche
abstraite du caractère excessif, celui-ci a toutefois retenu qu’une peine
conventionnelle supérieure à 10% de la créance globale peut être considérée
comme très élevée, et soupçonnée d’être excessive (cf. Art. 227, comma 1o, OR/
CO, P.A.). Il n’en reste pas moins que l’analyse doit se faire dans chaque cas
concret. » (RZ9). (Malgrado la tenacia della Corte Suprema nel ribadire la
necessità di un approccio casistico, ed il fatto che non si può adottare a questo
proposito un approccio astratto, la S.C. ha sempre ritenuto che una pena convenzionale superiore del 10% rispetto al credito totale può essere considerata
come troppo elevata, con conseguente presunzione di eccessività. L’unica cosa
che resta da fare è dunque un’analisi di ogni caso concreto).
6. — All’inizio di questo lavoro ho citato il motto: « Bewährtes ist zu
erhalten — Neuem ist Raum zu schaffen ». Qualche perplessità suscita in particolare il secondo inciso: « dare spazio alle innovazioni ». A questo proposito
occorre premettere che per ragioni di varia natura la Svizzera nel 1993 ha
optato per non far parte della Comunità europea; sul piano del diritto privato
questa decisione ha avuto conseguenze enormi, specie sotto il profilo della recezione delle direttive della Comunità europea; basti ricordare a questo proposito che nel 1993 il governo svizzero ha proposto l’approvazione di ben 90
regolamenti CE, dei quali solo 23 sono stati convertiti in leggi interne. Non
esiste quindi una disciplina dei contratti del consumatore comparabile a quella degli altri ordinamenti europei, salvo il diritto di recesso nei contratti conclusi a distanza disciplinato dall’art. 40a ss. OR/CO. Questo articolo è consi-
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derato un provvedimento fondamentale a tutela dei consumatori, ma a parte
questo in Svizzera non c’é nulla in tema di clausole vessatorie, e così via. In
questa prospettiva è inevitabile concludere che: « Rechtlich sind die Restriktionen, welche dem allgemeinen Teil des OR aus dem europäischen Gemeinschaftsrecht bzw. — privatrecht gesetzt werden, also minimal » (RZ44).
(Giuridicamente, le restrizioni che il diritto europeo (privato) impone alla
parte generale del diritto delle obbligazioni svizzero sono dunque minimali).
Questo non impedisce peraltro alla Commissione di ribadire che: « Ziel und
Zweck des Entwurfs ist die Umsetzung der “Idée Suisse”, wie sie dem 21.Jahrhundert entspricht » (RZ8). (Gli obiettivi del disegno di legge sono l’adeguamento dell’idea Svizzera a come come viene intesa nel 21o secolo).
7. — Per quel che riguarda la fattibilità del progetto occorre prendere in
considerazione due differenti profili, quello giuridico e quello politico. Per
quel che riguarda il profilo giuridico, il progetto è sicuramente largamente
condiviso dalla comunità scientifica svizzera; esso è dovuto all’iniziativa di
due professori universitari che hanno coinvolto molti altri docenti provenienti
da tutte le otto università del paese; sicuramente appropriata è stata inoltre la
scelta di realizzare un progetto bilingue; peccato soltanto che il contributo
scientifico della Svizzera-italiana sia assente; del resto nel canton Ticino non
c’è un’università e la componente italiana costituisce solo il 10% della popolazione.
Tenuto conto del grande supporto scientifico, la commissione avrebbe
forse potuto andare molto più avanti e non limitarsi a fare un progetto sostanzialmente conservativo. A ben vedere il contenuto innovativo è infatti
piuttosto limitato. In particolare sarebbe stato forse opportuno prestare più
attenzione alla tutela del consumatore, prendendo come esempio l’AGB-Gesetz tedesco (1976) ed il Konsumentenschutzgesetz austriaco (1979). Questo
non è però avvenuto a causa della decisione presa nel 1993 di non far parte
della Comunità europea.
Per quel che riguarda la fattibilità politica, non è facile azzardare ipotesi;
non è infatti del tutto chiaro se sussista effettivamente una volontà di rinnovamento; il mio auspicio è ovviamente che questo possa avvenire.
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Francesco Paolo Patti
Dottorando di ricerca
IL CONTROLLO GIUDIZIALE
DELLA CAPARRA CONFIRMATORIA
Sommario: 1. I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2o, c.c. — 2. Il problema della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria nella giurisprudenza e nella
dottrina: il divieto di applicazione analogica della norma eccezionale. — 3. L’assimilazione della « caparra confirmatoria » alla « clausola penale ». — 4. Il controllo giudiziale fondato sul dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. e la clausola generale di buona fede.
— 5. Gli effetti dell’illegittimità costituzionale e il confronto con l’esperienza giuridica
tedesca: il controllo sull’equilibrio contrattuale per mezzo delle clausole generali.
1. — A differenza di quanto è stabilito per la clausola penale dall’art.
1384 c.c., la legge non prevede la riduzione giudiziale della caparra confirmatoria. In caso di inadempimento, appare certo, peraltro, che l’assenza del
potere di riduzione possa pregiudicare la posizione del tradens o la posizione
dell’accipiens, quando l’ammontare pattuito risulti manifestamente eccessivo.
Il Tribunale di Tivoli ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, in riferimento all’art. 1385, comma 2o, c.c. nella parte in cui non dispone che il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere, nell’ipotesi in cui il contraente
che ha dato la caparra confirmatoria sia inadempiente, o quella pari al doppio da
restituire, nell’ipotesi inversa in cui sia inadempiente il contraente che l’ha ricevuta, ove risulti la manifesta sproporzione o sussistano giustificati motivi (1).
Con l’ordinanza n. 248 del 24 ottobre 2013, la Consulta ha dichiarato la
inammissibilità della questione sollevata in via incidentale per difetto di motivazione, in punto di manifesta infondatezza e di rilevanza (2).
In questa sede interessa il profilo della rilevanza e conviene riportare i
passaggi della decisione nei quali la Corte indica due distinte ragioni per cui
la motivazione si presenta carente: in primo luogo, il Tribunale rimettente ha
( 1 ) Cfr., sulla base del principio di ragionevolezza, ex art. 3, 2o comma, Cost., Trib. Tivoli, ord. 10 ottobre 2012, in F. it., 2013, I, c. 1023 ss., con osservazioni di A. Palmieri.
Nella specie, in adempimento di un contratto preliminare di compravendita relativo ad un
immobile, il promissario acquirente ha consegnato una caparra confirmatoria di P
150.000,00, a fronte del prezzo complessivo pari a P 510.000,00. Nel rimettere la suddetta
questione di legittimità alla Corte costituzionale, il Giudice di Tivoli ha rilevato, aderendo
all’indirizzo giurisprudenziale che verrà esaminato infra, n. 2, il divieto di applicazione dell’art. 1384 c.c., alla luce del carattere eccezionale della norma.
( 2 ) In F. it., 2014, I, c. 382 s. Negli stessi termini, sulla medesima questione di legittimità costituzionale, ancora una volta a seguito di rimessione del Tribunale di Tivoli, v. C.
cost., ord. 2 aprile 2014, n. 77, ined.
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trascurato di « indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi
dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria »; in secondo luogo, il Tribunale di Tivoli non ha tenuto
conto « dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di
una clausola negoziale che rifletta [...] un regolamento degli interessi non
equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della
rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex articolo 1418 cod.
civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost.,
(per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, “funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in
cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” ».
In altri termini, da un lato, la Corte afferma che, al di là del nomen iuris
adoperato dalle parti, il giudice rimettente avrebbe dovuto valutare la natura
del patto, potendosi profilare l’eventualità di una qualificazione diversa rispetto a quella attribuita in via contrattuale. Dall’altro lato, lo stesso giudice
del merito avrebbe dovuto tener conto di ciò che appare una vera e propria
Drittwirkung del dovere di solidarietà desumibile dall’art. 2 Cost., chiamato
ad operare assieme alla clausola generale di buona fede, e della circostanza
che la violazione delle suddette norme configurerebbe un’ipotesi di nullità
(virtuale) totale o parziale.
Dopo aver ricordato, sia pur brevemente, le posizioni della giurisprudenza e della dottrina sul problema della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria (n. 2), si indicheranno le ragioni che inducono a ritenere il vulnus
di tutela della parte inadempiente, nel caso di una caparra di ammontare eccessivo, risolvibile in via ermeneutica, qualificando la clausola in modo diverso rispetto a quanto deciso dai contraenti (n. 3). Di seguito, verranno esaminate le questioni relative all’applicazione dell’art. 2 Cost., della clausola generale di buona fede e delle norme sulla nullità contrattuale (n. 4). In conclusione, il confronto con un intervento della Corte suprema tedesca, in tema di
clausola penale, consentirà di mettere in luce possibili incertezze applicative
derivanti dal ricorso ai principi e alle clausole generali (n. 5).
2. — Secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza di merito e di
legittimità, il potere del giudice di riduzione della penale previsto dall’art.
1384 c.c. non può essere esercitato nel caso della caparra confirmatoria. Sorprendentemente, alla luce del cospicuo ammontare delle caparre oggetto delle
controversie, nelle decisioni più recenti non si indugia sulla motivazione posta
a base del diniego e ci si limita ad un rinvio alle decisioni precedenti (3).
( 3 ) Si limitano a richiamare i precedenti di segno negativo nell’escludere il potere giudiziale di riduzione della caparra confirmatoria stipulata nell’ambito di contratti preliminari,
COMMENTI
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Le sentenze più risalenti fanno invece perno su diversi argomenti per negare l’applicazione analogica della norma sulla riduzione. Tra le ragioni individuate, rileverebbe che, pur essendo la clausola penale e la caparra confirmatoria disciplinate nella medesima sezione, soltanto per la prima è prevista
la riduzione giudiziale, circostanza percepibile come una scelta precisa del legislatore e non alla stregua di un’involontaria omissione (4). Inoltre, si osserva
che la norma dell’art. 1384 c.c. avrebbe carattere eccezionale e non sarebbe
applicabile analogicamente « oltre l’ambito della clausola penale, cui testualmente si riferisce, né, in particolare, in tema di caparra confirmatoria » (5).
Parte della dottrina non si pone in termini critici rispetto al descritto
orientamento, rilevando che l’eventualità di una caparra di ammontare eccessivo sarebbe da escludere poiché il valore della caparra corrisponde necessariamente soltanto ad una parte della prestazione dovuta (6).
Cass. 1o dicembre 2000, n. 15391, in Rep. F. it., 2000, voce Contratto in genere, n. 488
(caparra L. 27.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 80.000.000); Cass. 23 agosto
1997, n. 7935, ivi, 1997, voce cit., n. 429 (caparra L. 21.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 91.000.000). Nella specie, il tradens ha sostenuto la tesi, non accolta dalla
Suprema Corte sulla base dell’inequivocabile tenore letterale della clausola, che soltanto
una parte dell’ammontare era stato corrisposto a titolo di caparra, mentre l’altra parte costituiva un acconto da restituire; Cass. 23 maggio 1995, n. 5644, ivi, 1995, voce cit., n.
368 (caparra L. 30.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 63.990.000).
( 4 ) Cass. 10 novembre 1977, n. 4856, in R. d. comm., 1978, II, p. 176 ss., con nota di
A. Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem: « L’aver previsto la riduzione
“ope iudicis” della penale ma non della caparra è significativo dell’intento di disciplinare in
modo diverso le due fattispecie perché, altrimenti, sarebbe necessario postulare la manchevolezza, da cui nasce l’esigenza di far ricorso all’analogia, proprio in sede di contestuale regolamentazione dei due istituti: il che è, quanto meno, azzardato ». Ulteriori argomenti addotti dalla sentenza per negare l’estensione analogica dell’art. 1384 c.c. sono la struttura
bilaterale della caparra che, ponendo in capo ai contraenti la stessa prestazione, eviterebbe
situazioni di iniquità e la facoltà di scelta tra caparra e risarcimento del danno (art. 1385,
commi 2o e 3o, c.c.), « inammissibilmente soppressa con l’ammettere la riduzione ».
( 5 ) Cass. 24 febbraio 1982, n. 1143, in Rep. F. it., 1982, voce Contratto in genere, n.
208; Cass. 10 dicembre 1979, n. 6394, ivi, 1979, voce cit., n. 244. Nella giurisprudenza di
merito, v. Trib. Monza 25 agosto 2005, in G. mer., 2006, p. 931; App. Cagliari 16 gennaio
1998, in R. g. sarda, 1999, p. 399 ss., con nota di A. Chelo, Brevi considerazioni in tema
di caparra confirmatoria e clausole abusive; Trib. Cagliari 9 marzo 1989, ivi, 1992, p. 373
ss., con nota di A. Angioni, Questioni varie in tema di responsabilità per inadempimento e
caparra confirmatoria; App. Napoli 6 luglio 1963, in F. it., 1963, I, c. 2253.
L’unico precedente contrario, a quanto consta, è App. Roma 13 marzo 1959, in Giust.
civ., 1959, I, p. 584 s., il quale ammette la riducibilità giudiziale della caparra sulla base
del divieto di arricchimento senza causa. Nello stesso senso v. anche Arb. Milano 29 marzo
2006, in R. arbitrato, 2006, p. 385 ss., con nota di F. Criscuolo, Principio di proporzionalità, riduzione ad equità della penale e disciplina della multa penitenziale: « per analogia
alla ratio di tutela del contraente vittima di uno squilibrio dell’assetto negoziale non voluto,
espressa dalla recente interpretazione della suprema corte sull’art. 1384 c.c., è riducibile
d’ufficio dal giudice (o dall’arbitro) la caparra penitenziale ritenuta manifestamente eccessiva riguardo all’interesse del creditore all’adempimento ».
( 6 ) A. Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem, cit., p. 180; F. Roselli,
Clausola penale e caparra, in Tratt. Bessone, XIII, Torino 2002, p. 465, secondo cui « Il fatto
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In realtà, dal momento che, ai sensi dell’art. 1385, comma 2o, c.c., il diritto di ritenere la caparra o di ottenere la somma pari al duplum postulano
necessariamente la risoluzione del contratto al quale il patto accede, non può
escludersi — com’è dimostrato dalla fattispecie sottoposta al Tribunale rimettente — la sussistenza di esigenze di tutela analoghe a quelle che si presentano nel caso della clausola penale, in quanto il tradens o l’accipiens perde un
ammontare pari al valore della caparra, senza avere diritto ad alcuna controprestazione.
Pertanto, al fine di valutare se la caparra sia eccessiva, sembra che l’ammontare non debba essere posto in rapporto soltanto con il valore della prestazione
inadempiuta, ma altresì con il danno subito dal contraente non inadempiente, il
quale in assenza della pattuizione avrebbe diritto al risarcimento del danno da
inadempimento, conseguente alla risoluzione del contratto (7).
Con riguardo al rapporto tra clausola penale e caparra confirmatoria, da
un lato, e il risarcimento del danno, dall’altro lato, in epoca antecedente, e
immediatamente successiva all’entrata in vigore del codice civile del 1942,
era diffusa la notazione secondo cui, in genere, rispetto al danno la penale ha
un ammontare superiore, mentre la caparra, viceversa, un ammontare inferiore (8). Sul piano normativo, per questo motivo, diversamente dalla discipliche la caparra equivalga solo ad una parte della prestazione dovuta impedisce che sorgano questioni di riduzione giudiziale ». Nello stesso senso, affermando che l’ammontare della caparra
costituisce una parte del prezzo e che si debba escludere che il giudice possa sindacare « la libera valutazione del contenuto economico dell’accordo operata dalle parti », V. Pescatore, Clausola « di irriducibilità » della penale ed estensione analogica dell’art. 1384 c.c., nota a Cass. 28
settembre 2006, n. 21066, in Obbligazioni e contratti, 2007, p. 905; E. Lucchini Guastalla,
Riflessioni in tema di clausola penale, in questa Rivista, 2014, p. 102.
( 7 ) In questo senso, C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità2, Milano 2012, p. 390,
nt. 11: « al pari della clausola penale, la caparra espone l’inadempiente al pericolo di una predeterminazione eccessiva » (il quale modifica l’opinione espressa ne Il divieto del patto commissorio, Milano 1957, p. 235 s.); e, nella dottrina più recente, M. Bellante, La caparra, Milano
2008, p. 109: « la sproporzione del risarcimento va valutata in rapporto al danno concretamente subito »; S. Cherti, La risoluzione mediante caparra, Padova 2012, p. 133.
( 8 ) Secondo l’indirizzo prevalente nel vigore del codice del 1865, il contraente non inadempiente, analogamente a quanto previsto in materia di clausola penale (ma v. L. Coviello jr., Clausola penale e risarcimento del danno, in F. it., 1933, I, c. 1696 ss.), poteva
« chiedere niente più che l’importo della caparra », salvo che avesse in precedenza agito infruttuosamente per l’adempimento dell’obbligazione: V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano2, I, Roma 1915, p. 637. Nello stesso senso, G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano7, IV, Firenze 1925, p. 598; A. Butera, La caparra come limite al risarcimento del danno, in G. it., 1926, I, 1, c. 189 ss. La norma era ritenuta
in contrasto con la prassi del mercato secondo cui la penale era il più delle volte superiore
all’ammontare del danno, mentre la caparra aveva normalmente un valore minore e poteva
determinare un « indebolimento dell’obbligazione » nei casi in cui l’adempimento non era
possibile: L. Coviello, voce Contratto preliminare, in Enc. giur., III, III, Milano 1902, p.
134 s.; V. Polacco, loc. cit.; E. Pacifici-Mazzoni, Isitituzioni di diritto civile italiano5, IV,
Firenze 1920, p. 432. Nello stesso senso, già N. De Crescenzio e C. Ferrini, voce Obbligazione, in Enc. giur., XII, I, Milano 1900, p. 369. All’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942, rilevano che generalmente l’ammontare della caparra è esiguo rispetto a
COMMENTI
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na della clausola penale, l’art. 1385, comma 3o, c.c. prevede, in ogni caso, la
facoltà di chiedere il risarcimento del danno; opzione preferibile per il contraente non inadempiente quando la caparra presenta un ammontare irrisorio
e sussistono elementi probatori sufficienti per dimostrare il danno subito (9).
Inoltre — ma ciò è soltanto presumibile —, l’esiguità del valore normalmente
assunto dalla caparra confirmatoria ha indotto il legislatore a ritenere superflua una disposizione sulla riducibilità della caparra.
In epoca attuale, non si rinvengono valutazioni analoghe in merito ai
rapporti tra gli istituti in esame e il risarcimento del danno, ma, soprattutto
in considerazione delle rationes poste a fondamento degli interventi della Suprema Corte in tema di riducibilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva (sui quali si avrà modo di tornare), un numero crescente di studiosi
esprime favore per la soluzione dell’estensione analogica del potere di riduzione del giudice. Ciò perché anche la caparra confirmatoria si sostanzia in una
forma di liquidazione convenzionale del danno, che sottrae al giudice la competenza riconosciuta in questo campo dalle norme legali (10). Nell’ambito del
medesimo indirizzo, una parte della dottrina si basa sul « principio di proporzionalità », del quale il controllo della clausola penale ex art. 1384 c.c. costituirebbe una delle forme di manifestazione, per affermare il carattere non eccezionale della norma, la quale sarebbe applicabile per analogia a clausole diverse rispetto alla clausola penale (11).
quello oggetto di una clausola penale, L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni2, III,
L’attuazione, Milano 1948, p. 489 s.; N. Stolfi e F. Stolfi (a cura di), Il nuovo codice civile commentato, Libro IV, Delle obbligazioni, 1, Napoli 1949, p. 204. Secondo G. Bavetta,
La caparra, Milano 1963, p. 177 nt. 22, la somma corrisposta a titolo di caparra sarebbe
di regola « talmente di scarsa entità da far ritenere inconcepibile che la fattispecie possa costituire, nella previsione normativa e nella stessa intenzione delle parti, liquidazione preventiva del danno ». In tempi recenti, v. S. Mazzarese, Clausola penale, in Comm. Schlesinger, sub Artt. 1382-1384 c.c., Milano 1999, p. 51.
( 9 ) Il dato riceve conferma nei lavori preparatori: « poiché la caparra è di regola confirmatoria, la parte inadempiente può far valere i suoi diritti in via ordinaria » (Relazione al
Re del Ministro Guardasigilli, n. 633).
( 10 ) Cfr. A. Zoppini, La pena contrattuale, Milano 1991, p. 287 s.; Id., La clausola penale e la caparra, in Trattato dei contratti2, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, I, 2, I
Contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, Torino 2006, p. 1025 s. Nello stesso senso, A.
Riccio, È, dunque, venuta meno l’intangibilità del contratto: il caso della penale manifestamente eccessiva, in Contratto e impr., 2001, p. 101 ss.; M. Bellante, op. cit., p. 112 s.; S.
Cherti, op. cit., p. 127 ss.; M. Dellacasa, Inadempimento e affidamento del contraente deluso: una riflessione su risarcimento e caparra, in R. d. priv., 2013, p. 240 ss. Affermano la
riducibilità della caparra ex art. 1384 c.c., ritenendo esistente un nucleo comune di disciplina della clausola penale e della caparra stabilito dagli artt. 1382 ss. c.c., V.M. Trimarchi, voce Caparra (dir. civ.), in Enc. dir., VI, Milano 1960, p. 202 nt. 46; M. Polastri Menni, Se la caparra confirmatoria sia suscettibile di riduzione equitativa da parte del giudice,
in R. trim. d. proc. civ., 1965, p. 1197 ss.
( 11 ) P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in
Rass. d. civ., 2001, p. 342 ss., il quale ritiene applicabile « il principio [di proporzionalità]
che ispira la riduzione » a clausole tipiche, come la caparra confirmatoria o penitenziale, e
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
La casistica alla quale si è fatto cenno, in cui effettivamente risultano stipulate caparre di ammontare esorbitante, e l’orientamento della dottrina, negli ultimi tempi propensa ad ammettere la riduzione giudiziale della caparra,
confermano l’esigenza del controllo giudiziale. Come emerge dalla ordinanza
di rimessione e dalla decisione della Corte costituzionale, dove non è posta in
discussione l’interpretazione offerta dai precedenti giurisprudenziali, l’applicazione analogica dell’art. 1384 c.c. alla caparra confirmatoria si pone però
in contrasto con il carattere eccezionale da tempo riconosciuto alla norma (12).
A fronte della situazione simile in cui versa il soggetto inadempiente nel
caso di penale o caparra avente ammontare eccessivo, già sulla base di una
prima riflessione, l’appiglio « formale » all’Analogieverbot, per negare il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, non sembra insuperabile. Quanto detto trova conferma in contributi che nel vigore del codice civile previgente mettevano in luce l’« assurdità » del divieto di applicazione analogica, atteso che anche la norma eccezionale ha una propria ratio, idonea a ripetersi in
situazioni diverse rispetto a quelle avute di mira dal legislatore (13). In altri
atipiche, come le clausole di liquidazione dei danni; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti3, Napoli 2006, p. 383 ss. Studiosi
tedeschi ritengono ammissibile l’applicazione analogica della norma sulla riduzione della
penale ex § 343 BGB, sulla base di una operazione ermeneutica fondata sul principio di
proporzionalità: v. C.-W. Canaris, Gesamtunwirksamkeit und Teilgültigkeit rechtsgeschäftlicher Regelungen, in Festschrift Steindorff, Berlin 1990, p. 519; M. Stürner, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit im Schuldvertragsrecht. Zur Dogmatik einer privatrechtsimmanenten Begrenzung von vertraglichen Rechten und Pflichten, Tübingen 2010, p. 435 s., il
quale, tuttavia, afferma l’applicabilità in via analogica della norma sulla riduzione soltanto
con riguardo a clausole accessorie aventi carattere sanzionatorio (ad esempio, clausole penali atipiche). In prospettiva storica, v. F. Wieacker, Geschichtliche Wurzeln des Prinzips
der verhältnismäßigen Rechtsanwendung, in Festschrift Fischer, Berlin-New York 1979, p.
869 ss.
( 12 ) Nella massima (redazionale) di Cass. 18 novembre 2010, n. 23273, in G. it., 2011,
p. 1522, si legge: « La riducibilità della penale non è norma di carattere eccezionale, bensì
espressione di un più generale potere-dovere del giudice di controllo sulla congruità di qualunque clausola contrattuale atta a predeterminare la pena gravante sulla parte inadempiente, così da garantire la sua proporzionalità e la sua eventuale riconduzione ad un ammontare tale da essere meritevole di tutela (nel caso di specie, la corte ha ritenuto applicabile in via analogica l’art. 1384 c.c. agli interessi di mora convenzionalmente stabiliti dalle
parti ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1224 c.c.) ». Tuttavia, il principio riportato non
corrisponde alla motivazione della sentenza, in cui appare evidente che la Suprema Corte
ha applicato l’art. 1384 c.c. aderendo al consolidato indirizzo secondo cui gli interessi moratori stabiliti in via convenzionale configurano una clausola penale (cfr., ad esempio, M.
Libertini, voce Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano 1972, p. 129, ad avviso del quale la
convenzione sulla misura degli interessi moratori rientra « letteralmente nella previsione
dell’art. 1382 c.c., che quindi si applica direttamente ad essa »; O.T. Scozzafava, Gli interessi monetari, Napoli 1984, p. 112).
( 13 ) Così N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino 1938, p. 170 ss., il quale
rileva che l’estensione analogica della norma eccezionale, alla luce del carattere della norma, destinata a disciplinare fattispecie particolari, non si verifica « con la stessa frequenza
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termini, si segnalavano fattispecie che non cadono nel campo di applicazione
della norma eccezionale, ma per le quali si pongono le medesime ragioni per
cui il legislatore prevede una deroga alla norma generale. Nello stesso ordine
di idee, in mancanza di un divieto espresso, la dottrina tedesca ammette l’applicazione analogica delle norme eccezionali, intendendo il principio « singularia non sunt extendenda », nel senso che se una norma è prevista per un caso eccezionale, essa non può essere applicata in via analogica a casi che non
presentano la stessa situazione di eccezionalità (14). Al medesimo risultato si
perviene, in tempi recenti, con riguardo al diritto dell’Unione europea (15).
Nelle pagine che seguono l’attenzione sarà rivolta soltanto ai difetti della
motivazione del giudice a quo. Tuttavia, preme ribadire che il divieto di analogia della norma eccezionale non configura un argomento incontrovertibile
per negare l’applicazione analogica dell’art. 1384 c.c. alla caparra confirmatoria. Anzitutto, è un dato acquisito quello secondo cui « l’eccezionalità di
una norma non è un carattere assoluto della norma stessa, ma un carattere
relativo, soggetto a mutamenti nell’ambito stesso di un sistema » (16), di talché la norma considerata come eccezione, in un dato momento, a seguito di
cambiamenti di vario genere (interni al sistema o a esso esterni: ad esempio,
di tipo sociale, economico, ecc.), può assumere nell’ordinamento i connotati
della « regola » o del « principio ». Inoltre, ponendo l’accento sul fondamento
della norma sul controllo giudiziale della penale, così come rinvenuto dai giudici di legittimità, potrebbe affermarsi che essa non ha natura « eccezionale »,
bensì « speciale » poiché costituisce il « prolungamento » o la « continuazione » del principio di solidarietà nel contesto delle clausole di forfetizzazione
con cui si verifica nella norma non eccezionale ». Nello stesso senso, F. Carnelutti, Teoria
generale del diritto, Roma 1940, p. 149 s., secondo cui il divieto di applicazione analogica
« riposa su un equivoco », in quanto « nulla vieta che l’eccezione sia, nel pensiero del legislatore, applicazione di un principio, il quale comprenda anche altri casi in una più ampia
eccezione alla regola espressa ».
( 14 ) K. Engisch, Einführung in das juristische Denken5, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz
1956, p. 147: « Wenn eine Vorschrift für einen bestimmten Ausnahmefall oder eine Gruppe solcher Fälle erlassen ist, so darf sie selbstverständlich nicht analog angewendet werden
auf Fälle, in denen diese Ausnahmesituation nicht gegeben ist ». Nello stesso senso, K. Larenz, Methodenlehre der Rechtswissenschaft6, Berlin-Heidelberg-New York 1991, p. 355 s.,
il quale afferma che attraverso l’applicazione in via analogica non deve però giungersi ad
un risultato opposto rispetto a quello voluto dal legislatore. Sulle origini storiche della massima « singularia non sunt extendenda » e sulla sua progressiva erosione, a partire dal XX
secolo, v. S. Vogenauer, Die Auslegung von Gesetzen in England und auf dem Kontinent, I,
Tübingen 2001, p. 516 ss. In merito all’uso dell’argomento teleologico nell’applicare norme
in via analogica, cfr. R. Zimmermann, Statuta sunt stricte interpretanda? Statutes and the
Common Law: A Continental Perspective, in 56 Cambridge L. J. (1997), p. 320 s.
( 15 ) Sulla base di alcune pronunce della Corte di giustizia, S. Martens, Methodenlehre
des Unionsrecht, Tübingen 2013, p. 320 s., secondo cui, in linea di principio, nel diritto europeo non sussiste un divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali.
( 16 ) N. Bobbio, op. cit., p. 165.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
del risarcimento del danno (17). L’applicazione analogica della norma alla caparra confirmatoria sarebbe esclusa soltanto dall’esistenza di un principio in
contrasto con quello di solidarietà, da ritenersi prevalente rispetto a quest’ultimo (18).
In definitiva, sebbene esuli dall’obiettivo di questo studio l’esame critico
dell’indirizzo della giurisprudenza — probabilmente, frutto del timore che
un’apertura possa con il trascorrere degli anni determinare un’applicazione
generalizzata dell’art. 1384 c.c. (19) —, appare evidente che, allo stato, sussistono utili argomenti per modificare il consolidato orientamento che nega
l’applicazione analogica della norma sulla riduzione giudiziale.
3. — Enunciate le posizioni della giurisprudenza e della dottrina in merito alla questione della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria, è possibile procedere all’esame dei motivi che hanno indotto la Corte costituzionale
ad emettere l’ordinanza di inammissibilità. Come si è indicato in apertura, il
giudice rimettente ha omesso di valutare se l’effettiva funzione della clausola,
denominata dalle parti « caparra », corrisponda a quella dell’istituto disciplinato dall’art. 1385 c.c. Ma non è dato sapere con quale clausola — avente
una funzione non coincidente con quella della caparra confirmatoria — possa
identificarsi, a parere della Corte, la pattuizione sottoposta all’esame del Tribunale di Tivoli.
La giurisprudenza ha spesso affrontato problemi interpretativi connessi
all’utilizzazione del termine « caparra » e l’elevato numero di controversie si
( 17 ) Cfr. ancora N. Bobbio, op. cit., p. 168, il quale precisa che il diritto eccezionale costituisce una deroga a una norma più generale (rapporto regola-eccezione), mentre il diritto
speciale ne costituisce la sua specificazione (rapporto genere-specie). Sebbene riconosca
che, da un punto di vista dogmatico, in virtù del divieto, le norme eccezionali non sono suscettibili di applicazione analogica, afferma che attraverso la loro applicazione si svolge « la
pratica evoluzione del sistema giuridico », T. Ascarelli, Il problema delle lacune e l’art. 3
disp. prel. cod. civ. (1865) nel diritto privato, in Id., Studi di diritto comparato e in tema di
interpretazione, Milano 1952, p. 224 s. nt. 33, ad avviso del quale la distinzione tra diritto
eccezionale e diritto speciale consente di superare la descritta antinomia. In senso critico,
sostiene che la specificazione dei principi « non si risolve in altro che nella loro deroga », F.
Modugno, voce Norme singolari, speciali, eccezionali, in Enc. dir., XXVIII, Milano 1978,
spec. p. 513 ss. Più in generale, sui problemi teorici cui dà luogo l’art. 14 disp. prel., v. G.
Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. Cicu-Messineo, I, 2, Milano 1980, p. 297
ss.
( 18 ) Nel senso che l’applicazione analogica di una norma pone l’esigenza di un bilanciamento tra principi o valori dell’ordinamento, v. K. Larenz, op. cit., p. 384 s.; C.-W. Canaris, Die Feststellung von Lücken im Gesetz, München 1983, p. 97 ss.
( 19 ) Del resto, il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali (sul quale,
come visto, si esprimono in termini negativi autorevoli studiosi) poggia sulla preferenza accordata « ai principi della certezza e della staticità rispetto a quelli dell’equità e del rinnovamento » e ha lo scopo di evitare che una disciplina storicamente anomala venga estesa
« al di fuori dei tempi e dei modi specificamente e direttamente da essa previsti »: L. Caiani, voce Analogia (teoria gen.), in Enc. dir., II, Milano 1958, p. 371 s.
COMMENTI
693
deve principalmente al significato « atecnico » che il termine assume nel linguaggio comune, idoneo a generare nei contraenti (o quantomeno in uno di
essi) una errata rappresentazione degli effetti del patto. I problemi di delimitazione della caparra confirmatoria rispetto ad altri istituti hanno prevalentemente investito figure affini, quali la caparra penitenziale, l’acconto e la cauzione. Tali istituti, pur presupponendo, alla stregua della caparra confirmatoria, la dazione di una somma di denaro o altre cose fungibili, svolgono funzioni diverse rispetto a quest’ultima, non essendo destinati a forfetizzare in via
anticipata il danno da inadempimento (20).
Nonostante le difformità sotto il profilo della struttura e degli effetti, rispetto alle indicate pattuizioni sovente esaminate dalla giurisprudenza, il patto che si avvicina maggiormente alla funzione spiegata dalla caparra in caso
di inadempimento è la clausola penale. In questa prospettiva, ad avviso di chi
scrive, il problema interpretativo da risolvere relativamente a casi come quello sottoposto al giudice rimettente sembra concernere il potere, da parte del
giudice, di qualificare la caparra in termini di clausola penale, a prescindere
dal nomen iuris accolto dai contraenti, nelle ipotesi in cui l’ammontare trasmesso sia nettamente superiore al danno prevedibile in caso di inadempimento. La descritta operazione ermeneutica si fonderebbe sull’assunto — che,
come visto supra, n. 2, sembra supportato sotto il profilo normativo (dall’art.
1385, comma 3o, c.c. e dalla mancanza di una norma sulla riduzione dell’ammontare) e, si direbbe, storico (alla luce del dibattito dottrinale antecedente e
immediatamente successivo all’entrata in vigore del codice) — secondo cui la
caparra confirmatoria, consistendo generalmente in un importo inferiore o
uguale a quello del danno prevedibile, in caso di inadempimento svolge esclusivamente la funzione di liquidazione preventiva del risarcimento (21).
Ebbene, sulla base delle indicate premesse circa la funzione « tipica »
della caparra confirmatoria, non sembra azzardato affermare che ove la som( 20 ) Com’è noto, a differenza della caparra confirmatoria, la caparra penitenziale costituisce il prezzo per il recesso; l’acconto configura soltanto un adempimento parziale della
prestazione; e la cauzione garantisce la corretta esecuzione della prestazione o il risarcimento del danno. Per maggiori approfondimenti, v. W. D’Avanzo, voce Caparra, in Nov. D., II,
Torino 1958, p. 894 ss.; G. Bavetta, op. cit., p. 212 ss. e p. 227 s.; F. Messineo, Il contratto
in generale, in Tratt. Cicu-Messineo, XXI, 1, Milano 1968, p. 220 s.; A. Marini, voce Caparra I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, V, Roma 1988, p. 2; M.S. Scardigno, Sulla
qualificazione giuridica della caparra confirmatoria, in Contratti, 2004, p. 987 ss.; M.
Bellante, op. cit., p. 9 nt. 10 e p. 123 ss. (con particolare riguardo ai criteri interpretativi
adottati dalla giurisprudenza).
( 21 ) Nel senso che la caparra confirmatoria non svolge una funzione sanzionatoria, come la clausola penale, ma esclusivamente una funzione risarcitoria, v. Cass. 16 maggio
2006, n. 11356, in Rep. F. it., 2006, voce Contratto in genere, n. 513; nella giurisprudenza
di merito, Trib. Pescara 19 aprile 2012, ined. Nella stessa direzione, da ultimo, I. Tardia,
Funzione confirmatoria della caparra e alternatività recessiva, in Rass. d. civ., 2009, p.
807 ss. In senso difforme, affermano che la caparra confirmatoria ha carattere sanzionatorio, W. D’Avanzo, op. cit., p. 895, il quale discorre di « pena civile »; A. Marini, voce Caparra I) Diritto civile, cit., p. 2.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
ma di denaro o la quantità di beni fungibili sia talmente eccessiva da doversi
ritenere che la caparra non abbia il solo scopo di risarcire il danno, essa non
svolge una funzione corrispondente a quella dell’istituto disciplinato dall’art.
1385 c.c., ma integra una delle funzioni della clausola penale. Infatti, secondo l’indirizzo ormai prevalente in dottrina, la clausola penale disciplinata dagli artt. 1382 ss. c.c. è in grado di esplicare diverse funzioni: può avere lo scopo di risarcire in via forfetaria il risarcimento del danno o, inducendo il debitore ad adempiere mediante il pagamento di una somma nettamente superiore all’ammontare del risarcimento del danno che spetterebbe al creditore in
base alle regole legali, assumere un carattere marcatamente sanzionatorio (22).
Proprio quando la clausola svolge una funzione sanzionatoria, funzione
che nelle intenzioni del legislatore non sembra competere alla caparra confirmatoria, viene in considerazione il controllo giudiziale della somma prevista a
titolo di penale e non si vede perché il medesimo trattamento non debba essere riservato alla « caparra » avente lo stesso obiettivo. In questi casi, per assicurare il controllo giudiziale dell’ammontare stabilito in via forfetaria, senza
mettere in dubbio la natura eccezionale della norma dell’art. 1384 c.c., appare necessario qualificare la caparra confirmatoria in termini di clausola penale.
In proposito, occorre osservare che la « tipizzazione » legale — intesa come predisposizione di una disciplina specifica riservata a manifestazioni della
volontà privata frequentemente ricorrenti nella pratica — non è un fenomeno
diffuso con riguardo a singole clausole e, generalmente, persegue in primo
luogo l’obiettivo di limitare l’autonomia contrattuale a tutela di specifici interessi ritenuti meritevoli. Il regime della clausola penale contiene un nucleo
imperativo fatto proprio da quasi tutte le codificazioni che, apprestando vincoli e cautele, in particolare, attraverso la norma sul controllo giudiziale, è
( 22 ) Secondo l’indirizzo ormai prevalente, la clausola penale può svolgere diverse funzioni, in particolare quella risarcitoria e quella sanzionatoria o punitiva: cfr. G. Gorla, Il
contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico, I, Lineamenti generali, Milano 1955, p. 240 ss. In epoca più recente, v. G. De Nova, voce Clausola
penale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., II, Torino 1988, p. 377; A. Zoppini, La pena contrattuale, cit., p. 16 nt. 34; V. Roppo, Il contratto2, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 2011, p. 928;
P. Iamiceli, Effetti della clausola penale, sub Art. 1382, in Commentario del codice civile,
diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, II, Torino 2011, p. 961 ss.; A. Orestano,
Danno contrattuale e autonomia privata: la clausola penale, in Le tutele contrattuali e il
diritto europeo. Scritti per Adolfo di Majo, Napoli 2012, p. 413 ss. Nella giurisprudenza,
cfr. Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, in F. it., 2005, I, c. 2985 ss.: « Nel disciplinare l’istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all’autonomia delle
parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l’ammontare
del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare
l’aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del
danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico
di quest’ultimo una sanzione per l’inadempimento (se se ne vuole privilegiare l’aspetto sanzionatorio) ».
COMMENTI
695
destinato a rispondere all’esigenza di protezione di interessi ritenuti di particolare rilievo (23). In questo quadro, il mancato intervento del giudice, volto a
rettificare l’erronea qualificazione attribuita dai contraenti, non conforme alla
funzione della clausola, vanificherebbe l’obiettivo di politica del diritto avuto
di mira dal legislatore (24).
Peraltro, anche prescindendo dal profilo funzionale o causale, generalmente utilizzato quale criterio per qualificare i contratti, il solo dato normativo sembra sottendere che la tipizzazione legale operata per la clausola penale,
in virtù della norma sulla riduzione giudiziale, riguardi altresì forfetizzazioni
del risarcimento di valore superiore al danno prevedibile; mentre quella relativa alla caparra confirmatoria, in presenza dell’art. 1385, comma 3o — che
consente, in assenza di specifica pattuizione, di agire per il risarcimento del
danno secondo le regole legali —, appare ideata per forfetizzazioni del risarcimento di valore inferiore al danno prevedibile.
Sulla base dei suddetti rilievi sembra possibile, facendo ricorso al metodo
tipologico, affermare che, con riguardo alla fattispecie dell’inadempimento, il
tratto distintivo tra clausola penale e caparra confirmatoria è dato dall’ammontare del risarcimento stabilito in via forfetaria (25). Nei casi in cui la clausola abbia per oggetto un ammontare superiore al risarcimento del danno
prevedibile essa deve essere ricondotta alla disciplina di controllo della clausola penale (26).
( 23 ) Cfr. la ricostruzione storica, incentrata sul controllo giudiziale della clausola penale
nelle codificazioni giusnaturalistiche e nel BGB, di R.-P. Sossna, Die Geschichte der Begrenzung von Vertragsstrafen. Eine Untersuchung zur Vorgeschichte und Wirkungsgeschichte der Regel des § 343 BGB, Berlin 1993, p. 138 ss.
( 24 ) V. C. Scognamiglio, Problemi della causa e del tipo, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano 2006, p. 198 s., il quale
tuttavia afferma che non può negarsi ogni rilevanza alla scelta dichiarata dai contraenti.
Nel senso che la tipizzazione legale talvolta non ha lo scopo di fissare diritti ed obblighi delle parti, ma di limitare la portata delle pattuizioni a tutela di interessi esterni, v. V. Roppo,
Il contratto2, cit., p. 398. Sulla rilevanza che il processo di tipizzazione del giudice assume
in ordine all’applicazione di norme imperative, cfr. G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova 1974, p. 24 ss.
( 25 ) Sul metodo tipologico, con ampi riferimenti alla dottrina tedesca, v. G. De Nova, Il
tipo contrattuale, cit., p. 121 ss., il quale afferma che, a parte il caso dei contratti a titolo gratuito, il modo di perfezionamento del contratto non assurge a elemento distintivo tra tipi (p.
109 ss.). In argomento, v. anche M. Costanza, Il contratto atipico, Milano 1981, p. 223 ss.
( 26 ) Sulla questione si tornerà in chiusura, ma occorre sottolineare fin d’ora come, nei
casi in cui la penale risulti manifestamente eccessiva, la soluzione proposta corrisponda nella sostanza a quella che discenderebbe dall’applicazione in via analogica dell’art. 1384 c.c.,
esclusa dalla giurisprudenza in virtù della natura eccezionale della norma. Sui problemi del
ricorso all’analogia, dati dalla presenza di norme eccezionali, per estendere parte della disciplina di un tipo legale a un contratto non sussumibile nello stesso tipo legale, v. G. De
Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 170 ss. Sotto il profilo metodologico, v. da ultimo D. Carusi, La legge e il tempo, in Rass. d. civ., 2013, p. 329: « Quante volte — solo per fare un
esempio evidente — applichiamo a contratti atipici norme riferentisi a qualche tipo o sot-
696
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
La soluzione descritta è stata accolta in altre esperienze giuridiche caratterizzate da un quadro normativo simile a quello italiano, poiché è prevista la
riduzione della penale, ma non della caparra.
Ad esempio, dai lavori preparatori del codice civile tedesco si evince che, alla
luce del potere del giudice di qualificare la caparra in termini di clausola penale,
indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalle parti, la previsione di una disposizione sulla riduzione della caparra (Draufgabe, disciplinata dai §§ 336-338
BGB) è stata ritenuta inutile in virtù della presenza della norma sulla riduzione
della penale « sproporzionatamente eccessiva » (§ 343 BGB) (27). Ne deriva che,
nei casi in cui l’ammontare della caparra risulta eccessivo, il giudice è tenuto ad
applicare il regime giuridico della clausola penale.
Nell’Obligationenrecht svizzero la caparra (Haftgeld) corrisposta al momento della stipulazione del contratto, in caso di inadempimento, ai sensi dell’art. 158, comma 2o, resta alla parte che l’ha ricevuta e assume la funzione di
Konventionalstrafe, il cui ammontare è soggetto a riduzione giudiziale in base
all’art. 163, comma 3o (28).
Ragioni analoghe hanno indotto la giurisprudenza portoghese, in due celebri sentenze, ad estendere il controllo giudiziale previsto in materia di clausola penale (art. 812 Código Civil) alla caparra confirmatoria (sinal) manifestamente eccessiva, disciplinata dall’art. 442 Código Civil (29). I giudici portoghesi hanno rilevato che anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice,
totipo regolato e facenti eccezione ad altre più generali? Lo facciamo in nome del contratto
misto, della combinazione delle cause, del metodo tipologico — sovrastrutture in buona
parte figlie della cattiva coscienza ispirataci dall’art. 14 delle preleggi —, ma lo facciamo
— questa è la verità — ragionando analogicamente ».
( 27 ) Cfr. V. Rieble, sub § 338 BGB, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, Berlin 2009, p. 242, Rn. 3, secondo cui la norma sulla riduzione giudiziale verrà applicata alla caparra, quale vera e propria penale; P. Gottwald, sub § 338
BGB, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch6, München 2012, p. 2294,
Rn. 1, il quale riprendendo i dibattiti svolti nel corso dei lavori preparatori, fa notare l’inutilità di una specifica previsione in materia di caparra, atteso che, nel caso in cui essa sia
sproporzionatamente eccessiva, il patto verrà qualificato come clausola penale; D. Medicus
e S. Lorenz, Schuldrecht, I, Allgemeiner Teil20, München 2012, Rn. 543.
( 28 ) F.R. Ehrat, sub Art. 158, in H. Honsell, N.P. Voigt e W. Wiegand (Hrsg.), Basler
Kommentar. Obligationenrecht5, I, Basel 2011, p. 874, Rn. 5: « Bei Nichterfüllung der Vertragsschuld durch den Schuldner wird das Haftgeld funktionell zu einer zum voraus entrichteten und kumulativ (neben einer allfälligen Schadenersatzpflicht) geschuldeten Konventionalstrafe umgewandelt ».
( 29 ) Acórdão do Supremo Tribunal de Justiça de 8 Março de 1977 e de 1 de Fevereiro
de 1983. Sulle pronunce v. amplius A. Pinto Monteiro, Cláusula penal e indemnização,
Coimbra 1990, rist. 1999, p. 215 ss. In termini critici, N.R. Bernardo, Sinal - Da sua Irredutibilidade por Equidade (Um problema de aplicação do artigo 812o do Código Civil ao
sinal), in Rev. da Ordem dos Advogados, 1996, I, p. 411 ss., secondo cui l’applicazione della norma sulla riduzione alla caparra ha l’effetto di limitare eccessivamente l’autonomia dei
contraenti. Ad avviso dell’Autore, nel caso della caparra eccessiva, mezzi di tutela adeguati
sarebbero offerti, al contraente inadempiente, dalla disciplina dei vizi della volontà, dal divieto di usura e dal divieto di abuso del diritto.
COMMENTI
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attesa l’analogia da un punto di vista funzionale, la caparra era considerata
una vera e propria clausola penale; l’assenza di una norma ad hoc sulla riducibilità sarebbe dovuta soltanto alla non frequente evenienza nella prassi di
caparre di ammontare eccessivo (30).
Nell’esperienza giuridica spagnola, al fine di rendere applicabile il regime
della clausola penale alla caparra confirmatoria, i giudici di legittimità, in via
interpretativa, hanno coniato la categoria della « caparra penale », soggetta al
potere di riduzione stabilito dall’art. 1154 Código Civil (31).
La tendenza segnalata si riscontra anche nell’orientamento della giurisprudenza francese, la quale, ponendo l’accento sul profilo funzionale, è incline a qualificare come clausola penale la clausola di immobilizzazione, con la
quale la parte venditrice si obbliga a mantenere ferma un’offerta per un determinato periodo di tempo contro il pagamento di una somma di denaro, nei
casi in cui la pattuizione alla luce dell’ammontare stabilito eserciti un’efficacia compulsoria nei confronti dell’acquirente (32).
A completamento della breve indagine comparatistica si segnala che, diversamente da quanto avviene negli ordinamenti finora presi in considerazione, in Austria il problema della caparra confirmatoria eccessiva (Angeld, disciplinata dal § 908 ABGB) viene generalmente risolto mediante l’applicazione analogica della norma sulla riduzione della clausola penale (Konventionalstrafe, disciplinata dal § 1336 ABGB) (33), ma la giurisprudenza in alcuni
casi ha affermato che la pattuizione di una somma di ammontare eccessivo
non può corrispondere alla volontà di ritenere la caparra o trasmettere il doppio dell’importo in caso di inadempimento (34) e, in decisioni molto risalenti,
ha dichiarato la nullità della pattuizione per contrarietà al buon costume ex §
( 30 ) Cfr. A. Pinto Monteiro, op. loc. cit.
( 31 ) Cfr. Tribunale Supremo 10 ottobre 2006 e 27 ottobre 2010: su cui v. I. Marín García, Enforcement of Penalty Clauses in Civil and Common Law: A Puzzle to be Solved by
the Contracting Parties, 5, 1 EJLS (2012), p. 92 s.; A. Valiño, La cláusula penal nel código civil, in La pena convenzionale nel diritto europeo, a cura di S. Cherti, Napoli 2013, p.
104. Il termine « caparra penale » o « clausola penale impropria » ha spesso trovato ingresso in contributi risalenti della nostra dottrina: cfr., ad esempio, V.M. Trimarchi, voce Caparra (dir. civ.), cit., p. 197; e, nel vigore del codice civile del 1865, A. Scevola, voce Caparra, in Dig., VI, I, Torino 1888, p. 727, i quali affermavano l’applicabilità delle norme
della clausola penale alla caparra confirmatoria.
( 32 ) Sul punto, v. le rassegne giurisprudenziali di J.S. Borghetti, La qualification de
clause pénale, in RDC, 2008, p. 1158 ss. e Retour sur la qualification de clause pénale,
ivi, 2009, p. 88 ss. La c.d. « indemnité d’immobilisation » non è disciplinata dal Code civil, ma risulta sovente utilizzata, a tutela della parte venditrice, nell’ambito di vendite immobiliari.
( 33 ) R. Reischauer, sub § 908 ABGB, in P. Rummel (Hrsg.), Kommentar zum Allgemeinen bürgerlichen Gesetzbuch3, I, Wien 2000, p. 1604, Rn. 12.
( 34 ) OGH 29.9.1981, 4 Ob 543/81, in JBl, 1982, p. 255 ss. Nella specie, la somma corrisposta era pari al 13,5% del prezzo dei beni compravenduti e la Corte austriaca, sovvertendo l’esito del giudizio di merito, ha qualificato l’atto in termini di « acconto ».
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
879 ABGB (35).
4. — Il secondo difetto della motivazione dell’ordinanza del Tribunale di
Tivoli si sostanzia, a parere della Corte costituzionale, nel non tenere conto
della possibile rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale) della caparra, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con l’art. 2 Cost., che entrerebbe « direttamente nel contratto », in « combinato contesto » con il canone
della buona fede.
Sebbene il significato del passaggio della decisione si presti a diverse letture, la tecnica interpretativa adottata dalla Corte costituzionale nel delineare
i rapporti tra principio fondamentale e clausola generale sembra implicare
l’efficacia diretta del precetto costituzionale nei rapporti tra privati (36). Difforme appare la risalente teoria tedesca della mittelbare Drittwirkung accolta
dal Bundesverfassungsgericht, secondo cui, com’è noto, le norme costituzionali vincolano i consociati nei loro rapporti giuridici di natura privata attraverso le clausole generali e le altre norme del diritto privato, interpretate alla
luce dei diritti fondamentali (37).
Per suffragare la suddetta interpretazione, la Corte costituzionale richiama alcuni celebri precedenti della Corte di Cassazione: in particolare, la sentenza che ha deciso il « caso Fiuggi » (38), due interventi in tema di riducibili-
( 35 ) Cfr. R. Dittrich e H. Tades (Hrsg.), Das Allgemeine bürgerliche Gesetzbuch36, II,
Wien 2003, p. 1188.
( 36 ) Il suddetto convincimento si ricava anche dalla tesi che l’estensore della riportata ordinanza ha sostenuto in altra sede: M.R. Morelli, Materiali per una riflessione sulla applicazione diretta delle norme costituzionali da parte dei giudici, in Giust. civ.,
1999, II, p. 3 ss. Nel senso invece che il dovere di solidarietà esige « la mediazione della
legge », v. N. Irti, Concetto giuridico di mercato e dovere di solidarietà, in questa Rivista, 1997, I, p. 189; G.B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in D. e giur.,
2004, p. 8.
( 37 ) Cfr. il noto « Lüth-Urteil » del 1958, che, ad avviso di molti, ha dato inizio al processo di « costituzionalizzazione » del diritto privato tedesco: BVerfG15.1.1958-1 BvR
400/57, in NJW, 1958, p. 257 ss., secondo cui: « nel diritto civile il contenuto giuridico dei
diritti fondamentali si dispiega indirettamente attraverso le disposizioni di diritto privato.
Esso concerne soprattutto norme inderogabili ed è per il giudice eminentemente realizzabile
attraverso le clausole generali ».
( 38 ) Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in F. it., 1995, I, c. 1296 ss., con osservazioni di
C.M. Barone: « La clausola, inserita nei contratti “per la conduzione e l’esercizio delle concessioni delle sorgenti di acqua minerale” e “per la locazione degli stabilimenti termali”
conclusi dal comune di Fiuggi con un privato, che, attribuendogli “la piena libertà” di determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, consente al medesimo privato di bloccare tale
prezzo nonostante la svalutazione monetaria, impedendo allo stesso comune di conseguire
anche l’adeguamento del canone correlato al ripetuto prezzo, è contraria al principio di
buona fede che, per il suo valore cogente, concorre a formare la regula iuris del caso concreto, determinando, integrativamente, il contenuto e gli effetti dei contratti e orientandone, ad un tempo, l’interpretazione e l’esecuzione ».
COMMENTI
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tà d’ufficio della penale manifestamente eccessiva (39), e la recente pronuncia
sull’abuso del diritto (40).
Se le sentenze citate applicano la clausola generale di buona fede e, in alcuni casi, nelle motivazioni compare il riferimento al dovere inderogabile di
solidarietà ex art. 2 Cost., a differenza di quanto avviene nell’ordinanza della
Corte costituzionale, esse non ricorrono all’istituto della nullità.
Il profilo dell’applicazione del precetto costituzionale merita attenzione
perché l’argomentazione fondata sulla norma costituzionale e sulla clausola di
buona fede è questa volta utilizzata dal giudice delle leggi. Inoltre, con il ricorso a una norma di rango costituzionale ritenuta direttamente applicabile
nei rapporti tra i privati, essa si inserisce in un orientamento della giurisprudenza che, attraverso l’uso dei principi e delle clausole generali, riconosce ai
soggetti una forma di tutela nel caso concreto, anche nell’ambito di situazioni
non espressamente disciplinate dalla legge per garantire, limitando l’autonomia privata attraverso l’intervento del giudice, un risultato « equo » o, secondo una terminologia ormai in voga, « giusto » (41).
( 39 ) Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, cit., pubblicata anche in Corr. giur.,
2005, p. 1534 ss., con nota di A. di Majo, La riduzione della penale ex officio; in Obbligazioni e contratti, 2006, p. 15 ss., con nota di V. Pescatore, Riduzione d’ufficio della penale
e ordine pubblico economico; in Europ. d. priv., 2006, p. 353 ss., con nota di G. Spoto, La
clausola penale eccessiva tra riducibilità di ufficio ed eccezioni di usura; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in F. it., 2000, I, c. 1929 ss., con nota di A. Palmieri, La riducibilità
« ex officio » della penale e il mistero delle « liquidated damages clauses »; in Contratti,
2000, p. 118 ss., con nota di G. Bonilini, Sulla legittimazione attiva alla riduzione della
penale.
( 40 ) Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in F. it., 2010, I, c. 85 ss., con nota di A. Palmieri-R. Pardolesi, Della serie « a volte ritornano »: l’abuso del diritto alla riscossa; in
Contratti, 2010, p. 5 ss., con nota di G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso
del diritto; in Nuova g. civ. comm., 2010, I, p. 231 ss., con note di C. Scognamiglio, Abuso
del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), e F. Viglione, Il giudice riscrive il contratto per le
parti: l’autonomia negoziale stretta tra giustizia, buona fede e abuso del diritto; in Resp.
civ., 2010, p. 345 ss., con nota di A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione
(commentata altresì da F. Macario, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una recente sentenza della Cassazione, in Corr. giur., 2009, p.
1577 ss.; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass. 18 settembre 2009, n.
20106), in questa Rivista, 2010, II, p. 147 ss.; F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem
laedit?, in Contratto e impr., 2011, p. 311 ss.), secondo cui si ha abuso del diritto quando
un potere od una facoltà, attribuiti ad un soggetto dal contratto, vengano esercitati con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, con uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti; ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito dichiarare inefficaci gli atti compiuti in
violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del
proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere.
( 41 ) Il problema della « giustizia contrattuale », già affrontato dagli studiosi della materia (cfr., ad esempio, F. Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contrat-
700
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
I rapporti tra il principio di solidarietà e la clausola generale, così come
delineati dalla ordinanza della Corte costituzionale, corrispondono alle opinioni espresse dall’estensore del provvedimento in uno scritto della fine del
secolo scorso, al quale conviene attingere per chiarire il significato della formula, accolta dalla Corte, secondo cui il principio di solidarietà e la clausola
generale opererebbero in « combinato contesto » (42).
Nella prospettiva del citato studioso, la norma costituzionale avrebbe la
funzione di « integrare » la clausola generale, creando un « effetto sinergico
delle due regole in combinazione », sicché « all’un tempo, per un verso la disposizione ordinaria si completi e si definisca, in senso evolutivo attraverso
l’introduzione di valori costituzionali nel suo nucleo precettivo e, per altro
verso e reciprocamente, quei “valori”, attraverso il presidio della sanzione offerta dalla norma codicistica, passino dallo stadio del valore enunciato a quello del valore attuato » (43).
Diversamente, com’è noto, autorevole dottrina ha affermato che il principio costituzionale in tale contesto possiede « più un valore retorico-persuasivo
che una funzione argomentativa fondante », in quanto la clausola della buona
fede « esprime già di per se stessa, come proprio fondamento etico, un dovere
di solidarietà tra le parti del rapporto — nel senso specifico [secondo una locuzione spesso proposta dalla giurisprudenza] di dovere di ciascuna parte di
assicurare l’utilità dell’altra nella misura in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico — » (44).
L’Autore da ultimo richiamato dà però atto che l’art. 2 Cost. ha contribuito ad una rivalutazione della clausola generale che, in contrasto con
l’orientamento dominante all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile,
ha indotto gli studiosi a considerare la clausola di buona fede una delle principali innovazioni del codice civile del 1942 (45).
Il riferimento ovviamente è ai noti studi che, nel periodo in cui la civilistica era impegnata a chiarire i rapporti tra diritto civile e Costituzione, definito stagione del « disgelo costituzionale » e identificabile con gli anni Sessanto e impr./Europ., 2005, p. 509 ss.; V. Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche:
verso una revisione della teoria del contratto?, in Pol. d., 2007, p. 451 ss.) ha assunto un
rilievo tale da aver spinto all’elaborazione di un’apposita voce enciclopedica: v. R. Sacco,
voce Giustizia contrattuale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2012, p. 534 ss.
( 42 ) M.R. Morelli, op. cit., p. 3 ss.
( 43 ) M.R. Morelli, op. cit., p. 5.
( 44 ) Le espressioni citate sono di L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 9, il quale conclude in merito al rapporto tra buona fede e
dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., affermando che « il contenuto assiologico della clausola della correttezza e della buona fede è sempre in grado, per chi sappia (e voglia) leggerla,
di tradursi in giudizi di dover essere appropriati al caso concreto, senza bisogno di stampelle costituzionali ». Sul pensiero dell’Autore, v. L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europ. d. priv., 2007, p. 411 ss.
( 45 ) L. Mengoni, op. cit., p. 10.
COMMENTI
701
ta e Settanta del secolo trascorso (46), hanno individuato nei principi costituzionali, e in particolare nel principio di solidarietà, il criterio al quale orientarsi per determinare il contenuto della « correttezza » nei rapporti obbligatori, assicurando in questo modo un più elevato grado di effettività alla clausola
generale (47).
In epoca attuale, nonostante il breve periodo trascorso, la giurisprudenza,
sulla scorta di interventi del legislatore europeo e indirizzi dottrinali volti a
mettere in luce le esigenze di tutela di fronte a condotte sleali della controparte contrattuale, sembra aver maturato una nuova consapevolezza con riguardo all’uso della clausola generale come strumento di controllo dell’autonomia
privata, riscontrabile nelle innumerevoli sentenze in cui trova applicazione
l’obbligo di comportamento secondo buona fede ma non viene menzionato il
principio di solidarietà (48).
Il mutamento degli ultimi anni induce a porsi l’interrogativo se la spinta
propulsiva del processo di rivalutazione della clausola generale, operata per
mezzo della norma costituzionale, debba ormai ritenersi conclusa senza che
residuino ulteriori esigenze alle quali, in materie in cui sono esclusivamente in
gioco interessi patrimoniali, il richiamo all’art. 2 Cost., assieme alla clausola
generale della buona fede, potrebbe rispondere. In proposito, la Corte costituzionale, affermando nell’ordinanza che il principio di solidarietà costituisce
un limite applicabile in via diretta (assieme alla clausola generale di buona
fede) nei rapporti tra privati, esprime la necessità di rilevare il nesso funzionale tra le due norme, evidenziando che la clausola generale deve essere concretizzata nel rispetto delle istanze sociali e politiche ricavabili dal principio
( 46 ) Cfr. P. Rescigno, Introduzione al codice civile, Roma-Bari 1991, 56 ss.; F. Macario, L’autonomia privata, in Gli anni Settanta del diritto privato, a cura di L. Nivarra, Milano 2008, p. 119 ss.; F. Macario-M. Lobuono, Il diritto civile nel pensiero dei giuristi. Un
itinerario storico e metodologico per l’insegnamento, Padova 2010, p. 109 ss.
( 47 ) S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1964, rist. 1970, p. 151
s.; A. di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano 1967, p. 373 s. Nel senso che l’art. 2
Cost. costituisce una direttiva fondamentale per l’attuazione degli istituti civilistici nell’ambito dei rapporti tra privati, già R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. dir., II, Milano 1964,
p. 909. Individua nel principio di solidarietà una « direttiva costituzionale alla specificazione giudiziale dell’equità », F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano 1970, p. 391 ss.
Nella prospettiva indicata, sebbene muova da riflessioni ideologicamente orientate, v. anche
F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli 1970, p. 175 ss., spec. p. 197 ss.
( 48 ) Tra le sentenze recenti che applicano la clausola generale della buona fede senza
richiamare il precetto costituzionale dell’art. 2 Cost. nell’ambito di diversi settori del diritto
privato, cfr. Cass., sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10568, in Mass. F. it., 2013, 349; Cass. 21
dicembre 2012, n. 23823, in Contratti, 2013, p. 553 ss., con nota di M. Della Chiesa, Inadempimento e risoluzione anticipata del contratto; Cass. 27 novembre 2012, n. 21004, in
Arch. locaz., 2013, p. 163; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Ravenna 11 maggio
2011, in D. maritt., 2013, p. 642, con nota di T. Capurro, La rinegoziazione secondo buona fede del contratto di noleggio di nave; Trib. Bari, ord. 31 luglio 2012, in F. it., 2013, I,
c. 375 ss., che fondano sulla clausola generale di buona fede l’obbligo di rinegoziare il contenuto del contratto in caso di sopravvenienze non previste dalle parti.
702
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
costituzionale (49). Per determinare il contenuto della clausola generale si dovrà però necessariamente avere riguardo agli elementi economici del singolo
rapporto contrattuale (50).
Peraltro, a completamento del quadro, giova ricordare che l’argomentazione presente nella motivazione non è nuova, in quanto, per mano dello stesso estensore della ordinanza, essa aveva fatto ingresso sotto forma di obiter
dictum nella giurisprudenza di legittimità per dare fondamento, mediante
un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1384 c.c., alla tesi
della riducibilità d’ufficio della penale (51). Le vivaci critiche rivolte alla decisione (52), che hanno preceduto quelle riservate alla sentenza sull’abuso del
( 49 ) Sul significato del principio di solidarietà, cfr., in prospettiva diacronica, F.D. Busnelli, Il principio di solidarietà e « l’attesa della povera gente », oggi, in R. trim. d. proc.
civ., 2013, p. 413 ss., il quale, con riguardo all’utilizzazione del principio in materia contrattuale, sembra esprimersi in termini critici su giudizi negativi emessi da alcuni studiosi
(p. 417).
( 50 ) Per questi svolgimenti, v. G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto,
Torino 2004, p. 70 ss., il quale, come strumento di concretizzazione del principio generale
di solidarietà sociale nell’ambito della singola fattispecie contrattuale, ricorre al concetto di
« solidarietà contrattuale », che si sostanzia in un obbligo di condotta della parte che abbia
in considerazione anche l’interesse dell’altro contraente. Nello stesso senso già C.M. Bianca,
La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in questa Rivista,
1983, I, p. 209. Ritiene che la concretizzazione della clausola generale debba rinnovarsi in
ogni applicazione, alla luce delle esigenze di regolamentazione della singola fattispecie, S.
Patti, L’interpretazione delle clausole generali, ivi, 2013, p. 274.
( 51 ) Ci si riferisce a Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, cit. (est. M.R. Morelli) in cui i
rapporti tra dovere di solidarietà e clausola generale di buona fede sono delineati in modo
analogo rispetto all’ordinanza in commento, al fine di risolvere il problema esegetico dell’art. 1384 c.c., nel senso di scegliere « tra due interpretazione possibili [...] quella conforme, o più conforme a Costituzione », ossia quella secondo cui la penale è riducibile ex officio. Per una rassegna delle principali pronunce che hanno portato all’affermazione, da parte delle Sezioni unite, della riducibilità d’ufficio della penale, v., da ultimo, G. Smorto, voce
Clausola penale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2013, p. 144 ss.
( 52 ) Cfr. soprattutto G.B. Ferri, op. cit., spec. p. 8 ss., il quale contesta in particolar modo la « filosofia » eccessivamente funzionalista da cui — a parere dell’Autore — muoverebbero gli « inutili obiter dicta » di Cass. 1999/10511 ove, in definitiva, si afferma l’esistenza
di un potere di intervento modificativo del giudice al fine di realizzare un « interesse oggettivo dell’ordinamento » (così l’affermazione contenuta in Cass. 23 maggio 2003, n. 8188, in
D. e giur., 2004, p. 104 ss.). Un giudizio positivo è invece offerto da F. Galgano, La categoria
del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e impr., 2000, p. 925 s., il quale rileva come la Suprema Corte abbia accolto una visione moderna del contratto, basata sulle concezioni oggettivistiche volte a garantire la congruità dello scambio contrattuale. In merito
agli argomenti adoperati dal giudice di legittimità, cfr. anche il contributo ricco di riferimenti
dottrinali di M. Grondona, Buona fede e solidarietà; giustizia contrattuale e poteri del giudice sul contratto: annotazioni a margine di un obiter dictum della Corte di cassazione, in R. d.
comm., 2003, II, p. 242 ss. Nel medesimo periodo si esprime in senso contrario nei confronti
di un generalizzato intervento del giudice, P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, p. 231: « in linea di principio [...] il giudice “non può mettere i piedi nel
piatto” e modificare d’imperio le condizioni dello scambio, neppure quando lo faccia allo
scopo di assicurare la “giustizia” sostanziale della transazione ».
COMMENTI
703
diritto, inducono a ritenere che il problema avvertito in via preminente dagli
studiosi, con riguardo al tema in esame, non concerne strettamente il rapporto tra principio costituzionale e clausola generale, ma la delimitazione dei poteri di intervento del giudice sul regolamento contrattuale. All’affermarsi di
una tecnica interpretativa del dato normativo orientata ad indici assiologici
consegue la preoccupazione che il frequente riferimento al dovere di solidarietà, o a ulteriori norme costituzionali, venga adoperato dai giudici come base
argomentativa per fondare interpretazioni innovative, idonee a ridurre in maniera eccessiva l’autonomia dei contraenti (53). Di qui, l’esigenza in punto di
metodo di risolvere il « problema dell’individuazione dei valori », attraverso
la ricerca di criteri che consentano il controllo del procedimento interpretativo
fondato su principi generali (54).
5. — Con riferimento al profilo degli effetti scaturenti dalla violazione
del precetto costituzionale, la Corte, nel dichiarare la nullità della clausola le( 53 ) In proposito, i « segni del declino del metodo » (del richiamo alla norma costituzionale nell’ambito dei rapporti contrattuali) sono avvertiti da E. Navarretta, Diritto civile e
diritto costituzionale, in questa Rivista, 2012, I, p. 651 s., riguardo ad un obiter dictum
della menzionata sentenza sull’abuso del diritto. In effetti, in Cass. 18 settembre 2009, n.
20106, il frequente riferimento al dovere di solidarietà sembra adoperato dai giudici per
fondare interpretazioni innovative, volte a consentire un intervento del giudice sul regolamento contrattuale: cfr., ad esempio, il passaggio della sentenza in cui si afferma che « Il
principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, e, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche » e se ne trae
la conseguenza che « Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il
giudice, finalizzato al controllo — anche in senso modificativo o integrativo — dello statuto
negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi ». Sulla stessa linea, v. Cass. 1o aprile 2011, n. 7557, in G. it., 2012, p. 543 ss., la quale, nel valutare se un
contratto atipico sia diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela, utilizza come parametro le norme costituzionali per verificare l’equilibrio tra le prestazioni contrattuali. Sulla
pronuncia, v. A.M. Garofalo, La causa del contratto tra meritevolezza degli interessi ed
equilibrio dello scambio, in questa Rivista, 2012, II, p. 606 ss.
( 54 ) Cfr. N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, in R. trim. d.
proc. civ., 2003, p. 865 ss., il quale, posto che i principi costituzionali, utilizzati dai giudici
ordinari, si sostanziano in « criteri-forza cui ancorare, in chiave di valore, la soluzione concreta dei conflitti » descrive due criteri « per una corretta individuazione dei valori »: il criterio della « totalità », secondo cui l’interprete deve considerare l’esperienza giuridica nella
sua globalità, e quello della « cronologia critica », in base al quale è necessario avere presente il contesto storico di riferimento. Afferma che il nesso tra diritto privato e Costituzione si risolve in una « costruzione mentale dei giuristi », P. Barcellona, Lo spirito dei tempi,
in Contratto e Costituzione in Europa, a cura di G. Vettori, Padova 2006, p. 37. Sull’utilizzazione dei principi come base per un’interpretazione evolutiva del diritto, già J. Esser,
Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1956, p.
242 ss., secondo cui il principio nasce nella prassi e la dottrina ha il compito di dargli forma (p. 248).
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
siva del dovere di solidarietà e del canone della buona fede, non si è soffermata sui rapporti tra regole di validità e regole di comportamento. Sul punto,
con un noto intervento a Sezioni unite, la Suprema Corte, aderendo all’indirizzo tradizionalmente accolto in dottrina, ha affermato che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, soltanto la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità « e
non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità » (55).
Con tutta probabilità il riferimento al regime della nullità è preordinato
alla invalidazione (totale o parziale) della caparra in contrasto con il precetto
costituzionale (56). L’orientamento appare rivolto al raggiungimento del medesimo risultato ottenibile in materia di clausola penale ex art. 1384 c.c. per
il tramite di norme di carattere generale e, posto che sul piano dogmatico, diversamente — come si vedrà a breve — da quanto avviene nell’esperienza
giuridica tedesca, la violazione della clausola generale di buona fede rileva
soltanto sotto il profilo della responsabilità, il ricorso al regime della nullità si
rende necessario per espungere dal contratto la clausola considerata iniqua e
in contrasto con il dovere di solidarietà (o parte di essa, come sembra potersi
ricavare dall’ordinanza in commento). La soluzione che emerge dalla ordinanza della Corte costituzionale in tema di caparra si discosta così da quella
generalmente accolta per la clausola che preveda una penale di ammontare
eccessivo, considerata valida sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, ancorché la penale sia soggetta a riduzione (57).
( 55 ) Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Rep F. it., 2008, voce Intermediazione finanziaria, n. 200, e n. 26724, in F. it., 2008, I, c. 784, con nota di E. Scoditti, La
violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite.
Sulle pronunce, v. C. Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi ed i
rimedi, in Europ. d. priv., 2008, p. 599 ss., il quale rileva che la soluzione « tradizionale »
accolta dalla Suprema Corte corrisponde all’impostazione di L. Mengoni, op. cit., p. 9: « In
nessun caso comunque, secondo la dogmatica del nostro codice civile, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per i
danni ».
( 56 ) Argomentazioni analoghe a quelle presenti nell’ordinanza in commento si trovano in
M.R. Morelli, op. cit., p. 11 ss., secondo cui il precetto costituzionale consente di « attribuire
alla clausola di correttezza anche la vis imperativa del precetto costituzionale, con la conseguenza che l’introduzione nello statuto negoziale di regole contrastanti con la buona fede va
ad integrare la violazione di norme imperative sanzionate di nullità dall’art. 1418 c.c. ».
( 57 ) Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, cit.; Cass. 23 maggio 1985, n. 3120,
in Rep. F. it., 1985, voce Contratto in genere, n. 195; App. Milano 23 luglio 2004, in Contratti, 2005, p. 1113 ss., con nota di A. Maniàci, Clausola penale eccessiva: « inefficacia » o
riducibilità?. In dottrina, sulla stessa linea, v., tra gli altri, V.M. Trimarchi, La clausola penale, Milano 1954, p. 136; A. Zoppini, La pena contrattuale, cit., p. 245 ss.; G. Bonilini,
Sulla legittimazione attiva alla riduzione della penale, cit., p. 124; contra, nel senso che la
penale eccessiva deve considerarsi nulla: T. Febbrajo, La riducibilità d’ufficio della penale
manifestamente eccessiva, in Rass. d. civ., 2001, p. 612 ss.; D. Russo, Il patto penale tra
funzione novativa e principio di equità, Napoli 2010, p. 196 ss.
COMMENTI
705
Allo scopo di comprendere le difficoltà che potrebbero incontrare i giudici nell’applicare il tipo di controllo prospettato dalla Corte costituzionale —
che sembra dar vita ad una riduzione del risarcimento determinato in via forfetaria posta in essere « sulla base di clausole generali » —, è opportuno esaminare una soluzione di recente adottata dal Bundesgerichtshof (BGH), che
ha spesso affrontato problemi connessi alla clausola penale adoperando la
clausola generale di buona fede (Gebot von Treu und Glauben, ai sensi del §
242 BGB). Sotto il profilo dogmatico, nell’ordinamento tedesco la violazione
della clausola generale può produrre effetti più ampi rispetto a quelli che da
un comportamento scorretto possono scaturire nell’esperienza giuridica italiana e, financo, determinare l’inefficacia di una clausola contrattuale.
In un caso che ha suscitato notevole interesse in dottrina, il BGH, posto
di fronte ad una penale di ammontare eccessivo contenuta in un contratto tra
imprenditori (Kaufleute) — la quale, ai sensi del § 348 dell’Handelsgesetzbuch (HGB), non è soggetta al potere di riduzione del giudice previsto dal § 343
del Bürgerliches Gesetzbuch (BGB) —, ha affermato la riducibilità dell’ammontare direttamente sulla base della clausola generale del § 242 BGB (58).
Nell’occasione, i giudici tedeschi hanno chiarito che il controllo della penale
operato attraverso la clausola generale di buona fede, pur basandosi sui medesimi criteri elaborati dalla giurisprudenza nell’applicazione della norma
sulla riducibilità della penale, è meno incisivo rispetto a quello attuato in forza di quest’ultima disposizione. Infatti, il punto di riferimento di una penale
rispettosa del canone della buona fede consiste nel doppio dell’ammontare
che sarebbe considerato congruo in seguito all’esercizio del potere di riduzione del giudice. Ove la penale superi tale limite, il giudice deve ridurre l’ammontare in base alla clausola generale (59).
Le critiche mosse nei confronti della sentenza del BGH attengono, in sin( 58 ) Si tratta del noto caso « Kinderwärmekissen »: BGH 17.7.2008-I ZR 168/
05(Hamburg), in NJW, 2009, p. 1882 ss. Nella specie, la penale era collegata a singole violazioni di un’obbligazione negativa di astenersi dal distribuire in un settore del mercato un
determinato tipo di cuscini per bambini. Il soggetto obbligato ha venduto 7000 cuscini, ed
incorrendo in altrettante violazioni idonee a determinare gli effetti della clausola penale,
era tenuto a corrispondere circa P 53 milioni a titolo di penale. Il creditore, consapevole
dell’eccessività dell’ammontare e per evitare in caso di soccombenza di dover sostenere elevati costi processuali, ha agito in giudizio soltanto per una parte ridotta della somma (P 1
milione), ulteriormente diminuita dal BGH, in base alla clausola generale di buona fede, a P
200.000,00.
( 59 ) In altre ipotesi, è stato precisato che il comportamento contrario a buona fede, definito « rechtsmissbräuchlich » dai giudici tedeschi, può sostanziarsi nell’aver indotto il debitore alla condotta inadempiente che ha determinato gli effetti della clausola penale: BGH
1.6.1983-I ZR 78/81(Celle), in NJW, 1984, p. 919 ss.; BGH 23.3.1971-VI ZR 199/
69(Hamm), in NJW, p. 1971 ss., 1126, dove si legge « Ist der Schuldner durch das Verhalten des Gläubigers veranlaßt worden, vertragswidrig zu handeln, so steht der Geltendmachung derVertragsstrafedurch den Gläubiger der Einwand des Rechtsmißbrauchs entgegen »; o nel pretendere il pagamento della penale a fronte di un inadempimento di lieve entità: BGH 23.1.1991 - VIII ZR 42/90 (Koblenz), in NJW-RR, 1991, p. 568.
706
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
tesi, a due profili: in primo luogo, si è rilevato che il potere di riduzione della
penale ha natura eccezionale e che ai giudici non sarebbe concesso aggirare il
§ 348 HGB, sulla base della clausola generale; in secondo luogo — e ciò interessa più da vicino l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale — si
contesta la scelta del tutto arbitraria di definire una misura specifica di penale « congrua » in base alla clausola generale di buona fede (nella specie, come
detto, un ammontare pari al doppio di quello che risulterebbe dall’applicazione della norma sulla riduzione della penale) (60). Sul punto, evidentemente,
l’esigenza avvertita dai giudici tedeschi, attraverso l’indicazione di un parametro preciso, era quella di garantire certezza per le future applicazioni.
Quest’ultimo aspetto induce a riflettere sulla soluzione privilegiata dalla
Consulta, poiché l’ordinanza non indica elementi precisi per stabilire quando
la pattuizione debba ritenersi nulla per contrarietà al dovere di solidarietà
« in combinato contesto » con la clausola generale di buona fede. La questione ovviamente non attiene soltanto alla caparra di ammontare eccessivo, in
quanto, alla luce del tenore dei passaggi salienti della motivazione, il principio affermato sembra applicabile a qualsiasi tipo di contratto.
Per quanto concerne il problema della caparra di ammontare eccessivo,
al fine di garantire maggiore certezza in ordine alle modalità di controllo, si
ritiene preferibile qualificare la pattuizione in termini di clausola penale alla
stregua di quanto visto supra, n. 3, in modo da consentire l’applicazione dell’art. 1384 c.c., norma specificamente preordinata al controllo giudiziale delle
clausole di forfetizzazione anticipata del danno e anch’essa espressione del
dovere di solidarietà nei rapporti tra privati. Nel valutare la caparra, il giudice potrebbe così servirsi dei precedenti giurisprudenziali sul controllo della
clausola penale, come, ad esempio, quelli recenti relativi al momento in cui
compiere la valutazione e al parametro di riferimento in tema di manifesta
eccessività (61).
Non si vuole affermare che il ricorso al criterio ermeneutico proposto as( 60 ) Cfr. V. Rieble, sub § 343 BGB, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., p. 499 ss., Rn. 154 ss.; W.F. Lindacher, in JR, 2009, p. 336 s., il
quale ritiene che, sotto il profilo dogmatico, il BGH avrebbe dovuto adoperare l’istituto della nullità per contrarietà al buon costume ex § 138 BGB.
( 61 ) Per ciò che riguarda specifiche questioni applicative concernenti l’art. 1384 c.c.,
Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994, in F. it., 2013, I, c. 1205 ss., con osservazioni di A. Palmieri, Art. 1384 c.c. e sopravvenienze: ulteriore arretramento della funzione sanzionatoria
della clausola penale, ha affermato che per stabilire se la penale sia manifestamente eccessiva, la valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento non può prescindere dalle
circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto. Ritiene che, nell’esercitare il
potere di riduzione ex art. 1384 c.c., il giudice deve utilizzare un criterio oggettivo, nel senso che deve tener conto non già della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che la
penale può avere sul suo patrimonio, ma soltanto dello squilibrio tra le posizioni delle parti,
essendo altresì irrilevante l’indagine sul pubblico interesse che dovrebbe giustificare la riduzione dell’ammontare convenuto, Cass. 10 maggio 2012, n. 7180, in Giust. civ., 2012, I,
p. 2336 ss.
COMMENTI
707
sicuri, in ogni caso, un risultato migliore rispetto a quello ottenibile mediante
l’applicazione della clausola generale, posto che anche il processo di qualificazione o tipizzazione del giudice implica un ampio margine di discrezionalità, paragonabile a quello relativo alla concretizzazione delle clausole generali (62). Tuttavia, all’utilizzo della norma sulla riduzione, predisposta dal legislatore per il controllo giudiziale di una clausola di liquidazione anticipata del
danno, consegue certamente il non trascurabile vantaggio di poter usufruire
del bagaglio di esperienza maturato in materia di clausola penale.
Atteso che la caparra confirmatoria trova sovente ingresso nel campo delle vendite immobiliari, nell’odierno periodo di crisi economica, oltre ad esigenze di giustizia, si avvertono esigenze di certezza, da soddisfare con indicazioni sicure per la pratica degli affari.
( 62 ) Così G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 56 s., riprendendo la nota opinione di
R. Sacco, Autonomia privata e tipi, in R. trim. d. proc. civ., 1966, p. 800.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
Bianca Checchini
Assegnista di ricerca
ANONIMATO MATERNO E DIRITTO DELL’ADOTTATO
ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI
Sommario: 1. Introduzione. — 2. La disciplina dell’accesso alle informazioni dell’adottato e
il parto anonimo tra legge sull’adozione, Ordinamento dello stato civile e Codice della
Privacy. — 3. Le argomentazioni della Consulta: verso la configurazione di una autonoma situazione giuridica soggettiva. — 4. L’« ininfluenza » della Corte di Strasburgo versus la diversificazione delle informazioni per l’adottato. — 5. Riflessioni conclusive.
1. — Una recente decisione della Corte costituzionale (1) sembrerebbe
aver posto fine al delicato problema circa gli effetti della scelta di non essere
nominata nella dichiarazione di nascita (2) effettuata dalla partoriente al mo( 1 ) Corte cost. 18 novembre 2013, n. 278 (in Gazz. Uff., 27 novembre, n. 48), in Nuova g. civ. comm., 2014, I, p. 285 ss. con nota di commento di V. Marcenò, Quando da un
dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze e di J. Long, Adozione e segreti:
costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto; nonché in Fam. e
d., 2014, p. 11 ss. con nota di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno; in Guida al
dir., 2013, n. 49-50, p. 20 ss., con nota di G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il
carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato; in F. it., 2014,
I, c. 4 ss., con nota di G. Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla
conoscenza delle origini. Con tale pronuncia additiva di principio, la Corte ha stabilito che
« È costituzionalmente illegittimo l’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184
(Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede — attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza — la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione ».
( 2 ) Art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (in Suppl. ordinario alla Gazz.
Uff., 30 dicembre, n. 303), - Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’Ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n.
127. Per un commento, cfr. diffusamente, P. Stanzione, Il nuovo ordinamento dello stato
civile, Milano 2001; S. Arena, Le nuove procedure dello stato civile, Minerbio (BO), 2002.
A seguito della l. 10 dicembre 2012 n. 219, Disposizioni in materia di riconoscimento del
figlio naturale, e dell’entrata in vigore del d. legisl. 28 dicembre 2013, n. 154 (in Gazz.
Uff., 8 gennaio 2014, n. 5), Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a
norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, si attendono le modifiche alla
disciplina regolamentare in materia di ordinamento dello stato civile che dovrebbe essere
attuate entro sei mesi dall’entrata in vigore della normativa delegata, come illustrato anche
dalla Circolare 27 dicembre 2012, n. 33, cfr., G. Casaburi, Il completamento della riforma
della filiazione,(d. leg. 28 dicembre 2013 n. 154), in F. it., 2014, V, c. 1 ss.
710
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
mento del parto, allorquando il figlio adottato sia divenuto adulto e richieda
informazioni sulle proprie origini genetiche e familiari.
Con una pronuncia additiva di principio, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7o, della l. 4 maggio 1983, n. 184
(Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2o, del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione
dei dati personali), nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza, la possibilità
per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere
nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione.
L’attenzione dell’interprete e del legislatore nazionale deve, quindi, volgersi ad una rinnovata disciplina del parto anonimo nell’ipotesi in cui il nato
da genitori ignoti, poi adottato e divenuto ultra venticinquenne, chieda informazioni sulle proprie origini e l’identità dei genitori biologici, attraverso un
delicato processo di armonizzazione di principi e di diritti che sorreggono da
un lato, la ratio della disciplina sul parto anonimo e, dall’altro, la tutela del
diritto all’identità personale dell’individuo.
Prima di detta pronuncia, e nonostante la precedente condanna proprio
per tale lacuna normativa all’Italia da parte della Corte europea dei diritti
dell’uomo (3), la disciplina applicabile all’ipotesi testé descritta non consentiva all’adottato di età maggiore dei venticinque anni di accedere alle informazioni genetiche e familiari della propria madre biologica che avesse optato al
momento del parto per l’anonimato, stante il generale divieto opposto dal
comma 7o dell’art. 28 l. adozione; divieto ribadito anche dall’art. 93 del c.d.
Codice della Privacy nella parte in cui consente il rilascio dei documenti (4)
identificativi della partoriente che abbia scelto l’anonimato al momento del
parto solo decorsi cento anni dalla formazione del documento (5).
L’unica strada percorribile per l’adottato ultra venticinquenne che desideri conoscere l’identità della madre biologica, stante il combinato disposto
delle disposizioni richiamate, potrebbe essere, a questo punto, l’improbabile
decorso temporale di cento anni tra la formazione del documento identificati( 3 ) Corte eur. dir. uomo 25 settembre 2012, ric. n. 33783/09 (Godelli c. Italia), cit. infra sub 4, e nt. 42.
( 4 ) Si tratta della cartella clinica e del certificato di assistenza al parto ex art. 93 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196, (in Suppl. ordinario n. 123 alla Gazz. Uff., 29 luglio, n. 174),
Codice in materia di protezione dei dati personali.
( 5 ) La giurisprudenza amministrativa per tale profilo è ondivaga: così esclude l’accesso
ai documenti identificativi, Cons. St., sez. IV, 17 giugno 2003, n. 3402, in Fam. e d., 2004,
p. 74 ss. con nota di S. Merello, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e diritto
della madre al segreto della propria identità; lo consente purché non sia indentificata la
madre, Cons. St., sez. V, 17 settembre 2010, n. 6960, in Dejure; lo ammette estensivamente per le informazioni genetiche, sanitarie e identificative della madre in ragione del diritto
alla salute, Trib. Min. Perugia 4 dicembre 2001, in Rass. giur. umbra, 2002, p. 417 ss.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
711
vo della partoriente e la « curiosità qualificata » del figlio, divenuto, nel frattempo, a tutti gli effetti, figlio di altri genitori adottivi (6).
La scelta dell’anonimato al momento del parto, quindi, in uno con il perfezionamento del procedimento di adozione legittimante, dettava l’irreversibilità definitiva del ripudio della genitorialità da parte della madre biologica e
la preclusione per il nato del diritto di conoscere le proprie origini (rectius,
l’identità della madre biologica), quale tassello fondamentale del diritto all’identità personale (7).
La pronuncia della Consulta, per altro da più voci auspicata ed attesa (8), offre lo spunto per una ricostruzione degli istituti e dei diritti sottesi,
che apre l’orizzonte a nuovi scenari giuridicamente significativi in una materia molto delicata anche sotto il profilo umano.
2. — Preliminare ed opportuna è la ricostruzione della cornice normativa
che regola l’accesso dell’adottato alle informazioni sulle origini genetiche e familiari nel caso di parto anonimo della madre, che ci riporta ad una riflessione sulla ratio dei diversi istituti giuridici coinvolti (9), tra legge sull’adozione
( 6 ) L’art. 93 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 prevede « 1. Ai fini della dichiarazione di
nascita il certificato di assistenza al parto è sempre sostituito da una semplice attestazione
contenente i soli dati richiesti nei registri di nascita. Si osservano, altresì, le disposizioni
dell’art. 109. 2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei
dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere
nominata avvalendosi della facoltà di cui all’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente
della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi
vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento. 3. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla
cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di
non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia
identificabile ». Per un commento v. G. Casiraghi, in Codice della Privacy, Commento al
Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 aggiornato con le più recenti modifiche legislative, Milano, I, 2004, p. 1309 ss.; C.M. Bianca, in La protezione dei dati personali. Commentario al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice della privacy) a cura di C.M. Bianca e
F.D. Busnelli, II, Padova 2007, sub art. 93, p. 1392.
( 7 ) M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, c. 1768 ss. (ivi, p. 1769), ma altresì in tono dubitativo
(ivi, p. 1773).
( 8 ) G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle
proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 544 ss.; F.
Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, in Fam. e d., 2006, p. 130; J.
Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: costituzionalmente legittimi i limiti nel caso di parto anonimo, in Nuova g. civ. comm., I, p. 549 ss.; D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Quad. cost., 2012.
( 9 ) In dottrina, S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, in Parte generale e persone, nel Liber amicorum per Dieter Henrich, I, Torino 2012, p. 172 ss.;
M. Mantovani, Il primato della maternità nell’accertamento dello status di figlio, ivi, p. 138
712
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
legittimante, disciplina del parto anonimo e diritto di accesso ai documenti (10).
Punto di partenza di questa ricostruzione e, per ora, di arrivo dell’evoluzione legislativa sul punto, è la stessa disposizione censurata dalla Corte costituzionale, cioè il comma 7o dell’art. 28 della c.d. legge sull’adozione (11), che
si inserisce in un contesto normativo di più ampia portata volto a disciplinare
il tema dei rapporti tra il minore adottato con adozione legittimante e la sua
famiglia di origine (12).
ss; L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 229 ss.; A. Renda,
L’accertamento della maternità. Profili sistematici e prospettive evolutive, Torino 2008; D.
Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit.
( 10 ) Ampiamente, L. Lenti, Adozione e Segreti, op. cit., p. 242; come è noto il diritto di
accesso agli atti amministrativi e la relativa procedura così come quella per impugnare il rifiuto è contenuta nella l. 7 agosto 1990, n. 241 (in Gazz. Uff., 18 agosto, n. 192), Nuove
norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi.
( 11 ) Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini è previsto e disciplinato dalla
c.d. legge sull’adozione (l. 4 maggio 1983, n. 184) modificata una prima volta dalla l. 28
marzo 2001, n. 149. Cfr. E. Palmerini, Commento all’art. 24, commi 4-8, in Nuove l. civ.
comm., 2002, p. 1016 ss.; nonché L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm.,
2004, II, p. 229 ss. L’art. 28, comma 7o, censurato dalla Consulta è stato quindi ulteriormente modificato dall’art. 177 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali). L. Fadiga, L’adozione legittimante, Il diritto di sapere, nel
Tratt. Zatti, Milano 2012, II, p. 934 ss.; M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere
le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, c. 1768; G. Lisella,
Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo dell’art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. d. civ., 2004, p. 413 ss. Il diritto all’identità personale ed alla ricerca delle proprie origini è tutelato da disposizioni di diritto internazionale pattizio ed in
particolare gli artt. 7 e 8 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 ratificata
con l. 27 maggio 1991, n. 176 (ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, New York 20 novembre 1989) e dall’art. 30 della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, ratificata con l. 31 dicembre 1998, n. 476, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale; per
un commento a tale ultimo citato provvedimento si v. P. Morozzo della Rocca, voce Adozione internazionale, nel Dig. disc. priv. - sez. civ. Agg., Torino 2000, p. 26 ss.; M. Dogliotti, Genitorialità biologica, genitorialità sociale, segreto sulle origini dell’adottato, in
Fam. e d., 1999, p. 406 ss.
( 12 ) Art. 28. 1. Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni. 2. Qualunque attestazione di stato civile riferita all’adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del
nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del
minore e dell’annotazione di cui all’articolo 26, comma 4. 3. L’ufficiale di stato civile, l’ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa
comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell’autorità giudiziaria. Non è necessaria l’autorizzazione qualora la richiesta provenga dall’ufficiale di
stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali. 4. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
713
Come è noto, l’opzione di fondo da cui muoveva il legislatore in merito
all’adozione legittimante era quella di configurare per l’adottato, attraverso
una sorta di fictio juris, una nuova famiglia da sostituire in toto a quella di
origine per cui era imprescindibile non solo recidere qualsiasi legame giuridico e biologico del minore con la famiglia d’origine, ma segretare qualsivoglia
informazione circa l’identità dei genitori biologici.
Senza alcuna pretesa di esaustività (13), è interessante ricordare che la
dottrina e finanche la giurisprudenza costituzionale erano pressoché concordi
nel sostenere tale scelta con l’obiettivo principale di preservare la serenità del
minore e dei nuovi genitori adottivi da possibili interferenze esterne dei genitori biologici nella convinzione che il rapporto di filiazione, — e quindi anche
quello adottivo per il principio della imitatio naturae — , dovesse fondarsi sul
carattere di esclusività del modello genitoriale.
In seguito, solo nel 2001 (14) la l. n. 149, innovando l’art. 28 della l. 4
maggio 1983, n. 184 ha riconosciuto il diritto di accesso alle informazioni
dell’adottato attraverso una disciplina equilibrata in relazione ai « molteplici
esercenti la responsabilità genitoriale, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo
se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per
la salute del minore. 5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo
anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua
salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di
residenza. 6. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga
opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di
valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni
autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste. 7. L’accesso alle informazioni non è
consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere
nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3
novembre 2000, n. 396. 8. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti
o divenuti irreperibili.
( 13 ) Si rinvia per gli approfondimenti a C. Restivo, L’art. 28 L. ad. tra nuovo modello
di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, I, p. 691 ss; A. Finocchiaro
e M. Finocchiaro, Adozione e affidamento dei minori. Commento alla nuova disciplina (l.
28 marzo 2001, n. 149 e d.l. 24 aprile 2001, n. 150), Milano 2001; M. Dogliotti, Commento alla l. 28 marzo 2001, n. 149, in Fam. e d., 2001, p. 247 ss.; C.M. Bianca, La revisione normativa dell’adozione, in Familia, 2001, p. 525. V. anche G. Cattaneo, voce
Adozione, in Dig. disc. priv. - sez. civ., I, Torino 1987, p. 94 ss.; M.R. Marella, voce Adozione, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2000, pp. 18-22; P. Morozzo Della Rocca, Adozione « plena, minus plena » e tutela delle radici del minore, in R. crit. d. priv.,
1996, p. 683 ss.
( 14 ) L. 28 marzo 2001, n. 149 (in Gazz. Uff., 26 aprile, n. 96), Modifiche alla legge 4
maggio 1983, n. 184, recante « Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori »,
nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile.
714
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
interessi coinvolti » (15); in primis si è stabilito il diritto dell’adottato di essere
informato di tale sua condizione ed il correlativo obbligo/dovere dei genitori
adottivi di informarlo (16), se pure nei tempi e modi ritenuti più opportuni,
nonché, per quel che qui rileva, il diritto dell’adottato che abbia raggiunto il
venticinquesimo anno di età di accedere alle informazioni che riguardano le
proprie origini e l’identità dei propri genitori biologici (a prescindere dall’esistenza di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica) e
sempre previa autorizzazione del Tribunale (17) (18).
Con una nuova norma, del 2003 (19), il diritto dell’adottato alle informazioni viene addirittura escluso allorquando la preventiva decisione della partoriente di rimanere anonima precluda irreversibilmente e senza eccezioni la
conoscibilità del rapporto genitoriale ex latere matre.
Tale divieto posto al comma 7o dell’art. 28, così come sostituito dall’art.
177 del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196, infatti, non pone alcuna distinzione a
seconda che la richiesta di informazioni provenga dall’adottato ultra venticinquenne ovvero dall’adottato maggiore di diciotto anni ma minore di venticinque, ovvero dai genitori adottivi ovvero ancora dal responsabile della struttura
ospedaliera o del presidio medico nei casi consentiti (20). È un divieto assoluto e
trasversale che opera comunque allorquando la partoriente si sia avvalsa della
facoltà di non essere nominata nella dichiarazione di nascita (21).
Insomma, nella legge sull’adozione l’accesso alle informazioni indicate in
via generale, — senza alcuna distinzione tra quelle identificative o non della
madre biologica —, è dapprima riconosciuto ma modulato in relazione al( 15 ) L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità
dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori, cit., p. 164.
( 16 ) M. Dogliotti, Commento alla l. 28 marzo 2001, n. 149, cit., p. 250, per il quale si
tratta di una « previsione dunque sostanzialmente inutile, se neppure si indica un obbligo
(ancorché non sanzionato) dei genitori adottivi ». Oltre alle ipotesi menzionate nel testo,
per completezza, si rammenta la facoltà per i genitori adottivi finché il figlio è minore di
adire il Tribunale per i minorenni al fine di accedere alle informazioni sull’identità dei genitori biologici che possono essere autorizzate « solo per gravi e comprovanti motivi »; ovvero per il figlio adottivo maggiorenne solo per gravi e comprovati motivi attinenti la sua
salute psicofisica; per il responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario,
ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore.
( 17 ) Per tale tesi si v. ampiamente, C. Restivo, L’art. 28 l. ad. tra nuovo modello di
adozione e diritto all’identità personale, op. cit., p. 706 ss.; contra, L. Lenti, Adozione e
Segreti, op. cit., p. 250 ss.
( 18 ) Certamente nel caso in cui l’adottato sia maggiore di età e i genitori adottivi sono
deceduti o divenuti irreperibili (comma 8o, art. 28 l. adoz.).
( 19 ) Comma sostituito dall’art. 177 del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196.
( 20 ) Il divieto permane anche nell’ipotesi di morte e irreperibilità dei genitori adottivi
stante l’inciso del comma 8o dell’art. 28 che fa salve le disposizioni precedenti.
( 21 ) È appena il caso di ricordare che tale facoltà non è consentita nel caso di p.m.a.,
art. 9 l. n. 40/2004.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
715
l’età, alle motivazioni e al controllo giudiziale e poi addirittura vietato in ragione della scelta dell’anonimato da parte della madre biologica.
Questa scelta, come è noto, rappresenta una peculiarità dell’ordinamento
italiano (22), riconosciuto incidenter tantum da una disposizione dell’Ordinamento dello stato civile, laddove si prevede che la dichiarazione di nascita sia resa
da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata (23), sia essa coniugata o non coniugata (24).
Si dice che la ratio sottesa a tale facoltà sarebbe coerente con l’ordinamento costituzionale italiano, tra tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e protezione della maternità (art. 31, comma 2o, Cost.), ma si deve purtroppo rilevare
come la disciplina sul parto anonimo sia alquanto frammentaria, essendo affidata in parte all’Ordinamento dello stato civile (25), in parte al c.d. Codice della
privacy nonché ad altri provvedimenti, quali circolari e decreti ministeriali.
Lo stesso art. 30 d.p.r. n. 396/2000, mentre da un lato fa salva la volontà della partoriente di non essere nominata dalle persone legittimate alla dichiarazione di nascita (denuncia prodromica alla formazione dell’atto di nascita ad opera dell’Ufficiale di stato civile (26)), dall’altro, prevede — in via
generale — senza distinguere tra parto anonimo o non — che tale dichiarazione debba essere corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera (nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora
della nascita e del sesso del bambino) (27).
Dunque, ad una prima lettura sembra che l’attestazione di nascita debba
sempre contenere le generalità della partoriente.
Ma le circolari ministeriali lasciano permanere il dubbio di come debba
( 22 ) Su cui ampiamente, S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, op. cit., p. 172 ss., il quale ricorda come la soluzione prevalente nei sistemi giuridici europei escluda la possibilità della scelta dell’anonimato materno al momento del parto, mentre ad oggi l’opposta regola italiana è vigente solo in Francia e Lussemburgo (ivi, nt. 11).
( 23 ) Art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396. Cfr., G. Finocchiaro, Il segreto
sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato, cit., per il quale tale facoltà rappresenta una sorta di « accordo » tra la madre e lo Stato.
( 24 ) Corte cost. 5 maggio 1994, n. 171, in Fam. e d., 1994, p. 493, con nota di G.
Sciancalepore; secondo la Corte, se pure affermato come obiter dictum, « qualunque donna
ancorché da elementi informali risulti trattarsi di donna coniugata, può dichiarare di non
voler essere nominata nell’atto di nascita ». Diffusamente, A. Renda, L’accertamento della
maternità, cit.
( 25 ) F. Coscia, Status di filiazione e diritto della madre a non essere nominata ex art.
30 Regolamento dello stato civile 2000/396, in Stato civile italiano, 2006, p. 341 ss.
( 26 ) Nel caso del parto anonimo, l’atto di nascita non potrà contenere le generalità della
partoriente, anche se l’adottato potrebbe comunque chiedere un estratto del medesimo ex
art. 177, comma 3o, Codice della Privacy.
( 27 ) Rispettivamente al 1o ed al 2o comma dell’art. 30 d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396.
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RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
essere compilata tale attestazione di avvenuta nascita in caso di parto anonimo, cioè se essa debba o non debba identificare la partoriente, e quindi a
monte fornire elementi circa la scelta dell’anonimato. Anche la dottrina è divisa tra coloro che fanno prevalere il dato testuale del comma 2o dell’art. 30,
per il quale in ogni caso l’attestazione di avvenuta nascita deve contenere le
generalità della partoriente (28), e quanti invece preferiscono preservare la riservatezza della partoriente nell’attestazione di avvenuta nascita, omettendo
qualsiasi riferimento volto a renderla individuabile (29).
La questione andrebbe forse risolta tenendo conto della ratio cui è ispirata la previsione che facoltizza la partoriente all’anonimato. Per quanto non
sia questa la sede appropriata per un approfondimento, si può sostenere che
se l’interesse considerato con l’anonimato è la tutela della salute della madre
e del neonato al momento del parto, il personale sanitario che compila l’attestazione di avvenuta nascita non possa fare ivi menzione dell’identità della
partoriente, pur risultando essa documentata, aliunde, in cartella clinica (30).
( 28 ) A. Renda, L’accertamento della maternità, op. cit., p. 150, nt. 79, per il quale testualmente tale soluzione è sorretta dalla circolare del Ministero di Grazia e Giustizia 22
febbraio 1999, n. 1/150 (Regolamento di attuazione sulla semplificazione delle certificazioni amministrative) che nell’interpretare la nozione dei « soli dati richiesti nei registri di nascita » riferita all’art. 8, comma 2o, d.p.r. 20 ottobre 1998, n. 403 all’attestazione di nascita, ha previsto che la stessa « deve necessariamente contenere il dato relativo al nome della
puerpera, che va inteso solo come partoriente ma non ancora come madre » ritenendo che
« in ogni caso va confermato che le generalità della donna che ha partorito devono essere
riportate nell’attestato sanitario, rappresentando la relativa indicazione un imprescindibile
dato di verità reale che serve a provare, sotto l’aspetto clinico e in vista della successiva registrazione della nascita, che è nato e da chi è nato un bambino. Così come alla predetta
funzione di prova era destinato il certificato di assistenza al parto ora soppresso ».
( 29 ) S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, op. cit., p. 178, nt.
17, atteso che il d. Min. Sanità 16 luglio 2001, n. 349 prevede che tali generalità non siano
più riportate nel certificato di assistenza al parto, se la madre chiede di non essere nominata, per cui conclude l’a. « Non si vede, infatti, perché tali dati, se non sono (più) inseriti nel
certificato di assistenza al parto, debbano esserlo nella attestazione di nascita che viene allegata alla dichiarazione di nascita », conforme L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g.
civ. comm., 2004, II, p. 238 per il quale « [...] b) l’attestazione di nascita: è conservata nel
volume degli allegati al registro degli atti di nascita, presso il tribunale ordinario. Contiene
tutti e soltanto i dati richiesti dalla legge per formare l’atto di nascita: pertanto, in caso di
donna che non vuole essere nominata, deve ometterne le generalità (art. 30, comma 1o, ord.
Stato civ. e art. 93, comma 1o, cod. dati pers.) [...] ».
( 30 ) A. Palazzo, La filiazione, nel Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2007, p. 178, per il
quale « anche se l’attestazione di nascita viene compilata in forma anonima, la cartella clinica conterrà sempre le generalità della puerpera. Tramite il collegamento tra l’attestazione
di nascita e la cartella clinica imposto dalla legge è tecnicamente possibile risalire all’identità biologica dell’adottato ». V. Allegato al d.m. Sanità n. 349/2001 sez. generale voce « cognome della puerpera » ove è stabilito che se il certificato di assistenza al parto è privo dei
dati idonei a identificare la partoriente, in quanto ella ha dichiarato di non voler essere nominata, deve essere comunque assicurato un raccordo con la cartella clinica che invece contiene i dati identificativi.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
717
L’incertezza non è di poco momento, sol che si pensi al caso in cui la dichiarazione di nascita provenga da persone diverse dalla partoriente (legittimate ai sensi dell’art. 30, comma 1o, r.d. n. 396/2000) che, in linea teorica,
potrebbero « girare » con una attestazione di nascita non anonima nonostante
la volontà contraria della donna senza alcuna garanzia che venga rispettata la
sua volontà di anonimato.
Il legislatore del 2003, nel modificare sul punto la legge sull’adozione, introducendo il divieto oggi censurato in parte qua, ha cercato di operare un
raccordo con la disciplina sulla raccolta e divulgazione dei dati sensibili. La
norma in rilevo è l’art. 93 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196) che, pur garantendo la riservatezza
dell’anonimato materno quanto al profilo della identificazione della partoriente, diversifica la disciplina a seconda della natura delle informazioni da
richiedere in sede di accesso (tramite il certificato di assistenza al parto, ora
sostituito integralmente dalla attestazione di nascita, ex art. 93 comma 1o, ovvero tramite la cartella clinica), qualora la madre biologica abbia dichiarato
di non voler essere nominata.
Mentre il comma 2o dell’art. 93, infatti, garantisce la riservatezza (così
come è stata « cristallizzata » al momento del parto) circa l’identità della partoriente, salvo prevedere per i discendenti la possibilità di risalire alla sua
identità decorsi cento anni dalla formazione del documento che la identifica
(cioè quando si presume la stessa sia defunta), il comma 3o, contempla la facoltà di accesso agli stessi documenti per ragioni diverse da quelle identificative giacché l’accesso è consentito « osservando le opportune cautele per evitare che la madre anonima sia identificata ».
Pertanto, diversamente dalla legge sull’adozione, nella quale il divieto di
informazioni appare assoluto e trasversale ove ricorra la scelta del parto anonimo, la legge in materia di protezione dei dati personali opera un distinguo
tra dati (informazioni) identificativi della partoriente e quelle informazioni
« altre » cui l’adottato avrebbe comunque diritto di accedere.
La legge consente quindi all’adottato c.d. adulto l’accesso « semplificato » alle informazioni sulle proprie origini, nell’ipotesi in cui la madre biologica abbia scelto l’anonimato al momento del parto, purché la stessa non sia
identificabile (31); cioè di ottenere informazioni relative alla nascita ed alla salute che non permettono l’identificazione della partoriente e ciò attraverso
l’accesso alla cartella clinica e al certificato di assistenza al parto (ora sostituito dall’attestazione di nascita) (32).
( 31 ) Attraverso la cartella clinica, l’attestazione di nascita, l’estratto dell’atto di nascita
ed il fascicolo dell’adozione; cfr. ampiamente sul punto, L. Lenti, Adozione e segreti, op.
cit., p. 237 ss., che vaglia tutti i documenti accessibili all’adottato e le informazioni ivi contenute e raggiungibili.
( 32 ) Ai sensi dell’art. 93 del c.d. Codice della privacy.
718
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
3. — Vale la pena di ricordare come, otto anni prima, la stessa questione
di legittimità costituzionale sia stata affrontata e risolta dalla Corte costituzionale (33) in maniera diametralmente opposta, con una pronuncia di infondatezza. Il remittente in allora (34) aveva sottoposto all’attenzione della Corte il
medesimo quesito circa la « possibilità di verificare la persistenza della volontà della madre naturale di non essere nominata » (35) ed aveva invocato i medesimi parametri costituzionali: l’art. 2 Cost. per il profilo che la norma impugnata fa prevalere in ogni caso il diritto all’anonimato della partoriente su
quello inviolabile del figlio all’identità personale, l’art. 3 Cost. per la irragionevole disparità di trattamento tra adottato la cui madre biologica ha scelto
l’anonimato e adottato la cui madre biologica non ha operato tale scelta, e
l’art. 32 Cost. per il profilo del pregiudizio dell’adottato alla salute e all’integrità psico fisica, prospettata quale conseguenza del diritto all’identità personale. Non era stato invocato l’art. 117, comma 1o, Cost., che però nella pronuncia del 2013 è dichiarato assorbito.
Il ragionamento della Consulta era lineare e deciso: la ratio del divieto di
informazioni nel caso di parto anonimo è volto alla tutela della salute della
gestante e del bambino (alla vita di entrambi) di guisa che tale diritto alla riservatezza deve essere tutelato in assoluto senza limitazioni neppure temporali. Nel bilanciamento tra diritti fondamentali della partoriente (alla salute),
del neonato (alla vita) e dell’adottato (alla conoscenza della propria identità),
quest’ultimo soccombe (36).
( 33 ) Di segno opposto alla citata Corte costituzionale n. 278/2013 è la decisione di Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425, in Fam. e d., 2006, p. 129 con nota di F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente; in Nuova g. civ. comm., 2006, I, p. 545 con
nota di J. Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, op. cit., p. 549 ss.; in
Familia, 2006, II, p. 155 con nota di L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie
origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici; in
G. cost., 2005, p. 4594, con nota di A.O. Cozzi, La Corte costituzionale e il diritto di conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo: un bilanciamento diverso da quello della
Corte europea dei diritti dell’uomo?; la Corte costituzionale nella decisione n. 425/2005 si
era già pronunciata su di una identica questione stabilendo l’infondatezza della questione
di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7o comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 nel testo modificato dall’art. 177, 2o comma, d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 sollevata in riferimento
agli artt. 2, 3, e 32 Cost.
( 34 ) Trib. Min. Firenze, ord. 21 luglio 2004, in Guida al dir., 2005, n. 6, p. 72 (s.m.);
in G.U., 1 serie speciale, n. 3 del 2005.
( 35 ) Il Tribunale per i minorenni di Firenze propone in riferimento agli artt. 2, 3 e 32
Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7o, della l. 4 maggio
1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dall’art. 177, comma
2o, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) « nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni
sulle origini senza aver previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica ».
( 36 ) In tale contesto, afferma D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi
nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
719
Oggi, invece, la Corte costituzionale — pur condividendo e riaffermando
il « nucleo fondante della scelta allora adottata » e corrispondente alla « ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato, in sé e per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza
o, se si vuole, di segreto, che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge », — mette in discussione il profilo « diacronico » della tutela assicurata al
diritto all’anonimato della madre, in ragione dell’esigenza di salvaguardare
anche il diritto alla conoscenza delle proprie origini del figlio quale elemento
significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona (37).
Secondo la Corte, la scelta di anonimato al momento del parto « immobilizza » e « cristallizza » la situazione soggettiva della partoriente. Tuttavia,
l’esercizio del diritto di anonimato non solo espropria la madre del diritto alla
genitorialità, ma si trasforma in una sorta di vincolo obbligatorio con forza
espansiva esterna al suo stesso titolare (38) e quindi a danno di terzi.
In tale prospettiva, ed a prescindere dall’esigenza di giustificare il bilanciamento dei diritti fondamentali, si potrebbe sostenere, in primo luogo, che
la reversibilità della scelta di anonimato della partoriente nella prospettiva
della Corte, dovrebbe essere prevista dal legislatore come autonoma facoltà di
scelta della madre biologica, da esercitare fuori del contesto del parto (ove il
diritto alla riservatezza deve essere garantito in assolutezza) anche a prescindere dalla richiesta dell’adottato ultraventicinquenne di accesso alle informazioni (39).
La Corte, tuttavia, non arriva a tal punto, ma limita l’effetto del suo intervento all’esigenza di armonizzare il diritto fondamentale sotteso all’anonimato della donna (cioè il diritto alla salute) con quello alla identità dell’adottato. In sostanza la Corte delega il legislatore ad introdurre una sorte di « interrogazione riservata » della madre anonima in un procedimento in cui la
madre biologica è estranea e in cui l’iniziativa esclusiva è rimessa ad un soggetto giuridicamente figlio di altri.
Non v’è chi non veda come un siffatto strumento sia di difficile realizzazione pratica (40).
europea dei diritti dell’uomo, op. cit., « la tecnica del bilanciamento scolora quindi in un
approccio diverso, che avendo chiaro il quadro degli interessi in gioco, mira non tanto a individuare un astratto punto di equilibrio fra le posizioni giuridiche coinvolte, quanto piuttosto a valutare quale disciplina, nella concretezza di una situazione difficile, possa meglio
garantire l’effettività della tutela dei beni giuridici coinvolti ».
( 37 ) Analogamente, si può obiettare che potrebbe sussistere il caso della donna che non
ha scelto l’anonimato al momento del parto e il cui figlio è stato adottato da altri e che abbia al momento della richiesta del figlio adulto adottato un interesse attuale al ripensamento, preferendo non essere affatto identificata.
( 38 ) Così, Corte cost. n. 278/2013, cit.
( 39 ) L’adottato, infatti, potrebbe non essere l’unico ad avere interesse a conoscere
l’identità della madre biologica.
( 40 ) Si rinvia per tale profilo alle riflessioni di J. Long, Adozione e segreti: costituzional-
720
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Sarebbe forse preferibile ripensare all’istituto del parto anonimo attraverso una disciplina compiuta ed organica che tenga conto di tutti i profili
(obblighi informativi, diversificazione delle informazioni) e delle conseguenze
dell’esercizio di tale facoltà in capo alla partoriente, inclusa la previsione legislativa per la madre biologica anonima, della facoltà, autonoma, di ripensare
alla propria scelta di anonimato (41).
4. — Ad una prima lettura, si sarebbe portati a ritenere che la recente
decisione della Corte costituzionale rappresenti l’epilogo scontato di quel vivace dibattito che si è succeduto in seno alla Corte europea dei diritti dell’uomo laddove quest’ultima ha ritenuto di « salvare » la legislazione francese sul
parto anonimo e la reversibilità del segreto materno (42), e di condannare, invece, qualche anno dopo, quella italiana che tale reversibilità non ha mai
contemplato (43). Il tutto in ragione dell’art. 8 della Convenzione europea dei
mente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto, cit., sub paragrafo 3. Nel senso
che essa potrebbe trovare immediata applicazione giurisprudenziale, cfr. anche G. Casaburi, Il parto anonimo, op. cit., p. 8 ss.
( 41 ) Come prevede la legge in Francia relativa all’accesso alle origini delle persone
adottate che ha istituito il Conseil National pour l’accés aux origines personnelles alla cui
opera di intermediazione si possono rivolgere sia colui che vuole conoscere l’identità della
madre biologica sia la stessa madre biologica che voglia togliere il segreto della sua identità
trasformando il parto anonimo nel c.d. parto con discrezione e rendendo reversibile il segreto, v., ampiamente, S. Stefanelli, Parto anonimo e diritto di conoscere le proprie origini, in D. fam., 2010, p. 426 ss.
( 42 ) Corte eur. dir. uomo 13 febbraio 2003, ric. 42326/98 (Odièvre c Francia), in Familia, 2004, p. 1109 con nota di A. Renda, La sentenza Odièvre c. Francia della Corte Europea dei diritti dell’uomo: un passo indietro rispetto all’interesse a conoscere le proprie
origini biologiche; in Giust. civ., 2004, I, p. 2177 con nota di S. Piccinini, La Corte europea
dei diritti dell’uomo e il divieto di ricerca della maternità naturale; J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo, il parto anonimo e l’accesso alle informazioni sulle proprie origini:
il caso Odièvre c. Francia, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 283 ss.; per un compiuto inquadramento del sistema vigente in Francia si vedano, oltre agli aa. testé citati, anche le
considerazioni di D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, op. cit.; si ricorda in particolare la Loi n. 2002-92 du 22 janvier 2002 relative
à l’accès aux origines des persone adoptées et pupilles de l’État, che ha improntato la legislazione francese al principio della réversibilité del segreto attraverso l’istituzione del Conseil national pour l’accès aux originespersonnelles, CNAOP, organo deputato all’opera di
intermediazione cui si può rivolgere sia la persona alla ricerca delle proprie origini sia la
madre biologica che vuole ripensare alla propria scelta di anonimato.
( 43 ) Corte eur. dir. uomo 25 settembre 2012, ric. 33783/09 (Godelli c. Italia), in Nuova g. civ. comm., 2013, I, p. 103 ss., con nota di commento di J. Long, La Corte europea
dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una
condanna annunciata. La decisione è commentata anche da C. Ingenito, Il diritto del figlio
alla conoscenza delle origini e il diritto della madre al parto anonimo alla luce della recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giust. civ., 2013, p. 1608 ss.;
G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 537 ss.; A. Mar-
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
721
diritti dell’uomo che prevede la salvaguardia della vita privata e familiare,
così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti (44)
dell’uomo ovvero secondo una accezione ampia che comprende, tra gli altri, il
rispetto del diritto di ciascun individuo di conoscere le proprie origini (45).
Dal punto di vista formale, tuttavia, si è detto come, a fronte della richiesta del giudice remittente (46) di considerare anche il parametro dell’art. 117,
comma 1o, Cost., la Corte costituzionale, lo abbia dichiarato assorbito, adducendo argomentazioni autonome (47), e quindi svincolandosi dalla considerazione delle norme della Convenzione europea — e quindi anche dell’art. 8
nell’interpretazione datane dalla Corte europea — come parametri interposti
di legittimità costituzionale filtrati nell’ordinamento interno grazie al richiamo dell’art. 117, comma 1o, Cost., secondo l’oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale (48).
garia, Parto anonimo e accesso alle origini: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna
la legge italiana, in Minori e giust., 2013, n. 2, p. 340 ss.
( 44 ) Cfr. P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto
in anonimato?, op. cit., p. 829 dove l’a. si chiede se « [...] merita davvero piena e incondizionata condivisione quanto categoricamente affermato dalla Corte Europea, secondo la
quale “il diritto all’identità da cui deriva il diritto di conoscere la propria ascendenza, fa
parte integrante della vita privata” ».
( 45 ) Sull’art. 8 della Convenzione europea e l’interpretazione della Corte Europea, cfr.
Corte eur. dir. uomo 7 luglio 1989, ric. 10454/84, Gaskin c. Regno Unito; Corte eur. dir.
uomo 7 febbraio 2002, ric. 53176/99, Mikulic c. Croazia; Corte eur. dir. uomo 13 febbraio
2003, ric. 42326/98, Odièvre c. Francia, cit. Nella stessa decisione Godelli c. Italia si legge
che « la Corte considera il diritto all’identità, da cui deriva il diritto di conoscere la propria
ascendenza, come parte integrante della nozione di vita privata ». Le decisioni della Corte
europea sono reperibili nel sito del Consiglio d’Europa, tramite il sistema HUDOC, all’indirizzo http://www.echr.coe.int nel testo integrale inglese e francese.
( 46 ) Trib. Min. Catanzaro, ord. 13 dicembre 2012, in Fam. e d., 2013, p. 817 con nota
di P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato?
( 47 ) Così, V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare
incertezze, cit.
( 48 ) Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in F. it., 2008, I, c. 39 ss., con nota di
R. Romboli; L. Cappuccio, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra convenzione
europea dei diritti dell’uomo e Costituzione e F. Ghera, Una svolta storica nei rapporti del
diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in quelli con il diritto comunitario); ed ancora dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ex multis, Corte cost. 11
novembre 2011, n. 303 per la quale « in materia di rapporti tra l’art. 117, comma 1, Cost.,
e le norme della Cedu, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale della cui legittimità
costituzionale si dubiti e le norme della Cedu non possa essere risolto in via interpretativa,
la Corte costituzionale deve accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Cedu come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme
convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale
italiano. Tuttavia, se la Corte costituzionale non può prescindere dall’interpretazione della
Corte di Strasburgo di una disposizione della Cedu, essa può, nondimeno, interpretarla a
722
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Una più attenta considerazione ad opera della Corte costituzionale della
sentenza Godelli c. Italia, quale punto di arrivo dell’interpretazione della
Corte europea sull’art. 8 della Convenzione (49), avrebbe, forse, condotto il
Giudice delle leggi ad una diversa decisione (50).
Muovendo dall’esigenza di stabilire un giusto equilibrio nella ponderazione dei diritti e degli interessi concorrenti, ossia, da una parte, quello della ricorrente a conoscere le proprie origini e, dall’altro, quello della madre a mantenere l’anonimato e, pur ammettendo che rientra nella discrezionalità del legislatore nazionale reperire le « misure idonee » a garantire il rispetto dell’art.
8 della Convenzione nei rapporti interpersonali, la Corte europea, coglie il
punto di equilibrio dei diritti fondamentali da bilanciare essenzialmente nella
reversibilità del segreto, propria della legge francese. Di conseguenza, la legislazione italiana vigente violerebbe il principio del giusto equilibrio nell’interpretazione dell’art. 8 Cedu attribuendo priorità assoluta alla salvaguardia
della vita e della salute della partoriente e del neonato al momento del parto
sua volta con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi.
Infatti, la norma Cedu — nel momento in cui va ad integrare il comma 1 dell’art. 117 Cost.
— da questo il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui la Corte costituzionale è
chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sentt. n. 348, 349 del 2007, 311, 317 del
2009 113, 236 del 2011) ».
( 49 ) Di particolare interesse è ricordare che il diritto alle proprie origini trova tutela in
altre fonti sovranazionali quali la Convenzione delle Nazioni Unite relativa ai diritti del
bambino del 20 novembre 1989 ove si prevede il diritto del figlio, per quanto possibile, di
conoscere fin dalla nascita i propri genitori (art. 7); la Convenzione del L’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale ratificata dall’Italia ove si prevede che le autorità competenti dello Stato contraente
conservino con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del minore in particolare
quelle relative all’identità della madre e del padre ed i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia; dette autorità assicurano l’accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni, con l’assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge
dello Stato (articolo 30). In forma più persuasiva poi, si pone anche la Raccomandazione
1443 (2000) del 26 gennaio 2000 « Per il rispetto dei diritti del bambino nell’adozione internazionale », ove l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha invitato gli Stati
ad « assicurare il diritto dei bambini adottati a sapere delle proprie origini al più tardi al
raggiungimento della maggior età ed eliminare dalla legislazione nazionale ogni clausola
contraria ». Tale scenario innesta il problema, nel caso Godelli, di verificare se ed in che limiti la Corte di Strasburgo debba tenere in considerazione della tutela garantita da altre
fonti sovranazionali.
( 50 ) Una diversa conclusione, non già rispetto a quella di Strasburgo del caso Godelli,
s’intende, sulla falsariga della quale la Corte costituzionale si è pronunciata, ricalcando la
medesima soluzione, ma rispetto a ciò che la Corte costituzionale avrebbe potuto decidere
tenendo in considerazione la gradazione di informazioni personali che rientrano nel concetto di « vita privata » di cui alla sentenza Godelli. L’effetto di una sentenza additiva di principio che testualmente rinvia ad una legge la disciplina procedimentale del « fenomeno »
pone in essere una « nuova norma » di difficile applicazione pratica; cfr. sul punto i rilievi
pubblicistici di V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare
incertezze, cit.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
723
rispetto al diritto dell’adottato di accedere alle informazioni sulle proprie origini (51).
Certamente così è per il diritto di conoscere l’identità della madre biologica che ha scelto il parto anonimo. Le cose stanno diversamente, invece,
quanto alla possibilità di accedere ad altre informazioni non identificative
della partoriente, informazioni in qualche misura funzionali alla ricostruzione
della storia personale dell’adottato (52).
A ben vedere, la possibilità di questa distinzione è contemplata dalla
stessa decisione Godelli c. Italia, laddove nella stessa si ripropone, (in riferimento alla legge francese del 22 gennaio 2002 ed alla sentenza Odièvre c.
Francia), la differenziazione tra le informazioni sull’identità della madre da
quelle informazioni non identificative della stessa che sono comunque da considerarsi quale tassello dell’identità personale dell’individuo.
Nella decisione Godelli c. Italia, l’interpretazione della salvaguardia della
« vita privata » può fondatamente articolarsi in una gradazione di informazioni identificative e non, giuridicamente rilevanti e funzionali alla ricostruzione della propria identità. Ne è riprova il passaggio della decisione ove la
Corte europea non sembra conoscere a pieno il sistema legislativo italiano
laddove un po’ confusamente afferma che « la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere
l’accesso alle informazioni non identificative sulle origini o la reversibilità del
segreto ». Non è così.
La strada tracciata dalla Corte europea allora poteva condurre ad escogitare una misura più adeguata per ponderare i diritti in gioco. È incontestabile, infatti, che anche allorquando si prevedesse il sistema del ripensamento
della madre biologica e quest’ultima riaffermasse il vincolo del segreto, il diritto dell’adottato sarebbe comunque sacrificato.
Se un bilanciamento tra i diritti fondamentali doveva essere ricercato, sarebbe stato forse preferibile indicare una diversa soluzione al legislatore, che
( 51 ) Nella fattispecie all’esame, la Corte osserva che « la ricorrente non ha avuto accesso a nessuna informazione sulla madre e la famiglia biologica che le permettesse di stabilire alcune radici della sua storia nel rispetto della tutela degli interessi dei terzi. Senza un
bilanciamento dei diritti e degli interessi presenti e senza alcuna possibilità di ricorso, la ricorrente si è vista opporre un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini
personali ».
( 52 ) Trib. min. Firenze 19 dicembre 2007, in F. it., 2008, I, c. 2038; per la quale
l’adottato può accedere nel rispetto del limite identificativo della madre che ha scelto l’anonimato a qualunque atto relativo alle proprie origini nel quale siano opportunamente occultati il nome della madre o altri elementi che valgono ad identificarla (in generale potrà
essere considerato dato identificativo l’indicazione del luogo in cui è nata la donna specie se
abbinato alla sua data di nascita; ma non saranno considerati dati identificativi l’indicazione della sola data di nascita della madre non abbinata al luogo, così come, spogliati da riferimenti territoriali, la sua professione, eventuali titoli di studio o condizioni di salute), in
Minori e giust., 2008, n. 2, p. 360 con osservazioni di A. Specchio, Il diritto dell’adottato di
accesso alle informazioni concernenti la propria origine: un’interpretazione evolutiva da
parte del tribunale minorile fiorentino.
724
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
armonizzasse gli interessi sottesi, da un lato all’anonimato e, dall’altro, alla disciplina sull’accesso alle informazioni, differenziando l’accessibilità dei dati e
delle informazioni con una normativa più organica e mirata a seconda del tipo
di informazioni: la modalità della nascita o dell’abbandono o altre circostanze
riferibili alla nascita non identificative della madre (tipo di parto), le informazioni mediche sanitarie e quant’altro sia utile al soggetto richiedente al fine ricostruire la propria storia, così come pure le indicazioni sulla presenza di un
padre biologico per il quale la legge italiana non contempla alcuna disposizione.
Non si opera alcuna « composizione » (53) di principi e di diritti costituzionali nell’ipotesi in cui la madre, interpellata, opponga il segreto. Il veto
della madre anonima continua a contraddire, cioè ad eludere, il diritto all’identità dell’adottato.
Preferibile è la scelta di temperare le informazioni utili per compiere la
ricostruzione della propria identità, offrendo comunque per l’adottato la possibilità di accedere a quelle biologiche, sanitarie, circostanziali della nascita.
Il contemperamento tra diritti cui deve tendere il legislatore nazionale
potrebbe essere più efficace ed effettivo, non attraverso l’introduzione della
mera previsione della reversibilità del segreto (ipotesi eventuale) nel caso dell’adottato maggiore di venticinque anni (ipotesi limitata) bensì attraverso una
rivisitazione della disciplina sul parto anonimo e l’accesso alle informazioni
che diversifichi le informazioni giuridicamente significative per la tutela dell’identità personale dell’individuo da quelle che lo sono meno o non lo sono
affatto perché identificative della partoriente e come tali nella disponibilità
esclusiva ed assoluta della titolare.
5. — La sentenza della Corte costituzionale diversamente attesa dagli
operatori del diritto, pur senza nulla aggiungere al tessuto legislativo esistente, nel provocare una rivisitazione degli istituti giuridici sottesi al diritto dell’adottato « adulto » di accedere alle informazioni che lo riguardano, sembra
delineare sia pure sommessamente, la configurabilità una nuova situazione
giuridica di rilevo nell’ordinamento: quella del ripensamento e della revoca
dell’anonimato, che sembra spostare in qualche modo il baricentro dell’istituto dell’adozione legittimante, già ripetutamente ritoccato dal legislatore ed
oramai impoverito del suo contenuto.
Incisive appaiono le considerazioni della Corte costituzionale laddove essa afferma che una scelta per l’anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla « genitorialità giuridica » può non implicare anche una definitiva e
irreversibile rinuncia alla « genitorialità naturale », altrimenti risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice
« qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con
esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost. ».
( 53 ) Parla di « un procedere per composizione », V. Marcenò, Quando da un dispositivo
d’incostituzionalità possono derivare incertezze, p. 285 ss. ed ivi riferimenti pubblicistici.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
725
In sostanza, ora il diritto al ripensamento in uno con la scelta positiva di
svelare la propria identità aprirebbe la strada ad una nuova forma di « genitorialità naturale » (54), pur restando preclusa incontestabilmente la costituzione di un rapporto giuridico di filiazione.
Ma questa valorizzazione di una reciproca relazione di fatto tra madre
biologica e figlio di altri in nome dell’art. 2 Cost., e, quindi, (si può supporre)
per garantire il completo ed armonico sviluppo della personalità di madre
biologica e di figlio adottato, va ben oltre l’esigenza di salvaguardare il diritto
di accesso alle informazioni — identificative e non — dell’adottato adulto
« affievolendo » il segreto dell’anonimato attraverso la previsione di un diritto
al ripensamento della madre biologica.
In tale confusa prospettiva garantista, l’effetto potrebbe essere socialmente e umanamente dirompente oltre che delicato per il profilo giuridico;
basti ricordare, a tal proposito, che già la Cassazione (55) aveva riconosciuto
al figlio legittimo altrui, decaduto dall’azione di disconoscimento, la facoltà di
chiedere gli alimenti al padre biologico (nell’impossibilità di adempiere dei
genitori legittimi); analogamente, e nella prospettiva unificatrice dello status
ad opera della Riforma della filiazione, si potrebbe giungere a riconoscere la
pretesa agli alimenti del figlio adottivo altrui nei confronti della madre biologica, una volta identificata.
Pare incontestabile, allora, che oltre ad un procedimento volto a verificare la persistenza della volontà della donna di non essere nominata, occorra
programmare una sistematica normativa tesa a disciplinare compiutamente la
raccolta e l’accesso dei dati della partoriente, distinguendo quelli identificativi, da quelli medico-sanitari non identificativi, nonché un sistema ordinato e
consapevole di scelta e revoca dell’anonimato materno.
( 54 ) G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna
può decidere se restare nell’anonimato, op. cit., che preferisce parlare di « genitorialità biologica » da contrapporre a quella « giuridica » e ciò a seguito della Riforma della filiazione,
cit. sub nt. 2.
( 55 ) Ci si chiede, infatti, quali effetti potrebbero derivare dalla valorizzazione di questa
relazione di fatto tra adottato e madre biologica. Cfr., Cass. 1o aprile 2004, n. 6365, in
Fam. e d., 2005, p. 27 ss. con nota di M. Sesta, Un ulteriore passo avanti della S.C. nel
consentire la richiesta di alimenti al preteso padre naturale da colui che ha lo stato di figlio legittimo altrui; in G. it., 2005, c. 1830 con nota di F. Prosperi, Paternità naturale,
stato di figlio legittimo altrui, efficacia preclusiva degli atti di stato civile e dubbi sulla perdurante operatività dell’art. 279 c.c.
Amalia Chiara Di Landro
Ricercatore nell’Università « Mediterranea » di Reggio Calabria
I VINCOLI DI DESTINAZIONE EX ART. 2645 TER C.C.
ALCUNE QUESTIONI NELL’INTERPRETAZIONE
DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA
Sommario: 1. Introduzione. L’art. 2645 ter c.c.; le questioni interpretative. — 2.Il dibattito
sulla portata applicativa della norma e il rapporto con il trust. Le diverse posizioni della
giurisprudenza di merito. — 3. Gli interessi tutelati ed il giudizio di meritevolezza ex
art. 1322 c.c. — 4. Le modalità di istituzione del vincolo. I vincoli di destinazione istituiti per testamento. La posizione del Tribunale di Roma (18 maggio 2013).
1. — Com’è noto, l’art. 2645 ter c.c. ha sollecitato un largo dibattito dal
momento della sua approvazione, anche per l’ampiezza delle possibilità operative che, in una lettura iniziale, il ricorso ai vincoli di destinazione sembrava offrire.
L’attenzione sul tema è stata sollecitata soprattutto dalla dottrina, che ha
per lo più attribuito alla norma significativa importanza, ritenendo riconosciuta formalmente — con il suo inserimento nel codice civile — la generale
praticabilità e opponibilità della dissociazione volontaria tra titolarità della
proprietà, gestione ed interesse economico allo sfruttamento dei beni (1); l’art.
2645 ter c.c., in alcune posizioni in particolare, è stato considerato (2) « la
( 1 ) A. Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in Trust attività fid.,
2007, 2, p. 169; G. Oppo, Brevi note sulla trascrizione di atti di destinazione (Art. 2645 ter
c.c.), in questa Rivista, 2007, 1, p. 3. Scriveva G. Gabrielli, (in Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in questa Rivista,
2007, I, p. 327): « la portata della nuova disciplina di cui all’art. 2645 ter resta notevole;
sembra, anzi, di dovere dire dirompente. Benché collocata nella sede impropria della pubblicità immobiliare, tale disciplina ha il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata, collocando nel museo delle reliquie del passato limiti che tradizionalmente
l’avevano compressa e che, paradossalmente, continuano ad essere proclamati da altre norme di legge, rimaste immutate ». Secondo R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645
ter c.c., in Contratto e impr., 2007, 1, p. 233: « La disposizione determina in definitiva due
conseguenze: a) da un lato fornisce un decisivo argomento alla tesi dell’ammissibilità di negozi di destinazione atipici, che il nostro ordinamento era già perfettamente in grado di
esprimere e di cui era possibile ricostruire la struttura e gli effetti attraverso l’uso degli ordinari strumenti di interpretazione logica; b) dall’altro definisce i mezzi per rendere opponibile ai terzi la destinazione quando questa riguarda beni immobili ». Con l’art. 2645 ter
c.c. sarebbe dunque formulata una regola generale che « concorre, con pari dignità con la
regola dettata all’art. 2740 c.c., alla composizione del sistema ».
( 2 ) M. Bianca, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, in M. Bianca
(cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile,
Milano 2007, p. 33.
728
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
matrice di una serie di istituti attraverso i quali si realizza un fenomeno di destinazione di beni ad uno scopo ».
All’iniziale ampiezza del dibattito non ha fatto seguito un largo ricorso
all’istituto nella pratica, come è dimostrato anche dalla ridotta casistica in argomento (3), sicché l’attenzione dei commentatori è in parte scemata (4) (anche a causa di una serie di fattori, evidenziati pure in alcune sentenze (5):
« l’incompletezza della disciplina, l’incertezza sulla individuazione del soggetto al quale è rimesso il controllo di meritevolezza degli interessi, il possibile
utilizzo fraudolento »).
Tra le pronunce, alcune meritano una menzione ed una più meditata riflessione, per la loro (recente) collocazione temporale e per i profili di novità
che su specifiche questioni, pure fra loro correlate, la loro lettura evidenzia.
Fra le più rilevanti:
1) Una prima, generale problematica attiene all’ambito applicativo ed
all’apporto innovativo della norma in commento, anche in relazione al competitivo schema del trust;
2) Un secondo profilo riguarda lo scopo per il quale la destinazione
può essere ammessa ed il controllo di meritevolezza ex art. 1322 c.c.;
3) Un’ultima questione (6) attiene alle modalità di istituzione del
( 3 ) Cfr. Trib. Trieste 7 aprile 2006, in R. not., 2007, 2, p. 367, con nota di Matano; in
Trust attività fid., 2006, 3, p. 417; in Nuova g. civ. comm., 2007, I, p. 524 ss., con nota di
Cinque; in Notariato, 2006, p. 539 ss., con nota di Alessandrini Calisti; Trib. Reggio Emilia 30 novembre 2006, in Redazione Giuffrè, 2007; Trib. Reggio Emilia 23 marzo 2007, in
G. mer., 2007, 12, p. 3183 con nota di Di Profio; Trib. Reggio Emilia 26 marzo 2007, in
Guida al dir., 2007, 18, p. 58, con nota di Tonelli, in Il civilista, 2010, 9, p. 93, in D.
fam., 2007, 4, p. 1726 e in Nuova g. civ. comm., 2008, I, p. 114 s., con nota di Murgo;
App. Roma 4 febbraio 2009, in D. fam., 2009, 2, p. 665; Trib. Bologna 5 dicembre 2009,
in Il civilista, 2010, 9, p. 93; Trib. Reggio Emilia 7 giugno 2012, in Guida al dir., 2012,
49-50, ins., p. 15, con nota di Buffone; Trib. Reggio Emilia 22 giugno 2012, in Redazione
Giuffrè, 2012; Giudice tutelare Saluzzo 19 luglio 2012, in Guida al dir., 2012, 49-50, p. 9
(con nota di Di Sapio); Trib. Roma 18 maggio 2013, in Fam. e d., 2013, 8-9, p. 786 ss. con
nota di Calvo, in Nuova g. civ. comm., 2014, parte I, p. 89, con nota di Azara e in R. not.,
2014, 1, p. 63, con nota di Romano; Tribunale S. Maria Capua V. 28 novembre 2013, in
Redazione Giuffrè, 2013; Tribunale Reggio Emilia, sez. fallimentare, 27 gennaio 2014. Riconduce il trust all’art. 2645 ter c.c. Trib. Modena 11 dicembre 2008, in D. fam., 2009, 3,
p. 1256, con nota di Nardi.
( 4 ) Ma v. fra gli altri, recentemente, L. Bullo, Commento sub art. 2645 ter, in Comm.
Cian-Trabucchi, 11a ed., Padova 2014; Ead., Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2545
ter c.c. e fondi comuni di investimento ex art. 36, comma 6o, del t.u.f.: quale modello di segregazione patrimoniale?, in questa Rivista, 2012, 4, p. 535; Ead., Separazioni patrimoniali e trascrizione. Nuove sfide per la pubblicità immobiliare (I Quaderni della « Rivista di
dir. civile »), Padova 2012; L.Gatt, Il trust c.d. interno: una questione ancora aperta, in
Notariato, 2011, p. 280 ss.
( 5 ) Cfr. Trib. Roma 18 maggio 2013, cit.
( 6 ) Su cui v. M. Ieva, La trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o
ad altri enti o persone fisiche (art. 2645 ter c.c.) in funzione parasuccessoria, in R. not.,
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
729
vincolo ed alla possibilità, in particolare, di costituirlo mediante testamento.
2. — Sul primo punto — quello attinente alla portata innovativa della
nuova disciplina — è da sottolineare che la giurisprudenza ha inizialmente
attuato una lettura restrittiva, ponendo l’accento soprattutto sul dato dell’introduzione, con la norma in commento, (esclusivamente) di un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, « accessorio rispetto agli altri
effetti di un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi ».
Ha espresso questo orientamento una delle prime sentenze in argomento (7), emessa dal Tribunale di Trieste (8), che — nel negare la pubblicità richiesta sotto forma di iscrizione tavolare ad un atto pubblico di dotazione di un
trust, considerato nullo per difetto di causa tipica o atipica meritevole di tutela (9) — ha incidentalmente precisato che non v’è « alcun indizio da cui desumere che sia stata coniata una nuova figura negoziale, di cui non si sa neanche
se sia unilaterale o bilaterale, a titolo oneroso o gratuito, ad effetti traslativi od
obbligatori. Essa rappresenta una chiara anomalia del sistema (...) ».
Siffatto orientamento (ancorché poi mutato in differenti pronunce (10)) è
2009, 5, p. 1289 ss.; A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione
ai sensi dell’art. 2645 ter, in R. not., 2007, 2, p. 509 e ss.
( 7 ) Prima di questa, si consideri anche Trib. Genova 14 marzo 2006 (in Nuova g. civ.
comm., 2006, I, p. 1209 ss., con nota di Venchiarutti; in G. mer., 2006, p. 2644 ss., con
nota di Di Profio), secondo cui, fra l’altro, la volontà del legislatore di riferirsi al trust
« (pur non nominato) è di tutta evidenza ». Nel caso in questione il Giudice legge l’art.
2645 ter c.c. come una legittimazione « anche per via legislativa (...) [del] pensiero di dottrina e giurisprudenza prevalenti riguardo la compatibilità del trust con il nostro ordinamento se diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela ».
( 8 ) Trib. Trieste, Uff. del giudice tavolare, 7 aprile 2006, cit. In senso critico, insieme alle
note citate, anche M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter. Notazione a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, p. 187 ss. Cfr. in argomento anche;
A. Picciotto, Brevi note sull’art. 2645 ter: il trust e l’araba fenice, in Contratto e impr.,
2006, 4-5, p. 1314 ss.; P. Manes, La norma sulla trascrizione di atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contratto e impr., 3, 2006, p. 627; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la
nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto e impr., 2006, 6, p. 1717 ss.
( 9 ) L’atto è stato considerato « causalmente astratto » e tale da impedire « di apprezzare la
funzione, la meritevolezza di interessi e la pertinenza dell’operazione rispetto al fine di trust ».
( 10 ) Il medesimo Trib. Trieste, con pronuncia successiva (decr. 19 settembre 2007, in
Nuova g. civ. comm., 2008, Parte I, p. 687, con nota di M. Cinque, L’atto di destinazione
per i bisogni della famiglia di fatto: ancora sulla meritevolezza degli interessi ex art. 2645
ter cod. civ.) ha riconosciuto alla riforma « il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata ». E il Tribunale di Saluzzo, con decreto del 19 luglio 2012, cit., ha ritenuto la natura « sostanziale » dell’art. 2645 ter c.c., affermando che la norma consentirebbe anche negozi di destinazione che non richiedono, contestualmente, il necessario trasferimento del diritto da sottoporre a vincolo, ritenendo che « il legislatore ha inteso rendere opponibile la funzionalizzazione di scopo di un bene senza attribuzioni patrimoniali »,
giungendo alla conclusione che l’atto di destinazione non determina né richiede « (in quanto tale) trasferimento di diritti ».
730
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
stato ripreso anche in sentenze successive (11), ove è stato ribadito che « l’art.
2645 ter c.c. è norma “sugli effetti” e non “sugli atti” » e, perciò, « disciplina
esclusivamente gli effetti, complementari rispetto a quelli traslativi e obbligatori, delle singole figure negoziali a cui accede il vincolo di destinazione; non
consente, invece, la configurazione di un “negozio destinatorio puro”, cioè di
una nuova figura negoziale atipica imperniata sulla causa destinatoria » (12).
L’approccio iniziale della giurisprudenza non ha ricevuto l’avallo della
dottrina, che — pur criticando unanimemente la tecnica legislativa impiegata, foriera di molti dubbi interpretativi (13) — ha anzi sottolineato l’esistenza,
nella norma, di alcuni indici della rilevanza sostanziale dell’atto (laddove, ad
esempio, viene stabilito chi può agire per la realizzazione dell’interesse e viene
definito come devono essere impiegati i beni conferiti e i loro frutti) (14) ed ha
evidenziato (15) che una lettura contraria a tale valenza sostanziale finirebbe
per risolversi in una « sorta di interpretatio abrogans, un vero e proprio sabotaggio dell’intervento legislativo ».
È da dire che le diverse pronunce — anche quelle fin qui menzionate —
hanno spesso avuto ad oggetto il richiamo all’art. 2645 ter c.c., operato dalle
parti in causa per legittimare l’ammissibilità dello schema del trust e per superare le difficoltà connesse al problema di apprestare rilevanza esterna ai
trasferimenti di beni immobili in favore del fondo in trust e di conferire efficacia reale al vincolo segregativo (16).
( 11 ) Trib. S. Maria Capua V. 28 novembre 2013, cit.; Trib. Reggio Emilia, sez. fallimentare, 27 gennaio 2014, cit.
( 12 ) Così anche Trib. Reggio Emilia 7 giugno 2012, cit.
( 13 ) Cfr. ad esempio F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, in Giust. civ., 2006, II,
p. 165 ss.; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in questa Rivista, 2006,
II, p. 162. Per i vari profili problematici v. G. Cian, Riflessioni intorno a un nuovo istituto
del diritto civile: per una lettura analitica dell’art. 2645 ter c.c., in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova 2007, p. 81 ss.
( 14 ) Cfr. S. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c., p. 697, nt. 4; F. Gazzoni,
Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., cit.; F. Galluzzo, Autodestinazione e destinazione c.d.
dinamica: L’art. 2645 ter cod. civ. come norma di matrice sostanziale , in Nuova g. civ.
comm., 2014, p. 128 ss.
( 15 ) P. Spada, Destinazioni patrimoniali ed impresa, in Atti di destinazione e trust, a
cura di G. Vettori, Padova 2008, p. 330.
( 16 ) Tema sul quale, si è pronunciato, da ultimo, il Tribunale di Torino (con decreto 18
marzo 2014), sostenendo — in accoglimento di un reclamo originato da una trascrizione
nei registri immobiliari effettuata con riserva — che sia sufficiente, a tal fine, l’esecuzione
di una sola formalità contro il disponente ed in favore del trust — non del trustee — senza
peraltro che ciò presupponga la soggettività del trust.
Con ciò è stato mutato orientamento rispetto a quello espresso da altro giudice di merito
(Tribunale di Reggio Emilia del 25 marzo 2013), il quale (in un caso, tuttavia, di procedura esecutiva) aveva concluso in senso diametralmente opposto; secondo questa pronuncia,
non essendo il trust un soggetto di diritto, le formalità da pubblicarsi nei registri immobiliari devono essere effettuate nei confronti del trustee; se eseguite a favore o contro il trust,
esse sarebbero illegittime, poiché effettuate nei confronti di un soggetto inesistente.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
731
Anche in dottrina sono state tratte anche una serie di conseguenze sistematiche diverse dal tema del rapporto tra trust e atti di destinazione, nel quadro del dibattito sull’ammissibilità del c.d. trust interno e sulle sue problematiche applicative (17). Si è infatti evidenziato che l’art. 2645 ter c.c. risponderebbe all’esigenza di creare un modello generale di destinazione del patrimonio ad uno scopo, con cui il legislatore italiano potrebbe aver « mostrato di
voler abbandonare i precedenti stranieri che si muovevano nella direzione
della inurbazione di istituti stranieri come il trust » (18). Altri Autori (19) hanno invece messo in evidenza che l’art. 2645 ter c.c. non sarebbe in grado di
« di offrire al nostro ordinamento un istituto che possa competere o anche solo confrontarsi con il trust ».
Le diverse soluzioni apprestate hanno preso le mosse da un confronto tra
i due istituti che — se, come altrove (20) si è sottolineato, ci consegna alcune
differenze strutturali che risultano significative (dal punto di vista di alcuni
elementi peculiari (21), della struttura (22), della forma (23), dell’oggetto (24),
( 17 ) Sul punto, com’è noto, le interpretazioni sono state diverse. Taluni, richiamando
espressamente la proprietà nell’interesse altrui, hanno ricostruito conseguentemente la fattispecie prevista dall’art. 2645 ter c.c. come un’ipotesi di proprietà fiduciaria, parlando anzi della « prima inequivocabile emersione legislativa » (A. Gambaro, op. ult. cit., p. 171)
della proprietà fiduciaria nel diritto interno; altri Autori hanno messo in evidenza la mancanza — negli atti di destinazione — del carattere fiduciario dell’affidamento che è invece
centrale nei trust: dalla disciplina approntata nell’art. 2645 ter c.c. risulta solo la previsione
dell’ammissibilità e trascrivibilità di un negozio di destinazione con il quale il proprietario
« funzionalizza il bene, assoggettandolo ad una speciale regolamentazione » (A. De Donato,
Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in La trascrizione
dell’atto di destinazione, a cura di M. Bianca, cit., p. 50).
( 18 ) M. Bianca, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 34.
( 19 ) A. Zoppini, Prime (e provvisorie) considerazioni sulla nuova fattispecie, in La trascrizione dell’atto di destinazione, a cura di M. Bianca, cit., p. 100.
( 20 ) Sia consentito il richiamo a A.C. Di Landro, L’art. 2645 ter c.c. e il Trust. Spunti
per una comparazione, in R. not., 2009, 3, p. 583.
( 21 ) L’essenza dell’istituto inglese anzitutto, come si diceva, è l’affidamento fiduciario
(M. Lupoi, Gli atti di destinazione nel nuovo art. 2645 ter cod. civ. quale frammento di
trust, in Trusts e attività fid., 2006, cit., p. 172 e in R. not., 2006, p. 467 ss.; Id., I trusts
nel diritto civile, nel Tratt. Sacco, Torino 2004; Id., Il contratto di affidamento fiduciario,
in R. not., 2012, 3, p. 513 ss.), di cui manca qualunque riferimento nella norma in commento.
( 22 ) Quanto alla dinamica dei rapporti tra i soggetti coinvolti, è prevista la possibilità
che sia il conferente ad agire per l’attuazione del fine dell’atto di destinazione, il che allontana l’art. 2645 ter c.c. dalla disciplina inglese dei trust, che prevede la legittimazione ad
agire in capo ai beneficiari o al guardiano, non anche in capo al disponente.
( 23 ) Il trust inglese non è soggetto alla forma dell’atto pubblico ad substantiam; solo la
forma scritta viene prescritta dalla Convenzione dell’Aja (art. 3), sebbene nella pratica il ricorso all’atto pubblico sia considerato più prudente.
( 24 ) Dal punto di vista dell’oggetto, nel trust possono essere incluse anche posizioni non
dominicali, oltre che beni mobili non registrati, somme di denaro, titoli di credito.
732
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
della durata (25), del regime (26) di responsabilità (27)) — presenta anche talune intuitive affinità funzionali, che hanno fatto ritenere (28) di essere in presenza di un « frammento di trust » (29).
Si tratta di affinità che non valgono da sole a risolvere il noto problema
dell’ammissibilità dei c.d. trusts interni in Italia (30), ma che possono costitui( 25 ) L’atto di destinazione è soggetto alla durata massima di 90 anni o è parametrato
sulla vita della persona fisica beneficiaria; diverse, ancorché in parte corrispondenti, regole
sono stabilite sul punto in diritto inglese, nelle leggi del modello internazionale e degli Stati
Uniti.
( 26 ) Quanto al profilo della responsabilità patrimoniale, è stato sottolineato che nel caso
dell’art. 2645 ter c.c. la separazione sarebbe unilaterale e anche incompleta, attesa la mancanza di una disposizione che escluda espressamente i beni destinati dalla successione per
causa di morte e dal regime patrimoniale della famiglia del proprietario « fiduciario » (ove
si ricorra allo schema di un gestore), aggiungendosi inoltre che un’eventuale clausola dell’atto istitutivo che imponesse al gestore di prevedere, in caso di sua morte, l’attribuzione
della proprietà ad altro soggetto sarebbe di dubbia liceità alla stregua del divieto dei patti
successori.
( 27 ) Sembra poi che la destinazione sia compatibile con una gestione « statica », mentre è
certo che dinamica possa o debba essere quella del trustee nel trust (così come nella destinazione fiduciaria per come prevista negli artt. da 6 a 14 della l. 27 gennaio 2012, n. 3, che disciplinano « le situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili alle vigenti
procedure concorsuali ». Cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., p. 513 ss).
( 28 ) M. Lupoi, Gli « atti di destinazione » nel nuovo art. 2645 ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trust attività fid., 1, 2006, p. 171.
( 29 ) Legittimandone, con limiti, l’ammissibilità sulla base della prevalente considerazione (in questo senso Trib. Trieste, decr. 19 settembre 2007, cit.) che non occorra « una
perfetta sincronia strutturale o effettuale con i negozi tipici », ma che sia « sufficiente la
mera possibilità di condurre il negozio atipico a categorie — anche solo effettuali — apprezzate dall’ordinamento ».
Secondo quest’ultima pronuncia, la differenza tra trust ed atti di destinazione risiederebbe nel fatto che il primo sarebbe « negozio causalmente ben definito, ancorché tipizzato
solo per rinvio agli ordinamenti che lo disciplinano »; i secondi sarebbero « entità paranegoziali che, con una parafrasi “biogiuridica”, potremmo definire “opportuniste” in quanto,
in difetto di struttura vitale propria, devono aderire ad altre fattispecie negoziali per potere
dispiegare, sfruttando la loro struttura, gli effetti riconosciuti dall’art. 2645 ter c.c. ». La
presenza di quest’ultima norma « nel sistema giuridico potrebbe avere come conseguenza
quella di rappresentare un limite all’incondizionato ingresso nell’ordinamento italiano al
trust: oltre ai precedenti parametri, l’interprete si deve porre la domanda se debba essere
rispettato anche quello nuovo imposto dall’art. 2645 ter c.c.
Il disposto recentemente introdotto, in altri termini, potrebbe venire ad operare in modo
complementare, ma non perciò meno rilevante, rispetto al trust. L’esistenza di una norma
che consenta la separazione patrimoniale purché si perseguano interessi meritevoli di tutela, così come identificati in base alla interpretazione che sopra è stata riportata, farebbe sì
che oggi — al di fuori delle ipotesi di scissione tipizzate legalmente — potrebbe non essere
più legittimo attuare a nessun titolo, e quindi neanche a titolo di trust, una separazione con
finalità esclusivamente egoistiche e patrimoniali, motivata cioè da interessi non solo esclusivamente economici ma anche assolutamente individuali ».
( 30 ) Sulla cui rilevanza peraltro si sono già espressi la giurisprudenza di merito (cfr., ad
es., Trib. Perugia 16 aprile 2002, in Trusts & attività fiduciarie, 2002, p. 584; Trib. Roma
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
733
re un valido argomento ricostruttivo (31), ragionando soprattutto sulla relazione di reciproca interferenza tra l’art. 2645 ter c.c. ed l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1-7-1985, per superare le riserve di compatibilità con l’ordinamento dello strumento convenzionale, in rapporto all’art. 2740 c.c. e all’art. 13 della Convenzione (che fa riferimento a elementi importanti del trust
da riconoscere, connessi a Stati « che non prevedono l’istituto del trust o la
categoria del trust in questione ») e per consentirne la trascrivibilità (32).
3. — Il secondo profilo, relativo al giudizio di meritevolezza degli interessi tale da giustificare il vincolo di destinazione, appare centrale per delimitare
la portata applicativa dell’art. 2645 ter c.c. anche negli arresti giurisprudenziali (33), atteso che con tale ultima disposizione si è di fatto realizzata l’« abdicazione del potere legislativo » (34) di valutare positivamente la rilevanza
del fine di destinazione.
4 aprile 2003, ivi, 2003, p. 411; Trib. Milano 8 marzo 2005, ivi, 2005, 585; Trib. Saluzzo
9 novembre 2006, ivi, 2008, p. 290; Trib. Genova 1o aprile 2008, ivi, 2008, p. 392; Trib.
Bologna 23 settembre 2008, ivi, 2008, p. 631; Trib. Padova 2 settembre 2008, ivi, 2008, p.
628; Trib. Napoli, decr. 19 novembre 2008, ivi, 2009, p. 636; Trib. Modena, sez. Sassuolo,
11 dicembre 2008, ivi, 2009, p. 177, e in D. fam., 2009, 1259 (nota S. Nardi); Trib. Roma
11 marzo 2009, in Trust e attività fid., 2009, p. 541; Trib. Torino 31 marzo 2009, ivi,
2009, 413; Trib. Rimini 21 aprile 2009, ivi, 2009, p. 409; Trib. Genova 17 giugno 2009,
ivi, 2009, p. 531; Trib. Bologna 11 maggio 2009, ivi, 2009, p. 543; Trib. Firenze 17 novembre 2009, ivi, 2010, p. 176; Trib. Bologna 2 marzo 2010, ivi, 2010, p. 267, commentato da M. Casalini, Trust di scopo a vantaggio di una procedura concorsuale, ivi, 2010, p.
359; Trib. Genova 29 marzo 2010, ivi, 2010, p. 408; Trib. Forlì 23 settembre 2010, ivi,
2012, p. 83; Trib. Firenze 25 marzo 2011, ivi, 2011, p. 527; Trib. Urbino, ord. 11 novembre 2011, confermata da Trib. Urbino 31 gennaio 2012, entrambi in Trusts & attività fiduciarie, 2012, p. 401 e 406; Trib. Milano 15 novembre 2011, ivi, 2012, p. 408) e di legittimità (Cass. pen. 30 marzo 2011, n. 13276, in Trusts & attività fiduciarie, 2011, p. 408;
con commenti di M. Lupoi, ivi, p. 469 e di Di Amato, ivi, p. 472), la prassi (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio del 10 febbraio 2006, in Trust attività fid., 2006, p. 459) e la
legislazione tributaria (cfr. gli artt. 74-76 della l. 27 dicembre 2006 n. 296 e le Circolari
dell’Agenzia delle Entrate del 6 agosto 2007, n. 48/E e del 22 gennaio 2008 n. 3/E).
( 31 ) P. Manes, op. cit., p. 627; in questo senso anche lo studio del CNN Il trust: diritto
interno e Convenzione dell’Aja: Ruolo e responsabilità del notaio, 22 febbraio 2006.
( 32 ) Non può disconoscersi infatti che a seguito dell’espressa previsione della pubblicità
di un vincolo di destinazione da parte dell’art. 2645 ter c.c., anche la trascrizione del trust
pare ormai non incompatibile con l’ordinamento. Cfr. il decreto del Tribunale di Torino del
10 febbraio 2011 in Trusts & attività fid., 2011, p. 627 ss., con nota di Parisi.
( 33 ) Ancorché la meritevolezza sia stato interpretata, di volta in volta, come requisito
essenziale della fattispecie, o come onere per l’opponibilità. Ma v. quanto rilevato sul punto
da R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 239: « In primo luogo, infatti, risulta piuttosto eversivo affidare gli effetti della trascrizione, strumento destinato a
dare certezza al sistema della circolazione, alla sussistenza di un requisito di non facile accertamento oggettivo, quale quello della meritevolezza, influenzando quindi, con valutazioni elastiche ed incerte, non il piano sostanziale dell’atto, bensì le regole circolatorie e di opponibilità. »
( 34 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, op. ult. cit., p. 327.
734
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
Gli interessi meritevoli sono stati interpretati in maniera diversa — in
parte anche per l’influenza del dibattito non ancora sopito sull’art. 1322,
comma 2o, c.c., ora correlato all’indagine sulla compatibilità con i parametri
della liceità del negozio, dell’ordine pubblico e del buon costume (35) ora giudizio di rilevanza sganciato da questa indagine (36) — e correlativamente oggetto di letture diverse è stata l’ampiezza del relativo controllo, in sede di stipula dell’atto o, soprattutto, in fase di accertamento successivo, caso per caso,
ad opera del giudice (37); dalla necessità (in fase di redazione del negozio da
parte del notaio (38)) di verificare (esclusivamente) la liceità dello scopo (della
causa) (39), da esplicitare necessariamente nell’atto (40), all’obbligo di valutarne la rilevanza anche sotto il profilo della « selezione dei valori » (41) tali
( 35 ) F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano 1952, p. 13. In questo senso
anche Trib. Trieste, decr. 7 aprile 2006, cit.: « il giudizio di meritevolezza andrebbe confinato nel mero esame della non contrarietà del negozio alle norme imperative, all’ordine
pubblico ed al buon costume ».
( 36 ) E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, rist. 2002, p. 169; A. Cataudella, Il richiamo dell’ordine pubblico ed il controllo di meritevolezza come strumenti
per l’incoerenza della programmazione economica sull’autonomia privata, in Aa.Vv.,
Aspetti privatistici della programmazione economica, Milano 1971, p. 178; Guarneri, Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XI, Torino 1994, p. 407 ss.
( 37 ) Per A. Zoppini (Postilla ad A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter, in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione
sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, cit.,
2007, p. 40) « la conseguenza principale di tale norma è che ogni ipotesi di destinazione
patrimoniale potrà essere contestata ».
( 38 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 334: « Occorre chiedersi se il pubblico
ufficiale possa e debba rifiutarsi, a norma dell’art. 28, comma 1o, n. 1, l. not., di ricevere
l’atto costitutivo di un vincolo di destinazione importante separazione, qualora ritenga non
meritevole di tutela l’interesse al cui perseguimento il vincolo stesso è preordinato. La risposta non può che essere affermativa, in linea di principio, poiché l’atto di destinazione in
vista di un interesse non meritevole di tutela deve considerarsi nullo, in quanto inidoneo alla produzione dell’effetto di separazione voluto dall’autore; ora, è pacifico che l’intervento
notarile sia vietato almeno nei casi in cui dalla proibizione legale discenda la nullità dell’atto. Poiché, tuttavia, deve considerarsi incerto, nel caso di cui si tratta, il significato stesso di
quella meritevolezza di tutela dal cui mancato riconoscimento dipende la nullità, almeno
finché su tale significato non si formi un consolidato orientamento giurisprudenziale, non
sarà sanzionabile il comportamento del notaio che abbia ricevuto uno degli atti di cui all’art. 2645 ter, purché tale atto sia diretto al perseguimento, attraverso il vincolo di destinazione, di un fine almeno non illecito ».
( 39 ) Cass. 6 febbraio 2004, n. 2288, in Resp. civ., 2004, p. 1049. G. Gabrielli, Vincoli
di destinazione, cit., p. 328.
( 40 ) Tale expressio causae sarebbe idonea, fra l’altro, a sottrarre l’atto, ove bilaterale,
al regime rigoroso stabilito per la donazione. Sul punto G. Palermo, Configurazione dello
scopo, opponibilità del vincolo, realizzazione dell’assetto di interessi, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 85. A. Falzea, op. ult. cit., p. 7.
( 41 ) M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter c.c.: notazioni a margine di un provvedimento del
giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, p. 190; Id., Atto negoziale di destinazione e separazione, cit., p. 216: « il principio di meritevolezza rappresenta il punto di incon-
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
735
da giustificare l’effettiva sottrazione dei beni dall’attivo patrimoniale dell’originario titolare, nel quadro di una tutela degli interessi dei creditori del disponente (42), coinvolti dall’istituzione del vincolo.
Coerentemente con quest’ultima posizione, alcune pronunce (43) hanno
ritenuto che siano validi solo i vincoli inquadrabili nell’« autonomia privata
della solidarietà » (44), connotati da « pubblica utilità » (45), in relazione al
richiamo operato dalla norma in primo luogo, « a persone con disabilità » od
« a pubbliche amministrazioni »; in ambo i casi, caratterizzate da finalità di
interesse sociale e comunque inquadrabili nella stessa classe degli interessi rispetto ai quali è consentita dalla legge, con esemplificazione condotta con un
« decrescendo di intensità etica » (46), la costituzione di un vincolo di destinazione (47); viceversa dovrebbero considerarsi nulli (o, per alcuni, non opponibili), per mancanza della giustificazione causale, i vincoli privi di tale caratteristica (48).
tro tra libertà dell’atto di destinazione e il controllo sull’opponibilità dello stesso, attraverso
la regola di separazione patrimoniale ».
( 42 ) A. Gambaro, op. ult. cit., p. 170.
( 43 ) Ritiene che « gli interessi meritevoli di tutela richiamati dalla norma sono quelli attinenti alla “solidarietà sociale” e non gli interessi dei creditori di una società insolvente in
quanto, diversamente opinando, si consentirebbe ad un atto di autonomia privata, per di
più unilaterale, di incidere sul regime legale inderogabile della responsabilità patrimoniale
(artt. 2740 e seguenti c.c.) al di fuori di espresse previsioni normative », Tribunale di Vicenza, 31 marzo 2011, in Corr. merito, 8-9-/2011, p. 806, con nota critica di G. Rispoli e
in Corr. giur., 2012, 3, p. 397.
( 44 ) P. Spada, Conclusioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 203. Ciò anche in considerazione del fatto che l’unico interesse testualmente previsto dalla norma è quello relativo alla tutela dei disabili.
( 45 ) F. Gazzoni:, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., in Giust. civ., 2006, II, p. 170: « la
finalità destinatoria deve poter essere ricompresa in quel concetto di pubblica utilità, che
un tempo era alla base del riconoscimento delle fondazioni ».
( 46 ) P. Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Aa.Vv., Negozio
di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 126.
Come evidenziato, dai bisogni dei disabili si passa a quelli delle amministrazioni pubbliche,
fino ad estendere la portata della norma alle esigenze di qualsiasi persona o ente. Ritiene
che « non si richiede una particolare pregnanza dell’interesse del disponente, cioè la verifica
da parte dell’interprete di una sua graduazione poziore rispetto all’interesse dei creditori o
alla libera circolazione dei beni » G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione,
cit., p. 179.
( 47 ) Secondo M. Nuzzo, op. ult. cit., p. 68, « anche al di fuori delle fattispecie previste
dalle singole norme sui patrimoni separati, si deve (...) ritenere che ogni volta che l’interesse perseguito dall’atto di destinazione appartenga alla stessa classe degli interessi rispetto ai
quali è consentita dalla legge la costituzione di un vincolo di destinazione, si rientri nell’ambito degli interessi meritevoli di tutela che nell’art. 2645 ter giustificano la limitazione
della responsabilità patrimoniale ».
( 48 ) Al punto che, secondo la dottrina, una interpretazione diversa renderebbe la norma
costituzionalmente illegittima. G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 331: « la separazione, comportando indisponibilità del bene, si traduce in un limite della proprietà, che
736
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
La determinazione del contenuto della formula della « meritevolezza degli interessi », quando non anche del predicato della « solidarietà sociale »,
ponendosi sul piano dei valori, ha portato però a risultati diversi, condizionati
dalle specificità dei casi e dalle differenti sensibilità degli interpreti.
Così, ad esempio, il Tribunale di Vicenza (49) ha ritenuto (nel 2011) non
ammissibile un piano di liquidazione concordataria, considerando non meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. gli interessi dei creditori di una
società insolvente, perché non rispondenti ad un’esigenza di tutela della solidarietà sociale, che sola giustificherebbe al di fuori di espresse previsioni normative che un atto di autonomia privata incida sul regime legale inderogabile
della responsabilità patrimoniale. Il Tribunale di Lecco (50), l’anno successivo, ha considerato meritevole di tutela il fine perseguito da un’impresa che,
anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo, aveva costituito sul patrimonio un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. con lo
scopo dichiarato di permettere la soddisfazione proporzionale dei creditori
sforniti di cause di prelazione; ritenendo in particolare che tale iniziativa consentisse la conoscibilità dello stato di crisi e preservasse il patrimonio da eventuali atti di distrazione o da iniziative pregiudizievoli per alcuni creditori.
In materia di destinazione per « causa familiare » (51), il Tribunale di
Trieste (52) ha ritenuto che per l’individuazione dei valori in nome dei quali
operare la separazione si possa fare « riferimento al sistema costituzionale,
ne altera nell’essenza il contenuto normale; ora, la norma costituzionale consente bensì alla
legge di determinare “limiti” della proprietà, ma esclusivamente “allo scopo di assicurarne
la funzione sociale” (art. 43, comma 2o, Cost.). Il precetto costituzionale sarebbe violato
non soltanto se la legge limitasse direttamente la proprietà al fine del soddisfacimento di un
qualunque interesse privato, ma anche se al risultato pervenisse in via mediata, riconoscendo efficacia giuridica ad atti di autonomia istitutivi di limiti ».
( 49 ) Trib. Vicenza 31 marzo 2011, cit.
( 50 ) Trib. Lecco 26 aprile 2012, in www.ilcaso.it, 2012.
( 51 ) Su cui Giudice tutelare Saluzzo 19 luglio 2012, cit., secondo il quale « l’atto di destinazione di un compendio immobiliare ex art. 2645 ter c.c. a causa familiare a favore di
minori d’età non necessita dell’autorizzazione ex art. 320 c.c. sia per il conseguimento sia
per il consolidamento della posizione beneficiaria »; Trib.Bologna, 5 dicembre 2009, cit.,
che ha considerato valido l’accordo con cui, in sede di separazione personale, un coniuge si
è impegnato « ad apporre un vincolo di destinazione ai sensi e per gli effetti di cui all’art.
2645 ter c.c., sugli immobili di sua esclusiva proprietà, obbligandosi a non cedere l’immobile a terzi per tutta la durata del vincolo »; Tribunale Reggio Emilia, (decr. 26 marzo
2007, cit.), accogliendo accoglie un’istanza di modifica del verbale di separazione consensuale, ha ritenuto che risponda « ad una ottimale, anche perché incondizionata ed integrale, tutela della prole, e va perciò consentito il trasferimento, con atto formale, da un coniuge all’altro, a modifica del regime di separazione personale (o di divorzio) precedentemente
instaurato, di taluni beni immobili con il vincolo “erga omnes” di cui all’art. 2645 ter c.c.,
allo scopo di garantire ai figli minori un adeguato e sicuro mantenimento »; così anche Tribunale Reggio Emilia, 23 marzo 2007, in Corr. merito, 2007, 6, p. 701 e in Il civilista
2008, 12, p. 53 (con nota di Bianchi).
( 52 ) Trib. Trieste 19 settembre 2007, in Nuova g. civ. comm., 2008, 6, 1, p. 687, con
nota di Cinque, cit.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
737
ovvero a beni ed interessi corrispondenti a valori della persona costituzionalmente garantiti, sulla falsariga di quelli selezionati dalla giurisprudenza della
Suprema Corte di Cassazione come meritevoli di ristoro ai sensi dell’art. 2059
c.c. » ed ha ammesso il vincolo per soddisfare i bisogni di una famiglia di fatto. Il Tribunale di Roma (53), recentemente, con sentenza rilevante anche per
il profilo delle modalità di istituzione del vincolo, ha invece considerato che lo
scopo del mantenimento, istruzione ed educazione delle figlie minori di una
testatrice (che in loro favore aveva istituito un vincolo di destinazione con testamento) non sia assimilabile agli interessi previsti dall’art. 2645 ter c.c., che
dovrebbero connotarsi in senso etico e solidaristico « anche quando riferiti a
singole persone fisiche » (54).
Come si vede, soluzioni diverse, pur muovendo da analoghi punti di partenza.
Diverso approccio, sul punto, è stato peraltro seguito da altri Autori (55) che — ragionando su una interpretazione del riferimento all’art.
1322 c.c. ed al controllo sull’assenza di illiceità richiamato anche nei lavori
preparatori (56) — hanno invece ritenuto riduttivo ricondurre l’ambito di
applicabilità dell’art. 2645 ter c.c. alla soddisfazione di esigenze solidaristiche (57), ritenendo che non vi siano argomenti sufficienti per circoscrivere
la meritevolezza codicistica (ex art. 1322 c.c.) (58), anche in considerazione
del riferimentogenerico agli interessi di « altri enti o persone fisiche ». La
( 53 ) Trib. Roma 18 maggio 2013, cit.
( 54 ) E ciò anche in considerazione della durata prevista del vincolo, che eccedeva notevolmente il limite della maggiore età delle eredi, e del dato per cui lo scopo in questione sarebbe già oggetto di specifica tutela attraverso il controllo previsto per gli atti di disposizione dei beni dei minori da parte dell’autorità giudiziaria.
( 55 ) G. Vettori, Atti di destinazione e trust, in G. Vettori (cur.), Atti di destinazione e trust
(art. 2645 ter del codice civile), cit., p. 9. Sulla stessa linea, G. Palermo, op. ult. cit., p. 77.
( 56 ) Si guardi il parere espresso dalla Commissione Permanente di Giustizia in data 28
giugno 2005, reperibile all’indirizzo http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/bollet/200506/
0628/pdf/02.pdf, nel quale espressamente si sottolinea che il giudizio di meritevolezza coincide con l’accertamento di non contrarietà del negozio realizzato alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume e non comporta dunque alcuna valutazione di utilità sociale della
destinazione (il che, peraltro, secondo la Commissione, introdurrebbe un vulnus al principio dell’art. 2740 c.c. e come tale avrebbe suggerito la non adozione dell’articolo in commento).
( 57 ) A. Di Majo (op. ult. cit., p. 114) ha segnalato che il riferimento agli interessi meritevoli, non incastonandosi nell’ambito di una negoziazione bilaterale, comporterebbe
un’anomalia perché qui « l’interesse meritevole non è legato ad un fenomeno di scambio e
cioè ai termini oggettivi di esso ma alle persone dei beneficiari ». P. Spada (Articolazione
del patrimonio da destinazione iscritta, cit., p. 124) segnala l’ambiguità della formula dell’art. 2645 ter che « prima sembra orientare la meritevolezza ai sommi valori della solidarietà e poi “svenderla” richiamando la norma dell’art. 1322 c.c. che, nel diritto “vissuto”,
fa della meritevolezza una condizione equivalente alla liceità ».
( 58 ) G. Oppo, Brevi note sulla trascrizione di atti di destinazione (Art. 2645 ter c.c.), in
questa Rivista, 2007, 1, p. 2.
738
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
norma, secondo questa dottrina, non sarebbe concepita « per esigere valutazioni funzionali di prevalenza dell’interesse del disponente rispetto a
quello dei creditori danneggiati dalla separazione dei beni oggetto del vincolo » (59) ma anzi legittimerebbe la riferibilità ad un interesse soggettivo
atipico (60), di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, anche di
carattere individuale (61).
Anche le interpretazioni più rigorose (62), peraltro, hanno precisato — e
si è posto in questa linea anche il citato decreto del Tribunale di Trieste del
2007 — che « la selezione degli interessi, al fine di verificare se il vincolo di
destinazione sia idoneo a giustificare la separazione, non può operarsi che
sulla base del sistema costituzionale: potrà ammettersi, allora, la costituzione
del vincolo non soltanto se diretto al perseguimento di un interesse collettivo
(come, per esempio, quelli al progresso della ricerca scientifica ed alla tutela
dell’ambiente o del patrimonio culturale), ma anche di un interesse individuale, purché incondizionatamente tutelato e, quindi, di natura non meramente patrimoniale: quegli stessi interessi, corrispondenti a “valori della persona costituzionalmente garantiti”, la cui lesione un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato considera in ogni caso risarcenda, a prescindere
dall’espressa previsione di legge di cui all’art. 2059 c.c. ».
Sul punto, dunque, dovrà probabilmente attendersi che si formi un consolidato e uniforme orientamento della giurisprudenza. Fino ad allora, può
dirsi che il dato letterale, se non legittima senz’altro una indiscriminata apertura alla destinazione patrimoniale purché (solo) lecita, non fornisce però argomenti decisivi per ricondurla esclusivamente alla « pubblica utilità »; essa
piuttosto sollecita un giudizio « relazionale » (63) e comparativo tra l’interesse
sacrificato (dei creditori generali, valutando anche se dal caso emerga alcun
intento fraudolento), e l’interesse realizzato con l’atto di destinazione. Un giudizio che, anche questa è questione sulla quale le posizioni possono essere diverse, può attingere i valori da fattispecie analoghe per le quali la legge ha già
( 59 ) G. Vettori, Atto di destinazione e trust: prima lettura dell’art. 2645 ter, in Obbl.
contr., 2006, 10, p. 777.
( 60 ) G. Palermo, Nemini res sua servit (servitù e vincoli atipici), in Nuova g. civ. comm.,
2011, p. 340. In base all’art. 2645 ter c.c. « Domino res sua servit sembra allora poter dire,
operando il ribaltamento della prospettiva assunta dall’autore del codice e dando spazio a
un “nuovo modo di possedere”, nonché di trarre utilità dal bene compreso nella propria
sfera di appartenenza ».
( 61 ) A. Azara, « La disposizione testamentaria di destinazione », Commento a Trib. Roma 18 maggio 2013, in Nuova g. civ. comm., 2014, parte I, p. 89.
( 62 ) G. Gabrielli, op. ult cit., p. 332.
( 63 ) Così M. Nuzzo, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione del’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p. 68: « ... giudizio relazionale... nel senso che il giudizio di meritevolezza costituisce il risultato di una valutazione comparativa tra l’interesse sacrificato, che è quello dei creditori generali, e l’interesse realizzato con l’atto di destinazione ».
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
739
operato la selezione quali, ad esempio, il fondo patrimoniale (64) o può essere
orientato proprio considerando che, laddove il legislatore ha voluto prevedere
eccezioni al principio della responsabilità patrimoniale universale, lo ha fatto
espressamente e con disposizioni insuscettibili di applicazione analogica.
Si aggiunga infine che non solo il « se » della destinazione ma anche il
« come » (65) è anch’esso « criterio alla stregua del quale valutare la legittimità degli interessi perseguiti »: il giudizio di meritevolezza degli interessi deve
essere apprezzato, cioè, in una valutazione complessiva, che tenga conto anche delle modalità con cui il vincolo viene costituito; ma il tema, come si vedrà, rimanda ad un altro punto del nostro discorso.
4. — L’analisi dell’ultimo profilo di questa ricostruzione può servirsi di
una recente decisione del Tribunale di Roma, interessante perché tocca tutte
le questioni finora esaminate e ne aggiunge una nuova, trattandosi del primo
caso di vincoli di destinazione istituti per testamento.
A fronte di un’azione proposta da uno degli eredi per far dichiarare la
nullità/annullabilità/inefficacia di una disposizione testamentaria costitutiva
del vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., adducendo la violazione della
disposizione dell’art. 549 c.c., l’illegittimità del divieto perpetuo di divisione,
il difetto dei requisiti della meritevolezza e dell’altruità degli interessi di cui
all’art. 2645 ter c.c., il Tribunale dichiara inefficace (rectius nullo) il vincolo
di destinazione istituito mortis causa in favore dei legittimari della testatrice,
ritenendo che esso non possa essere costituito tramite testamento, e che, essendovi coincidenza tra l’erede del bene ed il beneficiario del vincolo sullo
stesso cespite, si verificherebbe una sostanziale espropriazione delle facoltà
che costituiscono il contenuto del diritto del proprietario, risultando questi
( 64 ) Strumento quest’ultimo che costituisce figura tipica di patrimonio di destinazione
per interessi della famiglia,ma che non può trovare applicazione al di fuori del ristretto ambito della famiglia legittima attuale, e non è utilizzabile per provvedere, ad esempio, ai bisogni dei membri di una famiglia di fatto o di una famiglia legittima ove il vincolo matrimoniale si sciolga a seguito del decesso di uno dei coniugi.
R. Lenzi, op. cit., p. 244: « La figura speciale del fondo patrimoniale costituisce non solo un rassicurante parametro al fine di valutare la legittimità del negozio in concreto, ma
anche un utile modello di riferimento, nell’esercizio dell’autonomia privata, per costruire la
disciplina della fattispecie ». Il collegamento è stato, del resto, fissato nel citato parere della
Commissione giustizia del 28 giugno 2005, con cui si è anzi evidenziato che « la disciplina
introdotta mediante il nuovo articolo 2645 ter concernente i beni conferiti (ed i relativi
frutti) sembrerebbe modellata su quella di cui agli articoli 168 e seguenti del codice civile
riguardanti il fondo patrimoniale, anche se, rispetto ad essa, si differenzia per la previsione
di una più piena ed efficace garanzia sui beni rispetto agli atti di esecuzione », non essendo
questi subordinati alla dimostrazione alla conoscenza che il creditore avesse della destinazione.
( 65 ) R. Lenzi, op. ult. cit., p. 241: « La valutazione circa la conformità al sistema non
potrà quindi limitarsi al “se” della destinazione ma anche al “come”, cioè alle regole di attuazione dettate dall’autonomia privata. Anch’esse costituiranno criterio alla stregua del
quale valutare la legittimità degli interessi perseguiti ».
740
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
abilitato a godere solo di alcune delle utilità prodotte dal bene. Incidentalmente si precisa che un’anomalia del genere non sussisterebbe nel caso dell’istituzione di un trust, che comporta il trasferimento della proprietà non al
beneficiario, ma al trustee, il quale è gravato dall’obbligo di amministrazione
e gestione nell’interesse altrui.
Un caso interessante, dunque, per i profili che sinora sono stati analizzati,
ma anche per l’ultimo citato, attinente alle modalità di istituzione del vincolo.
È, questa, una delle questioni problematiche lasciate insolute dalla norma in commento, stante il riferimento (forse volutamente (66)) generico all’« atto » trascrivibile formulato dall’art. 2645 ter c.c.
Tale richiamo, in effetti, potrebbe consentire ai privati di adottare, per
realizzare l’effetto di destinazione, strumenti diversi (67) anche in relazione all’intento variabile e ulteriore di accompagnare tale ultimo effetto con quello
traslativo: il vincolo potrebbe essere tanto « autodestinato », quanto « finale », ove costituito dal conferente direttamente in favore del beneficiario,
quanto « strumentale », ove si scelga di farlo gravare non sul disponente ma
su un diverso soggetto « gestore », chiamato a realizzare lo scopo dell’operazione (68). La gestione, cioè, potrebbe essere riservata a sé dal conferente (con
negozio non traslativo, sganciando la destinazione dal profilo attributivo (69),
ove il costituente intenda istituire il vincolo, ma non spogliarsi della proprietà
del bene (70), e attribuire il controllo al beneficiario), affidata al beneficiario
(con controllo da parte del conferente), o affidata ad un terzo (schema, quest’ultimo, rispetto al quale si porrebbero poi una serie di ulteriori problemi in
merito alla scelta degli strumenti di attribuzione dell’ufficio gestorio (71) —
( 66 ) La scelta di non riferirsi né al negozio né al contratto è stata interpretata da autorevole dottrina come risultato di una precisa opzione del legislatore, che avrebbe così inteso
lasciare libertà di adozione dello strumento più opportuno; « qualunque tipologia di atto
giuridico è di per sé ammessa ed efficace », si è assunto, e potrebbe dunque essere oggetto
di formalizzazione notarile e di trascrizione. A. Falzea, in M. Bianca (cur.), La trascrizione
dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 5. Sulla stessa linea anche M. Nuzzo, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, ivi, p. 60.
( 67 ) M. Bianca, Novità e continuità..., cit., p. 33.
( 68 ) In questo senso, G. Palermo, Interesse a costituire il vincolo di destinazione e tutela
dei terzi, in G. Vettori (cur.), Atti di destinazione e trust (art. 2645 ter del codice civile),
Padova 2008, p. 287. L’ammissibilità di un soggetto attuatore della destinazione diverso
dal conferente potrebbe discendere dalla previsione della possibilità che quest’ultimo agisca
per la realizzazione dello scopo, atteso che non sarebbe concepibile un’azione giudiziaria
del destinante contro sé stesso. Cfr. sul punto M. Bianca-M. D’Errico-A. De Donato-C.
Priore, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, Milano 2006, p.
31.
( 69 ) Sul punto, cfr. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in questa
Rivista, 2007, p. 208.
( 70 ) G. De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., relazione al seminario « Atti notarili di
destinazione dei beni: articolo 2645 ter c.c. », Milano 19 giugno 2006.
( 71 ) A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter c.c.,
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
741
con o senza il trasferimento temporaneo della proprietà (72)-ed alle tutele utilizzabili in casi di inerzia o abusi del gestore (73)).
Conseguentemente le soluzioni prospettate in merito alla natura del negozio istituivo del vincolo sono state, nell’interpretazione della giurisprudenza (74) e della dottrina, oscillanti nell’alternativa tra struttura unilaterale o bilaterale.
Secondo alcuni Autori, in particolare, lo schema ordinario cui fare riferimento sarebbe il negozio unilaterale, anche perché l’ammissibilità di un atto
bilaterale troverebbe ostacolo nel carattere volutamente generico della categoria dei beneficiari della destinazione e nel riferimento a « qualsiasi interessato » fra i soggetti che possono agire per la realizzazione degli interessi indicati (75).
Per altri Autori (76) la natura contrattuale (e gratuita) dell’atto istitutivo
deriverebbe invece anche dall’art. 1987 c.c., che impone la tipicità degli atti
unilaterali e l’impossibilità di effettuare un’attribuzione patrimoniale al di
in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano 2007, p. 35.
( 72 ) Sotto forma di sublegato ex art. 662 c.c., attraverso due disposizioni a titolo particolare connesse fra loro (l’una a favore del beneficiario, l’altra a favore del gestore), e con
applicazione dell’art. 671, c.c., ove si aderisca alla tesi della costituzione per testamento.
Cfr. A. Merlo, op. cit., p. 514.
( 73 ) Cfr. sul punto M. Ieva, op. cit., p. 1295; A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali
atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. d. civ., 2007, p. 33 ss.
( 74 ) Secondo Trib. Reggio Emilia, ord. 26 marzo 2007, cit.: « la locuzione impiegata all’inizio dell’art. 2645 ter c.c., deve, perciò, essere riferita al genus dei negozi (atti e contratti) volti ad imprimere vincoli di destinazione ai beni, purché stipulati in forma solenne; del
resto, il successivo richiamo all’art. 1322 comma 2o c.c., dimostra che la norma concerne
certamente anche i contratti ». Cfr. anche Trib. Reggio Emilia, sez. I, 30 novembre 2006,
in Redazione Giuffrè, 2007; Trib. Reggio Emilia, sez. I, 23 marzo 2007, in G. mer., 2007,
12, p. 3183 con nota di Di Profio, cit.
( 75 ) A. Di Majo, Il vincolo di destinazione tra atto ed effetto, in M. Bianca (cur.), La
trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p.
118, ritiene che l’atto sia unilaterale « nella intrinseca sostanza » anche nel caso di attribuzione fiduciae causa, « ove il fiduciario non fa altro che prendere atto della destinazione ed
offrirsi di contribuire alla sua realizzazione » (p. 114).
Secondo F. Gazzoni, (Osservazioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione..., cit., p. 223),
la struttura unilaterale comporterebbe la conseguenza che « il beneficiario, ricevuto l’atto,
diverrebbe creditore della prestazione, nel senso di poter profittare del vincolo, immediatamente, senza dover manifestare volontà alcuna, onde potrebbe solo, ove fosse contrario all’attribuzione, ricorrere alla remissione del debito, con il rischio di una controdichiarazione
del conferente, il quale dichiari di non volerne profittare (art. 1236 c.c.), salvo ipotizzare il
rifiuto quale rimedio di carattere generale, che il terzo potrebbe sempre liberamente utilizzare, al fine di salvaguardare la propria sfera giuridica personale o patrimoniale dalle altrui
attribuzioni o dichiarazioni indesiderate ».
( 76 ) F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c. in Giust. civ., 2006, II, p. 165 e ss. e
in www.judicium.it. Per le diverse posizioni, cfr. A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei
primi commenti dell’art. 2645 ter c.c., p. 35, cit.
742
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
fuori delle ipotesi tipiche (77). La struttura bilaterale — che altra dottrina non
esclude si accompagni a corrispettività (78) — sarebbe compatibile con gli
schemi fin qui riferiti: tanto con l’accordo tra destinante e beneficiario, la cui
accettazione varrebbe a superare le difficoltà connesse all’intangibilità della
sua sfera giuridica e sarebbe anzi necessaria ove la costituzione gratuita sia
determinata da spirito di liberalità (79); quanto con il ricorso ad un gestore
del programma formato dal conferente, diverso da quest’ultimo (ma non necessariamente dal beneficiario).
Quanto alla possibilità che tale negozio attributivo sia stipulato sia inter
vivos che mortis causa, la tesi contraria, accolta dall’organo giudicante nella
sentenza da ultimo citata, interpreta la scelta del richiamo all’atto pubblico
dell’art. 2645 ter c.c. come voluta esclusione del testamento, invece espressamente previsto come titolo costitutivo in fattispecie funzionalmente affini come il fondo patrimoniale o le fondazioni. La deroga al principio della responsabilità patrimoniale universale ex art. 2740 c.c., che si realizza ammettendo
la possibilità di stipulare atti di destinazione, non consentirebbe fra l’altro
un’interpretazione estensiva della norma, laddove essa fa, appunto, generico
riferimento all’« atto ».
Ulteriore argomento utilizzato dal Tribunale di Roma per sostenere la tesi contraria alla costituzione del vincolo di destinazione tramite testamento
attiene al richiamo operato all’art. 1322 c.c.; tale riferimento al controllo di
meritevolezza degli interessi si giustificherebbe solo « per i contratti che non
appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare » e non avrebbe alcuna
ragione d’essere per il testamento, per cui operano altri limiti (il rispetto dei
( 77 ) Secondo P. Spada, Conclusioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p. 204, è certo che, ove si ammetta la struttura bilaterale, non avrebbe senso, né sarebbe coerente col dato letterale della
norma in commento, la coincidenza tra la persona del destinante e del beneficiario. « Non
dovrebbero potersi configurare destinazioni equivalenti ai cc.dd. trust autodestinati ». In
questo senso la dottrina prevalente.
( 78 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, cit., p. 335: « Poiché la costituzione di un vincolo di destinazione importante separazione patrimoniale dà luogo in ogni caso ad un rapporto patrimoniale fra proprietario gravato e portatore dell’interesse alla destinazione stessa, lo strumento normale della costituzione non può che essere il contratto. Non sembra, anzi, di dover escludere l’ammissibilità anche di contratti connotati da corrispettività, come può accadere nel caso in cui al proprietario che consenta a subire il vincolo venga attribuito, a fronte, un qualche vantaggio ».
( 79 ) Per G. Gabrielli, op. ult. cit., p. 336, non è escluso che « ben può esservi, a fondamento della costituzione, un interesse proprio dello stesso costituente, diverso da quello di
beneficiare; in questi casi di contratto gratuito, ma non liberale, ben può ammettersi che il
vincolo si costituisca per effetto della sola dichiarazione del proprietario gravato, una volta
resa conoscibile dal beneficiario, se non segua entro congruo termine il rifiuto di quest’ultimo ». La rilevanza da riconoscersi all’eventuale rifiuto della persona nel cui interesse il proprietario consente al vincolo fa sì che la fattispecie costitutiva sopra individuata si configuri
ancora come contratto, sia pure a formazione unilaterale.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
743
diritti riservati ai legittimari, il divieto dei patti successori) e un diverso canone di valutazione della liceità (80) (dei motivi, contenuto nell’art. 626 c.c.,
non già nell’art. 1322 c.c.) (81).
Sul punto, è da dire, dissentendo dalla soluzione fin qui riferita, che la
possibilità che il negozio istitutivo del vincolo di destinazione sia stipulato
tanto inter vivos quanto anche mortis causa, (o, quanto meno, l’impossibilità
di escludere che possa essere stipulato anche mortis causa) sembra risultare
proprio dalla lettera della norma: in primo luogo, dalla previsione per cui i
terzi interessati possono agire per l’attuazione del fine anche durante la vita
del conferente; il che, evidentemente, implica la possibilità che essi agiscano
anche dopo la morte del medesimo e ammette l’eventualità della eccedenza
della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente stesso. Ciò, fra l’altro, sarebbe anche confermato dalla previsione per cui il limite temporale
massimo è quello della durata della vita non del disponente, ma della persona
fisica beneficiaria.
Si potrebbe obiettare a tal proposito che gli evidenziati dati letterali autorizzino a ritenere validi atti istitutivi del vincolo (inter vivos) con effetti post
mortem (per condizione di premorienza o termine di efficacia coincidente con
la morte del disponente) o comunque con prolungamento della durata del
vincolo oltre la morte del conferente, non anche atti mortis causa (qual è il testamento).
E però, anche dal punto di vista della ratio che presiede alla scelta del tipo di atto, non sembra autorizzare alcuna discriminazione tra negozi inter vivos e di ultima volontà (82) il generico riferimento alla categoria degli « atti in
forma pubblica »; il quale anzi, privilegiando il dato formale rispetto a quello
della natura del negozio, dimostra di dare peso prevalentemente al rispetto di
adempimenti formali, giustificati anche dall’intento di consentire un controllo
di legalità degli interessi perseguiti e funzionali poi a permettere la pubblicità
e dunque l’opponibilità del vincolo (83). Anzi, il dato letterale ha suggerito a
( 80 ) M. Ieva, op. cit., p. 1297; A. Merlo, op. cit., p. 512.
( 81 ) Ulteriore argomento utilizzato dalla dottrina attiene al principio il principio di
equivalenza delle forme testamentarie; la sua considerazione ha però portato a diverse conseguenze interpretative, perché secondo alcuni Autori (M. Ieva, op. cit., p. 1297) la sua
operatività precluderebbe la possibilità di costituire vincoli tramite testamento (stante, appunto, la regola della necessaria equivalenza quanto agli effetti dei diversi tipi di testamento), secondo Altri « una volta individuato nel testamento un idoneo atto di destinazione,
non può però reputarsi necessaria la forma del testamento pubblico » (R. Quadri, L’art.
2645 ter e le nuove discipline degli atti di destinazione, in Contratto e impr., 2006, p.
1725).
( 82 ) Così, in commento alla medesima sentenza, anche R. Calvo, Vincolo testamentario
di destinazione: il primo precedente dei tribunali italiani, in Fam. e d., 2013, cit.
( 83 ) Ove anche si consideri che la trascrivibilità del vincolo testamentario di destinazione non è espressamente prevista, secondo alcuni (F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, in Famiglia, Persone e Successioni, 2011, 5, p. 384 ss.) essa si potrebbe fondare
sul richiamo, effettuato dall’art. 2648 c.c., ai nn. 1), 2) e 4) dell’art. 2643 c.c., atteso che
744
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
parte della dottrina (84) che la prescritta forma solenne sia imposta per la
stessa validità dell’atto (85), anche perché l’esigenza di attendibilità propria
del sistema pubblicitario avrebbe potuto essere soddisfatta anche dalla semplice autenticazione della scrittura privata: ciò che imporrebbe, questo sì, la
necessità che il vincolo sia costituito con testamento pubblico (86).
Non sarebbe necessaria dunque un’interpretazione estensiva dell’accezione « atto », di per sé inclusiva, senza alcuna forzatura (se non con l’avvertenza del rispetto della forma pubblica), del testamento.
Del resto, una volta soddisfatti gli oneri di forma, nemmeno ragioni sol’effetto di separazione patrimoniale costituisce un minus rispetto a quello del trasferimento
della proprietà ivi considerato.
L’argomento della mancata espressa menzione del testamento quale titolo costitutivo
del vincolo di destinazione è criticato da chi (A. Merlo, op. cit., p. 510) ha messo in evidenza che « laddove il legislatore ha inteso vietare una determinata disposizione testamentaria, non ha semplicemente taciuto al riguardo, bensì lo ha indicato in modo espresso (ad
es. si veda l’art. 2821 c.c. che vieta la costituzione di ipoteca per testamento) ». In questo
senso anche C. Romano, Vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645 ter c.c.: spunti
per ulteriori riflessioni, nota a Trib. Roma 18 maggio 2013, cit., p. 68.
( 84 ) Secondo A. Gentili, op. cit., p. 9 « la tesi che l’atto pubblico sia richiesto ad substantiam ha supporti sostanziali. L’atto di destinazione è infatti, con l’attribuzione, una
delle due specie della generale categoria della disposizione. È principio pacifico che le attribuzioni patrimoniali a titolo gratuito per causa liberale per loro natura (incidenza sul patrimonio del disponente) richiedano la forma pubblica. È perciò coerente che anche la destinazione, in quanto implica la devoluzione liberale al beneficiario dei relativi vantaggi, richieda l’atto pubblico ». Su questa linea anche M. Ieva, op. cit., p. 1296.
( 85 ) Un piano diverso di discussione attiene all’idea per cui nella destinazione patrimoniale ex art. 2645 ter c.c. non si ha segregazione senza trascrizione (G. Gabrielli, La pubblicità immobiliare, in Tratt. Sacco, Torino 2012, p. 80; L. Bullo, Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2545 ter c.c. e fondi comuni di investimento ex art. 36, comma 6o, del
t.u.f.: quale modello di segregazione patrimoniale?, cit., p. 563.; G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione, cit., p. 325: « sarebbe lecito il dubbio, a volere rispettare la sequenza formale degli enunciati normativi, che la separazione del bene sia disposta
come effetto dell’esecuzione della pubblicità ») — e dunque la destinazione avrebbe valore
meramente interno e obbligatorio.
Cfr. anche M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in questa Rivista,
2007, I, p. 197 ss. secondo la quale la destinazione opera sul piano dell’atto, mentre la separazione opera sul piano dell’opponibilità.
( 86 ) Così G. Gabrielli, op. ult. cit., p. 337. Sulla stessa linea G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in questa Rivista, 2006, II, cit., p. 165. Secondo una diversa
tesi (cfr. sul punto Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano 2009, p. 308;
R. Quadri, L’art. 2645 ter c.c. e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto
e impr., 2006, p. 1717), in base al principio di equivalenza delle forme testamentarie quanto agli effetti producibili, il vincolo ex art. 2645 ter c.c. potrebbe essere validamente costituito con qualsivoglia forma testamentaria, sia olografa, segreta o pubblica; ciò anche sulla
base della considerazione che ove si ritenesse idoneo a costituire il vincolo il solo testamento
pubblico, lo stesso dovrebbe essere revocato unicamente in forma pubblica, (con ulteriore
deroga al suddetto principio) e che in caso di fondazione testamentaria, non è dubbio che la
stessa possa essere costituita, oltre che a mezzo di testamento pubblico, altresì mediante
una scheda olografa.
CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA
745
stanziali deporrebbero in senso contrario, ché certamente — come sostenuto
con riferimento al negozio di fondazione (87) e ribadito anche da coloro che
hanno accolto sul punto una tesi restrittiva (88) — ove ne ricorrano i presupposti, l’atto (il testamento) di costituzione del vincolo di destinazione potrà
essere impugnato con l’azione di riduzione o con l’azione di nullità ex art.
549 c.c. (89).
Non dovrà trascurarsi, inoltre, per la risoluzione della questione in esame, la regola che presiede all’interpretazione del testamento, cristallizzata
nella formula del c.d. favor testamenti: trattandosi di atto che è per natura
irripetibile nel momento in cui diviene operativo, l’interprete dovrà sforzarsi
di dare al suo contenuto un significato quanto più possibile conforme alle
intenzioni del testatore, quali risultano proprio dalla scheda testamentaria. È
un’applicazione di questo principio, ad esempio, l’art. 625 c.c., secondo il
quale l’errata o falsa rappresentazione del significato oggettivo della dichiarazione — quanto alla persona dell’erede o del legatario o quanto alla cosa
che forma oggetto della disposizione — non impedisce l’interpretazione correttiva del testo allo scopo di far prevalere l’effettivo intento del disponente (90).
Si aggiunga che anche nel nostro ordinamento esistono schemi di coesistenza della pienezza della titolarità ottenuta per successione con l’onere di
destinare specifici beni a favore di un terzo onorato, che vale a svuotare la
pienezza dell’attribuzione (è il caso, appunto, dell’istituzione di erede gravata
da un modus ma anche del legato, ove il fine destinatorio sia dal testatore
preordinato all’attribuzione di un diritto ad un soggetto determinato), così
come è testualmente ammessa la possibilità che il testatore imprima ai beni
( 87 ) F. Galgano, Delle persone giuridiche (Art. 11-35),in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1969, p. 175.
( 88 ) M. Ieva, op. cit., p. 1289.
( 89 ) Piuttosto, un limite applicativo della norma in commento si profila con riguardo
alla natura dei beni che possono formare oggetto del vincolo, e proprio in relazione al rispetto delle formalità pubblicitarie richieste; non invece in relazione al tipo di atto o alla
causa del medesimo, o ad altri vincoli di natura soggettiva (nel senso che il riferimento ad
« altri enti o persone fisiche » autorizzerebbe il ricorso a tale strumento sia da parte di soggetti privati che di persone giuridiche).
Secondo A. Falzea (op. ult. cit., p. 6), qualsiasi bene può formare oggetto dell’atto di
destinazione, se confacente con la realizzazione dello scopo. Anche A. Picciotto, op. ult.
cit., p. 1318 sottolinea che tale effetto potrebbe realizzarsi pure con riferimento ai beni mobili, risultando però sganciato dagli adempimenti formali prescritti dall’art. 2645 ter e
« con tutte le gravi implicazioni in tema di opponibilità, potrebbe accedere anche a negozi
non traslativi (ad es. mandato) ». Per A. De Donato (Il negozio di destinazione nel sistema
delle successioni a causa di morte, in La trascrizione dell’atto di destinazione, a cura di M.
Bianca, cit., p. 41) l’istituzione di un vincolo su bene mobile potrebbe avvenire « a condizione che sia realizzabile una pubblicità idonea ad evidenziare la destinazione, secondo le
regole di circolazione del singolo bene mobile ».
( 90 ) Si veda sul punto G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo
ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano 1954, p. 184.
746
RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014
relitti una destinazione tipica in termini di costituzione (diretta o indiretta) di
fondazione, o ancora in termini di costituzione di fondo patrimoniale. Tali
fattispecie mostrano, dunque, che la destinazione patrimoniale non può dirsi
estranea al regolamento testamentario di interessi e che il valore aggiunto della disposizione finora commentata risiede, oltre che nella portata generale
della causa destinatoria, anche nella sua opponibilità ai terzi tramite trascrizione.
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ELENCO E PREZZI DEI PERIODICI «CEDAM» per il 2014
1) «ADL - Argomenti di diritto del lavoro» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia
€ 167,00, Estero € 195,00.
2) «Contratto e Impresa» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 190,00, Estero
€ 231,00.
3) «Contratto e Impresa/Europa» (semestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 118,00,
Estero € 156,00.
4) «Diritto e Pratica Tributaria» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 286,00,
Estero € 380,00.
5) «Diritto e Pratica Tributaria Internazionale» (quadrimestrale - solo on-line): prezzo di
abbonamento € 97,00.
6) «Il Diritto Fallimentare e delle Società Commerciali» (bimestrale): prezzo di abbonamento
per l’Italia € 213,00, Estero € 265,00.
7) «L’Indice Penale» (semestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 117,00, Estero € 144,00.
8) «La Nuova Giurisprudenza Civile Commentata» (mensile): prezzo di abbonamento per l’Italia
€ 225,00, Estero € 289,00.
9) «Le Nuove Leggi Civili Commentate» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia
€ 193,00, Estero € 264,00.
10) «Rivista di Diritto Civile» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 173,00, Estero
€ 221,00.
11) «Rivista di Diritto Internazionale Privato e Processuale» (trimestrale): prezzo di abbonamento
per l’Italia € 149,00, Estero € 198,00.
12) «Rivista di Diritto Processuale» (bimestrale): prezzo di abbonamento per l’Italia € 178,00,
Estero € 207,00.
13) «Rivista Trimestrale di Diritto Penale dell’Economia» (trimestrale): prezzo di abbonamento
per l’Italia € 154,00, Estero € 203,00.
14) «Studium Iuris» (mensile): prezzo di abbonamento a 12 numeri per l’Italia € 151,00, Estero
€ 208,00.
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PROPRIETÀ LETTERARIA
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ISBN 978-88-13-34356-9
STAMPATO IN ITALIA
€ 35,00
PRINTED IN ITALY