ISSN 0035-6093 N. 3 MAGGIO-GIUGNO ANNO LX 2014 FONDATA E RETTA DA WALTER BIGIAVI E ALBERTO TRABUCCHI (1955-1968) (1968-1998) COMITATO DI DIREZIONE C. MASSIMO BIANCA FRANCESCO D. BUSNELLI GIORGIO CIAN ANGELO FALZEA ANTONIO GAMBARO NATALINO IRTI GIUSEPPE B. PORTALE ANDREA PROTO PISANI PIETRO RESCIGNO RODOLFO SACCO VINCENZO SCALISI PIERO SCHLESINGER PAOLO SPADA VINCENZO VARANO E GUIDO CALABRESI ERIK JAYME DENIS MAZEAUD ÁNGEL ROJO FERNÁNDEZ-RIO www.edicolaprofessionale.com/RDC Pubbl. bimestrale - Tariffa R.O.C.: Poste Italiane S.p.a. - Sped. in abb. post. - D. L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano La Rivista fu fondata nel 1955, sotto gli auspici dell’Istituto di Diritto della Facoltà di Economia e Commercio di Bologna e dell’Istituto di Diritto Privato dell’Università di Padova, da: Enrico Allorio, Walter Bigiavi, Luigi Carraro, Giorgio Oppo, Alberto Trabucchi. Comitato di Direzione: C. MASSIMO BIANCA (Un. Roma «La Sapienza»); FRANCESCO D. BUSNELLI (Scuola Sup. S. Anna di Pisa); GIORGIO CIAN (Un. Padova – Dir. Resp.); ANGELO FALZEA (Un. Messina); ANTONIO GAMBARO (Un. Milano), NATALINO IRTI (Un. Roma «La Sapienza»); GIUSEPPE B. PORTALE (Un. Cattolica del Sacro Cuore - Milano); ANDREA PROTO PISANI (Un. Firenze); PIETRO RESCIGNO (Un. Roma «La Sapienza»); RODOLFO SACCO (Un. Torino); VINCENZO SCALISI (Un. Messina); PIERO SCHLESINGER (Un. Cattolica del Sacro Cuore - Milano); PAOLO SPADA (Un. Roma «La Sapienza»); VINCENZO VARANO (Un. Firenze) E GUIDO CALABRESI (Yale Law School, U.S.A.); ERIK JAYME (Un. Heidelberg); DENIS MAZEAUD (Un. Paris II – Panthéon-Assas); ÁNGEL ROJO FERNÁNDEZ-RIO (Un. Autonoma di Madrid). Comitato per la Valutazione Scientifica: GIUSEPPE AMADIO (Un. Padova); GIAMPIERO BALENA (Un. Bari); VITTORIA BARSOTTI (Un. Firenze); GIAN ANTONIO BENACCHIO (Un. Trento); REMO CAPONI (Un. Firenze); VINCENZO CARIELLO (Un. Cattolica del Sacro Cuore – Milano); DONATO CARUSI (Un. Genova); CLAUDIO CONSOLO (Un. 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La pubblicazione dei contributi sulla Rivista di Diritto Civile è subordinata alla presentazione da parte di almeno un membro del Comitato di Direzione e al giudizio positivo di almeno un membro del Comitato per la Valutazione Scientifica, scelto per rotazione all’interno del medesimo, tenuto conto dell’area tematica del contributo. 2. Il singolo contributo è inviato al valutatore senza notizia dell’identità dell’autore. 3. L’identità del valutatore è coperta da anonimato. 4. Nel caso che il valutatore esprima un giudizio positivo condizionato a revisione o modifica del contributo, il Comitato di Direzione autorizza la pubblicazione solo a seguito dell’adeguamento del saggio, assumendosi la responsabilità della verifica. 5. In caso di pareri contrastanti il Comitato di Direzione assume la responsabilità della decisione circa la pubblicazione del contributo. Redazione: MATILDE GIROLAMI (Un. Padova - Redattore Capo); CLAUDIA SANDEI (Un. Padova - Segretario di Redazione); VITTORIO COLUSSI (Un. Padova - Redattore Capo Senior); RENATO PESCARA (Un. Padova); GIUSEPPE TRABUCCHI (Un. Verona). Sede della redazione: Dipartimento di Diritto Privato e Critica del Diritto, Palazzo del Bo Via VIII Febbraio, n. 2 – 35122 Padova Tel: 049 8273433 – 345 1086207 – Fax 049 8273433 e-mail: [email protected] RIVISTA DI DIRITTO CIVILE I N D I C E D E L F A S C I C O L O 3o (maggio-giugno 2014) SAGGI Vincenzo Scalisi, Il diritto civile nelle « prolusioni » del secondo Novecento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Giovanni D’Amico, La proprietà « destinata » . . . . . . . . . . . . . . Emanuela Navarretta, Principio di uguaglianza, principio di non discriminazione e contratto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Matteo Mattioni, Sul ruolo dell’equità come fonte del diritto dei contratti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Oriana Clarizia, Innovazioni e problemi aperti all’indomani del decreto legislativo attuativo della riforma della filiazione . . . Pietro Sirena, Il problema della trascrivibilità della domanda di riscatto legale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Enrico Camilleri, Appunti sulla struttura dell’espromissione cumulativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Paolo Spada, Paradigmi del pensiero giuridico e concezione della società per azioni nei « Principi e problemi » di Carlo Angelici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 501 » 525 » 547 » 567 » 597 » 627 » 645 » 667 OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO Piet Abas, Un nuovo diritto delle obbligazioni in Svizzera . . . . . » 675 » 685 COMMENTI Francesco Paolo Patti, Il controllo giudiziale della caparra confirmatoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA Bianca Checchini, Anonimato materno e diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Amalia Chiara Di Landro, I vincoli di destinazione ex art. 2645 ter c.c. Alcune questioni nell’interpretazione di dottrina e giurisprudenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. 709 » 727 S A G G I Vincenzo Scalisi Prof. emerito dell’Università di Messina IL DIRITTO CIVILE NELLE « PROLUSIONI » DEL SECONDO NOVECENTO (*) Sommario: 1. Le prolusioni nella temperie della transizione dal « moderno » al « postmoderno ». — 2. Le prolusioni del decennio 1940-1950: la « crisi » del diritto e la difficile ricerca di un’affidabile àncora di salvataggio. — 3. Aperture e fermenti di rinnovamento nelle prolusioni degli anni ’50: tra istanze di revisione, « disgelo » costituzionale, nuova sistematizzazione dei fatti e rivisitazione delle situazioni giuridiche effettuali. — 4. Il vento del cambiamento nelle prolusioni degli anni ’60: postulati moderni al tramonto, Costituzione in azione, diritto privato al sociale, legislazione per principi, realtà pratica e valori in funzione esplicativa del senso normativo. — 5. Gli anni settanta e la fine di un genere letterario: l’appello per un « diritto civile costituzionale » e l’emergere di un diritto legale « liquido » alle prese con integrazione europea e tensioni e conflitti della postmodernità. 1. — Nella efficace rappresentazione grossiana il Novecento non è il secolo « breve » di Eric J. Hobsbawm (1), ma è un secolo « lungo », un secolo che occupa gli altri secoli (in parte l’ottocento e anche l’attuale) (2), il secolo, nel corso del quale prende progressivamente forma e consistenza una visione nuova e diversa del mondo, antifondazionista e disincantata, essenzialmente basata sul « pensiero del molteplice », che si è soliti denominare « postmodernità », e che non è ancora un « approdo » (a una nuova e sicura riva), ma certamente un « congedo », un distacco, una definitiva e irreversibile presa di distanza dai miti fondativi della Modernità. Nei secondi anni quaranta del Novecento questo processo di graduale disfacimento dell’edificio categoriale moderno è in pieno svolgimento e rovescia sul terreno del diritto civile, come in ogni campo del « giuridico », tutto il suo carico di inquietudini e di insoddisfazioni, di incertezze e di contraddizioni, quali salenti dalla concreta e complessa realtà storico-sociale dell’esperienza, (*) Lo scritto riproduce la relazione svolta al convegno organizzato dal prof. Giovanni Furgiuele su « Le prolusioni civilistiche dalla fine dell’ottocento al 1980: significato e valore di un’esperienza. A proposito de “Le prolusioni dei civilisti”, rist. ESI, Napoli, 2012 » (Firenze, 25 ottobre 2013). Sono state eliminate le parole di circostanza e aggiunte le note. ( 1 ) Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991 (1994), trad. it. (con il titolo, Il secolo breve. 1914/1991) di B. Lotti, 11a ed., Milano 2006. ( 2 ) P. Grossi, Novecento giuridico: un secolo pos-moderno, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli 2011, p. 14; e in Id., Introduzione al Novecento giuridico, RomaBari 2012, p. 3; nonché, per più compiuti riferimenti alle nozioni e ai principi fondanti della modernità giuridica, Id., Mitologie giuridiche della modernità, 3a ed., Milano 2007. 502 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 quelle stesse che la Modernità, invece, con il suo procedere per categorie astratte, decontestualizzate, atemporali, era stata molto abile a occultare (3). La riflessione scientifica dei civilisti ha piena contezza della crisi di transizione e si avvale della solenne liturgia della prolusione, a volte per dotare di più solide basi teoriche antiche categorie e istituti, o per proporre nuovi indirizzi metodologici o anche soltanto per additare nuovi sentieri di investigazione, ma altre volte per illustrare l’impatto di nuovi principi e valori, oppure per segnalare l’irrompere sulla scena di nuovi conflitti e tensioni, o anche soltanto per fare il punto sul mutato volto di molte figure o di intere aree e settori del diritto civile. Quella delle prolusioni è stagione anch’essa assai lunga, che dall’ultimo quarto dell’ottocento giunge sino alla fine degli anni settanta del secolo appena decorso. Molte di tali prolusioni si collocano tra fine Ottocento e inizio Novecento, la maggior parte nel periodo fra le due guerre, un numero minore nei secondi anni quaranta del Novecento, segno forse premonitore del progressivo affievolimento e successivo declino di tale genere letterario. Si tratta di un fronte, assai rilevante, del pensiero civilistico italiano, rimasto sino ad oggi, salva qualche rara eccezione (4), pressoché sostanzialmente inesplorato nella sua globalità, quando invece, non foss’altro che per la statura di molti dei suoi protagonisti, già da tempo avrebbe dovuto formare oggetto di puntuale investigazione al fine di mettere a fuoco significato e valore, che questa esperienza ha rappresentato e continua a rappresentare, non soltanto dal punto di vista della elaborazione teorica e concettuale, ma anche e soprattutto dal punto di vista di ciò che di vivo e vitale essa ancora testimonia in termini sia di rinnovamento e avanzamento degli studi sia di contributo offerto alla soluzione dei molteplici problemi che anche nel tempo presente agitano la vita del diritto civile. Le riflessioni, che seguono, sono dedicate all’ultima stagione di prolusioni, quelle che si collocano nei secondi anni quaranta del Novecento (5), ma, perché il discorso non resti generico, una ulteriore periodizzazione s’impone e anche alcune distinzioni appaiono necessarie. 2. — Per quanto può qui interessare, tre grandi eventi dominano fondamentalmente la stagione del decennio 1940-1950, che si era appena lasciata ( 3 ) Specialmente, S. Toulmin, Cosmopolis — The Hidden Agenda of Modernity (1990), trad. it. (Cosmopolis. La nascita, la crisi e il futuro della modernità) di P. Adamo, Milano 1991, spec. pp. 54 ss., 112 ss. ( 4 ) Il riferimento è, ancora, a P. Grossi, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000; Id., Le « prolusioni » dei civilisti e la loro valenza progettuale nella storia della cultura giuridica italiana, Introduzione a Le prolusioni dei civilisti, raccolta in tre volumi a cura della SISDIC, Napoli 2012. ( 5 ) E precisamente quelle contenute nel vol. III (1940-1979) della già citata opera Le prolusioni dei civilisti. SAGGI 503 alle spalle la storica polemica sui concetti giuridici (6): l’immane tragedia del secondo conflitto mondiale, l’emanazione dell’attuale codice civile, l’entrata in vigore il 1o gennaio 1948 della Costituzione italiana. Le prolusioni di questo periodo tacciono della Costituzione, mentre una sola è dedicata al nuovo Codice, quella napoletana di Francesco Santoro-Passarelli (7), per segnalare « l’apparizione all’orizzonte del diritto civile di una nuova costellazione », l’impresa, assurta a motivo sistematico dell’intera codificazione e nel contempo rivelatrice anche di un metodo nuovo, il metodo dell’economia, che esige corrispondenza tra forme giuridiche e sostanza economica dei fenomeni regolati. Nel nuovo assetto normativo la riflessione santoriana vi scorge il superamento di quegli schemi concettuali tradizionali, che erano soliti ridurre l’intera fenomenologia del mondo reale o a « cose » o a « persone », mentre l’impresa non è cosa e neppure persona, in quanto, pur atteggiandosi a vivente organismo della realtà economica e come tale iscriventesi in quel movimento ascensionale che dalle cose a volte porta alle persone, non assurge tuttavia a soggetto di diritto, arrestandosi alla condizione di « centro di attività e di rapporti giuridici non personalizzato ». A siffatto fenomeno il codice si sarebbe limitato a dare veste giuridica, recependo un dato d’esperienza. Delle devastazioni della guerra non è parola nelle prolusioni, ma nelle menti riflessive degli studiosi è ben presente che leggi inique e « insopportabilmente ingiuste » avevano inflitto al « diritto » una delle sconfitte più cocenti, tanto da costringere i giudici di Norimberga ad appellarsi agli insopprimibili principii di natura. La scienza giuridica ora si interroga sulla « crisi » del diritto (8), una crisi che ormai toccava e coinvolgeva anche se stessa (9). Nella prolusione catanese del ’46, il filosofo del diritto Orazio Condorelli non esita ad additare la legge come principale responsabile, per essersi piegata ai fini dello Stato, scadendo a valore strumentale, a « mezzo attraverso il quale lo Stato raggiunge i suoi fini », con singolare inversione di un rapporto, ( 6 ) Ne erano stati protagonisti S. Pugliatti, A.C. Jemolo, G. Calogero, e W. Cesarini Sforza, i cui scritti possono ora leggersi nel volume a cura di N. Irti, La polemica sui concetti giuridici, nella collana Civiltà del diritto, vol. 71, Milano 2004. ( 7 ) L’impresa nel sistema del diritto civile (1942), ora in Le prolusioni dei civilisti (1940-1979), cit., p. 2372 ss. ( 8 ) « Il discorso e l’idea si fanno ripetuti, ossessivi, negli anni susseguenti alla catastrofe bellica, alla caduta del Regime, al cambio istituzionale »: P. Grossi, Scienza giuridica italiana, cit., p. 275. Al tema è dedicato un intero volume La crisi del diritto, Padova 1953, rist. 1963, che raccoglie il corso di conferenze svoltesi per iniziativa della Facoltà giuridica patavina dall’aprile al maggio 1951. Vi figurano i nomi di eminenti studiosi: G. Ripert, G. Capograssi, A. Ravà, G. Delitala, A.C. Jemolo, G. Balladore Pallieri, P. Calamandrei, F. Carnelutti. ( 9 ) S. Pugliatti, Crisi della scienza giuridica (1948), in Id., Diritto civile. Metodo-teoria-pratica, Saggi, Milano 1951, p. 691 ss.; e ora in Id., Scritti giuridici, III (1947-1957), Milano 2010, p. 819 ss. 504 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 in forza del quale dovrebbe invece lo Stato stare a servizio del diritto (10). E se alcuno, autorevole civilista, come Luigi Cariota-Ferrara (11), aveva colto nella solennità di un cerimoniale accademico l’occasione per ridisegnare confini teorici e spazi operativi di controverse figure civilistiche, quale l’obbligo di trasferire, in altri i guasti prodotti dall’assolutismo potestativo di leggi lasciate del tutto fuori controllo avevano suscitato l’impellente bisogno di ricercare altrove un’affidabile àncora di salvataggio. Nella prolusione romana del 1948 Emilio Betti (12), anticipando linee di più compiute e future ricerche (13), nonché percorsi e svolgimenti propri dell’ermeneutica gadameriana (14), ravvisa nell’interpretazione lo strumento in grado di garantire l’adattamento e l’adeguazione della norma alle esigenze e agli interessi reali della nostra vita presente (15), paragonando l’ordine giuridico a « un organismo in perenne movimento » (16), che come tale dev’essere di continuo rielaborato attraverso il dispiegamento (da parte, appunto, dell’ermeneutica) di una vera e propria funzione normativa mai definitiva (17), in grado di riportare in ogni momento il senso della norma al diritto che è « veramente vivo e vigente » nella esperienza di vita dei consociati (18). Ma, come segnala lo stesso Betti, il problema, il vero problema di una interpretazione in funzione normativa e quindi inevitabilmente creativa, è quello della difficile antinomia dialettica « tra l’inevitabile soggettività dell’intendere e la necessaria oggettività del senso » da attribuire alla norma (19), diffi( 10 ) La crisi del diritto, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., pp. 2404 ss., spec. 2409 ss. ( 11 ) L’obbligo di trasferire, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2523 ss., prolusione al corso di Istituzioni di diritto privato letta nell’Università di Napoli il 15 gennaio 1949. ( 12 ) Le categorie civilistiche dell’interpretazione, in Le prolusioni dei civilisti, III (19401979), cit., p. 2445 ss.; e in lingua tedesca, con il titolo Zur Grundlegung einer allgemeinen Auslegungslehre: ein hermeneutisches Manifest, in Festschrift für Ernest Rabel, II, Tübingen, 1954, p. 79 ss., con più ampi riferimenti di letteratura. ( 13 ) E. Betti, Interpretazione della legge e degli atti giuridici (teoria generale e dogmatica), 2a ed. riveduta e ampliata a cura di G. Crifò, Milano 1971; Id., Teoria generale della interpretazione, I e II, ed. corretta e ampliata a cura di G. Crifò, Milano 1990. ( 14 ) H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode (1972), trad. it. (con il titolo Verità e metodo) e cura di G. Vattimo, Milano 1994; Id., Wahrheit und Methode — Ergänzungen — Register (1986/1993), trad. it. (con il titolo Verità e metodo 2. Integrazioni) e cura di R. Dottori, Milano 1996. Ma v. L. Mengoni, La polemica di Betti con Gadamer, in Id., Diritto e valori, Bologna 1985, p. 59 ss.; e, da ultimo, G. Benedetti, Oggettività esistenziale dell’interpretazione. Studi su ermeneutica e diritto, Torino 2014, p. 105 ss., spec. p. 118 ss. ( 15 ) Le categorie civilistiche dell’interpretazione, cit., pp. 2462, 2464. ( 16 ) Op. ult. cit., p. 2473. ( 17 ) Op. ult. cit., p. 2475 s. ( 18 ) Op. ult. cit., p. 2477. ( 19 ) Op. ult. cit., p. 2455. SAGGI 505 cile antinomia che è necessario riuscire a governare attraverso la individuazione e applicazione di appropriati canoni ermeneutici, onde scongiurare non tanto il rischio di una legalità liquida e come tale perennemente fluida, quanto piuttosto la ben più grave minaccia di un nuovo dispotismo rappresentato dell’arbitrio dell’interprete. A siffatto compito dovrebbe attendere secondo Domenico Barbero, autore della prolusione milanese del ’49 su « Empirismo e dogmatica del diritto » (20), la scienza giuridica, purché agente libera da ogni irriverente empirismo come pure da ogni astratto dogmatismo. Anzi, a suo dire, la legge non fallirebbe ai propri scopi se solo si limitasse a « trasformare in norme pratiche i risultati teoretici rintracciati dalla scienza nelle realtà naturali » (21). Fiducia illuministica nella infallibilità della scienza, ma da valutare non più che come una professione di fede, dal momento che neppure la scienza, in quanto parte essenziale e protagonista essa medesima del procedimento ermeneutico (c.d. inclusione del ricercante nella ricerca), può dirsi sicura garanzia di oggettiva riproduzione dei dati di esperienza e come tale immune da soggettive applicazioni. Nella prolusione pavese su « Il sentimento del diritto soggettivo in Alexis de Tocqueville » Gino Gorla (22), da parte sua, esprime disagio ma anche avversità nei confronti di una giuridicità tutta elargita e derivata dallo Stato e con riferimento al diritto soggettivo, nel quale — a suo avviso — si esprimerebbe l’indipendenza e la dignità stessa della personalità dell’individuo non più « astrattamente » ma « storicamente » e « realisticamente » considerato, egli esalta e condivide la concezione politico-giuridica di Alexis de Tocqueville, che del diritto soggettivo aveva difeso la intrinseca « originarietà », da intendersi non già in senso giusnaturalistico o razionalistico, bensì in un senso eminentemente storico, in quanto, appunto, « istituzione storica », istituzione cioè radicata nella storia e nella tradizione, non concessione della legge dello Stato, ma conquista e forza etica della personalità, frutto del travaglio della coscienza e dell’esperienza politico-giuridica dei cittadini. Ampliare l’orizzonte oltre la legge, guardare a quella che il filosofo del diritto Rodolfo De Stefano ha chiamato « legalità sociale originaria » (23), in quanto immediatamente calata e radicata nella concreta e storica esperienza di vita dei consociati, attingere direttamente da questa giuridicità « altra » e « diversa » i necessari correttivi e dispositivi tecnici contro le insidie e le deviazioni della legge, non dev’essere considerato un percorso proibito. D’altra parte connaturato al diritto, quello oggettivo, è anche un incontestabile fon( 20 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1975), cit., p. 2500 ss. ( 21 ) Ivi, p. 2520. ( 22 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2416 ss. ( 23 ) L’accettazione della legge, in Id., Scritti sul diritto e sulla scienza giuridica, Milano 1990, p. 157 ss. 506 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 damento etico-sociale (24) e di conseguenza non deve considerarsi ultroneo esigere che la stessa legge positiva resti vincolata al sistema di regole etico-sociali quali praticate dalla comunità, e nel contempo pretendere che anche l’agire dei privati, come del resto pure quello dei pubblici poteri, siano pienamente e integralmente conformi ai corrispondenti e correlativi standards valutativi. La massima « fraus omnia corrumpit » ha sostanzialmente questo significato e in quanto tale, spiega Luigi Carraro nella prolusione patavina del ’49 (25), possiede anche valore di principio generale, oltre i casi di rilevanza della buona fede, siccome fonte di exceptio doli e causa, ricorrendone i presupposti dell’art. 2043, anche di responsabilità extracontrattuale, pure in ipotesi di agire privato che dovesse risultare formalmente e sostanzialmente valido. La validità non può annullare la illiceità. Ma restava intatto e sostanzialmente irrisolto, anche nella linea di pensiero di entrambe le prolusioni da ultimo considerate, il problema della fondabilità conoscitiva e della controllabilità oggettiva sia della legalità sociale originaria sia del sistema di regole etico-sociali praticate dalla comunità: un problema, come vedremo, sempre ritornante, quando si tratta di non limitarsi al sistema positivo ma di immergersi nel fluire storico dell’ordinamento della vita sociale (26). Intanto però il decennio si chiudeva allo stesso modo in cui si era aperto. Si era aperto con la prolusione maceratese del romanista Giovanni Pugliese su « Diritto romano e scienza del diritto » (27); si chiudeva con la prolusione genovese di un altro insigne romanista Riccardo Orestano su « Il diritto romano nella scienza del diritto » (28). Concordi entrambi sull’importanza della disciplina romanistica in funzione di studio dell’esperienza giuridica, discordi invece nel sostenere l’uno, il Pugliese, fautore del carattere unitario del fenomeno giuridico, la fondabilità sul diritto romano di concetti e principi e verità costanti da offrire anche al (progresso del) diritto del presente e nell’escludere invece l’altro, l’Orestano, convinto assertore della intrinseca e integrale « storicità » di tutti i fenomeni giuridici, ogni possibilità di « attualizzazione » del diritto romano, attualizzazione resa improponibile da doppia storicità, quella ( 24 ) S. Pugliatti, Gli istituti del diritto divile, I. Introduzione allo studio del diritto, 1. Ordinamento giuridico, soggetto e oggetto del diritto, Milano 1943, pp. 4, 8, 13, 15; e ora in Id., Scritti giuridici, II (1937-1947), Milano 2010, pp. 728, 732, 739, 741. ( 25 ) Valore attuale della massima « fraus omnia corrumpit », in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2552 ss. ( 26 ) Per la distinzione tra sistema e ordinamento, il nostro Regola e metodo nel diritto civile della postmodernità, ora in Id., Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, Milano 2012, p. 81 ss. ( 27 ) Letta nella Università di Macerata per l’anno accademico 1940-1941, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2327 ss. ( 28 ) Letta nella Università di Genova il 16 dicembre 1950, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2575 ss. SAGGI 507 del dato e quella del soggetto. Anche il diritto romano si negava così a risollevare il diritto dalla profonda crisi in cui eventi storici e mutamenti sociali sembrava lo avessero definitivamente precipitato. 3. — Il decennio 1951-1960 è chiamato a misurarsi con i problemi tipici e i mutamenti indotti, nelle condizioni di vita e nel costume, da una società — quale quella italiana — passata da agricola a industriale e ora in sempre più rapido e crescente sviluppo, con la impresa ormai al centro del sistema produttivo e i consumi ascesi a livello di fenomeno di massa. Continuare a lavorare con i vecchi concetti non sembra più possibile e un’opera di revisione e aggiornamento dell’apparato concettuale preesistente appare essenziale e ineludibile (29). Ma la dottrina del diritto civile di questo periodo — secondo un giudizio largamente condiviso (30) — sembrò starsene in disparte, indifferente, distaccata, in una condizione di quasi « straniamento » persino rispetto alla stessa Carta costituzionale, fatta oggetto, con il pretesto di una supposta « programmaticità » delle sue disposizioni (31), se non di vero e proprio rifiuto, certamente di quasi indifferenza (32), e così dando vita, attraverso una sorta di costituzionalizzazione della normativa codicistica vigente, a quella che è stata definita una vera e propria inversione della gerarchia delle fonti (33). Sebbene non in termini di immediato nesso causale, di certo ebbe un peso anche il clima culturale dell’epoca. Il 1950, presentato come l’anno della svolta (34), segnò l’ingresso ufficiale nella cultura giuridica italiana della me( 29 ) Sui problemi posti dalla società industriale e sul ruolo del giurista nel nuovo contesto, quale esperto della vita sociale in funzione non solo di dicere legem, ma soprattutto di dicere ius e come tale con compiti non solo di tecnico della normatività ma anche e specialmente di mediatore sociale tra conservazione e innovazione e quindi « anche dell’equilibrio sociale », richiamava l’attenzione S. Cotta, Il compito del giurista nell’ora presente, in Iustitia, 1966, p. 165 ss. ( 30 ) Per tutti, N. Irti, Una generazione di giuristi, in La civilistica italiana dagli anni ’50 ad oggi tra crisi dogmatica e riforme legislative, Congresso dei civilisti italiani (Venezia 23-26 giugno 1988), Padova 1991, pp. 971, 973; Id., La filosofia di una generazione, in Id., Diritto senza verità, Roma-Bari 2011, p. 91; e in P. Perlingieri e A. Tartaglia Polcini (a cura di), Novecento giuridico: i civilisti, Atti dell’omonimo Convegno svoltosi a Telese Terme nei giorni 29-30 ottobre 2010, Napoli 2013, p. 335. ( 31 ) Cfr. A. Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, in Storia dell’Italia repubblicana, II, 2, Torino 1995, p. 129. ( 32 ) R. Nicolò, Diritto civile, in Cinquanta anni di esperienza giuridica in Italia, Atti del Convegno svoltosi a Messina-Taormina nei giorni 3-8 novembre 1981, Milano, 1982, p. 68. Ma v. altresì, L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, Roma-Bari 1999, p. 56 ss. ( 33 ) L. Campagna, Famiglia legittima e famiglia adottiva, Milano 1966, p. 46; nonché: L. Mengoni, La tutela dei figli nati fuori del matrimonio, in Sociologia, 1970, p. 135 ss.; M. Dogliotti, La Corte costituzionale estende il rapporto di parentela naturale, in F. it., 1980, I, c. 909. ( 34 ) N. Irti, Una generazione di giuristi, cit., p. 972. 508 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 todologia analitica nella teorizzazione che di essa aveva offerto Norberto Bobbio con il noto saggio « Scienza del diritto e analisi del linguaggio » (35). E il nuovo indirizzo indubbiamente contribuiva anch’esso a distogliere l’attenzione della dottrina giuridica dalle trasformazioni sociali in atto, accentuandone la tradizionale deriva formalistico-legalitaria, in quanto, essendo fondamentalmente basato su rigore linguistico e coerenza logica, produceva — come è stato acutamente messo in rilievo (36) — de-storicizzazione, soggettiva, oggettiva e contenutistica delle proposizioni normative, e la scienza giuridica riduceva « a una sorta di algebrica frigidità » fuori dal tempo e dallo spazio. La penetrazione, in quegli anni, di formalismo e purismo kelseniani avrebbe fatto il resto. Non erano, tuttavia, mancate in quel medesimo torno di anni anche autorevoli voci, dichiaratamente fuori dal coro, di aperto dissenso, rivolte a sollecitare un vero e proprio cambio di rotta sia nei metodi che nei contenuti, al fine di adeguare la ricerca scientifica ai nuovi dati della realtà. Era stata questa l’indicazione più intima che veniva dallo storicismo pragmatico e realistico di matrice ascarelliana, dalla concezione pugliattiana della giurisprudenza come scienza pratica — assumente a nuovo principio sistematico organizzatore dell’intero diritto positivo quello della massima attuazione possibile della Costituzione —, e ancora il metodo comparatistico nell’impulso che ad esso avevano già dato gli studi di Gino Gorla. Le prolusioni di questo decennio riservano la rassicurante sorpresa di voler raccogliere quest’ultimo, anche se non maggioritario, ordine di sollecitazioni, e, se non proprio dissonanti, di sicuro appaiono disallineate, manifestamente disallineate rispetto al pensiero giuridico dominante. In questa direzione, e non poteva essere diversamente, si era mossa la prolusione romana di Tullio Ascarelli del 1953 su « Teoria della concorrenza e interesse del consumatore » (37), la quale, nel quadro di un reinterpretato diritto dell’economia e di una rinnovata teoria della concorrenza in senso sia strutturale che soprattutto funzionale e delle finalità da perseguire, pone al centro della riflessione l’interesse dell’imprenditore, ma, con una impressionante visione anticipatrice, in fondamentale dialogo con l’esigenza di tutela della figura del consumatore, quale categoria esponenziale non già di particolari interessi, sibbene di un vero e proprio interesse pubblico allo sviluppo culturale e industriale, cui si ritiene debba restare sempre e in ogni caso vincolata ogni libertà di iniziativa economica, compresa quella di concorrenza. ( 35 ) L. Ferrajoli, La cultura giuridica nell’Italia del Novecento, cit., p. 84 ss.; V. Villa, Filosofia del diritto, in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino 2002, p. 368 ss.; M. Barberis, Giuristi e filosofi. Una storia della filosofia del diritto, Bologna 2011, p. 208 ss. Il saggio di N. Bobbio, al quale si fa riferimento nel testo, venne pubblicato in R. trim. d. proc. civ., 1950, p. 342 ss. ( 36 ) N. Irti, La filosofia di una generazione, cit., pp. 93-94. ( 37 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2675 ss. SAGGI 509 Gli aveva fatto eco Rosario Nicolò nella prolusione romana del 1956 (38), con la invocazione del coraggio di chiudere la fase c.d. romanistica della dottrina del diritto civile e di aprire un nuovo corso, la fase commercialistica, « il cui substrato — egli scrive — sia rappresentato da quella che è la concreta realtà economico-sociale del tempo moderno, nelle sue articolazioni strutturali e nei suoi aspetti funzionali » (39). E ciò a partire dalla figura dell’impresa, il cui più sicuro inquadramento sistematico (dal punto di vista della schematizzazione concettuale del fenomeno) l’autorevole civilista ritenne di individuare nello schema del diritto soggettivo, inquadramento, che per quanto sia potuto sembrare — come in effetti lo era — asfittico e devitalizzante (40), aveva tuttavia il merito di elevare il dato della realtà alla dignità del valore (41), con attribuzione di una tra le più forti tutele privatistiche, quale quella appunto rappresentata dal diritto soggettivo. La Costituzione è ancora taciuta, ma a inaugurare la fase del « disgelo » costituzionale anche nel cerimoniale accademico delle prolusioni (42) sono la prolusione bolognese del ’56 di Michele Giorgianni su « I problemi attuali del diritto di famiglia » e quelle, maceratese e pavese, di Pietro Rescigno rispettivamente del ’54 e del ’59, dedicate l’una a « Sindacati e partiti nel diritto privato » e l’altra a « Gruppi sociali e lealtà » (43). In Michele Giorgianni è la ferma denuncia del carattere discriminatorio del trattamento riservato dal codice alla filiazione naturale, in quanto inficiato da insanabile contrasto con la precettiva disposizione costituzionale dell’art. 30, il cui limite (quello di cui al comma 3o) egli proponeva di considerare, con interpretazione restrittiva all’epoca sicuramente innovativa, siccome afferente alle sole ipotesi di « concorrenza in concreto » di diritti di membri della famiglia legittima (44). Insostenibile per contrasto invece con il principio costituzionale di parità (art. 29 cost.) — a suo dire però programmatico — veniva giudicata anche la disciplina codicistica dei rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi, ma di essa anche il giurista sensibile ai valori costituzionali ritenne di salvare la ( 38 ) Riflessioni sul tema dell’impresa e su talune esigenze di una moderna dottrina del diritto civile, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2827 ss. ( 39 ) Op. ult. cit., p. 2832. ( 40 ) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano 2002, p. 142; Id., Le « prolusioni » dei civilisti e la loro valenza progettuale nella storia della cultura giuridica italiana, cit., p. XXXVIII. ( 41 ) S. Rodotà, voce Nicolò Rosario, in Dizionario biografico dei giuristi italiani (XII-XX secolo), diretto da I. Birocchi, E. Cortese, A. Mattone, M.N. Miletti, vol. II, Bologna 2013, p. 1437. ( 42 ) Sul fenomeno del c.d. disgelo costituzionale quale si sarebbe sviluppato sui diversi fronti a partire soprattutto dagli anni sessanta, A. Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, cit., p. 113 ss. ( 43 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., rispettivamente pp. 2777 ss., 2741 ss., 2868 ss. ( 44 ) Ivi, p. 2780. 510 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 riserva al marito della funzione direttiva del governo della famiglia (art. 144 c.c.), in quanto — con discutibile valutazione — supposta a garanzia del principio, anch’esso costituzionale, di unità della famiglia (45). Nelle pagine prolusive di Pietro Rescigno il riferimento alla Costituzione acquista il senso pieno del superiore principio ordinante, anche se non sempre anche quello di finale criterio di giudizio e di valutazione. Suscita stupore nell’insigne giurista che entità, quali sindacati e partiti politici, assurte a rilievo costituzionale con una disciplina, scarna sì, ma essenziale nella enunciazione di fondamentali principi regolatori (artt. 39 e 49 della Cost.), fossero invece già allora sempre più attratte e trovassero più sicuro rifugio in schemi e concetti e tutele del diritto privato. Espressamente Rescigno parlò di « impegno costituzionale tradito » (46). Alle formazioni sociali la Costituzione concede ampia garanzia e protezione, ma sempre in funzione dell’individuo che vi è tutelato e protetto quale soggetto storico concreto sociale, che svolge in quelle la sua personalità (art. 2 Cost.). Al riguardo la fine e pensosa pagina del sensibile studioso delle comunità intermedie invita a riflettere sul tema della lealtà e sui laceranti conflitti, che, in nome di un’etica a essa ispirata, assai spesso insorgono tra individuo e gruppo sociale e tra i diversi gruppi sociali per sfociare il più delle volte in dolorose e tragiche scelte. In questi casi — e la realtà odierna ci offre numerosi e significativi esempi (47) — non sempre al diritto, anche in versione costituzionale, è possibile venire in soccorso e l’essere umano resta in solitudine a vivere il dramma della scelta tra il tormento del dubbio e l’angoscia della decisione. Con le riflessioni di Pietro Rescigno, che ritroveremo anche nelle successive prolusioni dello stesso autore, il discorso giuridico era prepotentemente tornato a parlare all’individuo, all’individuo in carne e ossa, e nel contempo a interrogarsi sulla condizione dell’uomo contemporaneo, ormai colto ed esplorato nei suoi bisogni, nelle sue inquietudini e intime contraddizioni, nelle sue angosce esistenziali. Ma il nuovo ethos culturale e valoriale si espande, contagia, attraversa anche le prolusioni di questo periodo, più direttamente impegnate sul fronte della sistematizzazione dogmatica e concettuale di categorie e istituti del diritto civile. Avviene così che il « fatto giuridico », da sempre considerato tale in quanto « causa di effetti giuridici », a un certo punto si emancipa dalla efficacia per iscriversi direttamente alla categoria della « rilevanza giuridica », quale fonte primaria della propria qualificazione giuridica, come tale non più riconducibile a una investitura formale proveniente ab externo (quale, appunto, il ricollega( 45 ) Ivi, p. 2798 ss. ( 46 ) Sindacati e partiti nel diritto privato, cit., p. 2763 ss. ( 47 ) Per una esemplificazione, il volume di G. Calabresi e Ph. Bobbit, Tragic Choices (1978), trad. it. (con il titolo Scelte tragiche) a cura di C.M. Mazzoni e V. Varano, Milano 1986. SAGGI 511 mento di effetti), sibbene immediatamente a una sua pretesa essenza o qualità intrinseca, che Renato Scognamiglio, nella prolusione urbinate del 1954 (48), individua in una non meglio identificata importanza o « valore specifico » o efficienza dinamica del fatto nel campo del diritto (49). Nella realtà non si trattava però di una assoluta novità, in quanto già anni prima la metodologia degli interessi teorizzata da Angelo Falzea aveva consentito di individuare nell’interesse evidenziato dal fatto, e quindi in una intrinseca e oggettiva valenza assiologica del fatto medesimo, il punto di incontro o, se si vuole, la sicura linea di mediazione tra il fatto e il diritto, istitutiva della rilevanza giuridica del primo rispetto al secondo (50). Con l’avvertenza però che non l’interesse in sé ha valore fondativo, bensì soltanto in quanto riscontrato conforme all’interesse fondamentale della comunità giuridica, così scongiurandosi non solo il rischio di possibili sopraffazioni del dover-essere sull’essere, ma anche l’opposto e non meno inquietante pericolo di inammissibili prevaricazioni « a rovescio » del fatto sul diritto, dell’essere sul dover-essere. Anche nel diverso campo dei fatti illeciti, è pur sempre nell’interesse (efficace o anche solamente rilevante), in quanto riscontrato oggetto di immediata e diretta lesione, da riporre il criterio della qualificazione normativa del fatto in termini di illiceità. Non anche però il fondamento della responsabilità civile. Quello tra illiceità e responsabilità è « gemellaggio » tutto moderno, un sodalizio imputabile alla Modernità, ma smentito dalla realtà dell’esperienza, perché a volte si dà responsabilità senza illiceità (c.d. responsabilità da atto lecito) e altre volte illiceità senza responsabilità (in ipotesi di assenza di ingiustizia del danno) (51). E tutto questo perché sulla configurazione di responsabilità incide non soltanto la natura degli interessi giuridici lesi facenti capo alla vittima dell’illecito, ma anche e soprattutto la valutazione comparativa della contrapposta posizione giuridica dell’autore del fatto illecito, valutazione alla quale è appunto finalizzata la clausola della ingiustizia del danno: una clausola che ha la funzione di riscattare la responsabilità civile dall’appiattimento sulla qualificazione di illiceità, ma che nel contempo, quando non rimossa o addirittura dissolta nel concetto stesso di danno, è stata da sempre di difficile e controversa determinazione (52). ( 48 ) Fatto giuridico e fattispecie complessa. Considerazioni critiche intorno alla dinamica del diritto, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-979), cit., p. 2645 ss. ( 49 ) Ivi, spec. p. 2670 ss. ( 50 ) A. Falzea, La condizione e gli elementi dell’atto giuridico, Milano, 1941, p. 10 ss.; e successivamente, e più diffusamente, Id., voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, pp. 457 ss., 481 ss.; Id., voce Fatto giuridico, in Enc. dir., XVI, Milano 1967, p. 941 ss.: entrambe ora in Id., Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, II. dogmatica giuridica, Milano 1997, pp. 64 ss., 125 ss., 331 ss. ( 51 ) Cfr. il nostro Illecito civile e responsabilità: fondamento e senso di una distinzione, in questa Rivista, 2009, I, p. 663 ss. ( 52 ) V. il nostro Danno e ingiustizia nella teoria della responsabilità civile, nonché, Id., Ingiustizia del danno e analitica della responsabilità civile, entrambi ora in Id., Categorie e 512 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 La prolusione milanese del 1960 di Piero Schlesinger (53) ha il merito di riportare l’anzidetta clausola sul terreno concreto storico reale, sul quale da sempre la tutela aquiliana insorge e si dispiega, il terreno cioè del conflitto d’interessi tra danneggiato e danneggiante, con la illiceità sempre quale fattore scatenante del conflitto in quanto violazione del precetto dell’alterum non laedere, e la ingiustizia invece concepita quale criterio di risoluzione del conflitto in favore del danneggiato per assenza nel danneggiante di uno specifico diritto che ne autorizzi e giustifichi il comportamento dannoso (54). Certo la identificazione del danno ingiusto con il danno non giustificato (55) può sembrare, e in effetti è, riduttiva e incompleta, in quanto di sicuro non esaurisce la tipologia dei conflitti aquiliani, nella realtà assai più vasta e molto più complessa, ma indubbiamente valeva ad assicurare alla responsabilità civile una più convincente ed efficace linea di pensiero, direttamente ancorata alla concreta e storica trama degli interessi umani incisi dal fatto illecito. Quello tra essere e dover-essere, mondo dei fatti e mondo del diritto, è rapporto in costante tensione dialettica e il problema, con il quale la dottrina è stata in ogni tempo chiamata a fare i conti e a misurarsi, è da sempre quello della determinazione del criterio di decisione della partecipazione dei fatti alla vita del diritto. Orbene, sembra potersi tranquillamente affermare che le prolusioni degli anni cinquanta hanno decisamente segnato un netto punto a favore di una più rassicurante e conciliativa linea di pacificazione del mondo del diritto con il mondo della realtà storico-sociale, passante per la elevazione del « fatto » a protagonista della vita del diritto piuttosto che spettatore inerte e passivo alla mercé dell’ordine giuridico. E non è un caso se Domenico Rubino nella prolusione romana del 1957 (56) si sia appellato proprio alla categoria dei fatti per inquadrare anche la pubblicità, da lui qualificata come « fatto giuridico permanente ». Ma appunto perché esposto alle continue sollecitazioni provenienti dai concreti rapporti storico-reali della vita, un equilibrio instabile e sempre mutevole contraddistingue il mondo del dover-essere giuridico, la c.d. realtà effettuale del diritto, sicché spetta alla elaborazione teorica sia dottrinale che giurisprudenziale verificare in ogni momento i mutamenti, le deformazioni o anche le rotture prodottesi, al fine di apportare le revisioni e gli adattamenti necessari a riportare a nuovo equilibrio e a nuova sintesi e unità l’ordine giuridico turbato. Sotto questo aspetto, soprattutto il tema delle situazioni sogistituti del diritto civile nella transizione al postmoderno, Milano 2005, rispettivamente pp. 737 ss., 779 ss. ( 53 ) La « ingiustizia » del danno nell’illecito civile, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2896 ss. ( 54 ) Ivi, p. 2904. ( 55 ) Ivi, p. 2902. ( 56 ) La pubblicità come fatto permanente, in Le prolusioni dei civilisti, III (19401979), cit., p. 2855 ss. SAGGI 513 gettive, dei diritti e dei doveri, aveva da sempre rappresentato un fronte caldo e alquanto problematico. Non vi avevano fatto eccezione la figura della obbligazione e la connessa situazione di credito, assai spesso formante oggetto di pensiero negativo sino alla stessa messa in dubbio della sua appartenenza alla categoria del diritto soggettivo (57), per la difficoltà che le diverse teorie personali e patrimoniali della obbligazione avevano incontrato nell’assegnare al credito un autonomo contenuto rispetto all’obbligo. A siffatto ordine di questioni rivolgeva la sua attenzione Luigi Mengoni nella prolusione triestina del 1951 su « L’oggetto dell’obbligazione » (58). Sebbene fondamentalmente intesa a fissare definitivamente nel risultato del facere debitorio l’oggetto della obbligazione, la riflessione mengoniana, attraverso una rigorosa messa a fuoco della complessa struttura del rapporto obbligatorio, svolge un discorso di più ampio respiro, volto proprio a riscattare l’autonoma consistenza del diritto di credito, quale situazione dotata di proprio contenuto (il risultato appunto da realizzare, idest la soddisfazione dell’interesse creditorio), contenuto che, sebbene legato da nesso di correlatività funzionale al contenuto dell’obbligo (rappresentato dal comportamento dovuto), non è per Mengoni il precipitato intrinseco di questo e neppure si identifica con esso, stante la insostenibilità teorica e positiva di una loro simmetrica identità. Il credito in questo modo non solo recuperava la sua piena autonomia concettuale, ma poteva anche marcare una netta differenza e distanza rispetto alle stesse situazioni reali. Certo non era qui ancora il Mengoni che attinge dalla filosofia dei valori la forza dell’argomentazione giuridica, e però la critica bettiana di aver condotto « un’arida analisi formale » (59) appare senz’altro eccessiva (60), anche se già all’epoca la elaborazione dogmatica poteva contare su ricostruzioni dottrinali del rapporto obbligatorio rigorosamente condotte in termini di interessi ed esigenze reali di vita sottese al medesimo (61). 4. — Gli anni ’60 segnano un nuovo inizio. Scrive Paolo Grossi: « Saranno gli anni sessanta il terreno storicamente fertile perché gli sparsi germi del decennio precedente divengano una fruttificazione copiosa » (62). ( 57 ) Per tutti, D. Barbero, Il diritto soggettivo, in Id., Studi di teoria generale del diritto, Milano 1953, p. 79 ss., costituente la prolusione triestina al corso di diritto civile letta il 24 novembre 1938. ( 58 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2614 ss. ( 59 ) E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano 1953, Prefazione, p. 6 e nt. 3, richiamato dallo stesso L. Mengoni, Diritto e valori, cit., Prefazione, p. 5. ( 60 ) Secondo A. Nicolussi (Luigi Mengoni e il diritto privato, in L. Nogler e A. Nicolussi (a cura di), Luigi Mengoni o la coscienza del metodo, Padova 2007, p. 37 ss.) la prolusione in questione sarebbe « forse lo scritto concettualmente più denso di tutta l’opera di Mengoni » (ivi, p. 61). ( 61 ) A. Falzea, L’offerta reale e la liberazione coattiva del debitore, Milano 1947, spec. p. 31 ss. ( 62 ) P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, cit., p. 145. 514 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 È la Modernità che ormai velocemente corre verso il suo epilogo finale, sotto l’irrompere di un nuovo ordine storico-sociale sempre più pluralista e complesso: con il soggetto concreto, storico, reale, che prende il posto dell’astratto, virtuale, seriale soggetto unico della modernità; con la centralità dello Stato sempre più insidiata dalla diffusione di enti e formazioni intermedie, da monoclasse divenuto pluriclasse, da entità accentratrice ora costretto a cedere poteri e funzioni; con il codice civile sempre più eroso nella sua funzione di rappresentanza esclusiva della disciplina privatistica da una invasiva molteplicità di leggi speciali, istitutive di veri e propri statuti di gruppi; con il diritto formalmente stabilito, che, dovendo assicurare, oltre alla eguaglianza formale, anche e soprattutto quella sostanziale e la solidarietà tra i cittadini, chiama lo Stato a intervenire sempre più frequentemente nei rapporti economico-sociali e che, per essere effettivamente eguale, si fa ora « diseguale », cioè a misura dei concreti bisogni delle persone; con la Costituzione, non più misconosciuta e ora eretta a presidio di una « legalità » di tipo nuovo, basata non solo sulla legge ma anche sul diritto che sta oltre la legge, ossia sulle necessità reali di vita dei consociati, i c.d. « valori », quelli espressamente enunciati ma anche quelli che una società in movimento continuamente genera ed esprime; con la cultura giuridica, infine, non più arroccata su posizioni statalistiche e legalistiche, ma ormai disposta anch’essa a uscire, secondo la celebre formula kantiana, dal lungo « sonno dogmatico » e a ripensare categorie e concetti per farne, attraverso un’appropriata opera di « demitizzazione » e vera e propria « demistificazione », degli strumenti elastici, storicamente condizionati, come tali capaci di assicurare rispondenza e coerenza tra ordine giuridico e mutamento sociale o, se si vuole, tra forme giuridiche e bisogni reali dei consociati. La dottrina del diritto civile partecipa al cambiamento e anzi del cambiamento si rende protagonista anch’essa. Ne sono testimonianza viva proprio le prolusioni del nuovo decennio, attestate tutte su un fronte ancora più avanzato, in posizione di avanguardia. È ancora Michele Giorgianni con la prolusione napoletana del 1961 intitolata « Il diritto privato e i suoi attuali confini » (63) a segnalare la svolta e il mutato volto del diritto privato che, perduto il suo originario significato « costituzionale » e il carattere di esclusiva tutela dell’individuo, andava sempre più assumendo la fisionomia di un diritto privato « socializzato », funzionale cioè alla diretta tutela anche di interessi della intera società o di determinate categorie o gruppi sociali quali enti esponenziali di interessi collettivi costituzionalmente garantiti ai commi 2 e 3 dell’art. 41 Cost. L’analisi prendeva le mosse dal massiccio fenomeno « interventistico » dello Stato nell’economia, che aveva comportato incisive limitazioni alla libertà di iniziativa economica privata e a volte anche l’assunzione diretta di attività private da parte della pubblica amministrazione, e si chiudeva con il perentorio invito rivolto alla ( 63 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 2945 ss. SAGGI 515 dottrina privatistica ad adeguare i propri strumenti e le tradizionali categorie alla mutata realtà economica e normativa, pena il declino delle forme ordinanti del diritto. E nel tempo che già, con singolare inversione storica, si apprestava a celebrare pure il ritorno agli status (64), puntuale giunge, con la prolusione bolognese del 1961 su « Immunità e privilegio » (65), la voce critica e come sempre ammonitrice di Pietro Rescigno contro le disparità e le discriminazioni connesse a un diffuso sistema di immunità e privilegi a diversi livelli (sociale, economico, individuale e di gruppi), immunità e privilegi che, in quanto costituenti vere e proprie esenzioni dal diritto comune, rappresentano un autentico vulnus non solo alla eguaglianza « giuridica », ma allo stesso sistema di democrazia sostanziale quale delineato dell’art. 3, comma 2o, della Cost., e finalizzato proprio ed espressamente alla rimozione di ogni ostacolo (sociale o economico) comunque limitativo di fatto della libertà e della uguaglianza dei cittadini. Nella stessa direzione è il recupero della dottrina dell’abuso del diritto che Rescigno compie nella successiva prolusione bolognese del 1965 dedicata al tema (66). Solo un malinteso pensiero liberale aveva potuto giustificare il rifiuto del divieto di abuso per preteso contrasto con i principi di uguaglianza formale e di esclusività dell’ordinamento statale, a supposta garanzia della libertà individuale e della certezza del diritto. Ma di fronte a una società, scrive Rescigno, « dominata dall’egoismo e dalla disuguaglianza », sindacabilità e controllo di libertà e atti di autonomia privata, di poteri e diritti, sulla base di criteri anche extralegali, sono, più che una necessità, un’urgenza resa ineludibile ancora una volta dal sopra richiamato disposto costituzionale dell’art. 3, comma 2o, nonché dallo stesso art. 2. Anche se — annota Rescigno — non basta certo il divieto di abuso a moralizzare il diritto, ma quanto meno forse servire ad arrestarne « la progressiva disumanizzazione ». Anche un giurista, come Giuseppe Stolfi, convinto assertore dell’autonomia della volontà e fautore di una visione marcatamente individualistica del diritto, non esita, nella prolusione romana del 1964 su « Il principio di buona fede » (67), ad assegnare alle regole di correttezza una funzione integrativa e persino correttiva dell’ordine legale. E la Costituzione? La Costituzione restava sempre lì, a indicare in rigida forma imperativa norme, principi, valori, costituenti ormai — come si ( 64 ) Su cui, in particolare, G. Alpa, Status e capacità. La costruzione giuridica delle differenze individuali, Roma-Bari 1993, p. 31 ss.; ma già, P. Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in questa Rivista, 1973, I, p. 222 s.; nonché, N. Irti, L’età della decodificazione, in D. e società, 1978, p. 631; e ora in Id., L’età della codificazione, 4a ed., Milano 1999, p. 41. ( 65 ) Op. ult. cit., p. 2911 ss. ( 66 ) Op. ult. cit., p. 3003 ss. ( 67 ) Op. ult. cit., pp. 2979 ss., spec. p. 2998 s. 516 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 disse — « direttive interne di sistema » (68) e come tali esigenti una intensa e severa opera di rivisitazione e revisione dell’intero edificio privatistico. Ma a un certo punto troppo grande è dovuto apparire il gap accumulatosi tra ordine legale e società reale per non suscitare il dubbio che non fosse proprio il codice, il codice civile, con la sua rigida disciplina regolamentare essenzialmente basata su tipizzazione di comportamenti e fissità di ipotesi già definite, a rappresentare un serio ostacolo alla necessaria espansione dei principi costituzionali anche nella disciplina dei rapporti di diritto privato (69); che non fosse in altri termini proprio il codice a impedire quel necessario rinnovamento dell’ordinamento privatistico in grado di agganciare il divenire storico dell’esperienza e tracciare anche le linee direttive di una società in trasformazione. Da qui la proposta lanciata da Stefano Rodotà, nella prolusione maceratese del 1966 su « Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile » (70), di una legislazione di tipo nuovo e diversa, una legislazione per principi esprimentesi in clausole generali, reputata più idonea a garantire la penetrazione nell’ordine giuridico delle esigenze della vita sociale come pure a dettare regole prospettive della organizzazione sociale, con giudici e giuristi nel ruolo anch’essi di protagonisti, gli uni — i giudici — in funzione di equilibrio tra regolazione giuridica e ricostruzione della realtà; gli altri — i giuristi — non più in funzione di notai della storia, ma con compiti fondativi di una cultura giuridica nuova, diversa, « altra », non più soltanto ricostruttiva, bensì anche creativa e riformatrice a un tempo. Fiducia illuministica nella razionalità del legislatore, come scrisse Natalino Irti (71), oppure necessità di un metodo nuovo di fare diritto, diritto sottratto, per intima aderenza a principi e valori costituzionali, alla indifferenza contenutistica e come tale diritto legittimo e non più soltanto legale? Sappiamo tutti com’è andata. Una massiccia proliferazione, come si è già anticipato, di leggi speciali, assai spesso improvvisate, quasi sempre disorganiche e contingenti, a volte contrattate e — quel che è peggio — nella maggior parte dei casi portatrici di esasperato particolarismo giuridico se non proprio di caos normativo, di sicuro non istitutive di generali linee direttive o regole prospettive della vita sociale né espressive di discipline che, per quanto conformi a corrispondenti principi costituzionali, potessero va( 68 ) S. Rodotà, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), p. 3094. Ma v. altresì, S. Cotta, Il giurista e la società in trasformazione, in Iustitia, 1966, p. 297. ( 69 ) Scrive G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari 2000, p. 340: « quello (cioè il Codice civile del 1942) diviene un ostacolo alla diffusione e alla pratica applicazione dei nuovi valori costituzionali garantiti dalla Costituzione repubblicana anche nei rapporti tra privati governati dal Codice civile ». ( 70 ) Ivi, p. 3091 ss. ( 71 ) Una generazione di giuristi, cit., p. 38. SAGGI 517 lutarsi « in netta contraddizione con il sistema espresso dal codice » (72). Più che il proficuo dibattito suscitato dal tema delle « clausole generali » (73), sarà piuttosto il processo di internazionalizzazione e complessificazione delle fonti del diritto, e soprattutto il processo di integrazione giuridica europea — per tutto ciò che questo ha rappresentato e continua a rappresentare in termini di affermazione di nuovi valori, principi e diritti — a restituire rinnovato vigore a quella indicazione, non esistendo, a mio avviso, alternative valide alla costruzione di un comune diritto privato europeo che non sia fondato sull’unità nella diversità: l’unità appunto di principi generali uniformi e la diversità di adattative regole nazionali di fattispecie (74). Che poi spetti alla cultura giuridica un ruolo di primissimo piano anche nella edificazione di un coerente quadro di principi ordinanti dell’intero sistema è verità sicuramente incontrovertibile (75). Ma la constatazione è che, a parte il legislatore, neppure gli altri protagonisti coinvolti nel progetto si mostrarono all’altezza del compito. La giurisprudenza, in funzione di mediazione dei conflitti sociali, determinò esiti che vennero subito giudicati « del tutto sconfortanti » (76). La dottrina del diritto civile, a sua volta, quando non preferì riaffermare i valori tradizionali (77), sembrò mancare anch’essa l’obiettivo, come dimostra per tutti il rapido spegnersi del dibattito suscitato dalla proposta di Pietro Barcellona di un uso alternativo del diritto (78). E non è un ( 72 ) R. Nicolò, Diritto civile, cit., p. 75. ( 73 ) Al riguardo, nella Prefazione (Quarant’anni dopo) alla ristampa di Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, Napoli 2007, S. Rodotà parla di « piccola battaglia vinta » (p. 13), ma aggiungendo subito dopo che « non ci si può fermare a qualche soddisfatta constatazione » (p. 14). ( 74 ) Per più ampi svolgimenti di tale assunto, V. Scalisi, Il nostro compito nella nuova Europa, ora in Id., Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, cit., p. 329 ss.; nonché, Id., Per un diritto privato comune europeo (nel centenario della nascita di Alberto Trabucchi), ivi, p. 453 ss. ( 75 ) Già verso la metà degli anni cinquanta pagine memorabili sulla importanza del ruolo della cultura giuridica nel processo di realizzazione dei valori giuridici aveva scritto il fine e sottile indagatore della cultura umana quale base della egemonia planetaria dell’uomo, R. De Stefano, Il problema del diritto non naturale, Milano 1955, pp. 245 s., 250 ss., 256 ss., nonché, con particolare riferimento alla cultura in generale, i due volumi dello stesso A., Per un’etica sociale della cultura, I. Le basi filosofiche dell’umanesimo moderno, Milano 1954; II. La cultura e l’uomo, Milano 1963. ( 76 ) G.B. Ferri, La cultura del civilista tra formalismo e antiformalismo, in R. d. comm., 1993, I, p. 171; e in Id., Le anamorfosi del diritto civile attuale, Saggi, Padova 1994, p. 99. ( 77 ) G.B. Ferri, Antiformalismo, democrazia, codice civile, in R. d. comm., 1968, I, p. 347 ss. ( 78 ) Cfr. gli atti del noto incontro di studio, svoltosi a Catania nei giorni 15-17 maggio 1972, per iniziativa di P. Barcellona, raccolti in due volumi a cura dello stesso, L’uso alternativo del diritto, I. Scienza giuridica e analisi marxista, II. Ortodossia giuridica e pratica politica, Roma-Bari 1973, nonché le pagine introduttive redatte dallo stesso curatore. Per un’ampia disamina critica su ascesa e declino di tale movimento di pensiero: P. Costa, 518 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 caso, se alla fine degli anni settanta, Pietro Rescigno potrà annotare che non sono ancora « numerosi i contributi specifici sulle materie del diritto privato in cui possa avvertirsi un rapporto immediato e immediatamente percettibile tra sistema costituzionale e diritto privato » (79). Anche di qui, più attuale che mai, l’invito, formulato da Pietro Perlingieri nella prolusione camerte del 1969 (80), a evitare — oltre all’utopia dei soli principi — pericolose fratture tra produzione scientifica e realtà pratica (81), attraverso il ripudio di ogni concettualismo (sia dogmatico che sociologico) e la conseguenziale messa in campo di una necessaria e creativa attività di interpretazione in funzione di costante adeguamento e commisurazione della norma al fatto da regolare: adeguamento e commisurazione, che, in nessun caso però, stante il rapporto di costante tensione dialettica tra norma e rapporti economico-sociali, dovrebbero prescindere per un verso dalla storicizzazione delle categorie giuridiche e per altro verso da una rilettura sistematica di Codici e leggi alla luce dei principi costituzionali. Poteva bastare? Può bastare ripristinare l’ordine dei fattori, anche di quelli costituzionali, per conseguire la piena corrispondenza della norma alla vivente realtà della società? Secondo Nicolò Lipari (prolusione barese del 1968 su « Il diritto civile tra sociologia e dogmatica » (82)) era ormai tempo di guardare oltre lo schermo formale del dato legale e cioè direttamente all’esperienza giuridica nella concretezza del suo storico divenire, all’esperienza — secondo la incisiva formula di Enrico Paresce (83) — in quanto « matrice feconda dei valori », per dare alla norma quel senso, che, appunto in chiave di valore, « è presente, secondo le condizioni storiche e sociali del momento, nella totalità dell’esperienza » e che spetterebbe all’interprete cogliere e ricostruire con procedimento necessariamente creativo, secondo criteri non tecno-sistematici e formalisticoL’alternativa « presa sul serio »: manifesti giuridici degli anni Settanta, in Dem. e d., 1987, n. 3, p. 15 ss., e ora ripubblicato in Dem. e d., 2010, n. 1-2, p. 242 ss., con una Nota dello stesso A., ivi, p. 279 ss. ( 79 ) P. Rescigno, Diritti civili e diritto privato, in Aa.Vv., Attualità e attuazione della Costituzione, 2a ed., Roma-Bari 1982, p. 237. ( 80 ) Produzione scientifica e realtà pratica: una frattura da evitare, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3181 ss. ( 81 ) Nello stesso arco temporale a sollecitare il superamento di ogni frattura tra scienza e pratica del diritto è anche C.M. Bianca, Il principio di effettività come fondamento della norma di diritto positivo: un problema di metodo della dottrina privatistica, in Estudios de derecho civil en honor de Castàn Tobeñas, II, Pamplona, 1969, spec. p. 63 ss., secondo cui la norma va assunta « così come essa si presenta nella realtà dell’esperienza di un determinato tempo e di un determinato luogo », avuto riguardo alla giurisprudenza come indice di effettività della stessa (ivi, p. 67 ss.). Dello stesso A., per analogo ordine di considerazioni, Interpretazione e fedeltà alla norma, in Scritti in onore di Salvatore Pugliatti, I, 1, Milano 1978, p. 147 ss. ( 82 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3137 ss. ( 83 ) Voce Dogmatica giuridica, in Enc. dir., XIII, Milano 1964, p. 689. SAGGI 519 legalitari bensì anch’essi direttamente tratti dalla realtà storica e dal contesto del tessuto sociale, in modo da sociologizzare la dogmatica, ma dogmatizzando nel contempo la sociologia (84). In questo senso anche il rigido limite del dettato costituzionale, non meno della norma ordinaria, resterebbe ancorato alla storia e ai mutamenti della realtà sociale. La positività normativa cedeva così il posto alla positività della « realtà sociale » dei valori e questa, a sua volta, suscitava e poneva angosciose e inquietanti domande, tra tutte quella della concreta e oggettiva conoscibilità della realtà sociale, e l’altra della concreta e oggettiva individuazione dei valori che quella manifesta e realizza. Il rinvio alla sociologia, proposto da Lipari, non è la soluzione, ma la semplice trasposizione di un problema, che rimaneva e rimane aperto e sicuramente destinato ad aggravarsi, ove si volesse ritenere — come pure più recentemente proposto (85) — di utilizzare l’analisi sociologica anche per risolvere la concorrenza tra fonti (legali e di fatto), con l’ulteriore rischio, che pure si dichiara di voler scongiurare, di fare della giuridicità la « mera registrazione di un accaduto », piuttosto che il limite all’accadere e alla mera fruizione di rapporti di forza. Il richiamo ai valori, quali entità storico-reali dell’esperienza, non costituiva né costituisce in realtà una novità per la dottrina italiana neppure per quella più recente (86). Ma non si può non convenire che l’applicazione che ora si proponeva di farne al diritto civile conferiva oggettivamente ulteriore e più forte spinta al processo di definitiva affrancazione anche di questa vasta area della giuridicità da quell’onda lunga di esasperato formalismo legalistico e rigido dogmatismo che si trascinava dalla pandettistica, confermando anche per il diritto civile il carattere di realtà vivente radicata nel profondo della società prima ancora che forma e decisum di un potere legislativo sovrano (87). E in tale assunto, ma solo in tale assunto, può anche riassumersi la cifra di tutto il pensiero civilistico quale si era venuto sviluppando nelle prolusioni del decennio. 5. — Il decennio degli anni sessanta, che appena si chiudeva, aveva suscitato, ma lasciato sostanzialmente irrisolti, inquietanti interrogativi: dal problema della isolabilità e comprensione della esperienza giuridica a quello ( 84 ) Scrive N. Lipari, op. ult. cit., p. 3175: « il giurista deve interpretare sociologicamente la norma o il sistema e dogmaticamente la realtà o il dato sociale ». ( 85 ) Dallo stesso N. Lipari, Diritto e sociologia nella crisi istituzionale del postmoderno, in R. crit. d. priv., 1998, p. 409 ss., spec. p. 421. ( 86 ) Il riferimento è soprattutto all’opera del filosofo del diritto R. De Stefano, su cui il nostro Assiologia e teoria del diritto (rileggendo Rodolfo De Stefano), ora in Id., Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, cit., p. 227 ss. ( 87 ) In questo senso una sperimentazione innovativa poteva considerarsi il volume curato dallo stesso N. Lipari, Diritto privato. Una ricerca per l’insegnamento, Roma-Bari 1972. 520 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 dei criteri decisori dei contenuti normativi della legge; dal problema della soggettività interpretante a quello della fondabilità conoscitiva e controllabilità dei valori (88); dal problema del politeismo e anomia di tali valori a quello della relatività e storicità degli stessi principi e fondamenti costituzionali e persino della possibile conflittualità tra i medesimi (89). Ma le prolusioni si spengono e il decennio degli anni settanta ne testimonia il definitivo tramonto. L’opera di rivisitazione e revisione prosegue, ma predilige altre sedi: il convegno, la rivista (90), il trattato, il commentario, la monografia di alto impegno teorico-dogmatico. Dibattiti, all’epoca anche molto accesi, come quello già ricordato sull’uso alternativo del diritto (91), sull’analisi economica del diritto (92), sulla politica del diritto (93), sulla decodificazione o l’esegesi come ultima razionalità rimasta al giurista (94), non lasciarono particolari segni di svolta. Al convegno messinese sui Cinquant’anni di esperienza giuridica in Italia, svoltosi a Taormina nel novembre del 1981, Rosario Nicolò poteva dichiarare che quella appena decorsa non sembrava « una stagione felice » per gli studi civilistici e neppure forse per gli studi giuridici in generale (95). Eppure proprio in quegli anni nuovi orizzonti avevano aperto anche allo studio del diritto civile l’assiologismo storico-realistico di Angelo Falzea (96) e il c.d. « pensiero per valori » o « dogmatica dei valori » ( 88 ) In tema, G. Palombella, Si possono conoscere i valori nel diritto? Per un modello epistemologico e pratico, in R. crit. d. priv., 1998, p. 7 ss. ( 89 ) Sulla compresenza in Costituzione di « più valori e più principi che possono trovarsi in situazione di conflitto »: M. Fioravanti, Le dottrine dello Stato e della Costituzione, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano. Dall’unità a oggi, Roma 1995, p. 421. ( 90 ) È questo il periodo in cui si assiste a una crescita quantitativa e qualitativa delle riviste: S. Rodotà, in P. Grossi (a cura di), La « cultura » delle riviste giuridiche italiane, Atti del primo incontro di studio (Firenze, 15-16 aprile 1983), Milano 1984, p. 86. ( 91 ) Supra, nt. 78. ( 92 ) Spec. P. Trimarchi, L’analisi del diritto: tendenze e prospettive, in Quadr., 1987, pp. 563-582. E per applicazioni, Id., Rischio e responsabilità oggettiva, Milano 1961; nonché: Aa.Vv., Interpretazione giuridica e analisi economica, Milano 1982; Aa.Vv., Analisi economica del diritto privato, Milano 1998. ( 93 ) Simbolo di tale movimento di pensiero la rivista, Politica del diritto, fondata nel 1970, da Stefano Rodotà (v. l’editoriale che apre il primo numero della rivista). Tra i protagonisti: G. Tarello, Cultura giuridica e politica del diritto, Bologna 1988. Sul rapporto politica-diritto, le illuminanti pagine di L. Mengoni, Diritto e politica nella dottrina giuridica, in Iustitia, 1974, p. 337 ss., ora in Id., Scritti, I. Metodo e teoria giuridica (a cura di C. Castronovo, A. Albanese, A. Nicolussi), Milano 2011, p. 149 ss. ( 94 ) N. Irti, L’età della decodificazione, cit., passim. ( 95 ) Diritto civile, cit., p. 76. Per una rivisitazione della cultura privatistica degli anni settanta, L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Milano 2008; e ivi, il contributo dello stesso curatore del volume, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta, pp. 1-27. ( 96 ) In particolare, Introduzione alle scienze giuridiche, giunta alla 6a ed., Milano 2008; Voci di teoria generale del diritto, 3a ed., Milano 1985; Ricerche di teoria generale del diritto e di dogmatica giuridica, I. teoria generale del diritto, Milano 1999; II. dogmatica giuri- SAGGI 521 di Luigi Mengoni (97). Sono stati anche anni di importanti innovazioni legislative, tra cui l’introduzione del divorzio, l’abbassamento della maggiore età, la legalizzazione dell’aborto, la riforma soprattutto del diritto di famiglia e quella sulla locazione di immobili urbani, ma la dottrina, che pure si mostra sensibile e attenta a cogliere le novità ma anche i ritardi, è ormai attratta da quella che è stata definita la cultura giuridica del riflusso e del ritorno al privato, con il diritto civile che « sembra risolversi in una tecnica difensiva e protettiva » dell’individuo in quanto tale (98). La stessa rilettura costituzionale di codici e leggi speciali accusa insufficienze e limiti di varia natura, per assenza — come si disse (99) — di una puntuale e precisa individuazione della rilevanza di norme e principi costituzionali nei singoli rapporti concreti. In questo quadro di elaborazione scientifica « liquida », tipicamente postmoderna, che rifletteva a sua volta una stagione del diritto divenuto anch’esso « liquido », e che tuttora si protrae, Pietro Perlingieri scrive l’ultima pagina di un genere letterario che pure — come si è visto — molto aveva contribuito all’avanzamento degli studi civilistici e traccia il manifesto di un nuovo itinerario, che garantisca l’approdo a una nuova stagione del diritto civile, quella del « diritto civile costituzionale »: è la prolusione napoletana del 1979 intitolata « Norme costituzionali e rapporti di diritto civile » (100), avente del manifesto scientifico, a giudizio di Natalino Irti, « il pathos e la fertilità » (101). dica, Milano 1997; III. scritti d’occasione, Milano 2010. Sull’assiologismo di Angelo Falzea, P. Grossi, Omaggio ad Angelo Falzea, in Giornate in onore di Angelo Falzea (15-16 febbraio 1991), Milano 1993, p. 149 ss.; D. Farias, La teoria generale del diritto tra vita e scienza, ivi, p. 2001 ss.; N. Irti, La filosofia di una generazione, cit., p. 97; nonché V. Scalisi, I professori del genere civilistico istituzionale a Messina (dalla tragedia del terremoto al secondo conflitto mondiale), e Dalla Scuola di Messina un contributo per l’Europa, entrambi ora in Fonti — teoria — metodo. Alla ricerca della « regola giuridica » nell’epoca della postmodernità, cit., pp. 168 ss., 276 ss. ( 97 ) Spec. Diritto e valori, cit.; nonché, Ermeneutica e dogmatica giuridica, Saggi, Milano 1996.; ma v. altresì, La questione del « diritto giusto » nella società postliberale, in Fenomenologia e società, 1988, p. 9 ss.; Diritto e tecnica, in R. trim. d. proc. civ., 2001, p. 1 ss. Per una puntuale ricostruzione nell’ottica dei valori: N. Lipari, Luigi Mengoni ovvero la dogmatica dei valori, in R. trim. d. proc. civ., 2002, p. 1063 ss.; e più in generale sul pensiero di Luigi Mengoni: L. Nogler e A. Nicolussi (a cura di), Luigi Mengoni o la coscienza del metodo, cit.; nonché gli Atti del Convegno « Luigi Mengoni dieci anni dopo » (Milano, 21 ottobre 2011), in Europ. d. priv., 2012, p. 3 ss. (tra cui, per quanto può qui interessare, relazioni di P. Grossi, G. Zaccaria, G. Benedetti). ( 98 ) N. Irti, Una generazione di giuristi, cit., p. 980 s. ( 99 ) P. Perlingieri, Norme costituzionali e rapporti di diritto civile, in Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3213. ( 100 ) In Le prolusioni dei civilisti, III (1940-1979), cit., p. 3211 ss. Ma per la fondazione di un « diritto civile costituzionale », dello stesso A., Scuole civilistiche e dibattito ideologico: introduzione allo studio del diritto privato in Italia, in questa Rivista, 1978, I, p. 414 ss.; ora in Id., Scuole tendenze e metodi. Problemi di diritto civile, Napoli 1989, p. 83 ss. ( 101 ) N. Irti, Quattro giuristi del nostro tempo, in Scuole e figure del diritto civile, 2a ed., Milano 2002, p. 436. 522 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Al centro dell’intero edificio privatistico viene chiamato il principio di legalità costituzionale, ma non più in funzione soltanto di « limite » ai fini dell’incidente di incostituzionalità della norma ordinaria, bensì soprattutto quale principio fondativo di un nuovo « giudizio di meritevolezza » degli enunciati normativi. Vi fa riscontro la proposta di una nuova metodologia interpretativa diversa da quella tradizionale, ossia una metodologia interpretativa « costituzionalmente orientata », in quanto rivolta a trasferire il precetto costituzionale direttamente nel contenuto della norma ordinaria. Fondamentale viene giudicata in ogni caso la disposizione gerarchica dei valori costituzionali con la persona umana e il suo libero sviluppo in posizione apicale e di vertice, quale Grundwert dell’intero sistema, e le situazioni patrimoniali conseguentemente piegate a funzione strumentale di quelle esistenziali. Ma il principio di legalità costituzionale risulterebbe depotenziato se non si riconoscesse immediata Drittwirkung, ossia diretta rilevanza applicativa, alla norma costituzionale, in quanto non soltanto regola ermeneutica ma anche e soprattutto norma anch’essa di comportamento direttamente e immediatamente operativa nei rapporti interprivati (102), quale necessaria conseguenza dei principi di legalità, gerarchia e unitarietà del sistema (103). Un nuovo inizio, che ha sicuramente prodotto frutti cospicui soprattutto nella formazione e nel lavoro delle giovani generazioni e che a oggi conserva tutta intatta la sua attualità e validità (104). Certo nel frattempo altri e imponenti fenomeni avrebbero intercettato la vita del diritto civile: il processo di integrazione giuridica europea con la conseguente necessità di costruire un diritto privato comune europeo; la forza crescente di una globalizzazione divenuta sempre più pervasiva e avvolgente con il diritto fattosi inevitabilmente « sconfinato » (105); l’avvento postindustriale e l’impetuoso esplodere della complessità sociale che, tra diversità e conflitti, ha reso quasi impossibile la ricerca di nuove sintesi unitarie e di nuovi equilibri; l’inarrestabile dispiegarsi della potenza della tecnica, anche sul nascere e il morire, e ciononostante sempre meno remissiva e disponibile ( 102 ) Su posizioni divergenti, P. Rescigno, Introduzione al Codice civile, 2a ed., RomaBari 1992, p. 62 ss.; C. Salvi, Norme costituzionali e diritto privato, in R. crit. d. priv., 2004, p. 241. ( 103 ) Nel solco di tali enunciati i volumi dello stesso A., Il diritto civile nella legalità costituzionale, 1a ed., Napoli 1984; Diritto comunitario e legalità costituzionale. Per un sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli 1992; e ora Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, 3a ed., del tutto rinnovata e corredata di note, Napoli 2006 (sul cui pregio le lucide riflessioni di P.Grossi, Il diritto civile nella legalità costituzionale, in Rass. d. civ., 2009, p. 914 ss.). ( 104 ) Secondo M. Pennasilico, Legalità costituzionale e diritto civile, in P. Perlingieri e A. Tartaglia Polcini, Novecento giuridico: i civilisti, cit., p. 281: « la “costituzionalizzazione” del diritto civile è un dato ormai interno alla scienza e all’esperienza giuridiche ». ( 105 ) M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Roma-Bari 2006. SAGGI 523 ai controlli; il prepotente emergere di un nuovo idolo planetario, il mercato, con la sua insopportabile pretesa egemonica di dominio; la postmodernità con le sue inquietanti aporie decostruttive e antifondazioniste. Tutti temi del nostro tempo presente, con i quali di certo anche la dottrina del diritto civile è chiamata a misurarsi, ma per i quali forse il terreno della prolusione può apparire troppo angusto e inadatto. Resta, tuttavia, almeno in chi appartiene ormai ad altra generazione, un sottile filo di rimpianto per un cerimoniale liturgico, che nel tempo ha sicuramente saputo segnalare problemi ma anche indicare sentieri di sincero rinnovamento degli studi. Giovanni D’Amico Prof. ord. dell’Università « Mediterranea » di Reggio Calabria LA PROPRIETÀ « DESTINATA » Sommario: 1. Premessa. La « destinazione » a uno scopo e i poteri (di godimento e di disposizione) del proprietario. — 2. Destinazione e diritti dei terzi. La destinazione come atto di conformazione/funzionalizzazione del diritto di proprietà da parte del suo titolare. — 3. La novità dello strumento introdotto dall’art. 2645 ter. — 4. Destinazione e interessi meritevoli di tutela. 1. — Nella letteratura, ormai copiosa, che si è formata sull’atto di destinazione ex art. 2645 ter, non si è mancato di evidenziare — tra le tante chiavi di lettura che sono state proposte — il profilo per cui l’istituto in esame interferisce specificamente con il tema della proprietà (prima e più ancora che col tema della tutela del credito). Dei due « effetti » che l’atto di cui parla l’art. 2645 ter produce — ossia l’effetto di « destinazione » e l’effetto di « segregazione » (o creazione di un patrimonio separato) — il primo è senza dubbio quello determinante, apparendo in un certo senso come un prius del secondo, sia dal punto di vista logico che dal punto di vista pratico. Ora, se ci si interroghi su cosa significhi « destinare » un bene ad uno scopo (ovvero — detto altrimenti — imporre ad un bene un vincolo di destinazione), è agevole rispondere che ciò significa (comunque, e anzi tutto) limitare la facoltà di uso e/o la facoltà di disposizione del proprietario di tale bene. L’effetto di destinazione dovrà essere individuato, dunque, entro dette coordinate. Orbene, le limitazioni delle facoltà (di godimento e di disposizione) del proprietario di una cosa — a parte quelle che discendono dalla necessità di rispettare (e non ledere) diritti altrui, sia di natura pubblica (ad es. rispetto di distanze nell’interesse pubblico) che di natura privata (ad es.: divieto di immissioni) — possono derivare o da « poteri » che un terzo soggetto (ancora una volta: pubblico o privato) abbia in relazione a quella cosa (1), oppure da ( 1 ) Si pensi, da un lato, a vincoli di tipo « pubblicistico » (come ad es. un vincolo di inedificabilità preordinato alla espropriazione di un terreno in vista della realizzazione di un’opera dichiarata di pubblica utilità); dall’altro, ai tradizionali diritti reali su cosa altrui (come un diritto d’uso, una servitù, un usufrutto). Oppure — passando ad esaminare le limitazioni e i vincoli al potere di disposizione del dominus — si pensi al vincolo di inalienabilità che può accompagnarsi per alcuni anni alla proprietà di beni ottenuti in virtù di agevolazioni pubbliche (come ad es. un alloggio di edilizia economica e popolare), o al « limite » che il proprietario subisca in relazione all’esistenza di un diritto di prelazione (legale o convenzionale). 526 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 una « conformazione » che la proprietà (o, se si preferisce, l’esercizio delle facoltà ad essa inerenti) subisce per la necessità di realizzare la funzione sociale di cui all’art. 42, comma 2o, Cost. (si parla, in questi casi, di un limite « interno »). Le prime domande da porsi sono allora — direi — le seguenti: a) posto che l’effetto di destinazione di cui all’art. 2645 ter consiste — come detto — nell’imposizione di un vincolo al proprietario della cosa, tale vincolo riguarda il potere di godimento, quello di disposizione, oppure entrambi? b) in che termini (e con quale contenuto) può prospettarsi — a fronte del vincolo gravante sul proprietario (o sul gestore, cui il proprietario abbia affidato la « gestione » destinata della cosa) — un diritto e/o una (posizione comunque di) « pretesa » dei terzi rispetto alla cosa? Alla prima domanda è possibile rispondere alquanto agevolmente. Sembra, infatti, abbastanza sicuro che la « destinazione » del bene ad uno scopo non comporti — di per sé — limiti particolari al potere del proprietario di trasferire (con atto inter vivos, o in virtù di una vicenda successoria mortis causa) il bene a terzi (2). Lo dimostra il fatto che tra i « terzi » cui la trascrizione rende opponibile l’atto di destinazione non si dubita che rientrino anche i c.d. « aventi causa » (il che presuppone che ci si trovi di fronte ad un bene che abbia formato oggetto di trasferimento); lo dimostra altresì — se si vuole avere un riscontro testuale più immediato — la circostanza che è lo stesso art. 2645 ter, laddove ipotizza una durata del vincolo di destinazione sino a 90 anni (o per la durata della vita della persona fisica beneficiaria), a prevedere (implicitamente) che il vincolo possa sussistere (durare) anche dopo la morte del « conferente » (3), e dunque in capo a soggetti (eredi o legatari) ai quali il bene sia stato trasferito mortis causa (in particolare attraverso un testamento) (4). E, se non sussistono limiti al trasferimento del bene (con il vincolo che lo connota) per effetto di una successione mortis causa, non si vede perché limiti siffatti possano porsi (in considerazione della presenza del vincolo) con riguardo ad atti di trasferimento del bene inter vivos (5). ( 2 ) Questo non esclude che il singolo, concreto, atto di destinazione possa anche prevedere un divieto di alienazione. Con riferimento ad ipotesi siffatte (che — comunque — non costituiscono probabilmente le ipotesi da assumere come « tipiche ») può esser vera l’affermazione che ravvisa la novità dell’art. 2645 ter nell’aver introdotto una deroga al principio di cui all’art. 1379 c.c.: così Luminoso, Contratto fiduciario, trust e atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in R. not., 2008, p. 993 ss., pp. 997-98. ( 3 ) Così la norma in esame chiama — con singolare espressione — l’autore dell’atto di disposizione. ( 4 ) Sull’acquisto mortis causa (a titolo di eredità o di legato) del bene gravato da un vincolo di destinazione v., in generale, Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione: nuove sfide per la pubblicità immobiliare, Padova 2012, p. 39 ss., nonché De Rosa, Atti di destinazione e successione del disponente, in www.scuoladinotariatodellalombardia.org. ( 5 ) Semmai, il « potere di disposizione » del proprietario potrà risultare « limitato » SAGGI 527 Più complessa è invece la risposta al secondo quesito, come vedremo subito nel paragrafo che segue. 2. — Acclarato che la « destinazione » si traduce in una limitazione (soprattutto, se non esclusivamente) della facoltà di godimento (6) che inerisce alla titolarità (proprietà) del bene, occorre chiedersi se a detta limitazione (in capo al proprietario) corrisponda un « diritto sulla cosa » che possa configurarsi in capo al beneficiario (o ai beneficiari) previsti dall’atto di destinazione (7). Ora, benché non sia da escludere che la « destinazione » del bene possa consistere anche nell’attribuzione a terzi (i beneficiari) del potere di godimento diretto del bene medesimo (si pensi alla destinazione di un terreno privato a « parco giochi » per i bambini di una scuola, o della parrocchia; o, ancora, alla destinazione di un fabbricato a « mensa per i poveri » (8), affidata alla gestione del Comune), non può nemmeno escludersi per altro verso che la « destinazione » di un bene a vantaggio di uno o più soggetti prescinda affatto dal godimento « diretto » di tale bene da parte del/dei beneficiario/i, e comporti soltanto un obbligo di impiego delle « rendite » in suo/loro favore (9). Del resto — a parte la considerazione che, volendo configurare la posizione del beneficiario (di un atto di destinazione) in termini di « diritto reale », ci si dovrebbe porre il problema di quanto ciò sia compatibile con il principio del numerus clausus dei diritti reali — ad escludere la prospettiva qui considerata sta anche l’osservazione secondo la quale non bisogna confondere la opponibilità (ai terzi) del vincolo con la realità. Quest’ultima è una caratteristica della situazione giuridica e dipende dalla ricorrenza di una serie di cadall’atto di destinazione, non tanto nel senso che quest’ultimo implichi un divieto di disporre della cosa, ma piuttosto nel senso che esso possa (esplicitamente o implicitamente) comportare un obbligo di disporre per la realizzazione dello scopo (ad es. un obbligo di dare in locazione il bene, per destinare le « rendite » al soddisfacimento dei bisogni del beneficiario dell’atto di destinazione). ( 6 ) Anche nel senso, eventualmente, di escludere un godimento diretto del bene, e di imporre una sua utilizzazione « fruttifera » (= concessione del godimento a terzi, verso corrispettivo). V. testo e nota precedente. ( 7 ) In altri termini, si tratta di stabilire se tali soggetti (terzi) acquistino, in virtù dell’atto di destinazione, un diritto accostabile ai tradizionali diritti reali su cosa altrui (come l’uso, l’usufrutto, la servitù, ecc.), e quindi appunto qualificabile in senso proprio come un diritto sulla cosa. ( 8 ) O a casa di riposo per anziani, per riprendere un esempio proposto da Cian, Riflessioni intorno ad un nuovo istituto del diritto civile: per una lettura analitica dell’art. 2645 ter c.c., in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, I, Padova 2007, p. 83 ss. ( 9 ) Si potrebbe sostenere che un diritto del beneficiario di far propri i « frutti » (rendite) della cosa, sarebbe analogo al diritto dell’usufruttuario. Ma, anche ammesso questo, ciò non basterebbe a far dire che ci troviamo di fronte ad un diritto « reale » (= sulla cosa), se difetta (come qui supponiamo) il carattere della « immediatezza » del rapporto (con la cosa). 528 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 ratteri (inerenza del diritto alla cosa, immediatezza, ecc.) dai quali discende anche la c.d. « assolutezza » (intesa come possibilità di far valere il diritto erga omnes); l’opponibilità, invece, prescinde — come tale — dalla natura (reale o personale) del diritto. I terzi hanno dunque una « pretesa » (non sulla cosa, bensì) verso il proprietario al rispetto della destinazione impressa alla cosa, sia che ciò si traduca in una possibilità loro concessa di utilizzazione della cosa stessa, sia che comporti un beneficio « mediato » (avente ad oggetto, cioè, i frutti della cosa, o — per meglio dire — la « pretesa » ad un certo impiego degli stessi). Negare (come abbiamo appena fatto) che questa « pretesa » (recte: interesse) consista in un potere diretto e immediato sulla cosa (quale tipicamente sussiste nel caso dei diritti reali in re aliena) (10) non significa, peraltro, dover giocoforza riconoscere che ci si trova di fronte ad un (semplice) diritto di credito (11). L’opponibilità ai terzi della destinazione del bene, infatti, sta comunque ad indicare l’esistenza di un quid che riguarda la cosa come tale, ancorché questa « pretesa » non si esprima — lo si ripete — nella forma di un (tradizionale) diritto reale. E — se è consentito aprire una breve parentesi — proprio perché qui è la ( 10 ) Per la tesi, invece, che ipotizza il sorgere in capo al beneficiario (del vincolo di destinazione) di un diritto reale (atipico), v. Bianca-D’Errico-De Donato-Priore, L’atto notarile di destinazione, Milano 2006, p. 45; D’Errico, Le modalità della trascrizione e i possibili conflitti che possono porsi tra beneficiari, creditori ed aventi causa del conferente, in Aa.Vv., Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione italiana per il Notariato, Il Sole-24 Ore, Milano 2007, p. 86 ss. Critiche a questa tesi si leggono ad es. in Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 28 ss., spec. p. 31 ss. (ed ivi ulteriori riferimenti). ( 11 ) Così invece Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, in Giust. civ., 2006, p. 179 (pur precisando che si tratterebbe di una « obbligazione » che attribuirebbe al creditore non soltanto i tradizionali rimedi connessi all’inadempimento — in particolare il risarcimento del danno ex art. 1218 c.c. —, ma altresì rimedi più efficaci — e, per così dire, « specifici » —, cui apre la porta la « opponibilità ai terzi » del vincolo di destinazione, se e in quanto trascritto). Decisamente critico nei confronti di questa tesi è Spada, Il vincolo di destinazione e la struttura del fatto costitutivo, cit., § 4, il quale scrive: « L’azione “popolare” (di qualsiasi interessato alla realizzazione dell’interesse) è solo un prezzo legale della separazione: la separazione rende ex lege il comportamento funzionale e genera una specie di class action. L’idea di un creditore della destinazione (e, per di più, nella persona del beneficiario — come suggerisce Gazzoni) non ha senso alcuno. ... ». E nella medesima logica — di non costruire una posizione soggettiva (quanto meno non in termini di « diritto soggettivo ») in capo al beneficiario — sembra porsi chi ha richiamato la categoria dell’« interesse legittimo alla corretta amministrazione dei beni » vincolati ad una destinazione (cfr. U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., in Aa.Vv., Atti di destinazione e trust. Art. 2645 ter del codice civile, a cura di G. Vettori, Padova 2008, p. 103, e anche in R. not., 2007, p. 1069 ss.; e v. anche Ghironi, La destinazione dei beni ad uno scopo nel prisma dell’art. 2645 ter c.c., in R. not., 2011, p. 1130 ss.), oppure chi si è chiesto se non sia da valutare l’alternativa di considerare il beneficiario (anziché come un creditore) come « un semplice legittimato ad agire ai sensi della norma in oggetto » (così Bullo, op. ult. cit., p. 34; corsivo aggiunto). SAGGI 529 trascrizione (del vincolo) a rendere possibile una opponibilità ai terzi che altrimenti non sussisterebbe (mancando appunto — in ipotesi — un diritto « reale ») (12), hanno ragione — sembra da riconoscere — quelle posizioni dottrinali che affermano il carattere costitutivo, che nella fattispecie in esame la pubblicità riveste (13). Né è persuasiva l’affermazione secondo la quale, in assenza della trascrizione, il vincolo di destinazione comunque varrebbe tra le « parti » (rectius: tra il proprietario e il beneficiario (14)): un semplice rapporto « obbligatorio » — quale, allora, si potrebbe configurare — sarebbe infatti cosa ben diversa (è appena il caso di evidenziarlo) da quel fenomeno « destinatorio », che la disposizione in esame delinea, configurandolo come fatto ( 12 ) Si accoglie qui, evidentemente, l’idea che l’opponibilità ai terzi sia connaturata « concettualmente » alla figura del diritto reale: ciò che corrisponde all’opinione forse maggiormente diffusa, e tuttavia non incontestata, atteso che esistono posizioni dottrinali che ricollegano l’opponibilità ai terzi, anche per i diritti reali, alla attuazione in concreto della pubblicità (per una riflessione sul punto cfr. Comporti, Diritti reali in generale2, in Tratt. Cicu-Messineo, cont. da Mengoni e Schlesinger, Milano 2011, p. 95 ss.). ( 13 ) Cfr., ad es. Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., spec. p. 105 ss. ( 14 ) Non è detto che questi due soggetti siano (o debbano diventare) « parti » di un contratto. Sebbene non possa escludersi che la « destinazione » (della cosa) scaturisca da un « accordo » tra proprietario e terzo beneficiario (accordo che potrebbe financo assumere carattere « oneroso »: così anche Lenzi, voce Atto di destinazione, in Enc. dir., Annali, V, Milano 2012, p. 61), nemmeno può escludersi che essa scaturisca (come, anzi, accadrà il più delle volte) da un atto negoziale unilaterale. Al più potrà discorrersi se questo atto (in tal caso, necessariamente, a titolo gratuito) — comportando un beneficio nei confronti di un terzo — richieda comunque un « consenso » da parte di quest’ultimo (o, almeno, un non dissenso), onde possa parlarsi (secondo uno schema concettuale ben noto) di un atto unilaterale con struttura a rilievo bilaterale. Deve comunque ritenersi (secondo l’opinione prevalente) che il vincolo di destinazione — anche se sorto in virtù di un atto unilaterale — non possa venir meno in virtù di una volontà di « revoca » dello stesso successivamente manifestata dal « conferente », in particolare se questa volontà intervenga dopo che l’imposizione del vincolo sia stata comunicata al beneficiario, e ancor più se quest’ultimo abbia già dichiarato di volerne profittare (cfr. sul punto Morace Pinelli, Atti di destinazione, trust e responsabilità del debitore, Milano 2007, p. 259 ss.; e Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., pp. 51-52). Peraltro, quando la costituzione del vincolo a favore di uno o più beneficiari sia avvenuta a titolo gratuito, si può porre — riteniamo — il problema di una applicazione analogica di disposizioni come l’art. 1809, comma 2o (che prevede il diritto del comodante di richiedere la « restituzione » immediata della cosa comodata se sia sopravvenuto un urgente e impreveduto bisogno del comodante stesso) o come l’art. 803 c.c. (che prevede la revocazione della donazione per sopravvenienza di figli; norma la cui applicazione è estesa dall’art. 809 c.c. anche alle liberalità non donative). Nella stessa logica (ma con soluzione tecnicamente diversa) qualche autore suggerisce di inserire nell’atto notarile di destinazione « una condizione risolutiva con la quale subordinare l’efficacia del contratto al sopraggiungere di una situazione esistenziale espressione di un interesse prioritario rispetto alla destinazione » (così G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 75). Soluzione che lascia aperto comunque il problema per le ipotesi in cui una clausola siffatta non sia prevista nell’atto di destinazione. 530 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 « oggettivo » (ossia relativo all’oggetto), e dunque in essenziale rapporto proprio con la « opponibilità ai terzi » (del vincolo) (15). Tornando adesso alla linea principale del discorso, c’è — a questo punto — da porsi la (ulteriore) domanda: se l’atto di destinazione non crea in capo a terzi (beneficiari) un diritto reale sulla cosa, ma per altro verso non si riduce nemmeno ad un mero vincolo « obbligatorio » che il proprietario assuma nei confronti del beneficiario (o dei beneficiari), in che termini è descrivibile l’effetto di questo atto? Un’idea alquanto suggestiva è che l’atto di destinazione sia espressione di un potere di conformazione della proprietà che sarebbe attribuito al proprietario stesso, e che consentirebbe di dar vita ad un modello proprietario atipico (16). Sviluppando la suggestione, si potrebbe vedere nell’art. 2645 ter una sorta di delega allo stesso proprietario, titolare del diritto, del potere di funzionalizzare la proprietà, ossia di prevederne modalità di godimento (e di disposizione) tali da consentire di realizzare — non solo in via di fatto, ma in virtù di un assetto giuridico acquisito dal bene — (anche) interessi di terzi ovvero interessi sociali. Si invererebbe insomma, in tal modo — in una prospettiva di sussidiarietà orizzontale, e dunque facendo ricorso alla stessa autonomia negoziale (17) ( 15 ) Non avrebbe alcun senso considerare l’ipotetico (mero) « effetto obbligatorio » di cui si parla nel testo alla stregua di una specie di « effetto minore » che l’atto di destinazione possa produrre, in caso di sua mancata trascrizione. Quel che deve ribadirsi, insomma, è che atto di destinazione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter, è solo quello che risulti trascritto/trascrivibile. Un atto non destinato alla trascrizione e/o non trascritto non integra il fenomeno di cui si occupa la norma in questione, e andrà « qualificato » in base a norme diverse. ( 16 ) Così Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 31 ss., ove si richiama altresì la posizione di Benatti, Vincoli di destinazione, in Tratt. Gambaro-Morello, II, Milano 2011, p. 355 ss., spec. p. 385 ss. Ante litteram, si veda La Porta, Destinazione di beni allo scopo e causa negoziale, Napoli 1994, p. 79 ss. Prima dell’introduzione dell’art. 2645 ter c.c. è dubbio peraltro, a nostro avviso, che un simile effetto di « conformazione » della proprietà (anche a tacere del problema di come renderlo « pubblico », stante il principio di tipicità degli atti trascrivibili) potesse ritenersi conseguibile — in presenza di una regola del numerus clausus dei diritti reali — in applicazione del riconoscimento dell’autonomia contrattuale di cui all’art. 1322 c.c. (sarebbe, infatti, mancato l’interesse meritevole di tutela, nel significato in cui ne parla la disposizione in questione), e quale esplicazione del più ampio potere di disposizione spettante al proprietario (così, invece, Palermo, Contributo allo studio del trust e dei negozi di destinazione disciplinati dal diritto italiano, in R. d. comm., 2001, I, p. 391 ss.). Il potere riconosciuto all’autonomia contrattuale ex art. 1322 c.c. avrebbe potuto infatti consentire (prima della introduzione dell’art. 2645 ter) di riconoscere al più (la legittimità di) un negozio di destinazione con effetti esclusivamente obbligatori. ( 17 ) Cfr., al riguardo, la formulazione dell’ult. comma dell’art. 118 Cost. (quale introdotto ad opera dell’art. 4 della l. cost. 18 ottobre 2001, n. 3), alla stregua del quale « Stato, regioni, Città metropolitane favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà ». SAGGI 531 — quel precetto della funzione sociale della proprietà (art. 42, comma 2o, Cost.), sin qui affidato per lo più (se non esclusivamente) ad interventi conformativi del diritto dominicale di matrice (eminentemente) eteronoma (18). Naturalmente l’intervento « conformativo » riguarderebbe, in questo caso, non una tipologia di beni individuata (a priori) dal legislatore in considerazione della idoneità a soddisfare interessi diversi da quelli del proprietario (e in particolare interessi di natura collettiva e/o sociale), bensì (e giocoforza, vista la genesi « autonoma » del vincolo) uno o più beni singoli, sui quali lo stesso proprietario (e non potrebbe farlo se non rispetto a beni di sua spettanza) imprimerebbe un vincolo funzionale al soddisfacimento di interessi altrui (19). Al di là della suggestione, non ci si può nascondere — tuttavia — che anche questa idea deve fare i conti con il principio del « numero chiuso dei diritti reali », ossia col principio che riserva alla legge il potere di conformare la proprietà stabilendo quali vincoli e quali restrizioni possono limitare il contenuto del diritto dominicale (e, quindi, anche il valore di tale diritto). Sotto tale profilo, peraltro, potrebbero acquisire un significato ben preciso proprio le limitazioni che l’art. 2645 ter pone all’autonomia privata nella creazione di vincoli sulla proprietà: la « meritevolezza » degli interessi che attraverso questo strumento possono perseguirsi andrebbe pertanto intesa in senso pregnante, in quanto sarebbe indicativa di una tendenziale « eccezionalità » dei vincoli imposti alla proprietà (vincoli che — volenti o nolenti — collocano, quanto meno di fatto, il bene fuori dal mercato, per di più per un periodo di tempo che può essere anche molto lungo), i quali devono poter trovare la loro giustificazione in effettive esigenze di natura « sociale », che possaIn argomento si veda il contributo monografico di De Felice, Principio di sussidiarietà e autonomia negoziale, Napoli 2008 (il quale tuttavia non menziona specificamente l’istituto di cui all’art. 2645 ter). ( 18 ) Sulla clausola della « funzione sociale » della proprietà, cfr. da ultimo il dibattito a più voci ospitato sul n. 4/2013 della Rivista critica di diritto privato (sotto il titolo « Il ritorno della funzione sociale della proprietà »), con interventi di L. Nivarra, U. Mattei e M.R. Marella. ( 19 ) Come vedremo più avanti, l’accoglimento di una tale « chiave di lettura » dell’art. 2645 ter ha una evidente ricaduta sul tema (assai discusso) della natura e della consistenza dell’interesse meritevole di tutela che può supportare validamente l’imposizione di un vincolo di destinazione sui beni. È evidente, infatti, che dare dell’art. 2645 ter una lettura in termini di applicazione del principio di « sussidiarietà orizzontale » in materia di realizzazione della funzione sociale della proprietà, orienta verso una concezione dell’« interesse meritevole di tutela » in termini decisamente di interesse non egoistico. Con la precisazione che, per interesse « egoistico » non va inteso soltanto quello individuale del proprietario del bene, ma anche l’interesse di componenti della sua famiglia. Non deve — sotto questo profilo — trarre in inganno il riferimento agli interessi di « persone con disabilità », che ben possono essere persone appartenenti alla cerchia familiare: quel che rileverebbe, infatti — anche in questo caso — è che la « destinazione » di uno o più beni al soddisfacimento dei « bisogni » di questi soggetti deve in qualche modo porsi come attuazione privata (= attraverso beni privati) di quel valore di « solidarietà sociale », che dovrebbe primariamente essere realizzato dallo Stato (e, in genere, dai soggetti pubblici). 532 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 no legittimare il sacrificio non solo di interessi privati (come quelli dei creditori « generali » del proprietario), ma anche dell’interesse pubblico racchiuso nel principio di « libertà della proprietà », quale principio idoneo a favorire la più ampia circolazione della ricchezza (20). Tali esigenze potranno anche riguardare persone determinate (e, al limite, persino una singola persona), ma non meno legittimamente (e anzi — si direbbe — ancor più persuasivamente) esse potranno riferirsi a « categorie » di soggetti non previamente individuate (21) (gli allievi di una scuola, i poveri del quartiere, gli anziani del paese, e così via), che possano essere interessati all’uso del bene (o dei beni) che il proprietario decida di vincolare per il soddisfacimento (anche) di bisogni di altri (22). 3. — La percezione della « novità » dell’istituto introdotto dall’art. 2645 ter è un dato che accomuna tutti gli interpreti che hanno analizzato la portata della disposizione (23). Quasi tutti gli autori insistono, al riguardo, sulla circostanza che la disposizione dell’art. 2645 ter — pur inserendosi in un trend legislativo che (soprattutto negli ultimi anni) si è mosso decisamente all’insegna dell’abbandono del tradizionale principio della « universalità » della responsabilità patri( 20 ) È in questa prospettiva che va letto anche il limite temporale che l’art. 2645 ter pone al vincolo di destinazione (massimo 90 anni, o alternativamente per la durata della vita del beneficiario), limite la cui ratio va, con tutta evidenza, ravvisata « nell’esigenza di non svuotare la proprietà del suo contenuto economico in perpetuo ovvero per un lungo periodo di tempo e correlativamente di evitare che i beni siano sottratti a finalità produttive » (così Bullo, Separazioni patrimoniali, cit., p. 51 e nt. 105, ove ulteriori citazioni). Attesa la ratio ora indicata, dovrebbe escludersi la possibilità di un « rinnovo »/reiterazione del vincolo se questo abbia operato per il tempo massimo previsto (90 anni o la durata della vita del beneficiario), mentre non escluderemmo che un tale « rinnovo » sia possibile se la durata originariamente prevista fosse inferiore ai 90 anni e/o se alla scadenza del vincolo il beneficiario sia ancora in vita. ( 21 ) La circostanza indicata nel testo conferma prima facie che l’apposizione del vincolo di destinazione non fa sorgere (o può non far sorgere) « diritti » in capo a terzi (che presuppongono la individuazione di uno più « titolari »), ma non è decisiva per escludere definitivamente un simile esito, essendo noto che la configurabilità di una situazione giuridica soggettiva non richiede l’attuale esistenza (e individuabilità) del soggetto, ciò che diviene necessario solo nel momento in cui si passi alla fase della realizzazione della situazione giuridica medesima. ( 22 ) Si pensi — per proporre uno dei tanti esempi possibili — ad un vincolo che il proprietario privato di importanti opere d’arte imponga su detti beni allo scopo di consentirne (per un certo numero di anni e con determinate modalità) la fruizione da parte di terzi (il vincolo potrebbe — ad es. — essere disposto a seguito e in esecuzione di un « accordo » con il Comune, interessato ad incrementare i flussi turistici sul proprio territorio, e disposto a contribuire — o addirittura ad accollarsi interamente — alle spese per la realizzazione della destinazione programmata). ( 23 ) Talora — come vedremo — criticando il legislatore, che non avrebbe sufficientemente ponderato il vulnus introdotto nel sistema della responsabilità patrimoniale; talaltra, apprezzando, invece, l’apertura alla autonomia privata che la disposizione realizza. SAGGI 533 moniale in favore di un opposto principio di « specializzazione » di tale responsabilità (24) — segnerebbe tuttavia, in questa direzione, una « accelerazione » (25), e anzi probabilmente il raggiungimento del punto di arrivo finale che si sarebbe potuto (in astratto) immaginare: ossia l’attribuzione alla autonomia privata (con implicita abrogazione della « riserva di legge » contenuta nell’art. 2740 c.c. (26)) del potere, in generale, di creare patrimoni separati, ai quali il titolare imprima una particolare « destinazione ». Ad avviso di chi scrive, la suggestione di questo rilievo non deve essere enfatizzata. Da un lato, infatti — sul piano normativo — non devono essere sottovalutati i limiti che (come già accennato) l’art. 2645 ter pone alla trascrivibilità dell’atto di destinazione, e dunque anche all’effetto « reale » (opponibilità ai terzi del vincolo) che a tale forma di pubblicità consegue, specie ( 24 ) Sul fenomeno cfr. la puntuale ricostruzione di Morace Pinelli, Atti di destinazione, cit., spec. p. 72 ss. ( 25 ) Pericolosa, secondo alcuni. ( 26 ) Sul punto è bene spendere qualche considerazione. Di fronte all’art. 2645 ter, la dottrina si è divisa, alcuni autori ritenendo che la disposizione sia « attuativa » della riserva di legge (in ordine alla creazione di patrimoni separati) prevista dall’art. 2740 c.c., altri invece — e all’opposto — ritenendo che detta riserva sarebbe stata (quanto meno dal punto di vista sostanziale) « violata ». Orbene, senza entrare specificamente in questa discussione (che potrebbe, per alcuni versi, rivelarsi come puramente « teorica » o accademica), ci sembra vada comunque osservato che la norma dell’art. 2740 c.c. che contiene la c.d. « riserva di legge » in materia, è comunque una norma ordinaria (e non una norma costituzionale), onde essa può ben essere derogata/modificata (o addirittura abrogata) da una disposizione di legge (ordinaria) successiva. Dal che discende che l’assunto della « violazione » della riserva di legge da parte dell’art. 2645 ter rimane privo di qualsiasi conseguenza pratica, posto che non si può certamente far discendere dalla (supposta) « violazione » la « illegittimità » della disposizione normativa che l’ha prodotta (come avverrebbe se, invece, la « riserva di legge » avesse rango costituzionale). Detto questo, bisogna comunque ammettere che è vero che l’introduzione dell’art. 2645 ter infligge probabilmente il colpo più duro (almeno da un punto di vista « concettuale ») al principio di « universalità » della responsabilità patrimoniale, « principio » che poteva ancora dirsi tale (nonostante il numero continuamente crescente delle « eccezioni » e delle « deroghe » ad esso apportate) sino a quando è rimasto riservato al legislatore il potere di apportarvi deroga, mentre una volta che questa possibilità sia riconosciuta (sia pure non illimitatamente) anche all’autonomia privata, è evidente che non solo appare dubbia la possibilità di continuare a parlare di un principio di « ordine pubblico » (e v., per una sottolineatura siffatta, già prima dell’introduzione dell’art. 2645 ter, Gambaro, Trust, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XIX, Torino 1999, p. 467), ma diventa probabilmente sempre più difficile anche solo parlare di un principio « generale » (cfr. ad es. Lenzi, Atto di destinazione, cit., pp. 58-59, ove si legge che il mutato assetto del diritto positivo consente di formulare « un rilievo di portata sistematica, carico di rilevanti ricadute applicative, e cioè di ritenere superata la concezione secondo cui le figure tipiche di separazione da destinazione sarebbero da considerare di stretta interpretazione, in quanto fattispecie eccezionali »; ma v., all’opposto, per una valutazione che ribadisce — nonostante tutto — la natura di principio generale alla regola della responsabilità patrimoniale illimitatata, M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, cit., pp. 243 ss., 252; in argomento cfr. anche Sicchiero, La responsabilità patrimoniale, in Tratt. Sacco, Torino 2011, pp. 67 ss., 229 ss.). 534 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 sotto il profilo della c.d. « segregazione » del bene. Dall’altro — sul piano fattuale — va evidenziato che la decisione di imporre ad un proprio bene un vincolo di destinazione — proprio perché un tale vincolo pone sostanzialmente (come già si è accennato) il bene fuori mercato — è una decisione che il proprietario non prenderà (è da supporre) troppo facilmente, anche quando dovessero sussistere in ipotesi tutti i presupposti richiesti dalla legge (e in particolare l’« interesse meritevole di tutela », del quale si è già detto, e sul quale si ritornerà fra poco) (27). Sotto questo profilo, è agevole prevedere che l’art. 2645 ter (come pure l’istituto del trust, che consente — con modalità diverse — di conseguire risultati in parte analoghi) configuri uno strumento che sarà realmente appetibile solo a chi possiede un patrimonio sufficientemente ampio da consentirgli (senza eccessivo pregiudizio per il proprio interesse) di « staccare » uno o più beni per destinarli a finalità « sociali » (o comunque non egoistiche) (28). Se quanto detto è vero, allora, non possono non apparire eccessive le preoccupazioni di quanti hanno immaginato una corsa alla trascrizione di vincoli di destinazione (corsa, non a caso, smentita — almeno sin qui — dai fatti, che raccontano piuttosto di un ricorso ancora modesto, se non addirittura esiguo, all’istituto in esame), probabilmente sulla base dell’assunto che la possibilità di ottenere l’effetto « segregativo » (leggi: sottrazione del bene ai propri creditori, o a buona parte di essi) avrebbe spinto diversi soggetti ad ( 27 ) Anche il requisito dell’atto pubblico, richiesto dalla legge, conferma l’idea della « gravità » degli effetti della destinazione del bene ad uno scopo, idea che ha spinto il legislatore ad esigere — attraverso il ministero del notaio — la garanzia di una indagine volta ad accertare la consapevolezza del « disponente » circa le conseguenze dell’atto che egli pone in essere, oltre che a consentire una corretta formulazione della volontà « destinatoria » (anche a tutela dei terzi — in funzione della eventuale circolazione giuridica del bene). Cfr., in proposito, Petrelli, La trascrizione, cit., p. 163 ss., e Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato. Dalla destinazione economica all’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., Padova 2010, p. 197 ss. ( 28 ) Chi, al contrario, dovesse disporre di un patrimonio esiguo — al limite costituito, essenzialmente, da un unico bene (immobile) — difficilmente si priverà della possibilità di esercitare (liberamente), rispetto a questo (unico) bene, i poteri di godimento e di disposizione che ineriscono al diritto di proprietà; e ciò non solo quando tale privazione dovesse ridondare a beneficio di soggetti « estranei » (verso i quali possano nutrirsi sentimenti di mera « solidarietà sociale », che troverebbero — verisimilmente — minor spazio di esplicazione, nella situazione ipotizzata), ma anche quando essa fosse finalizzata a destinare il bene a vantaggio di un soggetto appartenente alla propria cerchia familiare (ad es., un figlio disabile). La sottrazione del bene al mercato — che consegue all’imposizione del vincolo di destinazione — potrebbe infatti rivelarsi una scelta infelice, che non solo esclude ad es. la possibilità di « smobilizzare » il bene (per convertirlo in danaro, come pur potrebbe — per vari motivi — sorgere l’esigenza di fare), ma impedisce (o comunque limita fortemente) anche la possibilità di utilizzarlo come « garanzia » per possibili eventuali terzi creditori che potrebbero profilarsi in relazione a « cause » estranee alla destinazione di cui trattasi (si pensi alla necessità di costituire un’ipoteca a garanzia di un prestito necessario per sottoporre ad un costoso intervento chirurgico un membro della famiglia, diverso da quello a favore del quale è stato costituito il vincolo di destinazione). SAGGI 535 utilizzare proprio per questa finalità lo strumento messo a disposizione dal legislatore. C’è in questo modo di ragionare una notevole dose di ingenuità, in quanto, a tacer d’altro, si tralascia di considerare: a) che i beni costituiscono « garanzia » non soltanto dei creditori attuali, ma soprattutto di quelli « potenziali » (vale a dire di quelli che potrebbero « fare credito » al soggetto in futuro, a condizione naturalmente di trovare sufficiente capienza — e dunque garanzia, sia pure solo generica, di soddisfacimento del credito — nel patrimonio del debitore); e b) che rispetto ai creditori attuali (e in parte anche con riguardo a quelli futuri, ove ci si trovi di fronte ad una « dolosa preordinazione ») operano comunque le norme sulla revocatoria di cui all’art. 2901 c.c. (29), e questo dovrebbe escludere (in linea di principio, almeno) che possa ritenersi consentito (e men che mai favorito) un uso « fraudolento » dell’atto di destinazione (30).Del resto, non meno ingenuo è pensare che il legislatore potesse introdurre un istituto che si presti per sua natura (e in via, per così dire, di utilizzazione ordinaria e normale) ad un uso « fraudolento ». Diverse (da quelle sin qui considerate) devono essere, dunque, le ragioni sottese alla scelta effettuata con l’introduzione dell’art. 2645 ter. L’esame di tali ragioni aiuta anche ad individuare l’effettivo « spazio » che il nuovo isti( 29 ) Sull’applicabilità dell’azione revocatoria anche rispetto all’atto di destinazione v. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, cit., p. 183, Meucci, La destinazione dei beni tra atto e rimedi, Milano 2009, p. 458 ss., nonché Maltoni, il problema dell’effettività della destinazione, in Aa.Vv., Negozi di destinazione. Percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 82 ss., e Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 53. Gli ultimi due autori si occupano anche della possibile simulazione (assoluta) dell’atto di destinazione, desumibile in particolare dalla circostanza che la destinazione programmata non abbia in realtà ricevuto alcuna attuazione, rivelando in tal modo il suo carattere fittizio (e, presumibilmente, fraudolento). Sembrerebbe invece limitare la possibilità di ricorso all’azione revocatoria (nei confronti di un atto di destinazione) ai soli casi in cui l’apposizione del vincolo si accompagni ad una vicenda (anche) traslativa del bene, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 70 ss. Peraltro — e non senza contraddizione — lo stesso a. afferma più avanti (op. cit., 79) che se in relazione ad un atto di destinazione (senza effetto traslativo) si accerta la prevalenza dell’interesse del terzo creditore rispetto all’interesse del beneficiario, ciò comporterà « l’inefficacia relativa della separazione patrimoniale e, quindi, l’esecutabilità dei beni vincolati » (ossia — si noti — gli stessi effetti che conseguirebbero all’esercizio vittorioso della revocatoria, e che qui sembrerebbero conseguire alla impugnazione di un vincolo di destinazione illegittimamente trascritto, e così reso indebitamente opponibile ai terzi). ( 30 ) Proprio uno dei presupposti della revocatoria, e cioè il « pregiudizio » (potenziale) che il creditore può ricevere dal compimento dell’atto di disposizione, che potrebbe avere reso il (residuo) patrimonio del debitore insufficiente a « garantire » l’adempimento del credito (o la realizzazione dell’obbligazione risarcitoria, in cui lo stesso si converta in caso di inadempimento), conferma quanto dicevamo più sopra: e cioè che un atto di destinazione che ambisca a non essere « impugnabile » dovrà (e potrà) verisimilmente essere posto in essere solo da chi disponga (anche) di altri beni (diversi da quello o da quelli che vengono « destinati »). 536 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 tuto può legittimamente ambire a ritagliarsi (e l’effettiva novità che esso esprime). a) La prima di tali ragioni ci sembra da individuare nella crisi della « soggettivazione » come tecnica per realizzare destinazioni particolari dei beni (31) (si pensi al classico istituto della fondazione, ma anche alla utilizzazione del meccanismo della creazione di una nuova società allo scopo di convogliare nella stessa risorse che si vogliono riservate ad un determinato affare e ai creditori coinvolti nello stesso). La creazione di un nuovo soggetto giuridico ha dei costi « transattivi », ma anche dei costi di « mantenimento » (organi amministrativi e direttivi del « soggetto »/persona giuridica; dipendenti, sedi, ecc.), che possono risultare eccessivi rispetto all’obiettivo da raggiungere, o tali comunque da assorbire una parte consistente delle risorse destinate a un determinato obiettivo. b) La seconda di tali ragioni consiste nella remora che — in talune situazioni — si può avere a dismettere un proprio bene a favore di un terzo che lo acquisti con il vincolo di destinarlo ad un certo scopo. Gli strumenti della donazione modale o anche del trust o di un negozio fiduciario — che si basano su un meccanismo di questo genere — possono, ad es., e in taluni casi, risultare non del tutto « congeniali » e/o « appropriati », per varie ragioni: ad es. perché il soggetto a cui si affida il bene rischia di impiegare una parte del valore del bene stesso per mantenere la propria organizzazione (si pensi ad un trustee professionale; si pensi ad un soggetto pubblico che debba affrontare delle spese ingenti per la gestione « dedicata » del bene o dei beni che gli sono trasferiti); oppure perché il (potenziale) « disponente » non ha fiducia (piena) sulle effettive capacità del terzo di gestire il bene per realizzare la destinazione programmata; o, ancora, semplicemente perché il soggetto vuole realizzare la destinazione per un certo periodo, ma senza privarsi definitivamente del bene (che egli vuole invece conservare nel proprio patrimonio, per disporne successivamente inter vivos ovvero per trasmetterlo ai propri eredi). Ecco allora che l’imposizione di un vincolo di destinazione — opportunamente congegnato — può consentire di realizzare lo scopo, tenendo conto però al contempo degli elementi sopra richiamati. 4. — Il secondo « effetto » che l’art. 2645 ter ricollega all’atto di destinazione è il c.d. effetto di « segregazione » (del bene o dei beni vincolati), che l’ultimo inciso della disposizione in esame esprime con la formula secondo cui « I beni conferiti e i loro frutti [possono essere impiegati solo per la realizzazione del fine di destinazione e] possono costituire oggetto di esecuzione, salvo ( 31 ) Come osserva (fra i tanti) Lenzi, Atto di destinazione, cit., p. 55, la preferenza verso la soluzione della « personificazione », fortemente radicata nella mentalità tradizionale, « può dirsi recessiva nel pensiero giuridico contemporaneo, come dimostra la presenza già nel nostro codice civile, ma soprattutto nella legislazione più recente, di istituti fondati sulla separazione patrimoniale in senso stretto, nei quali all’effetto separatorio da destinazione non si accompagna un contestuale mutamento del regime di titolarità del patrimonio ». SAGGI 537 quanto previsto dall’art. 2915, comma 1o, solo per debiti contratti per tale scopo ». L’effetto « segregativo » — così delineato — non sarebbe, di per sé, essenziale alla realizzazione della « destinazione »; serve piuttosto (solo) a « rafforzarla » (32). Non c’è dubbio, peraltro, che l’art. 2645 ter preveda questo effetto come necessariamente collegato all’atto di destinazione trascritto, che (è bene ricordarlo) è il solo fenomeno (o, se si vuole, la fattispecie) a cui si riferisce la norma in esame (33), tanto che non sarebbe azzardato riferire l’interesse ( 32 ) È chiaro, infatti, che anche se all’atto di destinazione non si accompagnasse l’effetto di separazione patrimoniale (del bene o dei beni destinati), la destinazione potrebbe comunque operare sub specie di limitazione dei poteri del proprietario (in part., del potere di godimento), con efficacia altresì — sempre che l’atto sia stato trascritto (e sia, pertanto, divenuto « opponibile ») — nei confronti dei terzi aventi causa. Per l’idea, invece, che ai fini del passaggio da una nozione « generica » di destinazione (quale ricorre in una serie eterogenea di fenomeni: dalle pertinenze, alle universalità, alle servitù, al mutuo di scopo, ecc.) ad una nozione « tecnica », sia necessario che la destinazione del bene risulti dotata — quale « elemento integrativo qualificante » — della « separazione » patrimoniale, v. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in G. Vettori (a cura di), Atti di destinazione e trust, cit., e anche in questa Rivista, 2007, I, p. 201 ss., § 2 (ove si legge anche che « Una destinazione del patrimonio che non comportasse un effetto di separazione sarebbe pressoché inutile in quanto la separazione è strumentale alla conservazione della destinazione »). ( 33 ) Intendiamo con ciò ribadire che una destinazione senza trascrizione (e, dunque, tale da restare confinata nell’ambito di un mero rapporto obbligatorio tra disponente e beneficiario) è fenomeno che non ha nulla a che vedere con quello regolato dall’art. 2645 ter. In questo senso, l’opponibilità ai terzi del vincolo di destinazione (opponibilità che consegue alla trascrizione), più che un effetto, è un elemento della fattispecie prevista e regolata dall’art. 2645 ter. È equivoca, pertanto, e fonte di possibili fraintendimenti, la posizione di chi assume che si possa dare un « atto di destinazione » (ai sensi dell’art. 2645 ter) anche senza la trascrizione, ponendosi pertanto il problema se ci possa essere un « atto di destinazione » valido ma non trascrivibile, e distinguendo pertanto una « meritevolezza » (dell’interesse) che potrebbe essere sufficiente a far ritenere valido l’atto, ancorché inidoneo ad essere trascritto (e dunque a conseguire l’effetto della « opponibilità ai terzi » del vincolo di destinazione): cfr. — fra i tanti che aderiscono a questa impostazione — Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., p. 58, e, più di recente, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza » degli atti di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in F. nap., 2014, p. 54 ss., specie p. 60 ss. (dove si legge che « il controllo di meritevolezza dell’art. 2645 ter c.c. è richiesto soltanto ai fini della separazione patrimoniale, sì che il negozio di destinazione, già di per sé lecito e meritevole ex art. 1322 c.c. (e quindi valido e produttivo di effetti tra le parti), sarà anche opponibile ai terzi creditori ed agli aventi causa, se supera il controllo dell’art. 2645 ter c.c. ... Ne deriva che la conseguenza, in caso di mancato superamento del controllo ex art. 2645 ter c.c., non è la nullità ma la sola inopponibilità ai terzi dell’effetto di destinazione e, quindi, del vincolo gravante sui beni »). Va qui ribadito che l’atto di destinazione ex art. 2645 ter, è solo quello (trascrivibile e) trascritto. Atti che non abbiano questa finalizzazione (o ai quali comunque non segua la trascrizione, perché risulti insussistente un « interesse meritevole di tutela ») non sono atti di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter. Dopodiché non è neanche esatto dire che si tratta di atti nulli (per mancanza di causa) ai sensi della disposizione in esame (così, ad es., Ceolin, op. cit., p. 205): semplicemente si tratterà di atti che difettano dei requisiti per essere 538 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 meritevole di tutela direttamente alla trascrizione (34). Il che — sia detto per inciso — avrebbe, fra l’altro, il vantaggio di rendere (più) evidente che il giudizio di meritevolezza va condotto avendo riguardo (come termini di confronto) entrambi gli effetti che il legislatore riconnette (inscindibilmente) alla suddetta trascrizione: e dunque non solo l’effetto « segregativo » (che coinvolge i terzi creditori), ma anche l’effetto di « destinazione » (che coinvolge direttamente il bene). Proprio per quanto appena detto, lascia perplessi l’atteggiamento della dottrina, che ha invece concentrato l’attenzione pressoché esclusivamente sull’effetto segregativo, finendo — a nostro avviso — per porre la lettura dell’art. 2645 ter sotto un angolo visuale non del tutto corretto (se non, addirittura, fuorviante). Nella prospettiva della centralità dell’effetto segregativo (35) è stata infatricondotti allo « schema » di cui all’art. 2645 ter, impregiudicata una loro possibile qualificazione alla stregua dello schema di un negozio tipico (di cui eventualmente presentino i requisiti: es. una donazione modale, un atto con cui il proprietario costituisca sul proprio fondo una servitus altius non tollendi, o un diritto reale di uso a favore di una determinata persona, ecc. ecc.) ovvero al limite di uno schema « atipico », sempreché (in quest’ultimo caso) risulti superato il vaglio di « meritevolezza » ex art. 1322 c.c. (vaglio che — è appena il caso di sottolinearlo — dovrà essere condotto sulla base di parametri diversi da quelli utilizzati ai fini dell’art. 2645 ter, atteso che il richiamo che quest’ultima disposizione fa all’art. 1322 c.c. va inteso proprio nella prospettiva di una « specializzazione » del giudizio di meritevolezza quando esso sia riferito ad un « atto di destinazione » che si voglia opponibile ai terzi). Un’ultima considerazione. Alla luce di quanto sopra affermato, ci sembra che risulti altresì evidente che l’« atto di destinazione » di cui parla l’art. 2645 ter debba considerarsi un atto « negoziale » tipico, atteso che esso trova nella disposizione in esame sia la descrizione della « fattispecie » (seppure delineata in maniera alquanto ampia e generica) sia la « disciplina degli effetti » (effetto di destinazione ed effetto segregativo) (sulla « tipizzazione » della causa dell’atto di destinazione ex art. 2645 ter cfr. Oberto, Atti di destinazione [art. 2645 ter c.c.] e trust: analogie e differenze, in Contratto e impr./Europ., 2007, p. 351 ss.), sia la disciplina delle modalità (pubblicitarie) che devono necessariamente accompagnare l’atto (leggi: trascrizione). Non bisogna, in conclusione, confondere la « atipicità »dell’effetto segregativo (« atipicità » che attiene al fatto che, adesso, questo effetto non richiede una specifica previsione di legge, ma può conseguire anche ad un atto di autonomia privata), con una (pretesa e, per le ragioni appena dette, insussistente) « atipicità » dell’atto negoziale che dà vita alla separazione patrimoniale. ( 34 ) Si è giustamente sottolineato che, mentre nell’art. 1322 c.c. il giudizio di meritevolezza viene riferito direttamente all’atto « a prescindere dall’essere lo stesso trascrivibile o meno ed in concreto trascritto oppure no », nell’art. 2645 ter « la mancanza di meritevolezza dell’interesse riferibile ai soggetti ivi indicati non consente la trascrizione stessa dell’atto, e quindi non permette il prodursi né dell’effetto dell’opponibilità ai terzi del vincolo né l’effetto segregativo sui beni oggetto di destinazione » (così Bullo, Separazioni patrimoniali e trascrizione, cit., pp. 58-59). ( 35 ) In radicale controtendenza v., tuttavia, la posizione di Falzea, Introduzione e considerazioni generali, in Aa.Vv., Dal trust all’atto di destinazione patrimoniale. Il lungo cammino di un’idea (a cura di M. Bianca e A. de Donato), Quaderni della Fondazione italiana del Notariato, Il Sole - 24 Ore, Milano 2013, p. 19 ss. SAGGI 539 ti pressoché interamente « assorbita » la questione (cruciale) della determinazione di quali siano (e come debbano intendersi) gli « interessi meritevoli di tutela », di cui la norma parla come presupposto perché possa farsi luogo alla imposizione di vincoli di destinazione sui beni. Premesso che nella valutazione complessiva del nuovo istituto la dottrina si è sostanzialmente divisa in due « schieramenti » determinati proprio dalla posizione rispetto all’effetto di segregazione — vi sono stati autori che hanno criticato (o comunque espresso preoccupazione nei confronti del)la disposizione dell’art. 2645 ter, accusando il legislatore di aver rimesso all’autonomia privata il potere di creare patrimoni separati, con correlativo « sacrificio » degli interessi dei creditori « generali » (e creando comunque un vulnus alla tutela del credito, nonostante il « rilievo » anche costituzionale che a tale tutela deve riconoscersi (36)), mentre per converso altri autori hanno visto nella norma in esame nulla più che l’epilogo (e, per così dire, la naturale evoluzione) di una tendenza ormai risalente alla erosione del principio di universalità della garanzia patrimoniale, guardando con favore (o, quanto meno, senza toni « allarmistici ») all’ampliamento degli spazi dell’autonomia negoziale che essa realizza (37) — è successo che i due descritti atteggiamenti si siano riflessi L’illustre Maestro, partendo dalla distinzione tra limitazioni del patrimonio e limitazioni di responsabilità, arriva a negare qualsiasi contrasto dell’atto destinatorio (in quanto atto che non inciderebbe direttamente sulla responsabilità del soggetto, bensì — secondo l’a. — sul suo patrimonio) con la regola dell’art. 2740 c.c. Solo per le limitazioni di responsabilità varrebbe il principio di cui all’art. 2740 c.c., mentre per gli atti che incidono direttamente sul patrimonio troverebbe applicazione il rimedio dell’azione revocatoria (ragionando diversamente — afferma Falzea — « tutti gli atti di alienazione, e, più in generale tutti gli atti di disposizione, dovrebbero considerarsi come limitativi della responsabilità patrimoniale e cadere sotto il divieto posto indirettamente dall’art. 2740 c.c. E se non lo sono gli atti di alienazione a fortiori non possono neppure esserlo gli atti di separazione, che certamente rappresentano un minus rispetto ad essi »). ( 36 ) In argomento cfr., fra gli altri: Barbiera, Responsabilità patrimoniale2, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 2010, p. 6 ss., e Roselli, Responsabilità patrimoniale. I mezzi di conservazione, in Tratt. Bessone, IX, t. 3, Torino 2005, p. 7. Ma si veda, allora, quanto scrive Palermo, Configurazione dello scopo, opponibilità del vincolo, realizzazione dell’assetto di interessi, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, Milano 2007, p. 79, laddove l’a. osserva che non si rinviene « nella Carta repubblicana una configurazione degli interessi del ceto creditorio, che possa far ritenere tali interessi — sia nell’ottica dell’art. 2 sia in quella dell’art. 41, comma 2o — in assoluto intangibili... mentre le esigenze del mercato ... non sembrano richiedere, in vista di un miglior assetto dei rapportin intersoggettivi, un tale sacrficio del potere di disposizione, che, condotto all’estremo limite, sia suscettibile di tradursi addirittura nel freno di quella stessa iniziativa privata, che l’art. 41 Cost. vuole libera, in linea di principio... ». Dello stesso a. v. anche il saggio I negozi di destinazione nel sistema del diritto privato, in Rass. d. civ., 2011, p. 83 ss. ( 37 ) Si veda, ad es., Doria, Il patrimonio « finalizzato », in questa Rivista, 2007, I, pp. 485 ss., 490, 498 (ove si legge che la disposizione dell’art. 2645 ter « piuttosto che un’epifania rivoluzionaria, rappresenta null’altro che il punto terminale di un particolare percorso evolutivo della nozione di patrimonio del soggetto », spiegando che « la parabola normativa a cavallo di fine millennio, compendiata, oggi da una generale possibilità offerta al soggetto 540 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 (come era facile, se non inevitabile, che avvenisse) sulla fondamentale questione relativa alla interpretazione del concetto di « interessi meritevoli di tutela » (decisiva per individuare quali possano essere — al di là della esemplificazione che fornisce lo stesso legislatore nella disposizione dell’art. 2645 ter — codesti interessi). In particolare ciò ha comportato la formazione — anche a questo proposito — di due (correlativi) orientamenti contrapposti (38): il primo, che tende ad identificare la « meritevolezza » degli interessi in questione con la non contrarietà a norme imperative, ordine pubblico e buon costume, ossia (e in una parola) con la (mera) liceità degli interessi medesimi; il secondo, invece, che assume il concetto di « meritevolezza » come espressivo di una apprezzabilità sociale, che va al di là del semplice requisito (negativo) della non illiceità (39), e che — secondo i più — implica la necessità che l’interesse che il vincolo di destinazione è preordinato a soddisfare (anche, eventualdi selezionare autonomamente la sfera di interessi attorno ai quali ordinare, con funzione segregante, una parte del proprio patrimonio, consegna, dunque, una nozione di patrimonio, per così dire, “capovolta”, perché quelle stesse esigenze di affermazione della persona, di tutela del credito e di ordinato sviluppo dell’economia, che, tradizionalmente, postulavano l’unitarietà del patrimonio, spingono, oggi, verso una sua frantumazione »). ( 38 ) È appena il caso di sottolineare che i due orientamenti di cui si parla nel testo rappresentano, per altro verso, la riproposizione (scontata, e forse anche un po’ banale — per lo meno nella misura in cui sia praticata senza alcuno sforzo di « adattamento » del discorso alla specificità della fattispecie di cui all’art. 2645 ter) delle discussioni che da tempo si agitano intorno al modo in cui intendere il requisito della « meritevolezza degli interessi » con riferimento ai contratti atipici (art. 1322 c.c.). ( 39 ) Per l’identificazione dell’interesse meritevole di tutela ex art. 2645 ter con l’interesse « lecito » v., ad es.: Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in R. d. civ., II, 2006, p. 179 ss.; Russo, Il negozio di destinazione di beni immobili e beni mobili registrati (art. 2645 ter c.c.), in Vita not., 2006, p. 1243 ss., Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. d. civ., 2007, p. 12 (e si veda anche Id., La destinazione patrimoniale. Un contributo della categoria generale allo studio della fattispecie, in R. d. priv., 2010, p. 62), Vettori, Atto di destinazione e trascrizione. L’art. 2645 ter, in Aa.Vv., La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 176. Nel senso invece che il giudizio di meritevolezza ex art. 2645 ter non possa esaurirsi nella mera verifica della assenza di illiceità dell’interesse al cui soddisfacimento è preordinato il vincolo di destinazione si pronuncia, sia pure con varietà di accenti, la maggioranza della dottrina: cfr. U. La Porta, L’atto di destinazione di beni allo scopo trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., in G. Vettori (a cura di), Atti di destinazione e trust (Art. 2645 ter del codice civile), Padova 2008, p. 103 (e anche in R. not., 2007, p. 1069 ss.); Morace Pinelli, Tipicità dell’atto di destinazione ed alcuni aspetti della sua disciplina, in questa Rivista, 2008, II, p. 451 ss.; Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 329; Gazzoni, Osservazioni, cit., p. 179; C. Scognamiglio, Negozi di destinazione, trust e negozi fiduciari, in Scritti in onore di G. Cian, Padova 2010, t. 2, p. 2313 ss.; Nuzzo, L’interesse meritevole di tutela tra liceità dell’atto di destinazione e opponibilità dell’effetto della separazione patrimoniale, in Aa.Vv., Famiglie e impresa: strumenti negoziali per la separazione patrimoniale, Milano 2010, p. 29; Id., L’evoluzione del principio di responsabilità patrimoniale illimitata, in Aa.Vv., Gli strumenti di articolazione del patrimonio. Profili di competitività del sistema (a cura di M. Bianca e G. Capaldo), Milano 2010, p. 316 ss.; Lenzi, voce Atto di destinazione, cit., p. 57. SAGGI 541 mente, con sacrificio degli interessi creditori) abbia rilevanza costituzionale (40). A noi sembra che — al di là della parte di vero che ci possa essere in ciascuna di queste posizioni — un rilievo critico che a tutte può essere mosso risiede nel fatto che queste opinioni sono comunque accomunate dall’idea (non condivisibile) che il « contraltare » dell’interesse che sta a base del vincolo di destinazione sia costituito (esclusivamente) dalla tutela degli interessi del ceto creditorio (41). Se, invece, è vero quanto abbiamo cercato di evidenziare nelle pagine precedenti — e cioè che la destinazione ad uno scopo si traduce, in primo luogo, in una conformazione del diritto di proprietà che limita le possibilità di godimento e di disposizione che altrimenti sarebbero inerenti al diritto medesimo — deve dirsi piuttosto che l’interesse che può fungere da « limite » degli atti di destinazione va ricercato, anzitutto, sul terreno della disciplina dei beni e della loro circolazione nel mercato (42). Ora, in questa disciplina, la possibilità di apporre limitazioni al diritto di proprietà (ossia alle facoltà di godimento e di disposizione del proprietario) — al di là dei limiti che sono imposti dalla coesistenza tra diritti dominicali appartenenti a diversi soggetti — è, in base all’art. 42 Cost., legata all’esigen( 40 ) Cfr., nella logica di un « bilanciamento » tra l’interesse perseguito attraverso il vincolo di destinazione e gli interessi dei creditori, Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in Trusts, 2007, p. 169 ss. Il riferimento alla rilevanza « costituzionale » dell’interesse tutelato ex art. 2645 ter è frequente: agli autori già citati nella penultima nota, adde — ad es. — Maggiolo, Il tipo della fondazione non riconosciuta nell’atto di destinazione ex art. 2645 ter c.c., in R. not., 2007, p. 1153 ss. ( 41 ) Esplicito nel senso che il giudizio di meritevolezza di cui all’art. 2645 ter va condotto con riguardo all’effetto di separazione che consegue alla trascrizione dell’atto di destinazione, Di Raimo, Considerazioni sull’art. 2645 ter c.c.: destinazione di patrimoni e categorie dell’iniziativa privata, in Rass. d. civ., 2007, p. 983. ( 42 ) Del resto può darsi che la capienza del patrimonio del « conferente » sia tale da non lasciar presagire (ragionevolmente) alcun problema di eventuale compromissione degli interessi dei suoi creditori (attuali e futuri). Forse che questo escluderebbe la necessità di effettuare un controllo di meritevolezza circa l’imposizione sul bene di un « vincolo di destinazione »? Riteniamo di no, e pensiamo che questa risposta sia la migliore riprova del fatto che è (quanto meno) riduttivo concentrare l’attenzione esclusivamente sul profilo del « pregiudizio » che l’atto di destinazione può apportare alle ragioni dei creditori, pregiudizio ad evitare il quale — oltre tutto — sono già previsti altri tipi di rimedi, e segnatamente quello dell’azione revocatoria (v. anche retro). Né si dica che l’azione revocatoria tutela adeguatamente i creditori anteriori all’atto di destinazione, ma non altrettanto quelli « successivi », che sarebbero costretti — per poter utilizzare questo strumento di tutela — a fornire la difficile prova della « dolosa preordinazione ». In realtà, la migliore tutela di questi ultimi creditori sta nella attenta valutazione delle condizioni del patrimonio del debitore al momento in cui sorge il loro credito, a conferma del fatto che il problema posto dagli « atti di destinazione » ex art. 2645 ter non è solo (o tanto) un problema di tutela del credito, quanto un problema di tutela della proprietà (recte: della salvaguardia delle prerogative che ineriscono al diritto dominicale, e che ne definiscono anche la collocazione nel sistema di creazione e di circolazione della ricchezza). 542 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 za di garantire la funzione sociale della proprietà, formula sintetica attraverso la quale si intende evocare la possibilità che la regolamentazione legislativa (43) di alcune categorie di beni si atteggi in maniera tale da consentire — in forme variamente individuabili — la realizzazione (attraverso i beni in questione) di interessi ulteriori rispetto all’interesse del titolare del diritto (interessi, in senso lato, di carattere « sociale », in quanto riferibili a gruppi o categorie di soggetti, portatori di bisogni meritevoli di tutela). Non c’è dubbio che interventi del legislatore sulla proprietà privata in vista della realizzazione della funzione sociale possono legittimamente limitare l’interesse allo sfruttamento economico e alla circolazione dei beni (con conseguenze suscettibili di riverberarsi anche sugli interessi dei creditori del titolare del diritto di proprietà, ma che sono — nella loro essenza — soprattutto limitazioni delle regole di mercato con le quali si coordina la disciplina ordinaria della proprietà) (44). Orbene, l’introduzione dell’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter ha l’effetto — a nostro avviso — di consentire oggi che una « funzionalizzazione » della proprietà privata (e, quindi, una sua più o meno ampia sottrazione al mercato — nel senso appena sopra chiarito) si possa verificare (con riferimento necessariamente — questa volta — a beni determinati, e non a categorie generali di beni) anche in virtù e come conseguenza di scelte (non del legislatore, ma) dell’autonomia privata, a condizione che — appunto — ricorrano interessi (« meritevoli di tutela ») tali da poter giustificare un simile esito (che non si esaurisce solamente — si ripete — nella « segregazione » del bene, ossia nella sottrazione di esso all’azione esecutiva dei creditori, ma che importa conseguenze più ampie, che riguardano il sistema generale della produzione e della circolazione della ricchezza). ( 43 ) Qui c’è veramente una riserva di legge nel senso proprio del termine, ossia una riserva di legge posta da una disposizione costituzionale. Non diremmo però che l’art. 2645 ter — col consentire (secondo l’interpretazione qui accolta) all’autonomia privata di conformare il diritto di proprietà (con effetto erga omnes) — violi la suddetta « riserva ». È infatti pur sempre il legislatore che — attraverso la disposizione in esame (e, in particolare, attraverso il requisito della « meritevolezza » degli interessi perseguiti) — ha dettato le condizioni essenziali di tale conformazione, sia nel senso di individuarne la possibile « causa » (l’atto di destinazione), sia nel senso di definirne le conseguenze (l’effetto « destinatorio » e quello « segregativo »), nonché — per finire — le modalità attuative (la « trascrizione » dell’atto di destinazione, in maniera da rendere evidente ai terzi l’esistenza del vincolo relativo a quel bene). ( 44 ) E così, ad es., le limitazioni (sia sul terreno della facoltà di godimento — con vincoli, di vario genere, aventi l’obiettivo di « conservare » il bene, impedendone modificazioni ed alterazioni —, sia su quello della facoltà di disposizione) che vengano apposte alla proprietà privata di beni di interesse storico, artistico, archeologico, ecc.; le limitazioni di vario genere che in passato (e in parte ancora oggi) sono state poste al diritto di proprietà di immobili urbani, a tutela degli interessi dei locatari (sia ad uso abitativo che ad uso commerciale); e così via enumerando, sono esempi — tra i tanti che potrebbero farsi — di ipotesi in cui sono emersi interessi che il legislatore ha ritenuto idonei a giustificare una (almeno parziale) sottrazione della proprietà alle (ordinarie) regole di mercato. SAGGI 543 È esatto, dunque, che solo interessi di rango « superiore » (e, tendenzialmente, interessi aventi rilevanza costituzionale (45)) sono idonei a giustificare l’imposizione di « vincoli di destinazione » ex art. 2645 ter, ma ciò non in base all’astratta (e frusta) disputa intorno alla questione se la « meritevolezza di tutela » si possa identificare oppur no con la (mera) « liceità » dell’interesse (46), ma inserendo piuttosto il discorso nel contesto specifico che riguarda il valore « costituzionale » della proprietà (47) e la possibilità (e i limiti) entro cui la conformazione del diritto dominicale venga ad essere determinata dalla considerazione di interessi estranei alla « logica proprietaria » in quanto tale (perché espressivi di valori di « solidarietà sociale » (48), o comunque di valori che trascendono la dimensione meramente « individualistica » ed « egoistica » di un diritto, la cui essenza da sempre è stata identificata proprio nello ius excludendi alios). L’« ordine pubblico » col quale deve confrontarsi la « meritevolezza degli interessi », richiesta perché possa validamente porsi in essere un atto di destinazione ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter c.c., è, dunque, prima di tutto, costituito da quell’insieme di « valori » che sono sottesi al principio del numerus clausus dei diritti reali, quale principio che ingloba in sé (tradizionalmente) — oltre al divieto di creare nuovi diritti reali in re aliena — anche il divieto (fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge) di alterare lo schema del diritto di proprietà, ad es. attraverso la creazione di proprietà « a termine », di proprietà « risolubili », di proprietà « fiduciarie », e così via. È in questo contesto che va inquadrata anche la problematica della ( 45 ) Interessi attinenti — ad es. — alla tutela del patrimonio culturale, paesaggistico, della ricerca scientifica, della salute, e così via enumerando. Tra gli interessi in questione si possono annoverare anche gli interessi di tipo religioso. Un esempio di rilevanza ante litteram di un vincolo di destinazione a tutela di un interesse di culto è offerto dalla disciplina degli edifici (privati) destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, Dispone al riguardo l’art. 831, comma 2o, del codice civile che « Gli edifici destinati all’esercizio pubblico del culto cattolico, anche se appartengono a privati, non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformità delle leggi che li riguardano ». In argomento cfr. A. Bucci, Brevi note sul vincolo della destinazione all’uso degli edifici di culto in Italia, in Caietele Institutului Catolic, VIII (2009, 2), p. 111 ss. ( 46 ) Disputa sulla quale si è concentrata la dottrina (v. riferimenti retro, nelle note 38 e 39). ( 47 ) Non tanto — come si sarà ormai capito — con riferimento alla tutela delle prerogative del proprietario, quanto piuttosto per le implicazioni che sono sottese alla « riserva di legge » di cui all’art. 42, comma 2o, Cost. Riserva che sta ad indicare, con tutta evidenza, che la Costituzione ritiene la disciplina della proprietà un elemento essenziale della più ampia costruzione delle regole del sistema economico, tanto da riservare al legislatore (e non ad altri, foss’anche lo stesso proprietario) il potere di dettare le regole che concernono la conformazione del diritto di proprietà. ( 48 ) Per una elencazione orientativa di interessi che possono considerarsi « meritevoli » alla stregua di questo criterio di solidarietà sociale cfr., ad es., De Donato, Gli interessi riferibili a soggetti socialmente vulnerabili, in Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 254. 544 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 « proprietà destinata » (49) (formula che abbiamo, nel titolo del presente saggio, proposto per designare le ipotesi di apposizione su un bene di un « vincolo di destinazione » ex art. 2645 ter), fattispecie nella quale — ancor più che in quelle or ora richiamate (dove il vincolo si esprime, sovente, solo sul piano obbligatorio, e dunque restando come tale « esterno » rispetto al nucleo dei poteri « proprietari ») — si assiste ad una conformazione del diritto dominicale, suscettibile di alterare profondamente (sia pure con riferimento ad un bene determinato) il contenuto e il significato del diritto di proprietà (sia con riferimento ai poteri di godimento del proprietario, in sé considerati; sia nella sua proiezione di questi poteri nei rapporti con i terzi). Né varrebbe osservare che una lettura che identifichi nel modo sopra visto la « meritevolezza dell’interesse » (collegando tale meritevolezza al concetto di utilità o funzione sociale) rischia di risolversi in una interpretazione « abrogante » (e, comunque, fortemente ridimensionatrice della portata applicativa) dell’art. 2645 ter (50). È vero che l’interpretazione proposta esclude che si possa far ricorso all’istituto di cui all’art. 2645 ter in numerose ipotesi che pur sono state (sovente) considerate suscettibili di rientrare nel campo di applicazione di tale norma (51). Ma ciò corrisponde — se sono vere le considerazioni sopra svolte — a ( 49 ) Altri preferisce parlare di « proprietà nell’interesse altrui » (cfr. Gambaro, Trusts, 2007, p. 169 ss.), o di « proprietà funzionale » (v. Stefini, La destinazione patrimoniale dopo il nuovo art. 2645 ter c.c., in G. it., 2008, p. 1823 ss.; Id., Destinazione patrimoniale ed autonomia negoziale: l’art. 2645 ter c.c.2, Padova 2010, p. 30 ss.). ( 50 ) Cfr. ad es. Muritano, Trusts e atto di destinazione negli accordi fra conviventi more uxorio, in Trusts, 2007, pp. 199 ss., p. 210. ( 51 ) E così, a nostro avviso, lo strumento dell’art. 2645 ter non potrà essere utilizzato — ad es. — per la composizione dei rapporti patrimoniali tra coniugi (o tra genitori e figli) in occasione della crisi familiare (separazione, divorzio), perché in tal caso si tratta di interessi meramente patrimoniali e « privati », che non sono sufficienti a giustificare una sottrazione del bene alle ordinarie regole di mercato (ivi comprese le norme poste a tutela dei creditori). Come pure esso non potrà essere utilizzato per costituire un « fondo patrimoniale » a vantaggio dei componenti di un nucleo familiare « di fatto ». In senso diverso da quanto qui sostenuto, v., ad es.: Trimarchi, Negozio di destinazione nell’ambito familiare e nella famiglia di fatto, in Notariato, 2009, p. 426 ss.; Oberto, Atti di destinazione, cit., p. 393 ss.; Bullo, Separazioni patrimoniali, cit., pp. 66-67 (secondo la quale « uno dei campi nei quali può certo esplicare le proprie potenzialità la destinazione patrimoniale ex art. 2645 ter è certamente la famiglia, intesa in senso ampio, settore in cui le manifestazioni di solidarietà, ancorché rivolte a soggetti determinati, svolgono al contempo una più generale funzione sociale »; affermazione che, però, sembra ritornare all’idea, ormai superata, della famiglia come seminarium rei publicae). All’estensione (qui criticata) dell’ambito di applicazione dell’art. 2645 ter c.c. può forse aver contribuito la considerazione delle motivazioni dichiarate che hanno accompagnato i disegni di legge da cui è scaturita poi la disposizione in esame (si veda, in proposito, Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione, cit., p. 142 ss., dove si parla di « un iter legislativo frettoloso ed approssimativo »), ma è appena il caso di sottolineare che, una volta formulata la legge, è al suo oggettivo significato che l’interprete deve fare riferimento, non ai SAGGI 545 quella che è precisamente la portata della disposizione in esame, senza che si possa accusare l’interpretazione proposta di essere (indebitamente, ossia in contrasto con la lettera e con la ratio della disposizione) « restrittiva » (52). È da condividere, pertanto, l’idea secondo la quale « interessi meritevoli di tutela » ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter possano considerarsi solo interessi « pubblici » (intesa peraltro l’espressione, semplicemente, nel senso che deve trattarsi di interessi diversi dall’interesse « privato » del proprietario (53) che impone il vincolo di destinazione), e di interessi che devono altresì qualificarsi per una impronta di « solidarietà sociale » (54) (ove l’aggettivo intende, questa volta, non tanto sottolineare che non possa trattarsi di interessi riferibili anche ad individui singoli, quanto piuttosto che debba comunque trattarsi di interessi non patrimoniali del soggetto (55) o dei soggetti beneficiari dell’atto di destinazione) (56). « motivi » (più o meno chiaramente delineati ed enunciati) che possano emergere dai lavori preparatori (soprattutto quando questi motivi non risultino univoci). Del resto è proprio al criterio appena enunciato che si è attenuta (correttamente) la dottrina quando (a proposito di un altro profilo, emerso nell’interpretazione dell’art. 2645 ter) ha evidenziato come — al di là delle « intenzioni » sottese ai disegni di legge che hanno portato alla sua introduzione — la disposizione in esame non può assolutamente leggersi come disciplinante una versione « domestica » dell’istituto del trust (v. anche la nota seguente). ( 52 ) Una simile impressione può essere suggerita solo da una « precomprensione » che pretenda di leggere l’atto di destinazione di cui all’art. 2645 ter come una « alternativa » (domestica) al trust. Ma una simile « precomprensione » si rivelerebbe del tutto fuorviante nella interpretazione (ed applicazione) della disposizione in esame. L’atto di destinazione non può svolgere (se non in parte, e con modalità comunque differenti) la funzione del trust, si tratti pure della figura del c.d. « trust autodichiarato », che è quella che maggiormente si avvicina alla fattispecie « tipica » di « atto di destinazione », che sarà di norma un atto che contempla l’imposizione del vincolo di destinazione senza trasferimento della proprietà del bene. E, in ogni caso, la maggiore ampiezza degli obiettivi perseguibili (e degli interessi che possono essere soddisfatti) attraverso un trust (c.d. interno) sconta comunque la necessità di assoggettare la fattispecie ad una normativa straniera (e, comunque, con i limiti di cui agli artt. 15 e 18 della l. 16 ottobre 1989, n. 364, di ratifica ed esecuzione della Convenzione dell’Aja sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento). Sulle differenze tra trust e atto di destinazione ex art. 2645 ter v., per tutti, Zoppini, Destinazione patrimoniale e trust: raffronti e linee per una ricostruzione sistematica, in R. d. priv., 2007, p. 721 ss., e Oberto, Atti di destinazione (art. 2645 ter c.c.) e trust, cit., p. 351. ( 53 ) Con la precisazione che — almeno secondo il nostro avviso (in dissonanza da una pressoché unanime diversa opinione, sul punto, della dottrina) — deve farsi rientrare nella sfera dell’interesse « privato » anche l’ipotesi in cui si intenda perseguire un interesse riferibile ad un membro della « famiglia », salvo che non si tratti di un « soggetto disabile ». ( 54 ) Di « autonomia della solidarietà » parla — con formula suggestiva — P. Spada, Il vincolo di destinazione e la struttura del fatto costitutivo, in Aa.Vv., Atti notarili di destinazione di beni: art. 2645 ter c.c. (Atti del Convegno della Scuola di Notariato della Lombardia, Milano 19 giugno 2006), consultabile sul sito www.scuoladinotariatodellalombardia.org/relazioni/definitive.doc. ( 55 ) È appena il caso di sottolineare che deve distinguersi il carattere « non patrimonia- 546 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Così individuata e ricostruita, la figura di cui all’art. 2645 ter c.c. potrebbe rivelarsi uno strumento prezioso per consentire anche nel nostro ordinamento un’articolazione (« dal basso ») delle forme d’uso dei beni, attraverso meccanismi originali ed innovativi. le » dell’interesse, dalle modalità attraverso le quali l’interesse stesso viene soddisfatto. Queste ultime modalità possono ben consistere in una prestazione « patrimoniale » (come l’erogazione di una rendita, o di fondi destinati al sostegno della ricerca scientifica in determinati settori, ecc.) o comunque valutabile patrimonialmente, purché essa sia diretta a soddisfare un interesse non patrimoniale del beneficiario (ad es.: interesse alla ricerca scientifica, interesse alla salute, interesse all’abitazione, interesse al sostentamento vitale; ecc. ecc.). ( 56 ) L’idea espressa nel testo corrisponde a quella autorevolmente sostenuta da Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., pp. 328, 331. Si veda, anche, in senso sostanzialmente conforme, Cian, Riflessioni, cit., p. 88 (seguito da Ceolin, Destinazione e vincoli di destinazione nel diritto privato, cit., p. 217 ss.), e Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Aa.Vv., Negozi di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 126 (nonché in R. d. soc., 2007, p. 17). Nel senso invece che l’art. 2645 ter « non presuppone ... il perseguimento di interessi pubblici, sociali o superindividuali », richiedendo invece soltanto che l’interesse sia « attuativo di valori fondamentali (salute, famiglia, impresa, lavoro, dignità e personalità umana, risparmio) » senza che peraltro debba trattarsi di « interessi pubblici o socialmente utili », si pronuncia, da ultimo, G. Perlingieri, Il controllo di « meritevolezza », cit., p. 68. A quest’ultima opinione sembra potersi obiettare che — così individuato — l’interesse « meritevole di tutela » ex art. 2645 ter finisce per essere del tutto indeterminato, in tal modo assumendo una estensione eccessiva e ingiustificata. Ancor meno condivisibile ci sembra l’idea che l’atto di destinazione ex art. 2645 ter « possa essere utilizzato anche per il perseguimento di interessi, oltre che individuali, prettamente patrimoniali » e, addirittura, « per finalità lucrativo-speculative » (così, ancora, G.Perlingieri, op. cit., p. 69). È il legislatore che può — per finalità siffatte — introdurre (eccezionalmente) deroghe al principio di universalità della responsabilità patrimoniale (v. ad es. art. 2447 bis c.c., sui c.d. « patrimoni destinati ad uno specifico affare »), ma dubiteremmo che una simile possibilità sia stata accordata in generale all’autonomia privata attraverso lo strumento dell’atto di destinazione previsto dall’art. 2645 ter. Emanuela Navarretta Prof. ord. dell’Università di Pisa PRINCIPIO DI UGUAGLIANZA, PRINCIPIO DI NON DISCRIMINAZIONE E CONTRATTO (*) Sommario: 1. Il principio di uguaglianza e la sua proiezione verticale sul contratto. — 2. Il divieto di discriminazione: dalla ratio degli interventi normativi al dilemma sul contratto individuale. — 3. Principio di non discriminazione, responsabilità precontrattuale e controllo sul contenuto del contratto individuale. — 4. La ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico: la proiezione verticale del principio di uguaglianza formale in concreto e la prospettiva sistematica. — 5. Divieto di discriminazione e proiezione orizzontale del principio di uguaglianza. — 6. Contratto e principio di uguaglianza. 1. — La relazione fra principio di uguaglianza e autonomia privata accompagna la genesi e l’evoluzione dell’istituto del contratto. Il concettualismo pandettistico e le codificazioni ottocentesche, specchio più o meno consapevole (1) del liberismo borghese e del liberalismo economico, avevano plasmato la categoria del contratto sul presupposto dell’astratta uguaglianza formale tra i contraenti (2), premessa di quella giustizia « postulata » (3) dall’accordo, che aveva abbandonato le riflessioni groziane in tema di giustizia contrattuale (4). Solo agli albori del XX sec. illustri sociologi e filosofi iniziano a rilevare che l’accordo è basato su una « parità di fatto che di fatto molto spesso non c’è » (5) (*) Il lavoro riproduce la relazione tenuta al XXII Incontro nazionale del Coordinamento Dottorati di Ricerca in Diritto Privato svoltosi a Trieste il 30 gennaio-1o febbraio 2014 ed è dedicato al Prof. Giovanni Iudica. ( 1 ) Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, Milano 1980, p. 140. ( 2 ) « Libertà di contratto ed eguaglianza formale dei contraenti apparivano [allorché prevalevano le teorie economiche del laisser faire, laissez-passer] i presupposti non solo del conseguimento degli interessi particolari [dei contraenti], ma anche dell’interesse generale della società » così Roppo, Il contratto, Bologna 1977, p. 34. ( 3 ) Il noto aforisma « qui dit contractuel dit juste ». ( 4 ) Grozio, De iure belli ac pacis. Libri tres, Amsterdam 1625, cap. XII, par. XI, p. 159 sensibile alla filosofia aristotelico-tomista, concepiva il contratto come fondato su una necessaria equivalenza sinallagmatica: « In ipso actu principali haec desideratur aequalitas, ne plus exigatur quam par est. [...] Quod enim promittunt aut dant, credendi sunt promittere aut dare tamquam aequale ei quod accepturi sunt, utque ejus aequalitatis ratione debitum ». ( 5 ) Breccia, Che cosa è « giusto » nella prospettiva del diritto privato?, in Interrogativi sul diritto giusto, a cura di Ripepe, Pisa 2001, p. 99. 548 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 e che i contratti, pur « formalmente [...] liberi a tutti, di fatto non sono accessibili a molti » (6). Ma la constatazione resta puramente fattuale e perché il diritto reagisse alla distorsione fra la realtà e il modello, si sarebbe dovuto attendere non già la rinascita di correnti più sensibili al dato reale (7) e tese a riversare sul contratto qualcosa di più di « poche gocce di olio sociale » (8), quanto gli interventi normativi di matrice europea ispirati al pensiero ordoliberista. Il compito è spettato dunque all’Europa guidata da spinte solo apparentemente antitetiche. L’obiettivo del mercato unico e la tutela delle libertà fondamentali postulate dal Trattato hanno al tempo stesso rafforzato l’autonomia contrattuale (9), ma l’hanno anche fortemente condizionata (10), nella consapevolezza dell’illusione della mano invisibile e dell’esigenza di costruire normativamente i presupposti di una reale libera concorrenza. In tale contesto si è venuta a delineare la duplice esigenza della pari opportunità di accesso al mercato e dell’esercizio effettivo del potere di autonomia. Parallelamente, l’obiettivo di rimuovere ogni impedimento al mercato interno e di promuovere le libertà fondamentali ha posto in risalto l’esigenza di avversare ogni trattamento discriminatorio fra contraenti di diverse nazionalità, dando origine ad un processo di progressiva incidenza del principio di non discriminazione sul contratto (11). Tale principio, affrancandosi via via ( 6 ) L’osservazione è sempre di Breccia, Causa, in Il contratto in generale, t. III, a cura di Alpa-Breccia-Liserre, Torino 1999, pp. 190 s. dove ricorda sia il pensiero di Max Weber secondo cui: « i contratti — se formalmente sono liberi a tutti — di fatto sono accessibili soltanto a pochi » sia quello di Jürgen Habermas secondo cui « l’autonomia privata [...] implica un universale diritto d’eguaglianza, ossia un diritto alla parità di trattamento secondo norme che garantiscano un’eguaglianza giuridica sostanziale » [il corsivo è aggiunto]. ( 7 ) Nella fase — tra gli anni ’60 e ’70 — in cui è prevalsa la tendenza, attraverso i principi costituzionali, a funzionalizzare gli istituti del diritto privato non sono mancate le proposte — ma si è trattato solo di costruzioni dottrinarie (fra i vari contributi cfr. Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, Milano 1975, p. 8) — volte ad utilizzare il paradigma dell’utilità sociale, di cui al comma 2o dell’art. 41 C. (norma nella quale si ravvisava il fondamento dell’autonomia contrattuale), quale strumento per affermare « il progresso di tutti in condizioni di eguaglianza » sostanziale (Nuzzo, op. cit., p. 43). L’obiettivo era quello di un controllo sostanziale e non solo formale sulle clausole vessatorie nei contratti unilateralmente predisposti (Nuzzo, op. cit., p. 106 ss.). ( 8 ) Wieacker, Storia del diritto privato moderno, II, cit., p. 412. ( 9 ) Leible, Fundamental Freedoms and European Contract Law, in Constitutional Values and European Contract Law, ed. by Grundmann, Kluwer, The Nederland 2008, p. 65 ss. ( 10 ) Wagner, Zwingendes Vertragsrecht, in Die Revision des Verbraucher-Acquis, Eidenmüller et al. (a cura di), Tübingen 2011, p. 3 parla addirittura di una « pietrificazione » dell’autonomia privata. cfr. sul punto Patti, Autonomia contrattuale e diritto privato europeo, in Ragionevolezza e clausole generali, Milano 2013, p. 105. ( 11 ) La sussistenza o meno di una discriminazione nella disciplina dei contratti transfrontalieri rispetto a quelli nazionali è il più frequente parametro attraverso il quale si valuta il contrasto di una legge o di un contratto con le libertà fondamentali. V. i seguenti casi SAGGI 549 dalla genesi mercantilistica, e venendosi a colorare di una valenza più propriamente assiologica, è divenuto quasi il paradigma dei nuovi obiettivi costituzionali dell’Europa (12) che, dopo aver accolto al suo interno le tradizioni costituzionali comuni, è divenuta essa stessa fautrice del personalismo, con una specifica vocazione a governare una società sempre più complessa, multietnica e multiculturale. In sostanza, per un verso, le nuovi visioni economiche e l’obiettivo del mercato concorrenziale hanno determinato una sorta di funzionalizzazione dell’autonomia contrattuale (13) che ha subìto a tal fine limitazioni e controlli. Per un altro verso, l’affermarsi del personalismo quale ulteriore sostrato costitutivo dell’Unione europea ha assecondato la riscoperta dell’attitudine del contratto a promuovere anche valori della persona (14) e del diritto civile a combattere fenomeni di razzismo e di discriminazione (15). Con l’impatto dei suddetti avvenimenti, l’asse di riferimento del contratto ha cominciato a virare dall’uguaglianza puramente formale tra i contraenti all’uguaglianza anche sostanziale, aprendo l’ampio e complesso capitolo dei contratti asimmetrici e del controllo sulla giustizia contrattuale. Indici normativi di tale orientamento sono tutte le disposizioni che colpiscono gli accordi iniqui: dalla disciplina sulle clausole vessatorie nei contratti dei consumatodella Corte di Giustizia: Société Générale Alsacienne c. Koestler, causa 15/78 del 24 ottobre 1978; Alsthom Atlantique SA e/ Compagnie de Construction Mécanique Sulzer SA e a., causa C-339/89 del 24 gennaio 1991; Angonese c. Cassa di Risparmio di Bolzano, causa C 281/98 del 6 giugno 2000. ( 12 ) L’apice di tale processo è segnato dal Trattato di Lisbona e dall’inserimento nel medesimo della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nonché dalla prevista adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. ( 13 ) Parla di « definizione “funzionale” dell’autonomia contrattuale » Zoppini, Autonomia contrattuale, regolazione del mercato, diritto della concorrenza, in Contratto e antitrust, Roma-Bari 2008, p. 16. ( 14 ) Cfr. Colombi Ciacchi, The Constitutionalization of European Contract Law: Judicial Convergence and Social Justice, in Eur. Review of Contract Law, 2006, p. 167 ss.; Ead., Party Autonomy as a Fundamental Right in the European Union, in Eur. Review of Contract Law, 2006, p. 303 ss.; Cherednychenko, The Constitutionalitation of Contract Law: Something New under the Sun?, in Electronic Journal of Comparative Law, 2004, p. 1 ss.; Grundmann, Constitutional Values and European Contract Law: An Overview, in Constitutional Values and European Contract Law, cit., p. 3 ss.; Kosta, Internal Market Legislation and the Private Law of the Member States — The Impact of Fundamental Rights, in ERCL, 2010, p. 409 ss.; Mak, The Constitutional Momentum of European Contract Law. On the Interpretation of the DCFR in the Light of Fundamental Rights, in European Review of Private Law, 2009, p. 513 ss.; Ead., Fundamental Rights in European Contract Law, Kluwer, The Nederlands 2008. ( 15 ) Cfr. Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile, in Principio di uguaglianza e divieto di compiere atti discriminatori, a cura di Morozzo della Rocca, Napoli 2002, p. 23. In generale, cfr. Schulze (a cura di), Non-Discrimination in European Private Law, Tubinga 2011, passim. 550 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 ri (16), alla normativa sull’abuso di dipendenza economica (17), dalla disposizione sui ritardi di pagamento (18), alla normativa sulla cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari (19), sino all’abuso di posizione dominante (20), che consista in un abuso di sfruttamento, e all’ipotesi dei contratti a valle (21). Né manca un’attenzione privilegiata anche al tema delle c.d. asimmetrie microeconomiche (22) sotto l’influenza dapprima di fonti fatto o fonti extra-ordinem e poi con la loro attrazione nel circuito della disciplina dell’Unione, in virtù del progetto di CFR, poi confluito nel DCFR e, da ultimo, nella Proposta di CESL. Al contempo, l’asse del contratto ha iniziato lievemente ad inclinarsi dall’uguaglianza formale in astratto all’uguaglianza formale in concreto. Tale deve ritenersi il senso sotteso ai divieti di contemplare clausole discriminatorie che creino uno svantaggio per la concorrenza, previsti nell’ambito dell’abuso di dipendenza economica (23); dell’abuso di posizione dominante (24) e della cessione di prodotti agricoli e agroalimentari (25). ( 16 ) Artt. 33 ss. del codice del consumo. ( 17 ) Art. 3, comma 2o, della l. 18 giugno 1998, n. 192 che così recita: « L’abuso può anche consistere nel rifiuto di vendere o nel rifiuto di comprare, nella imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie, nella interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto ». [Il corsivo è aggiunto]. ( 18 ) Art. 7 del d.l. 9 ottobre 2002, n. 231, come modificato dal d.l. 9 novembre 2012, n. 192, secondo cui « 1. L’accordo sulla data del pagamento, o sulle conseguenze del ritardato pagamento, è nullo se, avuto riguardo alla corretta prassi commerciale, alla natura della merce o dei servizi oggetto del contratto, alla condizione dei contraenti ed ai rapporti commerciali tra i medesimi, nonché ad ogni altra circostanza, risulti gravemente iniquo in danno del creditore ». ( 19 ) Art. 62, comma 2o, lett. a), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con la l. 24 marzo 2012, n. 27, come modificato dall’art. 36 bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la l. 17 dicembre 2012, n. 221. ( 20 ) Art. 102, comma 2o, lett. a) e d), del TFUE, in base al quale: « Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: a) nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transazione non eque; [...] d) nel subordinare la conclusione di contratti all’accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari, che, per loro natura o secondo gli usi commerciali, non abbiano alcun nesso con l’oggetto dei contratti stessi ». [Il corsivo è aggiunto]. Del medesimo tenore è l’art. 3 della l. 10 ottobre 1990, n. 287. ( 21 ) Ipotizza un’applicazione ai contratti a valle della disciplina sui contratti asimmetrici e, specificamente, di quella sull’abuso di dipendenza economica, Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, II, in Danno e resp., 2005, p. 251. Sul punto ci sia consentito rinviare a Navarretta, Abuso del diritto e contratti asimmetrici, in Annuario del contratto, 2011, Torino 2012, p. 87. ( 22 ) Si veda nel DCFR la disciplina degli artt. II.-7:101, II.-7:207 e IVH.-2:104 in materia di unfair exploitation e nella Proposta di CESL l’art. 51 dell’Annex I. ( 23 ) V. supra nt. 16. ( 24 ) L’art. 102, comma 2o, lett. c), del TFUE così recita: « Tali pratiche abusive possono consistere in particolare: c) nell’applicare nei rapporti commerciali con gli altri con- SAGGI 551 E tale è altresì — come si dirà — il senso sotteso al divieto di discriminazioni per ragioni legate a profili personali del contraente: la razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni o le pratiche religiose (art. 43, comma 2o, d. legisl. 25 luglio 1998, n. 286); la razza o l’origine razziale (direttiva 2000/43/CE, attuata con il d. legisl. 9 luglio 2003, n. 215); il sesso (direttiva 2000/113/CE, attuata con il d. legisl. 6 novembre 2007, n. 196); la disabilità (l. 1o marzo 2006, n. 67); la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale (proposta di direttiva 2 luglio 2008 COM (2008) 426). Dinanzi ad una tale evoluzione l’interprete non può più limitarsi a giustificare le limitazioni all’autonomia privata, sul presupposto dell’eccezionalità delle previsioni che derogano al modello tradizionale (26). Al contrario, la tendenza della nuova disciplina a plasmare un nuovo modello e, al contempo, il suo attuarsi attraverso interventi di tipo settoriale impongono all’interprete un compito decisamente più arduo: portare a sistema le disposizioni normative, senza l’illusione di un sistema monolitico (27) e senza addivenire alla distruzione del contratto. È evidente, infatti, che se le diseguaglianze vanno combattute, è anche vero che, infranto il velo dell’uguaglianza formale, sono tali e tante le possibili diversità reali che, ad assecondarle tutte, si rischia di rimettere costantemente in discussione la vincolatività dell’accordo. Analogamente, se l’obiettivo della parità in concreto nell’accesso al contratto deve indurre ad un sindacato sulla scelta negoziale, un controllo troppo dilagante e pervasivo potrebbe minacciare la stessa autonomia che è a fondamento del contratto. 2. — Delle aree che risentono della tensione verso l’uguaglianza sostanziale o verso l’uguaglianza formale in concreto, nella loro proiezione verticale sul contratto, la più difficile da ricondurre a sistema è quella relativa al divieto di discriminazioni per ragioni legate alle qualità del contraente, in quanto immette nel circuito dell’esercizio dell’autonomia un valore fondante del sistema: la dignità umana (28). traenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza » [il corsivo è aggiunto]. Identico alla norma del trattato è il testo della l. 287/1990 dell’art. 3 lett. c) della l. 10 ottobre 1990, n. 287. ( 25 ) L’art. 62, comma 2o, lett. b), del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con la l. 24 marzo 2012, n. 27, come modificato dall’art. 36 bis del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con la l. 17 dicembre 2012, n. 221 stabilisce che: « Nelle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1o, è vietato: [...] b) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti » [il corsivo è aggiunto]. ( 26 ) « I limiti all’autonomia privata non costituiscono [più] norme eccezionali », scrive Sacco, Il contratto, t. II, a cura di Sacco-De Nova, in Tratt. Sacco, 3a ed., Torino 2004, p. 309. ( 27 ) Parla di « una pluralità di modelli, o meglio, di punti di riferimento » P. Barcellona, voce Libertà contrattuale, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974, p. 493. ( 28 ) È concordemente riconosciuto che il divieto di discriminazione per ragioni che at- 552 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Il coinvolgimento di un valore di tale rango ha reso imprescindibile una riflessione in chiave sistematica sulla ratio sottesa ai divieti di discriminazione. I dati normativi e le stesse fonti extra ordinem riferiscono infatti i divieti talora — come nella direttiva 2004/113/CE e nella relativa normativa di attuazione nonché nei Principi Acquis (29) e nel Draft Common Frame of Reference (30) — alla mera offerta al pubblico, talora — come nell’art. 3 della Proposta di direttiva 2 luglio 2008 COM (2008) 426 — a coloro che si rivolgono al pubblico nell’esercizio di un’« attività commerciale o professionale », talora, infine, — come nella direttiva 2000/43 e nella relativa normativa di attuazione — alla generica offerta di beni e servizi. Occorre, dunque, sciogliere le perplessità sollevate dal diverso tenore dei testi normativi, specie quelli che tacciono in merito al presupposto dell’offerta al pubblico — anche se dai più il silenzio è ascritto ad un mero errore nella traduzione (31) (32) —, e misurare in generale le potenzialità espansive di un principio intriso di una forte valenza assiologica. Orbene, se nelle differenti ricostruzioni dottrinarie comune è il riferimento alla dignità umana, il cui rango e valore apparentemente non giustificherebbero una limitazione del divieto alla sola offerta al pubblico (33), tre sono tengono alla persona del contraente si colleghi al valore della dignità. Cfr. fra gli altri C.M. Bianca, Il problema dei limiti all’autonomia contrattuale in ragione del principio di non discriminazione, in Discriminazione razziale e autonomia privata. Atti del Convegno di Napoli del 22 marzo 2006, Roma 2006, p. 64 ss.; Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, in R. crit. d. priv., 2009, p. 228 ss.; Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, Milano 2007, p. 44 s.; Marella, Il fondamento sociale della dignità umana. Un modello costituzionale per il diritto europeo dei contratti, in R. crit. d. priv., 2007, p. 87 ss.; Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile, in Principio di uguaglianza e divieto di compiere atti discriminatori, a cura di Morozzo della Rocca, Napoli 2002, p. 38; Strazzari, Discriminazione razziale e diritto. Un’indagine comparata per un modello « europeo » dell’antidiscriminazione, Padova 2008, p. 258 ss. ( 29 ) Maffeis, Il divieto di discriminazione, in I « principi » del diritto comunitario dei contratti. Acquis communautaire e diritto privato europeo, a cura di De Cristofaro, Torino 2009, p. 265 ss. ( 30 ) Tommasi, La non discriminazione nel « Draft Common Frame of Reference », in R. crit. d. priv., 2011, p. 119 ss. Il DCFR dedica al divieto di discriminazione il capitolo II, del II libro artt. 2:101-2:105. In particolare, l’art. II.-2:101 recita: « A person has a right not to be discriminated against on the grounds of sex or ethnic or racial origin in relation to a contract or other juridical act the object of which is to provide access to, or supply, goods, other assets or services which are available to the public ». ( 31 ) Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., p. 409, nt. 33, ripreso da Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 213. ( 32 ) Contraria ad una lettura restrittiva della direttiva, motivata con l’errore di tradizione, B. Checchini, Divieto di discriminazione e libertà negoziale, in Diritto civile e principi costituzionali, a cura di Salvi, Torino 2012, p. 264 s. ( 33 ) Ma così non è, come diremo in seguito, poiché la tutela della dignità non può spingersi sino ad annientare la libertà contrattuale. In senso contrario, cfr. B. Checchini, op. cit., p. 268 secondo cui: « se [...] è in gioco la lesione della dignità della persona [...], non v’è ragione per cui tali divieti di discriminazione non possano applicarsi anche ai rapporti SAGGI 553 state le principali rationes ravvisate a fondamento della restrizione del divieto proprio al campo della negoziazione pubblica. La prima, accogliendo quale presupposto del ragionamento la normale insindacabilità delle scelte contrattuali, sostiene che il riferimento all’offerta al pubblico è dovuto all’esigenza di evitare che sia sfruttata la latitudine del mercato dal contraente che si avvale della sollecitazione al pubblico, se quel medesimo soggetto frappone al mercato ostacoli contrastanti con i valori dell’ordinamento (34). Questa prima tesi, per un verso, presuppone la dimostrazione del postulato di base — la normale insindacabilità delle scelte contrattuali — e, per un altro verso, deve evitare la facile obiezione che solo l’accesso al mercato valorizzi un aspetto primario della persona, quale la dignità (35). La seconda giustificazione del limite tracciato dall’offerta al pubblico è che in tal caso l’offesa alla dignità sarebbe esplicitata e non relegata in una sfera protetta dalla privacy: « la privacy [cessa di] costituire un ambito protetto [...] quando l’autore della scelta discriminatoria decida lui stesso di farne partecipi altri, rinunciando alla propria sfera di riservatezza » (36). Per converso, nella negoziazione individuale riemergerebbe il rilievo della privacy e la sua capacità di prevalere, nel bilanciamento di interessi, nei confronti della dignità. Questa seconda motivazione, non estranea al dibattito europeo (37), deve però giustificare come mai il divieto di discriminazione sia stato esteso — in dottrina (38) e dalla stessa giurisprudenza, a partire dal noto caso contrattuali c.d. individualizzati ». Propone l’applicazione del divieto di discriminazione al di fuori dell’offerta al pubblico anche Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, Napoli 2013, p. 201. ( 34 ) Questa tesi serpeggia nel pensiero di Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., p. 42 s. là dove scrive che: « il diritto contrattuale antidiscriminatorio [...] si ispira alla equal opportunity secondo il modello importato dagli Stati Uniti d’America [...] volto a garantire la massima efficienza del sistema degli scambi costitutivo del mercato » e proprio sul punto viene criticato da Gentili, v. nota seguente. Va peraltro sottolineato come l’Autore immediatamente dopo rimarchi che l’obiettivo del divieto è la pari dignità [Id., op. cit., pp. 44-45] e l’esigenza di coinvolgere i privati nel « realizzare una misura di tutela di diritti fondamentali ». Ma il riferimento alla sola dignità non basta, per l’appunto, a giustificare l’operare del divieto nella sola offerta al pubblico, il che — nella visione dell’Autore — è un postulato di base [p. 215], utilizzato anche per giustificare l’attenuazione dell’attrito fra il divieto e la libertà contrattuale [p. 53 ss.]. ( 35 ) L’obiezione è chiaramente esplicitata da Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 225 dove osserva che « una tesi che riduce una grave umiliazione della dignità della persona ad essere proibita perché non giova al mercato, suscita qualcosa di più di una perplessità ». ( 36 ) Morozzo della Rocca, Gli atti discriminatori e lo straniero nel diritto civile, cit., p. 43. ( 37 ) Cfr. Pinto Oliviera & Mac Crorie, Anti-discrimination Rules in European Contract Law, in Constitutional Values and European Contract Law, a cura di Grundmann, Wolters Kluwer, The Netherland 2008, p. 115 ss. che distinguono tra « public and private spheres of the individual ». ( 38 ) Sacco, Il contratto, t. II, cit., p. 307 s. 554 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 milanese del 2000 (39) — anche all’offerta al pubblico che consti di un mero invito a proporre seguito da un rifiuto discriminatorio, ipotesi nella quale la ragione discriminatoria non è esposta al pubblico e non è esibita più di quanto non lo possa essere in una negoziazione individuale che espliciti la discriminazione. Infine, la terza motivazione a sostegno di un sindacato sulla scelta contrattuale discriminatoria limitato all’offerta al pubblico adduce l’esigenza che ricorrano i presupposti logici per una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza. Mentre, infatti, nell’offerta al pubblico può attuarsi quel giudizio comparativo che è sotteso al concetto di disparità di trattamento (40) e che consente — come è stato magistralmente spiegato (41) — una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza, viceversa, nella contrattazione individuale simile comparazione non è possibile o comunque non è giustificata. « Un caso per definizione singolo [...] non è il luogo di regole generali » (42). In altri termini, non si può porre a confronto una legge individuale con un’altra legge individuale, quando fra di esse non sussiste alcun collegamento se non sul piano dei motivi, o meglio, del confronto tra i motivi sottesi alle due negoziazioni: un piano che la legge non va ad indagare neppure nell’ipotesi dell’illiceità, se questa non ricade sul contenuto o sugli elementi essenziali del contratto. Questa terza argomentazione deve, però, a sua volta, confrontarsi con il caso in cui in una negoziazione individuale la parte esplicitamente rifiuti la contrattazione dichiarando la ragione discriminatoria e in tal modo svelando la comparazione virtuale (43) fra il trattamento riservato al contraente discriminato e quello che sarebbe stato riservato a terzi o alla stessa controparte, se questa non avesse avuto la particolare connotazione personale che suscita la discriminazione. Rispetto a tale caso non resta allora che interrogarsi sulla ragionevolezza di una eventuale distinzione tra discriminazione dichiarata, in cui si espliciti la comparazione virtuale, e discriminazione sussistente, ma taciuta. Orbene, al di là dell’ovvia incidenza che la dichiarazione può avere sul piano probatorio — incidenza che però non ha un valore assoluto — una diversità di trattamento fra la discriminazione dichiarata, considerata per ipote( 39 ) Trib. Milano 30 marzo 2000, in F. it., 2000, I, c. 2040 ss. ( 40 ) Questa motivazione si deve a Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 221. ( 41 ) P. Rescigno, Il principio di uguaglianza nel diritto privato, in Persona e comunità. Saggi di diritto privato, Bologna 1966, p. 346 ss. In termini analoghi cfr. Carusi, Principio di uguaglianza, immunità e privilegio: il punto di vista del privatista, in Studi in onore di Pietro Rescigno, Milano 1988, p. 227 ss. ( 42 ) Gentili, op. cit., p. 223. ( 43 ) Gentili, op. cit., p. 222 non si sottrae all’ipotesi della comparazione virtuale, ma la ritiene impossibile, un’impossibilità che tuttavia non sembra sussistere a fronte di una dichiarazione esplicita. SAGGI 555 si fonte di responsabilità, e quella taciuta, considerata sempre per ipotesi esente dalla stessa, implicherebbe, sul terreno sostanziale, non soltanto una soluzione ipocrita (44), ma soprattutto una soluzione irragionevole, poiché a parità di condizioni pregiudicherebbe chi negozia con trasparenza rispetto a chi si avvale del silenzio. Ma allora delle due l’una. O diciamo che, fintantoché il silenzio sulla scelta contrattuale è legittimo, allora anche la dichiarazione di scelta, compresa quella discriminatoria, deve ritenersi irrilevante, quanto meno rispetto all’esercizio dell’autonomia contrattuale; o diciamo che la scelta discriminatoria dichiarata va sindacata, ma allora, posto che anche il silenzio potrebbe celarla, andrebbe costantemente imposta una motivazione del rifiuto. In altri termini, ad evitare che il silenzio nasconda la discriminazione si dovrebbe richiedere di motivare sempre e ab initio le proprie scelte contrattuali. Sennonché quest’ultima ipotesi, cioè un vincolo di originaria e generalizzata motivazione della scelta che guida l’interesse individuale, significa convertire la libertà contrattuale in esercizio di un’attività costantemente soggetta ad un sindacato di discrezionalità, il che equivale non ad una pura limitazione, ma ad una radicale alterazione concettuale dell’autonomia, ossia ad una sua negazione (45). Simile conclusione è inaccettabile se si condivide la tesi che l’autonomia contrattuale abbia un fondamento costituzionale (46), il che vale sia che tale fondamento venga ravvisato nel diritto all’autodeterminazione e nel libero svolgimento della personalità (47), ex art. 2 C., sia che venga identificato — come pare più consono — nell’iniziativa economica privata (48). E, infatti, ( 44 ) Lo stesso Morozzo della Rocca, op. cit., p. 44, riconosce che sia ipocrita differenziare la discriminazione dichiarata da quella taciuta, anche se reputa tale ipocrisia tollerabile in termini di bilanciamento di interessi. ( 45 ) È l’esito a cui conducono sia la tesi di B. Checchini, op. cit., p. 268 sia l’impostazione accolta da Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, Napoli 2013, p. 235, che parla di mera limitazione Id., op. cit., p. 195, quando in effetti si determina invece una sostanziale negazione. ( 46 ) V. infra nt. 47. Ritiene invece auspicabile la presenza di una regola costituzionale « di garanzia dell’autonomia privata » Castronovo, Autonomia privata e Costituzione europea, in Contratto e Costituzione in Europa, a cura di Vettori, Padova 2005, p. 48 s., mentre a favore di una rilevanza costituzionale solo indiretta dell’autonomia contrattuale cfr. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, p. 1 ss. ( 47 ) È la tesi prevalente in Germania e in Portogallo. Cfr. Flume, Allgemeiner Teil del Bürgerlichen Rechts. Das Rechtsgeschäft, Berlin 1992, p. 17 ss. e Pinto Oliveira and MacCrorie, Anti-discrimination Rules in European Contract Law, in Constitutional Values and European Contract Law, cit., p. 113. Sul punto in senso critico rispetto all’orientamento tedesco, cfr. Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, cit., p. 139 ss. ( 48 ) Individuano nell’art. 41 C. la fonte di riconoscimento diretto dell’autonomia contrattuale G. Benedetti, Negozio giuridico e iniziativa economica privata, in Il diritto comu- 556 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 tanto il diritto inviolabile, in sede di bilanciamento, quanto il diritto protetto dalla garanzia di istituto, in sede di limitazione, non possono essere puramente negati né da una legge né da un’interpretazione della legge. La conseguenza, a questo punto, è che, non potendosi imporre un obbligo generalizzato di motivazione sulle scelte contrattuali, l’eventuale dichiarazione, benché discriminatoria, non è sindacabile rispetto all’esercizio dell’autonomia contrattuale, fintantoché è considerato legittimo il silenzio. Ovviamente, altro problema è se la dichiarazione discriminatoria possa rilevare come manifestazione del pensiero offensiva della dignità della persona, con le relative conseguenze sul piano risarcitorio. In altri termini, non si può generalizzare in nome della dignità umana un costante sindacato sulle scelte contrattuali, comprese quelle individuali, poiché l’obiettivo di tutelare tale valore non può spingersi sino al punto di accedere ad una interpretazione sostanzialmente abrogante della libertà contrattuale. 3. — Il ragionamento che induce ad escludere la possibilità di generalizzare un sindacato sulle scelte individuali sottese al contratto non equivale a negare che vi possano essere contesti e motivazioni che, viceversa, giustificano un vaglio sull’esercizio dell’autonomia né che tali ambiti debbano connotarsi in termini di stretta eccezionalità. Prima ancora di tornare a riflettere sulle previsioni dettate in materia di offerta al pubblico, occorre rilevare come una ragione generale che induce l’ordinamento a sottoporre l’autonomia contrattuale ad un controllo tale da colorare il relativo esercizio in termini discrezionali è la circostanza che una parte abbia, nelle relazioni precontrattuali, ingenerato nell’altra un affidamento. Detta circostanza rafforza la relazionalità fra le due parti assoggettando l’esercizio della libertà a quel sindacato di correttezza, che certo non può reputarsi impermeabile al principio della dignità. Né vale obiettare che il rifiuto discriminatorio nulla aggiunga al rifiuto ingiustificato tout court, poiché, mentre questo è sufficiente a far sorgere una responsabilità precontrattuale ma limitata al risarcimento del danno patrimoniale, viceversa, il rifiuto o, più in generale, la condotta precontrattuale discriminatoria legittimano anche la pretesa del risarcimento del danno non patrimoniale. E neppure deve paventarsi il rischio che attraverso la responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido ma sconveniente si ne dei contratti e degli atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, Napoli 1997, p. 97 s.; Id., Appunti e osservazioni sul seminario, in Persona e mercato, Milano 1996, p. 139; Mazzamuto, Note minime in tema di autonomia privata alla luce della Costituzione Europea, in Europ. d. priv., 2005, p. 54 e in Contratto e Costituzione in Europa, cit., p. 96; Nuzzo, Utilità sociale e autonomia privata, cit., p. 31 ss.; C. Scognamiglio, Principi generali, clausole generali e nuove tecniche di controllo dell’autonomia privata, in Annuario del contratto, 2010, diretto da D’Angelo e Roppo, Torino 2011, p. 27. Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in questa Rivista, 2012, p. 666 ss. SAGGI 557 possa costantemente pretendere un sindacato sulle scelte contrattuali, poiché ab imis è doveroso escludere una generalizzazione tout court di tale fattispecie. La responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido, ma sconveniente (49), prima ancora di produrre ricadute sulla disciplina del contratto discriminatorio, condurrebbe, infatti, all’inaccettabile esito di abrogare di fatto la disciplina sui vizi del consenso, là dove qualunque vizio incompleto — finanche un banale errore sui motivi — consentirebbe con la prova della scorrettezza di ottenere, tramite il risarcimento del danno, una sorta di correzione del contratto, che è più di quanto conceda il rimedio dell’annullamento. Se poi dalla responsabilità precontrattuale si procede verso il contratto, oggetto di sindacato alla luce dei valori costituzionali, e, dunque, del principio di non discriminazione e del valore della dignità, non è più in sé la scelta contrattuale, ma quella porzione di scelta che le parti vogliono che divenga « legge privata » e che, pertanto, non può in alcun modo porsi in contrasto con i principi dell’ordinamento. Questa progressione dalla scelta in sé alla porzione di scelta che chiede di divenire « legge individuale » spiega la discontinuità — autorevolmente difesa (50) e altrettanto autorevolmente criticata in dottrina (51) — fra limiti attinenti alle scelte sottese all’autonomia privata e limiti attinenti alla struttura e al contenuto del contratto: una discontinuità che è logica e non assiologica. Da questa premessa discende un imprescindibile e costante vaglio sul contenuto del contratto anche individuale alla luce del principio di non discriminazione. Si pensi al caso in cui il contratto contenga una condizione discriminatoria, ad esempio che il conduttore non professi una particolare religione o che il convivente del conduttore non sia dello stesso sesso. Tale clausola certamente deve reputarsi nulla: una nullità che colpisce il contratto sia che l’altra ( 49 ) Il tema — com’è noto — ha animato il dibattito della dottrina specie dopo le pronunce: Cass. 29 settembre 2005, n. 19024, in F. it., 2006, c. 1105 ss., con nota di Scoditti; Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, nn. 26724 e 26725, in Danno e resp., 2008, p. 525 ss., con note di Roppo e di Bonaccorsi; nonché Cass. 8 ottobre 2008 n. 24795, in F. it., 2009, I, c. 440 ss., con nota di Scoditti. Contrario, in particolare, alla generalizzazione della responsabilità precontrattuale da conclusione del contratto valido, ma sconveniente D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Tratt. Roppo, V, Rimedi, Milano 2006, p. 1132 ss. ( 50 ) Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, 1969, p. 18 ss. ( 51 ) P. Barcellona, voce Libertà contrattuale, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974, p. 491, secondo cui « la distinzione fra limiti attinenti al potere privato di autodeterminazione e limiti attinenti alla struttura del contratto lascia alquanto perplessi, giacché il contenuto della disciplina sulla struttura non può non riflettersi sul modo di essere del potere privato e viceversa ». L’osservazione è certamente acuta ma deve anche considerare che il modo di essere del potere privato affonda le proprie ragioni in una molteplicità di scelte e in quella sfera variegata dei motivi e degli interessi perseguiti dalle parti che il legislatore di regola non indaga neppure nell’ipotesi dell’illiceità; viceversa, la struttura e il contenuto del contratto riguardano quella porzione della scelta che i privati intendono tradurre in vincolo giuridico e che dunque non può contrapporsi ai valori dell’ordinamento giuridico da cui vuole trarre legittimazione. 558 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 parte non rientri fra i soggetti discriminati — il che è il segno della sanzione verso l’illiceità del contenuto — sia che l’altra parte rientri fra i soggetti discriminati, nel qual caso si affianca al rimedio della nullità quello del risarcimento del danno, anche non patrimoniale. Alle medesime conclusioni si può addivenire con riguardo a ulteriori possibili clausole discriminatorie. Si pensi alla clausola che autorizzi la sublocazione, ma la vieti per gli extracomunitari o per tale ipotesi contempli un incremento del canone. Una simile clausola potrà, applicando il comma 1o dell’art. 1419 c.c., determinare la nullità dell’intero contratto e allora al discriminato resterà il rimedio del risarcimento del danno non patrimoniale o la nullità della sola clausola e allora basterà rimuoverla dal contratto o, se necessario in relazione al suo contenuto, integrare il medesimo con la corrispondente clausola non discriminatoria, che si inferisce dallo stesso atto (52). La prospettiva del controllo sul contenuto del contratto, se si volge lo sguardo dal contratto in generale alla molteplici possibili tipologie negoziali, apre due fronti non privi di criticità rispetto al principio di non discriminazione: l’ambito dei contratti associativi, da una parte, e quello degli atti di liberalità e degli atti mortis causa, da un’altra parte. Relativamente ai primi la loro stessa struttura implica la previsione di regole di ingresso di nuovi associati o soci, sicché ne discende l’interrogativo sulla compatibilità fra il principio di non discriminazione e le clausole di gradimento o di mero gradimento. Orbene, la latitudine di tali previsioni non consente di accedere ad un giudizio aprioristico di illiceità, ma introduce certamente l’esigenza — supportata dal raccordo fra la regola di correttezza e il principio della dignità — di sottoporre la loro applicazione al vaglio della non discriminazione. Ancora più complesso è misurarsi con l’ambito delle liberalità e degli atti mortis causa rispetto ai quali l’orientamento prevalente esclude — anche nel caso dell’offerta al pubblico — l’applicabilità delle leggi antidiscriminatorie sul presupposto dell’insindacabilità dello spirito di liberalità (53). Orbene, se tale deduzione è accettabile sul fronte del vaglio relativo alla scelta negoziale, non pare, viceversa, porsi negli stessi termini il controllo inerente al contenuto dell’atto che — vale la pena ribadirlo — consta della possibilità di tradurre un regolamento di interessi in legge privata, il che è subordinato al rispetto della liceità. Occorre, all’uopo, ricordare che, negli atti in esame, il regime operante nel caso dell’illiceità dell’onere, del motivo esplicitato o della condi( 52 ) Né può escludersi che in una negoziazione individuale ricorrano anche i presupposti di un contratto asimmetrico, nel qual caso risulterebbe precluso l’esito della nullità dell’intero contratto, mentre non si deve cedere alla tentazione — come si dirà — deviante ed ingiustificata di reputare il discriminato automaticamente un contraente debole. ( 53 ) Scarselli, Appunti sulla discriminazione razziale e la sua tutela giurisdizionale, in questa Rivista, 2001, I, p. 823. SAGGI 559 zione, salvo qualche dubbio relativamente a quest’ultima (54), è quello della loro non incidenza sull’atto, a meno che il fattore illecito sia stato, oltre che esplicitato nell’atto, il solo che abbia determinato il disponente a porre in essere il medesimo. Ma allora, ove ricorra tale circostanza, vi è da chiedersi per quale ragione l’offesa alla dignità realizzata attraverso una pattuizione discriminatoria debba avere minore valore rispetto ad altre cause di illiceità della clausola (55). Da ultimo, che il regolamento contrattuale in quanto « legge privata » debba essere compatibile con i valori dell’ordinamento e, dunque, con il valore della dignità sotteso al divieto di discriminazione viene confermato da una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano, che sottopone un contratto individuale ad una interpretazione ex fide bona ispirata al principio di non discriminazione. Il caso è quello deciso dalla pronuncia 29 marzo 2012 (56) che ha interpretato la clausola di un contratto di lavoro relativa all’assistenza sanitaria privata pagata con un contributo trattenuto in busta paga come estesa, alla luce del principio di non discriminazione, anche al convivente more uxorio dello stesso sesso. In definitiva, la prima conclusione cui è dato giungere è che, essendo il fondamento della discriminazione l’offesa alla dignità, il contratto individuale non può essere rispetto ad essa impermeabile. Tuttavia, altro è sottoporre al rispetto di tale valore quella porzione di scelta che le parti vogliono tradurre in legge individuale, ossia il contenuto del contratto, altro è controllare in sé la scelta contrattuale, il che, se non si vuole annientare la stessa autonomia, è ammissibile solo in particolari contesti e per particolari ragioni. 4. — Tornando dal controllo sulla liceità del contratto al vaglio sulla scelta contrattuale, occorre verificare quali ragioni, oltre a quelle sottese alla disciplina generale sulla responsabilità precontrattuale, passano giustifi( 54 ) Anche alla condizione parrebbe più ragionevole applicare la stessa regola dettata per l’onere e per i motivi. ( 55 ) Chiaramente il punto sarà poi quello di accertare la natura effettivamente illecita della clausola alla luce della ragionevolezza o non ragionevolezza della disparità di trattamento rispetto al contenuto dell’atto. Si immagini il caso in cui una comunità etnico-religiosa decida di effettuare una donazione con una precisa clausola di destinazione del bene a soggetti appartenenti a quella etnia o religione. In un’ipotesi del genere l’esigenza — sottesa alla clausola — di garantire una continuità di appartenenza di determinati beni ad una comunità culturale non evidenzia certamente alcuna offesa alla dignità della persona. Diverso sarebbe il caso in cui un datore di lavoro offrisse omaggi ai suoi dipendenti con l’esplicita clausola che debba trattarsi di lavoratori non extracomunitari o quello nel quale l’anziana nonna disponesse un lascito al nipote ponendo come imprescindibile condizione che egli non vada a convivere con una persona dello stesso sesso. Né deve nuovamente paventarsi che la nullità svantaggi il discriminato, poiché tale rimedio resta sembra affiancato da quello del risarcimento del danno non patrimoniale. ( 56 ) La sentenza è inedita. 560 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 care un sindacato di merito alla luce del divieto di discriminazione. Una tale riflessione riconduce al quesito iniziale sul significato e sulla ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico. Come abbiamo già anticipato, per giustificare l’operare del divieto nella sola offerta al pubblico non basta addurre la presenza unicamente in tale ambito di un termine di comparazione, posto che anche in una negoziazione individuale la discriminazione dichiarata esplicita una comparazione virtuale. Parimenti, non basta prospettare l’argomento che invoca la copertura della privacy nella negoziazione individuale e la vede dileguarsi nell’offerta al pubblico, poiché altrimenti non potrebbe ricomprendersi nel raggio operativo del divieto l’invito ad offrire non discriminatorio che rinvii al momento dell’offerta della controparte di palesare la discriminazione; all’inverso, dovrebbe dubitarsi di poter sottrarre al divieto una negoziazione individuale che espliciti, magari anche in presenza di terzi, la ragione discriminatoria, poiché in tale fattispecie risulterebbe arduo invocare la copertura della privacy. Riemerge allora la terza motivazione, quella che vuole soccombente rispetto alla dignità la posizione di chi, offrendo al pubblico, sfrutta la latitudine del mercato. Ma è di tutta evidenza lo stridere (57) di una logica di tipo mercantile, che pure non è estranea alle spinte originarie dell’Unione europea (58), rispetto ad un valore così alto quale la dignità. Sennonché la lettura del fenomeno, alla luce delle direttive e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, non risiede in tale logica di tipo mercantile bensì nel bilanciamento di interessi che ha operato il legislatore fra l’autonomia contrattuale del singolo, che sfrutta il vantaggio dell’offerta al pubblico con la quale può intercettare una pluralità di contraenti, e le pari opportunità di accesso al mercato di una pluralità di soggetti altrimenti estromessi. Dunque, il sacrificio dei più rispetto all’interesse del singolo nell’esercizio dell’autonomia contrattuale è la ragione che induce il legislatore ad infrangere il vincolo della normale insindacabilità delle scelte contrattuali, il che immediatamente dà risalto al coinvolgimento della dignità e dà voce alla pari dignità (59) di accesso all’esercizio dell’autonomia, realizzando — attraverso il divieto — un’azione positiva a vantaggio dell’uguaglianza formale in concreto. Se questa è la ratio delle previsioni normative riferite all’offerta al pubblico, è su di essa che deve misurarsi il quesito sistematico sulla possibile proiezione del controllo anche al di fuori del perimetro normativo. ( 57 ) Gentili, Il principio di non discriminazione nei rapporti civili, cit., p. 225. ( 58 ) Per il raccordo fra libertà economiche fondamentali e divieto di discriminazione per ragioni legate alla nazionalità si veda l’originario art. I-4, rubricato « Libertà fondamentali e non discriminazione », di cui al titolo I del Trattato che intendeva istituire una Costituzione per l’Europa. Il testo si può leggere in Contratto e Costituzione in Europa, cit., p. 275. Si veda altresì supra nt. 11 sulla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di divieto di discriminazione e libertà fondamentali. ( 59 ) Maffeis, Offerta al pubblico e divieto di discriminazione, cit., spec. p. 44. SAGGI 561 Orbene, com’è chiaro, il bilanciamento di interessi fra la libertà del singolo e le pari opportunità di esercizio dell’autonomia di una pluralità di soggetti non può esportarsi al di fuori dell’offerta al pubblico, poiché proiettato sul conflitto individuale vede venir meno proprio l’elemento della pluralità degli esclusi. D’altro canto, neppure è possibile invocare in via automatica la lesione della libertà contrattuale del singolo rispetto ad un isolato comportamento discriminatorio, poiché questo di per sé non esclude la possibilità di negoziare con terzi (60). Questa medesima ragione impedisce di proiettare tout court al di fuori della previsione normativa il divieto di discriminazione previsto rispetto all’accesso al contratto di lavoro, poiché se l’intervento normativo si giustifica come azione positiva — ma non imprescindibile — a favore dell’accesso ad un valore di rango costituzionale, è anche vero che la singola discriminazione non pregiudica in assoluto il diritto del singolo che può rivolgersi anche ad altri contraenti e, dunque, il modello normativo non basta nuovamente a supportare una proiezione sistematica al di fuori del campo operativo della legge. Tali considerazioni, se impediscono l’automatica riproduzione del divieto al di fuori del suo campo operativo, non chiudono, tuttavia, le possibili implicazioni sistematiche. Al contrario, nell’applicazione delle leggi antidiscriminatorie alla stessa offerta al pubblico, inducono a riflettere sul trattamento da riservare ai casi nei quali la discriminazione attuata attraverso tale offerta sia così diffusa in una determinata area o in un particolare mercato da impedire in concreto l’esercizio dell’autonomia privata del singolo, che si trova a non avere alternative sul mercato. Orbene, dinanzi alla prova di una effettiva diffusione del comportamento discriminatorio in un ambito rilevante del mercato, non è da escludere la possibilità di invocare tutele poste a presidio della libertà contrattuale, a partire dall’obbligo a contrarre (61), rimedio assai più efficace del mero risarcimento del danno. In una seconda direzione, ritorna il dilemma sulla capacità espansiva della ratio della legge e dei principi rispetto all’ipotesi in cui negoziazioni individuali realizzino il risultato dell’esclusione del singolo dall’accesso a un bene. L’ipotesi è tendenzialmente più teorica che pratica, là dove si dovrebbe immaginare l’impedimento all’accesso a un bene realizzato dalla condotta di ( 60 ) È questa la ragione per cui non convince la tesi di Carapezza Figlia, Divieto di discriminazione e autonomia contrattuale, cit., spec. p. 194 ss. secondo cui il fondamento del divieto di discriminazione sarebbe proprio il pari esercizio della libertà contrattuale, rilevante, a suo parere, anche a fronte di una singola e isolata discriminazione. ( 61 ) Sulla possibile applicazione di tale rimedio anche al di fuori delle espresse previsioni normative e, specificamente, nell’ambito della normativa antitrust, cfr. C. Osti, L’obbligo a contrarre: il diritto concorrenziale tra comunicazione privata e comunicazione pubblica, in Contratto e antitrust, cit., p. 34 ss. e Meli, Diritto « antitrust » e libertà contrattuale: l’obbligo di contrarre e il problema dell’eterodeterminazione del prezzo, in Contratto e antitrust, cit., p. 55 ss. 562 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 uno o più privati che non si avvalgano dell’offerta al pubblico. Sennonché dalla teoria può addivenirsi facilmente alla pratica se si passa da un concetto di impedimento assoluto alla negoziazione ad un concetto assai più relativo. Simile passaggio può giustificarsi non in generale, ma se l’autonomia privata è funzionale all’accesso ad un bene di valore fondamentale, come ad esempio l’abitazione (62). Si immagini il caso in cui in un’area delimitata dalla ragionevole raggiungibilità del posto di lavoro sia negato l’accesso al bene abitazione da una medesima condotta discriminatoria di tutti i proprietari di case che diano in locazione i loro immobili con negoziazioni puramente individuali o dalla condotta dell’unico proprietario di case date in locazione a titolo individuale nella zona. In tale ipotesi, non può dirsi negata in assoluto l’autonomia privata rispetto all’accesso al bene abitazione, poiché il soggetto potrebbe spostarsi in altra zona, ma proprio la rilevanza fondamentale del bene può legittimare un giudizio più relativo, che chiaramente non deve tradursi nell’assecondare la convenienza o la scelta di comodo, ma deve giudicare l’oggettiva impossibilità relativa di accedere al bene fondamentale. Orbene, ove si verificassero tali condizioni limite, è da ritenere che l’interprete, sull’onda lunga della ratio normativa e dei principi, possa effettivamente ravvisare una ulteriore giustificazione ad un vaglio sull’esercizio dell’autonomia privata anche al di fuori dell’offerta al pubblico. E infatti, mentre nel caso del conflitto fra due libertà contrattuali non negate, l’offesa alla dignità attuata nei modi di esercizio di una delle due non può spingersi sino alla negazione della stessa autonomia privata, per converso dinanzi ad una libertà oggettivamente negata, in termini assoluti o anche in termini meno assoluti ma oggettivamente e ragionevolmente rilevanti, non può invocarsi proprio il valore dell’autonomia che nei confronti della controparte risulta radicalmente escluso. Dunque si riapre l’esigenza di un sindacato sul relativo esercizio. 5. — Se la ratio del divieto di discriminazione nell’offerta al pubblico è stata ravvisata nell’esigenza di preservare la pari dignità di accesso di una pluralità di soggetti all’esercizio dell’autonomia contrattuale e dunque nella proiezione verticale sull’esercizio dell’autonomia dell’uguaglianza formale in concreto, va ulteriormente rilevato che il medesimo divieto tende ad evocare anche una proiezione in senso orizzontale del principio di uguaglianza. Le previsioni normative nel dettare la parità di trattamento coordinata con il divieto di discriminazione non si riferiscono invero ad un banale vincolo di applicazione delle medesime condizioni contrattuali, bensì realizzano per l’appunto una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza ma solo nei ( 62 ) Sul diritto all’abitazione cfr. per tutti Breccia, Diritto all’abitazione, Milano 1980, passim; Id., Diritto all’abitare, in Immagini del diritto privato, I, Teoria generale, fonti, diritti, Torino 2013, p. 539 ss.; Id., Itinerari del diritto all’abitazione, ibidem, p. 559 ss. SAGGI 563 limiti di un suo adattamento al contesto contrattuale e solo nei limiti del divieto di discriminazione. Quest’ultima affermazione può apparire singolare ove si consideri che, nella loro valenza verticale, principio di uguaglianza e principio di non discriminazione (63) sono l’uno la derivazione dell’altro ed entrambi sono sottoposti al vaglio della ragionevolezza. Il legislatore non può operare trattamenti irragionevolmente differenziati né equiparare irragionevolmente situazioni differenti (64). Ne discende che la violazione dei divieti di cui all’art. 3 C. lede il principio di uguaglianza, salvo che la diversità di trattamento non si dimostri ragionevole, così come diversità di trattamento irragionevoli possono risultare discriminatorie e lesive dell’uguaglianza, anche al di fuori degli espliciti divieti di cui art. 3 C. (65), oggi integrati da quelli dell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Sennonché, il passaggio dalla valenza verticale a quella orizzontale del principio di uguaglianza implica evidentemente degli adattamenti. In primo luogo, tale differente prospettiva comporta che il vaglio della ragionevolezza debba essere plasmato non con riguardo alla legge ma con riferimento al contenuto del contratto: si pensi al divieto di accedere a talune prestazioni per persone con particolari disabilità, là dove ad esse possano derivare problemi di salute. In secondo luogo, nella sua proiezione orizzontale il principio di non discriminazione non opera in tutta la latitudine che gli viene dall’esigenza di evitare irragionevoli disparità di trattamento rispetto alla legge, proprio perché rispetto al contratto non rileva, al di fuori del divieto di discriminazione, il principio di uguaglianza. Se, dunque, può convenirsi sull’opportunità che le ragioni discriminatorie possano estendersi oltre quelle indicate dalle singole leggi e direttive (66), è, viceversa, da dubitarsi che esse possano oltrepassare quelle espli( 63 ) I due principi sono contemplati unitariamente nell’art. 3 C., mentre sono stati articolati su due norme nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, artt. 20 e 21. Cfr. Ghera, Il principio di uguaglianza nella Costituzione e nel diritto comunitario, Padova 2003, p. 20 ss.; Militello, Principio di uguaglianza e di non discriminazione tra Costituzione italiana e Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, WP C.SD.L.E. « Massimo D’Antona ». INT, 77/2010, p. 1 ss. ( 64 ) Cfr. Barbera, Discriminazioni e eguaglianza nel rapporto di lavoro, Milano 1991, p. 34 ss. ( 65 ) Tale posizione è stata affermata a partire dalla sentenza della C. cost. 29 marzo 1960, n. 15, in G. cost., 1960, p. 147, con nota di Paladin. ( 66 ) Il caso C-303/6 S. Coleman v. Attridge Law deciso dalla Corte di Giustizia il 10 luglio 2006, in European Antidiscrimination Law Review, 2007, p. 51 ha di recente prospettato il problema della discriminazione perpetrata nei confronti di un soggetto che non è direttamente portatore del carattere che suscita la discriminazione, nel caso specifico si trattava della disabilità, ma è uno stretto congiunto del disabile, nella specie si trattava della madre. Sul tema cfr. Waddington, Protection for Family and Friends: Discrimination by Association, ibidem, p. 13 ss. Il problema era già emerso nel caso « Six complainants v. a public house », deciso dall’Equality Tribunal, 27 gennaio 2004, DEC-S/2004/009-014, di 564 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 citate dall’art. 3 C. e dal più dettagliato art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea sulla base unicamente di una presunta irragionevolezza del trattamento contrattuale, poiché una simile deduzione rischia di sovrapporre alle ragioni delle parti le ragioni dell’interprete. Una diversità di trattamento non riconducibile ai paradigmi normativi dettati dai principi costituzionali può rilevare in campo contrattuale non in base ad una irragionevolezza tout court, ma sul presupposto dell’offesa nei confronti della dignità (67). 6. — La breve disamina sul principio di non discriminazione mostra la sua valenza emblematica, non soltanto, nel palesare in che termini e limiti sia ammissibile una proiezione orizzontale del principio di uguaglianza, ma soprattutto nell’evidenziare alcuni aspetti peculiari della proiezione verticale del principio di uguaglianza nel suo graduale distacco da una concezione puramente astratta e formale. Il primo elemento di rilievo è quello sistematico-istituzionale. Il principio di non discriminazione dimostra come il superamento del monopolio del legislatore negli interventi limitativi dell’autonomia privata non possa condurre ad un nuovo monopolio, questa volta dell’interprete, che rischia — attratto dalla giustizia del caso concreto — di rimettere costantemente in discussione i capisaldi del contratto. Per converso, occorre accedere ad una sinergia fra legislatore e interprete, che deve riempire i vuoti dell’approccio normativo settoriale, evitando irragionevoli disparità di trattamento ma senza accedere ad una distruzione del modello. Il medesimo problema metodologico si pone anche al di fuori del divieto di discriminazione con riguardo sia alle previsioni normative a favore dell’uguaglianza sostanziale (68) sia a quelle a favore dell’uguaglianza Dublino che si era occupato dell’esclusione dall’accesso a un pub di un gruppo di clienti, tra i quali una persona con alcune disabilità. ( 67 ) Diverso è solo il caso dei contratti con la pubblica amministrazione sulla cui fase conclusiva si riflette proprio la prospettiva pubblicistica di tutela dell’interesse generale e di difesa del principio di uguaglianza, tant’è che l’art. 2 del codice dei contratti pubblici prevede, al comma 1o, II parte, che « l’affidamento [...] di opere e lavori pubblici, servizi e forniture deve [...] rispettare i principi di libera concorrenza, parità di trattamento, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché quello di pubblicità con le modalità indicate nel [...] codice ». Il corsivo è aggiunto. ( 68 ) Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Abuso del diritto e contratti asimmetrici, cit., p. 85 ss. [prima ancora Ead., Causa e giustizia contrattuale a confronto, in questa Rivista, 2006, p. 419 ss.] dove abbiamo rilevato che l’approccio ai contratti asimmetrici deve essere di natura tipologica, occorre cioè estrapolare dai dati normativi le tipologie di asimmetrie giuridicamente rilevanti — l’asimmetria informativa, da sola o abbinata alla mancanza di potere di negoziazione, la mancanza di alternative sul mercato — e i tipi di interventi e di controlli sui contratti che esse richiedono, avendo consapevolezza dei ruoli sul mercato e dei diversi ruoli fra imprenditore e consumatore, ma senza che ciò debba determinare una netta cesura tra ruolo dell’imprenditore e ruolo del consumatore e l’impossibilità che siano condivise tipologie di debolezze e tipologie di interventi di tutela. Non è un caso che possa trovarsi in una situazione di mancanza di alternative sul mercato non solo l’imprenditore, cui la disciplina sulla subfornitura è stata SAGGI 565 formale in concreto rapportata al mercato concorrenziale, ambiti che si devono affrontare con un approccio tipologico (69), solo apparentemente messo in crisi dall’introduzione dell’art. 62 della l. 24 marzo 2012, n. 27 (70). Tale disciplina, infatti, — come quella sui ritardi di pagamento — nell’omettere il presupposto dell’asimmetria di potere, non intendono introdurre un puro e generalizzato controllo sull’esercizio dell’autonomia né si colorano di eccezionalità, bensì identificano aree nelle quali sussiste, al di fuori di accordi o posizioni dominanti, un comportamento anticoncorrenziale talmente diffuso da giustificare la previsione di un controllo sull’esercizio dell’autonomia. Dette ipotesi, dunque, non richiedono la dimostrazione di una dipendenza economica e neppure possono automaticamente esportarsi al di fuori del loro campo applicativo, ma possono divenire modelli per ulteriori interventi sull’autonomia nei casi in cui la diffusione di taluni comportamenti — ad esempio dello stesso comportamento discriminatorio — giungano ad alterare l’esercizio dell’autonomia contrattuale e a giustificare un controllo sulle relative scelte. Oltre al profilo sistematico-istituzionale, il principio di non discriminazione è altresì paradigmatico in una seconda direzione: nel segnalare il rilievo che dimostra attualmente il riconoscimento costituzionale dell’autonomia contrattuale. Se nella società di stampo liberale il valore ontologicamente basilare dell’autonomia era talmente radicato da far ritenere inutile il ricercare un tale fondamento nella Costituzione (71), il superamento di quel modello dà viceversa un significato pregnante a detta riflessione (72), consentendo al contratto, peraltro rafforzato dalle libertà fondamentali dell’Unione, di resistere all’impatto dei valori personali. Il riferimento alla Costituzione, tuttavia, non va manipolato, non deve divenire l’itinerario diretto a far calare sul contratto funzioni di giustizia sociale, come in parte si è verificato nella giurisprudenza tedesca, a partire dai casi applicata in una prospettiva generale dalle sez. un. Cass. 25 novembre 2011, n. 24906, in F. it., 2012, I, c. 805 ss., ma anche il consumatore che agisca a valle di intese antitrust (così Libertini, Ancora sui rimedi civili conseguenti ad illeciti antitrust, cit., p. 251); parimenti la mancanza di potere di negoziazione può riguardare non solo il consumatore ma anche l’imprenditore che aderisca a condizioni generali di contratto; o ancora l’asimmetria informativa è riferibile non solo al consumatore ma anche al piccolo imprenditore, cui infatti sono state estese talune tutele proprie del consumatore sia da recenti direttive sia dalla recente legislazione che ha applicato loro la disciplina sulle pratiche commerciali sleali (v. la l. 24 marzo 2012, n. 27, attuativa del d.l. 24 gennaio 2012, n. 1.). ( 69 ) V. nota precedente. ( 70 ) V. supra nt. 19 e 25. ( 71 ) Cfr. per tutti Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, cit., p. 1 ss. nonché le considerazioni di Macario, Autonomia privata (profili costituzionali), di prossima pubblicazione sugli Annali dell’Enciclopedia del diritto. ( 72 ) Viene meno il rilievo di Schlechtriem, Grundgesetz und Vertragsordnung, in 40 Jahre Grundgesetz, Heidelberg 1990, p. 39 secondo cui quello della rilevanza costituzionale dell’autonomia contrattuale sarebbe « tema ingrato e poco fecondo ». 566 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Handelsvertreter del 1990 (73) e Bürgschaft del 1993 (74), che hanno utilizzato la Costituzione per infondere valori personalistici rafforzativi della libertà contrattuale di una parte economicamente o socialmente debole (75), onde farla prevalere sulla controparte (76). Una simile operazione ermeneutica rischia di far gravare sul contratto ogni problema di diseguaglianza e di ingiustizia anche sociale, che viceversa devono equamente essere distribuite sul sistema; inoltre tale modello finisce per attribuire al giudice in via esclusiva il delicato compito di decidere quali siano le differenze e le asimmetrie di potere giuridicamente rilevanti. Per questa ragione non si può cadere nella tentazione di reputare il soggetto discriminato automaticamente un soggetto debole: lo sarà soltanto se ricorreranno ragioni di effettiva debolezza contrattuale, legate o alla mancanza di alternative sul mercato o a fattori contingenti che inficiano la sua piena autonomia, secondo il modello dell’unfair exploitation (77). Questi ultimo rilievi conducono alla terza ragione che rende importante la riflessione sul principio di non discriminazione. Il contratto non soltanto non deve confliggere con i valori della persona, ma può essere anche strumento per promuovere tali valori, a condizione che ciò avvenga entro il limite di bilanciamenti di valore che non possono eliminare o alterare nella sua essenza l’autonomia, ma devono preservare il contratto, essendo lo stesso funzionale al benessere della persona. Simile chiave di lettura rende il contratto perfettamente coerente con la logica dell’economica sociale di mercato (78), ossia con l’idea che il mercato regolamentato produca benessere e possa anche promuovere la persona, ma sia ontologicamente limitato, non sia cioè in grado di garantire tutta la giustizia necessaria e soprattutto non possa sostituirsi ai doverosi interventi di politica sociale generale, cui compete la funzione della giustizia distributiva. ( 73 ) BVerfG, 7.2.1990, in BVerfGE 81, 242. ( 74 ) BverfG, 19.10.1993, in BVerfGE 89, 214. ( 75 ) Cfr. Colombi Ciacchi, The Constitutionalization of European Contract Law: Judicial Convergence and Social Justice, cit., p. 167 ss.; Ead., Party Autonomy as a Fundamental Right in the European Union, cit., p. 303 ss.; Cherednychenko, Subordinating Contract Law to Fundamental Rights, in Constituzional Values and European Contract Law, cit., p. 47; Lurger, Grundfragen des Vertragsrecht in der Europäischen Union, Wien, New York 2002, p. 242. In tempi meno recenti cfr. Grunsky, Vertragsfreiheit und Kräftegleichgewicht, Berlin-New York 1995, p. 12 ss. ( 76 ) Osservava opportunamente Mengoni, op. cit., p. 20 « Mi permetto soltanto di manifestare l’impressione che l’enucleazione dall’art. 2 GG di una garanzia costituzionale diretta della libertà di contratto sia servita al BVG solo per fondare il ricorso costituzionale del contraente danneggiato, mentre non sembra indispensabile per fornire la premessa maggiore alla sua argomentazione in proposito ». ( 77 ) Ci sia consentito rinviare a Navarretta, Causa e giustizia contrattuale a confronto, cit., p. 419 ss. ( 78 ) Cfr. per tutti Libertini, A « highly competitive social market economy » as a founding element of the European Economic Constitution, in Concorrenza e mercato, 2011, p. 498 s. Matteo Mattioni Dottorando di ricerca SUL RUOLO DELL’EQUITÀ COME FONTE DEL DIRITTO DEI CONTRATTI (*) Sommario: 1. Premessa. — 2. La dottrina italiana sull’equità dalla codificazione al diritto di derivazione europea: una breve panoramica. — 3. Segue: gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. — 4. L’equità come strumento di « giustizia contrattuale ». — 5. Equità e buona fede nei Principles of European Contract Law e nel Draft Common Frame of Reference. — 6. La vocazione del nostro tempo per l’equità in campo contrattuale. 1. — L’inclusione di una riflessione sull’equità nell’ambito di un discorso intorno alle fonti non legislative del diritto richiede un chiarimento preliminare, imposto dalla circostanza che — a fronte di un’antica e ormai superata opinione che scorgeva nell’equità una fonte di produzione del diritto (1) — si registra oggi l’esclusione pressoché unanime di tale figura dal novero delle fonti normative (2). La ragione di questa esclusione può riassumersi nella considerazione che, se il concetto di fonte normativa (3) postula quello di diritto oggettivo come complesso di norme (4), e se il concetto di norma implica (*) Studio pubblicato nell’ambito della ricerca PRIN 2008 sul tema « Le fonti non legislative del diritto dei contratti ». ( 1 ) Si tratta di un’opinione piuttosto risalente nel tempo (v. gli A. cit. da M. Rotondi, Equità e principii generali di diritto [estr. da questa Rivista], Milano 1924, p. 3, nt. 2, e in particolare G. Maggiore, L’equità e il suo valore nel diritto, in Riv. int. fil. dir., 1923, p. 256 ss.), in seguito ampiamente smentita (cfr. M. Rotondi, Equità, cit., p. 3; V. Frosini, voce Equità (nozione), in Enc. dir., XV, Milano 1966, p. 78 s.), benché autorevolmente riproposta in tempi più recenti (cfr. A. Trabucchi, Il nuovo diritto onorario, in questa Rivista, 1959, I, p. 506 ss.: « [i]n un sistema che, essenzialmente costruito sulla legalità, tende tuttavia ad una affermazione sempre più concreta di giustizia, l’equità resta fonte sussidiaria del diritto » [ivi, 507, corsivo aggiunto]). ( 2 ) In tal senso è anche la letteratura istituzionale, ivi compresa la manualistica: v. per tutti Salv. Romano, voce Equità (dir. priv.), in Enc. dir., XV, Milano 1966, p. 78 s.; F. Gazzoni, Manuale di diritto privato16, Napoli 2013, p. 32 s.; P. Zatti, Manuale di diritto civile5, Padova 2012, p. 47. ( 3 ) Si parla qui di fonte in senso materiale, identificandosi la fonte sulla base del suo contenuto o risultato normativo, e non già in senso formale (ossia mediante rinvio alle regole dell’ordinamento sulla produzione giuridica): cfr., per questa distinzione, R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Tratt. Cicu-Messineo, I, 1, Milano 1998, p. 57 ss., ove si osserva come la dottrina giuridica tenda, di fatto, a far propria una nozione mista di fonte (ivi, p. 68); amplius, F. Modugno, voce Fonti del diritto. I) Diritto costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XVI, Roma 1989, p. 2 ss. ( 4 ) In tal senso, V. Crisafulli, voce Fonti del diritto (dir. cost.), in Enc. dir., XVII, Milano 1968, p. 947. 568 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 il carattere della generalità (5), non può ritenersi che l’equità — la cui funzione è, nel nostro sistema, quella di provvedere concretamente a situazioni determinate — costituisca una fonte in senso tecnico di norme giuridiche. Sennonché, una volta acquisito che la nozione di fonte dipende concettualmente da quella di norma (6), occorre rilevare che quello connotato dai caratteri di generalità e astrattezza non è l’unico concetto possibile di norma, essendo anzi diffusa l’opinione che di norma si possa parlare anche con riferimento a precetti singolari e concreti come, ad esempio, quelli statuiti dall’autorità giudiziaria o posti dall’autonomia privata (7). Ne consegue che anche la sentenza e il regolamento contrattuale potrebbero considerarsi fonti di produzione del diritto (8) e che, contribuendo l’equità a fondare la decisione del giudice (9) nonché — come subito si dirà — a determinare detto ( 5 ) Così V. Crisafulli, Fonti, cit., p. 949, ove si legge che « risponde ad una esigenza logica che la generalità sia carattere “naturale” delle norme costituenti il diritto oggettivo, poiché questo è ordinamento e non è concepibile ordinamento che non abbia un certo grado di stabilità e permanenza nel tempo [...]. Non fa ordinamento un insieme seriale di precetti individuali, esaurentisi ciascuno una tantum, né precetti di questo tipo sarebbero d’altronde i più idonei a oggettivarsi distaccandosi dai fatti ed atti dai quali derivano ». L’A. fornisce inoltre una dimostrazione, basata sul diritto positivo, del fatto che il nostro ordinamento non ha inteso discostarsi dalla nozione tradizionale di norma giuridica (v. sul punto pure Id., voce Atto normativo, in Enc. dir., IV, Milano 1959, p. 245 s., cui si rinvia anche per ulter. riferim. dottrinali; più di recente, R. Guastini, Le fonti del diritto. Fondamenti teorici, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2010, p. 11 ss. e spec. p. 15 ss.). ( 6 ) Così, testualmente, R. Guastini, Teoria, cit., p. 63. ( 7 ) Questa impostazione può farsi risalire al pensiero di H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (trad. it.), Milano 1994 (rist. 2000), p. 134 ss.; Id., La dottrina pura del diritto2 (trad. it.), Torino 1966, p. 260 ss. (e spec. p. 262, ove si legge che « [i]l rapporto esistente fra la norma giuridica generale prodotta per statuizione o consuetudine e la sua applicazione mediante tribunali o organi amministrativi, è sostanzialmente eguale a quello che intercorre fra la costituzione e la produzione di norme giuridiche generali da essa determinate. La produzione di norme giuridiche generali costituisce applicazione della costituzione tanto quanto l’applicazione delle norme giuridiche generali da parte dei tribunali o degli organi amministrativi costituisce produzione di norme giuridiche individuali ») — e già Id., Lineamenti di dottrina pura del diritto (trad. it. della prima ed. della Reine Rechtslehre), Torino 2000, p. 104 ss. —; ulter. riferim. in R. Guastini, Teoria, cit., p. 63, nt. 21. Più di recente, v. A. Rentería Díaz, in G. D’Elia-A. Rentería Díaz, Teoria e pratica delle fonti del diritto, Roma 2008, p. 121 ss. e spec. p. 128 ss. sulla giurisdizione come fonte del diritto; cfr. anche A. Pizzorusso, Comparazione giuridica e sistema delle fonti del diritto, Torino 2005, p. 20 ss. ( 8 ) Tale conclusione — essendole estranea la suddivisione dei precetti « singolari » tra quelli che, logicamente impliciti in norme preesistenti, costituiscono applicazione di queste e quelli che, invece, derogano a norme preesistenti — è peraltro criticata da chi ritiene aliene al fenomeno della produzione del diritto sia la mera ripetizione di norme preesistenti, sia la formulazione di precetti che di tali norme costituiscono mere conseguenze logiche (così R. Guastini, Teoria, cit., pp. 59 e 64). ( 9 ) In ordine al giudizio di equità, sul quale non è possibile soffermarsi in questa sede, v. almeno E. Grasso, voce Equità (giudizio), in Dig. disc. priv. - sez. civ., VII, Torino 1991, p. 470 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim.; F. Galgano, Diritto ed equità SAGGI 569 regolamento, anch’essa potrebbe riguardarsi alla stregua di una fonte materiale. In ogni caso, non è dubbio che l’equità sia evocata dal legislatore italiano tra le fonti d’integrazione del contratto (10), sia pure come fonte subordinata o di secondo grado, venendo in rilievo soltanto « in mancanza » di legge punnel giudizio arbitrale, in Contratto e impr., 1991, p. 461 ss.; V. Frosini, Il giudizio di equità e il giudice di pace, in questa Rivista, 1996, I, p. 143 ss., cui fa seguito la replica di F. Galgano, Dialogo sull’equità (fra il filosofo del diritto e il giurista positivo), in Contratto e impr., 1996, p. 401 ss.; G. Tucci, L’equità del codice civile e l’arbitrato di equità, in Contratto e impr., 1998, p. 469 ss.; R. Calvo, Giurisdizione di equità e gerarchie assiologiche, in Contratto e impr., 2005, p. 118 ss.; ampiamente, C. Tenella Sillani, L’arbitrato di equità. Modelli, regole, prassi, Milano 2006, passim; da ultimo, G. Iudica, Arbitrato di diritto e arbitrato d’equità, in Aa.Vv., Appunti di diritto dell’arbitrato2, Torino 2012, p. 79 ss. ( 10 ) L’espressione è entrata nell’uso corrente a seguito del contributo di S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1964 (rist. Milano 2004), cui si rinvia per un’ampia indagine circa il fondamento teorico dell’integrazione del contratto, ad esito della quale l’A. — rifiutati sia l’assunto che il regolamento contrattuale debba necessariamente « rispondere all’esclusiva logica dei privati » (ivi, p. 87), pur restando la fonte privata « il motore del contratto » (ibid.) e l’elemento qualificante la fattispecie, sia la contrapposizione teorica tra contenuto ed effetti del contratto (ivi, p. 77 ss. e spec. p. 89 ss.), sia ogni sovrapposizione tra interpretazione e integrazione (ivi, p. 105 ss.) — individua nel regolamento contrattuale il prodotto di un « concorso di fonti » (ivi, p. 105): il problema dell’integrazione viene così risolto in quello della costruzione del regolamento contrattuale, fermo restando che all’attività delle parti deve riconoscersi, come detto, valore qualificante la fattispecie, la quale conserva carattere negoziale (aprendosi, altrimenti, « prospettive di estrema incertezza »: ivi, p. 90). Più di recente, sul punto, v. A. Giuliani, L’integrazione del contratto, in Aa.Vv., I contratti in generale, IV, p. 1, in Giur. Bigiavi, Torino 1991, p. 117 ss.; F. Galgano, in F. Galgano-G. Visintini, Degli effetti del contratto. Della rappresentanza. Del contratto per persona da nominare (Art. 1372-1405), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1993, p. 65 ss.; C.M. Bianca, Diritto civile. 3. Il contratto, Milano 1998, p. 471 ss.; R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto3, II, in Tratt. Sacco, Torino 2004, p. 417 ss.; G.B. Ferri, Il negozio giuridico2, Padova 2004, p. 253 ss.; E. Capobianco, La determinazione del regolamento, in Tratt. Roppo, II, Milano 2006, p. 389 ss., ove ampia bibliografia; in prospettiva europea, M.A. Livi, L’integrazione del contratto, in Tratt. Lipari2, III, Padova 2003, p. 380 ss.; M. Barcellona, Clausole generali e giustizia contrattuale, Torino 2006, p. 65 ss. (e già Id., Un breve commento sull’integrazione del contratto, in Quadr., 1988, p. 524 ss.); C. Scognamiglio, L’integrazione, in Aa.Vv., I contratti in generale2, 2, in Tratt. Rescigno-Gabrielli, I, Torino 2006, p. 1147 ss.; A. Federico, Profili dell’integrazione del contratto, Milano 2008, p. 29 ss. (per una sintesi, Id., Nuove nullità ed integrazione del contratto, in Aa.Vv., Le invalidità nel diritto privato, Milano 2011, p. 329 ss.); U. Breccia, voce Fonti del diritto contrattuale, in Enc. dir., Ann., III, Milano 2010, p. 394 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione del contratto e potere correttivo del giudice, Padova 2010, pp. 1 ss. e 193 ss. Da ultimo, v. M. Franzoni, Degli effetti del contratto. II. Integrazione del contratto. Suoi effetti reali e obbligatori2, in Comm. Schlesinger, Milano 2013, p. 3 ss., nonché — con prospettiva peculiare — S. Pagliantini, L’integrazione del contratto tra Corte di Giustizia e nuova disciplina sui ritardi di pagamento: il segmentarsi dei rimedi, in Contratti, 2013, p. 406 ss., e A. D’Adda, La correzione del « contratto abusivo »: regole dispositive in funzione « conformativa » ovvero una nuova stagione per l’equità giudiziale?, in Aa.Vv., Le invalidità, cit., p. 361 ss. e spec. p. 380 ss. 570 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 tuale (art. 1374 c.c.) (11). Dunque, anche a non volerle riconoscere il rango di fonte di diritto oggettivo, non può negarsi che essa concorra — insieme con la legge e gli usi normativi — alla determinazione del regolamento contrattuale obbligatorio (12). La peculiarità del fenomeno integrativo, che ha bensì per oggetto il contratto, ma al tempo stesso partecipa alla costruzione di questo (13), sembra quindi giustificare che dell’equità si discorra — sia pure, a non voler concedere di più, su un piano meramente descrittivo (14) — come di una fonte del diritto dei contratti. E tale discorrere appare viepiù fondato — almeno sullo stesso piano descrittivo — ove dall’equità c.d. integrativa si passi a considerare le diverse modalità del richiamo all’equità da parte del diritto positivo, vuoi in sede interpretativa (art. 1371 c.c.), vuoi in funzione « determinativa » (art. 1349 c.c.). Tali considerazioni, peraltro, se — come sembra — possono valere a escludere la totale inconferenza del riferimento all’equità nell’ambito di un discorso sulle fonti, non giustificano di per sé sole un ritorno sul tema in esame, già fatto oggetto (anche in anni vicini) di studî differenti per indole ed ambito disciplinare (15). Conviene subito segnalare, quindi, come una riflessione sull’equità non appaia del tutto priva d’interesse alla luce di taluni recenti interventi normativi, i quali sembrano suggerire la necessità di una nuova meditazione (che in questa sede non può essere proposta che nelle sue linee essenziali) intorno al ruolo di essa nel diritto privato e alle differenze fra tale ruolo e quello attribuitole dalla dottrina in tempi meno recenti. Proprio da una sintetica ricostruzione dell’evoluzione del pensiero giuridico sul tema in esame conviene prendere le mosse: non per impostare un discorso di carattere storico intorno al concetto di equità (16), ma al solo fine — ( 11 ) Che il riferimento alla legge, operato dall’art. 1374 c.c., abbia ad oggetto la legge puntuale — non potendosi altrimenti ipotizzare, operando l’analogia legis e iuris, la « mancanza » di legge cui la stessa disposizione fa riferimento — è stato dimostrato da F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano 1970, p. 260 s., nt. 290, e p. 287; cfr. anche Id., Manuale, cit., p. 787. ( 12 ) Sulle ragioni che rendono preferibile discorrere di regolamento piuttosto che di contenuto del contratto, v. S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 76 ss. e spec. p. 88, ove ulter. riferim. sub nt. 148. ( 13 ) L’osservazione è di S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 12. ( 14 ) Del resto, lo stesso concetto di fonte del diritto è evidentemente un traslato: cfr., in chiave storica, L. Mossini, Fonti del diritto. Contributo alla storia di una metafora giuridica, in St. sen., 1962, p. 139 ss. ( 15 ) Un’ampia e accurata bibliografia sul tema dell’equità (utile tanto allo storico quanto allo studioso del diritto vigente, sia di common che di civil law, con particolare riguardo — quanto a quest’ultima area — agli ordinamenti italiano e tedesco), suddivisa per aree tematiche, è posta a conclusione del saggio storico di O. Bucci, Il principio di equità nella storia del diritto, Napoli 2000, p. 74 ss. ( 16 ) Per cui v. almeno Salv. Romano, Equità, cit., p. 83 ss. e spec. p. 91 ss. e, più di recente, R. Calvo, L’equità nel diritto privato, in Studi Palazzo, I, Torino 2009, p. 91 ss. (di SAGGI 571 ben più limitato — di mostrare come l’interesse della nostra dottrina per tale concetto e per il ruolo di esso nell’ordinamento — almeno a partire dal momento in cui l’indagine in materia ha assunto l’aspetto di un problema di diritto positivo — si sia manifestato in modo ciclico, con l’alternarsi di periodi d’intensa elaborazione teorica e momenti di sostanziale indifferenza. Un andamento, questo, che conferma la validità dell’osservazione di chi, nel corso di uno di quei « cicli », ebbe a osservare come l’interesse teorico per l’equità « si accompagn[i] a momenti di transizione nelle strutture socio-economiche e nella cultura giuridica » (17). 2. — L’avvento delle codificazioni e il fiorire del positivismo giuridico (18) portarono con sé una più o meno latente ostilità della dottrina nei confronti dell’equità giudiziale (19), atteggiamento ben compendiato nel celebre ditterio — frutto del rovesciamento, operato da Vittorio Scialoja, di un antico brocardo (20) — « aequitas legislatori, ius iudici magis convenit » (21). quest’ultimo A. v. ora anche L’autorevole codice civile: giustizia ed equità nel diritto privato, Milano 2013, p. 63 ss.). Da ultimo, cfr. M. Franzoni, Degli effetti, cit., p. 111 ss. ( 17 ) S. Rodotà, Quale equità?, in Aa.Vv., L’equità, Milano 1975, p. 47 (il volume, che raccoglie gli atti del convegno leccese del novembre 1973 organizzato dal Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, è emblematico del fervore dottrinale sul tema in esame negli anni Settanta del secolo scorso; vi si ritrovano, fra l’altro, contributi di Vittorio Frosini, Stefano Rodotà, Nicolò Lipari, Adolfo di Majo, Cesare Salvi, C. Massimo Bianca, Guido Alpa, Mario Bessone ed Enzo Roppo). ( 18 ) Se ne veda una solenne professione nelle parole conclusive della prolusione camerte, pronunciata il 23 novembre 1879, di V. Scialoja, Del diritto positivo e dell’equità, in Studi giuridici, III, Roma 1932, p. 23 (ora anche in Le prolusioni dei civilisti, I, Napoli 2012, p. 77 ss.). ( 19 ) Di una vera e propria « guerra all’equità », con riferimento al pensiero di Scialoja, parla B. Biondi, Esistenzialismo giuridico e giurisprudenza romana, in Scritti Carnelutti, I, Padova 1950, p. 109, peraltro in senso critico: osserva, infatti, quest’ultimo A. che, « [s]e si ritiene che [l’equità] sia una entità pericolosa, ciò dipende non dalla sua essenza né dalla sua funzione, che sono insopprimibili, ma dal modo con cui si applica » (ibid.). In definitiva, conclude Biondi, l’atteggiamento di Scialoja si giustifica in base non tanto a una diffidenza verso l’equità in sé e per sé, quanto alla « diffidenza per il giurista o per il giudice; ciò vuol dire che l’uno e l’altro non sono all’altezza della loro funzione » (ibid.). ( 20 ) Recentemente attribuito al giurista tedesco Marquard Freher, allievo di Cuiacio, da F. Petrillo, Interpretazione degli atti giuridici e correzione ermeneutica, Torino 2011, p. 93, nt. 157 (per P. Bonfante, Lezioni di filosofia del diritto, Milano 1986, p. 34, si tratterebbe invece di un brocardo medievale). ( 21 ) Il motto fu pronunciato dal giurista nella già citata prolusione (V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 15), che oltre trent’anni più tardi veniva ancora annoverata dal filosofo Benvenuto Donati, nella sua prolusione perugina del 7 dicembre 1912, tra « le migliori meditazioni che a questo riguardo conti la nostra letteratura » (B. Donati, Sul principio di equità [estr. da Ann. fac. giur. Perugia], Perugia 1913, p. 10; v. pure, ancor più tardi, P. Bonfante, L’equità [estr. da Notiz. lav.], in questa Rivista, 1923, p. 192, il quale fa riferimento al contributo di Scialoja come allo « studio più penetrante ed esatto che sia stato scritto sull’equità »). 572 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 L’equità — vista come una forza magmatica e minacciosa, che spinge verso la modificazione o, in mancanza, la sistematica violazione del diritto positivo (22) — fu relegata dagli studiosi negli angusti spazî riservati ad essa dai puntuali richiami di legge, volti perlopiù a « rinviare il giudice alla propria coscienza ed al sentimento universale » (23). E se, a fronte di un simile ostracismo culturale, non mancò qualche accento di rammarico (24), la civilistica, ormai saldamente attestatasi su tale posizione, parve perdere comprensibilmente ogni interesse per l’equità, nel cui campo d’indagine si trattenne soltanto qualche cultore di studî filosofici (25). Una nuova ventata d’interesse scientifico per l’equità e un rinnovato fervore d’indagine percorse la dottrina privatistica del primo dopoguerra, riversandosi in saggi d’indole teorico-generale (26). Lo stimolo a questo nuovo filone d’indagine — destinato, per la verità, a esaurirsi nel breve volgere di un lustro — può rintracciarsi nel sorgere, durante il periodo bellico e postbellico, di numerose giurisdizioni speciali di equità, istituite — anche in materia civile — al fine di sottrarre alla giustizia ordinaria (e all’applicazione del diritto comune) le materie disciplinate dalla legislazione di guerra per far fronte alle ( 22 ) « [A]ccanto al diritto positivo si manifesta l’azione di una forza, la quale, dapprima sottomessa al diritto stesso, a poco a poco gli si ribella, finché giunge il momento nel quale o il diritto viene modificato regolarmente, [...] ovvero [...] esso viene nella pratica continuamente violato » (V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 13 s.); soggiunge poco oltre l’A. che « nell’equità la materia giuridica si trova allo stato amorfo e non depurata, nel diritto positivo invece essa è schietta e cristallizzata » (ivi, p. 14). ( 23 ) V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 22. Non mancarono, peraltro, posizioni di minor sfavore e diffidenza nei confronti delle spinte equitative al diritto positivo: cfr. V. Miceli, Sul principio di equità. Brevi considerazioni, in Studi V. Scialoja, II, Milano 1905, p. 81 ss. e spec. p. 86 ss. ( 24 ) Si pensi alle parole di N. Coviello, Dell’equità ne’ contratti [estr. da Studi nap.], Napoli 1896, p. 15 (cit. da F.D. Busnelli, Note in tema di buona fede ed equità, in questa Rivista, I, 2001, p. 538), il quale — pur saldamente inserito nel solco del positivismo giuridico (come chiaramente emerge dal suo Manuale di diritto civile italiano. Parte generale3, Milano 1924 [rist. Napoli 1992], p. 8 s.) — ebbe a dolersi della « troppo limitata e meschina e pressoché nulla efficacia che l’equità può avere. Bisogna pur dirlo con rammarico e sconforto di quanti amano la giustizia ». ( 25 ) Si vedano il saggio di A. Falchi, Intorno al concetto scientifico di diritto naturale e d’equità [estr. da Riv. fil. sc. aff.], Bologna 1903, nonché quello (cit. supra, nt. 21) di Benvenuto Donati, in cui si ritrova una compiuta sistemazione teorica del concetto di equità, considerata come « il sistema dei giudizi di valutazione giuridica concreta », che sono « specificazione della giustizia » — definita, per converso, come « il sistema dei giudizi di valutazione giuridica astratta » —: una forza, dunque, « che si fa valere nella pratica giuridica » (B. Donati, Sul principio, cit., p. 19, donde sono tratte anche le citaz. prec. [cors. dell’A.]; l’opinione dell’A., sotto quest’ultimo aspetto, presenta singolari tratti di affinità rispetto all’idea vichiana, eminentemente pratica, dell’equità, su cui v. A. Falchi, Intorno al concetto, cit., p. 21 ss.). ( 26 ) V., per es., L. Raggi, Contributo all’apprezzamento del concetto di equità, in Filangieri, 1919, p. 31 ss.; G. Maggiore, L’equità, cit., p. 256 ss.; M. Rotondi, Equità, cit., p. 1 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim. SAGGI 573 contingenze del momento (27). La più attenta dottrina si mostrò consapevole di essere nel mezzo di una fase temporanea, tipica di « quei periodi di transizione in cui la società, oscillando tra i vecchi principî di un diritto che si crea, cerca affannosamente il suo nuovo stabile assestamento » (28); decisamente negativo (anche a causa del retaggio positivista) fu, peraltro, il giudizio complessivo su tale tendenza legislativa, considerata alla stregua di un « fenomeno morboso, [...] un meschino ripiego adottato [...] da legislatori che vivono alla giornata » (29). Fu così che l’equità, com’è stato affermato, giunse alla codificazione del 1942 « sostanzialmente screditata » (30). Ed è bensì vero che i richiami ad essa da parte del codice vigente sono più numerosi di quelli contenuti nel codice abrogato (31), ma — ciò che appare più significativo — mentre in questo all’equità integrativa era riservato un rango pari a quello di legge e usi (32), in quello — come già accennato — essa è, al pari degli usi, una fonte d’integrazione subordinata alla legge (33). Di fronte a un tale depotenziamento dell’equità, relegata a un ruolo interstiziale, all’interprete non fu più possibile guardare ad essa come a un mezzo per far breccia nell’ordinamento, introducendovi istanze contrastanti con quelle già da esso desumibili (34); né quei richiami potevano essere svalutati leggendovi niente più di un particolare invito al giudice a prendere in considerazione le esigenze del caso concreto, essendo già implici( 27 ) V., in argomento, l’ampio saggio di P. Calamandrei, Il significato costituzionale delle giurisdizioni di equità, in Opere giuridiche, III, Napoli 1968, p. 3 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim. Sulle giurisdizioni d’equità v., inoltre, F. Gazzoni, Equità, cit., p. 65 ss. ( 28 ) P. Calamandrei, Il significato, cit., p. 48. ( 29 ) Così P. Calamandrei, Il significato, cit., p. 4. Emblematiche dell’atteggiamento del tempo nei confronti dell’equità sono le parole di G. Piola, voce Equità, in Dig. it., X, Torino 1926, 503, secondo cui — nel solco del ricordato motto scialojano —, « se è desiderabile che, nel dettare le norme giuridiche il legislatore si ispiri all’equità, è desiderabile anche che l’uso della stessa sia il meno che è possibile lasciato a coloro che sono incaricati della applicazione della norma giuridica » (tal quale è il pensiero di C. Perris, Equità, in Nuovo dig. it., V, Torino 1938, p. 448). ( 30 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 49. ( 31 ) Per una rassegna delle epifanie normative dell’equità, si rinvia a G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo » e « riconduzione ad equità » nell’art. 7, d. lgs. n. 231 del 2002, in Contratto e impr., 2006, p. 177 ss., e a V. Varano, voce Equità. I) Teoria generale, in Enc. giur. Treccani, XIV, Roma 1989, p. 13. ( 32 ) Disponeva, infatti, l’art. 1124 c.c. abr. (su cui v. almeno C. Grassetti, L’interpretazione del negozio giuridico con particolare riguardo ai contratti, Padova 1983 [rist.], p. 189 ss., ove ulter. riferim.) che « [i] contratti [...] obbligano non solo a quanto è nei medesimi espresso, ma anche a tutte le conseguenze che secondo l’equità, l’uso o la legge ne derivano ». ( 33 ) Art. 1374 c.c.: « [i]l contratto obbliga le parti non solo a quanto è nel medesimo espresso, ma anche a tutte le conseguenze che ne derivano secondo la legge, o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità ». ( 34 ) Lo osserva S. Rodotà, Quale equità?, cit. p. 50. 574 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 ta nella stessa attività giudicante l’adesione piena alle peculiarità del caso (35). In effetti, com’è stato dimostrato sulla scorta di argomenti normativi, l’equità codicistica non è altro che lo strumento grazie al quale penetrano nell’ordinamento privatistico le esigenze della razionalità economica e le regole di esperienza desumibili dai rapporti di mercato (36). E ciò, in ambito contrattuale, al fine non già di garantire l’equilibrio economico delle prestazioni (37), posto che il modello liberista già sconta la disparità di « forza » degli agenti economici, bensì « di fronteggiare situazioni abnormi [per es., l’approfittamento e la laesio enormis di cui all’art. 1448 c.c.], il cui indiscriminato ripetersi turberebbe il formarsi degli equilibri sul mercato » (38). Più che un ampliamento dei poteri decisorî del giudice nel senso di una maggiore discrezionalità, sembrò dunque corretto scorgere nei rinvii del codice all’equità una finalizzazione di tali poteri a un risultato coerente con le logiche di mercato. L’ideologia sottostante a tale impostazione è naturalmente quella, di stampo liberista, secondo cui « il mercato è il luogo dove si formano gli equilibri meglio corrispondenti agli interessi in giuoco e, quindi, per definizione equi » (39), secondo la nota massima « qui dit contractuel, dit juste » (40). Es( 35 ) In questo senso, v. già V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 19 (« [c]he se finalmente questo concetto dell’equità significhi che il giudice debba aver presenti tutti gli elementi giuridici che sogliono trovarsi nei casi da decidere, [...] a me pare che tra questa specie di equità e il puro diritto non vi sia differenza »); accenti analoghi in N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 171 s. V. pure, sul punto, le considerazioni di F. Geny, Méthode d’interprétation et sources en droit privé positif2, I, Paris 1954, p. 212: « [e]n la supposant parfaite et complète, la loi ne peut, à elle seule, porter directement toutes les injonctions, de nature à satisfaire les besoins tout concrets de la vie juridique. Entre ces besoins, si complexes, si variés, si fuyants, et la formule rigide du texte légal, il faut un intermédiaire, qui puisse et sache adapter cette formule aux situations et circonstances, pour lesquelles elle est écrite. Cet intermédiaire, c’est précisément l’interprète du droit, et, particulièrement, dans les litiges concrets, le juge ». ( 36 ) V., in tal senso, S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 50 ss. ( 37 ) Basti leggere la Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile (rist. Roma 2010), n. 626, ove si avverte che con l’art. 1371 c.c. (secondo cui il contratto oscuro dev’essere inteso, se a titolo oneroso, « nel senso che realizzi l’equo contemperamento degli interessi delle parti ») « non si è voluto attribuire al giudice un potere generale di revisione dei contratti, né si è voluto introdurre il principio dell’equilibrio contrattuale » (cors. agg.). Più in generale, v. R. Lanzillo, La proporzione fra le prestazioni contrattuali, Padova 2003, p. 73 ss. Di recente, si è espresso nel senso dell’estraneità del controllo giudiziale sull’equilibrio contrattuale al sistema del codice del 1942 A. Federico, Profili, cit., p. 83. ( 38 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 52. Un ulteriore esempio di tale indirizzo legislativo può ritrovarsi nella disciplina del contratto di appalto (artt. 1660 e 1664 c.c.), laddove la legge intende garantire all’appaltatore una remunerazione adeguata alle variazioni del progetto o all’onerosità e alla difficoltà di esecuzione dell’opera: cfr., in argomento, D. Rubino-G. Iudica, Appalto (Art. 1655-1677)4, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 2007, p. 273 ss. e p. 319 ss. ( 39 ) Ancora S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 56. ( 40 ) Si tratta della celebre formula di A. Fouillée, La science sociale contemporaine, Paris 1880, p. 410, ove — nell’illustrare il concetto di fraternité accostandolo all’idea della contrattualità — l’A. spiega che « [n]ous sommes frères parce que nous acceptons volontai- SAGGI 575 sendo pertanto l’equità, così intesa, immanente alle relazioni di mercato, non vi era bisogno d’altro che di uno strumento — il rinvio normativo — che consentisse di traslare il medesimo concetto sul piano giuridico. 3. — L’avvento della Costituzione e — qualche lustro più tardi — il fiorire dell’interesse della dottrina civilistica per i profili privatistici di essa e per la loro portata sistematica determinarono un ritorno al tema dell’equità giudiziale e del suo ruolo nel diritto vigente. Sorse così l’interrogativo, forse ancor oggi attuale, di Stefano Rodotà: « può davvero il vecchio strumento dell’equità [...] costituire la risposta ai nuovi problemi che sorgono quando ogni illusione sulla concorrenza e la perfezione del mercato è venuta meno? » (41). L’equità codicistica, infatti, si trovava di fronte a un mercato assai diverso da quello, c.d. perfetto, vagheggiato dall’ideologia di riferimento delle codificazioni liberali (42): un mercato segnato da distorsioni e squilibrî ignoti ai fautori del modello liberista, e dal quale s’innalzava la domanda di un’equità differente. Si sarebbe potuto rispondere a tale istanza mediante un diverso utilizzo del criterio equitativo evocato dalla legge, nel segno di un’eterogenesi dei fini orientata dal dettato costituzionale? Ciò parve rappresentare, in realtà, un vero e proprio imperativo alla luce dell’art. 3 cpv. Cost., il quale — imponendo di « confrontare le posizioni giuridico-formali con le realtà di fatto » (43) — aveva determinato il definitivo superamento dell’impostazione che, bandito l’apprezzamento dei concreti rapporti socio-economici di forza, legittimava soltanto il recepimento giudiziale degli squilibrî esistenti nel mercato — salvo il limite, cui sopra si è accennato, dell’abnormità. Quella stessa norma, però, indicava al contempo una via diversa dal semplice recupero dell’equità intesa secondo il concetto pseudoaristotelico di « giustizia del caso concreto » (44): la portata individualizzante del principio non poteva più essere riferita ai singoli rapporti, ma doveva esserlo alle situazioni collettive di conflitto sociale e richiedeva di esser posta alla base non già rement un même idéal en entrant dans la société et que nous nous obligeons à former une même famille; nous sommes frères aussi parce que nous sommes naturellement membres d’un même organisme, parce que nous ne pouvons vivre ou nous développer les uns sans les autres, parce que notre moralité même est liée à l’état social et à la moralité de l’ensemble. En définitive, l’idée d’un organisme contractuel est identique à celle d’une fraternité réglée par la justice, car qui dit organisme dit fraternité, et qui dit contractuel dit juste » (enfasi dell’A.). Recentemente, ha parlato di una « presunzione di giustizia del contratto » A. Cataudella, La giustizia del contratto, in Rass. d. civ., 2008, p. 627. ( 41 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 57. ( 42 ) Su cui v. ora R. Calvo, L’equità nel diritto privato. Individualità, valori e regole nel prisma della contemporaneità, Milano 2010, p. 63 ss., e, amplius, R. Lanzillo, La proporzione, cit., p. 1 ss. ( 43 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 58. ( 44 ) Sull’impossibilità di attribuire tale costruzione ad Aristotele (come spesso, invece, si vede fare), cfr. V. Frosini, Equità, cit., p. 69 ss.; Id., Il giudizio, cit., p. 146. 576 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 di una giurisprudenza diseguale, bensì di una legislazione diseguale (45). Ne conseguiva la radicale inutilizzabilità a tale scopo dell’equità civilistica — principio eminentemente logico, contrastante con la tendenza generalizzante della legge, e non politico (46) —, che anzi occorreva superare mediante « più penetranti interventi legislativi e [lo] stesso impiego da parte del giudice di strumenti foggiati sulla base di [...] principi costituzionali o riferiti ad alcune clausole generali presenti nel codice » (47). Secondo una diversa prospettiva, l’art. 3 cpv. Cost. avrebbe avuto essenzialmente una valenza di criterio-guida per il giudice chiamato ad applicare la legge, non attenendo al momento legislativo e imponendo, invece, di ritenere contraria al diritto ogni sentenza che, pur emessa in applicazione di legge, realizzi, di fatto, il risultato di limitare la libertà, l’eguaglianza e lo sviluppo della persona (48). In altre parole, la norma costituzionale porrebbe in capo al giudice, il quale rilevasse che una certa interpretazione del diritto conduce a ( 45 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 58 ss. Esempio emblematico di tale modello di legislazione doveva essere quello consumeristico, l’interesse per il quale sorse nella dottrina italiana proprio in quegli anni: v. ora sul punto A. Nicolussi, I consumatori, in Aa.Vv., Gli anni settanta del diritto privato, Milano 2008, p. 397 ss. Questa impostazione, come rilevato da V. Varano, Equità, cit., p. 6, non implica « che l’equità scompaia dagli ordinamenti codificati [...]; significa invece che dell’equità si appropria il legislatore, che ne fa un suo strumento operativo ». ( 46 ) V., in tal senso, A. di Majo, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 177. ( 47 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 60. Ciò in linea col pensiero dell’A., già espresso nella sua prolusione maceratese del 18 dicembre 1966 (Id., Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in R. d. comm., 1967, I, p. 83 ss. [ora anche in Le prolusioni dei civilisti, III, Napoli 2012, p. 3089 ss.]), in cui — constatati sia il superamento sul piano storico e metodologico della Begriffsjurisprudenz, sia l’emergere di nuove classi d’interessi sovraindividuali consacrati dalle costituzioni del XX sec. (ivi, p. 84 ss.) — egli propugna un nuovo modo d’intendere gli interventi riformatori, come volti a tracciare « le grandi linee secondo cui la dinamica sociale vuol essere indirizzata », mediante una legislazione « concepita in opposizione allo schema corrente della legislazione regolamentare, articolata in massime generali, elastiche, feconde di conseguenze future » (ivi, p. 89, donde è tratta anche la citaz. prec.; è qui totale il mutamento di prospettiva rispetto al giuspositivismo di V. Scialoja, Del diritto, cit., p. 20, secondo il quale « [u]na buona legge non pone i principii; essa detta comandi [...]. Da questi comandi si possono astrarre i principii »), costituenti l’« espansione dei principi costituzionali » (ivi, p. 95). Lo stesso A. avrebbe in seguito chiarito come la legislazione per principî, lungi dal determinare una mortificazione del momento legislativo, costituisca « il recupero da parte del legislatore, di quel potere di indirizzo globale rispetto ai comportamenti della società, che [...] la legislazione minuta, frammentaria, [...] ha fatto perdere al parlamento » (S. Rodotà, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 248). Sull’attualità di questa impostazione, v. ora S. Patti, Arte e tecnica della legislazione civile (nel pensiero di Stefano Rodotà e di Justus Wilhelm Hedemann), in Diritto privato e codificazioni europee2, Milano 2007, p. 37 ss. e spec. p. 54 ss. (ed ora pure in Ragionevolezza e clausole generali, Milano 2013, p. 113 ss.); critico, invece, F. Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri), nota a Cass. 13 ottobre 2007, n. 21748, in D. fam., 2008, I, p. 122 s., nt. 29, e Id., Manuale, cit., p. 51. ( 48 ) Così N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 172. SAGGI 577 un risultato iniquo sotto i profili della libertà, dell’uguaglianza, ecc., il dovere di ricercare una diversa interpretazione al fine di realizzare un risultato di giustizia sostanziale, rimanendo obbligato — ove tale interpretazione alternativa non fosse possibile — a denunciare l’illegittimità costituzionale della norma applicabile. L’art. 3 cpv. Cost., con la sua portata rivoluzionaria, avrebbe quindi « trasferito il giudizio di equità dall’esterno all’interno del giudizio di legalità, qualificandolo come momento [...] necessario dell’applicazione della regola al regolato » (49) e realizzando così il punto di congiunzione e di equilibrio tra i due fondamentali momenti dell’equità: quello della razionalizzazione del sistema e quello del superamento del sistema stesso (50). Non distante da quest’ultima impostazione (se non altro, per la dichiarata centralità del ruolo del giudice) è poi la teoria secondo cui sarebbe possibile, già sulla base del diritto vigente, un intervento cogente dell’equità sul regolamento contrattuale: un intervento, cioè, operato dal giudice non già per colmare un vuoto regolamentare, bensì in funzione di ristrutturazione del regolamento, ossia al fine di dichiarare l’invalidità — e segnatamente la nullità, con applicazione dell’art. 1419, comma 1o, c.c. — per iniquità di talune clausole eventualmente aggiunte dai privati allo schema tipico, o caratterizzanti quello atipico, le quali non potrebbero continuare a sussistere senza determinare l’iniquità del regolamento stesso (51). Ciò si giustificherebbe, sul piano della ratio, in relazione allo sviluppo assunto dalla legislazione civile (specialmente in materia economica), cui non avrebbe corrisposto una adeguamento degli strumenti giuridici di valutazione; mentre, sotto il profilo tecnico-giuri( 49 ) N. Lipari, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 173. ( 50 ) Non si è mancato di osservare, in contrario, che l’equità viene così relegata al momento interpretativo e sostanzialmente appiattita su di esso, come obbligo d’interpretare la legge secondo il dettato costituzionale: così C. Giannattasio, in Aa.Vv., L’equità, cit., p. 250 s. Per altro verso, v. le considerazioni di P.G. Monateri, Interpretare la legge (I problemi del civilista e le analisi del diritto comparato), in questa Rivista, 1987, I, p. 585, secondo cui « [i]l giurista italiano, orfano del sistema, cerca di ispirarsi ai valori costituzionali, e le ampie formule di una Costituzione moderna si prestano naturalmente a declamare quei principi interpretativi che l’animo umano è contento di ascoltare. Uguaglianza, ragionevolezza, ecc. consentono di avvalorare le opinioni di politica del diritto dell’interprete, permettendogli di ammantarle dell’aureo rispetto di cui tali principi godono ». ( 51 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 324 ss. Contra, A. De Cupis, Precisazioni sulla funzione dell’equità nel diritto privato, in questa Rivista, 1971, I, p. 638, nt. 8, secondo cui « un’esuberante applicazione dell’art. 1374 [...] contrasta colla manifesta e deliberata prudenza del legislatore, il quale ha inteso reagire all’iniquità del contratto solamente in relazione a fattispecie ben delimitate » (il saggio si ritrova in Id., Studi e questioni di diritto civile, Milano 1974, p. 93 ss.). Un’anticipazione dell’impostazione ricordata nel testo può forse ritrovarsi nelle parole di A. Trabucchi, Il nuovo diritto, cit., p. 506 ss., il quale aveva osservato come, nel contesto normativo del codice vigente, « se le parti sono autonome, pur nel rispetto della correttezza, il giudice, che sempre è chiamato a dare il suo contributo umano nell’adeguare la regola alla vita, talvolta è invece investito del potere di applicare un suo criterio, per integrare, per supplire alle incompletezze o, in taluni casi, perfino alle incongruenze del regolamento altrui » (ivi, p. 506, cors. agg.). 578 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 dico, l’invalidità — la quale può risultare dal complesso della disciplina legale e dalla relativa terminologia — sarebbe prevista da una norma imperativa quale l’art. 1374 c.c. (contenente l’emblematica espressione « obbliga [...] a tutte le conseguenze ») (52). Il giudice, in ogni caso, dovrebbe intervenire « facendo salvi gli interessi fondamentali delle parti » (53), avendo come « punto di riferimento di ogni sua attività ricostruttiva [...] la sostanziale attuazione e il raggiungimento dello scopo perseguito dai contraenti » (54), e come « direttive di giudizio » le disposizioni costituzionali di principio (55). Ma se, da un lato, il legislatore si avviava ormai lungo la strada della « legislazione diseguale » invocata in nome dell’equità sociale (56), dall’altro lato il tramonto di quella stagione di studî — nei quali « la norma non segna l’ultimo orizzonte del giurista [...], ma è considerata un’opera aperta, un dato parziale e incompiuto, uno spiraglio, che permette di toccare una realtà più intima e corposa » (57) — portava con sé una nuova caduta dell’interesse dottrinale per l’equità privatistica, che ben si era prestata a quella « esplorazione mistica dell’interprete » (58) condotta dalla civilistica del tempo alla ricerca dei valori sociali sottesi al diritto positivo. ( 52 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 334 ss. ( 53 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 353. ( 54 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 353. In ciò questo A. individua una fondamentale differenza rispetto all’incidenza pratica dell’intervento giudiziale operato in base alla clausola generale d’ordine pubblico. ( 55 ) F. Gazzoni, Equità, cit., p. 359 ss.; contra, A. De Cupis, Precisazioni, cit., p. 635, nt. 3, nonché — più di recente — R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 420. Cfr., sul punto, V. Varano, Equità, cit., p. 11 ss. ( 56 ) Strada che avrebbe condotto a un diritto speciale, come osserva L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta, in Aa.Vv., Gli anni settanta, cit., p. 17 s. Cfr. sul punto A. di Majo, Libertà contrattuale e dintorni, in R. crit. d. priv., 1995, p. 5 ss. e spec. p. 17 (donde le citaz. seg.), a proposito dell’ondata di « paternalismo contrattuale » che ha portato alla disciplina specifica di « contratti sociologicamente qualificati dalle persone dei contraenti ». V., inoltre, le considerazioni di F. Macario, L’autonomia privata, in Aa.Vv., Gli anni settanta, cit., p. 193, in ordine alla difficoltà di comprendere se il legislatore abbia fatto propria la lezione degli anni Settanta, anche tenuto conto che « la maggior parte delle novità legislative in materia provengono direttamente da Bruxelles, e tutte si allineano alla logica della correzione dei fallimenti del mercato ». ( 57 ) Sono parole di N. Irti, voce Diritto civile, in Dig. disc. priv. - sez. civ., VI, Torino 1990, p. 146. Per uno sguardo d’insieme sugli studî privatistici negli anni Settanta del secolo scorso — incentrati, più o meno dichiaratamente, sui rapporti tra politica e scienza giuridica —, v. pure Id., Esame di coscienza di un civilista e Una generazione di giuristi, entrambi in Scuole e figure del diritto civile2, Milano 2002, rispettivam. p. 116 ss. e p. 134 ss. Per una più ampia ricognizione della dottrina privatistica del tempo, v. ora Aa.Vv., Gli anni settanta, cit., ove sono raccolte le relazioni svolte al convegno palermitano del 2006, fra cui si segnalano particolarmente quella, di carattere generale, di L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta (p. 1 ss.) — ove si ritrovano (p. 3 s., nt. 2) considerazioni critiche sul già ricordato saggio di N. Irti, Diritto, cit. — e quella di F. Macario, L’autonomia, cit., p. 119 ss. (e spec. p. 157 ss. in tema di equità e buona fede). ( 58 ) Ancora N. Irti, Diritto, cit., p. 146. SAGGI 579 4. — Appare quantomeno singolare, ad ogni modo, che quella legislazione, ispirata da istanze equitative ben distanti dall’equità civilistica evocata nei rimandi del codice, abbia finito col servirsi essa stessa del rinvio — diretto o indiretto — all’equità giudiziale, riponendovi talvolta addirittura la regola di validità degli accordi. È questo il caso dell’art. 7, comma 1o, d. legisl. 231/2002 (in tema di « lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali », attuativo della direttiva 2000/35/CE), il quale dispone che « [l]e clausole relative al termine di pagamento, al saggio degli interessi moratori o al risarcimento per i costi di recupero, a qualunque titolo previste o introdotte nel contratto, sono nulle quando risultano gravemente inique in danno del creditore », con (eventuale) applicazione degli artt. 1339 e 1419, comma 2o, c.c. (59). Si è qui ( 59 ) La disposizione è stata recentemente modificata dall’art. 1, comma 1o, lett. g, d. legisl. 192/2012, che — fra l’altro — ne ha soppresso il precedente comma 3o, il quale attribuiva al giudice il potere di ricondurre ad equità il contenuto dell’accordo, una volta dichiaratane la nullità (v., in proposito, M.C. Venuti, Nullità della clausola e tecniche di correzione del contratto. Profili della nuova disciplina dei ritardi di pagamento, Padova 2004, p. 117 ss.; S. Monticelli, Considerazioni sui poteri officiosi del giudice nella riconduzione ad equità dei termini economici del contratto, in Contratto e impr., 2006, p. 215 ss.; C. Chessa, Il potere giudiziale di ristabilire l’equità contrattuale nelle transazioni commerciali, in questa Rivista, 2006, II, p. 443 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 140 ss. e p. 229 s.; sulla portata della riforma, v. il recente contributo di S. Pagliantini, L’integrazione, cit., p. 414 ss.). Il nuovo testo prosegue stabilendo che « [i]l giudice dichiara, anche d’ufficio, la nullità della clausola avuto riguardo a tutte le circostanze del caso, tra cui il grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza, la natura della merce o del servizio oggetto del contratto, l’esistenza di motivi oggettivi per derogare al saggio degli interessi legali di mora, ai termini di pagamento o all’importo forfettario dovuto a titolo di risarcimento per i costi di recupero » (comma 2o). Vengono inoltre fissate due presunzioni di grave iniquità: l’una, assoluta, in relazione alla clausola che esclude l’applicazione degli interessi moratorî (comma 3o); l’altra, relativa, per la clausola che esclude il risarcimento dei costi di recupero delle somme dovute a titolo d’interessi moratorî e non tempestivamente corrisposte (comma 4o). Su questa normativa v. almeno C. Chessa, Il potere, cit., p. 439 ss., cui si rinvia anche per il ragguardevole apparato bibliografico; G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p. 166 ss., ove si sottolinea come l’iniquità evocata dalla disposizione in esame non valga ad altro che a richiamare l’abuso contrattuale (ivi, p. 174 ss.); G. Amadio, Nullità anomale e conformazione del contratto (note minime in tema di « abuso dell’autonomia contrattuale »), in Letture sull’autonomia privata, Padova 2005, p. 233 ss.; A. Perrone, L’accordo « gravemente iniquo » nella nuova disciplina sul ritardato adempimento delle obbligazioni pecuniarie, in Banca, borsa, tit. cred., 2004, I, p. 65 ss.; S. Zucchetti, sub art. 7, in Aa.Vv., La disciplina dei ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, in Nuove l. civ. comm., 2004, p. 571 ss.; A. Bregoli, La legge sui ritardi di pagamento nei contratti commerciali: prove (maldestre) di neodirigismo?, in R. d. priv., 2003, p. 715 ss.; D. Maffeis, Abuso di dipendenza economica e grave iniquità dell’accordo sui termini di pagamento, in Contratti, 2003, p. 623 ss.; V. Pandolfini, La nullità degli accordi « gravemente iniqui » nelle transazioni commerciali, ivi, p. 501 ss.; E. Minervini, La nullità per grave iniquità dell’accordo sulla data del pagamento o sulle conseguenze del ritardato pagamento, in D. banca e mer. fin., 2003, I, p. 189 ss.; R. Alessi, Transazioni commerciali e redistribuzione tra le parti del costo del ritardato pagamento: per una lettura del d. lgs. 231/2002 al ripa- 580 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 di fronte a una peculiare figura di eterodeterminazione della regola di validità del contratto (60), di matrice non già normativa, ma giudiziale, basata sul criterio-guida dell’equilibrio contrattuale (61): il rinvio della norma all’equità giudiziale, secondo il dettato della stessa legge, è uno strumento volto ad adeguare il contratto alle condizioni di mercato. Dispone, infatti, il comma 2o del citato art. 7 che il giudice dichiari la nullità della clausola avuto riguardo, fra l’altro, al « grave scostamento dalla prassi commerciale in contrasto con il principio di buona fede e correttezza »: a dover guidare il giudicante nell’apprezzamento dell’iniquità della clausola non è, dunque, il suo personale senso di giustizia, ma la consuetudine del mercato di riferimento (per individuare il quale la legge richiama « la natura della merce o del servizio oggetto del contratto ») e il rispetto della clausola generale di buona fede. Al rinvio all’equità operato dal d. legisl. 231/2002, da un lato, sembrano attagliarsi le osservazioni dottrinali — più sopra ricordate — formulate qualche decennio addietro in ordine all’equità codicistica: anche nella normativa in esame — per espressa previsione della stessa — l’equità funge da tramite per la conformazione del contratto in base alle norme di esperienza desumibili dai rapporti di mercato (62). Dall’altro lato, tuttavia, il riferimento della disposizione alle clausole generali di buona fede e correttezza, di cui il giudice deve tener conto nel valutare lo scostamento della pattuizione dalla prassi commerciale, manifesta l’inclinazione del legislatore a sovrapporre tali strutture normative all’equità (63). Com’è stato osservato, ciò — di fatto — « significa abbandonare il canone equitativo e sostituirlo con il richiamo a clausole generali » (64) e — sul piano teorico — implica non tanto il riconoscimento del ruolo integrativo della clausola di buona fede (65), né una commiro dall’ambiguo richiamo all’« equità », in Studi Palazzo, III, Torino 2009, p. 1 ss.; C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 118 ss. ( 60 ) Non più, invece, dello stesso contenuto contrattuale, dopo la modifica operata dal d. legisl. 192/2012, su cui v. nt. prec. ( 61 ) V., in tal senso, G. Amadio, Nullità, cit., p. 234 s., il quale assimila l’ipotesi in esame a quella dell’eterodeterminazione in base alla normativa regolamentare delle Autorità indipendenti (e segnatamente all’ipotesi di cui all’art. 117, comma 8o, d. legisl. 385/1993). ( 62 ) Cfr. S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 50 ss. ( 63 ) Osserva G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p. 189, come sia « arduo [...] comprendere se [...] l’equità è mero strumento [sic] della buona fede o risulta criterio dominante ». Cfr. pure C. Chessa, Il potere, cit., p. 460 s., ove ulter. riferim. sul rapporto tra equità e buona fede nella normativa in esame. ( 64 ) Così G. Amadio, Nullità, cit., p. 244 (cors. agg.); sull’estraneità del richiamo operato dalla normativa in esame all’equità vera e propria, v. pure G. Salvi, « Accordo gravemente iniquo », cit., p. 174 ss. ( 65 ) Il dibattito sul punto è noto. L’opinione secondo cui la buona fede esecutiva di cui all’art. 1375 c.c. (regola la cui area d’incidenza coinciderebbe con quella dell’art. 1175 c.c.) deve ritenersi inclusa — pur nel silenzio dell’art. 1374, di cui la disposizione seguente rappresenterebbe lo sviluppo — nel novero delle fonti d’integrazione del contratto è stata sostenuta da S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 111 ss. e spec. p. 175 ss. In senso contrario, F. SAGGI 581 stione tra regole di validità e regole di comportamento (66), quanto piuttosto Gazzoni, Equità, cit., p. 284 ss. (opinione successivamente confermata dall’A. nel suo Manuale, cit., p. 801), fondamentalmente in base alla considerazione che il ruolo integrativo della buona fede si risolverebbe nella « svalutazione del criterio integrativo dell’equità e [nel]la sostituzione ad esso del criter[i]o della correttezza » (Id., Equità, cit., p. 289), dal momento che « non può essere utilmente operata una contrapposizione tra correttezza ed equità » (ivi, p. 288), riconducibili entrambe ad « un medesimo ordine di idee » (ivi, p. 285) — cfr., in quest’ultimo senso, anche U. Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, I, in Tratt. Cicu-Messineo, XVI, 1, Milano 1974, p. 7 ss. e spec. p. 12 ss., e già, nel senso della non eterogeneità delle due figure, C. Grassetti, L’interpretazione, cit., p. 211 ss. Delle due opinioni è stata la prima — fondata sul superamento della distinzione teorica fra contenuto ed effetti del contratto (S. Rodotà, Le fonti, cit., p. 77 ss. e spec. p. 89 ss.; v. anche R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 421, e da ultimo C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 9 s.) — ad aver avuto storicamente la meglio (cfr. almeno C.M. Bianca, Diritto civile. 3, cit., p. 472 ss.; v., inoltre, A. di Majo, Libertà, cit., p. 21 ss.; M. Franzoni, Buona fede ed equità tra le fonti di integrazione del contratto, in Contratto e impr., 1999, p. 83 ss.; A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, La buona fede, in Tratt. Bessone, XIII, Torino 2004, p. 33 ss., cui si rinvia anche per ulter. riferim.; E. Capobianco, La determinazione, cit., p. 413 ss., ove pure ulter. riferim.; P. Gallo, Contratto e buona fede. Buona fede in senso oggettivo e trasformazioni del contratto, Torino 2009, p. 407 ss., con ampia casistica giurisprudenziale; U. Breccia, Fonti, cit., p. 396 s.; da ultimo, M. Franzoni, Degli effetti, cit., p. 211 ss.; in chiave storica, G. Alpa, La completezza del contratto: il ruolo della buona fede e dell’equità, in Aa.Vv., Il contratto e le tutele. Prospettive di diritto europeo, Torino 2002, p. 219 ss.), al punto che può ben dirsi ormai smarrito il senso della distinzione tra equità e buona fede, entrambe autorevolmente ricondotte — nel segno di un agnosticismo quanto mai franco e realista (cfr. M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 87) — entro il generico contenitore delle « regole di opinione » (R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 431 ss., secondo cui « [l]e contrapposizioni fra un’equità dal contenuto ineffabile, tutta legata al giudice e al giudizio, una correttezza oggettivizzata e ben definibile, una buona fede come elemento di riferimento di una clausola generale, sono il risultato di edificazioni teoriche che contrappongono i vari sistemi considerati in base a caratteristiche che poi in realtà emergono o scompaiono a seconda dell’ottica in cui la regola di opinione viene osservata » [ivi, p. 433]; contra L. Mengoni, Spunti per una teoria delle clausole generali, in R. crit. d. priv., 1986, p. 16, il quale rileva come la diffidenza verso le clausole generali e la distinzione di esse da altre strutture normative (principî generali, standards) sia destinata a perdurare « [f]ino a quando non saranno rimosse le difficoltà di una discussione razionale sui valori » (una distinzione è stata recentemente tentata da E. Capobianco, La determinazione, cit., p. 417 ss.). L’opinione minoritaria sopra ricordata, tuttavia, è stata ultimamente sostenuta da C. Scognamiglio, L’integrazione, cit., p. 1170 ss. e spec. p. 1173 ss., nonché, in termini più netti, da A. Federico, Profili, cit., p. 85 ss., e da M. Barcellona, Clausole, cit., p. 150 ss. e spec. p. 166 ss., del quale — per inciso — è pienamente condivisibile la considerazione (di cui tener conto ai fini di una più approfondita indagine sul punto, e perfettamente riferibile anche allo studio dell’equità civilistica) che « [l]a vicenda interpretativa degli artt. 1374 e 1375 [...] difficilmente si presta ad essere compresa nella dimensione decisamente pragmatica e a-temporale, che talvolta si vorrebbe dare alla scienza giuridica » (ivi, p. 65, e già in Id., Un breve commento, cit., p. 524). ( 66 ) Infatti, i casi in cui la legge prevede l’invalidità del contratto iniquo sembrano riconducibili alla previsione di cui all’art. 1418, comma 3o, c.c. In generale, sulla commistione tra i due ordini di regole nella giurisprudenza e nella legislazione, cfr. V. Roppo, Il contratto del duemila3, Torino 2011, p. 81 ss.; con particolare riferimento alla buona fede oggettiva, A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 249 582 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 la tendenziale identificazione del canone equitativo con la clausola di correttezza. Non sembra potersi condividere del tutto, pertanto, l’affermazione « che al centro del c.d. giudizio di equità [...] altro non vi sia se non l’equilibrio economico » (67): se ciò vale per altri provvedimenti normativi (68), non può dirsi altrettanto per l’art. 7 d. legisl. 231/2002, laddove al criterio quantitativo si affianca, per espressa previsione di legge, quello relativo alla condotta delle parti. A parte, tuttavia, quest’ultima norma, sembra che sull’equilibrio (o meglio il riequilibrio) economico siano effettivamente imperniati i rinvii normativi all’equità giudiziale (69) operati dalla legislazione speciale di derivazione comunitaria. Il legislatore ha esteso così il presidio dell’adeguatezza economica dello scambio — attivo già da tempo in materia di lavoro subordinato (70) — a nuove e più ampie aree di contrattazione caratterizzate dall’asimmetria di potere contrattuale tra le parti (71), senza peraltro provvedere alla puntuale definizione quantitativa di tale equilibrio (72). È questa la tecnica mediante la quale si è scelto di realizzare la giustizia contrattuale (in senso normativo ed economico) (73), ponendo rimedio agli abusi dell’autonoss. In senso critico, v. in particolare E. Lucchini Guastalla, Obblighi informativi dell’intermediario finanziario e responsabilità nei confronti dell’investitore, nota ad App. Milano 19 dicembre 2006, in Resp. civ., 2007, p. 1679 ss.; Id., Violazione degli obblighi di condotta e responsabilità degli intermediari finanziari, ivi, 2008, p. 741 ss., ove ulter. riferim.; da ultimo, Id., Il contratto e il fatto illecito, Milano 2012, p. 323 ss., ove si osserva che « la nullità virtuale non può essere dichiarata che nei casi in cui la norma imperativa mira direttamente a impedire la conclusione del contratto, e non anche laddove essa tenda semplicemente ad evitare la conclusione di un contratto svantaggioso » (ivi, p. 324). ( 67 ) Così, ancora, G. Amadio, Nullità, cit., p. 245 (cors. dell’A.). Sull’eversività dei vincoli normativi che impongono l’equilibrio contrattuale (originario), cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., p. 74 ss., il quale ne rileva il carattere « tendenzialmente recessivo nell’evoluzione di un ordinamento sempre più informato a logiche di privatizzazione/liberalizzazione » (ivi, p. 75). ( 68 ) Si pensi alla l. 192/1998, di cui si dirà tra breve. ( 69 ) Sui precedenti normativi in tema di congruità del corrispettivo contrattuale, v. le sintetiche osservazioni di V. Roppo, Il contratto, cit., p. 77 s. Cfr. inoltre F. Galgano, Sull’equitas [sic] delle prestazioni contrattuali, in Contratto e impr., 1993, p. 419 ss. ( 70 ) Si vedano, pur nella loro diversa portata e con differenti implicazioni, gli artt. 36, comma 1o, Cost. e 2125, comma 1o, c.c. ( 71 ) Requisito, quest’ultimo, peraltro non sempre « formalizzato » dalle normative in esame: cfr. G. Amadio, Nullità, cit., p. 248 s. ( 72 ) Per tali considerazioni, v., amplius, V. Roppo, Il contratto, cit., p. 78 s., e ivi, p. 79 ss., circa l’estraneità a tale trend normativo della disciplina in tema di usura introdotta dalla l. 108/1996 (sulla quale cfr. D. Russo, Sull’equità dei contratti, Napoli 2001, p. 135 ss.). ( 73 ) V., per l’evoluzione del concetto anche nel diritto italiano e per i suoi rapporti col principio dell’autonomia privata, U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, in Tratt. Bessone, XIII, Torino 1999, p. 71 ss.; G. Vettori, Autonomia privata e contratto giusto, in R. d. priv., 2000, p. 21 ss., ove ampia bibliografia sul tema; E.M. Pierazzi, La giustizia del contratto, in Contratto e impr., 2005, p. 647 ss.; E. Navarretta, Buona fede oggettiva, contratti SAGGI 583 mia privata (74) al fine ultimo di assicurare la struttura concorrenziale del mercato — « vero obiettivo del nuovo diritto europeo dei contratti d’impresa » (75). In questo modo, l’equità giudiziale è posta al servizio dell’idea di giustizia contrattuale, rinsaldando un legame che già era stato colto, quasi tre secoli fa, da Pothier, il quale vide nei contratti di scambio il regno dell’equità intesa come equilibrio economico (76). In questo senso sembra doversi leggere le disposizioni del d. legisl. 206/ 2005 (c.d. codice del consumo), il cui art. 2, comma 2o, lett. e, contempla fra i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti quello « alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità nei rapporti contrattuali ». E che anche in tal caso l’equità debba intendersi come principio di giustizia contrattuale è parso emergere dall’art. 33, comma 1o, del medesimo provvedimento, in base al quale « [n]el contratto concluso tra il consumatore ed il professionista si considerano vessatorie le clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto » (77). di impresa e diritto europeo, in questa Rivista, 2005, I, p. 507 e spec. p. 525 ss.; Ead., Causa e giustizia contrattuale a confronto: prospettive di riforma, in Aa.Vv., Il diritto delle obbligazioni e dei contratti: verso una riforma? (atti del convegno per il cinquantenario di questa Rivista svoltosi a Treviso nel marzo 2006), Padova 2006, p. 411 ss., ove ulter. riferim.; più di recente, A. Cataudella, La giustizia, p. 624 ss. Sui rapporti tra buona fede oggettiva e giustizia contrattuale v. l’ampia analisi di A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 155 ss. ( 74 ) Cfr. G. Amadio, Nullità, cit., p. 246 ss., il quale, rilevato il carattere paradossale di tale espressione con riferimento al paradigma codificato dell’autonomia, compie un tentativo di tracciare i limiti (de iure condito) del sindacato giudiziale sull’equilibrio contrattuale. V., inoltre, la relazione governativa al d. legisl. 231/2002 (cit. da E. Minervini, La nullità, cit., p. 198 s.), secondo cui « l’opzione normativa in favore della sanzione di nullità è sistematicamente giustificata dalla considerazione che il legislatore comunitario reprime la violazione di una norma imperativa di divieto di abuso della libertà contrattuale ». Osserva, infatti, G. Vettori, Autonomia, cit., p. 37, che « non è rilevante lo squilibrio in sé, ma in quanto frutto di un abuso o di un contegno in mala fede ». ( 75 ) Così, ancora, G. Amadio, Nullità, cit., p. 252. Sul legame fra giustizia contrattuale e concorrenza v. R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., I, p. 22 ss. e spec. p. 26 ss. ( 76 ) R.J. Pothier, Traité des obligations, selon les regles tant du for de la conscience, que du for extérieur2, I, Paris-Orléans 1764, p. 45 s.: « [l]’équité doit regner dans les conventions, d’où il fuit que dans les contrats intéressés dans lesquels l’un des contractans donne ou fait quelque chose, pour recevoir quelqu’autre chose comme le prix de ce qu’il donne ou de ce qu’il fait, la lésion que souffre l’un des contractans, quand même l’autre n’auroit recours à aucun artifice pour le tromper, est seule suffissante par elle-même pour rendre ces contrats vicieux. Car l’équité en fait de commerce consistant dans l’égalité, dès que cette égalité est blessée, et que l’un des contractans donne plus qu’il ne reçoit; le contrat est vicieux, parce qu’il peche contre l’équité qui y doit regner ». Una simile impostazione si ritrova, nella nostra dottrina, nel pensiero di N. Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Ranciano 1895, p. 190, ove ulter. riferim. ( 77 ) V. in tal senso G. De Nova, Contratto: per una voce, in R. d. priv., 2000, p. 653, sia pure con riferim. agli abrogati artt. 1, comma 2o, lett. e, l. 30 luglio 1998, n. 281, e 1469 bis, comma 1o, c.c., omologhi degli attuali artt. 2, comma 2o, lett. e, e 33, comma 1o, d. legisl. 206/2005 (il saggio si ritrova in Id., Il contratto. Dal contatto atipico al contratto alieno, Pa- 584 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Significativa è pure la norma che, in tema di abuso di dipendenza economica nei rapporti tra imprese, prevede la nullità del contratto attraverso il quale l’abuso si realizzi, determinando « nei rapporti commerciali [...] un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi » anche mediante l’« imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose » (art. 9, commi 1o, 2o e 3o, l. 192/1998) (78). E sempre in quest’ultima normativa si ritrova la disposizione che sancisce la nullità del « patto con cui il subfornitore disponga, a favore del committente e senza congruo corrispettivo, di diritti di privativa industriale o intellettuale » (art. 6, comma 3o). La tendenza legislativa in esame ha visto accrescere la propria portata col recente art. 62 d.l. 1/2012 (79), il quale, pur non contenendo espressi richiami all’equità (80), merita di essere qui segnalato per la sua affinità con le fattispecie normative poc’anzi evocate. dova 2011, p. 1 ss.); F. Gazzoni, Manuale, cit., p. 799 s.; amplius, F. Camilletti, L’art. 2 del Codice del consumo e i diritti fondamentali del consumatore nei rapporti contrattuali, in Contratti, 2007, p. 907 ss. e spec. p. 915, secondo il quale « la nozione di equità di cui all’art. 2 va letta in relazione all’art. 33 comma 1o » (ibid.); ulter. riferim. sul punto in A.M. Mancaleoni, sub art. 2, in G. De Cristofaro-A. Zaccaria, Commentario breve al diritto dei consumatori (Codice del consumo e legislazione complementare), Padova 2010, p. 63. Di diverso avviso appare G. Vettori, sub art. 2, in Aa.Vv., Codice del consumo annotato con la dottrina e la giurisprudenza, Napoli 2009, p. 13 ss. e spec. p. 15. Sulla questione se lo squilibrio rilevante ex art. 33, comma 1o, d. legisl. 206/2005 debba intendersi in senso puramente normativo o anche economico — come l’art. 34, comma 2o, del medesimo provvedimento parrebbe escludere —, v. per tutti S. Troiano, sub art. 33, in G. De Cristofaro-A. Zaccaria, Commentario, cit., p. 248 ss. (ove ulter. riferim.), il quale condivisibilmente rileva che « qualsiasi clausola del contratto [...] è potenzialmente in grado di incidere sulla convenienza anche economica dell’affare [...] in quanto il contratto è, per definizione, strumento per regolare la sfera dei rapporti patrimoniali dei contraenti » (ivi, p. 249). ( 78 ) V., sul punto, D. Russo, Sull’equità, cit., p. 81 ss.; D. Maffeis, Abuso, cit., p. 623 ss., ove ulter. riferim.; C.M. Nanna, Eterointegrazione, cit., p. 150 ss. ( 79 ) Il provvedimento, recante « Disposizioni urgenti per la concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività », è stato conv. con l. 27/2012. Le modalità applicative dell’articolo in parola sono poi state specificate (come previsto dal comma 11o bis dello stesso) dalla normativa secondaria del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali con d.m. 199/2012, recante il relativo « Regolamento di attuazione ». Su tale normativa v. almeno l’ampio commento di L. Russo, I contratti di cessione dei prodotti agricoli e alimentari (e quelli di cessione del latte crudo): nuovi tipi contrattuali per il mercato agroalimentare?, in Nuove l. civ. comm., 2013, p. 199 ss. (con ulter. riferim. ivi, p. 212, nt. 36), e quello di S. Rizzioli, La disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e alimentari tra prospettive di diritto dell’Unione Europea e legislazione alimentare interna, ivi, p. 239 ss., nonché — da ultimo — A.M. Benedetti-F. Bartolini, La nuova disciplina dei contratti di cessione dei prodotti agricoli e agroalimentari, in questa Rivista, 2013, p. 641 ss., e S. Pagliantini, Il « pasticcio » dell’art. 62, l. n. 221/2012: integrazione equitativa di un contratto parzialmente nullo o responsabilità precontrattuale da contratto sconveniente?, in G. D’Amico-S. Pagliantini, Nullità per abuso ed integrazione del contratto. Saggi, Torino 2013, p. 171 ss., ove ulter. riferim. ( 80 ) Può tuttavia condividersi l’opinione di L. Russo, I contratti, cit., p. 227, il quale ricostruisce la ratio della normativa in parola con riferimento all’inadeguatezza del diritto comune a « ricondurre ad una “equità sostanziale” i rapporti tra gli operatori della filiera agroalimentare ». SAGGI 585 L’articolo, rubricato « Disciplina delle relazioni commerciali in materia di cessione di prodotti agricoli e agroalimentari », esordisce con una disposizione dedicata ai « contratti che hanno ad oggetto la cessione dei prodotti agricoli e alimentari, ad eccezione di quelli conclusi con il consumatore finale », prevedendone requisiti di forma e contenuto, e stabilendo che essi « devono essere informati a principi di trasparenza, correttezza, proporzionalità e reciproca corrispettività delle prestazioni, con riferimento ai beni forniti » (comma 1o) (81). La norma prosegue con una previsione dall’ambito di applicazione apparentemente assai più ampio (82), secondo cui, « [n]elle relazioni commerciali tra operatori economici, ivi compresi i contratti che hanno ad oggetto la cessione dei beni di cui al comma 1o, è vietato: a) imporre direttamente o indirettamente condizioni di acquisto, di vendita o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose, nonché condizioni extracontrattuali e retroattive; b) applicare condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti; c) subordinare la conclusione, l’esecuzione dei contratti e la continuità e regolarità delle medesime relazioni commerciali alla esecuzione di prestazioni da parte dei contraenti che, per loro natura e secondo gli usi commerciali, non abbiano alcuna connessione con l’oggetto degli uni e delle altre; d) conseguire indebite prestazioni unilaterali, non giustificate dalla natura o dal contenuto delle relazioni commerciali; e) adottare ogni ulteriore condotta commerciale sleale che risulti tale anche tenendo conto del complesso delle relazioni commerciali che caratterizzano le condizioni di approvvigionamento » (comma 2o) (83). La portata civilistica di tali disposizioni — e, in particolare, la loro idoneità a determinare, se violate, la nullità del contratto (84) — potrebbe apparire dubbia, in primo luogo, per l’eliminazione, sopraggiunta dopo l’emana( 81 ) Bisogna segnalare che tale comma è stato così modificato dall’art. 36 bis d.l. 179/ 2012 (conv. con l. 221/2012), il quale ha fra l’altro eliminato l’espressa comminatoria di nullità che accompagnava le prescrizioni contenutistiche di cui al primo periodo. Sull’effettiva portata di tale modifica, v. però le considerazioni di L. Russo, I contratti, cit., p. 218 ss. ( 82 ) Ma v. L. Russo, I contratti, cit., p. 220, secondo cui il comma 2o della disposizione andrebbe letto « all’interno del contesto generale di riferimento, [...] intende[ndo] il riferimento agli operatori economici non in senso generale ma pur sempre limitato a coloro che operano all’interno delle filiere agroalimentari » (conf. S. Rizzioli, La disciplina, cit., p. 261). ( 83 ) Sui rapporti fra la normativa in parola e gli artt. 9 l. 192/1998 e 7 d. legisl. 231/ 2002, cui si è accennato più sopra, v. L. Russo, I contratti, cit., p. 223 ss., ad avviso del quale i commi 1o e 2o dell’art. 62 d.l. 1/2012 dovrebbero considerarsi norme speciali rispetto al citato art. 9 l. 192/1998 (ivi, p. 225). ( 84 ) Sul punto, cfr. ancora L. Russo, I contratti, cit., p. 221, il quale propende, seppure dubitativamente, per l’esclusione dell’invalidità (ivi, nt. 62), salvo prospettare la nullità ex art. 9 l. 192/1998 delle clausole contra legem (ivi, p. 226; v. nt. prec.). Da ultimo, in senso nettamente contrario alla nullità virtuale, v. A.M. Benedetti-F. Bartolini, La nuova disciplina, cit., p. 646 ss. 586 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 zione della norma, dell’espressa comminatoria di nullità che accompagnava le prescrizioni contenutistiche di cui al primo periodo del comma 1o (85) e, secondariamente, per la circostanza che la repressione della violazione dei commi 1o e 2o è affidata a sanzioni pecuniarie di natura amministrativa, sulla cui irrogazione è chiamata a vigilare l’Autorità garante per la concorrenza e il mercato (commi 5o, 6o e 8o) (86). Sotto quest’ultimo profilo, tuttavia, deve ricordarsi come la previsione di una sanzione extracivilistica per il caso di violazione di una norma non sia affatto idonea, di per sé, ad escludere l’invalidità dell’atto, occorrendo pur sempre un’indagine circa l’incompatibilità o la cumulabilità di quella sanzione con l’altra, civilistica, dell’invalidità (87). Sotto il primo profilo, invece, sembra difficile non scorgere nel comma 2o una norma imperativa ai sensi dell’art. 1418, comma 1o, c.c. (88) — di talché la sua violazione determinerebbe la nullità (virtuale) del contratto —, sia che si aderisca all’impostazione per cui la nullità andrebbe esclusa quando, ricostruita la ratio della norma violata, questa appaia espressione d’interessi non già generali, ma meramente settoriali (89), sia che si ritenga necessaria un’indagine condotta sulla scorta di criterî diversi, volta a « individuare la natura, indisponibile o meno, dell’interesse [...] protetto, e così valutare [...] se la conseguenza della nullità appaia congruente o si riveli invece esorbitante rispetto alla ratio della disposizione disattesa » (90): infatti, sembra fondato ritenere che l’obbiettivo di politica legislativa consistente nella garanzia dell’equilibrio contrattuale — pur trovando i proprî punti di emersione in peculiari e ben determinati settori dell’ordinamento (peraltro sempre più numero( 85 ) V. supra, nt. 81. ( 86 ) Ad avviso di L. Russo, I contratti, cit., p. 226, tale apparato sanzionatorio « segnala la sostanziale inadeguatezza del sistema della responsabilità civile [...] tutte le volte in cui le norme di legge tendono a conformare il contenuto di contratti conclusi in serie ». ( 87 ) Cfr. almeno G. Passagnoli, Il contratto illecito, in Tratt. Roppo, II, cit., p. 444. ( 88 ) V. in tal senso S. Pagliantini, Il « pasticcio », cit., p. 178 ss. Il « carattere cogente » della normativa in esame è, inoltre, espressamente affermato da L. Russo, I contratti, cit., p. 230. Fin troppo noto è il dibattito circa il fondamento dell’imperatività della norma ai fini della nullità virtuale: sul punto, basti rinviare a G. Passagnoli, Il contratto, cit., p. 439 ss., ove sono ricostruite (con dovizia di riferim.) le fondamentali posizioni della dottrina sul punto — da quella che scorge il tratto distintivo dell’imperatività nell’inderogabilità a quella che ha riguardo al fondamento giuridico del divieto normativo (a seconda che vi si possa scorgere, o no, una ratio d’interesse generale). ( 89 ) Cfr. per tutti F. Gazzoni, Manuale, cit., p. 997: trattasi di un’impostazione ben radicata nella giurisprudenza (v. almeno Cass. 3 settembre 2001, n. 11351, in Rep. F. it., 2001, Tributi in gen., p. 1178, secondo cui « le norme tributarie, essendo poste a tutela di interessi pubblici di carattere settoriale e non ponendo, in linea di massima, divieti, pur essendo inderogabili, non possono qualificarsi imperative, presupponendo tale qualificazione che la norma abbia carattere proibitivo e sia posta a tutela di interessi generali, che si collochino al vertice della gerarchia dei valori protetti dall’ordinamento giuridico »; numerosi altri riferim. in M. Mantovani, Le nullità e il contratto nullo, in Tratt. Roppo, IV, Milano 2006, p. 44 s.). ( 90 ) Così M. Mantovani, Le nullità, cit., p. 47. SAGGI 587 si) — non possa più riguardarsi, oggi, come un’istanza di carattere meramente settoriale (91), e che la sanzione della nullità sia proporzionata alla violazione di una disposizione — quale l’art. 62, comma 2o, d.l. 1/2012 — evidentemente volta a impedire un determinato « risultato » negoziale. 5. — L’equità compare anche nell’ambito dei Principles of European Contract Law, elaborati dalla Commission on European Contract Law presieduta da Ole Lando, in particolare nella disposizione dedicata all’eccessiva onerosità sopravvenuta dell’esecuzione del contratto per « Change of Circumstances » (art. 6:111). È infatti stabilito che, in tale ipotesi, « the parties are bound to enter into negotiations with a view to adapting the contract or terminating it » (§ 2), e che, ove non intervenga un accordo delle parti « within a reasonable period », al giudice sono attribuiti due poteri fra loro alternativi: « the court may [...] end the contract at a date and on terms to be determined by the court; or [...] adapt the contract in order to distribute between the parties in a just and equitable manner the losses and gains resulting from the change of circumstances » (§ 3). Un riferimento all’equità può ritrovarsi anche nei principî che fanno riferimento alla fairness del regolamento contrattuale: così — in chiave rimediale — nell’art. 4:109 in tema di « Excessive Benefit or Unfair Advantage » e nell’art. 4:110 in tema di « Unfair Terms not Individually Negotiated », ma pure — in materia d’interpretazione — all’art. 5:102. Significativa, poi, è la previsione dell’art. 6:102 (rubricato « Implied Terms ») in tema d’integrazione del contratto: la disposizione afferma che, « [i]n addition to the express terms, a contract may contain implied terms which stem from [...] the intention of the parties, [...] the nature and purpose of the contract, and [...] good faith and fair dealing ». La buona fede rientra a pieno titolo, dunque, tra le fonti d’integrazione del contratto, accanto al fair dealing: può quindi ritenersi che nella soft law europea sia stata senz’altro superata, a favore di un’espansione dell’area d’influenza della clausola generale di buona fede, la limitazione — sostenuta da una parte della dottrina italiana (92) — della rilevanza di quest’ultima al solo momento esecutivo del contratto. Nel più recente Draft Common Frame of Reference, che in parte costituisce l’evoluzione dei predetti Principles, vengono sostanzialmente conservate numerose disposizioni contenute in questi ultimi. Si pensi, ad esempio, alla previsione del potere giudiziale di « vary the obligation in order to make it reasonable and equitable in the new circumstances » (art. III. — 1:110, § 2, lett. a) — previsione estesa, nel Draft, all’obbligazione in generale, indipendentemente dalla fonte di essa. Viene conservata anche la regola dell’integra( 91 ) Cfr. G. Vettori, Autonomia, cit., p. 33 ss., il quale reputa lecita la domanda se possa parlarsi di un nuovo ordine giuridico in fase di formazione. ( 92 ) V. supra, nt. 65. 588 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 zione del contratto in base ai « requirements of good faith and fair dealing » (art. II. — 9:101), la cui portata appare — per converso — limitata rispetto ai Principles, dal momento che l’integrazione sembra essere riservata al giudice (§ 2: « [w]here it is necessary to provide for a matter which the parties have not foreseen or provided for, a court may imply an additional term [...] ») ed è espressamente esclusa nei casi in cui « the parties have deliberately left a matter unprovided for, accepting the consequences of so doing » (§ 4). Ma ciò che appare più significativo è che il Draft riservi un’intera sezione (la quarta del capitolo IX — dedicato a « Contents and effects of contracts » — del libro II) agli « Unfair terms », ossia alle condizioni contrattuali inique, cui è riservata una disciplina articolata in dieci disposizioni di carattere inderogabile (come dispone l’art. II. — 9:401) (93). Tale disciplina è riferita in prevalenza ai contratti conclusi tra un consumatore e un professionista, e proprio con riferimento a questi essa fonda anzitutto una presunzione d’iniquità sulla mancata redazione e comunicazione delle condizioni predisposte unilateralmente (« terms not individually negotiated ») in forma semplice e chiara (« plain, intelligible language ») (art. II. — 9:402) (94). Al di fuori di tale presunzione, l’unfairness delle condizioni dev’essere valutata alla stregua delle definizioni fornite dagli artt. II. — 9:403, II. — 9:404 e II. — 9:405, relative rispettivamente ai contratti del consumatore, a quelli conclusi « between non-business parties » e a quelli « between businesses ». Nei primi, « a term [not individually negotiated] is unfair [...] if it is supplied by the business and if it significantly disadvantages the consumer, contrary to good faith and fair dealing ». Nei secondi, invece, « a term is unfair [...] only if it is a term forming part of standard terms supplied by one party and significantly disadvantages the other party, contrary to good faith and fair dealing ». Infine, nei terzi, « [a] term [...] is unfair [...] only if it is a term forming part of standard terms supplied by one party and of such a nature that its use grossly deviates from good commercial practice, contrary to good faith and fair dealing » (95). Alla iniquità delle condizioni contrattuali consegue, ai sensi dell’art. II. — 9:408, l’inefficacia delle stesse per la parte che non le abbia predisposte, fermo restando che, « [i]f the contract can reasonably be maintained without the unfair term, the other terms remain binding on the parties ». La sezione si ( 93 ) Al di fuori di tale sezione, una norma particolare è dettata dall’art. III. — 3:711, in tema di « Unfair terms relating to interest », ove si precisa che l’unfairness di un termine di pagamento degli interessi si riscontra laddove quest’ultimo « grossly deviates from good commercial practice, contrary to good faith and fair dealing » (§ 3). ( 94 ) La disposizione in discorso, infatti, sancisce che, « [i]n a contract between a business and a consumer a term which has been supplied by the business in breach of the duty of transparency imposed [...] may on that ground alone be considered unfair ». ( 95 ) L’art. II. — 9:406 stabilisce alcune esclusioni dall’« unfairness test »: si tratta delle condizioni basate su disposizioni della legge sostanziale applicabile, su convenzioni internazionali o sulle stesse regole del Draft. SAGGI 589 conclude con un lungo elenco di clausole che, nei contratti del consumatore, si presumono inique se predisposte dal professionista (art. II. — 9:410). Coerentemente con la ricerca del rigore terminologico che ne ha animato la redazione, il Draft definisce in modo espresso good faith and fair dealing (art. I. — 1:103), unificandoli in un’endiadi che ricorda quella domestica di buona fede e correttezza: il sintagma, infatti, « refers to a standard of conduct characterised by honesty, openness and consideration for the interests of the other party to the transaction or relationship in question » (§ 1) (96). 6. — La dottrina italiana più recente appare saldamente attestata su un concetto di equità corrispondente a quello di equilibrio contrattuale (97) e di « giusta proporzione delle prestazioni » (98). In un quadro normativo in cui l’iniquità sanzionata dalla legge corrisponde, in definitiva, all’abuso della libertà negoziale (99), l’equità — per converso — non rappresenta altro che il criterio del corretto esercizio di quella stessa libertà. Tale concetto finisce, così, per coincidere con quello di buona fede oggettiva (100), al punto che non ( 96 ) Il § 2 della disposizione soggiunge che « [i]t is, in particular, contrary to good faith and fair dealing for a party to act inconsistently with that party’s prior statements or conduct when the other party has reasonably relied on them to that other party’s detriment ». Può segnalarsi, infine, che l’importanza dell’equità nel Draft emerge con evidenza dalla circostanza che essa riveste un ruolo determinante anche in settori disciplinari estranei a quello contrattuale, divenendo per es. criterio decisivo al fine di fondare la responsabilità dell’incapace naturale: v., infatti, l’art. VI. — 5:301 in tema di « Mental incompetence », secondo cui « [a] person who is mentally incompetent at the time of conduct causing legally relevant damage is liable only if this is equitable, having regard to the mentally incompetent person’s financial means and all the other circumstances of the case [...] » (§ 1); si vedano, inoltre, gli artt. V. — 2:102, § 2, sulla responsabilità del gestor alieni negotii, V. — 3:104, § 2, sui diritti del medesimo, VI. — 2:101, §§ 2 e 3, sull’individuazione dei danni risarcibili in materia di responsabilità aquiliana, VI. — 6:103 sui limiti alla compensatio lucri cum damno e VI. — 6:202 sulla riduzione equitativa del risarcimento. ( 97 ) V. almeno F. Benatti, Arbitrato di equità ed equilibrio contrattuale, in R. trim. d. proc. civ., 1999, p. 837 ss.; M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 83 ss.; F.D. Busnelli, Note, cit., p. 537 ss., cui si rinvia anche per i numerosi riferim.; D. Russo, Sull’equità, cit., p. 18 ss.; N. Lipari, Per una revisione della disciplina sull’interpretazione e sull’integrazione del contratto?, in R. trim. d. proc. civ., 2006, p. 726 ss.; da ultimo, U. Breccia, Fonti, cit., p. 418. ( 98 ) Così R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 116, secondo cui per l’invalidazione di un accordo economicamente iniquo basterebbe ricorrere alla regola del buon costume, posto che « [i]l legislatore ha condannato il contratto contrario al buon costume per salvaguardare l’esigenza di colpire i contratti immorali, e i contratti lesivi della giustizia, dell’equità e della buona fede sono immorali »; si richiama all’ordine pubblico, invece, U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, cit., 195 ss. In senso contrario a entrambe le opinioni v. A. D’Angelo, Il contratto in generale, 4, cit., p. 222 ss. ( 99 ) Cfr., in tal senso, S. Zucchetti, sub art. 7, cit., p. 578, ove ulter. riferim. ( 100 ) In tal senso cfr. R. Sacco, L’abuso della libertà contrattuale, in Aa.Vv., Diritto privato 1997. III. L’abuso del diritto, Padova 1998, p. 217 ss., secondo cui « [r]egola di buona fede e divieto di abusare della libertà non sono entità né diverse, né lontane, né incompatibili » (ivi, 234). 590 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 parrebbe avventato parlare di un ritorno a quell’antica fusione sostanziale di equità e buona fede nel segno di un’idea di giustizia commutativa (101) che ancora traspariva nel pensiero di Domat (102). Ciò, se da un lato conferma la validità dell’orientamento oggi prevalente in ordine alla tradizionale questione dell’inclusione della buona fede nel novero delle fonti d’integrazione del contratto (103), non sembra richiedere d’altro canto un ripensamento della distinzione tra regole di validità e regole di comportamento (104), posto che i casi in cui la legge prevede l’invalidità del contratto iniquo appaiono riconducibili alla previsione di cui all’art. 1418, comma 3o, c.c. Possono rilevarsi, a questo punto, due generali linee di evoluzione del sistema. Da una parte, l’appiattimento del concetto di equità sulle regole di mercato sembra aver condotto a una sostanziale trasmutazione della stessa in una ( 101 ) Cfr. F.D. Busnelli, Note, cit., p. 537 s., ove riferim. sul punto. ( 102 ) J. Domat, Les loix civiles dans leur ordre natureln.e., I, Paris 1777, p. 24, dove si legge che « c’est par l’équité naturelle que l’associé est obligé de prendre soin de l’affaire commune, qui est en ses mains », risolvendosi dunque l’equità in una fonte di obblighi di correttezza (conf. G. Alpa, La completezza, cit., p. 223). ( 103 ) V. supra, nt. 65. Non è possibile soffermarsi in questa sede sui rapporti tra l’equità, la buona fede e il concetto di ragionevolezza, assunto come equivalente semantico della reasonableness di derivazione anglosassone, ossia come « indice di giustizia nell’applicazione delle leggi » (A. Ricci, La ragionevolezza nel diritto privato: prime riflessioni, in Contratto e impr., 2005, p. 630; cfr. anche U. Breccia, Fonti, cit., p. 397 s., che qualifica espressamente il concetto come clausola generale). Tale concetto è stato recentemente fatto oggetto d’indagine da parte di una dottrina, al fine d’individuarne uno spazio di autonomia: si è affermato, così, che ragionevolezza e buona fede tenderebbero bensì al medesimo risultato di giustizia, ma che mentre questa costituirebbe una regola etica di condotta, quella si caratterizzerebbe per una più spiccata oggettività, rinviando alla razionalità umana e a criterî di normalità sociale (cfr. A. Ricci, La ragionevolezza, cit., p. 644; amplius, S. Troiano, La « ragionevolezza » nel diritto dei contratti, Padova 2005, p. 458 ss. [per una sintesi, Id., « Ragionevolezza » e concetti affini: il confronto con diligenza, buona fede ed equità, in Obbl. contr., 2006, p. 679 ss.]; peraltro, se già da tale sistemazione emerge la labilità del criterio distintivo tra le due figure, ogni alterità sembra smarrirsi allorché si sostiene che, « [d]i fatto, la ragionevolezza è “misura” anche della buona fede, atteso che questa può essere invocata solo nei limiti di un suo ragionevole uso » [A. Ricci, La ragionevolezza, cit., p. 645]); che dal criterio della diligenza la ragionevolezza si distinguerebbe per il maggior grado di discrezionalità che questa lascia all’interprete, « arresta[ndosi] ad uno stadio di specificazione anteriore rispetto a quello espresso dalla indicazione normativa di precisi gradi di diligenza » (così S. Troiano, La « ragionevolezza », cit., p. 335 ss. e spec. p. 354, donde è tratta la citaz.; ma anche questa distinzione viene sminuita dal rilievo che la ragionevolezza è talvolta un equipollente della diligenza, mentre altre volte evoca un modello di condotta analogo a quello imposto dalla regola della buona fede [ivi, p. 189 ss.]); che, con riferimento all’equità, potrebbe parlarsi di una sostanziale coincidenza dei concetti quantomeno nelle ipotesi in cui la ragionevolezza è assunta a criterio di garanzia dell’equilibrio contrattuale (ivi, p. 443 ss.). Da ultimo, sul punto, v. S. Patti, La ragionevolezza nel diritto civile, in R. trim. d. proc. civ., 2012, p. 1 ss., in senso critico circa l’inclusione della ragionevolezza nel novero delle clausole generali (spec. ivi, p. 10 s.; tale saggio si ritrova ora in Id., Ragionevolezza, cit., p. 7 ss.). ( 104 ) Qualche essenziale riferim. sul punto è stato fornito sub nt. 66. SAGGI 591 clausola generale analoga a quella di buona fede (105). È ben nota la voce dottrinale che, quasi trent’anni or sono, constatava l’esigenza di liberare la buona fede da ogni commistione con l’equità (106), marcando il confine tra le due figure, che hanno bensì entrambe « la funzione di promuovere la piena realizzazione dello scopo del contratto » (107), ma mentre « questa funzione è adempiuta dal giudice, quando è costituito dalla legge ministro di equità, integrando o adattando il regolamento negoziale per conformarlo a esigenze di giustizia provenienti da circostanze di fatto peculiari, [...] il giudizio secondo buona fede svolge una valutazione del contratto alla stregua di tipi normali di comportamento riconosciuti come norme sociali, dai quali il giudice trae un criterio di interpretazione del regolamento negoziale oppure un criterio di esplicitazione di modalità esecutive » (108). Sennonché, l’aver adottato un concetto di equità in gran parte svincolato da quello di « giustizia del caso concreto », ha finito con l’investire la stessa equità della funzione — propria delle clausole generali — « di conservazione di aspettative fondate su modelli di condotta già consolidati dall’esperienza » (109) e, segnatamente, dalla pratica del mercato (110). Per altro verso, può constatarsi come la legislazione, assumendo l’equità giudiziale come regola di validità delle convenzioni, abbia fatto propria la tecnica sanzionatoria indicata da chi aveva delineato un intervento cogente dell’equità in funzione di ristrutturazione del regolamento contrattuale iniquo (111). È, quindi, attraverso lo strumento della nullità che il legislatore d’ispirazione comunitaria va oggi alla ricerca del « punto di equilibrio tra la tutela del mercato e la garanzia della persona, due sfere che la cultura sottostante al nostro codice civile riteneva, salvo casi limite, del tutto indipendenti ed autonome » (112). ( 105 ) A ciò si è già accennato sub nt. 65. ( 106 ) Si tratta, naturalmente, del pensiero di L. Mengoni, Spunti, cit., p. 8. ( 107 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 13. ( 108 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 13. Sulle clausole generali, v. inoltre — anche per ulter. riferim. — A. Guarneri, Clausole generali, in Dig. disc. priv. - sez. civ., II, Torino 1988, p. 403 ss.; più di recente, V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano 2010, ed E. Fabiani, voce Clausola generale, in Enc. dir., Ann., V, Milano 2012, p. 183 ss., ove ampia bibliografia. Da ultimo, S. Patti, L’interpretazione delle clausole generali, in questa Rivista, 2013, p. 263 ss. (nonché in Id., Ragionevolezza, cit., p. 33 ss.; ma v. pure, dello stesso A., Clausole generali e discrezionalità del giudice, in R. not., 2010, I, p. 303 ss., e ora anche in Studi Cataudella, III, Napoli 2013, p. 1693 ss.). ( 109 ) L. Mengoni, Spunti, cit., p. 14. ( 110 ) Il rilievo sembra essere condiviso da M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 87, secondo il quale, « [s]e è sulla base del mercato che l’integrazione del contratto secondo equità tende ad uniformarsi, la differenza tra questa e le clausole generali [...] si assottiglia notevolmente ». ( 111 ) Si tratta dell’opinione, più sopra riferita, di F. Gazzoni, Equità, cit., p. 324 ss. ( 112 ) Sono parole di N. Lipari, Per una revisione, cit., p. 735 s.; secondo tale A., il tema del « contratto giusto » rappresenta « il nervo scoperto dell’esperienza giuridica del nostro tempo » (ivi, p. 735). In merito a tale utilizzo della nullità, v. E. Navarretta, Causa e giustizia, cit., p. 425 ss., ove ulter. riferim.; più in generale, per una critica al ricorso eccessi- 592 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Sempre più numerose sono le epifanie normative dell’equità nell’ambito delle leggi speciali, anche fuori dal campo contrattuale. Per limitarsi ai provvedimenti più recenti — e a tacere delle disposizioni di carattere più marcatamente pubblicistico, fra cui quelle in tema di equità dei conti pubblici (113) o nell’accesso all’assistenza sanitaria (114), nonché di quelle (più prossime al terreno privatistico) informate al principio di equità retributiva (115) —, la figura in esame è evocata dall’art. 2, comma 1o, lett. p, l. 180/2011 nell’ambito dell’elencazione dei « principi generali [...] che concorrono a definire lo statuto delle imprese e dell’imprenditore ». In particolare, quest’ultima disposizione sancisce « il riconoscimento e la valorizzazione degli statuti delle imprese ispirati a principi di equità, solidarietà e socialità », anche al fine di « garantire alle imprese condizioni di equità funzionale operando interventi di tipo perequativo per le aree territoriali sottoutilizzate » (art. 2, comma 1o) (116). E l’equità, sub specie di « equità sociale », viene evocata in materia imprenditoriale anche dalla norma istitutiva del Fondo per la crescita sostenibile, di cui all’art. 23 d.l. 83/2006 (117), volto a « favorire la crescita sostenibile e la creazione di nuova occupazione nel rispetto delle contestuali esigenze di rigore nella finanza pubblica e di equità sociale, in un quadro di sviluppo di nuova imprenditorialità, con particolare riguardo al sostegno alla piccola e media impresa e di progressivo riequilibrio socio-economico, di genere e fra le diverse aree territoriali del Paese » (comma 1o). In ciò può forse ritrovarsi un’ulteriore conferma della vocazione « mercatista » dell’equità come strumento nelle mani del legislatore. Ma se anche oggi — specialmente con riferimento a disposizioni come quella del già evocato art. 7 d. legisl. 231/2002 — si possono replicare le parole di chi, oltre vamente « disinvolto » alla nullità da parte del legislatore, v. E. Lucchini Guastalla, Nullità della compravendita immobiliare per contrarietà a norma regionale: il caso della certificazione energetica, in Studi Lipari, I, Milano 2008, p. 1451 ss., nonché — da ultimo — Id., Il contratto, cit., p. 325. ( 113 ) Si veda, da ultimo, il d.l. 201/2011 (conv. con l. 214/2011) recante « Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici ». ( 114 ) Il riferimento è all’art. 5, comma 1o, d.l. 158/2012 (conv. con l. 189/2012) recante « Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute ». ( 115 ) Si veda la l. 233/2012 in tema di « Equo compenso nel settore giornalistico ». ( 116 ) Con particolare riferimento alle micro, piccole e medie imprese situate in « aree sottoutilizzate », l’art. 16, comma 4o, stabilisce che « lo Stato garantisce [...] l’adozione di misure volte a garantire e rendere più effettivo il principio di equità e di libera concorrenza nel pieno rispetto della normativa dell’Unione europea ». ( 117 ) Tale provvedimento, recante « Misure urgenti per la crescita del Paese », è stato conv. con l. 134/2012. Il Fondo da esso istituito è « destinato [...] al finanziamento di programmi e interventi con un impatto significativo in ambito nazionale sulla competitività dell’apparato produttivo », con riguardo — fra l’altro — alla « promozione di progetti di ricerca, sviluppo e innovazione di rilevanza strategica per il rilancio della competitività del sistema produttivo » (comma 2o). SAGGI 593 trent’anni fa, rilevava come « l’idea di un’ampia ed autentica libertà del singolo imprenditore molto spesso sia più apparente che reale » (118), potendo il giudice sindacare l’equilibrio contrattuale raggiunto dagli agenti economici nell’esercizio della propria autonomia, non deve dimenticarsi che tale sindacato è ancora confinato entro ben precisi settori dell’ordinamento (119) e nel ( 118 ) G. Iudica, Autonomia dell’imprenditore privato e interventi pubblici, Padova 1980, p. 83. ( 119 ) Non mancano, peraltro, voci favorevoli a un’estensione della tutela dell’equilibrio contrattuale a favore dei « contraenti deboli » oltre i settori specifici interessati dalla normazione in esame, per il tramite di un’interpretazione evolutiva dell’art. 1366 c.c.: così F.D. Busnelli, Note, cit., p. 552; cfr. anche F. Criscuolo, Il giudizio dell’arbitro di equità e l’equità del contratto, nota ad Arb. Genova 31 maggio 2001, in R. arbitrato, 2001, p. 762 ss. e spec. p. 768 s. Più di recente, si è ipotizzata — peraltro con espressa riserva di ulteriore approfondimento — la configurabilità di « un’azione residuale, volta a punire con la nullità ogni contratto che palesemente non sia espressione di autonomia in senso sostanziale [...] non solo per le condizioni in cui è stato concluso, ma anche per lo squilibrio a danno della parte debole che esso esprime » (così A.M. Garofalo, La causa del contratto tra meritevolezza degli interessi ed equilibrio dello scambio, in questa Rivista, 2012, II, p. 612). L’opinione si fonda, sul piano normativo, sul combinato disposto degli artt. 1325, n. 1, e 1418, comma 2o, c.c. e, sotto il profilo teorico, su un concetto soggettivistico di accordo in base al quale « esso dovrebbe ritenersi assente ogni qual volta uno dei paciscenti, stante la sua poca preparazione tecnica, non abbia realisticamente potuto formarsi un convincimento circa il regolamento contrattuale che ha pur mostrato di approvare e che però risulta palesemente lesivo, senza che si possano applicare norme legislative volte a correggere la situazione di squilibrio creatasi » (ibid.). A tale impostazione, per quanto espressa in forma solo embrionale, sembra potersi muovere due fondamentali rilievi (e ciò a tacer d’altro, come la difficoltà d’immaginare un’azione di nullità esperibile soltanto in assenza di altri rimedî volti alla rimozione del vincolo, o di ricondurre lo squilibrio economico del contratto all’area dell’accordo e non invece a quella della causa, come parrebbe forse più plausibile — e v. sul punto i già evocati contributi di U. Breccia, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 3, cit., p. 71 ss., ed E. Navarretta, Causa e giustizia, cit., p. 425 ss.). In primo luogo, essa appare riportarsi — propugnando un assoluto soggettivismo nell’apprezzamento dell’accordo contrattuale — alla nota concezione volontaristica del negozio giuridico (sostenuta, nella sua accezione più « pura », da F.C. v. Savigny, Sistema del diritto romano attuale [trad. it.], III, Torino 1900, p. 342, e da B. Windscheid, Diritto delle pandette [trad. it.], I, Torino 1930 [rist.], p. 203 s. [nel testo e in nt.]; per le origini di tale impostazione — dall’emersione dell’elemento interiore nei documenti negoziali medievali fino alla scuola storica tedesca, passando attraverso il pensiero giusnaturalista —, v. F. Calasso, Il negozio giuridico2, Milano 1959, p. 113 ss. e spec. pp. 122 ss. e 329 ss.), concezione definitivamente superata dall’elaborazione dottrinale di tale figura e dallo stesso diritto vigente, in favore di una di tipo obbiettivo (v., anche per riferim., R. Scognamiglio, voce Negozio giuridico. I) Profili generali, in Enc. giur. Treccani, XX, Roma 1990, p. 4 s.; V. Scalisi, Il negozio giuridico tra scienza e diritto positivo, Milano 1998, p. 14 ss.; amplius, G.B. Ferri, Il negozio, cit., p. 43 ss. e p. 200 ss.). In particolare, l’impostazione dell’A. sembra rievocare, aderendovi, la c.d. teoria della volontà, secondo cui la fattispecie negoziale dovrebbe ricostruirsi alla sola stregua della volontà del soggetto e non già con riferimento alla sua dichiarazione, che rappresenterebbe soltanto un segno accidentalmente necessario mediante il quale la volontà stessa — « unico elemento importante ed efficace » — viene esteriorizzata (v., per tutti, F.C. v. Savigny, Sistema, cit., p. 342, donde è tratta la citaz. preced.; amplius, B. Windscheid, Wille und Willenserklärung, in Arch. f. d. civil. Praxis, 1880, p. 72 ss. [di tale studio riferisce ampiamente V. Scialoja, Volontà e dichiarazione di 594 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 volontà, in G. it., 1880, IV, p. 36 ss.]; celebre è la critica mossa a questa impostazione da E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico2, Torino 1952 [rist. corr.], pp. 51 ss. e 166 ss.; cfr. pure, sempre in senso critico, A. Passerin d’Entreves, Il negozio giuridico, Torino 1934 [rist. Torino 2006], p. 77 ss. e spec. p. 95 ss.). Sennonché, come detto, lo stesso diritto positivo, in un’ottica di tutela dell’affidamento, mostra di fondare l’accordo (e, più in generale, la fattispecie negoziale) sulla dichiarazione di volontà, limitando a poche ipotesi tassative la rilevanza del contrasto fra tale dichiarazione e l’interno volere del soggetto, o fra l’interno volere correttamente dichiarato ma viziato e quello che si sarebbe formato in condizioni corrette d’informazione e ponderazione (sul punto v. ampiamente V. Pietrobon, Errore, volontà e affidamento nel negozio giuridico, Padova 1990, p. 1 ss. e spec. p. 29 ss.): di fronte a ciò, la dottrina ha da tempo dovuto « rompere un sogno che si svolge così leggiadramente sulle ali del dogma » (D. Barbero, Empirismo e dogmatica nel diritto, in Scritti Carnelutti, I, cit., p. 264), riconoscendo il tendenziale sacrificio del principio della volontà laddove la volontà dichiarata e quella interna non coincidano — ciò che non accade, peraltro, nei casi « normali » — (v. per tutti R. Sacco[-P. Cisiano], Il fatto, l’atto, il negozio, in Tratt. Sacco, Torino 2005, p. 356 ss. e spec. p. 365 ss., ove il rapporto fra i principî della volontà e della dichiarazione è delineato in termini non già di contrapposizione, ma di ausiliarietà del secondo rispetto al primo, in nome della tutela dell’affidamento e del coessenziale principio di autoresponsabilità), se non addirittura costruendo l’accordo, di cui all’art. 1325, n. 1, c.c., in termini di mera conformità tra le autonome dichiarazioni di proposta e accettazione (è il caso delle c.d. teorie analitiche del contratto, su cui v. per riferim. F. Realmonte, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 2, in Tratt. Bessone, XIII, Torino 2000, p. 6 s.). L’opinione in esame, in definitiva, sembra svalutare eccessivamente il generale principio di solidarietà, in base al quale l’ordinamento impone al dichiarante l’assunzione del rischio per l’affidamento incolpevole del destinatario della dichiarazione (v. almeno, sul punto, F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile9, Napoli 1966, p. 145 ss. e spec. p. 148, ove si precisa che — trattandosi di un « rischio non per la dichiarazione in sé, sibbene per l’affidamento, che essa sia obiettivamente idonea a determinare [...] e determini in concreto » [ivi, p. 148] —, se tale affidamento non sorga o sorga per colpa dell’interessato, non vi è ragione di sacrificare la volontà che sta dietro la dichiarazione [ibid., testualmente]; tale considerazione, tuttavia, attiene al caso in cui tra volontà e dichiarazione sussista un contrasto, e non al caso differente — cui fa riferimento la tesi qui in esame — in cui la volontà sia correttamente dichiarata, ma risulti « viziata » da scarsa informazione o ponderazione, o risulti economicamente sconveniente per il contraente). In secondo luogo, l’opinione in esame finisce con l’attrarre nell’area della nullità anche fattispecie che, invece, appaiono sostanzialmente omogenee alla casistica normativa in tema di vizî del volere (in particolare, errore e dolo) e che, ove considerate a quest’ultima stregua, potrebbero non presentare nemmeno i requisiti necessarî a determinare l’annullabilità del contratto (è il caso dei c.d. vizî incompleti, su cui cfr. M. Mantovani, « Vizi incompleti » del contratto e rimedio risarcitorio, Torino 1995, p. 187 ss.), cosicché la tutela del contraente « svantaggiato » potrebbe risiedere soltanto nella responsabilità precontrattuale della controparte (oggi generalmente riconosciuta anche nel caso in cui le parti siano pervenute alla conclusione di un valido contratto: v. almeno, sul punto, G. Patti, in G. Patti-S. Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard [artt. 1337-1342], in Comm. Schlesinger, Milano 1993, p. 95 ss.; M. Mantovani, « Vizi incompleti », cit., p. 135 ss.; L. Rovelli, in Aa.Vv., Il contratto in generale, 2, cit., p. 301 ss.; R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 248 s.; in senso critico, G. D’Amico, La responsabilità precontrattuale, in Tratt. Roppo, V, Milano 2006, p. 1007 ss.), la quale abbia silenziosamente approfittato della « poca preparazione tecnica » della controparte (per usare le parole di A.M. Garofalo, La causa, cit., p. 612) violando il dovere d’informazione discendente dall’art. 1337 c.c. (su cui cfr. M. Mantovani, « Vizi incompleti », cit., p. 227 ss., ove ulter. riferim.; R. Sacco, in R. Sac- SAGGI 595 ristretto ambito dei puntuali richiami di legge all’equità giudiziale (120). Né appare opportuno, di fronte al dubbio nascente dall’interrogativo circa quale equità sia idonea a soddisfare la relativa domanda nell’attuale momento storico (121), muovere verso un concetto di equità diverso da quello codicistico. Il modello economico liberista-concorrenziale, cui sono sostanzialmente ispirati i numerosi rinvii normativi all’equità, non sembra infatti versare in una crisi di legittimazione tale da richiedere un radicale ripensamento della portata sostanziale di essi: a prescindere dalle suggestioni della cronaca (122), la dottrina economica non sembra giustificare, infatti, sguardi eccessivamente allarmati nei confronti del modello del libero mercato (123). Pare quindi improbabile che la deflagrazione, vaticinata da chi aveva letto nei « sussurri e fremiti » dottrinali in tema di equità il « presagio di un’esploco-G. De Nova, Il contratto, cit., II, p. 257 ss., secondo cui « la buona fede impone di illuminare la controparte » [ivi, p. 258]; contra G. D’Amico, La responsabilità, cit., p. 1025 ss.). Del resto, l’antica opinione che vedeva nelle regole di risarcimento un eccezionale correttivo alle regole di validità è oggi generalmente rifiutata, riconoscendosi anzi alle prime una portata generale e alle seconde il ruolo di « limitazioni alla regola generale di correttezza, introdotte per garantire la certezza sull’esistenza dei fatti giuridici » (così V. Pietrobon, Errore, cit., p. 117 ss., donde è tratta anche la citaz. preced. [ivi, p. 118]; cfr. inoltre R. Sacco[-P. Cisiano], Il fatto, cit., p. 369, ove nella regola di cui all’art. 1337 c.c. viene ritrovato il limite generale alla possibilità d’invocare il principio dell’affidamento). ( 120 ) In tal senso, da ultimo, cfr. M. Franzoni, Buona fede, cit., p. 89 (« l’equità si pone come criterio residuale di integrazione del contratto solo quando il legislatore abbia espressamente fatto ad essa riferimento »); conf. V. Varano, Equità, cit., p. 7. Non sembra potersi prendere troppo sul serio, quindi, la provocazione di G. Amadio, Nullità, cit., p. 253 s., il quale ha paventato che il passo sia breve dal giudizio di iniquità avente ad oggetto una pattuizione riproduttiva della disciplina legale al diretto sindacato giudiziale dell’equità di quest’ultima — con sua conseguente disapplicazione — anche in difetto di una sua trasposizione pattizia: in contrario, infatti, è agevole osservare che la legge séguita a consentire tale sindacato con esclusivo riferimento ai prodotti dell’autonomia contrattuale. ( 121 ) Il riferimento è, naturalmente, a S. Rodotà, Quale equità?, cit. ( 122 ) Sulla percezione psicologica della recente crisi finanziaria da parte dei cittadini statunitensi, v. A.S. Deaton, The financial crisis and the well-being of Americans, in National Bureau of Economic Research Working Paper Series, consultabile alla pagina internet http://www.nber.org/papers/w17128; v. inoltre, sulla polarizzazione ideologica della popolazione come conseguenza della crisi, A. Mian-A. Sufi-F. Trebbi, Resolving Debt Overhang: Political Constraints in the Aftermath of Financial Crises, consultabile all’indirizzo http:// faculty.arts.ubc.ca/ftrebbi/research/mst4.pdf. ( 123 ) Anche di recente non si è mancato di rilevare, da un lato, gli influssi negativi sulla crescita economica dell’intervento pubblico in economia (sugli effetti nefasti della difesa dei c.d. campioni nazionali, cfr. K. Fogel-R. Morck-B. Yeung, Big business stability and economic growth: Is what’s good for General Motors good for America?, in Journ. of Financial Econ., 2008, p. 83 ss.) e, dall’altro lato, gli effetti benèfici sulla stessa crescita della liberalizzazione dei mercati finanziarî e della loro concorrenzialità (R. Levine, International Financial Liberalization and Economic Growth, in Rev. of Intern. Econ., 2001, p. 688 ss.; R.M. Stulz, The Limits of Financial Globalization, in Journ. of Finance, 2005, p. 1595 ss.). In generale, circa l’incidenza delle istituzioni economiche sulla crescita, v. D. Acemoglu-S. Johnson-J.A. Robinson, Institutions as a Fundamental Cause of Long-Run Growth, in Aa.Vv., Handbook of Economic Growth, 1A, Amsterdam, 2005, p. 385 ss. 596 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 sione che, prima o poi, dovrà verificarsi » (124), avvenga in breve tempo. E, d’altra parte, l’equità giudiziale del nostro tempo non deve far temere pericolose « individualizzazioni giudiziarie » del diritto privato (125) — una deriva paventata già dall’autore del celebre aforisma « optima est lex, quae minimum relinquit arbitrio iudicis » (126). È ormai trascorso più di un secolo da che si è affermato che « l’equità non è e non può essere un fatto puramente arbitrario, quantunque in casi singoli possa condurre ad arbitrî ed a confusioni » (127), e tale osservazione vale oggi, a fortiori, per l’equità evocata dal nostro diritto positivo, la quale si risolve nel rinvio alle regole del mercato (128). Se essa seguiterà a costituire — come fu detto, non senza un tratto di affettuosa simpatia — « una specie di piccolo scandalo agli occhi del puro giurista » (129), ciò non potrà dipendere che da un più o meno grave difetto d’inquadramento. ( 124 ) S. Rodotà, Quale equità?, cit., p. 47. ( 125 ) L’espressione è di F. Geny, Méthode, cit., I, p. 213. Questo timore è stato espresso da P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, c. 231, il quale ha evocato « lo spettro dell’introduzione nel nostro sistema di una figura generale di “contratto a prestazioni squilibrate”, con il rischio che i giudici si sentano legittimati a sindacare in via pregiudiziale la “equità” di qualsiasi pattuizione, per verificare se le prestazioni a carico delle parti possano o meno giudicarsi “proporzionate”, mettendo a confronto i sacrifici sostenuti o promessi da ciascuna di esse », ed ha auspicato una rapida e rigida tipizzazione del concetto di squilibrio, alla quale dovranno provvedere dottrina e giurisprudenza, « rifiutandosi comunque di concedere rilievo a qualsiasi ipotesi di asserita mancanza di equivalenza economica delle prestazioni sinallagmatiche, ove il supposto divario non raggiunga confini di particolare rilievo » (ibid.). Di diverso avviso appare N. Lipari, Per una revisione, cit., p. 736, secondo il quale, « in un momento in cui il contratto tende sempre più a diventare modello di governo della società, [...] il diritto non può [...] limitarsi, negando se stesso, a ratificare i rapporti di forza consumati nel mercato e deve farsi carico di una gerarchia di valori intorno ai quali ruota l’equilibrio stesso della convivenza civile » (cors. agg.); analogam. C.M. Bianca, Diritto civile. 3, cit., p. 494. Cfr. sul punto anche R. Sacco, L’abuso, cit., p. 232 s. ( 126 ) F. Bacon, De dignitate et argumentis scientiarum, VIII, in The works of Francis Bacon, III, Boston s.a., p. 151. Il motto (collocato nella sez. De Curiis Praetoriis et Censoriis dell’Exemplum Tractatus de Justitia Universali, sive de Fontibus Juris, in uno titulo, per Aphorismos [aforisma XLVI]) prosegue con le parole « optimum judex, qui minimum sibi ». Del resto, che l’equità sia « una specie di un genere più ampio che è il potere discrezionale » è stato affermato anche in tempi più recenti da C. Goretti, Il valore delle massime di equità, in Scritti Carnelutti, I, cit., p. 310. ( 127 ) V. Miceli, Sul principio, cit., p. 87. ( 128 ) Anziché di « tecnica sanzionatoria individualizzante » (F. Gazzoni, Manuale, cit., p. 799) parrebbe quindi più corretto parlare di rinvio, ai fini della determinazione della regola di validità degli accordi, a criterî desumibili dalla prassi del mercato. ( 129 ) V. Miceli, Sul principio, cit., p. 86, laddove per « puro giurista » ben potrebbe intendersi il giudice tratteggiato da H.U. Kantorowicz, La lotta per la scienza del diritto (trad. it.), Milano-Palermo-Napoli 1908, p. 57 (« un alto funzionario governativo, materiato di coltura accademica, chiuso nella sua cella ed armato soltanto d’una finissima macchina pensante. Unico mobile, uno scrittoio sul quale gli sta davanti il Codice statale della legge. Càpita un caso qualunque, autentico o soltanto immaginato; ed eccolo, in adempimento al dover suo, risolverlo mercé operazioni schiettamente logiche e d’una tecnica riposta, da lui solo intelligibile, conforme le decisioni del Codice stesso, predeterminate dal legislatore »). Oriana Clarizia Ricercatore nell’Università « Federico II » di Napoli INNOVAZIONI E PROBLEMI APERTI ALL’INDOMANI DEL DECRETO LEGISLATIVO ATTUATIVO DELLA RIFORMA DELLA FILIAZIONE Sommario: 1. L’unicità dello stato di figlio quale principio ispiratore della riforma. — 2. Segue: dall’esercizio della potestà alla nozione, più ampia ed unitaria, di responsabilità genitoriale. Il novellato art. 317 bis c.c.: non più norma sull’esercizio della potestà nei confronti dei figli naturali bensì precetto a tutela del diritto degli ascendenti di mantenere rapporti significativi con i nipoti minorenni. — 3. Rimodulazione della disciplina dell’azione di disconoscimento della paternità e dei termini di decadenza per il suo esercizio nel segno di un progressivo ampliamento delle occasioni di accertamento della verità biologica. Imprescrittibilità dell’azione in ipotesi di proposizione da parte del figlio e superamento del limite temporale di esercizio. — 4. La disciplina del riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio (art. 250 c.c.): il procedimento di riconoscimento in ipotesi di opposizione del genitore che abbia effettuato il riconoscimento. — 5. L’autorizzazione del giudice al riconoscimento della filiazione c.d. incestuosa e coordinamento con la tutela dettata, in sede successoria, dagli artt. 580 c.c. e 594 c.c.: residua applicazione ai figli riconoscibili ma non riconosciuti. — 6. Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità da parte dell’autore consapevole della sua falsità (art. 263 c.c.). Mancata scelta legislativa e soluzione in favore di un contemperamento tra esigenze di certezza dello status filiationis e diritto del minore alla conoscenza della propria identità biologica. — 7. Accertamento della maternità e diritto all’anonimato materno ex art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396. Pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo, 25 settembre 2012 (Godelli c. Italia): contrasto tra la normativa italiana in materia di accesso dell’adottato alle informazioni relative alla propria madre e l’art. 8 Cedu. Sentenza della Corte costituzionale, 22 novembre 2013, n. 278: diniego dell’accesso alle informazioni sulle proprie origini e incostituzionalità del mancato accertamento concernente la persistenza della volontà materna di non essere nominata. Opportunità di una riforma legislativa in grado di contemperare il diritto all’anonimato della madre biologica con la tutela dei diritti inviolabili del figlio. 1. — La recente riforma legislativa (l. delega 10 dicembre 2012, n. 219, « Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali » e d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 — in vigore dal 7 febbraio 2014 — « Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della l. 10 dicembre 2012, n. 219 ») (1) segna il raggiungimento di importanti traguardi ( 1 ) In aggiunta alla bibliografia citata nelle note successive, cfr. M. Bianca (a cura di), Filiazione. Commento al decreto attuativo, Milano 2014; R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia. La riforma della filiazione, Napoli 2014; Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali in materia di filiazione, Napoli 2014; Aa.Vv., La riforma del diritto della filiazione (l. n. 219/12), in Nuove l. civ. comm., 2013; T. Auletta, Diritto di famiglia. Appendice di aggiornamento alla legge 10 dicembre 2012, n. 219, Torino 2013; P. 598 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 nel percorso verso l’affermazione di una disciplina della filiazione attenta all’evoluzione sociale e non condizionata dalle modalità istitutive del vincolo familiare (2). Fedele al perseguimento dell’obiettivo della piena attuazione del principio di eguaglianza, la novella sancisce, quale principio ispiratore dell’intera riforma, l’unicità dello status di figlio (art. 315 c.c.) (3), a prescindere se il fondamento della filiazione consista nel matrimonio, in convivenze su di esso non basate (4) ovvero, ancóra, in vincoli affettivi conseguenti al ricorso alla procedura della procreazione medicalmente assistita (5). Eloquenti, al riCorder, Note in tema di procedimenti di famiglia e minorili alla luce dell’entrata in vigore della legge n. 219/2012, in Rass. d. civ., 2014, p. 126 ss.; M. Dossetti, Finalità, struttura e contenuto della l. 10 dicembre 2012, n. 219, nonché Ead., Termini, strumenti, princìpi della delega, in Ead., M. Moretti e C. Moretti, La riforma della filiazione. Aspetti personali, successori e processuali, Bologna 2013, rispettivamente pp. 11 ss. e 74 ss. e G. Paesano, Brevi riflessioni a margine della legge n. 219 del 10 dicembre 2012, in Corti salernitane, 2013, p. 51 ss. ( 2 ) Per uno studio attento, critico e problematico dell’incidenza della giurisprudenza costituzionale sulla disciplina delle azioni di stato e sul cammino verso la parità tra la filiazione naturale e quella fuori dal matrimonio cfr., ampiamente, S. Pagliantini, Princìpi costituzionali e sistema della filiazione, in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, Napoli 2006, p. 507 ss. Sulla pari dignità dei modelli familiari diffusi in Europa, con particolare attenzione alla giurisprudenza delle Corti di Strasburgo e di Lussemburgo, V. Scalisi, « Famiglia » e « famiglie » in Europa, in questa Rivista, 2013, p. 7 ss., nonché Id., Le stagioni della famiglia nel diritto dall’unità d’Italia a oggi. Parte prima: dalla « famiglia-istituzione » alla « famiglia-comunità »: centralità del « rapporto » e primato della « persona », ivi, p. 1043 ss. Sul tema, in generale, F. Prosperi, La famiglia nell’ordinamento giuridico, in D. fam., 2008, p. 790 ss.; G. Stanzione, Rapporti di filiazione e terzo genitore: le esperienze francese e italiana, in Fam. e d., 2012, p. 201 e A. D’Angelo, La famiglia nel XXI secolo: il fenomeno delle famiglie ricomposte, in D. Amram e A. D’Angelo (a cura di), La famiglia e il diritto fra diversità nazionali e iniziative dell’Unione Europea, in I quaderni della Rivista di diritto civile, 2011, p. 91 ss. ( 3 ) Sul tema M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e sistema dello stato civile, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 323 e M. Bianca, La riforma della filiazione (l. 10 dicembre 2012, n. 219). Tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico, in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, in Nuove l. civ. comm., cit., p. 507 ss. Sulla prioritaria esigenza, perseguita dalla riforma, di garantire la superiorità dell’interesse del minore ad un sano ed armonico sviluppo psico-fisico, G. Ballarani e P. Sirena, Il diritto dei figli di crescere in famiglia e di mantenere rapporti con i parenti nel quadro del superiore interesse del minore, ivi, p. 534 ss. ( 4 ) Cass., 11 gennaio 2013, n. 601, in F. it., 2013, I, c. 1193 ss., con nota di richiami di G. Casaburi, esclude la preconcetta ammissione di pregiudizi per il minore che, in séguito all’affidamento ad uno soltanto dei genitori, viva in una famiglia incentrata su un’unione omosessuale, precisando che « alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pregiudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale. In tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino, che dunque correttamente la Corte d’appello ha preteso fosse specificamente argomentata ». ( 5 ) Con sentenza del 9 aprile 2014 (ad oggi in attesa di pubblicazione in Gazzetta Uffi- SAGGI 599 guardo: la novella dell’art. 315 c.c., rubricato « Stato giuridico della filiazione » (6), che esplicita il principio secondo il quale « tutti i figli hanno lo stesso stato giuridico » (7) e la disciplina dettata dal comma 11o dell’art. 1 della legge delega, la quale elimina residue discriminazioni terminologiche precisando che, nel codice civile, i sintagmi « figli legittimi » e « figli naturali », ovunque ricorrono, sono sostituiti dall’espressione « figli ». A ciò si aggiunge la delega (ex art. 2, comma 1o, lett. a) conferita al Governo al fine di procedere alla predetta sostituzione in tutta la legislazione vigente (« salvo l’utilizzo delle denominazioni di “figli nati nel matrimonio” o di “figli nati fuori del matrimonio” quando si tratta di disposizioni ad essi specificamente relative »); delega attuata da molteplici articoli del decreto legislativo che modificano le norme del codice civile (8) e di leggi speciali (9) sopprimendo, accanto alle parole ciale), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di fecondazione eterologa (art. 4, comma 3o, l. 19 febbraio 2004, n. 40) e della sanzione amministrativa pecuniaria prevista da tale legge in ipotesi di utilizzo, a fini procreativi, di gameti di soggetti estranei alla coppia richiedente (art. 12, comma 1o, l. n. 40/2004). Osserva M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del 2012. The Equality of the Legal Status of Children under the Recent Law No. 219 of 2012, in Giust. civ., 2013, p. 207, che « l’uguaglianza dei figli proclamata nel 2012 appare definitivamente sganciata dallo status dei genitori o della famiglia, e proprio per queste ragioni si tratta di un’uguaglianza che riguarda esclusivamente lo status filiationis, quale status della persona umana, la cui situazione di parità non risulta più condizionata dall’appartenenza a questa o a quella comunità familiare, o a comportamenti che riguardano o hanno riguardato i genitori ». ( 6 ) La precedente formulazione di tale articolo (rubricato « Doveri del figlio verso i genitori ») così disponeva: « Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa ». ( 7 ) Tale norma rappresenta « una svolta epocale nel diritto della filiazione », in quanto « realizza quella separazione tra filiazione e matrimonio in forza della quale la condizione giuridica del figlio è tutelata in ogni ordine di rapporti come valore autonomo e indipendente dal vincolo eventualmente esistente tra i genitori » (così G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione. Profili sostanziali, in Corr. giur., 2013, p. 527). È pur vero però — come precisato da L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 207 — che, specie con riferimento alle diverse norme in materia di azioni di stato, la differenza tra filiazione legittima e naturale permane, pur nascosta da etichette nuove, sì che « l’unicità della categoria di “figlio” non è effettiva » (corsivo originale). In favore di una piena equiparazione tra figli, F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, a cura di G. Perlingieri, Napoli, I, 2010, p. 924; G. Morani, L’inadeguata tutela della prole nata fuori dal matrimonio nel nostro ordinamento, in D. fam., 2012, p. 478 ss. e C.M. Bianca, Verso un più giusto diritto di famiglia, in Iustitia, 2012, p. 237 ss., nonché Id., La riforma della filiazione: alcune note di lume, in Giust. civ., 2013, p. 439 ss. Pone l’accento sullo status personae, piuttosto che sullo status familiae, G. Biscontini, La filiazione legittima, in Il diritto di famiglia, III, Famiglia e adozione, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, 2a ed., Torino 2007, p. 14 ss. ( 8 ) Cfr. gli artt. del decreto legislativo numeri: 1, 7, 11, 23, 24, 25, 26, 27, 30, 31, 32, 33, 34, 36, 37, 65, 67, 68, 70, 71, 72, 73, 74, 75, 78, 79, 80, 81, 82, 83, 85, 87, 89. ( 9 ) In tale direzione v., del recente decreto legislativo, gli artt.: 93 (« Modifiche al codi- 600 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 « figlio o figli », le qualificazioni « legittimo-legittimi », « naturale-naturali », prevedendo altresì, ove necessario, la sostituzione di tali espressioni con le formule « nato fuori del matrimonio » e « nato nel matrimonio ». Affermata la piena eguaglianza, l’abrogazione sia dell’istituto della legittimazione — per effetto dell’art. 1, comma 10o, l. n. 219 del 2012 (10) — sia, successivamente, dell’art. 261 c.c. (11) (per opera dell’art. 106, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154) rappresenta una scelta coerente e condivisibile, stante l’esigenza di evitare, in ragione dell’affermazione dell’unificazione dello stato di figlio, la sussistenza di norme riferibili unicamente al legame tra genitori e figli nati al di fuori del matrimonio. Conforme alla ratio sottesa all’intervento riformatore e alle finalità di parità di trattamento si rivela il novellato art. 74 c.c. (12), il quale — di là dalle problematiche legate al divieto del vincolo di parentela naturale in ipotesi di adozioni di persone maggiori d’età (13) — introduce la configurabilità di rapce penale in materia di filiazione »); 96 (« Modifiche al regio decreto 30 marzo 1942, n. 318 », recante Disposizioni per l’attuazione del codice civile e disposizioni transitorie), comma 1o, lettere e, f, g, h; 98 (« Modifiche alla legge 1o dicembre 1970, n. 898 », in materia di Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), comma 1o, lettera c; 100 (« Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184 », concernente il Diritto del minore ad una famiglia), comma 1o, lettere i, n, o, q, r, s, t, dd; 101 (« Modifiche alla legge 31 maggio 1995, n. 218 », in tema di Riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), comma 1o, lettere b ed e; 102 (« Modifiche alla legge 19 febbraio 2004, n. 40 », recante Norme in materia di procreazione medicalmente assistita); 103 (« Modifiche al decreto legislativo 3 febbraio 2011, n. 71 », concernente l’Ordinamento e funzioni degli uffici consolari), comma 1o, lettere a e b. ( 10 ) In particolare: l’art. 1, comma 10o, l. n. 219 del 2012, abroga la sezione II del capo II del titolo VII del libro I del codice civile; l’art. 2, comma 1o, lett. b, sancisce, tra i princìpi e i criteri direttivi concernenti la modifica del titolo VII, l’abrogazione delle disposizioni che rinviano all’istituto della legittimazione; l’art. 105, comma 4o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, prevede che « le parole “figli legittimati”, “figlio legittimato”, “legittimato”, “legittimati” ovunque presenti in tutta la legislazione vigente, sono soppresse ». Dubbi sulla compatibilità dell’istituto della legittimazione con l’assetto costituzionale, prima della riforma, in A. Ciatti, in Id. (a cura di), Famiglia e minori, Torino 2010, p. 273 s. ( 11 ) Tale articolo (rubricato « Diritti e doveri derivanti al genitore dal riconoscimento ») prevedeva che « il riconoscimento comporta da parte del genitore l’assunzione di tutti i doveri e di tutti i diritti che egli ha nei confronti dei figli legittimi ». ( 12 ) Secondo il quale « la parentela è il vincolo tra le persone che discendono da uno stesso stipite, sia nel caso in cui la filiazione è avvenuta all’interno del matrimonio, sia nel caso in cui è avvenuta al di fuori di esso, sia nel caso in cui il figlio è adottivo. Il vincolo di parentela non sorge nei casi di adozione di persone maggiori di età, di cui agli articoli 291 e seguenti ». Sulle interpretazioni concernenti la precedente formulazione, M. Sesta, I disegni di legge in materia di filiazione: dalla diseguaglianza all’unicità dello status, in Fam. e d., 2012, p. 962 ss. Sulle novità della riforma, A. Cagnazzo, Come cambia la parentela, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 63 ss. ( 13 ) Sul punto A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, in questa Rivista, 2013, p. 258, nonché L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 203, il quale rileva che « la disparità di trattamento è in linea di principio ingiustificabile » soprattutto quando l’adozione avviene subito dopo il compimento del diciottesimo anno di età a conclusione di SAGGI 601 porti di parentela tra il figlio naturale e la famiglia del genitore, collegando la parentela al fatto procreativo e non già al matrimonio (14) e consentendo l’instaurazione di vincoli giuridici per le persone discendenti da un medesimo stipite senza che il carattere legittimo oppure naturale della filiazione rilevi. Risultati di tenore analogo si raggiungono in materia di estensione degli effetti del riconoscimento ai parenti del genitore naturale che lo ha effettuato (art. 258 c.c.): l’art. 1 della legge delega, nel sostituire il primo comma dell’art. 258 c.c., determina la costituzione di rapporti di parentela tra il figlio naturale e la famiglia del genitore che lo ha riconosciuto. Così facendo, la riforma esplicita i contenuti che autorevole dottrina, al fine di evitare una « lettura “distorta” », desumeva implicitamente dalla previgente disciplina, rilevando che « la definizione codicistica di “parentela”, anche prima della legge del 2012, implicitamente ammetteva che anche i figli naturali avessero dei parenti » (15). Quanto detto dimostra che l’introduzione del principio dell’unicità dello stato di figlio, se da un lato consente il superamento di arbitrarie discriminazioni tra figli legittimi e figli naturali, fondate su un preconcetto rilievo soltanto dei primi, dall’altro conferma l’esistenza, nel nostro ordinamento, di una lunga vicenda di affidamento, risolta in adozione per i motivi più vari. La diversità di trattamento appare invece giustificabile all’a. quando l’adottato svolge un’attività di aiuto dell’adottante: « in questi casi si dovrebbe piuttosto riflettere, più in generale, sull’opportunità stessa di impiegare un istituto come l’adozione, ove il soggetto istituzionalmente oggetto di protezione è l’adottato ». ( 14 ) Sul tema, cfr. l’analisi di G. Frezza, Gli effetti del riconoscimento (art. 258 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 4o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 493 ss. Esclude che il concetto di parentela si sovrapponga a quello di famiglia legittima F. Prosperi, Àmbito di rilevanza della parentela naturale e successione tra fratelli naturali, in Rass. d. civ., 1980, p. 1146 ss., nonché in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, Napoli 1982, p. 184. In favore della rilevanza giuridica della parentela naturale, Id., La famiglia « non fondata sul matrimonio », Napoli 1980, pp. 115 ss. e 117 s.; U. Majello, Filiazione naturale e comunità familiare, in D. e giur., 1983, p. 12, ove si precisa che « il principio di eguaglianza sancito dall’art. 3 Cost. consente di garantire ai parenti naturali la stessa rilevanza giuridica della parentela fondata sul matrimonio. D’altra parte la parentela è un connotato sociale della persona, che unisce socialmente l’individuo a tutte le persone che discendono da uno stesso stipite. Pertanto l’esclusione del connotato socio-giuridico della parentela costituirebbe una menomazione della personalità dell’individuo, sempre che tale esclusione non sia giustificata dall’esigenza di tutela di interessi prevalenti ». In analoga prospettiva G. Ferrando, Convivere senza matrimonio: rapporti personali e patrimoniali nella famiglia di fatto, in Fam. e d., 1998, p. 183 ss. e Ead., Il rapporto di filiazione naturale, in Il diritto di famiglia, III, Famiglia e adozione, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, cit., p. 128 ss.; F. Lazzarelli, Successione legittima e parentela naturale, in Rass. d. civ., 2001, p. 821 ss.; M.L. Chiarella, La parentela naturale: dal crinale sociale alla (ir)rilevanza costituzionale, in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni nella giurisprudenza costituzionale, cit., spec. p. 928 ss. ( 15 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del 2012, cit., p. 215. Nella medesima direzione, F. Prosperi, sub art. 258 c.c., in Codice civile annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 956 s. (ivi ulteriore dottrina citata). 602 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 una pluralità di modelli familiari, non più identificabili unicamente nello schema della famiglia legittima (16). 2. — L’abrogazione delle qualificazioni « figli legittimi » e « figli naturali » rende palese che l’obbligo dei genitori di mantenere, istruire ed educare assume identico contenuto, indipendentemente dal fondamento della filiazione (17). Avvalorano tale prospettiva le modifiche (18) alla rubrica del titolo IX del libro I del codice civile, che muta la precedente formulazione — « Della potestà dei genitori » — nel più significativo e articolato sintagma « Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio » (19). Nella medesima ( 16 ) Già P. Perlingieri, Sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, in Id., Rapporti personali nella famiglia, cit., p. 15, avvertiva che « non esiste un concetto unitario di famiglia. È quindi assurdo che si stabiliscano regole rigide e precise per la famiglia astrattamente considerata quando nella realtà esistono famiglie completamente diverse ed estremamente differenziate. E allora un discorso in tema di riforma del diritto di famiglia che non tenda in primo luogo ad attuare un’omogeneizzazione della famiglia, eliminando le differenziazione che l’art. 3 prevede come ostacoli di fatto, che condizionano dall’esterno la stessa famiglia, rimarrà sterile ». Cfr., inoltre, Id., Sui rapporti personali nella famiglia, ivi, p. 20 ss.; V. Scalisi, « Famiglia » e « Famiglie » in Europa, cit., p. 7 ss.; T. Auletta, La famiglia rinnovata: problemi e prospettive e F. Galletta, I nuovi assetti familiari e l’interesse del minore, entrambi in Scritti in onore di Cesare Massimo Bianca, II, Milano 2006, rispettivamente pp. 28 ss. e 261 ss. (in questo volume cfr., inoltre, F. Ruscello, Diritto alla famiglia e minore senza famiglia, p. 470 ss., il quale esclude che la famiglia costituisca un valore in sé, soffermandosi sull’esigenza che essa sia sempre sottoposta ad un giudizio di meritevolezza); G. Giacobbe, Famiglia o famiglie: un problema ancora dibattuto, in D. e fam., 2009, p. 305 ss.; P. Stanzione, Filiazione e « genitorialità ». Il problema del terzo genitore, Torino 2010, p. 41 ss.; R. Pane, Il nuovo diritto di filiazione tra modernità e tradizione e A. Di Fede, La famiglia legittima e i modelli familiari diversificati: luci ed ombre, scenari e prospettive, entrambi in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia, cit., rispettivamente pp. 9 ss. e 41 ss. ( 17 ) Il genitore naturale convivente con il figlio è legittimato, iure proprio, a chiedere il contributo per il mantenimento all’altro genitore naturale e « può agire nei confronti [di quest’ultimo] per tutto il periodo di decorrenza dalla nascita del figlio, poiché l’obbligo di essere mantenuto sorge automaticamente per il fatto della filiazione » e « ha lo stesso contenuto dell’analogo obbligo previsto per il figlio legittimo »: Trib. Salerno, 23 gennaio 2013 e, nella stessa prospettiva, Trib. Bari, 6 febbraio 2013, entrambe consultabili sulla banca dati dejure on line. Prima ancóra, secondo Cass., 10 aprile 2012, n. 5652, in G. it., 2013, p. 45 ss., con nota di G. Malavenda, Responsabilità dei genitori per violazione dell’obbligo di mantenimento dei figli naturali non riconosciuti, se al momento della nascita il figlio è riconosciuto soltanto da uno dei genitori, non viene meno l’obbligo dell’altro al mantenimento per il periodo anteriore alla dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale. ( 18 ) Prima ex art. 1, comma 6o, l. 10 dicembre 2012, n. 219 e poi anche ex art. 7, comma 10o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154. ( 19 ) I commi 11o e 12o dell’art. 7, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, hanno distinto, inoltre, il Titolo IX in due Capi: Capo I, rubricato « Dei diritti e doveri del figlio » e Capo II, rubricato « Esercizio della responsabilità genitoriale a séguito di separazione, scioglimento, cessazione degli effetti civili, annullamento, nullità del matrimonio ovvero all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio ». SAGGI 603 direzione si pone l’art. 315 bis (20) (introdotto dall’art. 1, comma 8o, della l. n. 219 del 2012), il quale, nel prevedere un vero e proprio statuto dei diritti e dei doveri dei figli, sancisce il diritto dei minori di mantenere rapporti significativi con i parenti e di essere ascoltati nelle questioni e nelle procedure loro concernenti (21), esplicitando così « diritti che avevano già trovato ingresso in leggi speciali ma che ora hanno una sistemazione unitaria e una portata generale » (22). Inoltre, in attuazione della delega (23)conferita al Governo per l’« unificazione delle disposizioni che disciplinano i diritti e i doveri dei genitori nei con( 20 ) Secondo il disposto normativo di tale articolo « il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni. Il figlio ha diritto di crescere in famiglia e di mantenere rapporti significativi con i parenti. Il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano. Il figlio deve rispettare i genitori e deve contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa ». Cfr. la particolareggiata analisi di M. Costanza, I diritti dei figli: mantenimento, educazione, istruzione ed assistenza morale (art. 315 bis c.c., inserito dall’art. 1, comma 8o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 526 ss. ( 21 ) Cfr., inoltre, l’art. 336 bis c.c. (rubricato « Ascolto del minore »), inserito dall’art. 53, comma 1o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 e l’art. 98 del medesimo decreto, che modifica l’art. 4, comma 8o, l. 1o dicembre 1970, n. 898, in materia di Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio. Sul diritto del minore all’ascolto, Cass., 2 agosto 2013, n. 18538, in Rep. F. it., 2013, voce Filiazione, n. 68. Per un quadro della dottrina, sia antecedente che successiva alla riforma, E. La Rosa, Tutela dei minori e contesti familiari, Milano 2005, p. 205 ss.; O. Caleo, Il diritto di ascolto del minore nella crisi familiare, in Fam. pers. succ., 2011, p. 776 ss.; G. Campese, L’ascolto del minore nei giudizi di separazione e divorzio, tra interesse del minore e principi del giusto processo, in Fam. e d., 2011, p. 958 ss.; P. Perlingieri, Sull’ascolto del minore, in R. giur. Mol. Sannio, 2012, p. 125 ss.; G. Recinto, La situazione italiana del diritto civile sulle persone minori di età e le indicazioni europee, in D. fam., 2012, p. 1295 ss.; F. Parente, L’ascolto del minore: i princìpi, le assiologie e le fonti, in Rass. d. civ., 2012, pp. 459 ss. e 465 ss.; P. Pazé, L’ascolto in famiglia e nelle procedure, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 133 ss. L’interesse del minore assume grande rilievo in àmbito sovranazionale: cfr., in particolare, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la quale tutela la vita privata e familiare (art. 8) e sancisce il divieto di discriminazioni (art. 14); la Convenzione di New York, 20 novembre 1989, riguardante i diritti dei fanciulli (ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176); la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: c.d. Carta di Nizza (cfr., in particolare l’art. 21, il quale vieta qualunque discriminazione basata sulla nascita); la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996; le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa per una giustizia a misura di minore, adottate dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 17 novembre 2010. ( 22 ) C.M. Bianca, La legge italiana conosce solo figli, in questa Rivista, 2013, p. 3. I diritti del figlio « vengono enunciati positivamente in modo esplicito, aggiungendo altresì il diritto ad essere assistito moralmente, che attualmente non trova formale equivalenza nei doveri dei genitori (cfr. art. 30, comma 3o, cost. e art. 147 c.c.) »: così, nel commentare il disegno di legge sulla filiazione, R. Carrano, Lo stato giuridico di figlio e il nuovo statuto dei diritti e doveri, in Giust. civ., 2011, p. 187. ( 23 ) Cfr. l’art. 2, comma 1o, lettera h, l. 10 dicembre 2012, n. 219. 604 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 fronti dei figli nati nel matrimonio e dei figli nati fuori del matrimonio » e al fine di « delinea[re] la nozione di responsabilità genitoriale quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale » (24), l’art. 39 del più volte menzionato decreto legislativo abbandona il concetto di potestà e, nel sostituire l’art. 316 c.c., introduce — sebbene in assenza di una sua definizione (25) — la nozione di responsabilità genitoriale (26), da esercitarsi, in considerazione delle capacità, delle inclinazioni e delle aspirazioni del figlio, da entrambi i genitori di comune accordo oppure dall’unico genitore che ha effettuato il riconoscimento. Scompare l’indicazione del termine finale della responsabilità genitoriale, prima individuato, con riferimento alla potestà, nel compimento della maggiore età o nell’emancipazione del minore (27). La scelta è particolarmente significativa, poiché rende manifesti gli ampi contenuti sottesi alla nozione di ( 24 ) Sul tema, ampiamente, G. Recinto, Legge n. 219 del 2012: responsabilità genitoriale o astratti modelli di minori di età?, in D. fam., 2013, p. 1475 ss., il quale pone in evidenza, incisivamente, le perplessità e i limiti derivanti dallo scopo, imposto dalla legge delega, di modellare la responsabilità genitoriale « quale aspetto dell’esercizio della potestà genitoriale ». Si veda, inoltre, G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione, cit., p. 527, la quale sottolinea la necessità di coordinare la nuova disciplina con gli artt. 147 e 148 c.c. (successivamente sostituiti dagli artt. 3 e 4, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154) poiché il dovere di mantenimento nei confronti dei figli « riguarda i genitori in quanto tali e non in quanto coniugi » (Ead., o.c., p. 529). Discorre di « disarmonia » del sistema A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, cit., p. 261, precisando che la riforma avrebbe dovuto incidere, in maniera coerente, anche sugli articoli 147 c.c. (riguardante i doveri dei genitori uniti in matrimonio nei confronti dei figli) e 261 (in materia di diritti e doveri in capo al genitore che ha effettuato il riconoscimento), non modificati dalla legge delega. Occorre tuttavia precisare che tali modifiche sono intervenute, successivamente, ad opera del d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, il quale, all’art. 106, ha abrogato l’art. 261 c.c. e, all’art. 3, ha sostituito il previgente articolo 147 c.c., aggiungendo nel suo contenuto normativo sia l’obbligo di assistere moralmente i figli sia il richiamo all’art. 315 bis c.c., in materia di diritti e doveri di tutti i figli, a prescindere dalla loro nascita nel matrimonio ovvero al di fuori di esso. Il novellato art. 147 c.c., risultante dalle predette modifiche, così dispone: « Il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire, educare e assistere moralmente i figli, nel rispetto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni, secondo quanto previsto dall’articolo 315 bis ». ( 25 ) La Relazione illustrativa dello schema di decreto legislativo esplicita la precisa scelta di non definire — come, del resto, già avvenuto per la nozione di potestà — il concetto di responsabilità genitoriale, al fine di consentire un suo adeguamento all’evoluzione socioculturale dei rapporti tra genitori e figli. ( 26 ) Sul punto G. Sergio, Potestà versus responsabilità genitoriale. La sofferta evoluzione della regolazione giuridica dei rapporti tra genitori e figli e F. Carimini, Il binomio potestà-responsabilità: quale significato?, entrambi in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia, cit., rispettivamente pp. 81 ss. e 111 ss.; M. Velletti, Dei diritti e doveri dei figli e della responsabilità genitoriale, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., pp. 83 ss. e 89 ss. e A. Palazzo, La Filiazione, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2013, p. 591 ss. ( 27 ) Diversamente, per le norme che presuppongono l’incapacità di agire del minore, il decreto legislativo (cfr. artt. 43, 44 e 48, che modificano, rispettivamente, gli art. 318, 320 e 324 c.c.) individua, quale riferimento temporale per l’esercizio della responsabilità genitoriale, la maggiore età o l’emancipazione. SAGGI 605 responsabilità genitoriale senza circoscrivere l’impegno dei genitori entro predefiniti limiti temporali ma subordinandone la durata in ragione delle esigenze del singolo rapporto di filiazione. È tuttavia fatta salva, per ciascun genitore, la possibilità di rivolgersi, in ipotesi di contrasto su questioni particolarmente importanti, al giudice, il quale deciderà dopo aver ascoltato il minore dodicenne (oppure infradodicenne, se capace di discernimento). Al genitore che non esercita la responsabilità genitoriale spetta il cómpito di vigilare sull’istruzione, sull’educazione e sulle condizioni di vita del figlio (testo precedentemente dettato dall’art. 317 bis, ult. comma, c.c. e ora confluito nel nuovo art. 316, comma 5o, c.c.). Analoga disciplina si rinviene nell’art. 337 quater c.c. (introdotto dall’art. 55, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 e rubricato « Affidamento a un solo genitore e opposizione all’affidamento condiviso »), il quale, in ipotesi di affidamento ad uno soltanto dei genitori, consente a quello non affidatario di ricorrere al giudice, se reputa siano state assunte decisioni pregiudizievoli per l’interesse del figlio. L’accoglimento della nozione di responsabilità genitoriale, in luogo dell’ormai anacronistico concetto di potestà, sancisce in un’unica norma i contenuti dell’impegno dei genitori nei confronti di tutti i figli, a prescindere se nati nel matrimonio ovvero al di fuori di esso, e, al contempo, consente il superamento delle perplessità concernenti, in séguito all’entrata in vigore della legge delega (n. 219/2012), la sorte dell’art. 317 bis. In attesa dell’emanazione del decreto legislativo di attuazione, infatti, l’art. 317 bis, nella sua precedente formulazione — finalizzata ad attribuire l’esercizio della potestà sui figli naturali ad entrambi i genitori conviventi oppure all’unico genitore convivente con il minore — assumeva un discusso significato poiché, specie in séguito all’esplicita affermazione dell’unicità dello stato di figlio (art. 315 c.c.), risultava alquanto contraddittorio conservare una norma dedicata precipuamente all’esercizio della potestà sui figli naturali. Invero, già con l’affermazione della bigenitorialità nell’esercizio della potestà, introdotta dalla legge sull’affido condiviso (l. 8 febbraio 2006, n. 54), la Cassazione (28) aveva attribuito al principio che affida l’esercizio della potestà ad entrambi i genitori « efficacia pervasiva, e, pertanto, implicitamente abrogante di ogni contraria disposizione di legge ». Su tali basi, l’art. 317 bis era considerato « tacitamente abrogato », in quanto incompatibile con il principio della bigenitorialità dettato dagli artt. 155 ss. c.c. e con il contenuto dell’art. 4, comma 2o, l. n. 54/2006, poiché quest’ultimo, nel disporre l’applicabilità delle disposizioni in tema di affidamento condiviso « anche in caso di scioglimento, di cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati », sembrava perseguire lo scopo di disciplina( 28 ) Pronuncia del 10 maggio 2011, n. 10265, in F. it., 2012, I, c. 822, con nota di G. De Marzo; di C. Sgobbo, L’esercizio della potestà sui figli naturali da parte dei genitori non conviventi, in G. it., 2012, p. 790 ss., nonché di M. Sesta, L’esercizio della potestà sui figli naturali dopo la l. n. 54/2006: quale sorte per l’art. 317 bis cod. civ.?, in Nuova g. civ. comm., 2011, p. 1206 ss. 606 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 re tutti i rapporti tra genitori e figli naturali, senza limitare la sua operatività alle vicende caratterizzate da controversie in atto. Tale orientamento è disatteso dalla più recente giurisprudenza di merito (29), favorevole all’applicazione dell’art. 317 bis ogniqualvolta non fosse in corso un procedimento giurisdizionale di regolamentazione della convivenza, sì da attribuire, anche in séguito alla l. n. 54/2006, l’esercizio della potestà sul figlio naturale ad entrambi i genitori soltanto se conviventi. A fronte della legge delega n. 219 del 2012, che nulla ha previsto, sì da lasciare irrisolti i dubbi concernenti la tacita abrogazione dell’art. 317 bis (30), il decreto legislativo ha modificato il contenuto di tale articolo: in luogo dell’esercizio della potestà sui figli naturali, la norma è ora espressamente dedicata alla legittimazione degli ascendenti a far valere il diritto di mantenere rapporti significativi con i minori (31), sancendo la possibilità di adire l’autorità giudiziaria affinché prenda, ove tale diritto sia negato o ostacolato nel suo esercizio, i provvedimenti più opportuni nell’interesse dei minori. La previgente formulazione dell’art. 317 bis, comma 2o, c.c., che attri( 29 ) Trib. min. Bari, 17 novembre 2010, in Fam. dir., 2011, p. 722 ss., con commento di I. Torre, Cessazione della convivenza nella famiglia di fatto: esercizio della potestà e affidamento condiviso; Trib. dei minorenni di Milano, decr. 7 febbraio 2012, in Nuova g. civ. comm., 2012, p. 736 ss., con commento adesivo di G. Mansi, L’art. 317 bis cod. civ. resta il referente normativo primario per l’esercizio della potestà sui figli naturali e di M. Sesta, Per l’esercizio comune della potestà dei genitori naturali occorre la convivenza, in Fam. e d., 2012, p. 609 ss. Contrari alla tacita abrogazione dell’art. 317 bis, E. La Rosa, Esercizio della potestà, sub art. 317 bis c.c., in Comm. Gabrielli, Della famiglia, artt. 177-342 ter, a cura di Balestra, II, Torino 2010, p. 874 ss.; M. Sesta, L’esercizio della potestà sui figli naturali dopo la l. n.54/2006: quale sorte per l’art. 317 bis cod. civ.?, cit., p. 1206 ss.; Id. e M. Baldini, La potestà dei genitori, in Id. e Arceri (a cura di), L’affidamento dei figli nella crisi della famiglia, Torino 2012, p. 136; G. Ferrando, L’adozione in casi particolari: orientamenti innovativi, problemi, prospettive, in Nuova g. civ. comm., 2012, p. 690, la quale, con riferimento all’esercizio della potestà sui figli naturali di genitori che non hanno mai convissuto, nega che l’applicazione della regola della bigenitorialità possa costituire il risultato di una scelta del legislatore, essendo necessaria una valutazione caso per caso, rispettosa delle differenze tra le fattispecie nelle quali il bambino convive, sin dalla nascita, con entrambi i genitori (senza che rilevi se siano sposati) da quelle nelle quali il minore vive soltanto con un genitore. « In questi ultimi casi l’affidamento condiviso non può costituire la “prima scelta”. Il genitore dovrà, per così dire, entrare in punta di piedi nella vita del figlio, sperando di essere accettato. Né potrà vantare un pari potere decisionale in forza del diritto alla bigenitorialità che la legge gli riconosce. Quando manchi l’accordo tra i genitori, il giudice dovrà regolare in concreto l’esercizio della potestà tenendo conto dell’interesse di ciascun bambino ». ( 30 ) Sul tema, sia pure in diversa prospettiva, L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 215, nonché V. D’Antonio, La potestà dei genitori ed i diritti e i doveri del figlio dopo l’unificazione dello status filiationis, consultabile sul sito www.comparazionedirittocivile.it e M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, in Fam. e d., 2013, p. 238. ( 31 ) Sulla positiva incidenza di tale rapporto sullo sviluppo della personalità del minore cfr., già prima della riforma, M. Bianca, Il diritto del minore all’amore dei nonni, in Studi in onore di Cesare Massimo Bianca, II, cit., p. 117 ss. SAGGI 607 buiva la potestà (oggi responsabilità genitoriale) ad entrambi i genitori che hanno effettuato il riconoscimento, è ora confluita nel nuovo art. 316, comma 4o, c.c. Importante osservare che, diversamente rispetto al passato, non è più prevista, ai fini dell’esercizio della responsabilità genitoriale, alcuna distinzione basata sulla convivenza del genitore con il figlio riconosciuto: l’attuale art. 316, comma 4o, c.c., infatti, afferma che « se il riconoscimento del figlio, nato fuori del matrimonio, è fatto dai genitori, l’esercizio della responsabilità genitoriale spetta ad entrambi » (32). Le predette modifiche consentono di superare il ricorso a specifiche normative per i figli nati fuori dal matrimonio e di riunire in un’unica norma la disciplina della responsabilità genitoriale — a prescindere dalla convivenza e dal fondamento della filiazione — confermandone il valore sistematico. 3. — In aggiunta alle innovazioni legislative sin qui analizzate — orientate all’affermazione del principio dell’unicità dello stato di figlio e alla sua influenza sull’atteggiarsi dell’impegno genitoriale nei confronti dei figli — molteplici sono le riforme, operate sia dalla legge delega sia dal decreto legislativo attuativo, che realizzano un modello di disciplina della filiazione attuativa dei precetti dell’eguaglianza e della dignità della persona. Tra queste, assumono particolare rilievo, al punto da meritare precise considerazioni in questa sede, le riforme che promuovono e tutelano, nel rispetto dei princìpi costituzionali, l’interesse dei figli ad acquisire lo status filiationis. Il riferimento corre, in particolare, alla ridefinizione della disciplina in materia di disconoscimento della paternità e dei termini per l’esercizio della relativa azione (artt. 243 bis e 244 c.c.); alle modifiche concernenti l’autorizzazione dell’infrasedicenne ad effettuare il riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c.) e alla riforma in materia di riconoscimento dei figli incestuosi (art. 251 c.c.) (33). Non mancano zone ( 32 ) Il previgente art. 317, comma 2o, c.c., invece, così disponeva: « se il riconoscimento è fatto da entrambi i genitori, l’esercizio della potestà spetta congiuntamente ad entrambi qualora siano conviventi ». ( 33 ) Alle predette modifiche si aggiungono quelle in tema di legittimazione passiva alla dichiarazione giudiziale di maternità e di paternità naturale (art. 276 c.c.). È agevole ricordare che l’art. 276 c.c., nella sua versione originaria, consentiva, in ipotesi di morte del genitore, la proposizione della domanda giudiziale di paternità o di maternità naturale unicamente nei confronti degli eredi del genitore. Su tali basi, la giurisprudenza (cfr. Cass., sez. un., 3 novembre 2005, n. 21287, in G. it., 2006, I, p. 54 e, nella stessa direzione, Trib. Milano, 22 giugno 2009, in Fam. pers. succ., 2010, p. 108 ss., con nota di A. Buldini, La legittimazione passiva alla dichiarazione giudiziale di paternità dopo la morte del presunto genitore) negava la possibilità di individuare negli eredi degli eredi i destinatari della domanda, in aggiunta agli eredi legittimi o testamentari [sul tema, E. Carbone, sub art. 276, in L. Balestra (a cura di), Della famiglia, artt. 177-342 ter, cit., p. 620 s.]. Chiamata a pronunciarsi sulla conformità dell’art. 276 c.c. agli artt. 3 e 24 cost. — nella parte ove non prevedeva, allorquando fosse premorto sia il preteso genitore sia i suoi eredi, la possibilità di agire per l’accertamento della paternità o maternità naturale in contraddittorio con un curatore speciale oppure con gli eredi dei defunti eredi diretti del preteso genitore — la Consulta (con sentenza del 29 ottobre 2009, n. 278, in G. cost., 2009, p. 3887; cfr. sul te- 608 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 d’ombra e questioni non risolte dalla riforma: ad esse saranno dedicate più ampie riflessioni nel prosieguo del presente lavoro. Con riferimento alla disciplina dell’azione per il disconoscimento della paternità, il principio di delega dettato dall’art. 2, comma 1o, lettera d), perseguiva lo scopo di procedere alla « ridefinizione della disciplina del disconoscimento di paternità, con riferimento in particolare all’articolo 235, comma 1o, numeri 1, 2 e 3, del codice civile, nel rispetto dei princìpi costituzionali ». In attuazione di tale norma, l’art. 106 del decreto legislativo ha abrogato l’art. 235 c.c. e all’art. 17 ha introdotto una nuova normativa: l’art. 243 bis del Capo III (rubricato « Dell’azione di disconoscimento e delle azioni di contestazione e di reclamo dello stato di figlio ») del Titolo VII del Libro primo del codice civile (34). Analogamente a quanto già sancito dal precedente art. 235 c.c., si nega la legittimazione attiva all’esercizio della predetta azione ai terzi estranei alla famiglia, consentendola unicamente al marito, alla madre e al figlio, aggiungendo altresì la legittimazione, nell’interesse del figlio minore, del curatore speciale nominato dal giudice (art. 244, comma 6o, c.c.). Permane, in quanto non indicato tra i soggetti legittimati a proporre l’azione, l’impossibilità per il padre naturale di agire in giudizio per far disconoscere la paternità di altri (35). Particolare rilievo assume la soppressione dell’analitica elencazione dei presupposti (mancata coabitazione, impotenza e adulterio della moglie) ai quali era subordinata l’azione di disconoscimento. Tale disciplina lascia spazio, nel nuovo art. 243 bis c.c., ad una normativa meno articolata, in grado di superare le rigide condizioni prima imposte dall’art. 235 c.c., prevedendo che « chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre » (36). L’introduzione di tale norma auma, prima ancóra, Corte cost., 20 marzo 2009, n. 80, in Fam. e d., 2009, p. 545 ss. e, precedentemente, Corte cost., 21 dicembre 2007, n. 450, in G. cost., 2008, p. 4879 ss.) ha dichiarato la questione inammissibile, precisando che un’eventuale pronuncia additiva rientrerebbe nella discrezionalità del legislatore, unicamente al quale spetterebbe « indicare quale legittimato passivo della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale, in caso di premorienza del genitore e dei suoi eredi, un curatore speciale, ovvero [...] individuare i legittimati negli eredi degli eredi del preteso genitore ». Si conforma a tale posizione il legislatore della riforma, il quale ha superato i limiti derivanti dal tenore letterale del previgente articolo 276 c.c. aggiungendo nella sua novellata formulazione che, in mancanza di genitore e di eredi, l’azione può essere proposta « nei confronti di un curatore nominato dal giudice davanti al quale il giudizio deve essere promosso ». ( 34 ) Tale Capo — in virtù dell’art. 7, comma 5o, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154 — si sostituisce all’originaria Sezione III del Capo I del Titolo VII del Libro I del codice civile. ( 35 ) Secondo la giurisprudenza, l’intervento, nel processo di disconoscimento, del presunto padre è inammissibile in quanto portatore di un mero interesse di fatto: cfr. Cass., 8 febbraio 2012, n. 1784, in Foro it., 2012, I, c. 1033 ss., sulla quale v. A. Frassinetti, Giudizio di disconoscimento della paternità e difetto di legittimazione a intervenire dal preteso padre naturale (e dei suoi eredi), in Fam. e d., 2012, p. 876 ss. e Cass., 12 marzo 2012, n. 3934, in Rep. F. it., 2012, voce Filiazione, n. 47. ( 36 ) Il terzo comma dell’articolo 243 bis, in maniera del tutto identica al precedente art. SAGGI 609 menta le occasioni di ricorso all’azione di disconoscimento al fine di rimuovere lo status di figlio legittimo e di accertarne il concepimento in capo a persona diversa dal presunto padre (37), favorendo un ampliamento delle ipotesi di accertamento della verità biologica nel segno di una prevalenza del favor veritatis sul favor legitimitatis (38). Riguardo, invece, al connesso profilo concernente la previsione dei termini di decadenza per l’esercizio dell’azione in questione, l’art. 18 del decreto legislativo sostituisce il disposto normativo del previgente art. 244 c.c. al fine di adeguarlo, sul piano tanto letterale quanto sostanziale, alle numerose pronunce della Corte costituzionale intervenute sul tema. In particolare, con sentenza del 14 maggio 1999, n. 170 (39), la Consulta aveva dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 244, comma 2o, c.c., là dove non sanciva che, nell’ipotesi di impotenza soltanto di generare (ex art. 235, comma 1o, n. 2, c.c.), il termine per la proposizione dell’azione di disconoscimento della paternità decorreva tanto per il marito quanto per la moglie dal giorno nel quale si fosse avuta conoscenza dell’impotenza di generare. In attuazione di tale esito decisorio, il comma 2o del novellato art. 244 c.c. prevede che il termine di sei mesi per la proposizione dell’azione di disconoscimento decorre, per la madre, (dalla nascita del figlio oppure) « dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell’impotenza di generare del marito al tempo del concepimento ». Per il marito, invece, il termine di un anno per la proposizione della domanda decorre, « se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l’adulterio della moglie (40) al tempo del concepimento, dal giorno nel quale ne ha 235, comma 2o, c.c., sancisce che « la sola dichiarazione della madre non esclude la paternità ». ( 37 ) In tale direzione già Corte cost., 6 luglio 2006, n. 266, in Corr. giur., 2006, p. 1367 ss., con nota di V. Carbone, Basta la prova del dna e non più dell’adulterio per disconoscere la paternità, la quale, nel disattendere l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva l’esame ematologico e genetico, ex art. 235 comma 1o, n. 3, c.c., soltanto previa dimostrazione dell’adulterio della moglie, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, comma 1o, n. 3, c.c., là dove subordinava l’esame delle prove tecniche, dalle quali risultavano caratteristiche genetiche o del gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre, alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. ( 38 ) Con particolare attenzione al favor veritatis nell’esercizio dell’azione di disconoscimento, R. Pane, « Favor veritatis » ed azione di disconoscimento di paternità, in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, cit., p. 125 ss. Più in generale, sulle implicazioni del favro veritatis, F. Turlon, Nuovi scenari procreativi: rilevanza della maternità “sociale”, interesse del minore e favor veritatis, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 712 ss. ( 39 ) In Foro it., 2001, I, c. 1116 ss. ( 40 ) Con sentenza del 6 maggio 1984, n. 134, in Corr. giur., 1985, p. 783 ss., con nota di V. Carbone, Il padre può disconoscere il figlio da quando sa che non è suo (cfr., inoltre, A. Amatucci, Disconoscimento per adulterio: effetti della sentenza additiva della Corte costituzionale, in F. it., 1985, I, c. 2532 ss. e A. De Cupis, Adulterio e decorrenza dell’azione di disconoscimento della paternità, in G. it., 1985, I, p. 1153 ss.), la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 24, comma 1o, cost., dell’art. 244, comma 2o, c.c., nella parte ove non disponeva, per il caso previsto dal n. 3 del- 610 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 avuto conoscenza » (41). Inoltre, diversamente rispetto alla disciplina antecedente, ai figli è consentito conservare il proprio status là dove tanto la madre quanto il padre non abbiano promosso l’azione decorsi cinque anni dal giorno della nascita (art. 244, comma 4o, c.c.). Significativa si rivela altresì l’introduzione dell’imprescrittibilità dell’azione in ipotesi di proposizione da parte del figlio, là dove, prima della riforma, ciò era consentito « entro un anno dal compimento della maggiore età o dal momento in cui veniva successivamente a conoscenza dei fatti che rend[evano] ammissibile il disconoscimento ». La modifica si spiega in ragione dell’esigenza di realizzare una maggiore omogeneità con la disciplina in materia di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, la quale, nel novellato art. 263, comma 3o, c.c., conserva l’imprescrittibilità dell’azione riguardo al figlio (già sancita dalla precedente formulazione dell’art. 263, comma 3o, c.c.) ma aggiunge limiti di decadenza, prima non previsti, per gli altri legittimati (42). Riguardo, infine, alla promozione dell’azione da parte del curatore speciale, l’ult. comma dell’art. 244 c.c. — in luogo della previsione che subordinava l’istanza del figlio al compimento del sedicesimo anno — sancisce l’abbassamento dell’età del minore al quattordicesimo anno, consentendo di promuovere l’istanza, in ipotesi di età inferiore, non soltanto al pubblico ministero (come nella formulazione precedente) ma anche all’altro genitore. 4. — Con riferimento alla disciplina del riconoscimento di figlio naturale (art. 250 c.c.), in aggiunta alla modifica terminologica — che sostituisce l’espressione « figlio naturale » con « figlio nato fuori del matrimonio » — condivisibilmente si modifica, in ragione di un più ampio rispetto della personalità e della capacità di autodeterminazione (43), l’età in presenza della qual’art. 235 c.c., che il termine per proporre l’azione di disconoscimento decorresse dal giorno in cui il marito fosse venuto a conoscenza dell’adulterio della moglie. ( 41 ) Invece, come sancito anche dalla precedente formulazione dell’art. 244, comma 2o, c.c., il termine decorre « dal giorno della nascita quando [il marito] si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio ». Benché collocata in un contesto temporale antecedente alle riforme segnate dal decreto legislativo, Cass., 30 maggio 2013, n. 13638, in Foro it., 2013, I, c. 2472 ss., ha chiarito che, in ipotesi di esercizio dell’azione di disconoscimento della paternità per adulterio della moglie, il termine annuale di decadenza per la proposizione della domanda decorre, per il marito, dalla data di acquisizione della conoscenza dell’adulterio e non già da quella nella quale si raggiunge (ad esempio in séguito ad indagini ematologiche che escludono la paternità) la certezza negativa. ( 42 ) Cfr. § 6. ( 43 ) Sul punto, V. Santarsiere, Le nuove norme sui figli nati fuori dal matrimonio. Superamento di alcuni aspetti discriminatori, in G. mer., 2013, p. 522 ss.; S. Troiano, Le innovazioni alla disciplina del riconoscimento del figlio naturale (art. 250 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 2o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 451 ss. Sottolinea A. Palazzo, La riforma dello status di filiazione, cit., p. 262, che « sarebbe stato più opportuno sostituire le presunzioni basate sull’età con l’unica nozione di ca- SAGGI 611 le si richiede il consenso del minore, abbassandola dai sedici ai quattordici anni (44) e prevedendo, al di sotto di tale limite temporale, il consenso del genitore che abbia effettuato il riconoscimento (45). All’ult. comma permane, invece, per i genitori, il compimento dei sedici anni quale dies a quo per effettuare il riconoscimento. Tale limite « da rigido diventa elastico » (46), consentendo al giudice di superarlo « valutate le circostanze e avuto riguardo all’interesse del figlio » (art. 250, comma 5o, c.c.). Il comma 4o del medesimo articolo è interamente riscritto (47): si prevede, pacità di discernimento — da accertare caso per caso — e rendere obbligatoria — in ossequio alla giurisprudenza più recente della Cassazione — la motivazione del giudice in ordine al mancato accoglimento della volontà espressa dal minore la quale sottolinea l’opportunità di presunzioni basate non sull’età ma sull’effettiva e concreta capacità di discernimento ». ( 44 ) Sì che, in luogo dell’originaria previsione, dettata dall’art. 250, comma 2o, c.c. — secondo la quale « il riconoscimento del figlio che ha compiuto i sedici anni non produce effetto senza il suo assenso » — il novellato comma 2o dell’art. 250 c.c. afferma che non produce effetto, senza il suo assenso, il riconoscimento del figlio « che ha compiuto i quattordici anni ». ( 45 ) In particolare, secondo l’art. 250, comma 3o, c.c., « il riconoscimento del figlio che non ha compiuto i quattordici anni » — e non già sedici, come nella precedente formulazione — « non può avvenire senza il consenso dell’altro genitore che abbia già effettuato il riconoscimento ». Prima della riforma, attribuisce rilievo all’interesse del minore infrasedicenne al riconoscimento della paternità naturale, in ipotesi di opposizione dell’altro genitore, Cass., 3 gennaio 2008, n. 4, in Giust. civ., 2008, p. 1116 ss., secondo la quale tale interesse « è definito dal complesso dei diritti che a lui derivano dal riconoscimento stesso, e, in particolare, dal diritto all’identità personale nella sua precisa e integrale dimensione psicofisica ». ( 46 ) Così G. Ferrando, La nuova legge sulla filiazione, cit., p. 530. ( 47 ) La norma è modificata dall’art. 1, comma 2o, lett. d, l. 10 dicembre 2012, n. 219. Riguardo alla disciplina antecedente, la Corte costituzionale (con le pronunce 11 marzo 2011, n. 83, in F. it., 2011, I, c. 1289 ss. e 10 novembre 2011, n. 311, in Giur. cost., 2011, p. 4215 ss.) aveva dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 250, comma 4o, c.c. — sollevata per violazione degli artt. 2, 3, 24, 30, 31 e 111 cost. — nella parte ove non prevedeva, per il figlio che non avesse ancóra raggiunto i sedici anni di età, « adeguate forme di “tutela” dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti ». La questione è considerata non fondata dalla Consulta ben potendo il giudice a quo procedere ad un’interpretazione adeguatrice dell’art. 250 c.c., tale da individuare nel minore infrasedicenne coinvolto nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda « un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse ». Al minore, pertanto, va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione, ex art. 250, comma 4o, c.c. e, in ipotesi di conflitto di interessi, anche in via potenziale, il giudice è tenuto alla nomina di un curatore speciale (Corte cost., 11 marzo 2011, n. 83, cit.). Precisa che, nel giudizio di opposizione al secondo riconoscimento di figlio naturale (ex art. 250, comma 4o, c.c.), il minore di anni sedici deve necessariamente essere sentito Cass., 13 aprile 2012, n. 5884, in Fam. e d., 2012, p. 653 ss., con commento di V. Carbone, Opposizione al riconoscimento di figlio naturale: il minore infrasedicenne non solo dev’essere sentito ma è parte del processo. 612 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 in ipotesi di consenso del genitore che abbia effettuato il riconoscimento, un modello normativo basato sul silenzio-assenso, in virtù del quale il genitore che voglia procedere al riconoscimento del figlio ricorre, in ipotesi di rifiuto dell’altro genitore, al giudice, il quale fissa un termine per la notifica del ricorso. Decorsi trenta giorni e in assenza di opposizione dell’altro genitore, il giudice emette una sentenza sostitutiva del consenso mancante. In ipotesi di opposizione, dopo aver disposto l’audizione del figlio che abbia compiuto i dodici anni oppure, se capace di discernimento, di età inferiore, il giudice emette sentenza sostitutiva del consenso mancante, indicando altresì i provvedimenti opportuni in relazione all’affidamento, al mantenimento e al cognome del minore. La novella ha il merito di superare i limiti sottesi alla precedente disciplina e denunciati da attenta dottrina, la quale, con riferimento al compimento dei sedici anni quale presupposto indispensabile per superare (ex art. 250, ult. comma, c.c., antecedente alla riforma) la preclusione che impediva al minore di effettuare il riconoscimento, opportunamente aveva posto in evidenza come la « soluzione desta[sse] perplessità, impedendosi l’esercizio di una situazione esistenziale garantita dalla Costituzione (art. 30, comma 1o) non a séguito dell’accertamento dell’inidoneità del genitore a svolgere i propri compiti (art. 30, comma 2o, cost.), ma soltanto dell’incapacità legale a compiere l’atto di riconoscimento (48) ». Il nuovo disposto normativo argina tale effetto preclusivo ammettendo la possibilità, per il genitore naturale infrasedicenne, di procedere al riconoscimento, purché sussista la previa autorizzazione del giudice. 5. — Significative le modifiche concernenti il divieto di riconoscimento della filiazione incestuosa (art. 251 c.c.). La riforma incide, in particolare, sulle condizioni — ignoranza da parte del genitore, al tempo del concepimento, del vincolo esistente oppure dichiarazione di nullità del matrimonio dal quale derivava l’affinità — in presenza delle quali la disciplina antecedente consentiva il riconoscimento. Il divieto — ancor più dopo l’intervento della Corte costituzionale (49) che, con una sentenza « connotata da una forte voca( 48 ) F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 926 s. ( 49 ) Decisione del 28 novembre 2002, n. 494, in Fam. e d., 2003, p. 119 ss., con commento di M. Dogliotti, La Corte costituzionale interviene a metà sulla filiazione incestuosa [sul tema, v. anche C.M. Bianca, La Corte costituzionale ha rimosso il divieto di indagini sulla paternità e maternità di cui all’art. 278, comma 1, c.c. (ma i figli irriconoscibili rimangono), in G. cost., 2002, p. 4068 ss.; G. Di Lorenzo, La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità naturale dei figli nati da rapporto incestuoso, ivi, 2003, p. 446 ss.; G. Ferrando, La condizione dei figli incestuosi: la Corte costituzionale compie il primo passo, in Familia, 2003, p. 848 ss.; Ead., I diritti negati dei figli incestuosi, in Scritti in onore di Cesare Massimo Bianca, II, cit., p. 222; R. Quadri, Filiazione naturale e diritto successorio, in M. Sesta e V. Cuffaro (a cura di), Persona, famiglia e successioni, cit., p. 886 s.] la quale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 278, comma 1o, c.c., nella parte in cui SAGGI 613 zione sistematica » (50), ha considerato lesivo della dignità umana il trattamento discriminatorio riservato dal codice civile ai figli nati da genitori legati da vincoli di parentela — appariva in tutta la sua irragionevolezza (51), risultando « profondamente ingiusto che la condizione giuridica dei figli nati da incesto dipend[esse] da uno stato soggettivo (buona fede o mala fede) che riguarda i loro genitori » (52). In séguito alla riforma, la buona fede dei genitori e la dichiarazione di nullità del matrimonio non assumono rilievo in quanto l’interesse dei figli prevale sulla ripugnanza dell’incesto. Nel rimuovere (ex art. 1, comma 3o, l. 10 dicembre 2012, n. 219) « un’odiosa discriminazione che portava a discriminare i figli solo in ragione delle colpe dei genitori » (53), la riforma muta la rubrica dell’art. 251 c.c., sostituendo l’intitolazione « Riconoscimento dei figli incestuosi » con il sintagma « Autorizzazione al riconoscimento ». La predetta modifica anticipa, con eloquenza, il contenuto normativo del novellato articolo, il quale segna il raggiungimento di un importante traguardo di civiltà giuridica poiché supera il divieto previgente e ammette la riconoscibilità del figlio incestuoso previa autorizzazione del giudice (54), avuto riguardo all’inteescludeva la dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturali e le relative indagini, nei casi ove, a norma dell’art. 251, comma 1o, del codice civile, il riconoscimento dei figli incestuosi è vietato. Benché chiamata a pronunciarsi sia sull’art. 251 c.c. sia sull’art. 278 c.c., la Consulta circoscrive la sentenza di incostituzionalità all’art. 278 c.c., precisando che tale accoglimento « non coinvolge il parallelo divieto di riconoscimento nelle medesime ipotesi ». ( 50 ) E « che fa giustizia di alcune (preconcette) interpretazioni del passato e, nel contempo, si fa carico di leggere, in modo più confacente a Costituzione, il rapporto tra famiglia (intesa come istituzione) ed i singoli membri che la compongono »: ampie riflessioni riguardo alla pronuncia n. 494/2002 della Corte costituzionale in S. Pagliantini, Princìpi costituzionali e sistema della filiazione, cit., p. 570. ( 51 ) Perplessità nei confronti della scelta del legislatore del 1942, che riconduceva le ipotesi dei figli incestuosi alla categoria dei figli irriconoscibili, sono manifestate da A.C. Jemolo, I figli incestuosi, in questa Rivista, 1976, II, p. 564 (nella sua celebre rubrica « Gli occhiali del giurista »). Prima ancóra, la filiazione incestuosa dovrebbe essere riconosciuta per F. Santoro Passarelli, La filiazione nel progetto di codice civile, in Saggi di diritto civile, I, Napoli, 1961, p. 463. ( 52 ) F. Prosperi, sub art. 250 c.c., in Codice annotato con la dottrina e la giurisprudenza, I, cit., p. 937. Favorevole al riconoscimento, per il figlio naturale, del « diritto alla propria identità biologica e personale, anche se frutto di una relazione deprecabile tra i genitori », V. Carbone, È costituzionalmente legittimo il divieto di riconoscere il figlio incestuoso?, in Fam. e d., 2002, pp. 474 ss. e spec. 479. ( 53 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del 2012, cit., p. 220. ( 54 ) L’articolo, già modificato dalla legge delega, è ulteriormente novellato dall’art. 22, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, il quale ha sostituito al sintagma « tribunale per i minorenni » l’espressione più generica di « giudice », al fine di riservare alle disposizioni di attuazione l’individuazione dell’autorità giudiziaria competente. Riguardo all’età — se soltanto in ipotesi di minore ovvero anche per il maggiorenne — in presenza della quale l’autorizzazione del giudice si rivela necessaria, cfr. L. Lenti, La sedicente riforma della filiazione, cit., p. 206. 614 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 resse del figlio e alla necessità di evitare pregiudizi (55). Nel rimuovere l’assoluto divieto al riconoscimento e nel rimettere la decisione all’apprezzamento del giudice, secondo il concreto interesse del figlio, la nuova disciplina distingue tra figli incestuosi il riconoscimento dei quali non sia stato chiesto o autorizzato e figli riconosciuti a séguito di autorizzazione giudiziale, ex art. 251 c.c. La riforma, sia nella legge delega sia nel decreto legislativo di attuazione, tace sull’incidenza del venir meno dell’assoluta preclusione al riconoscimento dei figli incestuosi sulla disciplina, dettata dagli artt. 580 e 594 c.c. e rimasta immutata, che pone in una posizione di disfavore, in sede successoria, i figli (prima della riforma) non riconoscibili, i quali sono esclusi dalla successione a titolo universale ab intestato, avendo diritto unicamente ad un assegno vitalizio commisurato alla rendita della quota di eredità spettante se la filiazione fosse stata dichiarata o riconosciuta (56). Sorge spontaneo l’interrogativo su come coordinare la nuova disciplina dettata dal novellato art. 251 c.c. con il permanere della normativa successoria dei figli incestuosi. A fronte del silenzio del legislatore, sembrerebbe, prima facie, che la vigenza della normativa successoria che riserva ai figli non riconoscibili unicamente l’assegno vitalizio determini una palese incongruenza nella disciplina della filiazione, risultando — in virtù dell’affermazione del principio di unicità dello stato di figlio, affermato dal novellato art. 315 c.c. — priva dell’originaria ragione giustificatrice, stante l’eliminazione della categoria dei figli prima reputati sempre irriconoscibili e la parificazione, anche sul piano succes( 55 ) Cfr. G. Lisella, Riconoscimento di figlio nato da relazione incestuosa e autorizzazione del giudice, in R. Pane (a cura di), Nuove frontiere della famiglia, cit., p. 57 ss.; T. Auletta, Riconoscimento dei figli incestuosi (art. 251 c.c., come modificato dall’art. 1, comma 3o, l. n. 219/12), in Aa.Vv., Riforma del diritto della filiazione, cit., p. 475 ss.; G. Palazzolo, Riconoscimento dell’incesto e induzione al reato nel nuovo art. 251 c.c.: sulla perdurante importanza dell’azione di mantenimento ex art. 279 c.c. e dei diritti alimentari e successori dei figli incestuosi, in Corti salernitane, 2013, p. 62 ss., nonché Id., Riconoscimento dell’incesto e induzione al reato, in R. Cippitani e S. Stefanelli (a cura di), La parificazione degli status di filiazione, Atti del Convegno di Assisi 24-25 maggio 2013, Perugia-Roma-México 2013, p. 219 ss. ( 56 ) In luogo dell’assegno, il figlio ha diritto alla capitalizzazione in denaro ovvero, a scelta degli eredi legittimi, in beni ereditari (art. 580 c.c.). Dubbi sulla conformità a Costituzione di tale disciplina in U. Majello, Intervento, in La riforma del diritto di famiglia, Atti del I Convegno di Venezia del 30 aprile-1o maggio 1967, Padova 1967, p. 188; D. De Robertis Scapinelli, La giurisprudenza costituzionale in tema di filiazione naturale: lineamenti e spunti critici, in R. trim., 1976, p. 344; C. Miraglia, Riconoscibilità dei figli incestuosi e tutela della personalità umana, in P. Perlingieri, Rapporti personali nella famiglia, cit., p. 206 e A. Ambanelli, La filiazione non riconoscibile, in Il diritto di famiglia, III, Famiglia e adozione, in Tratt. Bonilini-Cattaneo, 2a ed., cit., p. 236. In opposta direzione, esclude l’incostituzionalità della norma, rinvenendo nella peculiare condizione dei figli incestuosi la ragione del diverso trattamento, R. Scognamiglio, sub art. 580 c.c., in Comm. alla riforma del diritto di famiglia Carraro-Oppo-Trabucchi, t. 1, II, Padova 1977, p. 859 s. SAGGI 615 sorio, tra figli nati nel matrimonio e figli nati al di fuori di esso (57). Ne consegue che, se si intendesse l’àmbito di applicazione degli artt. 580 e 594 c.c. limitato ai soli figli che — secondo la previgente disciplina — non potevano proporre l’azione di stato in quanto incestuosi (58), l’abrogazione tacita della normativa concernente il loro trattamento successorio costituirebbe una scelta obbligata. Una diversa soluzione può essere argomentata riferendo l’applicazione degli artt. 580 e 594 c.c. sia ai figli incestuosi tout court (ossia a quelli per i quali l’autorizzazione è negata) sia a quelli riconoscibili (in astratto) ma non riconosciuti in concreto (59) o perché, in ipotesi di figlio incestuoso, sia stata negata l’autorizzazione del giudice ovvero per effetto dei limiti generali al riconoscimento del figlio naturale derivanti dall’art. 250 c.c. In tali fattispecie, ancorché marginali, la soluzione dell’abrogazione tacita degli artt. 580 e 595 c.c. appare incongrua poiché permane l’esigenza di ricorrere alla tutela specifica dettata dalle norme in questione (60): si pensi alle ipotesi di figlio ultraquattordicenne non riconoscibile stante l’assenza del pro( 57 ) L’art. 71, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, ha abrogato la norma (art. 537, comma 3o, c.c.) che consentiva ai figli legittimi il diritto di commutazione. Per un’analisi dei profili successori, M. Paradiso, Status di filiazione e diritti successori nella riforma e R.D. Cogliandro, Diritti successori e commutazione, entrambi in R. Cippitani e S. Stefanelli (a cura di), La parificazione degli status di filiazione, cit., rispettivamente pp. 239 ss. e 261 ss., nonché A.P. Di Flumeri, Nuovi scenari e prospettive del diritto successorio alla luce della riforma della filiazione, in R. Pane, Nuove frontiere della filiazione, cit., p. 159 ss. e F. Delfini, Riforma della filiazione e diritto successorio, in Corr. giur., 2013, p. 545 ss. ( 58 ) In tale direzione, L. Carraro, sub art. 594, in Comm. alla riforma del diritto di famiglia, cit., p. 871 s. ( 59 ) In passato, per un’applicazione non limitata soltanto ai figli che non possono proporre l’azione di stato, G. Cattaneo, La vocazione necessaria e la vocazione legittima, in Tratt. Rescigno, 5, t. 1, 2a ed., Torino 1997, p. 480. Secondo L. Mengoni, Delle successioni legittime, sub artt. 565-586, in Comm. Scialoja Branca, Bologna-Roma, 1985, p. 75, il riferimento dell’art. 580 c.c. ai figli non riconoscibili « non ha un valore privativo nei confronti dei figli riconoscibili, ma soltanto un valore incrementativo: significa, cioè, che questi figli (non riconosciuti) non sono più, in nessun caso, ridotti al semplice assegno vitalizio, essendo loro consentito, senza più alcun limite, di provare la filiazione anche con una domanda di accertamento di stato ». In favore dell’estensione della normativa dettata dagli artt. 279, 580 e 594 ai figli riconoscibili e dichiarabili, ma privi di stato, G. Marinaro, I diritti dei figli privi di stato, Napoli 1991, pp. 14 ss., 50 ss. e 58 ss. (sul quale v. G. Lisella, « I diritti dei figli privi di stato »: a proposito di un recente contributo, in Rass. d. civ., 1993, p. 356 ss.). Sul tema cfr., inoltre, G. Marinaro, Àmbito di operatività della normativa di cui agli articoli 580 e 594 c.c., in tema di assegno successorio, in Rass. d. civ., 1981, p. 428 ss. La categoria dei figli naturali non riconoscibili aventi diritto all’assegno successorio non coincide con quella dei figli incestuosi per G.W. Romagno, La successione dei figli privi di stato alla luce di una recente sentenza della Corte costituzionale, in questa Rivista, 2003, II, p. 575 ss. ( 60 ) Il tema è discusso da M. Sesta, L’unicità dello stato di filiazione e i nuovi assetti delle relazioni familiari, cit., p. 238 s., secondo il quale gli articoli 580 c.c. e 594 c.c. conservano piena validità, risultando applicabili a talune fattispecie di figli non riconoscibili ancora rientranti nell’àmbito di applicazione dell’art. 279 c.c. 616 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 prio consenso (novellato art. 250, comma 2o, c.c.) ovvero al figlio inferiore di anni quattordici non riconoscibile per mancanza sia del consenso del genitore che abbia già effettuato il riconoscimento (art. 250, comma 3o, c.c.) sia dell’autorizzazione del giudice (art. 250, comma 4o, c.c.), nonché alla vicenda del figlio non riconoscibile in quanto nato da genitori che non abbiano compiuto il sedicesimo anno di età e che, valutate le circostanze e avuto riguardo al loro interesse, non siano stati autorizzati dal giudice (art. 250, comma 5o, c.c.) (61). Del pari, in ipotesi di figlio riconoscibile, ma non riconosciuto, il quale, piuttosto che agire per far accertare il proprio stato di figlio naturale, preferisca conseguire i soli diritti successori previsti dagli articoli 580 e 594 c.c., appare irragionevole negare a priori la scelta tra accedere alla predetta tutela ovvero agire per ottenere una dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale (62). 6. — Il quadro normativo sin qui tracciato rende evidente che i contenuti innovativi della riforma, « al di là dell’importanza tecnica, assum[ono] un valore culturale e simbolico di inestimabile portata » (63). ( 61 ) In tale direzione V. Barba, Le successioni mortis causa dei figli naturali dal 1942 al disegno di legge recante « Disposizioni in materia di riconoscimento dei figli naturali », in Fam. pers. succ., 2012, p. 665 s., secondo il quale le ipotesi nelle quali l’autorizzazione al riconoscimento è negata dal giudice legittima la vigenza nel nostro ordinamento di uno « statuto successorio dei figli non riconoscibili ». Pertanto, in tali fattispecie, le norme dettate dagli artt. 580 e 594 c.c. « non po[ssono] essere toccate e il disegno di legge in parola, pur comprimendo, nei fatti, ancóra assai significativamente, l’area della loro applicazione, non può dirsi che ne tolga il diritto a rimanere in vigore. Non vacilla, dunque, l’orizzonte di domande e problemi sollevati dalle predette regole, pur nella consapevolezza della residualità del caso ». ( 62 ) Così anche V. Barba, o.c., p. 666. Del pari, reputa inaccettabile la posizione di chi preclude il ricorso all’assegno vitalizio al figlio che volontariamente non abbia agito per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, A. Ciatti, in Id. (a cura di), Fam. e min., cit., p. 272 s. Ulteriori approfondimenti in M. Dossetti, in V. Cuffaro e F. Delfini, Delle successioni. Artt. 565-712, 2, in Comm. Gabrielli, Torino, 2010, p. 70 ss. ( 63 ) M. Bianca, L’uguaglianza dello stato giuridico dei figli nella recente l. n. 219 del 2012, cit., p. 206. In favore della piena eguaglianza tra figli cfr., prima della riforma (e con esplicito riferimento a Corte cost., 13 maggio 1998, n. 166, in Nuova g. civ. comm., 1998, I, p. 678 ss., con nota di G. Ferrando, Crisi della famiglia di fatto, tutela dei figli naturali, assegnazione della casa familiare), Corte cost., 21 ottobre 2005, n. 394 — in Notariato, 2006, p. 11 ss.; in Corr. giur., 2005, p. 1675 ss., con nota di V. Carbone, Anche il genitore affidatario di figli naturali può trascrivere il titolo di assegnazione della casa familiare — secondo la quale « la condizione dei figli deve essere considerata come unica, a prescindere dalla qualificazione del loro status, e non può incontrare differenziazioni legate alle circostanze della nascita: ciò perché il “principio di responsabilità genitoriale” di cui all’art. 30 della Costituzione rappresenta il fondamento di “quell’insieme di regole, che costituiscono l’essenza del rapporto di filiazione e si sostanziano negli obblighi di mantenimento, di istruzione e di educazione della prole” [...], regole che debbono trovare uniforme applicazione indipendentemente dalla natura, giuridica o di fatto, del vincolo che lega i genitori. Conseguentemente, “il matrimonio non costituisce più elemento di discrimine nei rapporti fra genitori e figli — legittimi e naturali riconosciuti — identico essendo il contenuto dei doveri, oltre che dei diritti, degli uni nei confronti degli altri” ». SAGGI 617 Non mancano, tuttavia, perplessità tali da alimentare il sospetto di un deliberato silenzio del legislatore riguardo a talune ulteriori questioni non risolte dalla riforma. Testimonianza eloquente di tale disagio si rintraccia nella perdurante incertezza caratterizzante la controversa problematica concernente la possibilità di riconoscere il diritto, ex art. 263 c.c., di impugnare il riconoscimento del figlio naturale al genitore che lo abbia effettuato nella consapevolezza della sua falsità (64). La giurisprudenza, in passato (65), reputava ammissibile tale impugnazione indipendentemente dalla situazione soggettiva dell’autore del riconoscimento, in quanto la corrispondenza tra gli stati familiari e la situazione reale era considerata rispondente ad un’esigenza pubblicistica superiore, in grado di giustificare l’impugnazione di chiunque ne avesse interesse, compreso l’autore in mala fede della falsa dichiarazione di riconoscimento. A fronte della consapevolezza secondo la quale, così facendo, si consentirebbe a chiunque di precedere ad un riconoscimento di figlio naturale non veridico, attribuendo perfino all’autore in mala fede la legittimazione ad impugnarlo in qualsiasi momento, si osservava — in aggiunta a quanto precisato in una delle pronunce più risalenti, secondo la quale l’impugnazione del riconoscimento non comporterebbe una deroga alla sua irrevocabilità (66) — che « solo un intervento correttivo dell’odierno legislatore potrebbe ovviare al grave inconveniente di cui or ora si è detto » (67); ciò in ragione del principio di ordine superiore di tutela della verità (68). ( 64 ) L’art. 263 c.c. è sostituito dall’art. 28 del decreto legislativo n. 154 del 2013. La riforma (sulla quale v. R. Rosetti, Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, in Aa.Vv., Modifiche al codice civile e alle leggi speciali, cit., p. 46 ss.) non ha inciso sul problema affrontato nel testo, essendo rimasto immutato il comma 1o, secondo il quale « il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall’autore del riconoscimento, da colui che è stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse ». Tra le innovazioni apportate dalla novella alla norma in questione si registrano: l’eliminazione della disposizione che consentiva il riconoscimento anche dopo la legittimazione; la precisazione secondo la quale l’imprescrittibilità dell’azione opera esclusivamente riguardo al figlio; la possibilità per i soggetti legittimati (diversi dall’autore) di impugnare il riconoscimento entro il termine di cinque anni dall’annotazione sull’atto di nascita; la previsione del termine, a decorrere dalla medesima circostanza, di un anno quale lasso temporale entro il quale è consentito all’autore di procedere all’impugnazione del riconoscimento. Riguardo a tale ultimo profilo, la Consulta — chiamata a pronunciarsi sulla conformità a Costituzione della predetta norma, nella parte ove, prima della riforma, ometteva di sottoporre ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di esperire l’azione di impugnazione per difetto di veridicità — aveva dichiarato la questione inammissibile, affermando che è cómpito del legislatore procedere all’indicazione delle modalità e dei termini per sollevare l’azione prevista dall’art. 263 c.c.: Corte cost., 12 gennaio 2012, n. 7, in Giur. cost., 2012, p. 45 ss. ( 65 ) Cass., 24 maggio 1991, n. 5886, in F. it., 1992, I, c. 449 ss. ( 66 ) Cass., 16 luglio 1956, n. 2721, in Rep. F. it., 1956, voce Filiazione, n. 93. ( 67 ) Cass., 24 maggio 1991, n. 5886, cit. ( 68 ) Cfr. Cass., 16 luglio 1956, n. 2721, cit., secondo la quale « la legge, per i motivi di ordine pubblico che prevalgono nelle questioni di stato, consente che l’autore del riconosci- 618 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 In opposta direzione, un orientamento diffuso specie nella giurisprudenza di merito più recente (69), ha precisato che l’interpretazione dell’art. 263 c.c. conforme ai princìpi fondamentali dell’ordinamento vigente « impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità », poiché « attribuire la legittimazione ad impugnar[lo] a chi lo abbia in mala fede effettuato, o concorso ad effettuare, ha sul piano logico la stessa valenza di una revoca, vietata espressamente dalla legge (art. 256 c.c.) » (70). Su tali presupposti e alla luce del parallelismo con la giurisprudenza in materia di fecondazione eterologa — la quale nega la legittimazione all’azione di disconoscimento al marito che abbia prestato il proprio consenso alla fecondazione assistita (71) — il diritto di impugnare il riconoscimento di figlio naturale è negato all’autore consapevole della sua falsità. Divergenze di pari rilievo si registrano in dottrina (72), ove alla ricostruzione contraria all’impugnazione del riconoscimento per l’autore consapevole mento provi di aver mentito » nel rendere la falsa dichiarazione. Si ispira al « principio di ordine superiore che ogni falsa apparenza di stato deve cadere » Corte cost., 18 aprile 1991, n. 158, in G. cost., 1991, p. 1373, la quale considera non fondata — in riferimento agli artt. 2, 3, 30 e 31 cost. — la questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 c.c., nella parte ove non prevede che l’impugnazione del riconoscimento del figlio minorenne per difetto di veridicità possa essere accolta soltanto quando sia reputata dal giudice rispondente all’interesse del minore stesso. Significativamente la pronuncia afferma che, « mentre a fondamento della legittimazione all’impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità del riconosciuto o del terzo sono individuabili posizioni di interesse personale, sia morale sia patrimoniale, nella legittimazione dell’autore del mendacio può residuare soltanto l’interesse disinteressato alla verità, mero pentimento per la falsità dichiarata ». In analoga direzione, Corte cost., 22 aprile 1997, n. 112, in Foro it., 1999, I, c. 1764 ss. e Trib. Genova, 26 aprile 2012, consultabile sulla banca dati Pluris online. ( 69 ) Trib. Roma, 5 ottobre 2012, in Rass. d. civ., 2013, p. 926 ss., con commento di P. Virgadamo, Falso e consapevole « riconoscimento » del figlio naturale o vero atto (illecito) comportante l’assunzione della responsabilità genitoriale? Per un’interpretazione non formalistica dell’atto privato; Trib. Roma, 17 ottobre 2012, in Corr. giur., 2013, p. 343 ss., con commento di F. Festi, Riconoscimento consapevolmente non veritiero di figlio nato fuori dal matrimonio e ripensamento; M.G. Stanzione, Interesse del minore e verità biologica nel riconoscimento di compiacenza, in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 349 ss.; S. Cherti, « Io non ti conosco, io non so chi sei... »: note sull’impugnazione per difetto di veridicità, in G. it., 2013, p. 849 ss.; F. Farolfi, Riconoscimento per compiacenza e legittimità dell’impugnazione, in Fam. e d., 2013, p. 911 ss. e L. Attademo, Mala fede nel riconoscimento del figlio naturale e possibilità di impugnazione ex art. 263 c.c., in Corr. merito, 2013, p. 155 ss. Cfr., inoltre, Trib. Napoli, 11 aprile 2013, in F. it., 2013, c. 2040 ss. e Trib. Napoli, 28 aprile 2000, in G. napoletana, 2000, p. 277 ss. Con particolare attenzione alla giurisprudenza del Tribunale e della Corte d’appello di Napoli, M.R. Scotti, Status personae e impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicità, in Foro nap., 2014, p. 107 ss. ( 70 ) Trib. Roma, 17 ottobre 2012, cit. ( 71 ) Per l’incostituzionalità del divieto di fecondazione eterologa (art. 4, comma 3o, l. 19 febbraio 2004, n. 40) cfr. Corte cost., 9 aprile 2014 (ad oggi in attesa di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale). ( 72 ) Per un’efficace sintesi delle diverse ricostruzioni, P. Virgadamo, o.c., p. 932 ss. SAGGI 619 della sua falsità (73), si oppone chi considera conforme all’interesse del minore l’accertamento di filiazione non veridica (74). Parimenti, plaude a tale impostazione la posizione che pone l’accento sull’esigenza di superare ogni falsa apparenza dello status filiationis (75) e chi sottolinea l’opportunità « di un’interpretazione evolutiva » che sappia affermare tale legittimazione e, al contempo, ricercare adeguate soluzioni contro riconoscimenti di figli naturali effettuati — diversamente da quanto previsto in materia di adozioni — con troppa facilità (76). Una simile contrapposizione di opinioni e di esiti decisori avrebbe richiesto una maggiore attenzione da parte del legislatore della riforma, imponendogli di prendere posizione in modo non equivoco per l’una o l’altra posizione. Invero, il problema è oggi suscettibile di una nuova valutazione in ragione delle recenti modifiche apportate all’art. 263 c.c. dall’art. 28, d.lg. 28 dicembre 2013, n. 154, le quali sembrano aprire la strada ad un’interpretazione della disciplina in favore della legittimazione all’impugnativa all’autore in mala fede del falso riconoscimento. La riforma sancita dal decreto, nel sostituire la formulazione del precedente disposto normativo, ha eliminato una delle più evidenti e discusse differenze dell’impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità rispetto all’esercizio dell’azione di disconoscimento, là dove quest’ultima, in quanto conforme al favor legittimitatis a fondamento della filiazione nel matrimonio, è basata su brevi termini di decadenza per il suo esercizio; la prima, invece, non prevedeva alcun termine di decadenza a base dell’azione. La nuova disciplina introduce, nel segno di una maggiore congruenza tra le due normative, termini brevi di decadenza anche per l’impugnazione del riconoscimento, sia per l’autore — il quale può agire entro un anno dall’anno( 73 ) L’impugnativa non può essere proposta dall’autore del riconoscimento, se non provando la sua buona fede, per F.D. Busnelli, La disciplina dei vizi del volere nella confessione e nel riconoscimento dei figli naturali, in R. trim. d. proc. civ., 1959, p. 1263 s., secondo il quale tale ricostruzione è compatibile con il rilievo generale che assume la buona fede nel diritto di famiglia e, più in particolare, nell’art. 263 c.c., nel quale « può riscontrarsi appunto una delle applicazioni più significative ed appropriate di quel principio ». Replica a tale ricostruzione A. D’Antonio, Filiazione naturale (1950-1969), in questa Rivista, 1961, II, p. 369 s., secondo il quale la ragione giustificatrice dell’impugnativa per difetto di veridicità si rinviene nella necessaria corrispondenza tra realtà giuridica e realtà di fatto, sì da non poter condizionare la preminenza di siffatto interesse allo stato soggettivo dell’autore del riconoscimento. Inoltre, riguardo al rilievo generale della buona fede, si precisa che « questa affermazione potrebbe essere accettata solo nel caso in cui la buona fede dovesse operare a favore del soggetto, non contro; nel senso cioè di escludere una limitazione, non d’imporla » [Id., o.c., p. 370]. ( 74 ) Esclude che, ai fini dell’impugnazione del riconoscimento, rilevino gli stati soggettivi dell’autore E. Carbone, sub art. 263, in L. Balestra, Della famiglia, artt. 177-342 ter, cit., p. 586 s. ( 75 ) G. Savi, L’impugnazione dello status filiationis per difetto di veridicità da parte dell’autore del riconoscimento in mala fede, in G. it., 2013, pp. 1552 e 1549 s. ( 76 ) F. Festi, Riconoscimento consapevolmente non veritiero, cit., pp. 349 ss. e 351. 620 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 tazione del riconoscimento sull’atto di nascita — sia per gli altri legittimati (entro cinque anni dall’annotazione). Così facendo, la prevalenza del favor veritatis, a fondamento della filiazione al di fuori del matrimonio, non assume un rilievo assoluto ma è mitigata, nel segno di una più ampia tutela del minore, dalle predette limitazioni temporali, al fine di evitare il rischio di rapporti di filiazione esposti sine die ad eventuali impugnazioni. Il ragionevole contemperamento di interessi, in tal modo raggiunto, coniuga la preminenza del diritto alla verità biologica (77) — ossia l’esigenza di far cadere ogni falsa apparenza di status nella filiazione non basata sul matrimonio — con il soddisfacimento delle esigenze di certezza e di stabilizzazione dello status filiationis (anche se non fondato sul vincolo matrimoniale), sì da rendere auspicabile un nuovo intervento legislativo che, nel tener conto di tale soluzione desunta in maniera sistematica, attribuisca in maniera esplicita all’autore in mala fede l’impugnativa del riconoscimento c.d. per compiacenza. Ciò in quanto la previsione di un ristretto termine di decadenza per l’impugnativa ha un duplice merito: da un lato, nei limiti dell’intervallo di un anno dall’annotazione, consente l’acquisizione di uno stato corrispondente alla realtà biologica (78) e agevola la tutela del diritto alla verità circa le proprie origini; dall’altro, di là dagli stringenti confini temporali, stabilizza e conferisce certezza allo status di figlio naturale acquisito con il riconoscimento. Una distinta riflessione investe la problematica concernente i pregiudizi subiti dal minore a causa del riconoscimento consapevolmente non veridico. Benché la riforma, introducendo brevi termini di decadenza, abbia circoscritto i danni per il minore alla sua prima fase di vita, non può tacersi che il comportamento in mala fede dell’autore del riconoscimento integri una condotta penalmente rilevante (79), tale da legittimare un’azione di risarcimento ( 77 ) Sul rilievo del diritto alla verità, a fondamento dell’art. 263 c.c., G. Bonilini, Disconoscimento della paternità e dies a quo della decadenza dalla relativa azione, in Fam. pers. succ., 2012, p. 410 s. ( 78 ) « Non vi può essere conflitto tra “favor veritatis” e “favor minoris”, ove si consideri che l’autenticità del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore, quale inviolabile diritto alla sua identità »: Cass., 15 aprile 2005, n. 7924, in Fam. e d., 2005, p. 436 ss. ( 79 ) Il riconoscimento in mala fede integra — secondo U. Majello, Della filiazione naturale e della legittimazione, sub artt. 250-290, in Comm. Scialoja-Branca, 2a ed., Bologna-Roma, 1982, p. 136 s. — un delitto contro la fede pubblica, ex art. 495 c.p. (« Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri »). In tale direzione, Cass. pen., 28 giugno 1994, n. 8996, in R. pen., 1995, p. 1195 ss., la quale, dopo aver escluso che, in ipotesi di riconoscimento di figlio naturale, il pubblico ufficiale che riceve la dichiarazione possa rispondere del reato previsto dall’art. 479 c.p., stante l’assenza della sua attestazione circa la veridicità della dichiarazione, precisa che « commette, invece, il reato di cui all’art. 495 c.p. colui che dichiara falsamente al pubblico ufficiale la propria qualità di padre e l’altrui qualità di figlio, in relazione al riconoscimento di paternità compiuto ». Si discute se tale condotta integri un’ipotesi di alterazione di stato, ex art. 567, comma 2o, c.p.: il problema è accennato da U. Majello, o.c., p. 137, nota n. 10. Lo esclude Corte cost., 10 novembre 1989, n. 500, in G. cost., 1989, I, p. SAGGI 621 dei danni patrimoniali e non patrimoniali ex art. 2059 c.c., stante la sussistenza non soltanto di una fattispecie penalmente rilevante quanto, soprattutto, della lesione dei diritti inviolabili del figlio, il quale rimane privo dello status che fino a quel momento aveva contraddistinto la sua esistenza. 7. — Problematiche di eguale rilievo si annidano intorno alle differenze tra l’accertamento della maternità di donna coniugata e quello di madre non coniugata, nonché, correlativamente, riguardo al diritto della madre biologica all’anonimato (80). È noto infatti che la filiazione da donna coniugata si instaura previo accertamento dell’ufficiale di stato civile che riceve la dichiarazione di nascita dai soggetti legittimati, sì che lo status di figlio della madre si costituisce con la menzione di quest’ultima nell’atto di nascita, salvo che si avvalga della facoltà di non essere nominata (espressamente prevista dall’art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396) (81). Diversamente, la filiazione fuori del matrimonio si accerta mediante l’atto di riconoscimento di ciascun genitore (art. 252 c.c.) ovvero, in mancanza, con dichiarazione giudiziale di maternità o di paternità naturale (artt. 269 ss. c.c.). Il diverso sistema di accertamento — per impulso dell’ufficiale di stato civile, in ipotesi di donna coniugata; in séguito ad un atto di volontà della donna, per il riconoscimento del figlio naturale (82) — è alla base dell’eviden2332 ss., la quale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 567, comma 2o, c.p., sollevata con riferimento agli artt. 3 e 30, comma 2o, cost., nella parte ove non prevede che il falso riconoscimento di figlio naturale successivo alla formazione dell’atto di nascita possa essere ricompreso nell’ipotesi di alterazione di stato, piuttosto che in quella stabilita dall’art. 495 c.p. per il reato di falsa dichiarazione a pubblico ufficiale sull’identità o qualità di altri. Per una sintesi riguardo alle diverse fattispecie penali configurabili, M. Di Nardo, Venire contra factum proprium: applicabilità del principio in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, nota a Trib. Civitavecchia, 19 dicembre 2008, in G. mer., 2010, p. 1250 ss. ( 80 ) Il tema è affrontato, ampiamente, da A. Renda, L’accertamento della maternità. Profili sistematici e prospettive evolutive, Torino, 2008, p. 3 ss. (cfr., inoltre, Id., L’accertamento della maternità: anonimato materno e responsabilità per la procreazione, in Fam. e d., 2004, p. 510 ss.) e da M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e sistema dello Stato civile, cit., p. 323 ss. In passato, perplessità erano manifestate già da F. Santoro Passarelli, La filiazione naturale nel progetto di codice civile, cit., p. 443 s. Più in generale, A. Renda, Equiparazione o unificazione degli status filiationis? Proposte per una riforma del sistema di accertamento della filiazione, in questa Rivista, 2008, II, p. 103 ss.; G. Bonilini, Lo status o gli status di filiazione?, in La filiazione verso un unico status, Atti del Convegno di Como 23-24 giugno 2006, 2/2006, p. 11 ss., consultabile sul sito www.aiaf.avvocati.it. Sul punto cfr., inoltre, M. Porcelli, Spunti per una riforma del sistema di accertamento della filiazione, in R. g. Mol. Sannio, 2012, p. 403 ss., nonché Ead., Note preliminari allo studio sull’unificazione dello stato giuridico dei figli, in Dir. fam., 2013, p. 654 ss. ( 81 ) Secondo tale norma, « la dichiarazione di nascita è resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata ». ( 82 ) Sul tema A. Palazzo, Atto di nascita e riconoscimento nel sistema di accertamento 622 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 te incongruenza che legittima la madre a rimanere nell’anonimato e a mantenere il segreto sulla sua identità, impedendo al figlio di venire a conoscenza della propria storia parentale. Tale « posizione di preminenza della donna in ordine alla costituzione dello status di figlio » (83) fa sì che, come lucidamente avvertito da autorevole dottrina (84), la madre possa avvalersi del diritto all’anonimato non soltanto se il figlio sia nato in conseguenza di una relazione extraconiugale quanto, addirittura, se concepito con il marito (85), osteggiando la costituzione dello status di figlio legittimo, nonostante il rischio di incorrere nelle conseguenze previste in materia di delitto di alterazione di stato (art. 567 c.p.) (86). della filiazione, in questa Rivista, 2006, p. 152 e M. Dossetti L’accertamento della filiazione legittima tra automatismo e principio volontaristico, in Scritti in memoria di Giovanni Cattaneo, II, Milano 2002, p. 817 ss. « Naturalmente è assurdo pensare che questa differenza » — presupponendo un accertamento « “automatico” » per la filiazione nata nell’àmbito del matrimonio; rispondente invece al principio « “volontaristico” », per quella fuori dal matrimonio — « possa essere eliminata con riguardo all’accertamento della paternità [...]. Viceversa una unificazione dei criteri legislativi è tutt’altro che assurda con riguardo all’accertamento dell’identità della madre. Tale unificazione potrebbe attuarsi [...] con l’estensione del criterio dell’accertamento automatico anche alla madre naturale, e cioè con l’accoglimento del principio mater semper certa est »: G. Cattaneo, Della filiazione legittima, sub artt. 231-249, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1988, p. 10. Sull’estraneità al quadro dei princìpi costituzionali del principio volontaristico a base dell’accertamento della maternità, A. Renda, L’accertamento della maternità, cit., p. 256 s. (corsivo originale), secondo il quale « se è vero che la madre che non riconosce il figlio pone in essere una scelta che determina una situazione conflittuale con il principio di solidarietà sociale, è altrettanto vero che è l’ordinamento, nel predisporre una disciplina facoltizzante nei riguardi della maternità, a dar luogo ad un’inadeguata realizzazione del principio costituzionale di responsabilità e, correlativamente, del principio di solidarietà sociale di cui all’art. 2 cost., che meriterebbe di essere corretta attraverso l’adozione di un sistema di accertamento idoneo a garantire l’assunzione della responsabilità materna non intermediata da un atto di volontà » (corsivo originale). ( 83 ) M. Mantovani, o.c., p. 328. ( 84 ) M. Mantovani, o.l.u.c., nonché Ead., Il primato della maternità nell’accertamento dello status di figlio, in Liber Amicorum per Dieter Henrich, I, Torino 2012, p. 138 ss. ( 85 ) Per una sintesi dei diversi orientamenti riguardo al controverso problema se la facoltà di non essere nominata spetti anche alla madre coniugata di figlio nato fuori del matrimonio, cfr. A. Zaccaria, M. Faccioli, R. Omodei Salè e M. Tescaro, Commentario all’ordinamento dello stato civile. Aggiornato alla legge 10 dicembre 2012, n. 219 (in materia di riconoscimento dei figli naturali), Santarcangelo di Romagna 2013, p. 185 ss. ( 86 ) Cfr. M. Mantovani, o.c., pp. 329 e 332. Di recente, la Corte costituzionale — con sentenza del 23 febbraio 2012, n. 31, in F. it., 2012, I, c. 1992 (sulla quale v. Mar. Mantovani, La Corte costituzionale fra soluzioni condivise e percorsi ermeneutici eterodossi: il caso della pronuncia sull’art. 569 c.p., in G. cost., 2012, p. 377; D. Chicco, Se proteggere un figlio diventa una condanna: la Corte costituzionale esclude l’automatismo della perdita della potestà genitoriale, in Fam. e d., 2012, p. 544 ss.) — ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 569 c.p., nella parte ove prevede che, in caso di condanna pronunciata contro il genitore per il delitto di alterazione di stato, ex art. 567, comma 2o, c.p., debba conseguire automaticamente la perdita della potestà genitoriale, precludendo al giudice ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore. SAGGI 623 La disciplina in esame assume un significato ancor più preoccupante in ragione dell’evoluzione che si registra in àmbito sovranazionale in materia di accesso dell’adottato alle informazioni relative alla propria madre. La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza del 25 settembre 2012 (87), ha sancito la violazione dell’art. 8 della Convenzione di Strasburgo da parte della normativa italiana — in particolare, l’art. 28, comma 7o, l. 4 maggio 1983, n. 184, poi sostituito dall’art. 177, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 — che non consente all’adottato l’accesso alle informazioni relative alla madre che alla nascita abbia dichiarato di non volere essere nominata (88), in quanto la disciplina in questione impedisce al figlio adulto, non riconosciuto e adottato da terzi, di accedere alle informazioni identificative delle proprie origini familiari e non consente di verificare la persistenza della volontà della madre biologica di non essere identificata. Dal suo canto, la giurisprudenza costituzionale, conformandosi a tale pronuncia, segna il raggiungimento di un importante risultato con la decisione del 22 novembre 2013, n. 278 (89), la quale ha dichiarato l’incostituziona( 87 ) Sentenza Godelli c. Italia, pubblicata in Nuova g. civ. comm., 2013, p. 103 ss., con commento di J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata; sul tema cfr. V. Carbone, Corte Edu: conflitto tra il diritto della madre all’anonimato e il diritto del figlio a conoscere le proprie origini, in Corr. giur., 2013, p. 940 ss.; G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 544 ss.; P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato?, ivi, p. 822 ss. (il quale, dopo alcuni rilievi critici alla sentenza, richiama l’attenzione sull’esigenza di rispettare il diritto della madre alla tutela della propria vita privata, evitando intrusioni finalizzate ad indagare su scelte personali fatte in contesti affettivi e personali di particolare gravità) e, prima ancóra, Id., L’adottato alla ricerca delle proprie origini. Spunti di riflessione, ivi, 2011, p. 204 ss. ( 88 ) Secondo l’art. 177, comma 2o, d.lgs. 30 giugno 2003, 196, « il comma 7o dell’articolo 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni, è sostituito dal seguente: “L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1o, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396” ». Sulla complessità di tale disciplina e sui numerosi interessi coinvolti, R. Pane, Favor veritatis e diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini nella recente riforma delle adozioni, in Rass. d. civ., 2003, p. 240 ss.; G. Lisella, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo dell’art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. d. civ., 2004, p. 413 ss.; M. Petrone, Il diritto dell’adottato alla conoscenza delle proprie origini, Milano, 2004; L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, p. 241 ss.; L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini fra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici, in Familia, 2006, p. 161 ss. ( 89 ) In Fam. e d., 2014, p. 11 ss., con commento di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato ed adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno, il quale auspica una riforma legislativa in grado di bilanciare il diritto all’anonimato sia con la responsabilità per il fatto della procreazione sia con i diritti del figlio. Sul tema, incisivamente, M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, p. 1768 ss. Precedentemente, la Consulta (con sen- 624 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 lità dell’art. 28, comma 7o, l. 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), come sostituito dall’art. 177, comma 2o, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), « nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare la persona adottata all’accesso alle informazioni sulle origini senza avere previamente verificato la persistenza della volontà di non volere essere nominata da parte della madre biologica ». Sul presupposto secondo il quale « il diritto del figlio a conoscere le proprie origini — e ad accedere alla propria storia parentale — costituisce un elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona », si contesta l’irreversibilità della scelta per l’anonimato, precisando che una simile decisione, se da un lato può comportare una « rinuncia irreversibile alla “genitorialità giuridica” », dall’altro « può [...] ragionevolmente non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla “genitorialità naturale” », poiché se così fosse « risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost. ». Su tali basi la pronuncia invita il legislatore ad « introdurre apposite disposizioni volte a consentire la verifica della perdurante attualità della scelta della madre naturale di non voler essere nominata » e, al contempo, « a cautelare in termini rigorosi il suo diritto all’anonimato, secondo scelte procedimentali che circoscrivano adeguatamente le modalità di accesso, anche da parte degli uffici competenti, ai dati di tipo identificativo » (90). I nuovi scenari, dottrinali e giurisprudenziali, impongono di porre rimedio agli inconvenienti lasciati aperti dalla riforma e procedere ad una rimeditazione del problema: « non si riesce infatti a capire » — come autorevolmente rilevato prima della riforma, benché riguardo ad un problema affine (91) — « in tenza del 25 novembre 2005, n. 425, in Familia, 2006, p. 161 ss., con nota di L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici; di L. Carletti, Informazioni sulle proprie origini: legittimo il divieto ove la madre abbia dichiarato di non voler essere nominata, in Dir. fam., 2006, p. 884 ss. e di F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, in Fam. e d., 2006, p. 130 ss. Sul rapporto con i precedenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, E. Lamarque, I diritti dei figli, in M. Cartabia, I diritti in azione, Bologna 2007, p. 285 s., nonché, per un’analisi del problema nel contesto europeo, E. Bolondi, Il diritto della partoriente all’anonimato: l’ordinamento italiano nel contesto europeo, in Nuova g. civ. comm., 2009, p. 281 ss.) ha dichiarato la questione infondata, atteso che la norma impugnata è considerata « espressione di una ragionevole valutazione comparativa dei diritti inviolabili dei soggetti della vicenda ». Cfr., inoltre, le ordinanze di inammissibilità e di restituzione degli atti al giudice remittente: Corte cost., 22 giugno 2004, n. 184, in G. cost., 2004, p. 1868 ss. e Corte cost., 16 luglio 2002, n. 350, ivi, 2002, p. 2636 ss. ( 90 ) Corte cost., 22 novembre 2013, n. 278, cit. ( 91 ) S. Pagliantini, Princìpi e sistema della filiazione, cit., p. 555, con particolare attenzione al divieto, ex art. 9, comma 4o, r.d.lg. 8 maggio 1927, n. 798, per gli istituti assistenziali, di rivelare ai minori non riconosciuti e ospitati i risultati delle indagini condotti sulla maternità e alla pronuncia (Corte cost., 15 luglio 1975, n. 207, in F. it., 1975, I, c. 2677 ss.) di infondatezza della questione di legittimità costituzionale di tale norma. SAGGI 625 che modo il segreto sull’identità anagrafica della madre dovrebbe giovare a chi chiede, del tutto legittimamente, l’accertamento giudiziale del proprio status filiationis ». Del pari, non è chiaro come la predetta disciplina « possa coesistere con una disposizione — l’art. 269 nuovo testo — che ammette la ricerca, della paternità e della maternità naturale, con ogni mezzo di prova » (92). In ragione di tali precisazioni, contro l’ampio potere della donna di determinare la costituzione dello status di nato avvalendosi del diritto all’anonimato, convince la posizione di quella parte della dottrina che pone l’accento sull’esigenza di limitare la facoltà della donna coniugata di non essere nominata nell’atto di nascita a fronte del diritto del nato alla propria identità personale, sì da ammettere la predetta facoltà unicamente nelle ipotesi nelle quali il nato sia concepito ad opera di persona diversa dal marito e « non invece al fine di privare il nato di uno stato legittimo che gli spetta, allorché sia stato effettivamente concepito ad opera del marito della madre » (93). Consegue che il diritto all’anonimato della madre, se riletto in funzione applicativa dei princìpi costituzionali e in considerazione della tutela del diritto del minore allo status di figlio legittimo, giammai può comportare un arbitrio della madre nel precludere l’accertamento della filiazione legittima (94). Al termine dell’analisi sin qui svolta, l’approfondimento dei contenuti realmente innovativi e delle lacune non colmate dalla riforma rende evidenti le difficoltà derivanti dalla tensione tra le spinte emancipatrici — inclini a superare le disparità di trattamento tra figli — e le ricostruzioni tese a prospettare soluzioni del tutto disancorate da posizioni del passato, le quali ancóra riecheggiano in talune problematiche non risolte dall’intervento riformatore. Il processo di rimeditazione non può dirsi concluso: valorizzare tale prospettiva significa proseguire nel cammino verso l’evoluzione della disciplina della filiazione nel segno di un rinnovato equilibrio, finalizzato alla piena attuazione dell’interesse del minore, alla concreta affermazione della responsabilità genitoriale per il fatto della procreazione e alla preminenza del favor veritatis in ogni vincolo familiare, a prescindere dalle circostanze del concepimento. ( 92 ) S. Pagliantini, o.l.u.c. ( 93 ) M. Mantovani, Questioni in tema di accertamento della maternità e sistema dello Stato civile, cit., p. 331. Cfr., inoltre, G. Ferrando, La filiazione: problemi attuali e prospettive di riforma, in Fam. e d., 2008, p. 643 s. (nonché Ead., Libertà, responsabilità e procreazione, Padova 1999, p. 153) secondo la quale, tuttavia, l’obbligo di rispettare la volontà della madre all’anonimato non vincolerebbe il marito, il quale potrebbe comunque denuciare il figlio come legittimo, consentendogli di acquisire il relativo status anche nei confronti della madre. Del pari, esclude l’obbligo per il marito di rispettare la volontà della moglie di non essere nominata M. Dossetti, L’accertamento della filiazione legittima tra automatismo e principio volontaristico, cit., p. 835 (v., inoltre, Ead., Sull’accertamento dello status del figlio nato in costanza di matrimonio, in Fam. e d., 2007, p. 84 ss.). Rilievi critici a tale posizione sono espressi da A. Renda, L’accertamento della maternità, cit., p.149, nota n. 78. ( 94 ) La prospettiva sistematica ed assiologica e l’attuazione del principio di solidarietà, nell’interpretazione dell’art. 30, comma 1o, d.p.r. n. 396/2000, è valorizzata da A. Renda, op. cit., pp. 131 ss. e 139 s. Pietro Sirena Prof. ord. dell’Università di Siena IL PROBLEMA DELLA TRASCRIVIBILITÀ DELLA DOMANDA DI RISCATTO LEGALE (*) Sommario: 1. La tesi tradizionale secondo cui la domanda di riscatto legale e la sentenza che l’accolga sarebbero trascrivibili ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c. e, rispettivamente, dell’art. 2651 c.c. — 2. La posizione di coloro che hanno avuto causa dal riscattato prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del riscatto legale. — 3. La posizione di coloro che hanno avuto causa dal riscattato dopo che era scaduto il medesimo termine: la critica della tesi secondo cui la domanda di riscatto legale sarebbe allora trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 c.c. — 4. Segue: la critica della tesi secondo cui la domanda di riscatto legale sarebbe allora trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c. — 5. La coerenza della tesi tradizionale dal punto di vista del sistema della pubblicità legale: il tertium comparationis della trascrizione della domanda di annullamento del contratto per l’incapacità legale della parte contraente ai sensi dell’art. 2652, n. 6, c.c. — 6. Segue: il tertium comparationis della trascrizione della domanda di devoluzione del fondo enfiteutico ai sensi dell’art. 2653, n. 2, c.c. 1. — In alcuni precedenti in materia di prelazione agraria (1), la Corte di Cassazione ha affermato che la sentenza la quale accolga la domanda di riscatto legale di un immobile è un « valido titolo per la trascrizione ai sensi dell’art. 2651 c.c., consistendo in una sentenza da cui risulta acquistato il diritto di proprietà su un bene immobile »: essa, infatti, « non deve contenere la condanna degli acquirenti a trasferire il fondo ma solo constatare il già avvenuto trasferimento ». Affermata tale soluzione, non sussiste alcuna ragione per escludere che essa valga anche per le restanti ipotesi di prelazioni legale (2), nonostan(*) Il saggio è destinato agli Scritti in memoria di Giovanni Gabrielli. ( 1 ) Cass. 17 agosto 1988, n. 4957, in Giur. agr. it., 1989, p. 91 ss.; Cass. 26 ottobre 1979, n. 5606, in R. not., 1980, II, p. 515 ss. ( 2 ) Ai sensi dell’art. 732, comma 1o, c.c., qualora una quota della comunione ereditaria (o parte di essa) sia stata alienata a un estraneo senza che la relativa proposta fosse stata notificata agli altri coeredi, ciascuno di costoro, in quanto è per legge prelazionario (c.d. prelazione ereditaria), può riscattarla dall’acquirente e da ogni successivo avente causa, finché dura la comunione ereditaria (c.d. retratto successorio). Tale disposizione legislativa è poi espressamente richiamata dall’art. 230 bis, comma 5o, c.c. a proposito della divisione ereditaria ovvero del trasferimento dell’azienda mediante la quale si eserciti un’impresa familiare. Qualora soddisfi i requisiti di cui all’art. 8 della l. 26 maggio 1965, n. 590 (Disposizioni per lo sviluppo della proprietà coltivatrice), l’affittuario di un fondo rustico, a parità di condizioni, ha diritto di prelazione (c.d. agraria) nella sua vendita ovvero nella sua concessione in enfiteusi (comma 1o). Nel caso in cui il proprietario abbia alienato il medesimo fondo senza notificare la proposta all’affittuario prelazionario, quest’ultimo può, entro un anno dalla trascrizione del contratto di vendita, esercitare il diritto di riscatto nei confronti 628 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 te essere possano considerate giuridicamente eterogenee da altri punti di vista. Premesso che la trascrizione delle sentenze di cui all’art. 2651 c.c. ha l’effetto di una mera notizia (3), si deve pertanto ritenere che il riscattante prevalga senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato, per quanto essi possano aver anteriormente trascritto (o iscritto) il loro acquisto. Analogamente deve dirsi a proposito della domanda di riscatto legale, la quale, in quanto è diretta alla rivendicazione ovvero all’accertamento della proprietà di un bene immobile, deve considerarsi trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c. (4). Tale pubblicità legale può infatti produrre soltanto un effetto di diritto processuale, ma, come si dirà meglio nel prosieguo, non è idonea sul piano del diritto sostanziale a far salvo l’acquisto di coloro che abbiano avuto causa dal convenuto (ossia, dal riscattato) in base a un atto anteriormente trascritto (o iscritto) (5). Il capoverso dell’art. 2653, n. 1, c.c. statuisce infatti che, trascritta la domanda diretta a rivendicare la proprietà o altri diritti reali di godimento su beni immobili ovvero diretta al loro accertamento (6), la sentenza pronunciata del terzo acquirente e di ogni successivo avente causa (comma 5o). L’art. 7, comma 2o, n. 2), della l. 14 agosto 1971, n. 817 (Disposizioni per il rifinanziamento delle provvidenze per lo sviluppo della proprietà coltivatrice) ha successivamente previsto che, nel caso in cui il fondo rustico non sia stato concesso in affitto, un’analoga prelazione legale spetta al proprietario di fondi confinanti che sia un coltivatore diretto: nel caso in cui sia stato pretermesso, anche quest’ultimo potrà pertanto esercitare il diritto di riscatto legale di cui si è detto. L’art. 38 della l. 27 luglio 1978, n. 392 (Disciplina delle locazioni di immobili urbani) statuisce che chi ha preso in locazione un immobile a uso non abitativo ha diritto di prelazione (c.d. urbana) nel suo trasferimento a titolo oneroso; nel caso in cui sia stato pretermesso, l’art. 39, comma 1o, della medesima legge (ancor oggi c.d. sull’equo canone) può, entro sei mesi, riscattare l’immobile dall’acquirente e da ogni successivo avente causa. Ai sensi dell’art. 3, comma 1o, lett. g), della l. 9 dicembre 1998, n. 431 (Disciplina delle locazioni e del rilascio degli immobili adibiti a uso abitativo), la medesima prelazione legale è stata successivamente estesa anche a favore del locatario a uso abitativo, quanto, alla prima scadenza quadriennale del contratto, il locatore intenda vendere l’immobile a un terzo e non abbia la proprietà di altri immobili a uso abitativo oltre a quello eventualmente adibito a propria abitazione. Per un’ampia analisi di tali discipline giuridiche, v. recentemente Sirgiovanni, Prelazione legale e acquisto della proprietà, Milano 2012. ( 3 ) Per tutti, v. Gazzoni, Trattato della trascrizione, 1., La trascrizione degli atti e delle sentenze, II, Torino 2012, p. 439 ss.; Id., Manuale di diritto privato16, Napoli 2013, p. 298 s. Anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. inoltre Zaccaria-Troiano, Gli effetti della trascrizione2, Torino 2008, p. 145 ss. ( 4 ) Trib. Milano 21 giugno 1982, in R. not., 1983, p. 951 ss., sul quale v. infra, n. 4. ( 5 ) Natoli, sub art. 2653, in Comm. cod. civ., Della tutela dei diritti2, Torino 1971, p. 181; G. Gabrielli, La pubblicità immobiliare, in Tratt. Sacco, Torino 2012, p. 152; Triola, Della tutela dei diritti. La trascrizione3, in Tratt. Bessone, IX, Torino 2012, p. 283 ss. (e ivi, alla nt. 212, esaustive indicazioni giurisprudenziali). ( 6 ) La trascrivibilità di tali domande giudiziali non era prevista dal codice civile previgente. L’art. 19, lett. h), del T.U. 30 dicembre 1923, n. 3272 (Approvazione del testo di legge sulle tasse ipotecarie), pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 117 del 17 maggio 1924, la introdusse nel nostro ordinamento giuridico, imponendola anzi come obbligatoria, ma soltanto a fini fiscali. Ciononostante, la giurisprudenza dell’epoca non si peritò di ricono- SAGGI 629 contro il convenuto indicato nella trascrizione della domanda ha effetto anche contro coloro che hanno acquistato diritti dal medesimo in base a un atto trascritto dopo la trascrizione della domanda (7), ivi compresi i creditori pignoranti e quelli che intervengono nell’esecuzione (8). Per evitare una disparità di trattamento che sarebbe ingiustificata ai sensi dell’art. 3, comma 1o, Cost., si deve ritenere che la medesima soluzione sia applicabile anche nei confronti dei creditori ipotecari o separatisti in base a un atto iscritto dopo la trascrizione della domanda di cui si tratta (9). L’effetto giuridico di tale pubblicità legale è costituito pertanto da una scere alla trascrizione della domanda di rilascio di un immobile acquistato con scrittura privata non autenticata (e pertanto non trascrivibile) l’effetto sostanziale di precludere l’efficacia delle trascrizioni posteriormente eseguite a favore di altri aventi causa dallo stesso autore (in senso favorevole, v. Venzi, La domanda diretta a rivendicare la proprietà e la sua trascrizione, in Studi in onore di Mariano D’Amelio, III, Roma 1933, p. 382 ss.; in senso contrario, cfr. L. Coviello, La domanda di rivendica e la sua trascrizione, in G. it., 1928, I, 1, c. 1347; Gorla, Revisione critica in tema delle nuove trascrizioni, in Ann. dir. comp., IX, 1934, III, p. 443; Stolfi, Sulla trascrizione di una c.d. domanda di rivendica, in Giur. compl. Cass. civ., 1944, p. 325 ss.). È stato notato da Nicolò, La trascrizione. La trascrizione delle domande giudiziali. Dispense dal Corso di Diritto Civile tenuto dal Prof. Rosario Nicolò, III, Anno accademico 1972-1973, a cura di D. Messinetti, Milano 1973, p. 6 che tale tesi era doppiamente erronea: da un lato, perché presupponeva che la trascrivibilità delle domande di rivendicazione ricomprendesse anche quelle di rilascio di un immobile (c.d. rivendicazione in senso improprio), laddove le une si basano sulla titolarità della proprietà (o di un altro diritto reale) e le altre su quella di un’obbligazione di consegna; dall’altro lato, perché quell’effetto preclusivo avrebbe dovuto essere semmai ricollegato alla trascrizione delle domande dirette a far verificare giudizialmente le sottoscrizioni, per le quali la legge fiscale non aveva tuttavia previsto l’obbligo della trascrizione (per ulteriori indicazioni bibliografiche, v. L. Ferri, Rilievi in tema di trascrizione della domanda di rivendicazione, in R. trim. d. proc. civ., 1948, p. 276 ss.). ( 7 ) Ai sensi dell’art. 2653, n. 1, c.c., anche il legatario deve essere considerato come un avente causa dal convenuto. Se la trascrizione della domanda di rivendicazione nei confronti del de cuius è posteriore al momento in cui è stato trascritto l’acquisto del legatario, nei confronti di quest’ultimo non si produrranno quindi gli effetti della sentenza che la accolga. Il punto è tuttavia controverso (nel senso qui sostenuto, v. Nicolò, op. cit., p. 167; nel senso opposto, cfr. L. Ferri-Zanelli, Della trascrizione immobiliare3, in Comm. Scialoja-Branca, a cura di Galgano, Bologna-Roma 1995, p. 310 s.). La tesi che, per quanto qui rileva, esclude i legatari dagli aventi causa dal convenuto si basa sul fatto che essi non sono stati partecipi del loro acquisto; tale argomento non è tuttavia giustificato, poiché la formula « diritti acquistati da terzi in base a un atto trascritto » è idonea a ricomprendere anche il diritto acquistato dal legatario in base a un atto (ossia, la disposizione testamentaria), la cui trascrizione è preveduta dall’art. 2948 c.c. in funzione della pubblicità dell’acquisto mortis causa a titolo particolare (Mengoni, Gli acquisti « a non domino »3, Milano 1975, p. 263, nt. 19; ma cfr. Id., Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, in R. d. proc., 1969, p. 393). ( 8 ) Ferri-Zanelli, op. cit., p. 313, i quali, per quanto qui rileva, equiparano alla trascrizione del pignoramento quella del sequestro conservativo (arg. art. 2906, comma 1o, c.c.), della cessione dei beni ai creditori (arg. art. 2649 c.c.) e della sentenza di fallimento (arg. art. 45 l.fall.) ( 9 ) Nicolò, op. cit., p. 191. 630 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 deroga alla regola generale la quale disciplina i limiti soggettivi di efficacia della sentenza quando si sia verificato il trasferimento a titolo particolare del diritto controverso. Premesso che il processo prosegue allora tra le parti originarie (art. 111, comma 1o, c.p.c.), la regola generale statuisce che la sentenza pronunciata contro l’alienante spiega i propri effetti anche contro il successore a titolo particolare (art. 111, comma 4o, c.p.c.) (10). Si tratta dunque di una sostituzione processuale (11), la quale è preveduta dall’ordinamento giuridico nonostante il divieto generale che è posto dall’art. 81 c.p.c. Trascritta la domanda giudiziale, la suddetta regola generale è derogata dall’art. 111, comma 4o, c.p.c., nel senso che il momento a partire dal quale opera la sostituzione processuale di cui si è detto è determinato non già dall’instaurazione del processo mediante la proposizione della domanda attorea, bensì dalla trascrizione di quest’ultima. I terzi che, per quanto abbiano avuto eventualmente causa dal convenuto prima dell’inizio del processo (12), non abbiano trascritto (o iscritto) il loro acquisto dal convenuto prima della trascrizione della suddetta domanda sono vincolati dalla sentenza che la accolga, sebbene non abbiano partecipato al processo (13): tale sentenza varrà pertanto come titolo esecutivo anche nei loro confronti (14), segnatamente per quanto riguarda la condanna del convenuto soccombente al rilascio ovvero alla consegna del bene (15). ( 10 ) La tesi secondo la quale gli effetti contro il successore a titolo particolare sarebbero spiegati dalla sentenza soltanto dopo il suo passaggio in giudicato, la quale era stata sostenuta da Maiorca, in Codice civile. Commentario, diretto da D’Amelio, Libro della Tutela dei Diritti, Firenze 1943, p. 240, non ha più alcuna giustificazione normativa, se si considera che, ai sensi dell’art. 282 c.p.c. vigente, la sentenza di condanna di primo grado è provvisoriamente esecutiva (tra le parti). ( 11 ) Cass. 13 aprile 1999, n. 3623; Cass. 2 maggio 1996, n. 4024; Cass. 7 agosto 1990, n. 7970. In dottrina v. Proto Pisani, sub art. 111, in Comm. Allorio, I, 2, Art. 69-162, Torino 1973, p. 1235 ss. ( 12 ) Nicolò, op. cit., p. 189. ( 13 ) Cass. 29 gennaio 2002, n. 1155, in G. it., 2002, p. 1582 ss., con nota di Caraffa Braga (p. 1575 ss.). ( 14 ) Cass., sez. un., 3 novembre 2011, n. 22727; Cass. 13 marzo 2008, n. 2748. Ma sul problema v., in generale, Colesanti, Processo esecutivo e trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1968; Id., Fallimento e trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1972, e già Id., Il terzo debitore nel pignoramento di crediti, II, Milano 1967, p. 227, nt. 33. Più di recente, v. soprattutto Luiso, L’esecuzione ultra partes, Milano 1984, p. 219 ss., nonché Balestra, Le restituzioni nel fallimento, in R. trim. d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le azioni di restituzione da contratto, p. 51 ss. ( 15 ) Nicolò, op. cit., p. 66 s.; Luiso, Le azioni di restituzione da contratto e la successione nel diritto controverso, in R. trim. d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le azioni di restituzione da contratto, p. 147. È peraltro noto che, secondo un orientamento dottrinale particolarmente rigoroso (Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali. Artt. 111 c.p.c. e 2652-2653 c.c., Napoli 1968, p. 90 ss.; Id., Opposizione di terzo ordinaria, Napoli 1965, p. 93 ss., p. 143 ss.), l’efficacia di tale sentenza nei confronti dell’avente causa dal SAGGI 631 Essi non saranno assoggettati invece alle obbligazioni personali che la sentenza impone al convenuto dal quale hanno avuto causa (16). Ciò non toglie che, quando abbiano esercitato il possesso del bene, dovranno restituire i frutti qualora siano stati fin dall’inizio in mala fede, fermo restando il rimborso delle spese sostenute per la loro produzione e il raccolto ai sensi dell’art. 1149 c.c.; in ogni caso, avranno diritto a essere rimborsati delle spese che abbia sostenuto per le riparazioni, i miglioramenti e le addizioni alla cosa, secondo quanto statuisce l’art. 1150 c.c. (17). È stato peraltro escluso dalla dotconvenuto non si estenderebbe alla statuizione di condanna alla restituzione del bene. Facendo principalmente leva sull’art. 2038 c.c., si afferma al riguardo che l’obbligazione di restituire il bene al suo proprietario (ovvero al titolare di un diritto reale su cosa altrui), trovando il proprio titolo nel pagamento dell’indebito ovvero nell’azione generale di arricchimento senza causa, è personale del convenuto, cosicché non succede nella sua titolarità colui al quale il convenuto attribuisca la proprietà ovvero il diritto reale di godimento su cosa altrui che sta esercitando: non verificandosi alcuna successione a titolo particolare, all’obbligazione di restituire il bene al proprietario ovvero al titolare del diritto reale di godimento su cosa altrui esercitato dal convenuto non sarebbe applicabile l’art. 111 c.p.c., con la conseguenza che la sentenza di accoglimento della domanda attorea non avrebbe efficacia esecutiva nei confronti dell’avente causa dal convenuto, a meno che, com’è ovvio, quest’ultimo non sia stato chiamato in causa ovvero non sia intervenuto (Proto Pisani, La trascrizione delle domande giudiziali, cit., p. 108 ss.; in senso critico, cfr. Mengoni, Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, cit., p. 375 ss.; Id., Gli acquisti a non domino, cit., p. 265 ss., seguito da Pacia, La pubblicità degli atti simulati nei rapporti fra simulato alienante e creditori o aventi causa dal titolare apparente, in questa Rivista, 2011, I, p. 821 ss.). Quest’ultima soluzione, la quale non ha trovato seguito in giurisprudenza, non sembra tuttavia condivisibile, in quanto, se è indubbiamente vero che si tratta di un’obbligazione restitutoria, è altresì vero che, proponendo la domanda di rivendicazione, l’attore non ha allegato a fondamento del proprio diritto l’autonomo titolo del pagamento dell’indebito ovvero dell’azione generale di arricchimento senza causa (domanda c.d. autodeterminata), come pure avrebbe ovviamente potuto, ma ha allegato la violazione del suo diritto di proprietà: a seguito di tale domanda (c.d. eterodeterminata), il « diritto controverso » che costituisce l’oggetto del processo è pur sempre costituito dalla proprietà, cosicché sussistono senz’altro i presupposti per l’applicazione dell’art. 111 c.p.c. (per uno studio approfondito della questione, v. Chizzini, L’intervento adesivo, II, Struttura e funzione, Padova 1992, p. 733 ss.). La tesi qui criticata è poi fin dall’inizio rifiutata da coloro i quali ritengono che il diritto controverso di cui all’art. 111 c.p.c. sia costituito (non già da una situazione giuridica sostanziale, ma) da una situazione processuale costituita dal diritto al provvedimento di merito, favorevole o sfavorevole che esso sia (per tutti, v. Picardi, La trascrizione delle domande giudiziali, Milano 1968, p. 315 ss., spec. p. 343 ss.; ma in senso critico, cfr. Mengoni, Note sulla trascrizione delle impugnative negoziali, cit., p. 395 ss.). Occorre dare atto che la giurisprudenza si è decisamente orientata in quest’ultimo senso (ad es., v. Cass. 17 luglio 2012, n. 12305 e Cass. 26 maggio 2003, n. 8316, le quali hanno statuito che l’acquirente di un immobile deve essere considerato ai sensi dell’art. 111 c.p.c. come successore del diritto controverso nel processo sulla validità, la risoluzione o l’esecuzione di un contratto preliminare avente a oggetto lo stesso bene e precedentemente stipulato dal suo dante causa con un terzo; in senso opposto, cfr. peraltro Cass. 27 gennaio 2012, n. 1233; su tale contrasto interpretativo, v. l’ordinanza di rimessione alle sezioni unite Cass. 4 maggio 2010, n. 10747). ( 16 ) Nicolò, op. cit., p. 192. ( 17 ) Nicolò, op. cit., p. 192 s. 632 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 trina che, anche quando siano in buona fede, essi possano avvalersi del diritto di ritenzione che è previsto dall’art. 1152 c.c. (18). Sono invece processualmente salvaguardati i terzi che, per quanto abbiano avuto eventualmente causa dal convenuto dopo l’inizio del processo, hanno trascritto (o iscritto) il loro acquisto prima della trascrizione della domanda che lo ha introdotto. Come si è già accennato, tuttavia, ciò significa soltanto che è loro assicurata una posizione processuale indipendente, ma non che il loro acquisto sia fatto salvo sul piano del diritto sostanziale: essi potranno infatti essere pur sempre convenuti autonomamente da colui che aveva già agito nei confronti del loro dante causa, esercitando di nuovo l’azione di rivendicazione dello stesso bene (19). Dal punto di vista processuale, fra l’altro, se la sentenza che ha accolto la domanda di rivendicazione nei confronti del loro dante causa è divenuta definitiva, essi non la potranno contestare nel giudizio instaurato nei loro confronti, nel quale sarà pertanto definitivamente accertato che hanno acquistato da chi non era legittimato a trasferire loro la proprietà o un altro diritto reale di godimento (20): al fine di chiedere la reiezione della domanda attorea, essi non potranno pertanto invocare che il perfezionamento di un acquisto a non domino, e segnatamente dell’usucapione (decennale ovvero ventennale, a seconda che siano o meno in buona fede rispetto al difetto di titolarità del loro dante causa) (21). Per altro verso, se il bene non sia ancora stato loro consegnato, al fine di conseguirne il possesso gli aventi causa dal convenuto non potranno limitarsi a far valere l’inefficacia nei loro confronti della sentenza che accoglie una delle domande di cui all’art. 2653, n. 1, c.c., ma dovranno esercitare l’azione di rivendicazione nei confronti dell’attore che l’ha ottenuta, assoggettandosi così al relativo onere probatorio (22). Resta peraltro fermo che nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa dal convenuto posteriormente alla pronuncia della sentenza mediante la quale sia stata accolta la domanda attorea (post rem iudicatam) opera quella estensione dei limiti soggettivi del giudicato che è specificatamente disposta dall’art. 2909 c.c. (23). Indipendentemente dal sistema della pubblicità legale, tale sentenza è pertanto efficace nei confronti di tali terzi, anche per quanto ri( 18 ) Nicolò, op. cit., p. 192 s. ( 19 ) Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali6, Padova 2008, p. 535 ss.; Triola, op. cit., p. 287. ( 20 ) Cass. civ. 12 novembre 1997, n. 11153. ( 21 ) A tal fine, essi potranno unire al proprio possesso quello del loro dante causa, ai sensi dell’art. 1146 c.c. (v. Nicolò, op. cit., p. 194). ( 22 ) Nicolò, op. cit., p. 189. ( 23 ) Cass. 28 ottobre 1981, n. 5597; Cass. 8 gennaio 1964, n. 19, in F. it., 1964, I, c. 801 ss. A proposito dell’acquisto del possesso, v. Cass. 14 giugno 2001, n. 8065. SAGGI 633 guarda la sua esecuzione (24). Non soggiacciono inoltre al giudicato gli acquisti a titolo originario (25). 2. — All’applicabilità degli artt. 2653, n. 1, e 2651 c.c. alla domanda di riscatto legale e, rispettivamente, alla sentenza che l’accoglie consegue pertanto che il riscattante prevalga senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato, anche nel caso in cui essi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto prima della trascrizione della medesima domanda ovvero della sentenza che l’accoglie. Tale soluzione è stata senz’altro approvata dalla dottrina laddove il bene sia stato subalienato prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del riscatto legale, in quanto, poiché il subacquirente ben sa, o dovrebbe sapere, che è allora assoggettato all’eventuale riscatto da parte del prelazionario legale (26), il suo eventuale affidamento sulla definitività dell’acquisto da parte del suo dante causa (ossia, il riscattato) è evidentemente irragionevole e non può essere comunque ritenuto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico. Ne consegue che il riscattante prevale senz’altro nei confronti di coloro che abbiano subacquistato il bene dal riscattato in base a un titolo anteriore alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale, sebbene nel frattempo essi abbiano eventualmente trascritto o iscritto il loro acquisto (27). Dal punto di vista della parità di trattamento, una conferma in tal senso è stata ravvisata nel dato normativo dell’art. 2653, n. 3, c.c., il cui capoverso statuisce che, se le domande o le dichiarazioni di riscatto sono trascritte dopo sessanta giorni dalla scadenza del termine per l’esercizio di tale diritto, l’acquisto dei terzi (aventi causa dal riscattato) che sia posteriore alla scadenza del medesimo termine è fatto salvo, purché sia stato trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della dichiarazione di riscatto. Tale considerazione sembra prendere le mosse dall’assunto secondo cui la trascrizione delle dichiarazioni di recesso di cui all’art. 2653, n. 3, c.c. non ( 24 ) V. ampiamente Zucconi Galli Fonseca, Note schematiche intorno al rapporto fra pubblicità ed efficacia della sentenza contro gli aventi causa post rem iudicatam, in R. trim. d. proc. civ., 1968, p. 1420 ss., nonché G. Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, in questa Rivista, 1991, I, p. 35.; Id., La pubblicità immobiliare, cit., p. 125 s.; Natoli, op. cit., p. 181. ( 25 ) Cass. 2 maggio 2011, n. 9643. ( 26 ) Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 500 s.; G. Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge e pubblicità immobiliare dell’atto di esercizio, in questa Rivista, 2004, I, p. 697; Carpino, voce Riscatto (diritto privato), in Enc. dir., XL, Milano 1989, p. 1116. ( 27 ) In senso contrario, cfr. Carusi, La natura del riscatto urbano ex art. 39 l. 392 del 1978 e il termine per il suo esercizio, in questa Rivista, 1990, II, p. 311, il quale ritiene invece che, se la dichiarazione di retratto non sia stata trascritta, i successivi aventi causa dal retrattato prevalgano mediante la tempestiva trascrizione del loro acquisto (ancorché sia avvenuto anteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale). 634 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 avrebbe alcuna rilevanza (né in senso positivo, né in senso negativo) nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa dal compratore prima che fosse scaduto il termine per l’esercizio del riscatto: dall’art. 1504, comma 1o, c.c. si desumerebbe infatti che essi non sarebbero in alcun modo tutelati dall’ordinamento giuridico, così come non lo sarebbero coloro che abbiano acquistato un diritto assoggettato a una condizione risolutiva che si sia poi tempestivamente avverata (28). L’art. 2653, n. 3, c.c. servirebbe piuttosto a tutelare i terzi che abbiano avuto causa dal compratore dopo che sia scaduto il termine per esercitare il diritto di riscatto, trascrivendo o iscrivendo per primi il loro acquisto: nei loro confronti il venditore recedente soccomberebbe infatti laddove, pur avendo effettuato la dichiarazione di riscatto tempestivamente (29), l’abbia trascritta tardivamente, ossia dopo la scadenza del termine di sessanta giorni posto dalla medesima disposizione legislativa (30). In altri termini, l’art. 2653, n. 3, c.c. porrebbe un argine alla illimitata retroattività dell’effetto risolutivo del riscatto (31). Laddove sia invece tempestiva non solo la dichiarazione di riscatto, ma anche la sua trascrizione, in quanto quest’ultima sia stata eseguita prima della scadenza del termine di sessanta giorni posto dall’art. 2653, n. 3, c.c., resterebbe ferma l’illimitata retroattività di tale effetto risolutivo, cosicché i terzi che abbiano avuto causa dal compratore dopo che sia scaduto il termine per l’esercizio del riscatto soccomberebbero, quantunque il loro acquisto sia stato trascritto o iscritto per primo. Pertanto, chi abbia causa dal compratore (ormai divenuto non dominus a seguito della dichiarazione di riscatto) nei sessanta giorni successivi alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto non consoliderebbe il proprio acquisto mediante la sua sola trascrizione o iscrizione, ma sarebbe destinatario di una fattispecie acquisitiva in corso di formazione, la cui efficacia reale (nei confronti del dominus) richiederebbe un ulteriore elemento costitutivo, ossia la mancata trascrizione della dichiarazione di riscatto nel medesimo termine di sessanta giorni che è posto dall’art. 2653, n. 3, c.c. (32). Si giunge così ad ammettere che sarebbe previsto dalla legge un periodo di sessanta giorni durante il quale il criterio della priorità non funzionerebbe, poiché, trascrivendo la propria dichiarazione, il venditore riscattante prevarrebbe in ogni caso su coloro che abbiano avuto causa dal compratore dopo la ( 28 ) Nicolò, op. cit., p. 216. ( 29 ) Ossia, prima che scada il termine previsto dal patto di riscatto per esercitare tale diritto. Laddove la dichiarazione di riscatto sia invece effettuata tardivamente (ossia, dopo la scadenza del termine previsto dal patto per l’esercizio di tale diritto), il problema di tutelare i terzi acquirenti dal compratore non si pone neppure, perché essi hanno allora acquistato a domino senz’altro (Nicolò, op. cit., p. 217). ( 30 ) Nicolò, ibidem. ( 31 ) Nicolò, ibidem. ( 32 ) Nicolò, ibidem. SAGGI 635 scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, anche quando essi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto per primi (33). Tale tesi è tuttavia inficiata da un gravissimo e, in definitiva, ingiustificato scostamento dai principî generali in materia di pubblicità legale e, dal punto di vista della politica del diritto, compromette irragionevolmente la certezza della circolazione dei beni iscritti in pubblici registri. Com’è ovvio, si può obiettare che il medesimo inconveniente si verificherebbe a maggior ragione nei confronti di coloro che abbiano avuto causa dal compratore prima della scadenza del termine entro il quale il venditore può esercitare il riscatto, in quanto, pur avendo trascritto o iscritto il loro acquisto per primi, essi soccomberebbero illimitatamente, anche nel caso in cui la dichiarazione di riscatto non sia stata trascritta affatto. Ma tale possibile obiezione, proprio perché paradossale, dimostra a sufficienza non già che si deve allora accettare la tesi che si sta qui criticamente esaminando, bensì, proprio all’inverso, che occorre piuttosto abbandonare il presupposto generale dal quale essa ha preso le mosse, ossia che per sua natura l’effetto risolutorio del riscatto sarebbe illimitatamente retroattivo. In realtà, l’art. 1504, comma 1o, c.c. statuisce sì che il venditore riscattante può ottenere il rilascio della cosa anche dai successivi acquirenti, ma precisa subito dopo che ciò ha luogo (non illimitatamente, ma) soltanto là dove il patto di riscatto sia a essi opponibile (34). L’opponibilità del patto di riscatto non è pertanto disciplinata dall’art. 2653, n. 3, c.c., il quale stabilisce invece quando siano opponibili le dichiarazioni (giudiziali e stragiudiziali) di riscatto (35): movendo dalla riconducibilità di tale patto alla clausola della condizione risolutiva (meramente potestativa), si deve piuttosto ritenere che ( 33 ) Nicolò, ibidem. ( 34 ) L’esigenza di distinguere l’opponibilità del patto da quella della dichiarazione di riscatto è chiaramente affermata proprio da Nicolò, op. cit., p. 210 ss. e sviluppata sulla base dell’indubbia riconducibilità di tale istituto alla condizione risolutiva (meramente potestativa). Si deve tuttavia fin d’ora rilevare che l’opponibilità del patto di riscatto costituisce una formula verbale di comodo, la quale non può essere intesa in senso rigorosamente dogmatico: se si vuole evitare di sdoppiare artificiosamente la realtà giuridica, si deve infatti ammettere che è proprio e solo la dichiarazione di riscatto a produrre l’effetto giuridico che è suscettibile di essere opposto ai terzi subacquirenti, laddove il patto che attribuisce al venditore il diritto di riscatto non può rilevare che come preparazione di tale effetto giuridico. Per quanto qui rileva, la pubblicità legale del patto di riscatto produce allora un quasieffetto giuridico (secondo la terminologia di Falzea, voce Efficacia giuridica, in Enc. dir., XIV, Milano 1965, p. 484), il quale, come si vedrà meglio nel prosieguo del testo, è costituito dalla prenotazione dell’opponibilità della dichiarazione di riscatto: una volta che quest’ultima sia trascritta, essa è pertanto opponibile ai terzi dal giorno (non della sua trascrizione, ma) della pubblicità legale del patto che attribuisce il venditore il diritto di compierla. ( 35 ) Il punto è messo in rilievo da Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 143, il quale non esclude tuttavia l’eventualità che, facendo riferimento all’opponibilità del patto di riscatto, l’art. 1504, comma 1o, c.c. abbia potuto riferirsi invece a quella della dichiarazione di riscatto. 636 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 esso sia opponibile se e in quanto sia stato menzionato nella nota di trascrizione, ai sensi dell’art. 2659, comma 2o, c.c. (36). Laddove invece il patto di riscatto non sia stato annotato nella nota di trascrizione del titolo di provenienza del loro dante causa, è conforme ai principî generali in materia di pubblicità legale che i terzi aventi causa dal compratore soccombano soltanto laddove non abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto anteriormente alla trascrizione della dichiarazione di riscatto da parte del venditore, ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c. (37). La regola generale non è dunque che i terzi aventi causa dal compratore soccombano sempre e illimitatamente nei confronti del venditore riscattante, ma che essi soccombono soltanto laddove nella nota di trascrizione del titolo di provenienza del loro dante causa sia stato annotato il patto di riscatto, ai sensi dell’art. 2659, comma 1o, c.c. Tale soluzione è conforme ai principî generali in materia di pubblicità legale, posto che essi hanno allora trascritto o iscritto il loro acquisto posteriormente alla suddetta annotazione, la quale prenota l’opponibilità della dichiarazione di riscatto che sarà a sua volta trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c. Nonostante l’opinione contraria sia largamente diffusa, tale soluzione è altresì conforme alla regola valevole per la condizione risolutiva, poiché, se è vero che, ai sensi dell’art. 1360 c.c., gli effetti del suo avveramento generalmente retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, è altresì vero che anche tale vicenda risolutoria, così come quella provocata dal riscatto di cui si tratta, deve essere intesa conformemente ai principî generali in materia di pubblicità legale: ai terzi controinteressati la retroattività di tale risoluzione potrà infatti essere pur sempre opposta nel solo caso in cui la condizione risolutiva sia stata menzionata nella nota di trascrizione del contratto, ai sensi ( 36 ) Pugliatti, La trascrizione immobiliare, II, Messina 1946, p. 7; Luzzatto, La compravendita, ed. postuma a cura di Persico, Torino 1961, p. 457; Luminoso, La vendita con riscatto, in Comm. Schlesinger, Art. 1500-1509, Milano 1987, p. 402 ss. Nel senso che la menzione (del patto di riscatto) di cui all’art. 2659, comma 2o, c.c. svolga una funzione di mera notizia, cfr. Nicolò, op. cit., p. 211 ss.; Ferri-Zanelli, op. cit., p. 76 ss. e già L. Ferri, Vendita (rassegna di giurisprudenza), in R. trim. d. proc. civ., 1947, p. 680. Più in generale si deve rilevare che, sebbene la soluzione esposta nel testo possa essere considerata come prevalente, la questione della pubblicità legale del patto di riscatto ai fini della sua opponibilità è ampiamente controversa in dottrina. È stato in particolare sostenuto che, quando sia contenuto in un documento separato da quello del contratto di vendita, il patto di riscatto sia autonomamente trascrivibile (Ferri-Zanelli, op. cit., p. 362; ma in senso critico, cfr. Triola, op. cit., p. 51), ovvero che lo sia in ogni caso, ossia anche quando faccia parte integrante del documento contrattuale (Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 145 ss.); tale trascrizione dovrebbe essere effettuata contro l’acquirente e a favore dell’alienante, trattandosi di un vincolo di indisponibilità del bene. ( 37 ) Rubino, La compravendita2, in Tratt. Cicu-Messineo, XXIII, Milano 1961, p. 1036 s.; Luminoso, op. cit., p. 403 s.; Sirena, I recessi unilaterali, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di Costanza, Milano 2006, p. 137. SAGGI 637 dell’art. 2659, comma 2o, c.c. (38); nel caso in cui invece non lo sia stata, essa sarà opponibile soltanto dal momento dell’annotazione che è prevista dall’art. 2655 c.c. (39). Tornando ora all’art. 2653, n. 3, cpv., c.c., si deve rilevare che tale disposizione legislativa pone un controlimite alla regola generale che è stata sopra enunciata, ricollegandolo alla tardività della trascrizione della dichiarazione di riscatto. Se tale pubblicità legale è eseguita dopo sessanta giorni dalla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, l’ordinamento giuridico, movendo dal presupposto che essa sia tardiva, disconosce l’effetto prenotativo dell’annotazione di tale patto nei confronti dei terzi che abbiano acquistato dal compratore dopo la scadenza del medesimo termine: poiché la dichiarazione di riscatto è allora ordinariamente opponibile dal momento della sua trascrizione, tali terzi prevalgono se prima di essa abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto. Per quanto qui rileva, l’art. 2653, n. 3, cpv., c.c. statuisce pertanto che nei confronti dei terzi che abbiano avuto causa dal compratore dopo la scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, l’effetto prenotativo dell’annotazione del patto si estingue sessanta giorni dopo la scadenza del medesimo termine. Nei confronti degli aventi causa dal compratore prima della scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, questa limitazione dell’effetto prenotativo della pubblicità legale del patto che lo prevede non opera: poiché hanno acquistato dal compratore prima che scadesse in termine entro il quale il venditore poteva esercitare il diritto di riscatto attribuitogli, e poiché ciò era a essi noto in virtù dell’annotazione del patto ai sensi dell’art. 2659 c.c., l’eventuale loro affidamento sul mancato esercizio di tale diritto è infatti irragionevole e comunque non è ritenuto dall’ordinamento giuridico meritevole di essere tutelato nei confronti del venditore riscattante. Negli stessi termini, non è ragionevole che coloro i quali abbiano avuto causa dal riscattato prima che sia scaduto il termine per l’esercizio del riscatto legale facciano affidamento sulla definitività (del titolo di provenienza del loro dante causa, e perciò) del loro acquisto. Posto che l’esistenza della prela( 38 ) In tal senso, v. Pugliatti, op. cit., p. 7; R. Scognamiglio, Nota a Trib. Napoli, 22 marzo 1948, in D. e giur., 1948, p. 282 ss. e, più recentemente, G. Gabrielli, Pubblicità degli atti condizionati, in questa Rivista, 1991, I, p. 25 ss., il quale, fra l’altro, premessa la somiglianza tra il patto di riscatto e la condizione risolutiva, trae argomento proprio dall’art. 1504, comma 1o, c.c. per sostenere che l’annotazione di cui all’art. 2659, comma 2o, c.c. generalmente abbia efficacia dichiarativa, nonché, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, Carusi, Condizione e termini, in Tratt. Roppo, III, Effetti, a cura di Costanza, cit., p. 349. Le soluzioni esposte nel testo sono tuttavia ampiamente controverse in dottrina (v. al riguardo Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 946, nonché Baralis, La pubblicità immobiliare fra eccezionalità e specialità, Padova 2010, p. 72 ss., spec. nt. 37; Grandi, La retroattività della condizione: il problema e le prospettive, in Contratti, 2011, p. 289 ss.). ( 39 ) Sirena, op. cit., p. 137 s., ferme restando le avvertenze di cui alla nota che precede. 638 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 zione legale è loro nota indipendentemente da qualsiasi pubblicità legale, o dovrebbe esserlo, sarebbe infatti sistematicamente incoerente che essi fossero trattati più favorevolmente di quanto l’art. 2653, n. 3, c.c. non faccia rispetto ai subacquirenti dal compratore assoggettato al riscatto convenzionale (40), ai quali l’esistenza di tale patto è nota, o dovrebbe esserlo, a seguito della pubblicità legale di cui all’art. 2659, comma 2o, c.c. 3. — In base al tertium comparationis dell’art. 2653, n. 3, c.c., la dottrina ha peraltro avvertito l’esigenza di tutelare l’eventuale affidamento sulla definitività del precedente acquisto da parte di coloro che abbiano subacquistato dal riscattato dopo la scadenza del termine per l’esercizio del riscatto legale, mettendoli al riparto da eventuali dichiarazioni di riscatto che, per quanto tempestivamente effettuate, siano rimaste occulte (41). Movendo dal presupposto secondo cui la dichiarazione di riscatto legale determinerebbe ex nunc un ulteriore trasferimento della proprietà dal riscattato (o da un suo successivo avente causa) al riscattante, e che produrrebbe pertanto l’effetto giuridico che è menzionato dall’art. 2643, n. 1, c.c., è stato allora ammesso che essa sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2645 c.c. A tale tesi è stato obiettato che, applicando senza correttivo il criterio selettivo di cui all’art. 2644 c.c., si sacrificherebbe ingiustificatamente il riscattante nei confronti di coloro che abbiano avuto causa dal riscattato subito dopo la scadenza per l’esercizio del retratto, in quanto, premesso che quest’ultimo è generalmente esercitato subito prima che tale termine scada, sarebbe praticamente impossibile che il riscattante possa provvedere alla trascrizione della propria dichiarazione prima che i terzi abbiano trascritto o iscritto il loro acquisto: si giungerebbe pertanto alla conclusione assurda secondo la quale chi eserciti un diritto di riscatto pattizio sarebbe tutelato più intensamente nei confronti degli aventi causa dal riscattato di chi eserciti invece un diritto di riscatto previsto dalla legge (42). ( 40 ) Contrariamente a quanto affermato da Carusi, La natura del riscatto urbano, cit., p. 311, non si tratta quindi di un’espropriazione. ( 41 ) Gazzoni, Trattato della trascrizione, I, 1, cit., p. 501; Gabrielli, La pubblicità immobiliare, cit., p. 155 s.; Id., Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 700; Carpino, op. cit., p. 1116. ( 42 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attributi dalla legge, cit., p. 704, il quale fraintende tuttavia l’affermazione di Gazzoni, La trascrizione immobiliare, I2, in Comm. Schlesinger, Milano 1998, p. 616, secondo cui « sarebbe infatti davvero assurdo che il riscattante fosse pienamente tutelato in ipotesi di riscatto convenzionale e dovesse invece vedere consumato il proprio potere anche nei confronti degli aventi causa dal terzo, i quali acquistassero durante lo spatium deliberandi e trascrivessero prima » (la sottolineatura è aggiunta): proprio sulla base di questo inciso finale, infatti, è evidente che il fine di tale affermazione non è quello di sostenere che, onde evitare una contraddizione sistematica rispetto all’art. 2653, n. 3, c.c., il riscattante legale debba prevalere su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato dopo la scadenza del termine per l’esercizio del retratto (sebbene essi abbiano trascritto o iscritto per primi il loro acquisto), bensì di sostenere che egli debba prevalere su coloro SAGGI 639 In realtà, la naturale retroattività del riscatto, a maggior ragione quando esso sia legale, implica che, sostituendosi retroattivamente al riscattato, il riscattante si consideri al posto di quest’ultimo come acquirente ex tunc del bene in base al medesimo titolo di acquisto, così com’è peraltro sostenuto dalla giurisprudenza unanime e dalla dottrina largamente prevalente (43): non trattandosi di un ulteriore ritraferimento ex nunc della proprietà (o di un altro diritto), non è pertanto applicabile l’art. 2643, n. 1, c.c., e a maggior ragione neppure l’art. 2645 c.c. 4. Movendo da quest’ultima ricostruzione concettuale, è stato allora sostenuto che, come si desumerebbe dall’art. 1403, comma 2o, c.c. a proposito del contratto per persona da nominare, la sostituzione retroattiva dell’acquirente di un bene sarebbe assoggettata alla stessa forma di pubblicità legale che è richiesta per il contratto di alienazione originariamente stipulato (44). Ma gli effetti della trascrizione della dichiarazione di riscatto legale sarebbero pur sempre quelli preveduti dall’art. 2653, n. 3, c.c., senza che ciò violi il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali che è posto dall’art. 14 disp. prel., trattandosi piuttosto di una interpretazione estensiva della suddetta disposizione codicistica (45). che abbiano avuto causa dal riscattato prima della scadenza del medesimo termine. Pertanto, l’esigenza di evitare tale contraddizione sistematica non può essere addotta come argomento a favore dell’applicabilità dell’art. 2653, n. 3, c.c. alle dichiarazioni di riscatto legale, poiché è indubbio che, escludendo tale pubblicità legale, il riscattante legale prevale senz’altro su coloro che abbiano avuto causa dal riscattato anteriormente alla scadenza del termine, così come il venditore riscattante, e anzi a maggior ragione (considerato che quest’ultimo ha pur sempre l’onere di menzionare il patto di riscatto nella nota di trascrizione, ai sensi dell’art. 2659, comma 2o, c.c.); escludendo tale pubblicità legale, per altro verso, non può neppure ritenersi che il riscattante soccomba nei confronti di coloro che, avendo avuto causa dal riscattato posteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto, abbiano trascritto o iscritto per primi il loro acquisto. In altri termini, l’applicabilità dell’art. 2653, n. 3, c.c. può essere teleologicamente prospettata soltanto in virtù dell’esigenza di tutelare i terzi subacquirenti dal rischio di un riscatto occulto da parte di un loro dante causa mediato, ma non anche (o invece) in virtù dell’esigenza di tutelare il riscattante dalla tempestiva trascrizione dell’acquisto da parte di coloro che abbiano avuto causa dal riscattato posteriormente alla scadenza del termine per l’esercizio del riscatto. ( 43 ) In dottrina, v. Baralis, op. cit., p. 19 s. ( 44 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 700 s. In senso analogo, ma al precipuo fine di sostenere la generale compatibilità fra l’effetto retroattivo di un atto e la sua trascrivibilità, v. Baralis, op. cit., p. 71 ss., p. 94 ss. Sul controverso problema della pubblicità legale della dichiarazione di nomina (c.d. electio amici) di cui all’art. 1403, comma 2o, c.c., v. recentemente Mass. Nuzzo, Il contratto con riserva di nomina, Campobasso 2012, p. 233 ss.; Pennasilico, La trascrizione del contratto per sé o per persona da nominare, in Scritti in onore di Marco Comporti, III, a cura di Pagliantini, Quadri e Sinesio, Milano 2008, p. 2118 ss. ( 45 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 702 s.; Id., La pubblicità immobiliare, cit., p. 156. Cfr. tuttavia Petrelli, L’evoluzione del principio di tassatività nella trascrizione immobiliare. Trascrizioni, annotazioni, cancellazioni dalla « tassatività » 640 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 In senso contrario, si rinviene un (non più recente) decreto del Presidente del Tribunale di Milano, il quale, pronunciandosi ai sensi dell’art. 745 c.p.c., ha deciso invece che la dichiarazione di riscatto a titolo di prelazione legale (quella agraria, nel caso di specie) sia trascrivibile ai sensi non già dell’art. 2653, n. 3, c.c., ma dell’art. 2653, n. 1, c.c. (46). Tale affermazione negativa è stata motivata anzitutto sulla base del dettato letterale dell’art. 2653, n. 3, c.c., il quale, menzionando espressamente la « vendita di beni immobili », si riferirebbe al solo riscatto convenzionale. Una conferma in tal senso sarebbe inoltre costituita dalla Relazione del Ministro Guardasigilli, nella parte in cui essa afferma che mediante la suddetta disposizione legislativa è stata introdotta nell’ordinamento giuridico « la trascrizione delle domande o delle dichiarazioni di riscatto nella compravendita immobiliare » (47). È tuttavia evidente che si tratta di argomenti non decisivi. Si deve infatti rilevare che, secondo un’acquisizione che può essere ormai considerata come definitiva, il principio di tassatività della pubblicità legale deve essere riferito non già alle fattispecie degli atti che sono stati elencati dal legislatore, bensì ai loro effetti giuridici. Al fine di escludere che anche il riscatto legale sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., non è pertanto decisivo che tale disposizione legislativa abbia menzionato soltanto quello convenzionale. Il richiamo dei lavori preparatori non costituisce inoltre notoriamente un criterio insuperabile di interpretazione della legge, in quanto, pur esprimendo il convincimento dei redattori di un testo normativo, esso non vale di per sé a individuare la « intenzione del legislatore » di cui all’art. 12, comma 1o, disp. prel. Per quanto qui rileva, si deve piuttosto notare che le dichiarazioni di riscatto legale producono un tipo di effetto giuridico che è senz’altro differente da quello delle dichiarazioni di riscatto previste dall’art. 2653, n. 3, c.c. Queste ultime determinano infatti la risoluzione del contratto di alienazione del bene, cosicché il venditore riscattante torna a essere l’originario titolare del diritto che aveva trasferito al compratore assoggettato al riscatto; quelle di riscatto legale tengono invece ferma l’efficacia traslativa di tale contratto, facendo piuttosto sì che il riscattante si sostituisca al riscattato come acquirente del bene a titolo derivativo. Tali rilievi possono indurre a dubitare che, contrariamente all’impostaalla « tipicità », Napoli 2009, p. 368, il quale, premessa l’impossibilità di escludere la trascrizione del riscatto sulla base del presunto (e, secondo l’a., inesistente) principio di tassatività degli atti trascrivibili, afferma che l’applicazione a tale fattispecie degli artt. 1403 e 2653, n. 3, c.c. non sarebbe possibile in base a una loro interpretazione estensiva, trattandosi invece di fare ricorso all’istituto dell’analogia. ( 46 ) Trib. Milano 21 giugno 1982, in R. not., 1983, p. 951 ss., sul quale v. anche supra, n. 1. ( 47 ) Relazione del Ministro Guardasigilli al Codice Civile, riproduzione anastatica a cura del Consiglio Nazionale Forense, Roma 2010, n. 1086, p. 250. SAGGI 641 zione concettuale e terminologica più diffusa, il riscatto legale e quello convenzionale costituiscano due specie dello stesso istituto, le quali si distinguerebbero semplicemente dal punto di vista della fattispecie costitutiva del diritto esercitato dal riscattante (la legge ovvero l’accordo tra le parti); in ogni caso, essi sono sufficienti per escludere che le dichiarazioni di riscatto legale siano trascrivibili ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., appunto in quanto producono un effetto giuridico diverso da quello delle dichiarazioni menzionate da tale disposizione legislativa. Ciò è confermato dal fatto che, per quanto qui rileva, le dichiarazioni di riscatto legale determinano un conflitto attributivo che è inequivocabilmente diverso da quello risolto dall’art. 2653, n. 3, c.c., in quanto è nella qualità giuridica di avente causa dal venditore che il riscattante si oppone al terzo subacquirente dal riscattato, laddove il venditore che eserciti il riscatto convenzionale si oppone al terzo subacquirente dal compratore nella qualità giuridica di originario titolare del diritto. Tenendo fermo che la dichiarazione di riscatto legale non determina un ritrasferimento ex nunc del diritto acquistato, ma la sostituzione ex tunc del riscattante al riscattato, si deve pertanto giungere alla conclusione che essa non sia trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 3, c.c., risultando dunque illimitatamente opponibile anche a coloro che abbiano avuto causa dal riscattato posteriormente alla scadenza per l’esercizio del diritto di riscatto, sebbene abbiano eventualmente trascritto o iscritto il loro acquisto. 5. — Per quanto possa essere criticabile dal punto di vista della politica del diritto, in quanto assoggetta i terzi subacquirenti al rischio di un riscatto occulto da parte di un loro dante causa mediato, la conclusione che si è esposta non può essere ritenuta sistematicamente incoerente, né suscettibile di determinare una disparità di trattamento che risulti ingiustificata, o comunque irragionevole. Se infatti è indubbio che, com’è stato osservato (48), il sistema della pubblicità legale generalmente consente all’acquirente di un immobile di accertare preventivamente se l’acquisto del suo dante causa non sia stato annullato, rescisso, risoluto o revocato, è altresì vero che ciò non è sempre assicurato laddove tale vicenda caducatoria dipenda da un presupposto legale che è suscettibile di essere oggettivamente e direttamente verificato dal terzo subacquirente, indipendentemente da qualsiasi accertamento concreto dell’accordo tra le parti contraenti ovvero di altre circostanze di fatto. L’art. 1445 c.c. statuisce, in particolare, che la sentenza di annullamento del contratto la quale dipenda dall’incapacità legale di una delle parti contraenti è illimitatamente opponibile agli aventi causa dall’altra parte (49), fer( 48 ) Gabrielli, Diritti di riscatto attribuiti dalla legge, cit., p. 701. ( 49 ) A tale proposito, v. per tutti G. Gabrielli, Invalidità e diritti dei terzi, in Le invalidità del contratto, a cura di Bellavista e Plaia, Milano 2011, p. 1 ss., nonché le classiche 642 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 mo restando quanto è preveduto dal capoverso dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c. a proposito della trascrizione c.d. tardiva della domanda (50). È stato obiettato che, poiché le sentenze di annullamento sono pubblicate ai sensi dell’art. 133 c.p.c., i subacquirenti della parte che l’ha subìta potrebbero pur sempre prenderne conoscenza, laddove al di fuori delle risultanze dei registri immobiliari non esiste alcuna possibilità, legalmente presidiata, che essi possano verificare se un diritto legale di riscatto sia stato esercitato (51). Si tratta tuttavia di una argomentazione debole. La pubblicazione delle sentenze che è prevista dall’art. 133 c.p.c. non costituisce infatti un mezzo di pubblicità legale che le renda conoscibili ai terzi, anche soltanto per la (pur banale) considerazione pratica secondo cui, stante la generale derogabilità della competenza per territorio che è preveduta dall’art. 28 c.p.c., esse potrebbero essere state pronunciate in un qualsiasi foro. In realtà, gli artt. 1445 e 2652, n. 6, cpv., c.c. fanno chiaramente e illimitatamente gravare sul subacquirente l’incertezza che un precedente dante causa abbia ottenuto una sentenza di annullamento del proprio atto traslativo per la sua incapacità legale (fermo restando sempre quanto è preveduto dal pagine di Mengoni, Gli acquisti « a non domino », cit., p. 243 ss. Per la dottrina processualistica, v. recentemente Carratta, Diritto e processo nelle azioni di restituzione, in R. trim. d. proc. civ., 2012, numero speciale, Le azioni di restituzione da contratto, p. 128 ss. ( 50 ) Tale disposizione legislativa statuisce che, se la domanda (di annullamento) sia trascritta dopo cinque anni dalla data della trascrizione del contratto impugnato, la sentenza che l’accoglie non pregiudica i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda. È stato sostenuto che tale acquisto a non domino non si verifichi quando il contratto sia annullabile per l’incapacità legale dell’altra parte contraente, in quanto l’esigenza di tutelare l’incapace prevarrebbe pur sempre su quella di tutelare i terzi subacquirenti in buona fede (C.M. Bianca, Diritto civile, III, Il contratto2, Milano 2000, p. 675). La tesi si pone tuttavia (consapevolmente) in contrasto con il dettato letterale dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c., il quale nella sua prima parte fa senz’altro salvi i diritti acquistati a qualunque titolo dai terzi di buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione tardiva della domanda di annullamento, anche quando essa sia stata proposta in base all’incapacità legale di una delle parti contraenti (in tal senso, v. Ferri-Zanelli, op. cit., p. 344, i quali si rifanno al precedente di Cass., 19 novembre 1959, n. 3407, in F. it., 1960, I, c. 393 ss.); laddove la domanda di annullamento non sia stata tardivamente trascritta, l’art. 2522, n. 6, cpv., c.c. riafferma invece nella sua seconda parte una regola analoga a quella dettata dall’art. 1445 c.c., secondo la quale l’acquisto dei terzi subacquirenti che pure abbiano anteriormente trascritto o iscritto il loro titolo è fatto salvo soltanto se la medesima domanda è stata proposta per una causa diversa dall’incapacità legale, e sempre che sussistano i requisiti della loro buona fede e della onerosità del titolo. In definitiva, se la domanda di annullamento è proposta per l’incapacità legale della parte contraente, il regime è lo stesso della nullità: affinché il terzo subacquirente (a qualunque titolo) in buona fede sia tutelato non sarà sufficiente la priorità della trascrizione dell’atto di acquisto rispetto alla trascrizione della domanda, ma dovrà anche essere trascorso un periodo di almeno cinque anni (in caso di acquisto di diritti immobiliari) o di almeno tre anni (in caso di acquisto di diritti su beni mobili registrati) tra la trascrizione dell’atto annullabile e la trascrizione della domanda giudiziale (così Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 1008). ( 51 ) Gabrielli, ibidem. SAGGI 643 capoverso dell’art. 2652, n. 6, cpv., c.c. a proposito della trascrizione c.d. tardiva della domanda); e ciò vale non soltanto nei confronti di coloro che abbiano acquistato dalla parte soccombente prima della scadenza del termine di prescrizione dell’azione di annullamento (cosicché il loro eventuale affidamento sul suo mancato esercizio non sarebbe senz’altro ragionevole e comunque meritevole di essere tutelato dall’ordinamento giuridico), ma anche nei confronti di coloro che abbiano subacquistato dopo. 6. — Per quanto qui rileva, è poi particolarmente significativa la disciplina della devoluzione del fondo enfiteutico, segnatamente per quanto riguarda la sua opponibilità nei confronti dei terzi. Premesso che la relativa domanda è trascrivibile ai sensi dell’art. 2653, n. 2, c.c. (52), si deve rilevare che, secondo quanto è previsto dal capoverso di quest’ultima disposizione, la sentenza di devoluzione ha effetto anche nei confronti di coloro che abbiano acquistato diritti dall’enfiteuta in base a un atto trascritto posteriormente alla trascrizione della domanda. Si ritiene pertanto che tale pubblicità legale abbia propriamente ed esclusivamente l’effetto processuale di circoscrivere i limiti soggettivi di efficacia della sentenza pronunciata nei confronti del convenuto, secondo la regola che è dettata dall’art. 111, comma 4o, c.p.c. (53): analogamente a quanto si è già detto a proposito della trascrizione della domanda diretta alla rivendicazione ovvero all’accertamento della proprietà (o di un altro diritto reale di godimento) (54), sul piano del diritto sostanziale non è invece fatto salvo l’acquisto di coloro che abbiano avuto causa dall’enfiteuta in base a un atto trascritto prima della trascrizione della domanda di cui si tratta. Premesso che, come risulta dagli artt. 972 e 973 c.c., la devoluzione del fondo enfiteutico presuppone la violazione degli obblighi che sono posti dall’art. 959 c.c. a carico dell’enfiteuta (55), si deve pertanto rilevare la trascrizione della domanda di cui si tratta produce un effetto assai più limitato di quelli della trascrizione della domanda giudiziale di risoluzione del contratto per inadempimento: la sentenza che accoglie quest’ultima, non pregiudica infatti i diritti acquistati dai terzi in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione della domanda (ma soltanto quelli da loro acquisti mediante un atto trascritto o iscritto posteriormente), così com’è statuito dall’art. 2652, comma 1o, n. 1, cpv., c.c. In quest’ultimo caso, la pubblicità lega( 52 ) La trascrivibilità di tali atti non era prevista dal codice civile del 1865. La disposizione legislativa vigente riprende quella che era stata già ipotizzata nel Progetto Scialoja e poi recepita nel Progetto Reale (a tale proposito, v. Nicolò, op. cit., p. 155 s.). ( 53 ) Nicolò, op. cit., p. 196 ss., seguito da Mariconda, La trascrizione2, in Tratt. Rescigno, XIX, Torino, 1997, p. 164; Ferri-Zanelli, op. cit., p. 358 s. ( 54 ) V. supra, n. 1. ( 55 ) Al riguardo, v. C.M. Bianca, Diritto civile, VI, La proprietà, Milano 1999, p. 579; Gazzoni, Manuale di diritto privato, cit., p. 257. 644 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 le serve pertanto non solo come criterio di diritto processuale per stabilire se i terzi aventi causa del convenuto siano assoggettati all’efficacia della sentenza pronunciata nei confronti del loro autore (art. 111, comma 4o, c.p.c.), ma anche come criterio di diritto sostanziale per stabilire se essi siano assoggettati a quel postulato del principio consensualistico che si riassume nel brocardo resoluto iure dantis, resolvitur et ius accipientis (56). Ciò si spiega in quanto, mentre la risoluzione del contratto per inadempimento generalmente non pregiudica l’acquisto degli aventi causa dal convenuto, a meno che la domanda giudiziale non sia stata appunto trascritta anteriormente alla trascrizione o all’iscrizione del loro titolo (c.d. retroattività reale limitata), la devoluzione del fondo enfiteutico rimuove fin dall’inizio qualsiasi diritto che l’enfiteuta abbia attribuito a un terzo, indipendentemente dalla trascrizione del suo titolo. La maggiore intensità degli effetti giuridici della devoluzione del fondo enfiteutico rispetto alla risoluzione del contratto per inadempimento è dovuta al fatto che gli obblighi posti dall’art. 959 c.c. a carico dell’enfiteuta non rilevano come obbligazioni qualsiasi che egli si sia volontariamente assunto, ma gli sono imposti dalla legge come limiti interni del suo diritto reale di godimento, il quale, com’è noto, è per il resto equiparabile a quello di proprietà (57): la violazione di tali obblighi legali non è pertanto trattata dall’ordinamento giuridico come un inadempimento qualsiasi, ma come un abuso del diritto dell’enfiteuta, a fronte del quale l’ordinamento giuridico dispone che sia ripristinata fin dall’inizio la proprietà del concedente sul fondo enfiteutico. Si deve fra l’altro rilevare che la retroattività dell’effetto giuridico della devoluzione del fondo enfiteutico nei confronti dei terzi è superiore non soltanto a quella che caratterizza l’annullamento del contratto costitutivo dell’enfiteusi, il quale, se non dipende da incapacità legale, non pregiudica i diritti acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede (art. 1445 c.c.) (58), ma addirittura a quella che caratterizza la sua nullità: in tali casi, infatti, non sono quanto meno pregiudicati i diritti che a qualunque titolo sono stati acquistati dai terzi in buona fede in base a un atto trascritto o iscritto anteriormente alla trascrizione tardiva della domanda (art. 2652, comma 1o, n. 6, cpv., c.c.), laddove neppure questa ipotesi di acquisto a non domino può operare in caso di devoluzione del fondo enfiteutico. Non è pertanto sistematicamente incoerente che la dichiarazione di riscatto legale sia opponibile a coloro che abbiano avuto causa dal ritrattato dopo la scadenza per l’esercizio del diritto di riscatto, tenuto conto che essi erano o avrebbero comunque dovuto essere a conoscenza della precarietà del titolo di acquisto da parte del loro dante causa, così come ne sono o devono comunque esserne a conoscenza coloro che abbiano avuta causa dall’enfiteuta. ( 56 ) V. supra, n. 5. ( 57 ) Sulla questione, in generale, v. Bianca, op. ult. cit., p. 563 ss. ( 58 ) V. supra, n. 5. Enrico Camilleri Prof. straord. dell’Università di Palermo APPUNTI SULLA STRUTTURA DELL’ESPROMISSIONE CUMULATIVA Sommario: 1. L’espromissione tra linearità di statuto e fraintendimenti. — 2. Portata innovativa delle norme sulla espromissione e condizionamenti dogmatici. — 3. Le tesi contrattualistiche e le distorsioni in sede applicativa. — 4. L’espromissione cumulativa ed i margini per l’impiego di congegni alternativi al contratto. — 5. Contratto con obbligazioni del solo proponente e semplificazione analitica della fattispecie: critica. — 6. Promesse unilaterali ed espromissione cumulativa. 1. — Tra i congegni negoziali che realizzano una modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio, l’espromissione è tradizionalmente reputato il più lineare in punto di causa e struttura. Di ciò è complice la lettera stessa dell’articolo 1272 c.c., che, al comma 1o, fissa nell’assunzione del debito altrui — fatta dal terzo al creditore, pur senza delegazione da parte dell’obbligato — l’architrave dell’intera fattispecie, così traducendo quelle istanze di speditezza e praticità, enfatizzate già in seno alla Relazione al Codice civile al riguardo del più generale fenomeno della successione nel debito (1). Non pare, in effetti, revocabile in dubbio che proprio l’assunzione della posizione passiva altrui, cui pure sono vocate anche le figure congeneri della delegazione e dell’accollo (2), assurga a tipico sostegno causale dell’impegno dell’espromittente (3), vieppiù secondo tratti a tal punto definiti da presidiare il distinguo con la fideiussione, solo prima facie affine in quanto retta dalla diversa funzione di garanzia dell’altrui adempimento (4). ( 1 ) Cfr. Relazione al Re, n. 584. ( 2 ) Cfr. per tutti Rescigno, Studi sull’accollo, Milano 1958, p. 1 e ss. ( 3 ) In giurisprudenza si veda, ad esempio, Cass. 13 dicembre 2003, n. 19118, in Contratti, 2004, p. 652 e ss. L’inquadramento del momento causale nei termini di cui al testo presiede, peraltro, al distinguo tra l’espromissione e la delegazione, rappresentata come schema generale i cui due rapporti di base (quello di valuta e di provvista) possono bene reggersi su profili causali molteplici: si vedano, in proposito, le osservazioni di Rescigno, voce Delegazione (dir. civ.), in Enc. dir., XI, p. 930, Cicala, Espromissione, Napoli 1995, 91 e ss., Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 2011, p. 83; analoghe valutazioni sono già rinvenibili in Bigiavi, La delegazione, Padova 1940, p. 3. Parimenti parrebbe doversi dire in relazione all’accollo c.d. esterno, per lo meno ove se ne accolga la ricostruzione nei termini di una applicazione dello schema generale (e, per definizione, causalmente neutro) del contratto a favore di terzo: cfr. Rescigno, Studi sull’accollo, cit., 238, Cicala, op. ult. cit., p. 91 e ss., nonché p. 101 e ss.; La Porta, L’assunzione del debito altrui, in Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2009, p. 207 e ss. ( 4 ) Cfr. Carpino, Espromissione cumulativa e fideiussione, in questa Rivista, 1969, I, p. 646 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Pacifico è poi che, sempre nella espromissione, il congegno negoziale preordinato all’assunzione del debito riguardi unicamente creditore e terzo (5), certo sull’orma del rapporto di valuta tra debitore e creditore (arg. ex art. 1272, comma 3o, c.c.) ma, per lo meno sul piano formale, a prescindere da quello di provvista, in tesi persino eventuale (arg. ex art. 1272, comma 2o, c.c.) (6); per l’appunto, un ulteriore indice della cifra di maggiore « agilità » che contraddistingue lo schema espromissorio, a paragone delle complesse intelaiature di posizioni soggettive e rapporti che ricorrono tanto nella delegazione quanto nell’accollo (esterno) e che vedono in ogni caso direttamente coinvolto il debitore originario (7). Come bene ha, però, sottolineato la dottrina cui si deve il maggiore contribuito all’approfondimento teorico dell’istituto in esame, la linearità dell’espromissione è stata talvolta foriera anche di una qualche approssimazione nella compiuta comprensione della relativa fattispecie, quando non già di equivoci interpretativi intorno ad essa (8); equivoci tra i quali ci pare vada annoverata anche la prevalente lettura della norma di riferimento (l’art. 1272, c.c.) che alla dimensione del contratto — ed unicamente ad essa — 395 e ss.; Stella, Le garanzie del credito, Milano 2010, pp. 82-83; Briganti, L’espromissione, in Briganti-Valentino, Le vicende delle obbligazioni. La circolazione del credito e del debito, Napoli 2007, p. 335 e ss. In giurisprudenza cfr., ad esempio, Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, in Mass. Giust civ., 2012, 12, p. 1388, nonché Cass. 16 febbraio 2004, n. 2932, in Mass. Giust. civ., 2004. ( 5 ) Seppure, come si dirà, con il primo soggetto non sempre necessariamente chiamato a vestire i panni di « parte » in senso tecnico del negozio, ben potendo infatti essere anche un mero destinatario della volontà impegnativa altrui. Descrive icasticamente l’espromissione come « l’unico schema negoziale destinato a regolare i soli interessi dell’assuntore e del creditore che si esauriscono nell’assunzione del debito in sé considerata » Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, cit., p. 83. ( 6 ) Mette appena conto sottolineare come l’estraneità del debitore espromesso sia da intendere in senso tecnico, ossia limitata al negozio terzo-creditore. Del resto — ed è opportuna considerazione che si deve già alle riflessioni di Betti, Della differenza fra expromissio e delegatio con riguardo alla responsabilità del delegante per insolvenza del delegato, in Ann. di dir. comp., 1931, v. VI, Parte I, f. II, p. 577 e ss., ma spec. 584 — sebbene il comma 2o dell’articolo 1272 c.c. subordini ad una espressa convenzione tra espromittente e creditore la possibilità che l’uno possa opporre all’altro le eccezioni relative al rapporto che lo lega all’espromesso, è piuttosto irrealistico pensare ad un intervento del terzo che sia del tutto sganciato da un previo concerto con il debitore, accadendo anzi nella normalità dei casi che in tanto il terzo intervenga in quanto a ciò tenuto sulla base di precisi vincoli giuridici intercorrenti con il debitore, salva la residuale prospettiva di un intervento sorretto da spirito liberale. Le medesime considerazioni valgono a relegare più alla teoria che non alla prassi concrea la eventualità, pure formalmente non revocabile in dubbio, che il rapporto c.d. di provvista neppure esista. ( 7 ) Vedi, in tal senso, le osservazioni di Rodotà, voce Espromissione, in Enc. dir., XV, Milano 1966, p. 783. Basti dire, al riguardo, della regola dettata dall’articolo 1274 c.c., che unicamente al delegante ed all’accollato, in ragione del ruolo attivo da essi assunto nella vicenda modificativa, addossano il rischio della insolvenza del terzo. ( 8 ) Cfr. Cicala, L’adempimento indiretto del debito altrui, Napoli 1968, 9. SAGGI 647 appiattisce la struttura del negozio da cui il rapporto può trarre titolo (9). Non soltanto, beninteso, laddove il dispositivo negoziale dia vita ad una variante ab origine privativa, in cui in effetti il consenso del creditore, oltre che imprescindibile ai fini del prodursi dell’effetto liberatorio (arg. ex art. 1272, comma 1o, c.c.), sta in rapporto sinallagmatico con l’assunzione dell’impegno da parte del terzo ed implica dunque di necessità la cornice contrattuale. Bensì pure allorché il titolo del nuovo vincolo sia scaturigine di una variante solo cumulativa dell’espromissione, poco importa se poi seguita dalla dichiarazione di affrancazione da parte dell’espromissario e tale dunque da divenire essa stessa liberatoria (10). In altri termini, quell’unitarietà del fenomeno espromissorio che opportunamente si è ritenuto di dover valorizzare, in ragione del ricorrere comunque — privativa o meno che ne sia la versione — di una c.d. « minima unità effettuale » data dall’assunzione del debito altrui (11), ha finito col travalicare il piano causale, condizionando anche quello della struttura dell’atto di autonomia privata (12), nel senso di accreditare la necessità dell’accordo pure laddove la tipologia degli effetti prodotti (vincolo cumulativo) consentirebbe di farne a meno. Si palesa, però, in tal modo una evidente precomprensione del momento strutturale, tanto più marcata quanto solo si considerino due distinti fattori. Il primo è costituito dalla eminenza che la stessa norma di fattispecie assegna agli effetti giuridici, rispetto al titolo che li genera; l’articolo 1272 c.c. risulta infatti più vago nel mettere a fuoco le fonti del rapporto espromissorio di quanto non sia nel tracciare i due diversi scenari (effettuali) in cui questo può risolversi (13), cosicché la nettezza dell’indirizzo prevalente circa la fisio( 9 ) Sul punto della fungibilità di diversi schemi negoziali (unilaterali oltre che contrattuali) quale possibile scaturigine degli effetti espromissori, a seconda che si abbia espromissione cumulativa o liberatoria, è tuttavia lo stesso Cicala, op. ult. cit., 5, nt. 2, ad abbracciare una lettura estremamente schematica della fattispecie, giungendo a tacciare di inconsapevolezza le opinioni (invero assai vaghe) espresse dai primi commentatori che si sono espressi a favore di una possibile non esclusività dello strumento contrattuale: cfr. Pettiti, Rapporto cartolare ed espromissione, in Giur. Compl. Cass. Civ., 1952, II, p. 1660; analogamente Striani, Sulla figura della espromissione condizionata e sulla sua disciplina come negozio atipico, in F. it., 1956, I, cc. 1944-1947. ( 10 ) Su cui si rinvia, sin d’ora, a Cicala, Espromissione, cit., p. 20; Grasso, Delegazione, espromissione e accollo, cit., p. 85. ( 11 ) Così ancora Cicala, L’adempimento indiretto, cit., pp. 48, 64; Id., Espromissione, cit., p. 73 e ss. ( 12 ) Vedi in tal senso già Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, Milano 1936, p. 244; con riguardo al Codice vigente netta appare sul punto la posizione di Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 4 ad avviso del quale « Il creditore è parte del contratto di espromissione: su questo punto non può esservi incertezza ». ( 13 ) Del resto, può aggiungersi, è giusto sulla scorta di questo primato della dimensione effettuale su quella genetica che è stato possibile annettere al paradigma dell’espromissione numerose ipotesi di assunzione ex lege del debito altrui Si veda, in proposito, lo studio di 648 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 nomia pattizia di quelle si radica di necessità su di un piano altro da quello meramente positivo. Il secondo risiede, invece, nella singolare « dissociazione » del metodo interpretativo, cui si è finito col dar luogo onde corroborare (rectius: non smentire) l’assunto di partenza della indefettibilità del contratto. Metodo interpretativo, infatti, ora — in punto di ricostruzione della dimensione causale e dell’oggetto del vincolo obbligatorio — ispirato all’analisi semantica del dettato positivo, così da valorizzare il significato più proprio dell’espressione « assumere il debito altrui » e trarne tutti i corollari effettuali (14); ora, invece — allorché orientato alla indagine strutturale — per l’appunto condizionato da una sorta di dogmatismo pancontrattualista (15) e disancorato da un dato letterale che viceversa, col menzionare il solo agire del terzo ed il tacere su qualsivoglia accettazione espressa da parte del creditore (16), di certo lascia ampi margini per sostenere quanto meno la fungibilità tra struttura unilaterale (rectius: promessa) e contratto, ai fini della genesi del vincolo obbligatorio in capo all’assuntore. 2. — La presenza stessa, nel corpo del Codice Civile, di una norma dedicata alla espromissione costituisce, come noto, un elemento di discontinuità rispetto alla tradizione precedente, informata alla impostazione del code Napoléon, che riconduce la modificazione soggettiva passiva del rapporto obbligatorio alla sola novazione, di questa configurando infatti tre diverse varianti (art. 1271) tra cui quella in cui « parl’effet d’un nouvel engagement, un nouveau créancier est substitué à l’ancien » (art. 1271, n. 3, cod. nap.). Sarebbe, tuttavia, per lo meno corriva una lettura che pretendesse di attribuire portata meramente formale al nuovo corso inaugurato con la codificazione del 1942. Tomassetti, Assunzione unilaterale ed espromissione « ex lege », in R. trim. d. proc. civ., 1997, p. 29 e ss., ma spec. p. 43. ( 14 ) Segnatamente la degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’originario debitore. Vedi per tutti Cicala, Espromissione, cit., p. 29 e ss. nonché Campobasso, Coobbligazione cambiaria e solidarietà diseguale, Napoli 1974, p. 268 e ss. Sottolinea altresì l’identità di oggetto tra il vincolo obbligatorio originario e quello assunto dal terzo espromittente Briganti, L’espromissione, in Briganti-Valentino, Le vicende delle obbligazioni. La circolazione del credito, cit., p. 329. ( 15 ) Sul punto sono, ancora di recente, piuttosto paradigmatiche le argomentazioni impiegate a sostegno da Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166. ( 16 ) Si vedano, sul punto, le incisive osservazioni di Bianca, Diritto Civile, 4, L’obbligazione, Milano 1993, pp. 665 (ed ivi anche nt. 10) - 666; analogamente Tomassetti, Assunzione unilaterale ed espromissione « ex lege », cit., pp. 66-67. Diversamente, invece, Cicala, L’espromissione, cit., p. 11, il quale, pur essendo un fautore convinto della esclusività del contratto quale congegno in grado di dar vita al rapporto espromissorio, ritiene però che nessun argomento, circa la composizione strutturale della fattispecie, sia dato inferire dal testo dell’articolo 1272 c.c. SAGGI 649 Vero è, infatti, che l’expromissio (17) è schema che affonda le proprie radici sin già nel diritto romano e che il codice civile del 1865, sotto le insegne della novazione soggettiva passiva, disciplinava (art. 1270 c.c. abr.) una fattispecie sostanzialmente riconducibile alla espromissione privativa (18), pur tra le incertezze classificatorie legate alla disputa tra novazione e successione nel debito, che ancora riecheggia nella Relazione al Re (19). Vero è del pari, tuttavia, che l’articolo 1272 c.c. codifica — ed eleva anzi a modello ordinario — pure l’allotropo cumulativo della fattispecie, così tipizzando uno schema in passato al più prefigurato in chiave di atipicità (20); ed ancora, che l’effetto di degradazione a sussidiaria della responsabilità del debitore originario, non liberato dal creditore, ancorché dettato per la sola delegazione (art. 1268, comma 2o, c.c.) va reputato in realtà comune anche ad espromissione cumulativa ed all’accollo esterno, siccome parimenti riconducibili alla categoria delle obbligazioni con solidarietà passiva diseguale (21). Del resto, proprio alla luce delle novità introdotte con la codificazione, in primis la rilevanza tipica attribuita alla distinzione tra i due tipi di espromissione, la migliore dottrina ha sollecitato una rimeditazione teorica di numerose questioni relative alla fattispecie negoziale nel suo insieme, specie in punto di struttura oltre che di causa (22). Nondimeno, le indagini condotte in tale direzione non sono approdate a quegli esiti « eterodossi » che sarebbe stato forse lecito attendersi, in ciò probabilmente scontando due diversi ordini di condizionamenti. Un primo, per così dire esogeno, esercitato dalla codificazione tedesca. Questa, infatti, pur non disciplinando autonomamente l’espromissione (23), bensì un più generale paradigma di accollo di debito (§§ 414-419), contempla sì l’assunzione della posizione debitoria altrui (§ 414 BGB), ma in forma unicamente liberatoria (privative Schuldübernahme) (24) e quale ( 17 ) Si vedano al riguardo Betti, Della differenza tra « expromissio » e « delegatio », cit., p. 9 e ss., nonché Masi, voce Expromissio, in Nov. D., VI, Torino 1960, p. 1092 e ss. ( 18 ) Cfr. Bigiavi, La delegazione, cit., p. 35. ( 19 ) Cfr. Relazione al Re, n. 584, cit. ( 20 ) Attraverso il riferimento all’adpromissio: cfr. Rodotà, voce Espromissione, cit., 782. ( 21 ) Sul punto vedi comunque infra. Sin d’ora appare comunque imprescindibile il rinvio a Rescigno, Studi sull’accollo, cit., pp. 66 e ss., 703 ss.; Campobasso, Coobbligazione, cit., p. 268 e ss. ( 22 ) Così Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 782. ( 23 ) Così come le altre fattispecie che inverano, secondo il nostro codice civile, modificazione del lato passivo del rapporto obbligatorio. ( 24 ) Invero la dottrina tedesca ammette da tempo anche una variante (atipica e) cumulativa di assunzione del debito altrui (kumulative Schuldübernahme): cfr. già Larenz, Lehrbuch des Schuldrechts, Band I, Allgemeiner Teil, München-Berlin 1963, § 31, p. 357 e ss.; più ampi riferimenti in Campobasso, Coobbligazione cambiaria e solidarietà diseguale, Napoli 1974, p. 268, nt. 48 e Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli 1972, p. 650 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 contratto tra terzo e creditore (Vertrag zwischen Gläubiger und Übernehmer). Un secondo, certo assai più pregnante e tutto interno al sistema, legato invece all’idea del primato indiscusso del contratto tra i congegni a disposizione dell’autonomia privata, ed alla correlativa minimizzazione dei margini operativi assegnati alle promesse unilaterali. Da qui, per l’appunto, il consolidarsi, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, dell’opinione secondo cui la fattispecie dell’articolo 1272 c.c., metta capo o meno ad un effetto cumulativo, dovrebbe originare pur sempre da un contratto tra creditore e terzo (25). Certo non è mancata qualche apertura nella direzione di modalità perfezionative meno canoniche rispetto allo scambio di promessa ed accettazione conforme, postulandosi in particolare il ricorso al modello operativo dettato dall’articolo 1333, c.c. (26); ciò è tuttavia avvenuto pur sempre all’insegna della conventio ad excludendum verso forme di assunzione puramente unilaterale del vincolo obbligatorio e più in generale verso una reale fungibilità tra contratto ed altre strutture negoziali (promesse in testa), quale modo di esplicazione dell’autonomia privata. Sostanzialmente minoritarie sono invece rimaste le voci inclini ad ammettere una alternatività piena — in tema di espromissione cumulativa — tra fonte pattizia e non, peraltro dovendosi ulteriormente distinguere tra coloro i quali si sono espressi a favore del possibile ricorso a vere e proprie promesse unilaterali (27) e quanti hanno invece prefigurato, più genericamente, la sem260, nt. 81. V., altresì, nella letteratura più recente, Lang, Die Kumulative Schuldübernahme in der Rechtsprechung des Reichsgerichts und in der zeitgenössichen literatur, Frankfurt am Main 2004, passim. ( 25 ) Cicala, L’adempimento indiretto, cit., pp. 6, 43-45; Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 4; Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 783, il quale, in parte rifacendosi al pensiero di Nicolò (L’adempimento dell’obbligo altrui, cit., p. 270) circa la « fondamentale uniformità » di caratteri essenziali tra le varie figure negoziali che attuino interventi del terzo diversi dall’adempimento della prestazione già dovuta dal debitore, condivide l’assunto secondo cui tali figure hanno « in comune la natura contrattuale ». Nello stesso senso v. altresì Carpino, Espromissione cumulativa e fideiussione, cit., pp. 400-402; Ceci, La contrattualità dell’espromissione cumulativa, in Rass. d. civ., 1989, p. 289. In giurisprudenza cfr., tra le pronunzie più recenti, Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit.; Cass. 10 novembre 2008, n. 26863, in Obbl. e Contr., 2009, p. 500 e ss., con nota di Tomassetti; Cass. 13 dicembre 2003, n. 19118, in Contratti, 2004, p. 652 e ss.; Cass. 5 aprile 2001, n. 5076, in Mass. Giust civ., 2001, p. 716. ( 26 ) Cfr. La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 170 e ss. Una indicazione nella medesima direzione si coglie comunque già in Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, VI, 2a ed., Torino 1975, p. 32. Ammette la possibilità di far ricorso, per la sola espromissione cumulativa, al modello di formazione dettato dall’articolo 1333 c.c. anche Nappi (Commento all’art. 1272, in Commentario del codice civile dir. da E. Gabrielli, Delle obbligazioni — artt. 1218-1276, a cura di V. Cuffaro, Torino 897), alla sola condizione, tuttavia che il terzo assuma il debito senza contrattare con il creditore alcun corrispettivo. ( 27 ) Cfr. Bianca, Diritto civile, cit., pp. 665-666; Mancini, L’espromissione, in Tratt. Re- SAGGI 651 plice versatilità allo scopo di un paradigma (astratto) di negozio giuridico unilaterale recettizio (28). Non può comunque sottacersi, e sul punto si tornerà nel prosieguo dell’indagine, che i segnali più interessanti di discontinuità rispetto alla tralatizia impostazione contrattualistica si apprezzano oggi nella stessa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, allorché nel 2006 (29), prima, e nel 2009 (30), poi, ha esplicitamente preso posizione giusto a favore della fungibilità tra fonte bilaterale e meramente unilaterale, ai fini della genesi del rapporto espromissorio. Indicazione, questa, che meriterebbe forse di venire valorizzata nell’ambito di una riflessione di più ampio respiro sulla diffusione di tecniche di formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, già del resto evidente sul fronte delle garanzie personali (31). 3. — Centrale, nelle tesi contrattualistiche, è l’assunto del concorso necessario del creditore ai fini del perfezionamento del negozio espromissorio, quale riflesso, in punto di struttura, della sostanza effettuale della fattispecie, sia privativa che cumulativa. Valutazione ineccepibile nel primo caso, assai meno persuasiva nel secondo In ordine alla variante liberatoria, è invero la lettera stessa dell’articolo 1272 c.c. a richiedere il consenso espresso del creditore, ai fini della affrancazione del debitore originario, coerentemente con il principio di relatività degli effetti del negozio (32) e stante l’indole svantaggiosa del venir meno della garanzia costituita dal vincolo obbligatorio in capo al soggetto passivo originario. Escluso così che una semplice dichiarazione impegnativa del terzo possa scigno, vol. 9, 2a ed., Torino 1999, p. 504. Sia, inoltre, consentito rinviare a Camilleri, La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, Torino 2004, 39. Una posizione a sé viene espressa da Di Giovanni, Le promesse unilaterali, Padova 2010, p. 175, il quale ritiene possa al più postularsi il ricorso ad una promessa di pagamento ex art. 1988 c.c., il che però è altra cosa dal prefigurare una reale formazione unilaterale del rapporto obbligatorio che coinvolge il terzo: sul punto v. comunque infra. ( 28 ) Cfr. Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, Napoli 1972, p. 258 e ss., testo e note. ( 29 ) Cfr. Cass. 12 aprile 2006, n. 8622, in Mass. Giust. civ., 2006, p. 4. ( 30 ) Cfr. Cass. 26 novembre 2009, n. 24891, in Mass. Giust civ., 2009, p. 1633, ove la Corte, ai fini della configurazione strutturale dell’espromissione, giunge addirittura a ritenere più appropriato il paradigma del negozio unilaterale rispetto a quello del contratto. ( 31 ) In tema di fideiussione si vedano Cass. 13 febbraio 2009, n. 3525, in Banca, borsa, tit. cred., 2011, II, p. 300 con nt. di Cuccovillo; nonché Cass. 13 giugno 2006, n. 13652, in Mass. F. it., 2006, p. 1286; in tema di patronage forte si veda Cass. 3 aprile 2001, n. 4888, in G. it., 2001, p. 2254. ( 32 ) Sulle condizioni per la cui possibile deroga si rinvia ai lavori di Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano 1969, passim, ma spec. p. 204; Moscarini, I negozi a favore del terzo, Milano 1970, 170; Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, cit. Nella letteratura più recente cfr. altresì Mazzarese, Invito beneficium non datur: gratuità del titolo e volontà di ricevere l’attribuzione, in R. crit. d. priv., 2001, p. 3 e ss. 652 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 mettere capo ad una assunzione liberatoria del debito altrui, si è ritenuto non potersi avere altrimenti espromissione privativa che in dipendenza di un consensus ad idem di espromittente ed espromissario, perfezionativo di un contratto ad efficacia diretta (33). Di più, che l’obbligarsi dell’espromittente e la disposizione liberatoria dell’espromissario siano avvinti da un preciso nesso di corrispettività, alla cui stregua — a parte le ricadute di più immediata evidenza, quali la risolubilità del contratto ex art. 1453 c.c. — la liberazione dell’originario debitore integri atto dispositivo del credito, compiuto dal suo titolare e dettato dalla volontà di conseguire l’effetto satisfattivo che si riannoda alla assunzione del terzo (controprestazione) (34), donde la subordinazione dell’eventuale interesse contrario del debitore al mero apprezzamento del soggetto attivo, ai sensi dell’art. 1180, comma 2o, c.c. (35). Non diversamente, nel senso della indefettibilità del contratto, si è tuttavia opinato anche in merito all’allotropo cumulativo della fattispecie. Come già anticipato, si deve ai contributi della migliore dottrina, e può ormai ben dirsi sicura acquisizione teorica, la ascrizione della stessa espromissione al paradigma delle c.d. obbligazioni con solidarietà diseguale, nelle quali cioè il vincolo solidale, in linea con quanto prevede l’articolo 1293 c.c., si articola diversamente dall’ordinario e vede degradare a sussidiaria l’esposizione di uno dei soggetti passivi (36). ( 33 ) Cfr. Cicala, Esromissione, cit., p. 22. Riporta l’espromissione liberatoria al paradigma del contratto a favore di terzo (il debitore espromesso), seppur con taluni adattamenti rispetto al modello consueto, Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 238. Contro questa lettura si è, tuttavia osservato come il prodursi degli effetti verso il terzo non risulterebbe ricollegabile, nella espromissione, ad un modo d’essere accidentale di una vicenda altrimenti circoscrivibile a stipulante (espromissario) e promittente (espromittente): vedi Briganti, L’espromissione, cit., p. 322. ( 34 ) In tal senso già Nicolò, L’adempimento dell’obbligo altrui, cit., p. 262. Vigente il codice del 1942 cfr. Cicala, L’adempimento indiretto del debito altrui, cit., pp. 43-45; Id., Espromissione, cit., pp. 22-23; Rodotà, op. ult. cit., pp. 784 e 787. Nel medesimo senso v. altresì Bianca, Il contratto, cit., pp. 671-672; Briganti, L’espromissione, cit., p. 317; Grasso, Delegazione, cit., p. 85. ( 35 ) Cfr. Cicala, Espromissione, cit., pp. 23-24; Nappi, Commento all’art. 1272, c.c., cit., pp. 888-889. Contra tuttavia Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 116. ( 36 ) Con riguardo all’espromissione v. già Quagliariello, L’espromissione, Napoli 1953, p. 89 e ss. L’intuizione di questo primo A. è tuttavia poi stata ripresa ed ulteriormente sviluppata da Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 67 e ss.; Cicala, Espromissione, cit., p. 29 e ss., ma spec. p. 37 e ss. La categoria delle obbligazioni con solidarietà passiva diseguale, richiamata nel testo, è individuata e descritta da Campobasso, Coobbligazione cambiaria, cit., p. 246 e ss. ed è ad essa che l’autore persuasivamente riconduce l’espromissione cumulativa (ivi, p. 268 e ss.). L’estensione dell’articolo 1268 c.c. all’espromissione è stata invero sottoposta ad articolata critica da Grasso, Assunzione cumulativa del debito, in Scritti in onore di Falzea, Milano 1991, II, t. 2, p. 389 e ss.; lo stesso A. ha tuttavia mutato opinione in un lavoro più recente, prendendo posizione a favore di una sussidiarietà attenuata: cfr. Id., Delegazione, cit., p. 94. SAGGI 653 Con particolare riguardo alla figura al nostro esame, ove pure la nozione di solidarietà viene espressamente richiamata dall’articolo 1272, comma 1o, c.c., si è persuasivamente argomentato che il significato letterale da attribuire alla formula della assunzione del debito altrui importi, ad instar delle altre fattispecie congeneri della delegazione e dell’accollo, lo spostamento del peso economico dell’obbligazione sul terzo assuntore, rendendo per l’appunto solo sussidiaria la responsabilità a carico del debitore originario, attraverso il delinearsi di un beneficium ordinis a suo favore. Alla espromissione sarebbe, in definitiva, applicabile analogicamente la disposizione dettata dall’articolo 1268, comma 2o, c.c. in tema di delegazione, donde la imposizione al creditore dell’onere di richiedere (/attendere) il previo adempimento del terzo assuntore, prima di potersi rivolgere all’espromesso (37). Ebbene, giusto in questa sorta di vincolo procedurale al più pieno enforcement del diritto di credito si è scorto un effetto svantaggioso o potenzialmente tale per chi ne sia titolare; dal che, in una con l’interdizione del suo prodursi in dipendenza di una fonte semplicemente unilaterale quale la sola manifestazione di volontà del terzo assuntore, ancora una volta la ritenuta necessità del ricorso allo schema del contratto (38). Di più, persino nell’ipotesi di espromissione cumulativa si è giunti a prefigurare un nesso di corrispettività tra l’assunzione del vincolo da parte del terzo e la degradazione a sussidiaria della posizione passiva del debitore originario, non ritenendosi, questa seconda, effetto « che possa prodursi senza il consenso del creditore » ed anzi scorgendovisi il contenuto della (contro)prestazione a carico del soggetto attivo del rapporto obbligatorio (39). Senonché, a differenza di quanto non possa dirsi per la versione privativa della fattispecie che ci occupa, la tesi che accredita come indefettibile la cornice contrattuale anche per quella cumulativa mostra evidenti limiti, vuoi sotto il profilo più squisitamente ricostruttuivo, vuoi sotto quello pratico. Rinviando la disamina degli uni al prosieguo dell’analisi, può osservarsi, riguardo agli altri, come l’opzione contrattualistica accrediti in effetti una rigidità del momento genetico del rapporto espromissorio che tradisce gli obiettivi di speditezza perseguiti dal legislatore e che si presta vieppiù anche ad assecondare esiti per lo meno iniqui, consistenti in ciò, che chi pure (il terzo) abbia ingenerato un affidamento ragionevole sulla impegnatività delle proprie dichiarazioni si ritrovi poi nelle condizioni di poter invocare agevolmente la « insufficienza » di queste ultime ai fini della venuta ad esistenza di una obbligazione a proprio carico. ( 37 ) Vedi chiaramente Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 66 e ss. Per la identificazione come sussidiaria della responsabilità dell’accollato, in ipotesi di accollo (esterno) cumulativo si veda Cass. 24 maggio 2004, n. 9982, in F. it., 2004, I, c. 9405. ( 38 ) Così, ad esempio, Cicala, Espromissione, op. e loc. ult. cit. ( 39 ) Cfr. Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788. In senso analogo già Di Giovine, Note sulla causa del negozio di espromissione cumulativa, in D. e giur., 1965, p. 600. 654 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Rappresentativa di una situazione che pure si osserva costante nei vari ambiti di impiego della assunzione (espromissoria) del debito altrui può dirsi la casistica in tema di assicurazione della responsabilità civile, regolata dall’articolo 1917 c.c., norma che ha conservato un significativo raggio d’azione pure all’indomani della entrata in vigore della legge sulla obbligatorietà della RCA (l. 24 dicembre 1969, n. 990) (40). Premesso, infatti, come dalla stipulazione del contratto assicurativo non derivi alcun rapporto giuridico diretto tra l’assicuratore ed il singolo danneggiato (41), l’adesione all’idea della indefettibilità del contratto ai fini del sorgere del rapporto di espromissione conduce ad escludere che l’iniziativa spontaneamente assunta dal primo soggetto, il quale contatti direttamente il secondo (creditore) e gli manifesti ad esempio l’intenzione di provvedere al pagamento diretto del risarcimento dovutogli dal danneggiante-assicurato — magari persino liquidando la relativa somma — possa costituire fonte idonea al sorgere del vincolo espromissorio; e ciò pure ad onta delle condotte anche solo omissive (ad esempio l’omissione di atti interruttivi della prescrizione) che il destinatario di quelle dichiarazioni possa aver tenuto, per l’appunto facendo affidamento sulla loro impegnatività. 4. — Certo non v’è dubbio che le distorsioni appena descritte, cui minaccia di mettere capo la prevalente ricostruzione circa la modalità perfezionativa della espromissione, non sono di per sé sufficienti a confutare gli argomenti che a quella stessa impostazione sottostanno. Sarebbe d’altronde fuorviante ritenere qui decisiva, ai fini dell’accreditamento di eventuali fonti dell’obbligazione (del terzo) alternative al contratto, giusto la verifica di effettività, prevedibilità e ragionevolezza di quella reliance del creditore (42) che pure rischia di venire sovente frustrata. Come si dirà, infatti, una dichiarazione nella quale si menzioni l’obbligo già gravante su altri e si espliciti l’intenzione di farsene carico, ovvero addirittura si prometta di adempierlo, è da reputare autosufficiente sotto il profilo giustificativo, veicolando, il suo stesso contenuto, una expressio causae (43); da qui il carattere ( 40 ) Il cui art. 18, come è noto, ha introdotto il principio dell’azione diretta del danneggiato nei confronti dell’assicuratore, per l’appunto derogando a quanto invece previsto dall’art. 1917 c.c., che non trova pertanto più applicazione nell’ambito della assicurazione obbligatoria sulla responsabilità civile da circolazione di autoveicoli. ( 41 ) Cfr. Cass. 5 aprile 2001, n. 5076, cit.; contra v., comunque, Cass. 12 aprile 2006, n. 8622, cit. ( 42 ) Queste, in punto causale, le principali « condizioni » per ammettere fattispecie atipiche di promessa unilaterale: cfr. Camilleri, La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, cit., p. 71 e ss., p. 139 e ss. ( 43 ) Tale promessa, in altri termini — analogamente alle altre ipotesi tipiche di promessa — soddisferebbe già sotto il profilo formale la prescrizione causale: per questa impostazione v., per tutti, Spada, Cautio quae indiscretae loquitur: lineamenti funzionali e strutturali della promessa di pagamento, in questa Rivista, 1978, I, p. 673 e ss. ma spec., p. 754. SAGGI 655 neutro dell’affidamento eventualmente riposto dal promissario, ai fini del puntello di vincolatività della dichiarazione stessa. È però per altra via che quella impostazione contrattualistica merita di essere attentamente riconsiderata, a vantaggio di una sostanziale fungibilità tra accordo e promessa, per lo meno sul terreno della espromissione cumulativa. Non è, invero, controvertibile che l’espromissione assuma forma contrattuale allorché, liberatoria o cumulativa che sia, l’iniziativa della sua genesi venga assunta dal creditore. In tal caso sarà il soggetto attivo dell’originario rapporto obbligatorio a formulare una proposta all’indirizzo di un soggetto terzo, di talché la dichiarazione assuntiva che questi si determini ad emettere non risulterà altrimenti inquadrabile che quale accettazione conforme della proposta rivoltagli. Del pari può dirsi, poi, in relazione all’ipotesi in cui l’espromissione sia sì privativa ma tale fin dal sorgere del relativo rapporto giuridico. Essendo necessaria, già a mente dell’articolo 1272, comma 1o, c.c., una espressa manifestazione di volontà del creditore, affinché il debitore possa essere affrancato dal vincolo a proprio carico, quella manifestazione di volontà ammonterà ad accettazione conforme di una proposta del terzo, già orientata alla liberazione altrui; ovvero, senza che la cornice contrattuale ne venga però minimamente intaccata, a controproposta dello stesso soggetto attivo, accettata poi dal terzo, quante volte l’originario atto prenegoziale di quest’ultimo risultasse anche solo muto circa le sorti del debitore espromittendo. Diverse conclusioni sembra tuttavia legittimo trarre vuoi in presenza di espromissione cumulativa, vuoi a fronte di una espromissione che liberatoria divenga solo successivamente e per autonoma iniziativa del solo creditore. Prendendo le mosse da questa ultima ipotesi giova richiamare l’autorevole insegnamento secondo cui la dichiarazione di liberazione dell’originario soggetto passivo potrebbe anche intervenire autonomamente rispetto all’assunzione del vincolo obbligatorio da parte del terzo, atteggiandosi a mò di elemento autonomo, esterno allo schema negoziale e tale da rendere semmai complessa una fattispecie (quella dell’espromissione, appunto), altrimenti semplice (44). Fatta allora questa premessa, mette conto rilevare come altro sia escludere, in ragione della necessità del consenso del creditore, che l’allotropo già ab origine privativo del rapporto giuridico possa discendere da un negozio unilaterale riferibile al terzo, ed anzi reputare che la manifestazione di volontà di quest’ultimo — poco importa se in veste di proposta o accettazione — non Vedi però una penetrante critica a questo approccio formalistico in Scalisi, voce Negozio astratto, in Enc. dir., XXVIII, Milano 1978, p. 52 e ss., ma spec. p. 88. ( 44 ) Cfr. Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 113, nt. 5; Cicala, L’adempimento indiretto, cit., p. 34 e ss.; Campobasso, Coobbligazione cambiaria, cit., p. 274 e ss. Di supplemento di fattispecie parla anche Barbero, Sistema del diritto privato italiano, II, Torino 1962, p. 226. 656 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 possa che far corpo con la dichiarazione liberatoria resa dal creditore e dar vita ad un contratto a prestazioni corrispettive; altra cosa è invece ritenere che la cornice contrattuale rimanga comunque indispensabile pure allorquando la liberazione del debitore semplicemente segua, cronologicamente, il sorgere del vincolo dell’espromittente, e ne resti distinta per titolo, discendendo da un mero negozio (unilaterale) remissorio, riconducibile al soggetto attivo del rapporto obbligatorio. Invero, la tesi del possibile carattere successivo della liberazione è stata sottoposta a critica da quanti respingono l’idea di una graduazione delle responsabilità tra debitore originario e terzo assuntore, ritenendo piuttosto sussistere tra di essi un vincolo del tutto ordinario di solidarietà, in stretta aderenza con quanto espressamente evocato dallo stesso articolo 1272 c.c. (« il terzo ... è obbligato in solido... ») (45); da qui la supposta ripartizione interna pro quota tra i condebitori e, soprattutto, la prefigurazione degli effetti di cui all’articolo 1301 cod civ. in dipendenza di una remissione che il comune soggetto attivo eventualmente rivolga a beneficio di uno solo dei coobbligati. A confutazione di tale opinione è tuttavia sufficiente rifarsi ancora una volta alla persuasiva dimostrazione circa il carattere in realtà solo sussidiario della solidarietà che si instaura tra espromesso ed espromittente (46). Detto già dello spostamento sul terzo assuntore del peso economico del debito, può aggiungersi intanto come tra quest’ultimo ed il debitore originario difetti quell’Interessengemeinschaft che presiede alla regola di ripartizione interna pro quota ex art. 1298 c.c., donde non a caso la simmetria tra l’inciso finale dell’articolo 1272, comma 3o (sui limiti alla eccezione di compensazione) e l’articolo 1302, comma 1o, c.c.; ed inoltre, che le rispettive posizioni passive di entrambi i soggetti si riferiscono ad obbligazioni autonome, traenti titolo da fonti distinte (47), sebbene l’esistenza dell’una concorra a definire il sostegno causale dell’altra e vi sia identità d’oggetto tra di esse. Corroboratane la piena ammissibilità gli è, però, che quante volte la dichiarazione di affrancazione (48) per l’appunto segua la genesi del rapporto ( 45 ) Cfr. Carpino, Espromissione cumulativa, cit., p. 400, alla cui analisi si rifà adesivamente anche Bianca, Diritto civile, cit., p. 671, nt. 25. ( 46 ) Su cui si rinvia alle tesi già richiamate nel precedente paragrafo 3. ( 47 ) Cfr. Campobasso, op. cit., p. 274 e ss., traendo ulteriore conferma della analisi di cui al testo anche attraverso il regime delle eccezioni opponibili ricavabile dall’art. 1272, comma 2o, c.c., siccome in effetti parzialmente divergente sia dall’art. 1247 che dall’art. 1945, c.c. ( 48 ) Che va inquadrata nell’ambito del negozio di remissione del debito ex art. 1236, c.c.: cfr. Grasso, Delegazione, cit., p. 86; Briganti, L’espromissione, cit, p. 332. Di dichiarazione di natura remissoria parla altresì Campobasso, op. cit., p. 275, nonché ivi nt. 61. Mette appena conto osservare come la dottrina prevalente assegni alla opposizione del debitore natura risolutiva, nel senso, più esattamente, che essa varrebbe a rimuovere retroattivamente le conseguenze già prodottesi in dipendenza della dichiarazione del credi- SAGGI 657 espromissorio, accade che in una con l’obliterazione del nesso sinallagmatico tra di essa e l’assunzione del vincolo da parte del terzo venga fatalmente meno anche il più solido argomento a sostegno della indole necessariamente contrattuale del titolo da cui la nuova obbligazione origina. Nulla, certo, impedisce che di contratto sia anche in tal caso dato discorrere; ma, ed è questo il punto, quid iuris laddove l’intera fattispecie (complessa) prenda forma attraverso il susseguirsi di due distinte dichiarazioni unilaterali, quali quella con cui il terzo assume il debito altrui e quella, successiva, con cui il creditore dichiari di liberare il debitore originario? Indiscussa la natura unilaterale del negozio remissorio, attuato dal creditore ex art. 1236 c.c. (49), l’interrogativo testè posto rimanda, a ben vedere, alla riflessione sulle possibili varianti di struttura del negozio che dia vita alla espromissione cumulativa. Ed è però su questo terreno che ci si imbatte in prese di posizione contrarie che appaiano più legate ai presunti ostacoli che si frapporrebbero all’impiego di congegni alternativi al contratto, che non ad elementi effettivamente comprovanti la indefettibilità di questo ultimo, tanto più che la persuasiva confutazione di ogni nesso sinallagmatico tra vincolo dell’espromittente e degradazione della responsabilità dell’espromesso (50) priva, anche qui, la tesi della necessità dell’accordo del suo principale puntello. Così, alle laconiche affermazioni di parte della dottrina, secondo cui la necessità del contratto trarrebbe alimento dalla impossibilità di « far discendere effetti obbligatori dalla sola promessa », in ragione del « regime rigoroso » previsto dall’articolo 1987 c.c. (51), fa in certo senso eco, ancor di recente, la Suprema Corte di Cassazione, allorché rileva come una eventuale dichiarazione impegnativa del solo espromittente dovrebbe farsi, in tesi, rientrare tra le promesse unilaterali, le quali tuttavia, a mente dell’articolo 1987 c.c., sono inidonee a determinare effetti obbligatori giuridicamente tutelabili » al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge, tra cui non rientrerebbe quello di specie (52). 5. — Coerente con la direttiva interpretativa che tende a marginalizzare il ruolo delle promesse unilaterali può dirsi, d’altra parte, anche l’orientamento che, ai fini della genesi di una espromissione cumulativa, propone di guartore, a mò di una condizione risolutiva legale: vedi, per tutti, Breccia, Le obbligazioni, Milano 1991, p. 710. ( 49 ) Cfr. per tutti Benedetti, Struttura della remissione. Spunti per una dottrina del negozio unilaterale, in R. trim. d. proc. civ., 1962, p. 1308 e ss. ( 50 ) Si veda Cicala, Espromissione, cit., p. 17, secondo cui la degradazione a sussidiaria della responsabilità del debitore originario, lungi dal potere essere identificata come sacrificio a carico del creditore, costituisce un effetto automatico della assunzione del debito altrui, operata dall’espromittente. ( 51 ) Così Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 784. ( 52 ) Così Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit. 658 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 dare (anche) all’articolo 1333 c.c. (53), seppur accreditando come unilaterale il negozio che vi è cristallizzato. Secondo questa impostazione, infatti, il vincolo obbligatorio dell’espromittente potrebbe sì originare da un congegno altro da quello bilaterale, e più esattamente da una manifestazione di volontà del solo assuntore, ma pur sempre in presenza di quelle condizioni cui è legata la derogabilità del principio di non interferenza delle sfere giuridiche altrui (54), ossia indole vantaggiosa dell’attribuzione patrimoniale (55) e possibilità, per il terzo, di schermare la propria sfera giuridica, mediante la rifiutabilità degli effetti attributivi che gli sono indirizzati. È però questo secondo requisito che, sempre stando alla ricostruzione in commento, risulterebbe soddisfatto unicamente dal contratto con obbligazioni del solo proponente e non anche dalla promessa unilaterale. Laddove, infatti, lo schema di struttura dell’articolo 1333 c.c. mostra di conciliare unilateralità dell’atto obbligatorio (dell’espromittente) e potere di rifiuto dell’oblato (espromissario), non altrettanto si ritiene possa dirsi in relazione ad una mera dichiarazione promissoria del terzo, della quale si assume anzi la netta alterità dal paradigma del negozio unilaterale soggetto a rifiuto, per via dell’attitudine « ad attribuire immediatamente un diritto di credito (non rifiutabile) al destinatario », cui non rimarrebbe, infatti, che il ricorso allo strumento della remissione ex art. 1236 c.c. (56). Per altro verso, poi, delle promesse si rammenta ancora una volta la re( 53 ) Cfr. già Sacco, Il contratto, in Tratt. Vassalli, VI, Torino 1975, p. 32; Nappi, Un’ipotesi discutibile di espromissione cumulativa mediante proposta tacita, in D. e giur., 1976, p. 745 e ss., ma spec. p. 747 e ss. La tesi viene da ultimo ripresa da La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 170 e ss. e spec. p. 179; ancora Nappi, Commento all’art. 1272, cit., p. 897, per l’ipotesi in cui il terzo assuma il debito altrui senza contrattare alcun corrispettivo con il creditore. Tende ad escludere, invece, che l’espromissione possa prendere vita mediante semplice proposta dell’espromittente seguita dal mancato rifiuto dell’espromissario Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788, ma in ragione della asserita corrispettività della fattispecie cumulativa; diversamente Cicala, Espromissione, cit., p. 18, il quale si basa, infatti, sul presupposto della indole non puramente vantaggiosa dell’effetto di automatica degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’espromesso. Essendo, questo, uno dei principali argomenti contro l’eventuale impiego delle promesse unilaterali all’ambito che ci occupa se ne rinvia la disamina critica al paragrafo seguente. ( 54 ) Si vedano, al riguardo, i lavori già citati supra in nt. 32. ( 55 ) La natura puramente vantaggiosa dell’effetto attributivo a favore del terzo viene tuttavia ridimensionata nella prospettiva di quanti, in forza del distinguo tra corrispettività ed onerosità, ammettono che l’effetto in capo al terzo possa comportare per quest’ultimo degli elementi di onerosità, quali ad esempio alterazioni sì negative della propria sfera patrimoniale ma funzionali all’esercizio o alla conservazione del diritto stesso che viene attribuito: così al riguardo della compatibilità tra accollo e degradazione a sussidiaria della responsabilità dell’accollato già Cicala, Saggi sull’obbligazione e le sue vicende, Napoli 1976, p. 98; la tesi è ripresa ed ulteriormente sviluppata da La Porta, L’assunzione del debito altrui, cit., p. 176 e ss. ( 56 ) Così La Porta, op. ult. cit., pp. 181-182 e spec. nt. 150. SAGGI 659 gola di tipicità legale, la quale ne restringerebbe il raggio d’azione a quelle sole ipotesi — promessa di pagamento/ricognizione del debito — non già produttive di rapporti obbligatori nuovi (tra i quali dovrebbe certamente farsi rientrare anche quello tra espromittente ed espromissario), bensì dirette unicamente alla semplificazione della fattispecie di quelli già esistenti (57). Pur prescindendo per il momento dalle valutazioni strettamente attinenti le promesse unilaterali, gli è che un’attenta analisi della posizione illustrata rivela comunque l’essere non conducente, ai fini del ridimensionamento della indefettibilità dell’accordo contrattuale in sede espromissoria, il rinvio al meccanismo dell’art. 1333 c.c., alla stregua delle ben note obiezioni alla tesi che vi accredita la cristallizzazione positiva del negozio unilaterale soggetto a rifiuto (58). Anche a non voler ritenere dirimenti rubrica e testo della norma citata, ove pure si fa parola di contratto, milita, infatti, nella medesima direzione la distanza che si appalesa tra il meccanismo perfezionativo che in quella è tracciato e quanto viceversa dettato dall’articolo 1334 c.c. in tema di atti unilaterali. Altro è prevedere che il terzo debba avere la possibilità di mantenere la propria sfera giuridica immune dagli effetti — pur vantaggiosi — che gli sono rivolti; altra cosa è ritenere che il vincolo del dichiarante si perfezioni solo laddove, entro un lasso di tempo determinato, non intervenga una dichiarazione di rifiuto da parte del terzo medesimo. Il che è, nondimeno, quel che accade nel contratto con obbligazioni del solo proponente, a misura che il silenzio (rectius mancato rifiuto) dell’oblato condiziona il completamento della fattispecie negoziale, la quale dunque non potrà che dirsi in buona sostanza espressione del volere di entrambe le parti, seppur diversamente manifestato (59). L’opposto risulta, invece, nelle ipotesi anche solo tipiche di promessa unilaterale, quali ad esempio la promessa al pubblico, ove l’eventuale rifiuto dell’oblato non può che atteggiarsi a rinunzia di un diritto già acquisito (60). ( 57 ) Così ancora La Porta, op. cit., p. 182, il quale peraltro ritiene che la rigorosa tipicità delle figure di promessa — ridotte, come detto, a promessa di pagamento e ricognizione del debito — si giustificherebbe in ciò, che la solo la preesistenza del vincolo obbligatorio neutralizza il cennato rischio di interferenza nella sfera altrui, legato alla (supposta) non rifiutabilità dell’effetto attributivo discendente dalla dichiarazione promissoria, che viceversa si profila in relazione a promesse « atipiche ». L’A. mostra, invero, di non contemplare nel novero delle promesse la fattispecie della promessa al pubblico; una impostazione del genere è, tuttavia, irricevibile se non altro perché stride palesemente con il dettato legislativo, a meno di non ritenere che, con il passaggio citato, l’autore abbia inteso riferirsi solo alle fattispecie promissorie individualizzate. ( 58 ) La lettura dell’art. 1333 c.c. come norma che dia cittadinanza, nel sistema, al negozio unilaterale soggetto a rifiuto si deve a Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, cit., p. 121 e ss. ( 59 ) In linea, del resto, con le ricostruzioni più critiche verso il dogma consensualistico: cfr. già Vitucci, I profili della conclusione del contratto, Milano 1968. ( 60 ) Si vedano, in tal senso, già i rilievi di Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano 1979, pp. 287-287. 660 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Di più, poi, pur senza disconoscere la indubbia peculiarità del procedimento di formazione della fattispecie ai sensi dell’articolo 1333 cc. e la deviazione cui esso mette capo rispetto al modello dell’accordo quale sintesi di due manifestazioni di volontà, gli è che indubitabilmente contrattuale rimane comunque il rapporto cui si dà vita: un contratto a formazione semplificata, certo, ma pur sempre un contratto (61). Con il che, dalla prospettiva che ci occupa, se non si frappone certo alcun ostacolo a che si possa fare impiego anche di questo schema semplificato ai fini del perfezionamento della fattispecie assuntiva del debito altrui, resta comunque il fatto che l’apertura ad un negozio espromissorio realmente unilaterale sbiadisce a mera petizione di principio, priva di riscontri concreti per lo meno a misura che si tengano ferme le valutazioni critiche riguardanti le promesse. Né più fruttuosa, nella direzione segnalata, appare del resto la proposta di « stemperare l’affermata necessità della natura contrattuale dell’espromissione » accreditando la possibilità di una promessa di pagamento (del debito altrui) resa, ex art. 1988 c.c., dall’espromittente all’indirizzo dell’espromissario (62). Anche a non voler ridurre, infatti, la promessa di pagamento al mero effetto processuale della relevatio ab onere probandi (63) ed accogliendo, viceversa, la teorica della c.d. semplificazione analitica della fattispecie, resta comunque ferma la necessità che un vincolo giuridico tra promittente (terzoespromittente) e promissario (creditore espromissario) preesista alla dichiarazione del primo. Vero è, infatti, che nella ricostruzione richiamata, la fonte originaria del rapporto degrada a causa o mera giustificazione di quella obbligazione che la promessa medesima viene ad incorporare, facendosene essa stessa fatto costitutivo; e vero è del pari che ciò realizza di per sé un effetto che può già dirsi sostanziale, in quanto sposta l’onere della prova (contraria), a carico del promissario, dal fatto costitutivo del vincolo alla mancanza della causa dell’attribuzione patrimoniale (64). Tuttavia, la dichiarazione impegnativa in tanto potrà mettere capo alla estrapolazione di un segmento obbligatorio di un pregresso (più articolato) rapporto, in quanto questo esista tra le medesime parti, poi coinvolte in veste ( 61 ) Cfr. per tutti Sacco, Contratto e negozio a formazione unilaterale, in Studi in onore di P. Greco, II, Padova 1965, p. 953 e ss.; Roppo, Il Contratto, Milano 2001, p. 127. L’attribuzione di natura propriamente contrattuale alla fattispecie che pure prenda vita ai sensi dell’art. 1333 è, di recente, condivisa anche da Rossi, Silenzio e contratto, Silenzio dell’oblato e costituzione del rapporto contrattuale, Torino 2001, passim, ma spec. pp. 150-153; Damiani, Il contratto con prestazioni a carico del solo proponente, Milano 2000, p. 174 e ss. ( 62 ) Cfr. Di Giovanni, Le promesse unilaterali, Padova 2010, pp. 175-179. ( 63 ) Per una panoramica delle diverse posizioni in proposito cfr. ancora Di Giovanni, ult. cit., p. 98 e ss.; Camilleri, Le promesse unilaterali, Milano 2002, p. 104 e ss., ma spec. p. 117 e ss. ( 64 ) Cfr. Di Majo, voce Promessa unilaterale (dir. priv.), in Enc. dir., XXXVII, Milano 1988, p. 59. SAGGI 661 di promittente e promissario; quanto dire, nella ipotesi al nostro esame, della necessità che il rapporto espromissorio trovi titolo aliunde rispetto alla eventuale dichiarazione unilaterale del terzo-espromittente (65). 6. — L’analisi sin qui svolta dovrebbe consentire di isolare agevolmente il doppio ordine di ostacoli usualmente addotti contro l’eventualità che la espromissione cumulativa tragga titolo da una mera dichiarazione impegnativa del (solo) espromittente. Da un canto ci si appunta sulla refrattarietà della stessa fattispecie espromissoria a venire ricondotta entro il paradigma del negozio unilaterale, in ragione della supposta indole non esclusivamente vantaggiosa — per il creditore — del degradare a sussidiaria della responsabilità dell’espromesso. Dall’altro si esclude ogni possibile ruolo delle promesse unilaterali, a causa del principio di tipicità che discende(rebbe) dall’articolo 1987 c.c. e che ne circoscrive(rebbe) il raggio d’azione alle sole ipotesi contemplate agli articoli 1988 e 1989 c.c. D’altronde, non solo le promesse costituiscono una species del negozio unilaterale, così da soggiacere alla medesime condizioni generali che si danno in apicibus per la sua configurabilità (66); ma compendiano la quasi totalità delle figure che a quello stesso genus sono riconducibili, per lo meno sul terreno degli effetti obbligatori (67), sicché è fatale che ogni ipotesi su dispositivi alternativi a quello pattizio si appunti su di esse. Contro l’assunto della non vantaggiosità (per l’espromissario) della dichiarazione assuntiva del terzo, a cagione dell’arretramento in seconda linea della responsabilità del debitore originario, basterebbe invero obiettare che il rafforzamento della situazione soggettiva attiva, che consegue al delinearsi di una nuova posizione debitoria ad essa contrapposta, fa in ogni caso premio su ogni eventuale disagio legato all’imposizione del beneficium ordinis (68). Di più, però, va osservato che giusto quest’ultimo, a differenza del più pregnante beneficium excussionis, non importa alcun condizionamento significativo del modus operandi del creditore, cui non è infatti imposto di avviare una procedura esecutiva contro un debitore, prima di poter agire in executivis contro gli altri coobbligati, bensì soltanto « l’onere di chiedere l’adempimento ( 65 ) Mette, peraltro, conto segnalare come ad avviso di parte della dottrina la semplificazione analitica della fattispecie non potrebbe che riferirsi a rapporti fondamentali scaturenti da contratti a prestazioni corrispettive: cfr. D’Angelo, Le promesse unilaterali, in Comm. Schlesinger-Busnelli, Milano 1996, p. 548. ( 66 ) Cfr. in tal senso le decisive osservazioni di Oppo, Dal contratto al negozio unilaterale. Recensione a Giuseppe Benedetti, in questa Rivista, 1973, I, p. 372 e ss., il quale sottolinea il difetto di ogni attendibile ragione sistematica per dare luogo ad un diverso trattamento. ( 67 ) Cfr. Graziani, Le promesse unilaterali, in Tratt. Rescigno, vol. 9, Obbligazioni e contratti, I, Torino 1999, p. 773 e ss., ma spec. p. 807 e ss. ( 68 ) In questo senso ci pare si orienti Donisi, Il problema dei negozi giuridici unilaterali, cit., p. 259 ed ivi nt. 80. 662 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 di uno dei condebitori; se la richiesta rimane infruttuosa, c’è la possibilità di rivolgersi all’altro » (69). Ove solo si ponga mente al fatto che l’infruttuoso spirare del termine di adempimento — necessariamente accompagnato (obbligazioni querables) o meno (obbligazioni portables) dalla intimazione di pagamento (70) — costituisce il prodromo indispensabile per l’attivazione dei rimedi satisfattivi del credito, dovendo colui che agisce allegare pur sempre l’inadempimento altrui quale presupposto della propria azione, ci si avvede di come allora in nulla possa dirsi deteriore la posizione dello stesso creditore, allorché onerato di rispettare un beneficium ordinis a vantaggio di uno dei coobbligati (71). Mancando l’adempimento del debitore principale (espromittente) — spontaneo o intimato, poco importa — ecco inverata la condizione che legittima a promuovere ogni azione esecutiva anche contro il soggetto passivo originario, senza che sia prefigurabile a carico del creditore l’onere di un supplemento di attesa o di una ulteriore intimazione. Ed è, d’altronde, in forza di questo dato che appare persuasivo il rilievo che assegna alla sussidiarietà il compito semmai di organizzare l’attività solutoria dei condebitori, ponendo a carico di quello principale l’onere di assumere l’iniziativa dell’adempimento, senza anche coartare in alcun modo, o modificare negativamente, la libertà di azione del creditore (72). Inoltre, nel solco dell’autorevole opinione secondo cui si avrebbe la messa in non cale della sussidiarietà quante volte il responsabile in via principale versi in una condizione di impossibilità giuridica di adempiere, ad esempio perché fallito (73), potrebbe giungersi a prospettare una eguale irrilevanza del beneficium ordinis a fronte di quelle ipotesi in cui, stante una genesi per l’appunto non contrattuale del rapporto espromissorio (74), si delinei l’insolvenza civile dell’espromittente, già sussistente al tempo della assunzione ovvero insorta successivamente ad essa (75). ( 69 ) Così Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 68; analogamente Rodotà, voce Espromissione, cit., p. 788, Bianca, Diritto civile, cit., p. 670. ( 70 ) L’esercizio della pretesa creditoria a mezzo intimazione dello stesso soggetto attivo è reputato essere il logico prius dell’attuazione del rapporto obbligatorio, e dunque ammesso anche in presenza di obbligazioni portabili, da Natoli, L’attuazione del rapporto obbligatorio, t. 1, Milano 1974, p. 47 e ss. ( 71 ) Cfr. Grassi, L’espromissione. Considerazioni sulla struttura e sulle eccezioni, Napoli 2001, p. 8. ( 72 ) Cfr. Grasso, Delegazione, espromissione, accollo, cit., pp. 92 e 94. La tesi della natura « affievolita » della sussidiarietà della responsabilità dell’espromittente è stata tuttavia illustrata dal medesimo A. già in Assunzione cumulativa del debito, cit., p. 404 e ss. ( 73 ) Cfr. Rescigno, Studi sull’accollo, cit., p. 69. ( 74 ) Dovendo, in caso contrario, prevalere l’autoresponsabilità del creditore che non si sia avveduto della insolvenza del terzo espromittente con cui abbia concluso il contratto. ( 75 ) Ci si riferisce in tal caso alla insolvenza civile non già come inutile escussione del patrimonio debitorio, nel qual caso il problema segnalato nel testo non avrebbe ragion d’es- SAGGI 663 Acquisito, così, che la solidarietà passiva diseguale non si traduce in una situazione incompatibile con la indole vantaggiosa degli effetti che il negozio unilaterale attributivo deve di necessità generare, resta da chiarire in che misura le altre « condizioni d’uso » che presiedono ai congegni strutturalmente alternativi al contratto — vale a dire il potere del terzo di schermare la propria sfera giuridica dall’effetto attributivo dell’altrui impegno e la causalità del vincolo assunto — possano ugualmente dirsi sodisfatte nella materia che ci occupa. Quanto dire di un’analisi che si sposta fatalmente sulla versatilità allo scopo da parte delle promesse. Sia perché queste si ritengono tali da esaurire la categoria stessa degli atti unilaterali produttivi di obbligazioni, specie una volta fugati gli equivoci classificatori intorno all’articolo 1333 c.c. e risospinta la relativa fattispecie entro l’alveo del contratto. Sia, soprattutto, perché il travisamento della lettera dell’articolo 1987 c.c., su cui poggia il presunto principio di loro rigorosa tipicità, affonda giusto nella supposta refrattarietà del congegno promissorio a soddisfare i presupposti di ammissibilità dei negozi unilaterali, prima richiamati (76). Senonché, dal punto di vista della salvaguardia della sfera del promissario è agevole rilevare come la soggezione delle promesse unilaterali alla regola dettata dall’articolo 1334 c.c., se individualizzate, o a quella di cui all’articolo 1989 c.c., se a destinatario indeterminato, e l’essere dunque immediatamente impegnative per il promittente non appena giunte a conoscenza del destinatario ovvero rese pubbliche, nulla toglie alla piena legittimità di un atto per così dire eliminativo da parte del creditore il quale intenda « ridurre in pristino » la propria sfera soggettiva, espungendovi giusto il diritto di credito che per effetto della promessa vi ha fatto ingresso. A corroborare la plausibilità sistematica di una dinamica siffatta basti osservare che identica situazione si palesa nella stipulazione a favore del terzo, laddove infatti « il terzo acquista il diritto (...) per effetto della stipulazione » intervenuta tra promittente e stipulante (art. 1411, comma 2o, c.c.). Nel caso della promessa unilaterale di espromissione cumulativa, la salvaguardia della sfera del promissario potrà dunque apprezzarsi non solo in virtù dell’effetto vantaggioso in cui si è visto risolversi l’acquisizione di altra sere, bensì quale lesione della garanzia patrimoniale e dunque quale situazione di pericolo, alla cui stregua risulti messa a rischio la soddisfazione spontanea o coattiva della pretesa creditoria; situazione, questa, la cui fenomenologia si arricchisce oggi alla stregua del fenomeno del sovraindebitamento del debitore civile, inquadrato e regolato dalla l. 27 gennaio 2012, n. 3: per una accurata disamina del concetto di insolvenza civile (anche) quale prodromo di una più complessa nozione di « crisi » del debitore v. Modica, Profili giuridici del sovraindebitamento, Napoli 2012, passim ma spec., p. 110 e ss. ( 76 ) Tra i primi a denunciare l’equivoco interpretativo sorto intorno all’art. 1987 c.c. G. Ferri, Autonomia privata e promesse unilaterali, in Banca, borsa, tit. cred., 1960, p. 482 e ss. Per una ricostruzione del retroterra ideologico del principio di tipicità delle promesse unilaterali, nonché per la disamina gli argomenti di ordine tecnico che quel principio hanno finito con l’alimentare: cfr. Camilleri, La formazione unilaterale del rapporto obbligatorio, cit., p. 27 e ss. 664 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 situazione soggettiva passiva, contrapposta a quella creditoria; ma vieppiù alla stregua della disponibilità di un congegno abdicativo cui eventualmente fare ricorso onde « rifiutare » il (rectius: rinunziare al) « nuovo » vincolo dell’espromittente, già comunque perfezionatosi. Apparentemente più complicato si direbbe il profilo della causalità dell’attribuzione, vero punto critico delle promesse ed argomento principe della loro supposta tipicità (77). La struttura unilaterale, infatti, implica l’assenza di uno scambio in senso economico e di un accordo, l’uno e l’altro, peraltro, neppure surrogati da prescrizioni di forma ovvero dalla necessità di traditio rei; da qui la carenza di garanzie sufficienti circa la serietà dell’intento di obbligarsi e la giuridicità dell’impegno assunto (78). È tuttavia nel solco delle letture più avanzate sulla causa degli spostamenti di ricchezza (79), che gli studi più recenti si sono incaricati di dimostrare la versatilità delle promesse a veicolare gli eterogenei interessi che si collocano tra l’area dello scambio propriamente detto e la gratuità pura di tipo donativo e che possono ricondursi vuoi a funzioni tipiche quali quella solutoria o di garanzia, vuoi ad altre propriamente atipiche (80). Fissata questa cornice, non vi può essere allora dubbio sulla causalità della promessa che dia vita ad una espromissione cumulativa, tanto più che l’interesse perseguito dal promittente e la funzione associabile al vincolo che egli assume sono non soltanto oggettivati nella dichiarazione di assumere il debito altrui, ma vieppiù già positivamente apprezzati dal legislatore, che infatti, contrariamente a quanto talora affermato in giurisprudenza (81), questa ipotesi di promessa tipizza giusto attraverso l’articolo 1272 c.c. (82). In altri termini, se in quanto « interessate », dal punto di vista del promittente, e tali da ingenerare un affidamento ragionevole nel promissario, le promesse mostrano di soddisfare appieno la direttiva causale e di riuscire a guadagnare anche la dimensione della atipicità (83), a maggior ragione dovrà reputarsi « causata » la fattispecie promissoria al nostro vaglio, in cui la giu( 77 ) Cfr. Di Majo, voce Causa del negozio giuridico, in Enc. giur. Treccani, VI, Roma 1998, p. 3. ( 78 ) Cfr. Di Majo, Delle obbligazioni in generale, cit., p. 221. ( 79 ) Nella vasta letteratura in argomento è d’obbligo il riferimento ai lavori di Giorgianni, voce Causa (dir. priv.), in Enc. dir., vol. VI, 1960, p. 537 e ss., ma spec. p. 563, specie riguardo alla causa delle prestazioni isolate, e G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano 1968, p. 251 e ss., in ordine alla composizione dei momenti soggettivo ed oggettivo. ( 80 ) Di Majo, Le promesse unilaterali, Milano 1989, p. 74. ( 81 ) Si veda Cass. 7 dicembre 2012, n. 22166, cit. ( 82 ) Per la qualificazione della promessa di espromissione cumulativa quale ipotesi tipica cfr. già Mancini, L’espromissione, cit., p. 504. ( 83 ) Ci sia consentito di rinviare ancora al nostro La formazione del rapporto obbligatorio, p. 71 e ss. SAGGI 665 stificazione dello spostamento patrimoniale e la serietà del vincolo assunto risultano già tipicamente apprezzati dal legislatore e consistenti nella assunzione di debito. Affermare la tipicità della promessa di espromissione cumulativa val peraltro quanto dire della ininfluenza — in senso contrario — dell’argomento di tassatività dei congegni promissori, che si pretende di trarre dall’articolo 1987 c.c. Mette tuttavia conto precisare, in termini generali, come giusto l’accertata uniformazione delle promesse unilaterali alle direttive sistematiche di causalità delle attribuzioni patrimoniali e derogabilità circostanziata del principio di relatività degli effetti del negozio offra buon gioco nel rileggere la formula stessa dell’articolo 1987 c.c., così da scorgere dietro il riferimento ai « casi ammessi », non già il rigido ripiegamento del sistema sulle sole ipotesi tipiche, peraltro più numerose rispetto a promessa di pagamento e promessa al pubblico, come l’articolo 1272 c.c. si incarica bene di dimostrare. Bensì la semplice subordinazione del giudizio sulla validità delle fattispecie atipiche al soddisfacimento delle condizioni di ammissibilità prima considerate. La ricostruzione che si è provato ad argomentare in queste pagine, ossia quella tendente ad evidenziare una sostanziale fungibilità tra contratto e promessa ai fini della venuta ad esistenza della espromissione cumulativa, ha peraltro ricevuto indiretto avallo in alcune recenti prese di posizione della Suprema Corte, allorché i giudici di legittimità hanno ammesso esplicitamente che l’impegno dell’espromittente possa perfezionarsi, nei confronti del creditore, al momento in cui questi ne venga a conoscenza e senza necessità alcuna di un atto di accettazione (84). Al che può poi aggiungersi, riprendendo un più datato spunto giurisprudenziale, che non sarebbe da escludere neppure il ricorso ad una variante in incertam personam per il medesimo vincolo del terzo, ossia sotto forma di promessa al pubblico, quante volte la fattispecie concreta — ad esempio l’elevato numero di creditori — mal si concili con una dichiarazione a destinatario determinato (85). Il processo di emersione di ipotesi — tipiche o atipiche, poco importa — di formazione unilaterale del rapporto obbligatorio si arricchisce così di un ulteriore tassello, oltre a quelli già evidenziatisi sempre in tema di modificazioni del lato passivo del rapporto obbligatorio, nell’impegno assunto dal delegato verso il delegatario (delegatio promittendi) (86) e, soprattutto, sul terreno delle garanzie personali. Con il che, però, simmetricamente, il totem della indefettibilità del contratto fa mostra sempre più di sbiadire ad anacronistico retaggio di Begriffjurisprudenz. ( 84 ) Cfr. Cass. 26 novembre 2009, n. 24891, cit. ( 85 ) Cfr. Cass. 17 settembre 1983, n. 5625, in G. it., 1984, 1, c. 1634, con nota di Vella. ( 86 ) Cfr. Bianca, Diritto civile, cit., pp. 636-637. Paolo Spada Prof. emerito dell’Università di Roma « La Sapienza » PARADIGMI DEL PENSIERO GIURIDICO E CONCEZIONE DELLA SOCIETÀ PER AZIONI NEI « PRINCIPI E PROBLEMI » DI CARLO ANGELICI (*) Sommario: 1. Parte generale del diritto azionario e « concezione » della società per azioni. — 2. Le « categorie » del diritto privato, come figure riferibili al comportamento individuale, e la società per azioni, come fenomeno metaindividuale. — 3. Segue: origini culturali delle « categorie » e loro rimodulazione nello studio del diritto azionario. — 4. Oltre il dialogo tra fenomeno azionario e « categorie » del diritto privato. — 5. Segue: scomposizione funzionale del fenomeno e le « risposte » del diritto positivo. — 6. Dubbia utilità conoscitiva della « concezione ». 1. — Nel presentare al pubblico il Libro di Carlo Angelici, l’Editore, da un lato, rivendica un’articolazione innovativa del Trattato Cicu-Messineo, della quale il volume sarebbe la prima epifania; e, dall’altro, attrae l’attenzione sulla selezione e sulla progressione tematiche del testo. « Per la prima volta — si legge nella scheda di presentazione — il Trattato Cicu-Messineo non è riservato alle classiche monografie di singoli maestri, ma si apre a una trattazione della materia in un’insolita pluralità di voci e di volumi ». D’onde il numero uno che, in cifra romana, compare sotto il titolo « La società per azioni ». Il primo dei volumi sulla società per azioni (tre lo seguiranno) non si denomina « Parte generale », bensì — per una scelta di understatement dell’autore, suppongo — « Principi e problemi »; l’obiettivo delle oltre 500 pagine è di orientare il lettore nella « comprensione » (il termine è usato più volte) di un fenomeno della coesistenza regolata (ed, in questo senso, di un fenomeno giuridico) e di condividere con il lettore una « concezione » del fenomeno. Ed è su questo terreno — quello della « concezione » del fenomeno società per azioni — che il libro ha cominciato ad essere discusso: alludo al saggio di Denozza, pubblicato nel 3o numero del 2013 di Giurisprudenza Commerciale con il titolo Quattro variazione sul tema « contratto, impresa e società nel pensiero di Carlo Angelici ». « Il punto di vista — dichiara l’autore (p. 50) nel motivare un passo cruciale del suo pensiero sul fenomeno — ... è quello del giurista » e « deve perciò avvalersi degli strumenti analitici di esso propri ... ». Carlo Ange(*) Intervento all’Incontro di studio su La Società per Azioni oggi – presentazione del volume La società per azioni, Principi e problemi di Carlo Angelici (Tratt. Cicu-MessineoMengoni, continuato da Piero Schlesinger, Giuffrè, Milano 2013) – Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 13 gennaio 2014. 668 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 lici non esplicita quale sia, per lui, il punto di vista del giurista e quali ne siano gli strumenti analitici, ma la progressione tematica che risulta dall’indice svela che l’autore sviluppa il suo progetto facendo dialogare un fenomeno storicamente colto nell’ambivalenza funzionale « industria » e « finanza » (v. l’Introduzione) con « le categorie (culturali e poi giuridiche) come il “diritto soggettivo”, la “persona” e il “patrimonio” e, soprattutto, il “contratto” » (parole, queste, che si leggono nella citata presentazione dell’opera da parte dell’Editore). Categorie (o « paradigmi » — come son certo preferirebbe esprimersi Angelici che molto ascolta la lezione di Kuhn), che, naturalmente, sono rivisitate e rimodulate attingendo a molteplici registri: quello giurisprudenziale (pratico e teorico), quello economico-finanziario, quello politico-istituzionale, tutti ragguagliati ad un’esperienza insofferente di tempi e di spazi; in un approccio olistico alla realtà esaminata, direi, più che globale. Il risultato conoscitivo del dialogo tra fenomeno e paradigmi è fondamentalmente questo: che « diritto », « persona », « patrimonio », « contratto » sono figure parametrate al comportamento individuale ed inter-individuale e, pertanto, insuscettibili di essere proficuamente utilizzate, tali e quali la tradizione del pensiero giuridico le ha conformate, nel ricercare, attraverso l’applicazione di regole promananti da fonti legali, sub-legali e private (stavo per dire negoziali, se non m’avesse trattenuto la consapevolezza di parlare ancora il linguaggio parametrato al comportamento individuale), composizioni plausibili degli interessi mobilitati da un fenomeno che è « industria e finanza » (la società per azioni, appunto) e rispetto al quale l’identità degli individui (degli « uomini nati da ventre di donna » — avrebbe detto Ascarelli) è una variabile di marginale importanza. 2. — Per chi condivida, almeno in parte, le congetture sugli intenti dell’autore e sugli obiettivi dell’opera che ho appena tentato di esporre, la sorpresa generata dall’indice si attenua fino a dissolversi e il piacere intellettuale del confronto delle idee la rimpiazza. La comparsa dei termini (non a caso virgolettati) « proprietà » e « persona » nella intitolazione dei primi due capitoli — termini che l’ordine del V libro del codice civile non saprebbe legittimare e che non troverebbero una radice conoscitivamente persuasiva neppure per coloro (e chi vi parla vi si annovera) che optassero per analizzare il materiale regolamentare movendo da quella sintesi tra « industria e finanza » che coglie l’immagine di lunga durata della società per azioni — rende evidente la scelta del dialogo tra fenomeno metaindiviale e paradigmi individuali del pensiero giusprivatistico ed avvia uno sforzo ammirevole di modulazione e di rinnovazione dei paradigmi che probabilmente si lascia compendiare nella transizione dal « diritto soggettivo » — come astrazione delle regole sull’appartenenza e sulla pretesa dell’individuo — al « potere » — come astrazione dei « modi giuridicamente rilevanti per la produzione di un’azione » (p. 55, nt. 85). SAGGI 669 La declinazione dei temi del « patrimonio » e del « contratto » — ai quali sono dedicati i capitoli III e IV — mi sembra tutta, in potenza, nella teoria delle situazioni soggettive dell’azionista; questa sviluppandosi — tra acquisiti dogmatici e realismo socio-economico — ragionando su « proprietà » e « persona ». 3. — Qui dirò che la (vera e propria) passione che Angelici coltiva per la storia della rivoluzione francese (della quale è divenuto uno specialista e sulla quale ha tenuto corsi universitari) e la suggestione (che di quella passione si alimenta) sul suo pensiero esercitata dalla codificazione, in coeva formazione, possono averlo convinto ad eleggerne il manifesto gius-politico come prospettiva d’avvio dell’analisi del fenomeno azionario. Non è un caso, credo, che nella Introduzione si citino le parole usate da Cambacérès nel presentare il progetto del codice civile del 1795. Queste: « Tre cose sono necessarie e bastanti all’uomo in seno alla società: essere padrone della propria persona; possedere beni per soddisfare i propri bisogni; poter disporre ... della propria persona e dei propri beni » (p. 15, nt. 30); parole dalle quali Angelici ricava che, in allora, al centro del sistema del diritto privato sulla via della codificazione il problema necessario e sufficiente fosse (come certamente era) quello dei « modi giuridici in cui il privato potesse, appropriarsi, godere e disporre della ricchezza » (p. 15): « dunque, i paradigmi della persona, dei suoi diritti e del contratto » (ivi). Suppongo — e azzardo — che in quella passione ed in quella suggestione si radichino la scelta di far dialogare la realtà meta-individuale della società per azioni (istituzione industriale e finanzaria insensibile all’avvicendamento degli individui) con i paradigmi individuali, e la ricerca di una modulazione di questi piuttosto di un loro radicale rimpiazzo. 4. — Grande è l’utilità di questo approccio per la storia della cultura giuridica. Più opinabile mi sembra che lo sia quando si colga — come chi vi parla ha, da molto tempo ormai, fatto e dichiarato — lo specifico del pensiero giuridico nella ricerca delle regole vigenti in un dato tempo ed in dato spazio, delle condizioni d’applicazione di queste e dei loro destinatari, con l’obiettivo primario di contribuire alla validità persuasiva della motivazione di un dispositivo che conclude una lite. E solo in seconda battuta alla progettazione di nuove regole. Naturalmente scelte « apicali » di quest’ordine scaturiscono dalla storia personale e dal personale gusto di chi pensa studiando e, quindi, sono nobilmente « arbitrarie ». Ma il più convinto omaggio all’opera sulla quale qui riflettiamo credo scaturisca non tanto dal censimento dei passi dell’opera sui quali si consente (e sono la maggior parte), quanto dal vaglio dei contributi dei quali essa è capace anche a beneficio di chi si dia un obiettivo diverso da quello del dialogo tra realtà azionaria e paradigmi immaginati per governare le regole del comportamento individuale in termini di interessi appagati o negati (regole che, sul lungo periodo, ben possiamo denominare « diritto privato »). Ed è un 670 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 conciso campionario di questi contributi che qui mi propongo di condividere con voi; accettando consapevolmente il rischio che mi si addebiti — come un dotto Amico che ha letto anticipatamente questa traccia già mi ha addebitato — di parlare non tanto delle idee dell’Autore del libro che qui si presenta quanto delle idee dell’autore di un libro che ancora non c’è. Insomma delle mie idee. 5. — Un impegno con il medesimo Editore del volume di Carlo Angelici, infatti, mi attende; e, forse, proprio oggi comincio ad adempierlo. Anch’io mi accingo a scrivere una Parte Generale della società per azioni. Ed è più o meno così che l’ho pensata. 5.1. L’immagine di lungo periodo (il fenomeno) della società per azioni, come momento della coesistenza regolata dal quale partire, è quella che Angelici ci addita, adottando il binomio « industria e finanza ». Nihil sub sole novi, potrebbe dirsi; ma l’opera di Angelici sa coniugare in modo convincente le testimonianze della storia (sulle quali mi sono non poco intrattenuto anch’io) con le declinazioni argomentative dell’analisi economica del diritto. E questo è un primo, fondamentale contributo alla selezione consapevole e motivabile del materiale normativo da esaminarsi, in ragione della sua pertinenza alla realtà regolata. 5.2. Per chi guarda alle regole, alle condizioni d’applicazione di queste ed ai loro destinatari al fine di propiziare motivazioni retoricamente corrette, quest’immagine si lascia scomporre nei seguenti « fotogrammi », da pensarsi in sequenza: a) provvista di risorse da destinare all’esercizio di una produzione duratura di beni o servizi, funzionalmente molteplice (lucrativa, consortile — secondo il diritto comune — e via elencando secondo il diritto speciale e singolare); b) decisioni (impieghi delle risorse destinate nello sviluppo del programma); c) dichiarazioni (contegni che, avvalendosi di simboli — per antonomasia del lessico di una lingua istituzionale — e/o di segni « esternano » le decisioni, provocando attribuzioni reali — alienazioni — o personali — assunzione di obbligazioni; o, ancora, ulteriori destinazioni); d) provvista di risorse altrui per alimentare finanziariamente la produzione; e) circolazione delle unità di partecipazione all’iniziativa (suscettibile di istituzionalizzarsi in un mercato, in flussi regolamentati di domanda e di offerta delle unità di partecipazione); f) remunerazione della destinazione a servizio dell’iniziativa e rischio. 5.2.a) Al primo « fotogramma », corrisponde, per l’analisi giuridica, il regime dei conferimenti — da intendersi, come anticipato, quali destinazioni alle quali corrisponde, al termine della produzione, una riappropriazione del saldo patrimoniale da parte dei destinanti o dei loro aventi causa o una de- SAGGI 671 voluzione del saldo stesso (ciò dipendendo dalla funzione della destinazione); 5.2.b) e c) a questi due « fotogrammi » (decisioni e dichiarazioni) appartiene la teoria dell’organizzazione — da intendersi come insieme di regole sui procedimenti decisionali e dichiarativi (nel linguaggio corrente: organizzazione, controllo e rappresentanza); 5.2.d) questo terzo « fotogramma » (provvista finanziaria) stimola l’analisi giuridica dell’indebitamento finanziario della società, individuale e collettivo — dunque anche i processi di indebitamento obbligazionario e le misure di tutela degli obbligazionisti; 5.2.e) al penultimo « fotogramma » appartiene il regime di circolazione delle unità di partecipazione all’iniziativa: dunque delle azioni e delle tecniche di trasferimento immediato (di diritto comune o cartolare) e intermediato (c.d. dematerializzazione) delle stesse; non senza una qualche apertura ad un terreno normativo ormai tanto vasto da raccomandare una specializzazione conoscitiva, quello del mercato delle unità di partecipazione e di debito, soprattutto con l’intento di coglierne la retroazione sull’organizzazione della società (nel senso giuridicamente « forte » che qui si è attribuito e vuolsi conservare al termine « organizzazione »); 5.2.f) l’ultimo (remunerazione e rischio) ferma i problemi della remunerazione periodica della destinazione (dell’investimento, come è corrente dire) e degli antidoti alla traslazione del rischio sui creditori: dunque, innanzi tutto, impone l’esame delle regole sul capitale nominale. 5.3. Chi voglia rispettare quello specifico dell’analisi giuridica che ho or ora enfatizzato (regole, condizioni d’applicazioni di queste, loro destinatari — con l’obiettivo di motivare correttamente un dispositivo che ponga termine ad una lite, reale o potenziale) si avvede che i paradigmi della « proprietà », della « persona », del « contratto » stesso non sono producenti ai fini di un’analisi utile. Insomma: dei paradigmi del comportamento individuale può farsi — io credo che possa farsi — a meno senza danni conoscitivi ed applicativi. L’analisi giuridica della società per azioni come realtà meta-individuale non è, allora, impacciata da un repertorio concettuale concepito a misura di individuo e di relazioni tra individui. Mi provo a fare qualche proposta che mi sembra particolarmente probante tra quelle che, nell’economia di una riflessione non condizionata dal tempo di un intervento come il mio in questa sede prestigiosa, potrebbero concepirsi: 5.3.1. da parte la dialettica tra interesse dell’azionista e proprietà dei mezzi di produzione, sembra utile (stavo per dire: necessario) evidenziare che nella disposizione di chi sviluppa l’iniziativa produttiva (collettività, ma — oggi — anche individuo o ente, privato o pubblico) si coglie non già un’attribuzione ma una destinazione: e questo sopprime la necessità di gerarchie descrittive (e per me ingannevoli) tra creditori che tali sono per un titolo trai tanti che scandiscono il divenire dell’attività sociale e azionisti, definiti questi 672 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 ultimi (infelicemente) creditori residuali (pretendenti al saldo attivo patrimoniale all’esito dell’attività); perché mentre all’attribuzione corrisponde — nel mondo degli affari — un debito dell’attributario, alla destinazione corrisponde una aspettativa di riappropriazione del saldo dell’iniziativa. Spostando l’obiettivo sul piano oggettivo della disposizione, l’indagine fa a meno del paradigma individuale del diritto soggettivo. 5.3.2. Le decisioni e le dichiarazioni (quando procedimentalmente separabili dalle prime) sono certamente manifestazione di autonomia privata (fare o non fare qualcosa e come); ma le decisioni che scandiscono lo sviluppo dell’iniziativa produttiva che si atteggi come società per azioni costituiscono — diversamente da quelle che si sommano nel quotidiano di ciascuno di noi — una variante dell’autonomia privata che proposi molti anni fa di qualificare funzionale per contrapporla all’autonomia libera. L’autonomia funzionale — diversamente da quella libera — è ancorata ad un interesse precostituito — intendendo per « precostituito » che esso è, non già isolabile nel fluire degli interessi di questo o di quell’individuo ma, oggettivato dalla legge o dall’atto giuridico nel quale l’iniziativa produttiva si manifesta — ed in ragione di quell’interesse scrutinabile (diversamente da quanto accade per l’autonomia libera della quale sono predicabili soltanto la rilevanza/irrilevanza e la liceità/ illiceità). Il lessico di Angelici è diverso dal mio ma la sua critica, garbatamente scettica, alla nozione di « interesse sociale » declina una visuale tanto simile da essere sovrapponibile. In questa prospettiva (quella dello scrutinio delle manifestazioni dell’autonomia funzionale), è e resterà ammirevole il « colpo d’ala » di Angelici, laddove prospetta (p. 57 ss.) una concorrenza tra rimedi invalidanti e rimedi risarcitori, guardando alle irritualità procedurali delle decisioni non meno che all’infedeltà di quanto deciso all’interesse precostituito. Angelici continua a dar fiducia alla prospettiva delle situazioni soggettive (laddove suggerisce che il diritto trascolori in potere) e non evoca — se non incidentalmente — quella dimensione funzionale dell’autonomia che a me sembra conoscitivamente decisiva; ma ciò che conta è il risultato rimediale: irritualità ed infedeltà funzionali possono essere rimediate (i) sia rimuovendo la decisione che (ii) stralciando dal conteggio del risultato dell’attività ragguagliato alla partecipazione azionaria l’onere economico dell’atto irrituale o funzionalmente infedele. La legge parla di risarcimento, ma Angelici (guardando agli artt. 2377 e 2497 c.c. [p. 74]) avverte che il risarcimento ha, in questa prospettiva, una curvatura indennitaria. Curvatura che prescinde dalla ripartizione legislativa tra aliquote del rapporto (o del capitale, come è corrente dire avvalendosi del capitale quale metafora del rapporto sociale) che legittimano l’azionista assente, dissenziente o astenuto alla rimozione dell’atto viziato e aliquote che lo legittimano ad una pretesa detta risarcitoria (art. 2377, commi 3o e 4o). 5.3.3. Venendo al rischio, se si dà per acquisito — e tale è ancora, alla luce del principio di civiltà giuridica dell’autoresponsabilità — che il comportamento debba sempre gravare su chi lo tiene si tratta poi di comportamento SAGGI 673 che si atteggia come manifestazione di autonomia libera o funzionale), i rimedi al sovraindebitamento sono tendenzialmente di due ordini: o del coinvolgimento dei patrimoni personali di quanti adottano l’iniziativa nella garanzia patrimoniale delle obbligazioni che segnano il divenire dell’attività (immediatamente o attraverso la mediazione di un’obbligazione risarcitoria); ovvero dell’interruzione della produzione, del rimpiazzo della produzione con la mera conservazione dell’esistente patrimoniale in vista della soddisfazione delle ragioni dei creditori (e dunque non dei soci, che hanno non già una pretesa scaturita da un’attribuzione ma un’aspettativa di riappropriazione di quanto hanno destinato a servizio dell’iniziativa). Nella società per azioni il rimedio è — allo stato del diritto positivo — del secondo ordine e si avvale del congegno, imperfetto e discusso, del capitale nominale. Naturalmente non c’è nulla di necessario o di immutabile e la comparazione offre esemplari di gestione alternativa del rischio (primo, fra tutti, quello dei test di solvenza). Ma ad oggi le cose stanno così. Anche qui l’analisi del fenomeno società per azioni, orientata a quel positivismo giudiziario che ho prescelto come specifico dell’analisi giuridica e concisamente illustrato, non passa utilmente attraverso i paradigmi delle situazioni soggettive: parlare di un diritto alla responsabilità limitata serve a poco o nulla. 6. — Che ne è, nella prospettiva che qui ho condiviso, della « concezione » della società per azioni, alla quale pure Angelici dichiara di tenere? Nulla: contratto, istituzione, organismo (come da ultimo propone Denozza, cedendo ad un linguaggio metaforico difficile a de-metaforizzarsi) non rendono, per me, utili servizi nel trovare regole appropriate alla congiuntura degli interessi isolabili in una lite e nel trasformare correttamente le parole della legge — alle quali sole la nostra Costituzione proclama soggetti i giudici — nelle parole di un dispositivo plausibile. Molto, per contro, servono la storia, l’analisi dei costi e dei benefici, gli esemplari di esperienze comparabili e comparate: e di questa ricchezza conoscitiva il libro di Angelici è straordinariamente prodigo. OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO Piet Abas Prof. emerito dell’Università di Amsterdam UN NUOVO DIRITTO DELLE OBBLIGAZIONI IN SVIZZERA Sommario: 1. Considerazioni introduttive. — 2. Il diritto civile in Svizzera. — 3. Obiettivi del progetto di riforma OR/CO2020. — 4. La struttura di OR/CO2020. — 5. Analisi di alcuni articoli del progetto OR/CO2020. — 6. La Svizzera e l’Europa. — 7. La fattibilità del progetto OR/CO2020. 1. — Negli ultimi tempi tutta l’Europa è pervasa da progetti ed istanze di ricodificazione; nell’attesa di un non peraltro imminente codice europeo, in numerossi stati sono stati avviati progetti di riforma; il punto di partenza è ovviamente costituito dall’ordinamento tedesco, dove nel 2002 è stato profondamente riformato il diritto delle obbligazioni (Schuldrechtsreform); in seguito anche in area francese sono stati pubblicati ben tre progetti di riforma del codice Napoleone, i quali hanno suscitato un intenso dibattito, i cui esiti non sono peraltro ancora del tutto prevedibili; non diversa è la situazione in Spagna, dove è stato pubblicato un progetto di riforma del codice civile; in questo quadro occorre infine ricordare un recente progetto di riforma del codice svizzero delle obbligazioni (1), alla cui analisi sono dedicate le seguenti pagine. 2. — Per ragioni storiche in Svizzera non esiste un unico codice civile. In particolare sono stati emanati due differenti codici; il Zivilgesetzbuch (ZGB)/ Code Civil che regola il diritto civile, fatta eccezione per il diritto delle obbligazioni; nonché l’Obligationenrecht (OR)/Code des obligations. Entrambi sono entrati in vigore il 1o gennaio 1912. In particolare l’OR consta di due parti: l’Erste Abteilung, Allgemeine Bestimmungen/Partie première, Dispositions générales (art. 1-183); nonché la Zweite Abteilung/Partie deuxième (art. 184 ss.), la quale disciplina i contratti tipici. Il progetto di ricodificazione si riferisce soltanto alla parte generale. Il titolo del progetto è: OR2020/CO2020. Nonostante l’ampiezza del titolo, il progetto di riforma si riferisce soltanto alla parte generale, con conseguente sostituzione degli articoli esistenti con quelli previsti dal progetto (artt. 1-220 OR/CO 2020). 3. — Nelle premesse vengono in primo luogo indicate le finalità della riforma: « die im Laufe der letzten hundert Jahre verloren gegangene Übersichtlichkeit wieder herzustellen und damit das Auffinden der gesuchten Norm zu erleichtern » (RZ1). (Per restituire la trasparenza perduta nel secolo ( 1 ) Consultabile on line al seguente indirizzo: http://or2020.ch/. 676 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 scorso e facilitare la ricerca della norma ricercata (2)). A questo proposito viene enunciato il seguente motto: « Bewährtes ist zu erhalten — Neuem ist Raum zu schaffen ». (Conservare il valido - dare spazio al nuovo). Il progetto è il risultato della collaborazione di tutte le università della Svizzera: Basel, Bern, Fribourg, Genève, Lausanne, Luzern, Neuchâtel. St. Gallen, Zürich. In particolare hanno collaborato al progetto 23 persone, sotto la presidenza di Claire Huguenin e Reto M. Hilty; i lavori si sono svolti a Zurigo. La commissione era sostanzialmente bilingue, dato che 16 membri erano di lingua tedesca e sette di lingua francese; in questo modo è stato possibile elaborare un testo bilingue, in tedesco e francese; in seguito è stata aggiunta una versione in lingua italiana, tenuto conto del fatto che l’italiano è la terza lingua ufficiale della Svizzera, nonché una versione in inglese per consentire una maggior diffusione del progetto anche all’estero (RZ6-12). Uno degli obiettivi avuti di mira dalla commissione è stata la chiarezza e la concisione (clarté et concision) del testo. Per questa ragione si è cercato di non superare i tre commi per ogni articolo ed una frase per ogni comma. Il risultato è la straordinaria leggibilità del progetto in ciascuna lingua in cui è stato redatto. Anche altri legislatori dovrebbero seguire questo esempio! Il progetto ha cercato di colmare le lacune presenti nel testo originario del codice delle obbligazioni; si segnala in particolare l’adeguamento del contratto in caso di sopravvenienza, nonché la disdetta nei contratti di durata (artt. 19 e 145 OR/CO2020); notevole interesse riveste altresì la nuova disciplina dell’inadempimento e della prescrizione (RZ31-32). I lavori della commissione sono iniziati il 1o ottobre 2007 e sono finiti nel corso del 2012. La restante parte del 2012 è stata utilizzata per redigere i « Motivi » dei singoli ariticoli. 4. — La struttura del progetto OR/CO2020 è la seguente: Titolo 1: Della formazione delle obbligazioni. Capitolo 1: Delle obbligazioni derivanti da contratto (art. 1-45). Capitolo 2: Delle obbligazioni derivanti da atti illeciti (art. 46-63). Capitolo 3: Dell’indebito arricchimento (art. 64-72). Capitolo 4: Delle obbligazioni derivanti dalla gestione d’affari senza mandato (art. 73-84). Titolo 2: Dell’adempimento e dell’inadempimento delle obbligazioni. Capitolo 1: Dell’adempimento (art. 85-117). Capitolo 2: Dell’inadempimento (art. 118-134). Titolo 3: Dell’adempimento delle obbligazioni e della disdetta dei contratti di durata. Capitolo 1: Dell’adempimento delle obbligazioni (art. 135-143). ( 2 ) Per ragioni di onestà scientifica e tracciabilità i motivi del progetto sono riportati in versione originale. Segue tra parentesi la traduzione in lingua italiana realizzata dall’autore. OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO 677 Capitolo 2: Della disdetta dei contratti di durata (art. 144-147). Titolo 4: Della prescrizione e della perenzione. Capitolo 1: Della prescrizione (art. 148-161). Capitolo 2: Della perenzione (art. 162). Titolo 5: Della cessione di crediti e dell’assunzione dei debiti. Capitolo 1: Della cessione di crediti (art. 163-177). Capitolo 2: Dell’assunzione di debito (art. 178-186) Titolo 6: Speciali rapporti obbligatori. Capitolo 1: Della rappresentanza (art. 187-197). Capitolo 2: Della solidarietà (art. 198-208). Capitolo 3: Delle condizioni (art. 209-220). L’impianto appare a prima vista molto solido, anche se non mancano alcune perplessità. In particolare, forse sarebbe stato preferibile collocare la disdetta dei contrati di durata nel titolo secondo invece che nel terzo; in secondo luogo anche la rappresentanza avrebbe forse dovuto essere collocata nei primi titoli, in quanto istituto di generale applicazione. 5. — Ovviamente non intendo prendere in considerazione tutte le disposizioni contenute nel progetto OR/CO2020. Mi limiterò dunque ad esaminare alcuni aspetti che rivestono particolare interesse anche in una prospettiva europea; in particolare soffermerò la mia attenzione sugli artt. 19, 41, 47, 54, 55, 145 e 220 OR/CO2020. a) Art. 19 OR/CO2020: « Ove le circostanze siano mutate in maniera imprevedibile dopo la conclusione del contratto, sicché non è più ragionevole aspettarsi, riguardo alle regole della buona fede, che un contraente adempia la propria prestazione, il tribunale può adattare il contratto o porvi fine ». I « Motivi » di questo articolo sono stati scritti da Hans-Ueli Vogt (professore dell’Università di Zürich) e sono piuttosto articolati. Quest’articolo in particolare regola in modo specifico la clausola rebus sic stantibus che nel diritto svizzero vigente è fondata sull’art. 2, comma 2o, ZGB/CC: « Il manifesto abuso del proprio diritto non è protetto dalla legge ». Questa disposizione trova applicazione in caso di mutamento delle circostanze dopo la conclusione del contratto. In caso di squilibrio originario, trova viceversa applicazione la disciplina del « Grundlagenirrtum » / « l’errore che concerne una determinata condizione di fatto » ai sensi dell’art. 24 OR/CC; disciplina che in presenza di determinati presupposti, come per esempio l’errore de futuris, potrebbe trovare applicazione anche con riferimento a circostanze sopravvenute (RZ2). Il mutamento può essere imprevidibile sia in modo oggettivo che soggettivo (RZ4). Il criterio non è peraltro più costituito da una « gravierende Äquivalenzstörung » (un grave disturbo del rapporto di equivalenza tra le prestazioni reciproche) ma semplicemente dalla contrarietà alla buona fede. Contrasto che di per sé può costituire la ragione per l’adeguamento (RZ5). La scelta se risolvere o adeguare è peraltro rimessa alla prudente valutazione del giudice. Salva ovviamente la facoltà per i contraenti di scongiurare l’intervento del 678 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 giudice modificando il regolamento contrattuale, cosa che è sempre possibile: « wobei die Parteien selbstverständlich auch ohne Mitwirkung des Gerichts den Vertrag ändern können ». (RZ7). (Per cui le parti possono modificare il contratto ovviamente senza la collaborazione del tribunale.) Per evitare l’intervento del giudice, le parti hanno in altre parole sempre la facoltà di raggiungere una nuova intesa: « Eine entsprechende Verhandlungspflicht wird jedoch bewusst nicht vorgesehen, (...) » (RZ10). (Una tale obbligazione di negoziare non è peraltro prevista espressamente). La rinegoziazione può addirittura aver luogo prima del verificarsi della sopravvenienza. In conclusione cito i « Motivi » integralmente: « Das geltende Recht enthält keine ausdrückliche Regelung der clausula rebus sic stantibus, doch ist sie geltendes (Richter-) Recht. Mit Art. 19 OR2020 werden die grundlegenden Voraussetzungen, welche Lehre und Rechtsprechung aufgestellt haben, kodifiziert. An ihnen will Art. 19 OR2020 nichts ändern. » (Il diritto codificato non prevede in modo esplicito la clausola rebus sic stantibus che è peraltro accolta da parte della giurisprudenza; con l’art. 19 OR2020 viene codificato l’istituo della presupposizione, così come delineato da dottrina e giurisprudenza; a questo proposito l’art. 19 OR2020 non aggiunge nulla). Si tratta di conclusioni ovvie; colpisce peraltro che questa sintonia con la giurisprudenza non viene illustrata facendo riferimento all’ultima sentenza-standard in questa materia: ATF 24 aprile 2001, RO 127 III 300 (Jolieville); si veda per questa pronuncia Pierre Tercier, Le droit des obligations, Zürich 2009, nr. 971 ss. In conclusione, l’art. 19 costituisce una disciplina moderna della sopravvenienza, che dovrebbe costituire un esempio anche per altri legislatori. b) Art. 41 OR/CO2020: 1. « Chi è vittima di una lesione al momento del contratto può invalidare l’accordo ». 2. « Si verifica lesione quando una delle parti abusa dei bisogni, della leggerezza o dell’inesperienza dell’altra, o di qualsivoglia altra compromissione della libertà di decisione per farsi promettere una controprestazione in sproporzione manifesta con la propria prestazione ». Il nucleo di questo articolo è costituito dalla lesione, la quale deve consistere in una sproporzione manifesta. Lo svantaggio deve in altre parole assumere la consistenza di uno squilibrio di carattere patrimoniale tra le prestazioni. Sotto questo profilo, la norma appare meglio formulata rispetto all’art. 3:44, comma 4o, BW olandese in cui è stata cancellata in extremis la necessità che il danno sia patrimoniale (questo in base ad una lettura non corretta di una sentenza della Corte Suprema olandese del 1964). I « Motivi » sono stati scritti da Wolfgang Ernst (professore all’Università di Zürich), il quale considera come la nuova disciplina corrisponda a grandi linee con quanto previsto dall’art. 21 OR (RZ2). Aggiunge inoltre che: « Sprachliche Änderungen zielen auf einen zeitgemässen Wortlaut, nicht auf einen anderen materiellen Regelungsgehalt. Es muss eine beeinträchtigte Entscheidungsfreiheit vorliegen (beispielshaft, aber nicht abschliessend genannte Ursachen: Notlage, Uner- OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO 679 fahrenheit oder Leichtsinn); diese muss vom anderen Teil ausgenutzt werden sein, sodass sich zwischen Leistung und Gegenleistung ein offenbares Missverhältniss ergibt. Auf die Judikatur zu Art. 21 OR kann zurückgegriffen werden. » (Innovazioni linguistiche hanno come obiettivo l’uso del linguaggio contemporaneo, non necessariamente anche l’innovazione del diritto materiale. Deve risultare provata una compromissione della libertà di decisione (per esempio, in via esemplificativa: stato di bisogno, inesperienza o leggerezza); di questa compromissione deve aver abusato l’altra parte, con conseguente manifesta sproporzione fra prestazione e controprestazione. Con riferimento all’art. 21 OR è sufficiente far riferimento all’elaborazione giurisprudenziale). Benché questo testo sia chiarissimo per un giurista professionista, più dubbio è se l’espressione « beeinträchtigte Entscheidungsfreiheit » / « compromissione della libertà di decisione » sia facilmente comprensibile per i non addetti ai lavori. Problemi analoghi potrebbe peraltro porre anche l’espressione inglese: « impairment of freedom of decision »; in questa prospettiva sarebbe stata forse auspicabile la scelta di una terminologia più accessibile. In caso di abuso delle circostanze (« undue influence »), ai sensi dell’art. 43, comma 2o, OR/CO2020 l’invalidità può essere anche soltanto parziale (RZ3). Il progetto svizzero OR/CO2020, diversamente da quanto previsto dall’art. 3:54 BW olandese, non contempla viceversa la possibilità di mantenere in vita il regolamento contrattuale, salve le necessarie modifiche per ricondurlo ad equità; fattispecie che peraltro non ha trovato molte applicazioni anche nel diritto olandese. c) Art. 47 OR/CO2020: « Il danno consiste in una perdita patrimoniale o in un’altra perdita ». Il danno può dunque consistere in una perdita patrimoniale o anche semplicemente nella perdita di una chance, o altro ancora (RZ2). I « Motivi » sono stati scritti da Walter Fellmann (professore all’Università di Luzern), Christoph Müller (professore all’Università di Neuchâtel) e Franz Werro (professore all’Università di Fribourg). Il successivo art. 48 attribuisce al giudice la facoltà di quantificare il danno « avuto riguardo all’ordinario andamento delle cose »; l’art. 49 disciplina il risarcimento del danno alla persona e l’art. 50 il danno da morte (RZ1). d) Art. 54 OR/CO2020: « La maniera e la misura del risarcimento per il danno prodotto sono determinate dal tribunale avuto riguardo alle circostanze ». Art. 55 OR/CO2020: « Il giudice può ridurre o finanche negare il risarcimento, se circostanze, per le quali il danneggiato è responsabile, hanno contribuito a cagionare o ad aggravare il danno ». I « Motivi » di questi due articoli sono stati scritti dalle stesse persone indicate nel commento dell’articolo precedente; in particolare secondo questi autori: « L’art. 54 et l’art. 55 CO2020 traitent de la fixation de l’indemnité et de sa réduction. L’unité de la matière abordée justifie de traiter ces deux dispositions ensemble. Fixer l’indemnité, c’est au besoin la réduire. » (RZ1). 680 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 (L’art. 54 e l’art. 55 CO2020 trattano la determinazione del risarcimento del danno e la sua riduzione. L’unità della materia giustifica un trattamento unitario di queste disposizioni. Determinare il risarcimento può significare, ove occorra, ridurlo). Sempre secondo questi autori: « D’une manière générale, l’art. 54 et l’art. 55 CO2020 n’apportent pas de modification substantielle au régime de l’art. 43 et de l’art. 44 CO. Avec le même laconisme, l’art. 54 CO2020 reprend les principes de l’art. 43 CO, l’art. 55 CO2020, ceux de l’art. 44 CO » (RZ2). (In modo generale l’art. 54 e l’art. 55 CO2020 non comportano una modifica sostanziale del regime dell’art. 43 e dell’art. 44 CO. Con la medesima concisione l’art. 54 CO2020 riprende i principi dell’art. 43 CO, l’art. 55 CO2020 quelli dell’art. 44 CO). Seguono le seguenti considerazioni: « L’art. 54 et l’art. 55 CO2020 suppriment à juste titre la référence à la faute, qui n’est plus énoncée à l’art. 46 CO2020 » (RZ3). (L’art. 54 e l’art. 55 CO2020 sopprimono giustamente ogni riferimento alla colpa, la quale non è stata più inserita nell’art. 46 CO2020). Si noti in particolare che nel progetto di riforma la determinazione dell’entità del risarcimento è del tutto sganciata dalla gravità della colpa. Gli autori spiegano le ragioni che rendono auspicabile questa soluzione: « Dans l’art. 54 CO2020, la référence à la gravité de la faute de l’art. 43 al. 1 CO n’est pas reprise. Dès lors que la faute est absorbée dans la notion de manquement au devoir général de comportement, il ne se justifie pas de la mentionner séparément » (RZ4). (Nell’art. 54 CO2020 il riferimento alla gravità della colpa non è più ripreso. Perché la colpa è assorbita nella nozione di un mancato dovere di comportamento non è più giustificato nominarla separatamente). In senso diverso dispone viceversa l’art. 43 al. 1 CO vigente, ai sensi del quale il giudice in sede di quantificazione del danno è tenuto a prendere in considerazione la « gravité de la faute ». Principio che nel diritto svizzero trova ancora regolare applicazione. Il progetto OR/ CO2020 innova peraltro radicalmente sotto questo profilo, anche se gli autori ci tengono a precisare che: « Rien ne doit empêcher le tribunal de tenir compte du peu de gravité du manquement pour atténuer l’obligation de réparer. Il pourra se fonder à cette égard sur l’ensemble des circonstances ». (Nulla impedisce al tribunale di tener conto della scarsa gravità della violazione per alleggerire l’obbligazione di risarcire. A questi fini si dovrà tener conto dell’insieme delle circostanze). Per il resto vien confermato il regime vigente, salva ancora l’abrogazione di un’altra norma palesemente desueta: « Pour le reste, l’art. 54 et l’art. 55 CO2020 ne modifient pas le régime mis en place par l’art. 43 et l’art. 44 CO. Néanmoins, compte tenu de sa désuétude, l’art. 44 al. 2 CO, qui codifie la réduction de l’indemnité due en cas gêne, a finalement été abandonné » (RZ6). (Per il resto, l’art. 54 e l’art. 55 CO2020 non modificano il regime degli art. 43 e 44 CO. Tuttavia a ragione della sua desuetudine è stato finalmente abrogato l’art. 44, comma 2o, CO che codifica la riduzione del risarcimento del danno, ove il risarcimento potrebbe ridurre in stato di bisogno la persona responsabile). L’attuale art. 44, comma 2o, CO prevede ancora il potere del giu- OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO 681 dice di ridurre l’entità del risarcimento ove l’adempimento potrebbe ridurre in stato di bisogno il debitore; regola che appare peraltro ormai desueta. e) Art. 145 OR/CO2020: 1. « Un contratto di durata può essere disdetto per motivi gravi; vale segnatamente motivo grave ogni circostanza che non permette ragionevolmente di esigere da chi ha dato la disdetta che abbia a continuare nel contratto ». 2. « Mancando un motivo grave, la disdetta di un contratto di durata si presume disdetta ordinaria ». I « Motivi » sono stati scritti da Reto M. Hilty (professore all’Università di Zürich) e Tina Purtschert (avvocato). Mentre l’art. 144 OR/CO2020 disciplina la didetta ordinaria, l’art. 145 OR/CO2020 disciplina la disdetta straordinaria, la quale può aver luogo solo in presenza di un grave motivo; in particolare si è in presenza di un grave motivo ogniqualvolta l’adempimento non potrebbe più essere esigibile. Piuttosto ci si potrebbe interrogare circa i rapporti con la disciplina della sopravvenienza (art. 19). Si consideri tuttavia che mentre l’art. 19 del progetto si riferisce ad ogni mutamento sopravvenuto delle circostanze, l’art. 145 si riferisce ad ogni motivo che può rendere inesigibile la prestazione; il che non vale peraltro a fugare del tutto i dubbi circa i rapporti tra le due norme in questione, che per lo meno in parte si sovrappongono; la sopravvenienza legittima in altre parole la risoluzione o la revisione giudiziale del contrattto o viceversa il recesso stragiudiziale? In quali casi si applica la prima soluzione ed in quali casi la seconda? Ovviamente sarebbe auspicabile che venissero chiariti meglio i rapporti tra questi due istituti; una possibile soluzione potrebbe consistere nel ritenere che occorre rivolgersi al giudice ogniqualvolta vi sono ancora margini per la revisione del contratto, e le parti non riescono a raggiungere una nuova intesa, mentre negli altri casi il rapporto può essere terminato in virtù del recesso; si consideri ancora la possibilità di raggiungere all’incirca i medesimi risultati in applicazione del principio di buona fede e del divieto dell’abuso del diritto (art. 2, comma 2o, CC). f) L’art. 220 OR/CO2020: 1. « L’ammontare della pena convenzionale è lasciato all’arbitrio delle parti; il tribunale deve ridurre le pene convenzionali che ritiene eccessive ». 2. « Essa è invalida quando sia destinata a convalidare un’obbligazione contraria al diritto imperativo o all’ordine pubblico ». 3. « Essa non è dovuta ove il debitore provi che l’inadempimento deriva da una circostanza di cui non è responsabile ». I « Motivi » sono stati scritti da Pascal Pichonnaz (professore all’Università di Fribourg), il quale considera che: « L’art. 220 CO2020 ne modifie pas l’art. 163 CO sur le fond; néanmoins, la forme a été adaptée pour tenir compte du régime différent de l’inexécution dans le projet (al. 2 et al. 3). En outre, la liberté des parties et le devoir de tribunal de réduire les peines excessives ont été mis dans le même alinéa (al. 1) pour bien montrer la limite de la liberté des parties. » (RZ1). (L’art. 220 CO2020 non cambia nella sostan- 682 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 za l’art. 163 CO. Tuttavia la forma è stata adattata al differente regime dell’inadempimento così come disciplinato nel progetto (commi 2o e 3o). Inoltre la libertà delle parti ed il dovere del tribunale di ridurre le pene eccessive sono collocati nello stesso comma (1o) per dimostrare che sussiste un limite alla libertà delle parti). Inoltre: « Le montant de la peine conventionnelle ne dépend pas du montant du dommage (art. 219 al. 1 CO2020); partant, c’est bien l’accord des parties qui en détermine l’ampleur. L’art. 220 CO2020 commence ainsi par rappeler ce principe qui découle de la disposition précédente. » (RZ2). (L’ammontare della pena convenzionale non dipende dell’ammontare del danno (art. 219, comma 1o, CO2020); ma dall’accordo delle parti. L’art. 220 CO2020 inizia col ricordare questo principio che deriva dalla disposizione precedente). Ne consegue che: « Conformément à l’art. 163 al. 3 CO l’art. 220 CO2020, in fine, limite la liberté des parties en imposant au tribunal de réduire une peine conventionnelle excessive. Une peine excessive n’est toutefois pas nulle, mais seulement réductible. » (RZ3). (In conformità con l’art. 163, comma 3o, CO, l’art 220 CO2020, in definitiva, limita la libertà delle parti obbligando il tribunale a ridurre una pena convenzionale eccessiva. Tuttavia una pena eccessiva non è nulla ma soltanto suscettibile di riduzione). A questo proposito si consideri tuttavia che La Corte di Giustizia UE nella sentenza del 30 maggio 2013 (oss. 60) ha espresso un diverso parere per quanto riguarda i contratti dei consumatori. Ancora diversa è la questione circa la rilevabilità d’ufficio (RZ4); il punto di partenza è molto chiaro: « Le tribunal ne doit pas examiner d’office le caractèr excessif d’une peine conventionnelle. » (Il tribunale non può esaminare d’ufficio il carattere eccessivo di una pena convenzionale). Questo principio viene però subito ridimensionato: « Toutefois, l’obligation de réduire la peine s’impose au tribunal en ce sens que si la partie affectée par la peine conventionnelle la rejette et allège des faits qui permetteraient d’opérer une réduction, le tribunal n’a pas besoin d’une requête spécific, mais doit déjà opérer cette réduction. Selon le Tribunal fédéral, il s’agit d’une norme d’ordre public, donc impérative, que le juge doit appliquer même si le débiteur n’a pas demandé expressément de réduction (ATF 133 III 201 c. 5.2). Le fardeau de preuve du caractèr excessif reste toutefois à charge du débiteur de la peine conventionnelle. » (Tuttavia l’obbligazione di ridurre la pena s’impone al tribunale ogniqualvolta la parte gravata dalla pena convenzionale la rigetti ed avvanzi fatti che permetterrebbero una sua riduzione, in queste circostanze il tribunale non ha bisogno di una richiesta specifica, ma deve applicare d’ufficio la riduzione. Secondo la Corte Suprema si tratta di una norma d’ordine pubblico, dunque imperativa, alla quale il giudice si deve attenere anche nel caso in cui il debitore non ha invocato espressamente la riduzione (ATF 133 III 201 oss. 5.2). L’onere della prova del carattere eccessivo resta comunque sempre a carico del debitore della pena convenzionale). Nei « Motivi » si legge ancora: « Le groupe a finalement renoncé à établir une liste de critères à prendre en compte pour déterminer si une peine OSSERVATORIO SULLE RIFORME LEGISLATIVE ALL’ESTERO 683 conventionnelle est ou non excessive. En effet, les tribunales doivent pouvoir apprécier la situation principalement au regard du cas concrete. Jusqu’à présent le Tribunal fédéral a toujours refusé de fixer des critères stricts ou un pourcentage spécifique. » (RZ6). (Il gruppo infine ha rinunciato ad individuare una lista di criteri da prendere in osservazione per determinare se una pena convenzionale sia eccessiva oppure no. Praticamente i tribunali devono apprezzare la situazione del caso concreto. Fino ad oggi la Corte Suprema ha sempre rifiutato di fissare criteri rigidi od una percentuale determinata). In questa prospettiva: « Une intervention du tribunal n’est nécessaire que si le montant fixé est si élevé qu’il dépasse toute mesure raisonnable, au point de n’être plus compatible avec le droit et l’équité. Il faut ainsi se demander s’il y a une disproportion crasse entre le montant convenu et l’intérêt du créancier à maintenir la totalité de sa prétention, mesuré concrètement au moment de la violation contractuelle » (RZ7). (Un intervento del tribunale sarà necessario soltanto se l’ammontare è talmente elevato da oltrepassare ogni misura ragionevole, a tal punto da non essere compatibile con il diritto e l’equità. Occorre poi verificare se sussista una sproporzione rigorosa tra l’ammontare convenuto e l’interesse del creditore al mantenimento della sua pretesa integrale, misurata concretamente al momento della violazione contrattuale). Con la conseguenza che: « Malgré l’insistance du Tribunal fédéral sur le caractère casuistique de l’approche et le fait qu’il ne faut pas adopter un approche abstraite du caractère excessif, celui-ci a toutefois retenu qu’une peine conventionnelle supérieure à 10% de la créance globale peut être considérée comme très élevée, et soupçonnée d’être excessive (cf. Art. 227, comma 1o, OR/ CO, P.A.). Il n’en reste pas moins que l’analyse doit se faire dans chaque cas concret. » (RZ9). (Malgrado la tenacia della Corte Suprema nel ribadire la necessità di un approccio casistico, ed il fatto che non si può adottare a questo proposito un approccio astratto, la S.C. ha sempre ritenuto che una pena convenzionale superiore del 10% rispetto al credito totale può essere considerata come troppo elevata, con conseguente presunzione di eccessività. L’unica cosa che resta da fare è dunque un’analisi di ogni caso concreto). 6. — All’inizio di questo lavoro ho citato il motto: « Bewährtes ist zu erhalten — Neuem ist Raum zu schaffen ». Qualche perplessità suscita in particolare il secondo inciso: « dare spazio alle innovazioni ». A questo proposito occorre premettere che per ragioni di varia natura la Svizzera nel 1993 ha optato per non far parte della Comunità europea; sul piano del diritto privato questa decisione ha avuto conseguenze enormi, specie sotto il profilo della recezione delle direttive della Comunità europea; basti ricordare a questo proposito che nel 1993 il governo svizzero ha proposto l’approvazione di ben 90 regolamenti CE, dei quali solo 23 sono stati convertiti in leggi interne. Non esiste quindi una disciplina dei contratti del consumatore comparabile a quella degli altri ordinamenti europei, salvo il diritto di recesso nei contratti conclusi a distanza disciplinato dall’art. 40a ss. OR/CO. Questo articolo è consi- 684 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 derato un provvedimento fondamentale a tutela dei consumatori, ma a parte questo in Svizzera non c’é nulla in tema di clausole vessatorie, e così via. In questa prospettiva è inevitabile concludere che: « Rechtlich sind die Restriktionen, welche dem allgemeinen Teil des OR aus dem europäischen Gemeinschaftsrecht bzw. — privatrecht gesetzt werden, also minimal » (RZ44). (Giuridicamente, le restrizioni che il diritto europeo (privato) impone alla parte generale del diritto delle obbligazioni svizzero sono dunque minimali). Questo non impedisce peraltro alla Commissione di ribadire che: « Ziel und Zweck des Entwurfs ist die Umsetzung der “Idée Suisse”, wie sie dem 21.Jahrhundert entspricht » (RZ8). (Gli obiettivi del disegno di legge sono l’adeguamento dell’idea Svizzera a come come viene intesa nel 21o secolo). 7. — Per quel che riguarda la fattibilità del progetto occorre prendere in considerazione due differenti profili, quello giuridico e quello politico. Per quel che riguarda il profilo giuridico, il progetto è sicuramente largamente condiviso dalla comunità scientifica svizzera; esso è dovuto all’iniziativa di due professori universitari che hanno coinvolto molti altri docenti provenienti da tutte le otto università del paese; sicuramente appropriata è stata inoltre la scelta di realizzare un progetto bilingue; peccato soltanto che il contributo scientifico della Svizzera-italiana sia assente; del resto nel canton Ticino non c’è un’università e la componente italiana costituisce solo il 10% della popolazione. Tenuto conto del grande supporto scientifico, la commissione avrebbe forse potuto andare molto più avanti e non limitarsi a fare un progetto sostanzialmente conservativo. A ben vedere il contenuto innovativo è infatti piuttosto limitato. In particolare sarebbe stato forse opportuno prestare più attenzione alla tutela del consumatore, prendendo come esempio l’AGB-Gesetz tedesco (1976) ed il Konsumentenschutzgesetz austriaco (1979). Questo non è però avvenuto a causa della decisione presa nel 1993 di non far parte della Comunità europea. Per quel che riguarda la fattibilità politica, non è facile azzardare ipotesi; non è infatti del tutto chiaro se sussista effettivamente una volontà di rinnovamento; il mio auspicio è ovviamente che questo possa avvenire. C O M M E N T I Francesco Paolo Patti Dottorando di ricerca IL CONTROLLO GIUDIZIALE DELLA CAPARRA CONFIRMATORIA Sommario: 1. I dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 1385, comma 2o, c.c. — 2. Il problema della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria nella giurisprudenza e nella dottrina: il divieto di applicazione analogica della norma eccezionale. — 3. L’assimilazione della « caparra confirmatoria » alla « clausola penale ». — 4. Il controllo giudiziale fondato sul dovere di solidarietà ex art. 2 Cost. e la clausola generale di buona fede. — 5. Gli effetti dell’illegittimità costituzionale e il confronto con l’esperienza giuridica tedesca: il controllo sull’equilibrio contrattuale per mezzo delle clausole generali. 1. — A differenza di quanto è stabilito per la clausola penale dall’art. 1384 c.c., la legge non prevede la riduzione giudiziale della caparra confirmatoria. In caso di inadempimento, appare certo, peraltro, che l’assenza del potere di riduzione possa pregiudicare la posizione del tradens o la posizione dell’accipiens, quando l’ammontare pattuito risulti manifestamente eccessivo. Il Tribunale di Tivoli ha rimesso la questione alla Corte costituzionale, in riferimento all’art. 1385, comma 2o, c.c. nella parte in cui non dispone che il giudice possa equamente ridurre la somma da ritenere, nell’ipotesi in cui il contraente che ha dato la caparra confirmatoria sia inadempiente, o quella pari al doppio da restituire, nell’ipotesi inversa in cui sia inadempiente il contraente che l’ha ricevuta, ove risulti la manifesta sproporzione o sussistano giustificati motivi (1). Con l’ordinanza n. 248 del 24 ottobre 2013, la Consulta ha dichiarato la inammissibilità della questione sollevata in via incidentale per difetto di motivazione, in punto di manifesta infondatezza e di rilevanza (2). In questa sede interessa il profilo della rilevanza e conviene riportare i passaggi della decisione nei quali la Corte indica due distinte ragioni per cui la motivazione si presenta carente: in primo luogo, il Tribunale rimettente ha ( 1 ) Cfr., sulla base del principio di ragionevolezza, ex art. 3, 2o comma, Cost., Trib. Tivoli, ord. 10 ottobre 2012, in F. it., 2013, I, c. 1023 ss., con osservazioni di A. Palmieri. Nella specie, in adempimento di un contratto preliminare di compravendita relativo ad un immobile, il promissario acquirente ha consegnato una caparra confirmatoria di P 150.000,00, a fronte del prezzo complessivo pari a P 510.000,00. Nel rimettere la suddetta questione di legittimità alla Corte costituzionale, il Giudice di Tivoli ha rilevato, aderendo all’indirizzo giurisprudenziale che verrà esaminato infra, n. 2, il divieto di applicazione dell’art. 1384 c.c., alla luce del carattere eccezionale della norma. ( 2 ) In F. it., 2014, I, c. 382 s. Negli stessi termini, sulla medesima questione di legittimità costituzionale, ancora una volta a seguito di rimessione del Tribunale di Tivoli, v. C. cost., ord. 2 aprile 2014, n. 77, ined. 686 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 trascurato di « indagare compiutamente la reale portata dei patti conclusi dalle parti contrattuali, così da poter esprimere un necessario coerente giudizio di corrispondenza del nomen iuris rispetto all’effettiva funzione della caparra confirmatoria »; in secondo luogo, il Tribunale di Tivoli non ha tenuto conto « dei possibili margini di intervento riconoscibili al giudice a fronte di una clausola negoziale che rifletta [...] un regolamento degli interessi non equo e gravemente sbilanciato in danno di una parte. E ciò in ragione della rilevabilità, ex officio, della nullità (totale o parziale) ex articolo 1418 cod. civ., della clausola stessa, per contrasto con il precetto dell’articolo 2 Cost., (per il profilo dell’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà) che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa, “funzionalizzando così il rapporto obbligatorio alla tutela anche dell’interesse del partner negoziale nella misura in cui non collida con l’interesse proprio dell’obbligato” ». In altri termini, da un lato, la Corte afferma che, al di là del nomen iuris adoperato dalle parti, il giudice rimettente avrebbe dovuto valutare la natura del patto, potendosi profilare l’eventualità di una qualificazione diversa rispetto a quella attribuita in via contrattuale. Dall’altro lato, lo stesso giudice del merito avrebbe dovuto tener conto di ciò che appare una vera e propria Drittwirkung del dovere di solidarietà desumibile dall’art. 2 Cost., chiamato ad operare assieme alla clausola generale di buona fede, e della circostanza che la violazione delle suddette norme configurerebbe un’ipotesi di nullità (virtuale) totale o parziale. Dopo aver ricordato, sia pur brevemente, le posizioni della giurisprudenza e della dottrina sul problema della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria (n. 2), si indicheranno le ragioni che inducono a ritenere il vulnus di tutela della parte inadempiente, nel caso di una caparra di ammontare eccessivo, risolvibile in via ermeneutica, qualificando la clausola in modo diverso rispetto a quanto deciso dai contraenti (n. 3). Di seguito, verranno esaminate le questioni relative all’applicazione dell’art. 2 Cost., della clausola generale di buona fede e delle norme sulla nullità contrattuale (n. 4). In conclusione, il confronto con un intervento della Corte suprema tedesca, in tema di clausola penale, consentirà di mettere in luce possibili incertezze applicative derivanti dal ricorso ai principi e alle clausole generali (n. 5). 2. — Secondo l’indirizzo consolidato della giurisprudenza di merito e di legittimità, il potere del giudice di riduzione della penale previsto dall’art. 1384 c.c. non può essere esercitato nel caso della caparra confirmatoria. Sorprendentemente, alla luce del cospicuo ammontare delle caparre oggetto delle controversie, nelle decisioni più recenti non si indugia sulla motivazione posta a base del diniego e ci si limita ad un rinvio alle decisioni precedenti (3). ( 3 ) Si limitano a richiamare i precedenti di segno negativo nell’escludere il potere giudiziale di riduzione della caparra confirmatoria stipulata nell’ambito di contratti preliminari, COMMENTI 687 Le sentenze più risalenti fanno invece perno su diversi argomenti per negare l’applicazione analogica della norma sulla riduzione. Tra le ragioni individuate, rileverebbe che, pur essendo la clausola penale e la caparra confirmatoria disciplinate nella medesima sezione, soltanto per la prima è prevista la riduzione giudiziale, circostanza percepibile come una scelta precisa del legislatore e non alla stregua di un’involontaria omissione (4). Inoltre, si osserva che la norma dell’art. 1384 c.c. avrebbe carattere eccezionale e non sarebbe applicabile analogicamente « oltre l’ambito della clausola penale, cui testualmente si riferisce, né, in particolare, in tema di caparra confirmatoria » (5). Parte della dottrina non si pone in termini critici rispetto al descritto orientamento, rilevando che l’eventualità di una caparra di ammontare eccessivo sarebbe da escludere poiché il valore della caparra corrisponde necessariamente soltanto ad una parte della prestazione dovuta (6). Cass. 1o dicembre 2000, n. 15391, in Rep. F. it., 2000, voce Contratto in genere, n. 488 (caparra L. 27.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 80.000.000); Cass. 23 agosto 1997, n. 7935, ivi, 1997, voce cit., n. 429 (caparra L. 21.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 91.000.000). Nella specie, il tradens ha sostenuto la tesi, non accolta dalla Suprema Corte sulla base dell’inequivocabile tenore letterale della clausola, che soltanto una parte dell’ammontare era stato corrisposto a titolo di caparra, mentre l’altra parte costituiva un acconto da restituire; Cass. 23 maggio 1995, n. 5644, ivi, 1995, voce cit., n. 368 (caparra L. 30.000.000; prezzo complessivo dell’immobile L. 63.990.000). ( 4 ) Cass. 10 novembre 1977, n. 4856, in R. d. comm., 1978, II, p. 176 ss., con nota di A. Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem: « L’aver previsto la riduzione “ope iudicis” della penale ma non della caparra è significativo dell’intento di disciplinare in modo diverso le due fattispecie perché, altrimenti, sarebbe necessario postulare la manchevolezza, da cui nasce l’esigenza di far ricorso all’analogia, proprio in sede di contestuale regolamentazione dei due istituti: il che è, quanto meno, azzardato ». Ulteriori argomenti addotti dalla sentenza per negare l’estensione analogica dell’art. 1384 c.c. sono la struttura bilaterale della caparra che, ponendo in capo ai contraenti la stessa prestazione, eviterebbe situazioni di iniquità e la facoltà di scelta tra caparra e risarcimento del danno (art. 1385, commi 2o e 3o, c.c.), « inammissibilmente soppressa con l’ammettere la riduzione ». ( 5 ) Cass. 24 febbraio 1982, n. 1143, in Rep. F. it., 1982, voce Contratto in genere, n. 208; Cass. 10 dicembre 1979, n. 6394, ivi, 1979, voce cit., n. 244. Nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Monza 25 agosto 2005, in G. mer., 2006, p. 931; App. Cagliari 16 gennaio 1998, in R. g. sarda, 1999, p. 399 ss., con nota di A. Chelo, Brevi considerazioni in tema di caparra confirmatoria e clausole abusive; Trib. Cagliari 9 marzo 1989, ivi, 1992, p. 373 ss., con nota di A. Angioni, Questioni varie in tema di responsabilità per inadempimento e caparra confirmatoria; App. Napoli 6 luglio 1963, in F. it., 1963, I, c. 2253. L’unico precedente contrario, a quanto consta, è App. Roma 13 marzo 1959, in Giust. civ., 1959, I, p. 584 s., il quale ammette la riducibilità giudiziale della caparra sulla base del divieto di arricchimento senza causa. Nello stesso senso v. anche Arb. Milano 29 marzo 2006, in R. arbitrato, 2006, p. 385 ss., con nota di F. Criscuolo, Principio di proporzionalità, riduzione ad equità della penale e disciplina della multa penitenziale: « per analogia alla ratio di tutela del contraente vittima di uno squilibrio dell’assetto negoziale non voluto, espressa dalla recente interpretazione della suprema corte sull’art. 1384 c.c., è riducibile d’ufficio dal giudice (o dall’arbitro) la caparra penitenziale ritenuta manifestamente eccessiva riguardo all’interesse del creditore all’adempimento ». ( 6 ) A. Marini, Caparra confirmatoria e reductio ad aequitatem, cit., p. 180; F. Roselli, Clausola penale e caparra, in Tratt. Bessone, XIII, Torino 2002, p. 465, secondo cui « Il fatto 688 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 In realtà, dal momento che, ai sensi dell’art. 1385, comma 2o, c.c., il diritto di ritenere la caparra o di ottenere la somma pari al duplum postulano necessariamente la risoluzione del contratto al quale il patto accede, non può escludersi — com’è dimostrato dalla fattispecie sottoposta al Tribunale rimettente — la sussistenza di esigenze di tutela analoghe a quelle che si presentano nel caso della clausola penale, in quanto il tradens o l’accipiens perde un ammontare pari al valore della caparra, senza avere diritto ad alcuna controprestazione. Pertanto, al fine di valutare se la caparra sia eccessiva, sembra che l’ammontare non debba essere posto in rapporto soltanto con il valore della prestazione inadempiuta, ma altresì con il danno subito dal contraente non inadempiente, il quale in assenza della pattuizione avrebbe diritto al risarcimento del danno da inadempimento, conseguente alla risoluzione del contratto (7). Con riguardo al rapporto tra clausola penale e caparra confirmatoria, da un lato, e il risarcimento del danno, dall’altro lato, in epoca antecedente, e immediatamente successiva all’entrata in vigore del codice civile del 1942, era diffusa la notazione secondo cui, in genere, rispetto al danno la penale ha un ammontare superiore, mentre la caparra, viceversa, un ammontare inferiore (8). Sul piano normativo, per questo motivo, diversamente dalla discipliche la caparra equivalga solo ad una parte della prestazione dovuta impedisce che sorgano questioni di riduzione giudiziale ». Nello stesso senso, affermando che l’ammontare della caparra costituisce una parte del prezzo e che si debba escludere che il giudice possa sindacare « la libera valutazione del contenuto economico dell’accordo operata dalle parti », V. Pescatore, Clausola « di irriducibilità » della penale ed estensione analogica dell’art. 1384 c.c., nota a Cass. 28 settembre 2006, n. 21066, in Obbligazioni e contratti, 2007, p. 905; E. Lucchini Guastalla, Riflessioni in tema di clausola penale, in questa Rivista, 2014, p. 102. ( 7 ) In questo senso, C.M. Bianca, Diritto civile, 5, La responsabilità2, Milano 2012, p. 390, nt. 11: « al pari della clausola penale, la caparra espone l’inadempiente al pericolo di una predeterminazione eccessiva » (il quale modifica l’opinione espressa ne Il divieto del patto commissorio, Milano 1957, p. 235 s.); e, nella dottrina più recente, M. Bellante, La caparra, Milano 2008, p. 109: « la sproporzione del risarcimento va valutata in rapporto al danno concretamente subito »; S. Cherti, La risoluzione mediante caparra, Padova 2012, p. 133. ( 8 ) Secondo l’indirizzo prevalente nel vigore del codice del 1865, il contraente non inadempiente, analogamente a quanto previsto in materia di clausola penale (ma v. L. Coviello jr., Clausola penale e risarcimento del danno, in F. it., 1933, I, c. 1696 ss.), poteva « chiedere niente più che l’importo della caparra », salvo che avesse in precedenza agito infruttuosamente per l’adempimento dell’obbligazione: V. Polacco, Le obbligazioni nel diritto civile italiano2, I, Roma 1915, p. 637. Nello stesso senso, G. Giorgi, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano7, IV, Firenze 1925, p. 598; A. Butera, La caparra come limite al risarcimento del danno, in G. it., 1926, I, 1, c. 189 ss. La norma era ritenuta in contrasto con la prassi del mercato secondo cui la penale era il più delle volte superiore all’ammontare del danno, mentre la caparra aveva normalmente un valore minore e poteva determinare un « indebolimento dell’obbligazione » nei casi in cui l’adempimento non era possibile: L. Coviello, voce Contratto preliminare, in Enc. giur., III, III, Milano 1902, p. 134 s.; V. Polacco, loc. cit.; E. Pacifici-Mazzoni, Isitituzioni di diritto civile italiano5, IV, Firenze 1920, p. 432. Nello stesso senso, già N. De Crescenzio e C. Ferrini, voce Obbligazione, in Enc. giur., XII, I, Milano 1900, p. 369. All’indomani dell’entrata in vigore del codice del 1942, rilevano che generalmente l’ammontare della caparra è esiguo rispetto a COMMENTI 689 na della clausola penale, l’art. 1385, comma 3o, c.c. prevede, in ogni caso, la facoltà di chiedere il risarcimento del danno; opzione preferibile per il contraente non inadempiente quando la caparra presenta un ammontare irrisorio e sussistono elementi probatori sufficienti per dimostrare il danno subito (9). Inoltre — ma ciò è soltanto presumibile —, l’esiguità del valore normalmente assunto dalla caparra confirmatoria ha indotto il legislatore a ritenere superflua una disposizione sulla riducibilità della caparra. In epoca attuale, non si rinvengono valutazioni analoghe in merito ai rapporti tra gli istituti in esame e il risarcimento del danno, ma, soprattutto in considerazione delle rationes poste a fondamento degli interventi della Suprema Corte in tema di riducibilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva (sui quali si avrà modo di tornare), un numero crescente di studiosi esprime favore per la soluzione dell’estensione analogica del potere di riduzione del giudice. Ciò perché anche la caparra confirmatoria si sostanzia in una forma di liquidazione convenzionale del danno, che sottrae al giudice la competenza riconosciuta in questo campo dalle norme legali (10). Nell’ambito del medesimo indirizzo, una parte della dottrina si basa sul « principio di proporzionalità », del quale il controllo della clausola penale ex art. 1384 c.c. costituirebbe una delle forme di manifestazione, per affermare il carattere non eccezionale della norma, la quale sarebbe applicabile per analogia a clausole diverse rispetto alla clausola penale (11). quello oggetto di una clausola penale, L. Barassi, Teoria generale delle obbligazioni2, III, L’attuazione, Milano 1948, p. 489 s.; N. Stolfi e F. Stolfi (a cura di), Il nuovo codice civile commentato, Libro IV, Delle obbligazioni, 1, Napoli 1949, p. 204. Secondo G. Bavetta, La caparra, Milano 1963, p. 177 nt. 22, la somma corrisposta a titolo di caparra sarebbe di regola « talmente di scarsa entità da far ritenere inconcepibile che la fattispecie possa costituire, nella previsione normativa e nella stessa intenzione delle parti, liquidazione preventiva del danno ». In tempi recenti, v. S. Mazzarese, Clausola penale, in Comm. Schlesinger, sub Artt. 1382-1384 c.c., Milano 1999, p. 51. ( 9 ) Il dato riceve conferma nei lavori preparatori: « poiché la caparra è di regola confirmatoria, la parte inadempiente può far valere i suoi diritti in via ordinaria » (Relazione al Re del Ministro Guardasigilli, n. 633). ( 10 ) Cfr. A. Zoppini, La pena contrattuale, Milano 1991, p. 287 s.; Id., La clausola penale e la caparra, in Trattato dei contratti2, diretto da P. Rescigno e E. Gabrielli, I, 2, I Contratti in generale, a cura di E. Gabrielli, Torino 2006, p. 1025 s. Nello stesso senso, A. Riccio, È, dunque, venuta meno l’intangibilità del contratto: il caso della penale manifestamente eccessiva, in Contratto e impr., 2001, p. 101 ss.; M. Bellante, op. cit., p. 112 s.; S. Cherti, op. cit., p. 127 ss.; M. Dellacasa, Inadempimento e affidamento del contraente deluso: una riflessione su risarcimento e caparra, in R. d. priv., 2013, p. 240 ss. Affermano la riducibilità della caparra ex art. 1384 c.c., ritenendo esistente un nucleo comune di disciplina della clausola penale e della caparra stabilito dagli artt. 1382 ss. c.c., V.M. Trimarchi, voce Caparra (dir. civ.), in Enc. dir., VI, Milano 1960, p. 202 nt. 46; M. Polastri Menni, Se la caparra confirmatoria sia suscettibile di riduzione equitativa da parte del giudice, in R. trim. d. proc. civ., 1965, p. 1197 ss. ( 11 ) P. Perlingieri, Equilibrio normativo e principio di proporzionalità nei contratti, in Rass. d. civ., 2001, p. 342 ss., il quale ritiene applicabile « il principio [di proporzionalità] che ispira la riduzione » a clausole tipiche, come la caparra confirmatoria o penitenziale, e 690 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 La casistica alla quale si è fatto cenno, in cui effettivamente risultano stipulate caparre di ammontare esorbitante, e l’orientamento della dottrina, negli ultimi tempi propensa ad ammettere la riduzione giudiziale della caparra, confermano l’esigenza del controllo giudiziale. Come emerge dalla ordinanza di rimessione e dalla decisione della Corte costituzionale, dove non è posta in discussione l’interpretazione offerta dai precedenti giurisprudenziali, l’applicazione analogica dell’art. 1384 c.c. alla caparra confirmatoria si pone però in contrasto con il carattere eccezionale da tempo riconosciuto alla norma (12). A fronte della situazione simile in cui versa il soggetto inadempiente nel caso di penale o caparra avente ammontare eccessivo, già sulla base di una prima riflessione, l’appiglio « formale » all’Analogieverbot, per negare il controllo giudiziale della caparra confirmatoria, non sembra insuperabile. Quanto detto trova conferma in contributi che nel vigore del codice civile previgente mettevano in luce l’« assurdità » del divieto di applicazione analogica, atteso che anche la norma eccezionale ha una propria ratio, idonea a ripetersi in situazioni diverse rispetto a quelle avute di mira dal legislatore (13). In altri atipiche, come le clausole di liquidazione dei danni; Id., Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti3, Napoli 2006, p. 383 ss. Studiosi tedeschi ritengono ammissibile l’applicazione analogica della norma sulla riduzione della penale ex § 343 BGB, sulla base di una operazione ermeneutica fondata sul principio di proporzionalità: v. C.-W. Canaris, Gesamtunwirksamkeit und Teilgültigkeit rechtsgeschäftlicher Regelungen, in Festschrift Steindorff, Berlin 1990, p. 519; M. Stürner, Der Grundsatz der Verhältnismäßigkeit im Schuldvertragsrecht. Zur Dogmatik einer privatrechtsimmanenten Begrenzung von vertraglichen Rechten und Pflichten, Tübingen 2010, p. 435 s., il quale, tuttavia, afferma l’applicabilità in via analogica della norma sulla riduzione soltanto con riguardo a clausole accessorie aventi carattere sanzionatorio (ad esempio, clausole penali atipiche). In prospettiva storica, v. F. Wieacker, Geschichtliche Wurzeln des Prinzips der verhältnismäßigen Rechtsanwendung, in Festschrift Fischer, Berlin-New York 1979, p. 869 ss. ( 12 ) Nella massima (redazionale) di Cass. 18 novembre 2010, n. 23273, in G. it., 2011, p. 1522, si legge: « La riducibilità della penale non è norma di carattere eccezionale, bensì espressione di un più generale potere-dovere del giudice di controllo sulla congruità di qualunque clausola contrattuale atta a predeterminare la pena gravante sulla parte inadempiente, così da garantire la sua proporzionalità e la sua eventuale riconduzione ad un ammontare tale da essere meritevole di tutela (nel caso di specie, la corte ha ritenuto applicabile in via analogica l’art. 1384 c.c. agli interessi di mora convenzionalmente stabiliti dalle parti ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1224 c.c.) ». Tuttavia, il principio riportato non corrisponde alla motivazione della sentenza, in cui appare evidente che la Suprema Corte ha applicato l’art. 1384 c.c. aderendo al consolidato indirizzo secondo cui gli interessi moratori stabiliti in via convenzionale configurano una clausola penale (cfr., ad esempio, M. Libertini, voce Interessi, in Enc. dir., XXII, Milano 1972, p. 129, ad avviso del quale la convenzione sulla misura degli interessi moratori rientra « letteralmente nella previsione dell’art. 1382 c.c., che quindi si applica direttamente ad essa »; O.T. Scozzafava, Gli interessi monetari, Napoli 1984, p. 112). ( 13 ) Così N. Bobbio, L’analogia nella logica del diritto, Torino 1938, p. 170 ss., il quale rileva che l’estensione analogica della norma eccezionale, alla luce del carattere della norma, destinata a disciplinare fattispecie particolari, non si verifica « con la stessa frequenza COMMENTI 691 termini, si segnalavano fattispecie che non cadono nel campo di applicazione della norma eccezionale, ma per le quali si pongono le medesime ragioni per cui il legislatore prevede una deroga alla norma generale. Nello stesso ordine di idee, in mancanza di un divieto espresso, la dottrina tedesca ammette l’applicazione analogica delle norme eccezionali, intendendo il principio « singularia non sunt extendenda », nel senso che se una norma è prevista per un caso eccezionale, essa non può essere applicata in via analogica a casi che non presentano la stessa situazione di eccezionalità (14). Al medesimo risultato si perviene, in tempi recenti, con riguardo al diritto dell’Unione europea (15). Nelle pagine che seguono l’attenzione sarà rivolta soltanto ai difetti della motivazione del giudice a quo. Tuttavia, preme ribadire che il divieto di analogia della norma eccezionale non configura un argomento incontrovertibile per negare l’applicazione analogica dell’art. 1384 c.c. alla caparra confirmatoria. Anzitutto, è un dato acquisito quello secondo cui « l’eccezionalità di una norma non è un carattere assoluto della norma stessa, ma un carattere relativo, soggetto a mutamenti nell’ambito stesso di un sistema » (16), di talché la norma considerata come eccezione, in un dato momento, a seguito di cambiamenti di vario genere (interni al sistema o a esso esterni: ad esempio, di tipo sociale, economico, ecc.), può assumere nell’ordinamento i connotati della « regola » o del « principio ». Inoltre, ponendo l’accento sul fondamento della norma sul controllo giudiziale della penale, così come rinvenuto dai giudici di legittimità, potrebbe affermarsi che essa non ha natura « eccezionale », bensì « speciale » poiché costituisce il « prolungamento » o la « continuazione » del principio di solidarietà nel contesto delle clausole di forfetizzazione con cui si verifica nella norma non eccezionale ». Nello stesso senso, F. Carnelutti, Teoria generale del diritto, Roma 1940, p. 149 s., secondo cui il divieto di applicazione analogica « riposa su un equivoco », in quanto « nulla vieta che l’eccezione sia, nel pensiero del legislatore, applicazione di un principio, il quale comprenda anche altri casi in una più ampia eccezione alla regola espressa ». ( 14 ) K. Engisch, Einführung in das juristische Denken5, Stuttgart-Berlin-Köln-Mainz 1956, p. 147: « Wenn eine Vorschrift für einen bestimmten Ausnahmefall oder eine Gruppe solcher Fälle erlassen ist, so darf sie selbstverständlich nicht analog angewendet werden auf Fälle, in denen diese Ausnahmesituation nicht gegeben ist ». Nello stesso senso, K. Larenz, Methodenlehre der Rechtswissenschaft6, Berlin-Heidelberg-New York 1991, p. 355 s., il quale afferma che attraverso l’applicazione in via analogica non deve però giungersi ad un risultato opposto rispetto a quello voluto dal legislatore. Sulle origini storiche della massima « singularia non sunt extendenda » e sulla sua progressiva erosione, a partire dal XX secolo, v. S. Vogenauer, Die Auslegung von Gesetzen in England und auf dem Kontinent, I, Tübingen 2001, p. 516 ss. In merito all’uso dell’argomento teleologico nell’applicare norme in via analogica, cfr. R. Zimmermann, Statuta sunt stricte interpretanda? Statutes and the Common Law: A Continental Perspective, in 56 Cambridge L. J. (1997), p. 320 s. ( 15 ) Sulla base di alcune pronunce della Corte di giustizia, S. Martens, Methodenlehre des Unionsrecht, Tübingen 2013, p. 320 s., secondo cui, in linea di principio, nel diritto europeo non sussiste un divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali. ( 16 ) N. Bobbio, op. cit., p. 165. 692 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 del risarcimento del danno (17). L’applicazione analogica della norma alla caparra confirmatoria sarebbe esclusa soltanto dall’esistenza di un principio in contrasto con quello di solidarietà, da ritenersi prevalente rispetto a quest’ultimo (18). In definitiva, sebbene esuli dall’obiettivo di questo studio l’esame critico dell’indirizzo della giurisprudenza — probabilmente, frutto del timore che un’apertura possa con il trascorrere degli anni determinare un’applicazione generalizzata dell’art. 1384 c.c. (19) —, appare evidente che, allo stato, sussistono utili argomenti per modificare il consolidato orientamento che nega l’applicazione analogica della norma sulla riduzione giudiziale. 3. — Enunciate le posizioni della giurisprudenza e della dottrina in merito alla questione della riduzione giudiziale della caparra confirmatoria, è possibile procedere all’esame dei motivi che hanno indotto la Corte costituzionale ad emettere l’ordinanza di inammissibilità. Come si è indicato in apertura, il giudice rimettente ha omesso di valutare se l’effettiva funzione della clausola, denominata dalle parti « caparra », corrisponda a quella dell’istituto disciplinato dall’art. 1385 c.c. Ma non è dato sapere con quale clausola — avente una funzione non coincidente con quella della caparra confirmatoria — possa identificarsi, a parere della Corte, la pattuizione sottoposta all’esame del Tribunale di Tivoli. La giurisprudenza ha spesso affrontato problemi interpretativi connessi all’utilizzazione del termine « caparra » e l’elevato numero di controversie si ( 17 ) Cfr. ancora N. Bobbio, op. cit., p. 168, il quale precisa che il diritto eccezionale costituisce una deroga a una norma più generale (rapporto regola-eccezione), mentre il diritto speciale ne costituisce la sua specificazione (rapporto genere-specie). Sebbene riconosca che, da un punto di vista dogmatico, in virtù del divieto, le norme eccezionali non sono suscettibili di applicazione analogica, afferma che attraverso la loro applicazione si svolge « la pratica evoluzione del sistema giuridico », T. Ascarelli, Il problema delle lacune e l’art. 3 disp. prel. cod. civ. (1865) nel diritto privato, in Id., Studi di diritto comparato e in tema di interpretazione, Milano 1952, p. 224 s. nt. 33, ad avviso del quale la distinzione tra diritto eccezionale e diritto speciale consente di superare la descritta antinomia. In senso critico, sostiene che la specificazione dei principi « non si risolve in altro che nella loro deroga », F. Modugno, voce Norme singolari, speciali, eccezionali, in Enc. dir., XXVIII, Milano 1978, spec. p. 513 ss. Più in generale, sui problemi teorici cui dà luogo l’art. 14 disp. prel., v. G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Tratt. Cicu-Messineo, I, 2, Milano 1980, p. 297 ss. ( 18 ) Nel senso che l’applicazione analogica di una norma pone l’esigenza di un bilanciamento tra principi o valori dell’ordinamento, v. K. Larenz, op. cit., p. 384 s.; C.-W. Canaris, Die Feststellung von Lücken im Gesetz, München 1983, p. 97 ss. ( 19 ) Del resto, il divieto di applicazione analogica delle norme eccezionali (sul quale, come visto, si esprimono in termini negativi autorevoli studiosi) poggia sulla preferenza accordata « ai principi della certezza e della staticità rispetto a quelli dell’equità e del rinnovamento » e ha lo scopo di evitare che una disciplina storicamente anomala venga estesa « al di fuori dei tempi e dei modi specificamente e direttamente da essa previsti »: L. Caiani, voce Analogia (teoria gen.), in Enc. dir., II, Milano 1958, p. 371 s. COMMENTI 693 deve principalmente al significato « atecnico » che il termine assume nel linguaggio comune, idoneo a generare nei contraenti (o quantomeno in uno di essi) una errata rappresentazione degli effetti del patto. I problemi di delimitazione della caparra confirmatoria rispetto ad altri istituti hanno prevalentemente investito figure affini, quali la caparra penitenziale, l’acconto e la cauzione. Tali istituti, pur presupponendo, alla stregua della caparra confirmatoria, la dazione di una somma di denaro o altre cose fungibili, svolgono funzioni diverse rispetto a quest’ultima, non essendo destinati a forfetizzare in via anticipata il danno da inadempimento (20). Nonostante le difformità sotto il profilo della struttura e degli effetti, rispetto alle indicate pattuizioni sovente esaminate dalla giurisprudenza, il patto che si avvicina maggiormente alla funzione spiegata dalla caparra in caso di inadempimento è la clausola penale. In questa prospettiva, ad avviso di chi scrive, il problema interpretativo da risolvere relativamente a casi come quello sottoposto al giudice rimettente sembra concernere il potere, da parte del giudice, di qualificare la caparra in termini di clausola penale, a prescindere dal nomen iuris accolto dai contraenti, nelle ipotesi in cui l’ammontare trasmesso sia nettamente superiore al danno prevedibile in caso di inadempimento. La descritta operazione ermeneutica si fonderebbe sull’assunto — che, come visto supra, n. 2, sembra supportato sotto il profilo normativo (dall’art. 1385, comma 3o, c.c. e dalla mancanza di una norma sulla riduzione dell’ammontare) e, si direbbe, storico (alla luce del dibattito dottrinale antecedente e immediatamente successivo all’entrata in vigore del codice) — secondo cui la caparra confirmatoria, consistendo generalmente in un importo inferiore o uguale a quello del danno prevedibile, in caso di inadempimento svolge esclusivamente la funzione di liquidazione preventiva del risarcimento (21). Ebbene, sulla base delle indicate premesse circa la funzione « tipica » della caparra confirmatoria, non sembra azzardato affermare che ove la som( 20 ) Com’è noto, a differenza della caparra confirmatoria, la caparra penitenziale costituisce il prezzo per il recesso; l’acconto configura soltanto un adempimento parziale della prestazione; e la cauzione garantisce la corretta esecuzione della prestazione o il risarcimento del danno. Per maggiori approfondimenti, v. W. D’Avanzo, voce Caparra, in Nov. D., II, Torino 1958, p. 894 ss.; G. Bavetta, op. cit., p. 212 ss. e p. 227 s.; F. Messineo, Il contratto in generale, in Tratt. Cicu-Messineo, XXI, 1, Milano 1968, p. 220 s.; A. Marini, voce Caparra I) Diritto civile, in Enc. giur. Treccani, V, Roma 1988, p. 2; M.S. Scardigno, Sulla qualificazione giuridica della caparra confirmatoria, in Contratti, 2004, p. 987 ss.; M. Bellante, op. cit., p. 9 nt. 10 e p. 123 ss. (con particolare riguardo ai criteri interpretativi adottati dalla giurisprudenza). ( 21 ) Nel senso che la caparra confirmatoria non svolge una funzione sanzionatoria, come la clausola penale, ma esclusivamente una funzione risarcitoria, v. Cass. 16 maggio 2006, n. 11356, in Rep. F. it., 2006, voce Contratto in genere, n. 513; nella giurisprudenza di merito, Trib. Pescara 19 aprile 2012, ined. Nella stessa direzione, da ultimo, I. Tardia, Funzione confirmatoria della caparra e alternatività recessiva, in Rass. d. civ., 2009, p. 807 ss. In senso difforme, affermano che la caparra confirmatoria ha carattere sanzionatorio, W. D’Avanzo, op. cit., p. 895, il quale discorre di « pena civile »; A. Marini, voce Caparra I) Diritto civile, cit., p. 2. 694 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 ma di denaro o la quantità di beni fungibili sia talmente eccessiva da doversi ritenere che la caparra non abbia il solo scopo di risarcire il danno, essa non svolge una funzione corrispondente a quella dell’istituto disciplinato dall’art. 1385 c.c., ma integra una delle funzioni della clausola penale. Infatti, secondo l’indirizzo ormai prevalente in dottrina, la clausola penale disciplinata dagli artt. 1382 ss. c.c. è in grado di esplicare diverse funzioni: può avere lo scopo di risarcire in via forfetaria il risarcimento del danno o, inducendo il debitore ad adempiere mediante il pagamento di una somma nettamente superiore all’ammontare del risarcimento del danno che spetterebbe al creditore in base alle regole legali, assumere un carattere marcatamente sanzionatorio (22). Proprio quando la clausola svolge una funzione sanzionatoria, funzione che nelle intenzioni del legislatore non sembra competere alla caparra confirmatoria, viene in considerazione il controllo giudiziale della somma prevista a titolo di penale e non si vede perché il medesimo trattamento non debba essere riservato alla « caparra » avente lo stesso obiettivo. In questi casi, per assicurare il controllo giudiziale dell’ammontare stabilito in via forfetaria, senza mettere in dubbio la natura eccezionale della norma dell’art. 1384 c.c., appare necessario qualificare la caparra confirmatoria in termini di clausola penale. In proposito, occorre osservare che la « tipizzazione » legale — intesa come predisposizione di una disciplina specifica riservata a manifestazioni della volontà privata frequentemente ricorrenti nella pratica — non è un fenomeno diffuso con riguardo a singole clausole e, generalmente, persegue in primo luogo l’obiettivo di limitare l’autonomia contrattuale a tutela di specifici interessi ritenuti meritevoli. Il regime della clausola penale contiene un nucleo imperativo fatto proprio da quasi tutte le codificazioni che, apprestando vincoli e cautele, in particolare, attraverso la norma sul controllo giudiziale, è ( 22 ) Secondo l’indirizzo ormai prevalente, la clausola penale può svolgere diverse funzioni, in particolare quella risarcitoria e quella sanzionatoria o punitiva: cfr. G. Gorla, Il contratto. Problemi fondamentali trattati con il metodo comparativo e casistico, I, Lineamenti generali, Milano 1955, p. 240 ss. In epoca più recente, v. G. De Nova, voce Clausola penale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., II, Torino 1988, p. 377; A. Zoppini, La pena contrattuale, cit., p. 16 nt. 34; V. Roppo, Il contratto2, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano 2011, p. 928; P. Iamiceli, Effetti della clausola penale, sub Art. 1382, in Commentario del codice civile, diretto da E. Gabrielli, Dei contratti in generale, II, Torino 2011, p. 961 ss.; A. Orestano, Danno contrattuale e autonomia privata: la clausola penale, in Le tutele contrattuali e il diritto europeo. Scritti per Adolfo di Majo, Napoli 2012, p. 413 ss. Nella giurisprudenza, cfr. Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, in F. it., 2005, I, c. 2985 ss.: « Nel disciplinare l’istituto la legge ha ampliato il campo normalmente riservato all’autonomia delle parti, prevedendo per esse la possibilità di predeterminare, in tutto o in parte, l’ammontare del risarcimento del danno dovuto dal debitore inadempiente (se si vuole privilegiare l’aspetto risarcitorio della clausola), ovvero di esonerare il creditore di fornire la prova del danno subito, di costituire un vincolo sollecitatorio a carico del debitore, di porre a carico di quest’ultimo una sanzione per l’inadempimento (se se ne vuole privilegiare l’aspetto sanzionatorio) ». COMMENTI 695 destinato a rispondere all’esigenza di protezione di interessi ritenuti di particolare rilievo (23). In questo quadro, il mancato intervento del giudice, volto a rettificare l’erronea qualificazione attribuita dai contraenti, non conforme alla funzione della clausola, vanificherebbe l’obiettivo di politica del diritto avuto di mira dal legislatore (24). Peraltro, anche prescindendo dal profilo funzionale o causale, generalmente utilizzato quale criterio per qualificare i contratti, il solo dato normativo sembra sottendere che la tipizzazione legale operata per la clausola penale, in virtù della norma sulla riduzione giudiziale, riguardi altresì forfetizzazioni del risarcimento di valore superiore al danno prevedibile; mentre quella relativa alla caparra confirmatoria, in presenza dell’art. 1385, comma 3o — che consente, in assenza di specifica pattuizione, di agire per il risarcimento del danno secondo le regole legali —, appare ideata per forfetizzazioni del risarcimento di valore inferiore al danno prevedibile. Sulla base dei suddetti rilievi sembra possibile, facendo ricorso al metodo tipologico, affermare che, con riguardo alla fattispecie dell’inadempimento, il tratto distintivo tra clausola penale e caparra confirmatoria è dato dall’ammontare del risarcimento stabilito in via forfetaria (25). Nei casi in cui la clausola abbia per oggetto un ammontare superiore al risarcimento del danno prevedibile essa deve essere ricondotta alla disciplina di controllo della clausola penale (26). ( 23 ) Cfr. la ricostruzione storica, incentrata sul controllo giudiziale della clausola penale nelle codificazioni giusnaturalistiche e nel BGB, di R.-P. Sossna, Die Geschichte der Begrenzung von Vertragsstrafen. Eine Untersuchung zur Vorgeschichte und Wirkungsgeschichte der Regel des § 343 BGB, Berlin 1993, p. 138 ss. ( 24 ) V. C. Scognamiglio, Problemi della causa e del tipo, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, II, Regolamento, a cura di G. Vettori, Milano 2006, p. 198 s., il quale tuttavia afferma che non può negarsi ogni rilevanza alla scelta dichiarata dai contraenti. Nel senso che la tipizzazione legale talvolta non ha lo scopo di fissare diritti ed obblighi delle parti, ma di limitare la portata delle pattuizioni a tutela di interessi esterni, v. V. Roppo, Il contratto2, cit., p. 398. Sulla rilevanza che il processo di tipizzazione del giudice assume in ordine all’applicazione di norme imperative, cfr. G. De Nova, Il tipo contrattuale, Padova 1974, p. 24 ss. ( 25 ) Sul metodo tipologico, con ampi riferimenti alla dottrina tedesca, v. G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 121 ss., il quale afferma che, a parte il caso dei contratti a titolo gratuito, il modo di perfezionamento del contratto non assurge a elemento distintivo tra tipi (p. 109 ss.). In argomento, v. anche M. Costanza, Il contratto atipico, Milano 1981, p. 223 ss. ( 26 ) Sulla questione si tornerà in chiusura, ma occorre sottolineare fin d’ora come, nei casi in cui la penale risulti manifestamente eccessiva, la soluzione proposta corrisponda nella sostanza a quella che discenderebbe dall’applicazione in via analogica dell’art. 1384 c.c., esclusa dalla giurisprudenza in virtù della natura eccezionale della norma. Sui problemi del ricorso all’analogia, dati dalla presenza di norme eccezionali, per estendere parte della disciplina di un tipo legale a un contratto non sussumibile nello stesso tipo legale, v. G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 170 ss. Sotto il profilo metodologico, v. da ultimo D. Carusi, La legge e il tempo, in Rass. d. civ., 2013, p. 329: « Quante volte — solo per fare un esempio evidente — applichiamo a contratti atipici norme riferentisi a qualche tipo o sot- 696 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 La soluzione descritta è stata accolta in altre esperienze giuridiche caratterizzate da un quadro normativo simile a quello italiano, poiché è prevista la riduzione della penale, ma non della caparra. Ad esempio, dai lavori preparatori del codice civile tedesco si evince che, alla luce del potere del giudice di qualificare la caparra in termini di clausola penale, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalle parti, la previsione di una disposizione sulla riduzione della caparra (Draufgabe, disciplinata dai §§ 336-338 BGB) è stata ritenuta inutile in virtù della presenza della norma sulla riduzione della penale « sproporzionatamente eccessiva » (§ 343 BGB) (27). Ne deriva che, nei casi in cui l’ammontare della caparra risulta eccessivo, il giudice è tenuto ad applicare il regime giuridico della clausola penale. Nell’Obligationenrecht svizzero la caparra (Haftgeld) corrisposta al momento della stipulazione del contratto, in caso di inadempimento, ai sensi dell’art. 158, comma 2o, resta alla parte che l’ha ricevuta e assume la funzione di Konventionalstrafe, il cui ammontare è soggetto a riduzione giudiziale in base all’art. 163, comma 3o (28). Ragioni analoghe hanno indotto la giurisprudenza portoghese, in due celebri sentenze, ad estendere il controllo giudiziale previsto in materia di clausola penale (art. 812 Código Civil) alla caparra confirmatoria (sinal) manifestamente eccessiva, disciplinata dall’art. 442 Código Civil (29). I giudici portoghesi hanno rilevato che anteriormente all’entrata in vigore del nuovo codice, totipo regolato e facenti eccezione ad altre più generali? Lo facciamo in nome del contratto misto, della combinazione delle cause, del metodo tipologico — sovrastrutture in buona parte figlie della cattiva coscienza ispirataci dall’art. 14 delle preleggi —, ma lo facciamo — questa è la verità — ragionando analogicamente ». ( 27 ) Cfr. V. Rieble, sub § 338 BGB, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, Berlin 2009, p. 242, Rn. 3, secondo cui la norma sulla riduzione giudiziale verrà applicata alla caparra, quale vera e propria penale; P. Gottwald, sub § 338 BGB, in Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch6, München 2012, p. 2294, Rn. 1, il quale riprendendo i dibattiti svolti nel corso dei lavori preparatori, fa notare l’inutilità di una specifica previsione in materia di caparra, atteso che, nel caso in cui essa sia sproporzionatamente eccessiva, il patto verrà qualificato come clausola penale; D. Medicus e S. Lorenz, Schuldrecht, I, Allgemeiner Teil20, München 2012, Rn. 543. ( 28 ) F.R. Ehrat, sub Art. 158, in H. Honsell, N.P. Voigt e W. Wiegand (Hrsg.), Basler Kommentar. Obligationenrecht5, I, Basel 2011, p. 874, Rn. 5: « Bei Nichterfüllung der Vertragsschuld durch den Schuldner wird das Haftgeld funktionell zu einer zum voraus entrichteten und kumulativ (neben einer allfälligen Schadenersatzpflicht) geschuldeten Konventionalstrafe umgewandelt ». ( 29 ) Acórdão do Supremo Tribunal de Justiça de 8 Março de 1977 e de 1 de Fevereiro de 1983. Sulle pronunce v. amplius A. Pinto Monteiro, Cláusula penal e indemnização, Coimbra 1990, rist. 1999, p. 215 ss. In termini critici, N.R. Bernardo, Sinal - Da sua Irredutibilidade por Equidade (Um problema de aplicação do artigo 812o do Código Civil ao sinal), in Rev. da Ordem dos Advogados, 1996, I, p. 411 ss., secondo cui l’applicazione della norma sulla riduzione alla caparra ha l’effetto di limitare eccessivamente l’autonomia dei contraenti. Ad avviso dell’Autore, nel caso della caparra eccessiva, mezzi di tutela adeguati sarebbero offerti, al contraente inadempiente, dalla disciplina dei vizi della volontà, dal divieto di usura e dal divieto di abuso del diritto. COMMENTI 697 attesa l’analogia da un punto di vista funzionale, la caparra era considerata una vera e propria clausola penale; l’assenza di una norma ad hoc sulla riducibilità sarebbe dovuta soltanto alla non frequente evenienza nella prassi di caparre di ammontare eccessivo (30). Nell’esperienza giuridica spagnola, al fine di rendere applicabile il regime della clausola penale alla caparra confirmatoria, i giudici di legittimità, in via interpretativa, hanno coniato la categoria della « caparra penale », soggetta al potere di riduzione stabilito dall’art. 1154 Código Civil (31). La tendenza segnalata si riscontra anche nell’orientamento della giurisprudenza francese, la quale, ponendo l’accento sul profilo funzionale, è incline a qualificare come clausola penale la clausola di immobilizzazione, con la quale la parte venditrice si obbliga a mantenere ferma un’offerta per un determinato periodo di tempo contro il pagamento di una somma di denaro, nei casi in cui la pattuizione alla luce dell’ammontare stabilito eserciti un’efficacia compulsoria nei confronti dell’acquirente (32). A completamento della breve indagine comparatistica si segnala che, diversamente da quanto avviene negli ordinamenti finora presi in considerazione, in Austria il problema della caparra confirmatoria eccessiva (Angeld, disciplinata dal § 908 ABGB) viene generalmente risolto mediante l’applicazione analogica della norma sulla riduzione della clausola penale (Konventionalstrafe, disciplinata dal § 1336 ABGB) (33), ma la giurisprudenza in alcuni casi ha affermato che la pattuizione di una somma di ammontare eccessivo non può corrispondere alla volontà di ritenere la caparra o trasmettere il doppio dell’importo in caso di inadempimento (34) e, in decisioni molto risalenti, ha dichiarato la nullità della pattuizione per contrarietà al buon costume ex § ( 30 ) Cfr. A. Pinto Monteiro, op. loc. cit. ( 31 ) Cfr. Tribunale Supremo 10 ottobre 2006 e 27 ottobre 2010: su cui v. I. Marín García, Enforcement of Penalty Clauses in Civil and Common Law: A Puzzle to be Solved by the Contracting Parties, 5, 1 EJLS (2012), p. 92 s.; A. Valiño, La cláusula penal nel código civil, in La pena convenzionale nel diritto europeo, a cura di S. Cherti, Napoli 2013, p. 104. Il termine « caparra penale » o « clausola penale impropria » ha spesso trovato ingresso in contributi risalenti della nostra dottrina: cfr., ad esempio, V.M. Trimarchi, voce Caparra (dir. civ.), cit., p. 197; e, nel vigore del codice civile del 1865, A. Scevola, voce Caparra, in Dig., VI, I, Torino 1888, p. 727, i quali affermavano l’applicabilità delle norme della clausola penale alla caparra confirmatoria. ( 32 ) Sul punto, v. le rassegne giurisprudenziali di J.S. Borghetti, La qualification de clause pénale, in RDC, 2008, p. 1158 ss. e Retour sur la qualification de clause pénale, ivi, 2009, p. 88 ss. La c.d. « indemnité d’immobilisation » non è disciplinata dal Code civil, ma risulta sovente utilizzata, a tutela della parte venditrice, nell’ambito di vendite immobiliari. ( 33 ) R. Reischauer, sub § 908 ABGB, in P. Rummel (Hrsg.), Kommentar zum Allgemeinen bürgerlichen Gesetzbuch3, I, Wien 2000, p. 1604, Rn. 12. ( 34 ) OGH 29.9.1981, 4 Ob 543/81, in JBl, 1982, p. 255 ss. Nella specie, la somma corrisposta era pari al 13,5% del prezzo dei beni compravenduti e la Corte austriaca, sovvertendo l’esito del giudizio di merito, ha qualificato l’atto in termini di « acconto ». 698 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 879 ABGB (35). 4. — Il secondo difetto della motivazione dell’ordinanza del Tribunale di Tivoli si sostanzia, a parere della Corte costituzionale, nel non tenere conto della possibile rilevabilità ex officio della nullità (totale o parziale) della caparra, ai sensi dell’art. 1418 c.c., per contrasto con l’art. 2 Cost., che entrerebbe « direttamente nel contratto », in « combinato contesto » con il canone della buona fede. Sebbene il significato del passaggio della decisione si presti a diverse letture, la tecnica interpretativa adottata dalla Corte costituzionale nel delineare i rapporti tra principio fondamentale e clausola generale sembra implicare l’efficacia diretta del precetto costituzionale nei rapporti tra privati (36). Difforme appare la risalente teoria tedesca della mittelbare Drittwirkung accolta dal Bundesverfassungsgericht, secondo cui, com’è noto, le norme costituzionali vincolano i consociati nei loro rapporti giuridici di natura privata attraverso le clausole generali e le altre norme del diritto privato, interpretate alla luce dei diritti fondamentali (37). Per suffragare la suddetta interpretazione, la Corte costituzionale richiama alcuni celebri precedenti della Corte di Cassazione: in particolare, la sentenza che ha deciso il « caso Fiuggi » (38), due interventi in tema di riducibili- ( 35 ) Cfr. R. Dittrich e H. Tades (Hrsg.), Das Allgemeine bürgerliche Gesetzbuch36, II, Wien 2003, p. 1188. ( 36 ) Il suddetto convincimento si ricava anche dalla tesi che l’estensore della riportata ordinanza ha sostenuto in altra sede: M.R. Morelli, Materiali per una riflessione sulla applicazione diretta delle norme costituzionali da parte dei giudici, in Giust. civ., 1999, II, p. 3 ss. Nel senso invece che il dovere di solidarietà esige « la mediazione della legge », v. N. Irti, Concetto giuridico di mercato e dovere di solidarietà, in questa Rivista, 1997, I, p. 189; G.B. Ferri, Autonomia privata e poteri del giudice, in D. e giur., 2004, p. 8. ( 37 ) Cfr. il noto « Lüth-Urteil » del 1958, che, ad avviso di molti, ha dato inizio al processo di « costituzionalizzazione » del diritto privato tedesco: BVerfG15.1.1958-1 BvR 400/57, in NJW, 1958, p. 257 ss., secondo cui: « nel diritto civile il contenuto giuridico dei diritti fondamentali si dispiega indirettamente attraverso le disposizioni di diritto privato. Esso concerne soprattutto norme inderogabili ed è per il giudice eminentemente realizzabile attraverso le clausole generali ». ( 38 ) Cass. 20 aprile 1994, n. 3775, in F. it., 1995, I, c. 1296 ss., con osservazioni di C.M. Barone: « La clausola, inserita nei contratti “per la conduzione e l’esercizio delle concessioni delle sorgenti di acqua minerale” e “per la locazione degli stabilimenti termali” conclusi dal comune di Fiuggi con un privato, che, attribuendogli “la piena libertà” di determinare il prezzo in fabbrica delle bottiglie, consente al medesimo privato di bloccare tale prezzo nonostante la svalutazione monetaria, impedendo allo stesso comune di conseguire anche l’adeguamento del canone correlato al ripetuto prezzo, è contraria al principio di buona fede che, per il suo valore cogente, concorre a formare la regula iuris del caso concreto, determinando, integrativamente, il contenuto e gli effetti dei contratti e orientandone, ad un tempo, l’interpretazione e l’esecuzione ». COMMENTI 699 tà d’ufficio della penale manifestamente eccessiva (39), e la recente pronuncia sull’abuso del diritto (40). Se le sentenze citate applicano la clausola generale di buona fede e, in alcuni casi, nelle motivazioni compare il riferimento al dovere inderogabile di solidarietà ex art. 2 Cost., a differenza di quanto avviene nell’ordinanza della Corte costituzionale, esse non ricorrono all’istituto della nullità. Il profilo dell’applicazione del precetto costituzionale merita attenzione perché l’argomentazione fondata sulla norma costituzionale e sulla clausola di buona fede è questa volta utilizzata dal giudice delle leggi. Inoltre, con il ricorso a una norma di rango costituzionale ritenuta direttamente applicabile nei rapporti tra i privati, essa si inserisce in un orientamento della giurisprudenza che, attraverso l’uso dei principi e delle clausole generali, riconosce ai soggetti una forma di tutela nel caso concreto, anche nell’ambito di situazioni non espressamente disciplinate dalla legge per garantire, limitando l’autonomia privata attraverso l’intervento del giudice, un risultato « equo » o, secondo una terminologia ormai in voga, « giusto » (41). ( 39 ) Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, cit., pubblicata anche in Corr. giur., 2005, p. 1534 ss., con nota di A. di Majo, La riduzione della penale ex officio; in Obbligazioni e contratti, 2006, p. 15 ss., con nota di V. Pescatore, Riduzione d’ufficio della penale e ordine pubblico economico; in Europ. d. priv., 2006, p. 353 ss., con nota di G. Spoto, La clausola penale eccessiva tra riducibilità di ufficio ed eccezioni di usura; Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, in F. it., 2000, I, c. 1929 ss., con nota di A. Palmieri, La riducibilità « ex officio » della penale e il mistero delle « liquidated damages clauses »; in Contratti, 2000, p. 118 ss., con nota di G. Bonilini, Sulla legittimazione attiva alla riduzione della penale. ( 40 ) Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, in F. it., 2010, I, c. 85 ss., con nota di A. Palmieri-R. Pardolesi, Della serie « a volte ritornano »: l’abuso del diritto alla riscossa; in Contratti, 2010, p. 5 ss., con nota di G. D’Amico, Recesso ad nutum, buona fede e abuso del diritto; in Nuova g. civ. comm., 2010, I, p. 231 ss., con note di C. Scognamiglio, Abuso del diritto, buona fede, ragionevolezza (verso una riscoperta della pretesa funzione correttiva dell’interpretazione del contratto?), e F. Viglione, Il giudice riscrive il contratto per le parti: l’autonomia negoziale stretta tra giustizia, buona fede e abuso del diritto; in Resp. civ., 2010, p. 345 ss., con nota di A. Gentili, Abuso del diritto e uso dell’argomentazione (commentata altresì da F. Macario, Recesso ad nutum e valutazione di abusività nei contratti tra imprese: spunti da una recente sentenza della Cassazione, in Corr. giur., 2009, p. 1577 ss.; M. Orlandi, Contro l’abuso del diritto (in margine a Cass. 18 settembre 2009, n. 20106), in questa Rivista, 2010, II, p. 147 ss.; F. Galgano, Qui suo iure abutitur neminem laedit?, in Contratto e impr., 2011, p. 311 ss.), secondo cui si ha abuso del diritto quando un potere od una facoltà, attribuiti ad un soggetto dal contratto, vengano esercitati con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, con uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti; ricorrendo tali presupposti, è consentito al giudice di merito dichiarare inefficaci gli atti compiuti in violazione del divieto di abuso del diritto, oppure condannare colui il quale ha abusato del proprio diritto al risarcimento del danno in favore della controparte contrattuale, a prescindere dall’esistenza di una specifica volontà di nuocere. ( 41 ) Il problema della « giustizia contrattuale », già affrontato dagli studiosi della materia (cfr., ad esempio, F. Galgano, Libertà contrattuale e giustizia del contratto, in Contrat- 700 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 I rapporti tra il principio di solidarietà e la clausola generale, così come delineati dalla ordinanza della Corte costituzionale, corrispondono alle opinioni espresse dall’estensore del provvedimento in uno scritto della fine del secolo scorso, al quale conviene attingere per chiarire il significato della formula, accolta dalla Corte, secondo cui il principio di solidarietà e la clausola generale opererebbero in « combinato contesto » (42). Nella prospettiva del citato studioso, la norma costituzionale avrebbe la funzione di « integrare » la clausola generale, creando un « effetto sinergico delle due regole in combinazione », sicché « all’un tempo, per un verso la disposizione ordinaria si completi e si definisca, in senso evolutivo attraverso l’introduzione di valori costituzionali nel suo nucleo precettivo e, per altro verso e reciprocamente, quei “valori”, attraverso il presidio della sanzione offerta dalla norma codicistica, passino dallo stadio del valore enunciato a quello del valore attuato » (43). Diversamente, com’è noto, autorevole dottrina ha affermato che il principio costituzionale in tale contesto possiede « più un valore retorico-persuasivo che una funzione argomentativa fondante », in quanto la clausola della buona fede « esprime già di per se stessa, come proprio fondamento etico, un dovere di solidarietà tra le parti del rapporto — nel senso specifico [secondo una locuzione spesso proposta dalla giurisprudenza] di dovere di ciascuna parte di assicurare l’utilità dell’altra nella misura in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a proprio carico — » (44). L’Autore da ultimo richiamato dà però atto che l’art. 2 Cost. ha contribuito ad una rivalutazione della clausola generale che, in contrasto con l’orientamento dominante all’indomani dell’entrata in vigore del codice civile, ha indotto gli studiosi a considerare la clausola di buona fede una delle principali innovazioni del codice civile del 1942 (45). Il riferimento ovviamente è ai noti studi che, nel periodo in cui la civilistica era impegnata a chiarire i rapporti tra diritto civile e Costituzione, definito stagione del « disgelo costituzionale » e identificabile con gli anni Sessanto e impr./Europ., 2005, p. 509 ss.; V. Roppo, Giustizia contrattuale e libertà economiche: verso una revisione della teoria del contratto?, in Pol. d., 2007, p. 451 ss.) ha assunto un rilievo tale da aver spinto all’elaborazione di un’apposita voce enciclopedica: v. R. Sacco, voce Giustizia contrattuale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2012, p. 534 ss. ( 42 ) M.R. Morelli, op. cit., p. 3 ss. ( 43 ) M.R. Morelli, op. cit., p. 5. ( 44 ) Le espressioni citate sono di L. Mengoni, Autonomia privata e costituzione, in Banca, borsa, tit. cred., 1997, I, p. 9, il quale conclude in merito al rapporto tra buona fede e dovere di solidarietà ex art. 2 Cost., affermando che « il contenuto assiologico della clausola della correttezza e della buona fede è sempre in grado, per chi sappia (e voglia) leggerla, di tradursi in giudizi di dover essere appropriati al caso concreto, senza bisogno di stampelle costituzionali ». Sul pensiero dell’Autore, v. L. Nivarra, Clausole generali e principi generali del diritto nel pensiero di Luigi Mengoni, in Europ. d. priv., 2007, p. 411 ss. ( 45 ) L. Mengoni, op. cit., p. 10. COMMENTI 701 ta e Settanta del secolo trascorso (46), hanno individuato nei principi costituzionali, e in particolare nel principio di solidarietà, il criterio al quale orientarsi per determinare il contenuto della « correttezza » nei rapporti obbligatori, assicurando in questo modo un più elevato grado di effettività alla clausola generale (47). In epoca attuale, nonostante il breve periodo trascorso, la giurisprudenza, sulla scorta di interventi del legislatore europeo e indirizzi dottrinali volti a mettere in luce le esigenze di tutela di fronte a condotte sleali della controparte contrattuale, sembra aver maturato una nuova consapevolezza con riguardo all’uso della clausola generale come strumento di controllo dell’autonomia privata, riscontrabile nelle innumerevoli sentenze in cui trova applicazione l’obbligo di comportamento secondo buona fede ma non viene menzionato il principio di solidarietà (48). Il mutamento degli ultimi anni induce a porsi l’interrogativo se la spinta propulsiva del processo di rivalutazione della clausola generale, operata per mezzo della norma costituzionale, debba ormai ritenersi conclusa senza che residuino ulteriori esigenze alle quali, in materie in cui sono esclusivamente in gioco interessi patrimoniali, il richiamo all’art. 2 Cost., assieme alla clausola generale della buona fede, potrebbe rispondere. In proposito, la Corte costituzionale, affermando nell’ordinanza che il principio di solidarietà costituisce un limite applicabile in via diretta (assieme alla clausola generale di buona fede) nei rapporti tra privati, esprime la necessità di rilevare il nesso funzionale tra le due norme, evidenziando che la clausola generale deve essere concretizzata nel rispetto delle istanze sociali e politiche ricavabili dal principio ( 46 ) Cfr. P. Rescigno, Introduzione al codice civile, Roma-Bari 1991, 56 ss.; F. Macario, L’autonomia privata, in Gli anni Settanta del diritto privato, a cura di L. Nivarra, Milano 2008, p. 119 ss.; F. Macario-M. Lobuono, Il diritto civile nel pensiero dei giuristi. Un itinerario storico e metodologico per l’insegnamento, Padova 2010, p. 109 ss. ( 47 ) S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano 1964, rist. 1970, p. 151 s.; A. di Majo, L’esecuzione del contratto, Milano 1967, p. 373 s. Nel senso che l’art. 2 Cost. costituisce una direttiva fondamentale per l’attuazione degli istituti civilistici nell’ambito dei rapporti tra privati, già R. Nicolò, voce Diritto civile, in Enc. dir., II, Milano 1964, p. 909. Individua nel principio di solidarietà una « direttiva costituzionale alla specificazione giudiziale dell’equità », F. Gazzoni, Equità e autonomia privata, Milano 1970, p. 391 ss. Nella prospettiva indicata, sebbene muova da riflessioni ideologicamente orientate, v. anche F. Lucarelli, Solidarietà e autonomia privata, Napoli 1970, p. 175 ss., spec. p. 197 ss. ( 48 ) Tra le sentenze recenti che applicano la clausola generale della buona fede senza richiamare il precetto costituzionale dell’art. 2 Cost. nell’ambito di diversi settori del diritto privato, cfr. Cass., sez. lav., 7 maggio 2013, n. 10568, in Mass. F. it., 2013, 349; Cass. 21 dicembre 2012, n. 23823, in Contratti, 2013, p. 553 ss., con nota di M. Della Chiesa, Inadempimento e risoluzione anticipata del contratto; Cass. 27 novembre 2012, n. 21004, in Arch. locaz., 2013, p. 163; nella giurisprudenza di merito, v. Trib. Ravenna 11 maggio 2011, in D. maritt., 2013, p. 642, con nota di T. Capurro, La rinegoziazione secondo buona fede del contratto di noleggio di nave; Trib. Bari, ord. 31 luglio 2012, in F. it., 2013, I, c. 375 ss., che fondano sulla clausola generale di buona fede l’obbligo di rinegoziare il contenuto del contratto in caso di sopravvenienze non previste dalle parti. 702 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 costituzionale (49). Per determinare il contenuto della clausola generale si dovrà però necessariamente avere riguardo agli elementi economici del singolo rapporto contrattuale (50). Peraltro, a completamento del quadro, giova ricordare che l’argomentazione presente nella motivazione non è nuova, in quanto, per mano dello stesso estensore della ordinanza, essa aveva fatto ingresso sotto forma di obiter dictum nella giurisprudenza di legittimità per dare fondamento, mediante un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 1384 c.c., alla tesi della riducibilità d’ufficio della penale (51). Le vivaci critiche rivolte alla decisione (52), che hanno preceduto quelle riservate alla sentenza sull’abuso del ( 49 ) Sul significato del principio di solidarietà, cfr., in prospettiva diacronica, F.D. Busnelli, Il principio di solidarietà e « l’attesa della povera gente », oggi, in R. trim. d. proc. civ., 2013, p. 413 ss., il quale, con riguardo all’utilizzazione del principio in materia contrattuale, sembra esprimersi in termini critici su giudizi negativi emessi da alcuni studiosi (p. 417). ( 50 ) Per questi svolgimenti, v. G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino 2004, p. 70 ss., il quale, come strumento di concretizzazione del principio generale di solidarietà sociale nell’ambito della singola fattispecie contrattuale, ricorre al concetto di « solidarietà contrattuale », che si sostanzia in un obbligo di condotta della parte che abbia in considerazione anche l’interesse dell’altro contraente. Nello stesso senso già C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale, in questa Rivista, 1983, I, p. 209. Ritiene che la concretizzazione della clausola generale debba rinnovarsi in ogni applicazione, alla luce delle esigenze di regolamentazione della singola fattispecie, S. Patti, L’interpretazione delle clausole generali, ivi, 2013, p. 274. ( 51 ) Ci si riferisce a Cass. 24 settembre 1999, n. 10511, cit. (est. M.R. Morelli) in cui i rapporti tra dovere di solidarietà e clausola generale di buona fede sono delineati in modo analogo rispetto all’ordinanza in commento, al fine di risolvere il problema esegetico dell’art. 1384 c.c., nel senso di scegliere « tra due interpretazione possibili [...] quella conforme, o più conforme a Costituzione », ossia quella secondo cui la penale è riducibile ex officio. Per una rassegna delle principali pronunce che hanno portato all’affermazione, da parte delle Sezioni unite, della riducibilità d’ufficio della penale, v., da ultimo, G. Smorto, voce Clausola penale, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2013, p. 144 ss. ( 52 ) Cfr. soprattutto G.B. Ferri, op. cit., spec. p. 8 ss., il quale contesta in particolar modo la « filosofia » eccessivamente funzionalista da cui — a parere dell’Autore — muoverebbero gli « inutili obiter dicta » di Cass. 1999/10511 ove, in definitiva, si afferma l’esistenza di un potere di intervento modificativo del giudice al fine di realizzare un « interesse oggettivo dell’ordinamento » (così l’affermazione contenuta in Cass. 23 maggio 2003, n. 8188, in D. e giur., 2004, p. 104 ss.). Un giudizio positivo è invece offerto da F. Galgano, La categoria del contratto alle soglie del terzo millennio, in Contratto e impr., 2000, p. 925 s., il quale rileva come la Suprema Corte abbia accolto una visione moderna del contratto, basata sulle concezioni oggettivistiche volte a garantire la congruità dello scambio contrattuale. In merito agli argomenti adoperati dal giudice di legittimità, cfr. anche il contributo ricco di riferimenti dottrinali di M. Grondona, Buona fede e solidarietà; giustizia contrattuale e poteri del giudice sul contratto: annotazioni a margine di un obiter dictum della Corte di cassazione, in R. d. comm., 2003, II, p. 242 ss. Nel medesimo periodo si esprime in senso contrario nei confronti di un generalizzato intervento del giudice, P. Schlesinger, L’autonomia privata e i suoi limiti, in G. it., 1999, p. 231: « in linea di principio [...] il giudice “non può mettere i piedi nel piatto” e modificare d’imperio le condizioni dello scambio, neppure quando lo faccia allo scopo di assicurare la “giustizia” sostanziale della transazione ». COMMENTI 703 diritto, inducono a ritenere che il problema avvertito in via preminente dagli studiosi, con riguardo al tema in esame, non concerne strettamente il rapporto tra principio costituzionale e clausola generale, ma la delimitazione dei poteri di intervento del giudice sul regolamento contrattuale. All’affermarsi di una tecnica interpretativa del dato normativo orientata ad indici assiologici consegue la preoccupazione che il frequente riferimento al dovere di solidarietà, o a ulteriori norme costituzionali, venga adoperato dai giudici come base argomentativa per fondare interpretazioni innovative, idonee a ridurre in maniera eccessiva l’autonomia dei contraenti (53). Di qui, l’esigenza in punto di metodo di risolvere il « problema dell’individuazione dei valori », attraverso la ricerca di criteri che consentano il controllo del procedimento interpretativo fondato su principi generali (54). 5. — Con riferimento al profilo degli effetti scaturenti dalla violazione del precetto costituzionale, la Corte, nel dichiarare la nullità della clausola le( 53 ) In proposito, i « segni del declino del metodo » (del richiamo alla norma costituzionale nell’ambito dei rapporti contrattuali) sono avvertiti da E. Navarretta, Diritto civile e diritto costituzionale, in questa Rivista, 2012, I, p. 651 s., riguardo ad un obiter dictum della menzionata sentenza sull’abuso del diritto. In effetti, in Cass. 18 settembre 2009, n. 20106, il frequente riferimento al dovere di solidarietà sembra adoperato dai giudici per fondare interpretazioni innovative, volte a consentire un intervento del giudice sul regolamento contrattuale: cfr., ad esempio, il passaggio della sentenza in cui si afferma che « Il principio della buona fede oggettiva, cioè della reciproca lealtà di condotta, deve accompagnare il contratto nel suo svolgimento, dalla formazione all’esecuzione, e, essendo espressione del dovere di solidarietà fondato sull’art. 2 Cost., impone a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio di agire nell’ottica di un bilanciamento degli interessi vicendevoli, a prescindere dall’esistenza di specifici obblighi contrattuali o di norme specifiche » e se ne trae la conseguenza che « Il criterio della buona fede costituisce, quindi, uno strumento, per il giudice, finalizzato al controllo — anche in senso modificativo o integrativo — dello statuto negoziale; e ciò quale garanzia di contemperamento degli opposti interessi ». Sulla stessa linea, v. Cass. 1o aprile 2011, n. 7557, in G. it., 2012, p. 543 ss., la quale, nel valutare se un contratto atipico sia diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela, utilizza come parametro le norme costituzionali per verificare l’equilibrio tra le prestazioni contrattuali. Sulla pronuncia, v. A.M. Garofalo, La causa del contratto tra meritevolezza degli interessi ed equilibrio dello scambio, in questa Rivista, 2012, II, p. 606 ss. ( 54 ) Cfr. N. Lipari, Valori costituzionali e procedimento interpretativo, in R. trim. d. proc. civ., 2003, p. 865 ss., il quale, posto che i principi costituzionali, utilizzati dai giudici ordinari, si sostanziano in « criteri-forza cui ancorare, in chiave di valore, la soluzione concreta dei conflitti » descrive due criteri « per una corretta individuazione dei valori »: il criterio della « totalità », secondo cui l’interprete deve considerare l’esperienza giuridica nella sua globalità, e quello della « cronologia critica », in base al quale è necessario avere presente il contesto storico di riferimento. Afferma che il nesso tra diritto privato e Costituzione si risolve in una « costruzione mentale dei giuristi », P. Barcellona, Lo spirito dei tempi, in Contratto e Costituzione in Europa, a cura di G. Vettori, Padova 2006, p. 37. Sull’utilizzazione dei principi come base per un’interpretazione evolutiva del diritto, già J. Esser, Grundsatz und Norm in der richterlichen Fortbildung des Privatrechts, Tübingen 1956, p. 242 ss., secondo cui il principio nasce nella prassi e la dottrina ha il compito di dargli forma (p. 248). 704 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 siva del dovere di solidarietà e del canone della buona fede, non si è soffermata sui rapporti tra regole di validità e regole di comportamento. Sul punto, con un noto intervento a Sezioni unite, la Suprema Corte, aderendo all’indirizzo tradizionalmente accolto in dottrina, ha affermato che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, soltanto la violazione di norme inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità « e non già la violazione di norme, anch’esse imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti la quale può essere fonte di responsabilità » (55). Con tutta probabilità il riferimento al regime della nullità è preordinato alla invalidazione (totale o parziale) della caparra in contrasto con il precetto costituzionale (56). L’orientamento appare rivolto al raggiungimento del medesimo risultato ottenibile in materia di clausola penale ex art. 1384 c.c. per il tramite di norme di carattere generale e, posto che sul piano dogmatico, diversamente — come si vedrà a breve — da quanto avviene nell’esperienza giuridica tedesca, la violazione della clausola generale di buona fede rileva soltanto sotto il profilo della responsabilità, il ricorso al regime della nullità si rende necessario per espungere dal contratto la clausola considerata iniqua e in contrasto con il dovere di solidarietà (o parte di essa, come sembra potersi ricavare dall’ordinanza in commento). La soluzione che emerge dalla ordinanza della Corte costituzionale in tema di caparra si discosta così da quella generalmente accolta per la clausola che preveda una penale di ammontare eccessivo, considerata valida sia dalla giurisprudenza che dalla dottrina, ancorché la penale sia soggetta a riduzione (57). ( 55 ) Cass., sez. un., 19 dicembre 2007, n. 26725, in Rep F. it., 2008, voce Intermediazione finanziaria, n. 200, e n. 26724, in F. it., 2008, I, c. 784, con nota di E. Scoditti, La violazione delle regole di comportamento dell’intermediario finanziario e le sezioni unite. Sulle pronunce, v. C. Scognamiglio, Regole di validità e di comportamento: i principi ed i rimedi, in Europ. d. priv., 2008, p. 599 ss., il quale rileva che la soluzione « tradizionale » accolta dalla Suprema Corte corrisponde all’impostazione di L. Mengoni, op. cit., p. 9: « In nessun caso comunque, secondo la dogmatica del nostro codice civile, la violazione del dovere di buona fede è causa di invalidità del contratto, ma solo fonte di responsabilità per i danni ». ( 56 ) Argomentazioni analoghe a quelle presenti nell’ordinanza in commento si trovano in M.R. Morelli, op. cit., p. 11 ss., secondo cui il precetto costituzionale consente di « attribuire alla clausola di correttezza anche la vis imperativa del precetto costituzionale, con la conseguenza che l’introduzione nello statuto negoziale di regole contrastanti con la buona fede va ad integrare la violazione di norme imperative sanzionate di nullità dall’art. 1418 c.c. ». ( 57 ) Cass., sez. un., 13 settembre 2005, n. 18128, cit.; Cass. 23 maggio 1985, n. 3120, in Rep. F. it., 1985, voce Contratto in genere, n. 195; App. Milano 23 luglio 2004, in Contratti, 2005, p. 1113 ss., con nota di A. Maniàci, Clausola penale eccessiva: « inefficacia » o riducibilità?. In dottrina, sulla stessa linea, v., tra gli altri, V.M. Trimarchi, La clausola penale, Milano 1954, p. 136; A. Zoppini, La pena contrattuale, cit., p. 245 ss.; G. Bonilini, Sulla legittimazione attiva alla riduzione della penale, cit., p. 124; contra, nel senso che la penale eccessiva deve considerarsi nulla: T. Febbrajo, La riducibilità d’ufficio della penale manifestamente eccessiva, in Rass. d. civ., 2001, p. 612 ss.; D. Russo, Il patto penale tra funzione novativa e principio di equità, Napoli 2010, p. 196 ss. COMMENTI 705 Allo scopo di comprendere le difficoltà che potrebbero incontrare i giudici nell’applicare il tipo di controllo prospettato dalla Corte costituzionale — che sembra dar vita ad una riduzione del risarcimento determinato in via forfetaria posta in essere « sulla base di clausole generali » —, è opportuno esaminare una soluzione di recente adottata dal Bundesgerichtshof (BGH), che ha spesso affrontato problemi connessi alla clausola penale adoperando la clausola generale di buona fede (Gebot von Treu und Glauben, ai sensi del § 242 BGB). Sotto il profilo dogmatico, nell’ordinamento tedesco la violazione della clausola generale può produrre effetti più ampi rispetto a quelli che da un comportamento scorretto possono scaturire nell’esperienza giuridica italiana e, financo, determinare l’inefficacia di una clausola contrattuale. In un caso che ha suscitato notevole interesse in dottrina, il BGH, posto di fronte ad una penale di ammontare eccessivo contenuta in un contratto tra imprenditori (Kaufleute) — la quale, ai sensi del § 348 dell’Handelsgesetzbuch (HGB), non è soggetta al potere di riduzione del giudice previsto dal § 343 del Bürgerliches Gesetzbuch (BGB) —, ha affermato la riducibilità dell’ammontare direttamente sulla base della clausola generale del § 242 BGB (58). Nell’occasione, i giudici tedeschi hanno chiarito che il controllo della penale operato attraverso la clausola generale di buona fede, pur basandosi sui medesimi criteri elaborati dalla giurisprudenza nell’applicazione della norma sulla riducibilità della penale, è meno incisivo rispetto a quello attuato in forza di quest’ultima disposizione. Infatti, il punto di riferimento di una penale rispettosa del canone della buona fede consiste nel doppio dell’ammontare che sarebbe considerato congruo in seguito all’esercizio del potere di riduzione del giudice. Ove la penale superi tale limite, il giudice deve ridurre l’ammontare in base alla clausola generale (59). Le critiche mosse nei confronti della sentenza del BGH attengono, in sin( 58 ) Si tratta del noto caso « Kinderwärmekissen »: BGH 17.7.2008-I ZR 168/ 05(Hamburg), in NJW, 2009, p. 1882 ss. Nella specie, la penale era collegata a singole violazioni di un’obbligazione negativa di astenersi dal distribuire in un settore del mercato un determinato tipo di cuscini per bambini. Il soggetto obbligato ha venduto 7000 cuscini, ed incorrendo in altrettante violazioni idonee a determinare gli effetti della clausola penale, era tenuto a corrispondere circa P 53 milioni a titolo di penale. Il creditore, consapevole dell’eccessività dell’ammontare e per evitare in caso di soccombenza di dover sostenere elevati costi processuali, ha agito in giudizio soltanto per una parte ridotta della somma (P 1 milione), ulteriormente diminuita dal BGH, in base alla clausola generale di buona fede, a P 200.000,00. ( 59 ) In altre ipotesi, è stato precisato che il comportamento contrario a buona fede, definito « rechtsmissbräuchlich » dai giudici tedeschi, può sostanziarsi nell’aver indotto il debitore alla condotta inadempiente che ha determinato gli effetti della clausola penale: BGH 1.6.1983-I ZR 78/81(Celle), in NJW, 1984, p. 919 ss.; BGH 23.3.1971-VI ZR 199/ 69(Hamm), in NJW, p. 1971 ss., 1126, dove si legge « Ist der Schuldner durch das Verhalten des Gläubigers veranlaßt worden, vertragswidrig zu handeln, so steht der Geltendmachung derVertragsstrafedurch den Gläubiger der Einwand des Rechtsmißbrauchs entgegen »; o nel pretendere il pagamento della penale a fronte di un inadempimento di lieve entità: BGH 23.1.1991 - VIII ZR 42/90 (Koblenz), in NJW-RR, 1991, p. 568. 706 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 tesi, a due profili: in primo luogo, si è rilevato che il potere di riduzione della penale ha natura eccezionale e che ai giudici non sarebbe concesso aggirare il § 348 HGB, sulla base della clausola generale; in secondo luogo — e ciò interessa più da vicino l’interpretazione offerta dalla Corte costituzionale — si contesta la scelta del tutto arbitraria di definire una misura specifica di penale « congrua » in base alla clausola generale di buona fede (nella specie, come detto, un ammontare pari al doppio di quello che risulterebbe dall’applicazione della norma sulla riduzione della penale) (60). Sul punto, evidentemente, l’esigenza avvertita dai giudici tedeschi, attraverso l’indicazione di un parametro preciso, era quella di garantire certezza per le future applicazioni. Quest’ultimo aspetto induce a riflettere sulla soluzione privilegiata dalla Consulta, poiché l’ordinanza non indica elementi precisi per stabilire quando la pattuizione debba ritenersi nulla per contrarietà al dovere di solidarietà « in combinato contesto » con la clausola generale di buona fede. La questione ovviamente non attiene soltanto alla caparra di ammontare eccessivo, in quanto, alla luce del tenore dei passaggi salienti della motivazione, il principio affermato sembra applicabile a qualsiasi tipo di contratto. Per quanto concerne il problema della caparra di ammontare eccessivo, al fine di garantire maggiore certezza in ordine alle modalità di controllo, si ritiene preferibile qualificare la pattuizione in termini di clausola penale alla stregua di quanto visto supra, n. 3, in modo da consentire l’applicazione dell’art. 1384 c.c., norma specificamente preordinata al controllo giudiziale delle clausole di forfetizzazione anticipata del danno e anch’essa espressione del dovere di solidarietà nei rapporti tra privati. Nel valutare la caparra, il giudice potrebbe così servirsi dei precedenti giurisprudenziali sul controllo della clausola penale, come, ad esempio, quelli recenti relativi al momento in cui compiere la valutazione e al parametro di riferimento in tema di manifesta eccessività (61). Non si vuole affermare che il ricorso al criterio ermeneutico proposto as( 60 ) Cfr. V. Rieble, sub § 343 BGB, in J. von Staudingers Kommentar zum Bürgerlichen Gesetzbuch, cit., p. 499 ss., Rn. 154 ss.; W.F. Lindacher, in JR, 2009, p. 336 s., il quale ritiene che, sotto il profilo dogmatico, il BGH avrebbe dovuto adoperare l’istituto della nullità per contrarietà al buon costume ex § 138 BGB. ( 61 ) Per ciò che riguarda specifiche questioni applicative concernenti l’art. 1384 c.c., Cass. 6 dicembre 2012, n. 21994, in F. it., 2013, I, c. 1205 ss., con osservazioni di A. Palmieri, Art. 1384 c.c. e sopravvenienze: ulteriore arretramento della funzione sanzionatoria della clausola penale, ha affermato che per stabilire se la penale sia manifestamente eccessiva, la valutazione dell’interesse del creditore all’adempimento non può prescindere dalle circostanze manifestatesi durante lo svolgimento del rapporto. Ritiene che, nell’esercitare il potere di riduzione ex art. 1384 c.c., il giudice deve utilizzare un criterio oggettivo, nel senso che deve tener conto non già della posizione soggettiva del debitore e del riflesso che la penale può avere sul suo patrimonio, ma soltanto dello squilibrio tra le posizioni delle parti, essendo altresì irrilevante l’indagine sul pubblico interesse che dovrebbe giustificare la riduzione dell’ammontare convenuto, Cass. 10 maggio 2012, n. 7180, in Giust. civ., 2012, I, p. 2336 ss. COMMENTI 707 sicuri, in ogni caso, un risultato migliore rispetto a quello ottenibile mediante l’applicazione della clausola generale, posto che anche il processo di qualificazione o tipizzazione del giudice implica un ampio margine di discrezionalità, paragonabile a quello relativo alla concretizzazione delle clausole generali (62). Tuttavia, all’utilizzo della norma sulla riduzione, predisposta dal legislatore per il controllo giudiziale di una clausola di liquidazione anticipata del danno, consegue certamente il non trascurabile vantaggio di poter usufruire del bagaglio di esperienza maturato in materia di clausola penale. Atteso che la caparra confirmatoria trova sovente ingresso nel campo delle vendite immobiliari, nell’odierno periodo di crisi economica, oltre ad esigenze di giustizia, si avvertono esigenze di certezza, da soddisfare con indicazioni sicure per la pratica degli affari. ( 62 ) Così G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., p. 56 s., riprendendo la nota opinione di R. Sacco, Autonomia privata e tipi, in R. trim. d. proc. civ., 1966, p. 800. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA Bianca Checchini Assegnista di ricerca ANONIMATO MATERNO E DIRITTO DELL’ADOTTATO ALLA CONOSCENZA DELLE PROPRIE ORIGINI Sommario: 1. Introduzione. — 2. La disciplina dell’accesso alle informazioni dell’adottato e il parto anonimo tra legge sull’adozione, Ordinamento dello stato civile e Codice della Privacy. — 3. Le argomentazioni della Consulta: verso la configurazione di una autonoma situazione giuridica soggettiva. — 4. L’« ininfluenza » della Corte di Strasburgo versus la diversificazione delle informazioni per l’adottato. — 5. Riflessioni conclusive. 1. — Una recente decisione della Corte costituzionale (1) sembrerebbe aver posto fine al delicato problema circa gli effetti della scelta di non essere nominata nella dichiarazione di nascita (2) effettuata dalla partoriente al mo( 1 ) Corte cost. 18 novembre 2013, n. 278 (in Gazz. Uff., 27 novembre, n. 48), in Nuova g. civ. comm., 2014, I, p. 285 ss. con nota di commento di V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze e di J. Long, Adozione e segreti: costituzionalmente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto; nonché in Fam. e d., 2014, p. 11 ss. con nota di V. Carbone, Un passo avanti del diritto del figlio, abbandonato e adottato, di conoscere le sue origini rispetto all’anonimato materno; in Guida al dir., 2013, n. 49-50, p. 20 ss., con nota di G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato; in F. it., 2014, I, c. 4 ss., con nota di G. Casaburi, Il parto anonimo dalla ruota degli esposti al diritto alla conoscenza delle origini. Con tale pronuncia additiva di principio, la Corte ha stabilito che « È costituzionalmente illegittimo l’art. 28, comma 7, della legge 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede — attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza — la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione ». ( 2 ) Art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396 (in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff., 30 dicembre, n. 303), - Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’Ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della legge 15 maggio 1997, n. 127. Per un commento, cfr. diffusamente, P. Stanzione, Il nuovo ordinamento dello stato civile, Milano 2001; S. Arena, Le nuove procedure dello stato civile, Minerbio (BO), 2002. A seguito della l. 10 dicembre 2012 n. 219, Disposizioni in materia di riconoscimento del figlio naturale, e dell’entrata in vigore del d. legisl. 28 dicembre 2013, n. 154 (in Gazz. Uff., 8 gennaio 2014, n. 5), Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell’articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219, si attendono le modifiche alla disciplina regolamentare in materia di ordinamento dello stato civile che dovrebbe essere attuate entro sei mesi dall’entrata in vigore della normativa delegata, come illustrato anche dalla Circolare 27 dicembre 2012, n. 33, cfr., G. Casaburi, Il completamento della riforma della filiazione,(d. leg. 28 dicembre 2013 n. 154), in F. it., 2014, V, c. 1 ss. 710 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 mento del parto, allorquando il figlio adottato sia divenuto adulto e richieda informazioni sulle proprie origini genetiche e familiari. Con una pronuncia additiva di principio, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7o, della l. 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo modificato dall’art. 177, comma 2o, del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali), nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza, la possibilità per il giudice di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, su richiesta del figlio, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione. L’attenzione dell’interprete e del legislatore nazionale deve, quindi, volgersi ad una rinnovata disciplina del parto anonimo nell’ipotesi in cui il nato da genitori ignoti, poi adottato e divenuto ultra venticinquenne, chieda informazioni sulle proprie origini e l’identità dei genitori biologici, attraverso un delicato processo di armonizzazione di principi e di diritti che sorreggono da un lato, la ratio della disciplina sul parto anonimo e, dall’altro, la tutela del diritto all’identità personale dell’individuo. Prima di detta pronuncia, e nonostante la precedente condanna proprio per tale lacuna normativa all’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (3), la disciplina applicabile all’ipotesi testé descritta non consentiva all’adottato di età maggiore dei venticinque anni di accedere alle informazioni genetiche e familiari della propria madre biologica che avesse optato al momento del parto per l’anonimato, stante il generale divieto opposto dal comma 7o dell’art. 28 l. adozione; divieto ribadito anche dall’art. 93 del c.d. Codice della Privacy nella parte in cui consente il rilascio dei documenti (4) identificativi della partoriente che abbia scelto l’anonimato al momento del parto solo decorsi cento anni dalla formazione del documento (5). L’unica strada percorribile per l’adottato ultra venticinquenne che desideri conoscere l’identità della madre biologica, stante il combinato disposto delle disposizioni richiamate, potrebbe essere, a questo punto, l’improbabile decorso temporale di cento anni tra la formazione del documento identificati( 3 ) Corte eur. dir. uomo 25 settembre 2012, ric. n. 33783/09 (Godelli c. Italia), cit. infra sub 4, e nt. 42. ( 4 ) Si tratta della cartella clinica e del certificato di assistenza al parto ex art. 93 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196, (in Suppl. ordinario n. 123 alla Gazz. Uff., 29 luglio, n. 174), Codice in materia di protezione dei dati personali. ( 5 ) La giurisprudenza amministrativa per tale profilo è ondivaga: così esclude l’accesso ai documenti identificativi, Cons. St., sez. IV, 17 giugno 2003, n. 3402, in Fam. e d., 2004, p. 74 ss. con nota di S. Merello, Diritto di accesso ai documenti amministrativi e diritto della madre al segreto della propria identità; lo consente purché non sia indentificata la madre, Cons. St., sez. V, 17 settembre 2010, n. 6960, in Dejure; lo ammette estensivamente per le informazioni genetiche, sanitarie e identificative della madre in ragione del diritto alla salute, Trib. Min. Perugia 4 dicembre 2001, in Rass. giur. umbra, 2002, p. 417 ss. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 711 vo della partoriente e la « curiosità qualificata » del figlio, divenuto, nel frattempo, a tutti gli effetti, figlio di altri genitori adottivi (6). La scelta dell’anonimato al momento del parto, quindi, in uno con il perfezionamento del procedimento di adozione legittimante, dettava l’irreversibilità definitiva del ripudio della genitorialità da parte della madre biologica e la preclusione per il nato del diritto di conoscere le proprie origini (rectius, l’identità della madre biologica), quale tassello fondamentale del diritto all’identità personale (7). La pronuncia della Consulta, per altro da più voci auspicata ed attesa (8), offre lo spunto per una ricostruzione degli istituti e dei diritti sottesi, che apre l’orizzonte a nuovi scenari giuridicamente significativi in una materia molto delicata anche sotto il profilo umano. 2. — Preliminare ed opportuna è la ricostruzione della cornice normativa che regola l’accesso dell’adottato alle informazioni sulle origini genetiche e familiari nel caso di parto anonimo della madre, che ci riporta ad una riflessione sulla ratio dei diversi istituti giuridici coinvolti (9), tra legge sull’adozione ( 6 ) L’art. 93 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 prevede « 1. Ai fini della dichiarazione di nascita il certificato di assistenza al parto è sempre sostituito da una semplice attestazione contenente i soli dati richiesti nei registri di nascita. Si osservano, altresì, le disposizioni dell’art. 109. 2. Il certificato di assistenza al parto o la cartella clinica, ove comprensivi dei dati personali che rendono identificabile la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata avvalendosi della facoltà di cui all’art. 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396, possono essere rilasciati in copia integrale a chi vi abbia interesse, in conformità alla legge, decorsi cento anni dalla formazione del documento. 3. Durante il periodo di cui al comma 2 la richiesta di accesso al certificato o alla cartella può essere accolta relativamente ai dati relativi alla madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, osservando le opportune cautele per evitare che quest’ultima sia identificabile ». Per un commento v. G. Casiraghi, in Codice della Privacy, Commento al Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196 aggiornato con le più recenti modifiche legislative, Milano, I, 2004, p. 1309 ss.; C.M. Bianca, in La protezione dei dati personali. Commentario al d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice della privacy) a cura di C.M. Bianca e F.D. Busnelli, II, Padova 2007, sub art. 93, p. 1392. ( 7 ) M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, c. 1768 ss. (ivi, p. 1769), ma altresì in tono dubitativo (ivi, p. 1773). ( 8 ) G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 544 ss.; F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente, in Fam. e d., 2006, p. 130; J. Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini: costituzionalmente legittimi i limiti nel caso di parto anonimo, in Nuova g. civ. comm., I, p. 549 ss.; D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Quad. cost., 2012. ( 9 ) In dottrina, S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, in Parte generale e persone, nel Liber amicorum per Dieter Henrich, I, Torino 2012, p. 172 ss.; M. Mantovani, Il primato della maternità nell’accertamento dello status di figlio, ivi, p. 138 712 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 legittimante, disciplina del parto anonimo e diritto di accesso ai documenti (10). Punto di partenza di questa ricostruzione e, per ora, di arrivo dell’evoluzione legislativa sul punto, è la stessa disposizione censurata dalla Corte costituzionale, cioè il comma 7o dell’art. 28 della c.d. legge sull’adozione (11), che si inserisce in un contesto normativo di più ampia portata volto a disciplinare il tema dei rapporti tra il minore adottato con adozione legittimante e la sua famiglia di origine (12). ss; L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 229 ss.; A. Renda, L’accertamento della maternità. Profili sistematici e prospettive evolutive, Torino 2008; D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, cit. ( 10 ) Ampiamente, L. Lenti, Adozione e Segreti, op. cit., p. 242; come è noto il diritto di accesso agli atti amministrativi e la relativa procedura così come quella per impugnare il rifiuto è contenuta nella l. 7 agosto 1990, n. 241 (in Gazz. Uff., 18 agosto, n. 192), Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi. ( 11 ) Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini è previsto e disciplinato dalla c.d. legge sull’adozione (l. 4 maggio 1983, n. 184) modificata una prima volta dalla l. 28 marzo 2001, n. 149. Cfr. E. Palmerini, Commento all’art. 24, commi 4-8, in Nuove l. civ. comm., 2002, p. 1016 ss.; nonché L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 229 ss. L’art. 28, comma 7o, censurato dalla Consulta è stato quindi ulteriormente modificato dall’art. 177 d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali). L. Fadiga, L’adozione legittimante, Il diritto di sapere, nel Tratt. Zatti, Milano 2012, II, p. 934 ss.; M.R. Marella, Il diritto dell’adottato a conoscere le proprie origini biologiche. Contenuti e prospettive, in G. it., 2001, c. 1768; G. Lisella, Ragioni dei genitori adottivi, esigenze di anonimato dei procreatori e accesso alle informazioni sulle origini biologiche dell’adottato nell’esegesi del nuovo testo dell’art. 28 l. 4 maggio 1983, n. 184, in Rass. d. civ., 2004, p. 413 ss. Il diritto all’identità personale ed alla ricerca delle proprie origini è tutelato da disposizioni di diritto internazionale pattizio ed in particolare gli artt. 7 e 8 della Convenzione di New York del 20 novembre 1989 ratificata con l. 27 maggio 1991, n. 176 (ratifica ed esecuzione della convenzione sui diritti del fanciullo, New York 20 novembre 1989) e dall’art. 30 della Convenzione de L’Aja del 29 maggio 1993, ratificata con l. 31 dicembre 1998, n. 476, Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale; per un commento a tale ultimo citato provvedimento si v. P. Morozzo della Rocca, voce Adozione internazionale, nel Dig. disc. priv. - sez. civ. Agg., Torino 2000, p. 26 ss.; M. Dogliotti, Genitorialità biologica, genitorialità sociale, segreto sulle origini dell’adottato, in Fam. e d., 1999, p. 406 ss. ( 12 ) Art. 28. 1. Il minore adottato è informato di tale sua condizione ed i genitori adottivi vi provvedono nei modi e termini che essi ritengono più opportuni. 2. Qualunque attestazione di stato civile riferita all’adottato deve essere rilasciata con la sola indicazione del nuovo cognome e con l’esclusione di qualsiasi riferimento alla paternità e alla maternità del minore e dell’annotazione di cui all’articolo 26, comma 4. 3. L’ufficiale di stato civile, l’ufficiale di anagrafe e qualsiasi altro ente pubblico o privato, autorità o pubblico ufficio debbono rifiutarsi di fornire notizie, informazioni, certificazioni, estratti o copie dai quali possa comunque risultare il rapporto di adozione, salvo autorizzazione espressa dell’autorità giudiziaria. Non è necessaria l’autorizzazione qualora la richiesta provenga dall’ufficiale di stato civile, per verificare se sussistano impedimenti matrimoniali. 4. Le informazioni concernenti l’identità dei genitori biologici possono essere fornite ai genitori adottivi, quali CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 713 Come è noto, l’opzione di fondo da cui muoveva il legislatore in merito all’adozione legittimante era quella di configurare per l’adottato, attraverso una sorta di fictio juris, una nuova famiglia da sostituire in toto a quella di origine per cui era imprescindibile non solo recidere qualsiasi legame giuridico e biologico del minore con la famiglia d’origine, ma segretare qualsivoglia informazione circa l’identità dei genitori biologici. Senza alcuna pretesa di esaustività (13), è interessante ricordare che la dottrina e finanche la giurisprudenza costituzionale erano pressoché concordi nel sostenere tale scelta con l’obiettivo principale di preservare la serenità del minore e dei nuovi genitori adottivi da possibili interferenze esterne dei genitori biologici nella convinzione che il rapporto di filiazione, — e quindi anche quello adottivo per il principio della imitatio naturae — , dovesse fondarsi sul carattere di esclusività del modello genitoriale. In seguito, solo nel 2001 (14) la l. n. 149, innovando l’art. 28 della l. 4 maggio 1983, n. 184 ha riconosciuto il diritto di accesso alle informazioni dell’adottato attraverso una disciplina equilibrata in relazione ai « molteplici esercenti la responsabilità genitoriale, su autorizzazione del tribunale per i minorenni, solo se sussistono gravi e comprovati motivi. Il tribunale accerta che l’informazione sia preceduta e accompagnata da adeguata preparazione e assistenza del minore. Le informazioni possono essere fornite anche al responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore. 5. L’adottato, raggiunta l’età di venticinque anni, può accedere a informazioni che riguardano la sua origine e l’identità dei propri genitori biologici. Può farlo anche raggiunta la maggiore età, se sussistono gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psico-fisica. L’istanza deve essere presentata al tribunale per i minorenni del luogo di residenza. 6. Il tribunale per i minorenni procede all’audizione delle persone di cui ritenga opportuno l’ascolto; assume tutte le informazioni di carattere sociale e psicologico, al fine di valutare che l’accesso alle notizie di cui al comma 5 non comporti grave turbamento all’equilibrio psico-fisico del richiedente. Definita l’istruttoria, il tribunale per i minorenni autorizza con decreto l’accesso alle notizie richieste. 7. L’accesso alle informazioni non è consentito nei confronti della madre che abbia dichiarato alla nascita di non volere essere nominata ai sensi dell’articolo 30, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 3 novembre 2000, n. 396. 8. Fatto salvo quanto previsto dai commi precedenti, l’autorizzazione non è richiesta per l’adottato maggiore di età quando i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili. ( 13 ) Si rinvia per gli approfondimenti a C. Restivo, L’art. 28 L. ad. tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, in Familia, 2002, I, p. 691 ss; A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, Adozione e affidamento dei minori. Commento alla nuova disciplina (l. 28 marzo 2001, n. 149 e d.l. 24 aprile 2001, n. 150), Milano 2001; M. Dogliotti, Commento alla l. 28 marzo 2001, n. 149, in Fam. e d., 2001, p. 247 ss.; C.M. Bianca, La revisione normativa dell’adozione, in Familia, 2001, p. 525. V. anche G. Cattaneo, voce Adozione, in Dig. disc. priv. - sez. civ., I, Torino 1987, p. 94 ss.; M.R. Marella, voce Adozione, in Dig. disc. priv. - sez. civ., Agg., Torino 2000, pp. 18-22; P. Morozzo Della Rocca, Adozione « plena, minus plena » e tutela delle radici del minore, in R. crit. d. priv., 1996, p. 683 ss. ( 14 ) L. 28 marzo 2001, n. 149 (in Gazz. Uff., 26 aprile, n. 96), Modifiche alla legge 4 maggio 1983, n. 184, recante « Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori », nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile. 714 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 interessi coinvolti » (15); in primis si è stabilito il diritto dell’adottato di essere informato di tale sua condizione ed il correlativo obbligo/dovere dei genitori adottivi di informarlo (16), se pure nei tempi e modi ritenuti più opportuni, nonché, per quel che qui rileva, il diritto dell’adottato che abbia raggiunto il venticinquesimo anno di età di accedere alle informazioni che riguardano le proprie origini e l’identità dei propri genitori biologici (a prescindere dall’esistenza di gravi e comprovati motivi attinenti alla sua salute psicofisica) e sempre previa autorizzazione del Tribunale (17) (18). Con una nuova norma, del 2003 (19), il diritto dell’adottato alle informazioni viene addirittura escluso allorquando la preventiva decisione della partoriente di rimanere anonima precluda irreversibilmente e senza eccezioni la conoscibilità del rapporto genitoriale ex latere matre. Tale divieto posto al comma 7o dell’art. 28, così come sostituito dall’art. 177 del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196, infatti, non pone alcuna distinzione a seconda che la richiesta di informazioni provenga dall’adottato ultra venticinquenne ovvero dall’adottato maggiore di diciotto anni ma minore di venticinque, ovvero dai genitori adottivi ovvero ancora dal responsabile della struttura ospedaliera o del presidio medico nei casi consentiti (20). È un divieto assoluto e trasversale che opera comunque allorquando la partoriente si sia avvalsa della facoltà di non essere nominata nella dichiarazione di nascita (21). Insomma, nella legge sull’adozione l’accesso alle informazioni indicate in via generale, — senza alcuna distinzione tra quelle identificative o non della madre biologica —, è dapprima riconosciuto ma modulato in relazione al( 15 ) L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori, cit., p. 164. ( 16 ) M. Dogliotti, Commento alla l. 28 marzo 2001, n. 149, cit., p. 250, per il quale si tratta di una « previsione dunque sostanzialmente inutile, se neppure si indica un obbligo (ancorché non sanzionato) dei genitori adottivi ». Oltre alle ipotesi menzionate nel testo, per completezza, si rammenta la facoltà per i genitori adottivi finché il figlio è minore di adire il Tribunale per i minorenni al fine di accedere alle informazioni sull’identità dei genitori biologici che possono essere autorizzate « solo per gravi e comprovanti motivi »; ovvero per il figlio adottivo maggiorenne solo per gravi e comprovati motivi attinenti la sua salute psicofisica; per il responsabile di una struttura ospedaliera o di un presidio sanitario, ove ricorrano i presupposti della necessità e della urgenza e vi sia grave pericolo per la salute del minore. ( 17 ) Per tale tesi si v. ampiamente, C. Restivo, L’art. 28 l. ad. tra nuovo modello di adozione e diritto all’identità personale, op. cit., p. 706 ss.; contra, L. Lenti, Adozione e Segreti, op. cit., p. 250 ss. ( 18 ) Certamente nel caso in cui l’adottato sia maggiore di età e i genitori adottivi sono deceduti o divenuti irreperibili (comma 8o, art. 28 l. adoz.). ( 19 ) Comma sostituito dall’art. 177 del d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196. ( 20 ) Il divieto permane anche nell’ipotesi di morte e irreperibilità dei genitori adottivi stante l’inciso del comma 8o dell’art. 28 che fa salve le disposizioni precedenti. ( 21 ) È appena il caso di ricordare che tale facoltà non è consentita nel caso di p.m.a., art. 9 l. n. 40/2004. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 715 l’età, alle motivazioni e al controllo giudiziale e poi addirittura vietato in ragione della scelta dell’anonimato da parte della madre biologica. Questa scelta, come è noto, rappresenta una peculiarità dell’ordinamento italiano (22), riconosciuto incidenter tantum da una disposizione dell’Ordinamento dello stato civile, laddove si prevede che la dichiarazione di nascita sia resa da uno dei genitori, da un procuratore speciale, ovvero dal medico o dalla ostetrica o da altra persona che ha assistito al parto, rispettando l’eventuale volontà della madre di non essere nominata (23), sia essa coniugata o non coniugata (24). Si dice che la ratio sottesa a tale facoltà sarebbe coerente con l’ordinamento costituzionale italiano, tra tutela del diritto alla salute (art. 32 Cost.) e protezione della maternità (art. 31, comma 2o, Cost.), ma si deve purtroppo rilevare come la disciplina sul parto anonimo sia alquanto frammentaria, essendo affidata in parte all’Ordinamento dello stato civile (25), in parte al c.d. Codice della privacy nonché ad altri provvedimenti, quali circolari e decreti ministeriali. Lo stesso art. 30 d.p.r. n. 396/2000, mentre da un lato fa salva la volontà della partoriente di non essere nominata dalle persone legittimate alla dichiarazione di nascita (denuncia prodromica alla formazione dell’atto di nascita ad opera dell’Ufficiale di stato civile (26)), dall’altro, prevede — in via generale — senza distinguere tra parto anonimo o non — che tale dichiarazione debba essere corredata da una attestazione di avvenuta nascita contenente le generalità della puerpera (nonché le indicazioni del comune, ospedale, casa di cura o altro luogo ove è avvenuta la nascita, del giorno e dell’ora della nascita e del sesso del bambino) (27). Dunque, ad una prima lettura sembra che l’attestazione di nascita debba sempre contenere le generalità della partoriente. Ma le circolari ministeriali lasciano permanere il dubbio di come debba ( 22 ) Su cui ampiamente, S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, op. cit., p. 172 ss., il quale ricorda come la soluzione prevalente nei sistemi giuridici europei escluda la possibilità della scelta dell’anonimato materno al momento del parto, mentre ad oggi l’opposta regola italiana è vigente solo in Francia e Lussemburgo (ivi, nt. 11). ( 23 ) Art. 30, comma 1o, d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396. Cfr., G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato, cit., per il quale tale facoltà rappresenta una sorta di « accordo » tra la madre e lo Stato. ( 24 ) Corte cost. 5 maggio 1994, n. 171, in Fam. e d., 1994, p. 493, con nota di G. Sciancalepore; secondo la Corte, se pure affermato come obiter dictum, « qualunque donna ancorché da elementi informali risulti trattarsi di donna coniugata, può dichiarare di non voler essere nominata nell’atto di nascita ». Diffusamente, A. Renda, L’accertamento della maternità, cit. ( 25 ) F. Coscia, Status di filiazione e diritto della madre a non essere nominata ex art. 30 Regolamento dello stato civile 2000/396, in Stato civile italiano, 2006, p. 341 ss. ( 26 ) Nel caso del parto anonimo, l’atto di nascita non potrà contenere le generalità della partoriente, anche se l’adottato potrebbe comunque chiedere un estratto del medesimo ex art. 177, comma 3o, Codice della Privacy. ( 27 ) Rispettivamente al 1o ed al 2o comma dell’art. 30 d.p.r. 3 novembre 2000, n. 396. 716 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 essere compilata tale attestazione di avvenuta nascita in caso di parto anonimo, cioè se essa debba o non debba identificare la partoriente, e quindi a monte fornire elementi circa la scelta dell’anonimato. Anche la dottrina è divisa tra coloro che fanno prevalere il dato testuale del comma 2o dell’art. 30, per il quale in ogni caso l’attestazione di avvenuta nascita deve contenere le generalità della partoriente (28), e quanti invece preferiscono preservare la riservatezza della partoriente nell’attestazione di avvenuta nascita, omettendo qualsiasi riferimento volto a renderla individuabile (29). La questione andrebbe forse risolta tenendo conto della ratio cui è ispirata la previsione che facoltizza la partoriente all’anonimato. Per quanto non sia questa la sede appropriata per un approfondimento, si può sostenere che se l’interesse considerato con l’anonimato è la tutela della salute della madre e del neonato al momento del parto, il personale sanitario che compila l’attestazione di avvenuta nascita non possa fare ivi menzione dell’identità della partoriente, pur risultando essa documentata, aliunde, in cartella clinica (30). ( 28 ) A. Renda, L’accertamento della maternità, op. cit., p. 150, nt. 79, per il quale testualmente tale soluzione è sorretta dalla circolare del Ministero di Grazia e Giustizia 22 febbraio 1999, n. 1/150 (Regolamento di attuazione sulla semplificazione delle certificazioni amministrative) che nell’interpretare la nozione dei « soli dati richiesti nei registri di nascita » riferita all’art. 8, comma 2o, d.p.r. 20 ottobre 1998, n. 403 all’attestazione di nascita, ha previsto che la stessa « deve necessariamente contenere il dato relativo al nome della puerpera, che va inteso solo come partoriente ma non ancora come madre » ritenendo che « in ogni caso va confermato che le generalità della donna che ha partorito devono essere riportate nell’attestato sanitario, rappresentando la relativa indicazione un imprescindibile dato di verità reale che serve a provare, sotto l’aspetto clinico e in vista della successiva registrazione della nascita, che è nato e da chi è nato un bambino. Così come alla predetta funzione di prova era destinato il certificato di assistenza al parto ora soppresso ». ( 29 ) S. Troiano, Circolazione e contrapposizione di modelli nel diritto europeo della famiglia: il « dilemma » del diritto della donna partoriente all’anonimato, op. cit., p. 178, nt. 17, atteso che il d. Min. Sanità 16 luglio 2001, n. 349 prevede che tali generalità non siano più riportate nel certificato di assistenza al parto, se la madre chiede di non essere nominata, per cui conclude l’a. « Non si vede, infatti, perché tali dati, se non sono (più) inseriti nel certificato di assistenza al parto, debbano esserlo nella attestazione di nascita che viene allegata alla dichiarazione di nascita », conforme L. Lenti, Adozione e segreti, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 238 per il quale « [...] b) l’attestazione di nascita: è conservata nel volume degli allegati al registro degli atti di nascita, presso il tribunale ordinario. Contiene tutti e soltanto i dati richiesti dalla legge per formare l’atto di nascita: pertanto, in caso di donna che non vuole essere nominata, deve ometterne le generalità (art. 30, comma 1o, ord. Stato civ. e art. 93, comma 1o, cod. dati pers.) [...] ». ( 30 ) A. Palazzo, La filiazione, nel Tratt. Cicu-Messineo, Milano 2007, p. 178, per il quale « anche se l’attestazione di nascita viene compilata in forma anonima, la cartella clinica conterrà sempre le generalità della puerpera. Tramite il collegamento tra l’attestazione di nascita e la cartella clinica imposto dalla legge è tecnicamente possibile risalire all’identità biologica dell’adottato ». V. Allegato al d.m. Sanità n. 349/2001 sez. generale voce « cognome della puerpera » ove è stabilito che se il certificato di assistenza al parto è privo dei dati idonei a identificare la partoriente, in quanto ella ha dichiarato di non voler essere nominata, deve essere comunque assicurato un raccordo con la cartella clinica che invece contiene i dati identificativi. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 717 L’incertezza non è di poco momento, sol che si pensi al caso in cui la dichiarazione di nascita provenga da persone diverse dalla partoriente (legittimate ai sensi dell’art. 30, comma 1o, r.d. n. 396/2000) che, in linea teorica, potrebbero « girare » con una attestazione di nascita non anonima nonostante la volontà contraria della donna senza alcuna garanzia che venga rispettata la sua volontà di anonimato. Il legislatore del 2003, nel modificare sul punto la legge sull’adozione, introducendo il divieto oggi censurato in parte qua, ha cercato di operare un raccordo con la disciplina sulla raccolta e divulgazione dei dati sensibili. La norma in rilevo è l’art. 93 del Codice in materia di protezione dei dati personali (d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196) che, pur garantendo la riservatezza dell’anonimato materno quanto al profilo della identificazione della partoriente, diversifica la disciplina a seconda della natura delle informazioni da richiedere in sede di accesso (tramite il certificato di assistenza al parto, ora sostituito integralmente dalla attestazione di nascita, ex art. 93 comma 1o, ovvero tramite la cartella clinica), qualora la madre biologica abbia dichiarato di non voler essere nominata. Mentre il comma 2o dell’art. 93, infatti, garantisce la riservatezza (così come è stata « cristallizzata » al momento del parto) circa l’identità della partoriente, salvo prevedere per i discendenti la possibilità di risalire alla sua identità decorsi cento anni dalla formazione del documento che la identifica (cioè quando si presume la stessa sia defunta), il comma 3o, contempla la facoltà di accesso agli stessi documenti per ragioni diverse da quelle identificative giacché l’accesso è consentito « osservando le opportune cautele per evitare che la madre anonima sia identificata ». Pertanto, diversamente dalla legge sull’adozione, nella quale il divieto di informazioni appare assoluto e trasversale ove ricorra la scelta del parto anonimo, la legge in materia di protezione dei dati personali opera un distinguo tra dati (informazioni) identificativi della partoriente e quelle informazioni « altre » cui l’adottato avrebbe comunque diritto di accedere. La legge consente quindi all’adottato c.d. adulto l’accesso « semplificato » alle informazioni sulle proprie origini, nell’ipotesi in cui la madre biologica abbia scelto l’anonimato al momento del parto, purché la stessa non sia identificabile (31); cioè di ottenere informazioni relative alla nascita ed alla salute che non permettono l’identificazione della partoriente e ciò attraverso l’accesso alla cartella clinica e al certificato di assistenza al parto (ora sostituito dall’attestazione di nascita) (32). ( 31 ) Attraverso la cartella clinica, l’attestazione di nascita, l’estratto dell’atto di nascita ed il fascicolo dell’adozione; cfr. ampiamente sul punto, L. Lenti, Adozione e segreti, op. cit., p. 237 ss., che vaglia tutti i documenti accessibili all’adottato e le informazioni ivi contenute e raggiungibili. ( 32 ) Ai sensi dell’art. 93 del c.d. Codice della privacy. 718 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 3. — Vale la pena di ricordare come, otto anni prima, la stessa questione di legittimità costituzionale sia stata affrontata e risolta dalla Corte costituzionale (33) in maniera diametralmente opposta, con una pronuncia di infondatezza. Il remittente in allora (34) aveva sottoposto all’attenzione della Corte il medesimo quesito circa la « possibilità di verificare la persistenza della volontà della madre naturale di non essere nominata » (35) ed aveva invocato i medesimi parametri costituzionali: l’art. 2 Cost. per il profilo che la norma impugnata fa prevalere in ogni caso il diritto all’anonimato della partoriente su quello inviolabile del figlio all’identità personale, l’art. 3 Cost. per la irragionevole disparità di trattamento tra adottato la cui madre biologica ha scelto l’anonimato e adottato la cui madre biologica non ha operato tale scelta, e l’art. 32 Cost. per il profilo del pregiudizio dell’adottato alla salute e all’integrità psico fisica, prospettata quale conseguenza del diritto all’identità personale. Non era stato invocato l’art. 117, comma 1o, Cost., che però nella pronuncia del 2013 è dichiarato assorbito. Il ragionamento della Consulta era lineare e deciso: la ratio del divieto di informazioni nel caso di parto anonimo è volto alla tutela della salute della gestante e del bambino (alla vita di entrambi) di guisa che tale diritto alla riservatezza deve essere tutelato in assoluto senza limitazioni neppure temporali. Nel bilanciamento tra diritti fondamentali della partoriente (alla salute), del neonato (alla vita) e dell’adottato (alla conoscenza della propria identità), quest’ultimo soccombe (36). ( 33 ) Di segno opposto alla citata Corte costituzionale n. 278/2013 è la decisione di Corte cost. 25 novembre 2005, n. 425, in Fam. e d., 2006, p. 129 con nota di F. Eramo, Il diritto all’anonimato della madre partoriente; in Nuova g. civ. comm., 2006, I, p. 545 con nota di J. Long, Diritto dell’adottato di conoscere le proprie origini, op. cit., p. 549 ss.; in Familia, 2006, II, p. 155 con nota di L. Balestra, Il diritto alla conoscenza delle proprie origini tra tutela dell’identità dell’adottato e protezione del riserbo dei genitori biologici; in G. cost., 2005, p. 4594, con nota di A.O. Cozzi, La Corte costituzionale e il diritto di conoscere le proprie origini in caso di parto anonimo: un bilanciamento diverso da quello della Corte europea dei diritti dell’uomo?; la Corte costituzionale nella decisione n. 425/2005 si era già pronunciata su di una identica questione stabilendo l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, 7o comma, l. 4 maggio 1983, n. 184 nel testo modificato dall’art. 177, 2o comma, d. legisl. 30 giugno 2003, n. 196 sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, e 32 Cost. ( 34 ) Trib. Min. Firenze, ord. 21 luglio 2004, in Guida al dir., 2005, n. 6, p. 72 (s.m.); in G.U., 1 serie speciale, n. 3 del 2005. ( 35 ) Il Tribunale per i minorenni di Firenze propone in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28, comma 7o, della l. 4 maggio 1983, n. 184 (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo sostituito dall’art. 177, comma 2o, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) « nella parte in cui esclude la possibilità di autorizzare l’adottato all’accesso alle informazioni sulle origini senza aver previamente verificato la persistenza della volontà di non essere nominata da parte della madre biologica ». ( 36 ) In tale contesto, afferma D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 719 Oggi, invece, la Corte costituzionale — pur condividendo e riaffermando il « nucleo fondante della scelta allora adottata » e corrispondente alla « ritenuta corrispondenza biunivoca tra il diritto all’anonimato, in sé e per sé considerato, e la perdurante quanto inderogabile tutela dei profili di riservatezza o, se si vuole, di segreto, che l’esercizio di quel diritto inevitabilmente coinvolge », — mette in discussione il profilo « diacronico » della tutela assicurata al diritto all’anonimato della madre, in ragione dell’esigenza di salvaguardare anche il diritto alla conoscenza delle proprie origini del figlio quale elemento significativo nel sistema costituzionale di tutela della persona (37). Secondo la Corte, la scelta di anonimato al momento del parto « immobilizza » e « cristallizza » la situazione soggettiva della partoriente. Tuttavia, l’esercizio del diritto di anonimato non solo espropria la madre del diritto alla genitorialità, ma si trasforma in una sorta di vincolo obbligatorio con forza espansiva esterna al suo stesso titolare (38) e quindi a danno di terzi. In tale prospettiva, ed a prescindere dall’esigenza di giustificare il bilanciamento dei diritti fondamentali, si potrebbe sostenere, in primo luogo, che la reversibilità della scelta di anonimato della partoriente nella prospettiva della Corte, dovrebbe essere prevista dal legislatore come autonoma facoltà di scelta della madre biologica, da esercitare fuori del contesto del parto (ove il diritto alla riservatezza deve essere garantito in assolutezza) anche a prescindere dalla richiesta dell’adottato ultraventicinquenne di accesso alle informazioni (39). La Corte, tuttavia, non arriva a tal punto, ma limita l’effetto del suo intervento all’esigenza di armonizzare il diritto fondamentale sotteso all’anonimato della donna (cioè il diritto alla salute) con quello alla identità dell’adottato. In sostanza la Corte delega il legislatore ad introdurre una sorte di « interrogazione riservata » della madre anonima in un procedimento in cui la madre biologica è estranea e in cui l’iniziativa esclusiva è rimessa ad un soggetto giuridicamente figlio di altri. Non v’è chi non veda come un siffatto strumento sia di difficile realizzazione pratica (40). europea dei diritti dell’uomo, op. cit., « la tecnica del bilanciamento scolora quindi in un approccio diverso, che avendo chiaro il quadro degli interessi in gioco, mira non tanto a individuare un astratto punto di equilibrio fra le posizioni giuridiche coinvolte, quanto piuttosto a valutare quale disciplina, nella concretezza di una situazione difficile, possa meglio garantire l’effettività della tutela dei beni giuridici coinvolti ». ( 37 ) Analogamente, si può obiettare che potrebbe sussistere il caso della donna che non ha scelto l’anonimato al momento del parto e il cui figlio è stato adottato da altri e che abbia al momento della richiesta del figlio adulto adottato un interesse attuale al ripensamento, preferendo non essere affatto identificata. ( 38 ) Così, Corte cost. n. 278/2013, cit. ( 39 ) L’adottato, infatti, potrebbe non essere l’unico ad avere interesse a conoscere l’identità della madre biologica. ( 40 ) Si rinvia per tale profilo alle riflessioni di J. Long, Adozione e segreti: costituzional- 720 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Sarebbe forse preferibile ripensare all’istituto del parto anonimo attraverso una disciplina compiuta ed organica che tenga conto di tutti i profili (obblighi informativi, diversificazione delle informazioni) e delle conseguenze dell’esercizio di tale facoltà in capo alla partoriente, inclusa la previsione legislativa per la madre biologica anonima, della facoltà, autonoma, di ripensare alla propria scelta di anonimato (41). 4. — Ad una prima lettura, si sarebbe portati a ritenere che la recente decisione della Corte costituzionale rappresenti l’epilogo scontato di quel vivace dibattito che si è succeduto in seno alla Corte europea dei diritti dell’uomo laddove quest’ultima ha ritenuto di « salvare » la legislazione francese sul parto anonimo e la reversibilità del segreto materno (42), e di condannare, invece, qualche anno dopo, quella italiana che tale reversibilità non ha mai contemplato (43). Il tutto in ragione dell’art. 8 della Convenzione europea dei mente illegittima l’irreversibilità dell’anonimato del parto, cit., sub paragrafo 3. Nel senso che essa potrebbe trovare immediata applicazione giurisprudenziale, cfr. anche G. Casaburi, Il parto anonimo, op. cit., p. 8 ss. ( 41 ) Come prevede la legge in Francia relativa all’accesso alle origini delle persone adottate che ha istituito il Conseil National pour l’accés aux origines personnelles alla cui opera di intermediazione si possono rivolgere sia colui che vuole conoscere l’identità della madre biologica sia la stessa madre biologica che voglia togliere il segreto della sua identità trasformando il parto anonimo nel c.d. parto con discrezione e rendendo reversibile il segreto, v., ampiamente, S. Stefanelli, Parto anonimo e diritto di conoscere le proprie origini, in D. fam., 2010, p. 426 ss. ( 42 ) Corte eur. dir. uomo 13 febbraio 2003, ric. 42326/98 (Odièvre c Francia), in Familia, 2004, p. 1109 con nota di A. Renda, La sentenza Odièvre c. Francia della Corte Europea dei diritti dell’uomo: un passo indietro rispetto all’interesse a conoscere le proprie origini biologiche; in Giust. civ., 2004, I, p. 2177 con nota di S. Piccinini, La Corte europea dei diritti dell’uomo e il divieto di ricerca della maternità naturale; J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo, il parto anonimo e l’accesso alle informazioni sulle proprie origini: il caso Odièvre c. Francia, in Nuova g. civ. comm., 2004, II, p. 283 ss.; per un compiuto inquadramento del sistema vigente in Francia si vedano, oltre agli aa. testé citati, anche le considerazioni di D. Paris, Parto anonimo e bilanciamento degli interessi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, del Conseil constitutionnel e della Corte europea dei diritti dell’uomo, op. cit.; si ricorda in particolare la Loi n. 2002-92 du 22 janvier 2002 relative à l’accès aux origines des persone adoptées et pupilles de l’État, che ha improntato la legislazione francese al principio della réversibilité del segreto attraverso l’istituzione del Conseil national pour l’accès aux originespersonnelles, CNAOP, organo deputato all’opera di intermediazione cui si può rivolgere sia la persona alla ricerca delle proprie origini sia la madre biologica che vuole ripensare alla propria scelta di anonimato. ( 43 ) Corte eur. dir. uomo 25 settembre 2012, ric. 33783/09 (Godelli c. Italia), in Nuova g. civ. comm., 2013, I, p. 103 ss., con nota di commento di J. Long, La Corte europea dei diritti dell’uomo censura l’Italia per la difesa a oltranza dell’anonimato del parto: una condanna annunciata. La decisione è commentata anche da C. Ingenito, Il diritto del figlio alla conoscenza delle origini e il diritto della madre al parto anonimo alla luce della recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in Giust. civ., 2013, p. 1608 ss.; G. Currò, Diritto della madre all’anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle proprie origini. Verso nuove forme di contemperamento, in Fam. e d., 2013, p. 537 ss.; A. Mar- CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 721 diritti dell’uomo che prevede la salvaguardia della vita privata e familiare, così come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti (44) dell’uomo ovvero secondo una accezione ampia che comprende, tra gli altri, il rispetto del diritto di ciascun individuo di conoscere le proprie origini (45). Dal punto di vista formale, tuttavia, si è detto come, a fronte della richiesta del giudice remittente (46) di considerare anche il parametro dell’art. 117, comma 1o, Cost., la Corte costituzionale, lo abbia dichiarato assorbito, adducendo argomentazioni autonome (47), e quindi svincolandosi dalla considerazione delle norme della Convenzione europea — e quindi anche dell’art. 8 nell’interpretazione datane dalla Corte europea — come parametri interposti di legittimità costituzionale filtrati nell’ordinamento interno grazie al richiamo dell’art. 117, comma 1o, Cost., secondo l’oramai consolidato indirizzo della giurisprudenza costituzionale (48). garia, Parto anonimo e accesso alle origini: la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna la legge italiana, in Minori e giust., 2013, n. 2, p. 340 ss. ( 44 ) Cfr. P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato?, op. cit., p. 829 dove l’a. si chiede se « [...] merita davvero piena e incondizionata condivisione quanto categoricamente affermato dalla Corte Europea, secondo la quale “il diritto all’identità da cui deriva il diritto di conoscere la propria ascendenza, fa parte integrante della vita privata” ». ( 45 ) Sull’art. 8 della Convenzione europea e l’interpretazione della Corte Europea, cfr. Corte eur. dir. uomo 7 luglio 1989, ric. 10454/84, Gaskin c. Regno Unito; Corte eur. dir. uomo 7 febbraio 2002, ric. 53176/99, Mikulic c. Croazia; Corte eur. dir. uomo 13 febbraio 2003, ric. 42326/98, Odièvre c. Francia, cit. Nella stessa decisione Godelli c. Italia si legge che « la Corte considera il diritto all’identità, da cui deriva il diritto di conoscere la propria ascendenza, come parte integrante della nozione di vita privata ». Le decisioni della Corte europea sono reperibili nel sito del Consiglio d’Europa, tramite il sistema HUDOC, all’indirizzo http://www.echr.coe.int nel testo integrale inglese e francese. ( 46 ) Trib. Min. Catanzaro, ord. 13 dicembre 2012, in Fam. e d., 2013, p. 817 con nota di P.G. Gosso, Davvero incostituzionali le norme che tutelano il segreto del parto in anonimato? ( 47 ) Così, V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze, cit. ( 48 ) Corte cost. 24 ottobre 2007, nn. 348 e 349, in F. it., 2008, I, c. 39 ss., con nota di R. Romboli; L. Cappuccio, La Corte costituzionale interviene sui rapporti tra convenzione europea dei diritti dell’uomo e Costituzione e F. Ghera, Una svolta storica nei rapporti del diritto interno con il diritto internazionale pattizio (ma non in quelli con il diritto comunitario); ed ancora dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ex multis, Corte cost. 11 novembre 2011, n. 303 per la quale « in materia di rapporti tra l’art. 117, comma 1, Cost., e le norme della Cedu, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale della cui legittimità costituzionale si dubiti e le norme della Cedu non possa essere risolto in via interpretativa, la Corte costituzionale deve accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Cedu come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano. Tuttavia, se la Corte costituzionale non può prescindere dall’interpretazione della Corte di Strasburgo di una disposizione della Cedu, essa può, nondimeno, interpretarla a 722 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Una più attenta considerazione ad opera della Corte costituzionale della sentenza Godelli c. Italia, quale punto di arrivo dell’interpretazione della Corte europea sull’art. 8 della Convenzione (49), avrebbe, forse, condotto il Giudice delle leggi ad una diversa decisione (50). Muovendo dall’esigenza di stabilire un giusto equilibrio nella ponderazione dei diritti e degli interessi concorrenti, ossia, da una parte, quello della ricorrente a conoscere le proprie origini e, dall’altro, quello della madre a mantenere l’anonimato e, pur ammettendo che rientra nella discrezionalità del legislatore nazionale reperire le « misure idonee » a garantire il rispetto dell’art. 8 della Convenzione nei rapporti interpersonali, la Corte europea, coglie il punto di equilibrio dei diritti fondamentali da bilanciare essenzialmente nella reversibilità del segreto, propria della legge francese. Di conseguenza, la legislazione italiana vigente violerebbe il principio del giusto equilibrio nell’interpretazione dell’art. 8 Cedu attribuendo priorità assoluta alla salvaguardia della vita e della salute della partoriente e del neonato al momento del parto sua volta con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi. Infatti, la norma Cedu — nel momento in cui va ad integrare il comma 1 dell’art. 117 Cost. — da questo il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui la Corte costituzionale è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza (sentt. n. 348, 349 del 2007, 311, 317 del 2009 113, 236 del 2011) ». ( 49 ) Di particolare interesse è ricordare che il diritto alle proprie origini trova tutela in altre fonti sovranazionali quali la Convenzione delle Nazioni Unite relativa ai diritti del bambino del 20 novembre 1989 ove si prevede il diritto del figlio, per quanto possibile, di conoscere fin dalla nascita i propri genitori (art. 7); la Convenzione del L’Aja del 29 maggio 1993 sulla protezione dei minori e sulla cooperazione in materia di adozione internazionale ratificata dall’Italia ove si prevede che le autorità competenti dello Stato contraente conservino con cura le informazioni in loro possesso sulle origini del minore in particolare quelle relative all’identità della madre e del padre ed i dati sui precedenti sanitari del minore e della sua famiglia; dette autorità assicurano l’accesso del minore o del suo rappresentante a tali informazioni, con l’assistenza appropriata, nella misura consentita dalla legge dello Stato (articolo 30). In forma più persuasiva poi, si pone anche la Raccomandazione 1443 (2000) del 26 gennaio 2000 « Per il rispetto dei diritti del bambino nell’adozione internazionale », ove l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha invitato gli Stati ad « assicurare il diritto dei bambini adottati a sapere delle proprie origini al più tardi al raggiungimento della maggior età ed eliminare dalla legislazione nazionale ogni clausola contraria ». Tale scenario innesta il problema, nel caso Godelli, di verificare se ed in che limiti la Corte di Strasburgo debba tenere in considerazione della tutela garantita da altre fonti sovranazionali. ( 50 ) Una diversa conclusione, non già rispetto a quella di Strasburgo del caso Godelli, s’intende, sulla falsariga della quale la Corte costituzionale si è pronunciata, ricalcando la medesima soluzione, ma rispetto a ciò che la Corte costituzionale avrebbe potuto decidere tenendo in considerazione la gradazione di informazioni personali che rientrano nel concetto di « vita privata » di cui alla sentenza Godelli. L’effetto di una sentenza additiva di principio che testualmente rinvia ad una legge la disciplina procedimentale del « fenomeno » pone in essere una « nuova norma » di difficile applicazione pratica; cfr. sul punto i rilievi pubblicistici di V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze, cit. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 723 rispetto al diritto dell’adottato di accedere alle informazioni sulle proprie origini (51). Certamente così è per il diritto di conoscere l’identità della madre biologica che ha scelto il parto anonimo. Le cose stanno diversamente, invece, quanto alla possibilità di accedere ad altre informazioni non identificative della partoriente, informazioni in qualche misura funzionali alla ricostruzione della storia personale dell’adottato (52). A ben vedere, la possibilità di questa distinzione è contemplata dalla stessa decisione Godelli c. Italia, laddove nella stessa si ripropone, (in riferimento alla legge francese del 22 gennaio 2002 ed alla sentenza Odièvre c. Francia), la differenziazione tra le informazioni sull’identità della madre da quelle informazioni non identificative della stessa che sono comunque da considerarsi quale tassello dell’identità personale dell’individuo. Nella decisione Godelli c. Italia, l’interpretazione della salvaguardia della « vita privata » può fondatamente articolarsi in una gradazione di informazioni identificative e non, giuridicamente rilevanti e funzionali alla ricostruzione della propria identità. Ne è riprova il passaggio della decisione ove la Corte europea non sembra conoscere a pieno il sistema legislativo italiano laddove un po’ confusamente afferma che « la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso alle informazioni non identificative sulle origini o la reversibilità del segreto ». Non è così. La strada tracciata dalla Corte europea allora poteva condurre ad escogitare una misura più adeguata per ponderare i diritti in gioco. È incontestabile, infatti, che anche allorquando si prevedesse il sistema del ripensamento della madre biologica e quest’ultima riaffermasse il vincolo del segreto, il diritto dell’adottato sarebbe comunque sacrificato. Se un bilanciamento tra i diritti fondamentali doveva essere ricercato, sarebbe stato forse preferibile indicare una diversa soluzione al legislatore, che ( 51 ) Nella fattispecie all’esame, la Corte osserva che « la ricorrente non ha avuto accesso a nessuna informazione sulla madre e la famiglia biologica che le permettesse di stabilire alcune radici della sua storia nel rispetto della tutela degli interessi dei terzi. Senza un bilanciamento dei diritti e degli interessi presenti e senza alcuna possibilità di ricorso, la ricorrente si è vista opporre un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali ». ( 52 ) Trib. min. Firenze 19 dicembre 2007, in F. it., 2008, I, c. 2038; per la quale l’adottato può accedere nel rispetto del limite identificativo della madre che ha scelto l’anonimato a qualunque atto relativo alle proprie origini nel quale siano opportunamente occultati il nome della madre o altri elementi che valgono ad identificarla (in generale potrà essere considerato dato identificativo l’indicazione del luogo in cui è nata la donna specie se abbinato alla sua data di nascita; ma non saranno considerati dati identificativi l’indicazione della sola data di nascita della madre non abbinata al luogo, così come, spogliati da riferimenti territoriali, la sua professione, eventuali titoli di studio o condizioni di salute), in Minori e giust., 2008, n. 2, p. 360 con osservazioni di A. Specchio, Il diritto dell’adottato di accesso alle informazioni concernenti la propria origine: un’interpretazione evolutiva da parte del tribunale minorile fiorentino. 724 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 armonizzasse gli interessi sottesi, da un lato all’anonimato e, dall’altro, alla disciplina sull’accesso alle informazioni, differenziando l’accessibilità dei dati e delle informazioni con una normativa più organica e mirata a seconda del tipo di informazioni: la modalità della nascita o dell’abbandono o altre circostanze riferibili alla nascita non identificative della madre (tipo di parto), le informazioni mediche sanitarie e quant’altro sia utile al soggetto richiedente al fine ricostruire la propria storia, così come pure le indicazioni sulla presenza di un padre biologico per il quale la legge italiana non contempla alcuna disposizione. Non si opera alcuna « composizione » (53) di principi e di diritti costituzionali nell’ipotesi in cui la madre, interpellata, opponga il segreto. Il veto della madre anonima continua a contraddire, cioè ad eludere, il diritto all’identità dell’adottato. Preferibile è la scelta di temperare le informazioni utili per compiere la ricostruzione della propria identità, offrendo comunque per l’adottato la possibilità di accedere a quelle biologiche, sanitarie, circostanziali della nascita. Il contemperamento tra diritti cui deve tendere il legislatore nazionale potrebbe essere più efficace ed effettivo, non attraverso l’introduzione della mera previsione della reversibilità del segreto (ipotesi eventuale) nel caso dell’adottato maggiore di venticinque anni (ipotesi limitata) bensì attraverso una rivisitazione della disciplina sul parto anonimo e l’accesso alle informazioni che diversifichi le informazioni giuridicamente significative per la tutela dell’identità personale dell’individuo da quelle che lo sono meno o non lo sono affatto perché identificative della partoriente e come tali nella disponibilità esclusiva ed assoluta della titolare. 5. — La sentenza della Corte costituzionale diversamente attesa dagli operatori del diritto, pur senza nulla aggiungere al tessuto legislativo esistente, nel provocare una rivisitazione degli istituti giuridici sottesi al diritto dell’adottato « adulto » di accedere alle informazioni che lo riguardano, sembra delineare sia pure sommessamente, la configurabilità una nuova situazione giuridica di rilevo nell’ordinamento: quella del ripensamento e della revoca dell’anonimato, che sembra spostare in qualche modo il baricentro dell’istituto dell’adozione legittimante, già ripetutamente ritoccato dal legislatore ed oramai impoverito del suo contenuto. Incisive appaiono le considerazioni della Corte costituzionale laddove essa afferma che una scelta per l’anonimato che comporti una rinuncia irreversibile alla « genitorialità giuridica » può non implicare anche una definitiva e irreversibile rinuncia alla « genitorialità naturale », altrimenti risulterebbe introdotto nel sistema una sorta di divieto destinato a precludere in radice « qualsiasi possibilità di reciproca relazione di fatto tra madre e figlio, con esiti difficilmente compatibili con l’art. 2 Cost. ». ( 53 ) Parla di « un procedere per composizione », V. Marcenò, Quando da un dispositivo d’incostituzionalità possono derivare incertezze, p. 285 ss. ed ivi riferimenti pubblicistici. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 725 In sostanza, ora il diritto al ripensamento in uno con la scelta positiva di svelare la propria identità aprirebbe la strada ad una nuova forma di « genitorialità naturale » (54), pur restando preclusa incontestabilmente la costituzione di un rapporto giuridico di filiazione. Ma questa valorizzazione di una reciproca relazione di fatto tra madre biologica e figlio di altri in nome dell’art. 2 Cost., e, quindi, (si può supporre) per garantire il completo ed armonico sviluppo della personalità di madre biologica e di figlio adottato, va ben oltre l’esigenza di salvaguardare il diritto di accesso alle informazioni — identificative e non — dell’adottato adulto « affievolendo » il segreto dell’anonimato attraverso la previsione di un diritto al ripensamento della madre biologica. In tale confusa prospettiva garantista, l’effetto potrebbe essere socialmente e umanamente dirompente oltre che delicato per il profilo giuridico; basti ricordare, a tal proposito, che già la Cassazione (55) aveva riconosciuto al figlio legittimo altrui, decaduto dall’azione di disconoscimento, la facoltà di chiedere gli alimenti al padre biologico (nell’impossibilità di adempiere dei genitori legittimi); analogamente, e nella prospettiva unificatrice dello status ad opera della Riforma della filiazione, si potrebbe giungere a riconoscere la pretesa agli alimenti del figlio adottivo altrui nei confronti della madre biologica, una volta identificata. Pare incontestabile, allora, che oltre ad un procedimento volto a verificare la persistenza della volontà della donna di non essere nominata, occorra programmare una sistematica normativa tesa a disciplinare compiutamente la raccolta e l’accesso dei dati della partoriente, distinguendo quelli identificativi, da quelli medico-sanitari non identificativi, nonché un sistema ordinato e consapevole di scelta e revoca dell’anonimato materno. ( 54 ) G. Finocchiaro, Il segreto sulle origini perde il carattere irreversibile ma la donna può decidere se restare nell’anonimato, op. cit., che preferisce parlare di « genitorialità biologica » da contrapporre a quella « giuridica » e ciò a seguito della Riforma della filiazione, cit. sub nt. 2. ( 55 ) Ci si chiede, infatti, quali effetti potrebbero derivare dalla valorizzazione di questa relazione di fatto tra adottato e madre biologica. Cfr., Cass. 1o aprile 2004, n. 6365, in Fam. e d., 2005, p. 27 ss. con nota di M. Sesta, Un ulteriore passo avanti della S.C. nel consentire la richiesta di alimenti al preteso padre naturale da colui che ha lo stato di figlio legittimo altrui; in G. it., 2005, c. 1830 con nota di F. Prosperi, Paternità naturale, stato di figlio legittimo altrui, efficacia preclusiva degli atti di stato civile e dubbi sulla perdurante operatività dell’art. 279 c.c. Amalia Chiara Di Landro Ricercatore nell’Università « Mediterranea » di Reggio Calabria I VINCOLI DI DESTINAZIONE EX ART. 2645 TER C.C. ALCUNE QUESTIONI NELL’INTERPRETAZIONE DI DOTTRINA E GIURISPRUDENZA Sommario: 1. Introduzione. L’art. 2645 ter c.c.; le questioni interpretative. — 2.Il dibattito sulla portata applicativa della norma e il rapporto con il trust. Le diverse posizioni della giurisprudenza di merito. — 3. Gli interessi tutelati ed il giudizio di meritevolezza ex art. 1322 c.c. — 4. Le modalità di istituzione del vincolo. I vincoli di destinazione istituiti per testamento. La posizione del Tribunale di Roma (18 maggio 2013). 1. — Com’è noto, l’art. 2645 ter c.c. ha sollecitato un largo dibattito dal momento della sua approvazione, anche per l’ampiezza delle possibilità operative che, in una lettura iniziale, il ricorso ai vincoli di destinazione sembrava offrire. L’attenzione sul tema è stata sollecitata soprattutto dalla dottrina, che ha per lo più attribuito alla norma significativa importanza, ritenendo riconosciuta formalmente — con il suo inserimento nel codice civile — la generale praticabilità e opponibilità della dissociazione volontaria tra titolarità della proprietà, gestione ed interesse economico allo sfruttamento dei beni (1); l’art. 2645 ter c.c., in alcune posizioni in particolare, è stato considerato (2) « la ( 1 ) A. Gambaro, Appunti sulla proprietà nell’interesse altrui, in Trust attività fid., 2007, 2, p. 169; G. Oppo, Brevi note sulla trascrizione di atti di destinazione (Art. 2645 ter c.c.), in questa Rivista, 2007, 1, p. 3. Scriveva G. Gabrielli, (in Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, in questa Rivista, 2007, I, p. 327): « la portata della nuova disciplina di cui all’art. 2645 ter resta notevole; sembra, anzi, di dovere dire dirompente. Benché collocata nella sede impropria della pubblicità immobiliare, tale disciplina ha il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata, collocando nel museo delle reliquie del passato limiti che tradizionalmente l’avevano compressa e che, paradossalmente, continuano ad essere proclamati da altre norme di legge, rimaste immutate ». Secondo R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., in Contratto e impr., 2007, 1, p. 233: « La disposizione determina in definitiva due conseguenze: a) da un lato fornisce un decisivo argomento alla tesi dell’ammissibilità di negozi di destinazione atipici, che il nostro ordinamento era già perfettamente in grado di esprimere e di cui era possibile ricostruire la struttura e gli effetti attraverso l’uso degli ordinari strumenti di interpretazione logica; b) dall’altro definisce i mezzi per rendere opponibile ai terzi la destinazione quando questa riguarda beni immobili ». Con l’art. 2645 ter c.c. sarebbe dunque formulata una regola generale che « concorre, con pari dignità con la regola dettata all’art. 2740 c.c., alla composizione del sistema ». ( 2 ) M. Bianca, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile, Milano 2007, p. 33. 728 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 matrice di una serie di istituti attraverso i quali si realizza un fenomeno di destinazione di beni ad uno scopo ». All’iniziale ampiezza del dibattito non ha fatto seguito un largo ricorso all’istituto nella pratica, come è dimostrato anche dalla ridotta casistica in argomento (3), sicché l’attenzione dei commentatori è in parte scemata (4) (anche a causa di una serie di fattori, evidenziati pure in alcune sentenze (5): « l’incompletezza della disciplina, l’incertezza sulla individuazione del soggetto al quale è rimesso il controllo di meritevolezza degli interessi, il possibile utilizzo fraudolento »). Tra le pronunce, alcune meritano una menzione ed una più meditata riflessione, per la loro (recente) collocazione temporale e per i profili di novità che su specifiche questioni, pure fra loro correlate, la loro lettura evidenzia. Fra le più rilevanti: 1) Una prima, generale problematica attiene all’ambito applicativo ed all’apporto innovativo della norma in commento, anche in relazione al competitivo schema del trust; 2) Un secondo profilo riguarda lo scopo per il quale la destinazione può essere ammessa ed il controllo di meritevolezza ex art. 1322 c.c.; 3) Un’ultima questione (6) attiene alle modalità di istituzione del ( 3 ) Cfr. Trib. Trieste 7 aprile 2006, in R. not., 2007, 2, p. 367, con nota di Matano; in Trust attività fid., 2006, 3, p. 417; in Nuova g. civ. comm., 2007, I, p. 524 ss., con nota di Cinque; in Notariato, 2006, p. 539 ss., con nota di Alessandrini Calisti; Trib. Reggio Emilia 30 novembre 2006, in Redazione Giuffrè, 2007; Trib. Reggio Emilia 23 marzo 2007, in G. mer., 2007, 12, p. 3183 con nota di Di Profio; Trib. Reggio Emilia 26 marzo 2007, in Guida al dir., 2007, 18, p. 58, con nota di Tonelli, in Il civilista, 2010, 9, p. 93, in D. fam., 2007, 4, p. 1726 e in Nuova g. civ. comm., 2008, I, p. 114 s., con nota di Murgo; App. Roma 4 febbraio 2009, in D. fam., 2009, 2, p. 665; Trib. Bologna 5 dicembre 2009, in Il civilista, 2010, 9, p. 93; Trib. Reggio Emilia 7 giugno 2012, in Guida al dir., 2012, 49-50, ins., p. 15, con nota di Buffone; Trib. Reggio Emilia 22 giugno 2012, in Redazione Giuffrè, 2012; Giudice tutelare Saluzzo 19 luglio 2012, in Guida al dir., 2012, 49-50, p. 9 (con nota di Di Sapio); Trib. Roma 18 maggio 2013, in Fam. e d., 2013, 8-9, p. 786 ss. con nota di Calvo, in Nuova g. civ. comm., 2014, parte I, p. 89, con nota di Azara e in R. not., 2014, 1, p. 63, con nota di Romano; Tribunale S. Maria Capua V. 28 novembre 2013, in Redazione Giuffrè, 2013; Tribunale Reggio Emilia, sez. fallimentare, 27 gennaio 2014. Riconduce il trust all’art. 2645 ter c.c. Trib. Modena 11 dicembre 2008, in D. fam., 2009, 3, p. 1256, con nota di Nardi. ( 4 ) Ma v. fra gli altri, recentemente, L. Bullo, Commento sub art. 2645 ter, in Comm. Cian-Trabucchi, 11a ed., Padova 2014; Ead., Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2545 ter c.c. e fondi comuni di investimento ex art. 36, comma 6o, del t.u.f.: quale modello di segregazione patrimoniale?, in questa Rivista, 2012, 4, p. 535; Ead., Separazioni patrimoniali e trascrizione. Nuove sfide per la pubblicità immobiliare (I Quaderni della « Rivista di dir. civile »), Padova 2012; L.Gatt, Il trust c.d. interno: una questione ancora aperta, in Notariato, 2011, p. 280 ss. ( 5 ) Cfr. Trib. Roma 18 maggio 2013, cit. ( 6 ) Su cui v. M. Ieva, La trascrizione di atti di destinazione per la realizzazione di interessi meritevoli di tutela riferibili a persone con disabilità, a pubbliche amministrazioni o ad altri enti o persone fisiche (art. 2645 ter c.c.) in funzione parasuccessoria, in R. not., CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 729 vincolo ed alla possibilità, in particolare, di costituirlo mediante testamento. 2. — Sul primo punto — quello attinente alla portata innovativa della nuova disciplina — è da sottolineare che la giurisprudenza ha inizialmente attuato una lettura restrittiva, ponendo l’accento soprattutto sul dato dell’introduzione, con la norma in commento, (esclusivamente) di un particolare tipo di effetto negoziale, quello di destinazione, « accessorio rispetto agli altri effetti di un negozio tipico o atipico cui può accompagnarsi ». Ha espresso questo orientamento una delle prime sentenze in argomento (7), emessa dal Tribunale di Trieste (8), che — nel negare la pubblicità richiesta sotto forma di iscrizione tavolare ad un atto pubblico di dotazione di un trust, considerato nullo per difetto di causa tipica o atipica meritevole di tutela (9) — ha incidentalmente precisato che non v’è « alcun indizio da cui desumere che sia stata coniata una nuova figura negoziale, di cui non si sa neanche se sia unilaterale o bilaterale, a titolo oneroso o gratuito, ad effetti traslativi od obbligatori. Essa rappresenta una chiara anomalia del sistema (...) ». Siffatto orientamento (ancorché poi mutato in differenti pronunce (10)) è 2009, 5, p. 1289 ss.; A. Merlo, Brevi note in tema di vincolo testamentario di destinazione ai sensi dell’art. 2645 ter, in R. not., 2007, 2, p. 509 e ss. ( 7 ) Prima di questa, si consideri anche Trib. Genova 14 marzo 2006 (in Nuova g. civ. comm., 2006, I, p. 1209 ss., con nota di Venchiarutti; in G. mer., 2006, p. 2644 ss., con nota di Di Profio), secondo cui, fra l’altro, la volontà del legislatore di riferirsi al trust « (pur non nominato) è di tutta evidenza ». Nel caso in questione il Giudice legge l’art. 2645 ter c.c. come una legittimazione « anche per via legislativa (...) [del] pensiero di dottrina e giurisprudenza prevalenti riguardo la compatibilità del trust con il nostro ordinamento se diretto a perseguire interessi meritevoli di tutela ». ( 8 ) Trib. Trieste, Uff. del giudice tavolare, 7 aprile 2006, cit. In senso critico, insieme alle note citate, anche M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter. Notazione a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, p. 187 ss. Cfr. in argomento anche; A. Picciotto, Brevi note sull’art. 2645 ter: il trust e l’araba fenice, in Contratto e impr., 2006, 4-5, p. 1314 ss.; P. Manes, La norma sulla trascrizione di atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contratto e impr., 3, 2006, p. 627; R. Quadri, L’art. 2645 ter e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto e impr., 2006, 6, p. 1717 ss. ( 9 ) L’atto è stato considerato « causalmente astratto » e tale da impedire « di apprezzare la funzione, la meritevolezza di interessi e la pertinenza dell’operazione rispetto al fine di trust ». ( 10 ) Il medesimo Trib. Trieste, con pronuncia successiva (decr. 19 settembre 2007, in Nuova g. civ. comm., 2008, Parte I, p. 687, con nota di M. Cinque, L’atto di destinazione per i bisogni della famiglia di fatto: ancora sulla meritevolezza degli interessi ex art. 2645 ter cod. civ.) ha riconosciuto alla riforma « il significato di estendere la sfera operativa dell’autonomia privata ». E il Tribunale di Saluzzo, con decreto del 19 luglio 2012, cit., ha ritenuto la natura « sostanziale » dell’art. 2645 ter c.c., affermando che la norma consentirebbe anche negozi di destinazione che non richiedono, contestualmente, il necessario trasferimento del diritto da sottoporre a vincolo, ritenendo che « il legislatore ha inteso rendere opponibile la funzionalizzazione di scopo di un bene senza attribuzioni patrimoniali », giungendo alla conclusione che l’atto di destinazione non determina né richiede « (in quanto tale) trasferimento di diritti ». 730 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 stato ripreso anche in sentenze successive (11), ove è stato ribadito che « l’art. 2645 ter c.c. è norma “sugli effetti” e non “sugli atti” » e, perciò, « disciplina esclusivamente gli effetti, complementari rispetto a quelli traslativi e obbligatori, delle singole figure negoziali a cui accede il vincolo di destinazione; non consente, invece, la configurazione di un “negozio destinatorio puro”, cioè di una nuova figura negoziale atipica imperniata sulla causa destinatoria » (12). L’approccio iniziale della giurisprudenza non ha ricevuto l’avallo della dottrina, che — pur criticando unanimemente la tecnica legislativa impiegata, foriera di molti dubbi interpretativi (13) — ha anzi sottolineato l’esistenza, nella norma, di alcuni indici della rilevanza sostanziale dell’atto (laddove, ad esempio, viene stabilito chi può agire per la realizzazione dell’interesse e viene definito come devono essere impiegati i beni conferiti e i loro frutti) (14) ed ha evidenziato (15) che una lettura contraria a tale valenza sostanziale finirebbe per risolversi in una « sorta di interpretatio abrogans, un vero e proprio sabotaggio dell’intervento legislativo ». È da dire che le diverse pronunce — anche quelle fin qui menzionate — hanno spesso avuto ad oggetto il richiamo all’art. 2645 ter c.c., operato dalle parti in causa per legittimare l’ammissibilità dello schema del trust e per superare le difficoltà connesse al problema di apprestare rilevanza esterna ai trasferimenti di beni immobili in favore del fondo in trust e di conferire efficacia reale al vincolo segregativo (16). ( 11 ) Trib. S. Maria Capua V. 28 novembre 2013, cit.; Trib. Reggio Emilia, sez. fallimentare, 27 gennaio 2014, cit. ( 12 ) Così anche Trib. Reggio Emilia 7 giugno 2012, cit. ( 13 ) Cfr. ad esempio F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter, in Giust. civ., 2006, II, p. 165 ss.; G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in questa Rivista, 2006, II, p. 162. Per i vari profili problematici v. G. Cian, Riflessioni intorno a un nuovo istituto del diritto civile: per una lettura analitica dell’art. 2645 ter c.c., in Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli, Padova 2007, p. 81 ss. ( 14 ) Cfr. S. Bartoli, Prime riflessioni sull’art. 2645 ter c.c., p. 697, nt. 4; F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., cit.; F. Galluzzo, Autodestinazione e destinazione c.d. dinamica: L’art. 2645 ter cod. civ. come norma di matrice sostanziale , in Nuova g. civ. comm., 2014, p. 128 ss. ( 15 ) P. Spada, Destinazioni patrimoniali ed impresa, in Atti di destinazione e trust, a cura di G. Vettori, Padova 2008, p. 330. ( 16 ) Tema sul quale, si è pronunciato, da ultimo, il Tribunale di Torino (con decreto 18 marzo 2014), sostenendo — in accoglimento di un reclamo originato da una trascrizione nei registri immobiliari effettuata con riserva — che sia sufficiente, a tal fine, l’esecuzione di una sola formalità contro il disponente ed in favore del trust — non del trustee — senza peraltro che ciò presupponga la soggettività del trust. Con ciò è stato mutato orientamento rispetto a quello espresso da altro giudice di merito (Tribunale di Reggio Emilia del 25 marzo 2013), il quale (in un caso, tuttavia, di procedura esecutiva) aveva concluso in senso diametralmente opposto; secondo questa pronuncia, non essendo il trust un soggetto di diritto, le formalità da pubblicarsi nei registri immobiliari devono essere effettuate nei confronti del trustee; se eseguite a favore o contro il trust, esse sarebbero illegittime, poiché effettuate nei confronti di un soggetto inesistente. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 731 Anche in dottrina sono state tratte anche una serie di conseguenze sistematiche diverse dal tema del rapporto tra trust e atti di destinazione, nel quadro del dibattito sull’ammissibilità del c.d. trust interno e sulle sue problematiche applicative (17). Si è infatti evidenziato che l’art. 2645 ter c.c. risponderebbe all’esigenza di creare un modello generale di destinazione del patrimonio ad uno scopo, con cui il legislatore italiano potrebbe aver « mostrato di voler abbandonare i precedenti stranieri che si muovevano nella direzione della inurbazione di istituti stranieri come il trust » (18). Altri Autori (19) hanno invece messo in evidenza che l’art. 2645 ter c.c. non sarebbe in grado di « di offrire al nostro ordinamento un istituto che possa competere o anche solo confrontarsi con il trust ». Le diverse soluzioni apprestate hanno preso le mosse da un confronto tra i due istituti che — se, come altrove (20) si è sottolineato, ci consegna alcune differenze strutturali che risultano significative (dal punto di vista di alcuni elementi peculiari (21), della struttura (22), della forma (23), dell’oggetto (24), ( 17 ) Sul punto, com’è noto, le interpretazioni sono state diverse. Taluni, richiamando espressamente la proprietà nell’interesse altrui, hanno ricostruito conseguentemente la fattispecie prevista dall’art. 2645 ter c.c. come un’ipotesi di proprietà fiduciaria, parlando anzi della « prima inequivocabile emersione legislativa » (A. Gambaro, op. ult. cit., p. 171) della proprietà fiduciaria nel diritto interno; altri Autori hanno messo in evidenza la mancanza — negli atti di destinazione — del carattere fiduciario dell’affidamento che è invece centrale nei trust: dalla disciplina approntata nell’art. 2645 ter c.c. risulta solo la previsione dell’ammissibilità e trascrivibilità di un negozio di destinazione con il quale il proprietario « funzionalizza il bene, assoggettandolo ad una speciale regolamentazione » (A. De Donato, Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in La trascrizione dell’atto di destinazione, a cura di M. Bianca, cit., p. 50). ( 18 ) M. Bianca, Novità e continuità dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 34. ( 19 ) A. Zoppini, Prime (e provvisorie) considerazioni sulla nuova fattispecie, in La trascrizione dell’atto di destinazione, a cura di M. Bianca, cit., p. 100. ( 20 ) Sia consentito il richiamo a A.C. Di Landro, L’art. 2645 ter c.c. e il Trust. Spunti per una comparazione, in R. not., 2009, 3, p. 583. ( 21 ) L’essenza dell’istituto inglese anzitutto, come si diceva, è l’affidamento fiduciario (M. Lupoi, Gli atti di destinazione nel nuovo art. 2645 ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trusts e attività fid., 2006, cit., p. 172 e in R. not., 2006, p. 467 ss.; Id., I trusts nel diritto civile, nel Tratt. Sacco, Torino 2004; Id., Il contratto di affidamento fiduciario, in R. not., 2012, 3, p. 513 ss.), di cui manca qualunque riferimento nella norma in commento. ( 22 ) Quanto alla dinamica dei rapporti tra i soggetti coinvolti, è prevista la possibilità che sia il conferente ad agire per l’attuazione del fine dell’atto di destinazione, il che allontana l’art. 2645 ter c.c. dalla disciplina inglese dei trust, che prevede la legittimazione ad agire in capo ai beneficiari o al guardiano, non anche in capo al disponente. ( 23 ) Il trust inglese non è soggetto alla forma dell’atto pubblico ad substantiam; solo la forma scritta viene prescritta dalla Convenzione dell’Aja (art. 3), sebbene nella pratica il ricorso all’atto pubblico sia considerato più prudente. ( 24 ) Dal punto di vista dell’oggetto, nel trust possono essere incluse anche posizioni non dominicali, oltre che beni mobili non registrati, somme di denaro, titoli di credito. 732 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 della durata (25), del regime (26) di responsabilità (27)) — presenta anche talune intuitive affinità funzionali, che hanno fatto ritenere (28) di essere in presenza di un « frammento di trust » (29). Si tratta di affinità che non valgono da sole a risolvere il noto problema dell’ammissibilità dei c.d. trusts interni in Italia (30), ma che possono costitui( 25 ) L’atto di destinazione è soggetto alla durata massima di 90 anni o è parametrato sulla vita della persona fisica beneficiaria; diverse, ancorché in parte corrispondenti, regole sono stabilite sul punto in diritto inglese, nelle leggi del modello internazionale e degli Stati Uniti. ( 26 ) Quanto al profilo della responsabilità patrimoniale, è stato sottolineato che nel caso dell’art. 2645 ter c.c. la separazione sarebbe unilaterale e anche incompleta, attesa la mancanza di una disposizione che escluda espressamente i beni destinati dalla successione per causa di morte e dal regime patrimoniale della famiglia del proprietario « fiduciario » (ove si ricorra allo schema di un gestore), aggiungendosi inoltre che un’eventuale clausola dell’atto istitutivo che imponesse al gestore di prevedere, in caso di sua morte, l’attribuzione della proprietà ad altro soggetto sarebbe di dubbia liceità alla stregua del divieto dei patti successori. ( 27 ) Sembra poi che la destinazione sia compatibile con una gestione « statica », mentre è certo che dinamica possa o debba essere quella del trustee nel trust (così come nella destinazione fiduciaria per come prevista negli artt. da 6 a 14 della l. 27 gennaio 2012, n. 3, che disciplinano « le situazioni di sovraindebitamento non soggette né assoggettabili alle vigenti procedure concorsuali ». Cfr. M. Lupoi, Il contratto di affidamento fiduciario, cit., p. 513 ss). ( 28 ) M. Lupoi, Gli « atti di destinazione » nel nuovo art. 2645 ter cod. civ. quale frammento di trust, in Trust attività fid., 1, 2006, p. 171. ( 29 ) Legittimandone, con limiti, l’ammissibilità sulla base della prevalente considerazione (in questo senso Trib. Trieste, decr. 19 settembre 2007, cit.) che non occorra « una perfetta sincronia strutturale o effettuale con i negozi tipici », ma che sia « sufficiente la mera possibilità di condurre il negozio atipico a categorie — anche solo effettuali — apprezzate dall’ordinamento ». Secondo quest’ultima pronuncia, la differenza tra trust ed atti di destinazione risiederebbe nel fatto che il primo sarebbe « negozio causalmente ben definito, ancorché tipizzato solo per rinvio agli ordinamenti che lo disciplinano »; i secondi sarebbero « entità paranegoziali che, con una parafrasi “biogiuridica”, potremmo definire “opportuniste” in quanto, in difetto di struttura vitale propria, devono aderire ad altre fattispecie negoziali per potere dispiegare, sfruttando la loro struttura, gli effetti riconosciuti dall’art. 2645 ter c.c. ». La presenza di quest’ultima norma « nel sistema giuridico potrebbe avere come conseguenza quella di rappresentare un limite all’incondizionato ingresso nell’ordinamento italiano al trust: oltre ai precedenti parametri, l’interprete si deve porre la domanda se debba essere rispettato anche quello nuovo imposto dall’art. 2645 ter c.c. Il disposto recentemente introdotto, in altri termini, potrebbe venire ad operare in modo complementare, ma non perciò meno rilevante, rispetto al trust. L’esistenza di una norma che consenta la separazione patrimoniale purché si perseguano interessi meritevoli di tutela, così come identificati in base alla interpretazione che sopra è stata riportata, farebbe sì che oggi — al di fuori delle ipotesi di scissione tipizzate legalmente — potrebbe non essere più legittimo attuare a nessun titolo, e quindi neanche a titolo di trust, una separazione con finalità esclusivamente egoistiche e patrimoniali, motivata cioè da interessi non solo esclusivamente economici ma anche assolutamente individuali ». ( 30 ) Sulla cui rilevanza peraltro si sono già espressi la giurisprudenza di merito (cfr., ad es., Trib. Perugia 16 aprile 2002, in Trusts & attività fiduciarie, 2002, p. 584; Trib. Roma CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 733 re un valido argomento ricostruttivo (31), ragionando soprattutto sulla relazione di reciproca interferenza tra l’art. 2645 ter c.c. ed l’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1-7-1985, per superare le riserve di compatibilità con l’ordinamento dello strumento convenzionale, in rapporto all’art. 2740 c.c. e all’art. 13 della Convenzione (che fa riferimento a elementi importanti del trust da riconoscere, connessi a Stati « che non prevedono l’istituto del trust o la categoria del trust in questione ») e per consentirne la trascrivibilità (32). 3. — Il secondo profilo, relativo al giudizio di meritevolezza degli interessi tale da giustificare il vincolo di destinazione, appare centrale per delimitare la portata applicativa dell’art. 2645 ter c.c. anche negli arresti giurisprudenziali (33), atteso che con tale ultima disposizione si è di fatto realizzata l’« abdicazione del potere legislativo » (34) di valutare positivamente la rilevanza del fine di destinazione. 4 aprile 2003, ivi, 2003, p. 411; Trib. Milano 8 marzo 2005, ivi, 2005, 585; Trib. Saluzzo 9 novembre 2006, ivi, 2008, p. 290; Trib. Genova 1o aprile 2008, ivi, 2008, p. 392; Trib. Bologna 23 settembre 2008, ivi, 2008, p. 631; Trib. Padova 2 settembre 2008, ivi, 2008, p. 628; Trib. Napoli, decr. 19 novembre 2008, ivi, 2009, p. 636; Trib. Modena, sez. Sassuolo, 11 dicembre 2008, ivi, 2009, p. 177, e in D. fam., 2009, 1259 (nota S. Nardi); Trib. Roma 11 marzo 2009, in Trust e attività fid., 2009, p. 541; Trib. Torino 31 marzo 2009, ivi, 2009, 413; Trib. Rimini 21 aprile 2009, ivi, 2009, p. 409; Trib. Genova 17 giugno 2009, ivi, 2009, p. 531; Trib. Bologna 11 maggio 2009, ivi, 2009, p. 543; Trib. Firenze 17 novembre 2009, ivi, 2010, p. 176; Trib. Bologna 2 marzo 2010, ivi, 2010, p. 267, commentato da M. Casalini, Trust di scopo a vantaggio di una procedura concorsuale, ivi, 2010, p. 359; Trib. Genova 29 marzo 2010, ivi, 2010, p. 408; Trib. Forlì 23 settembre 2010, ivi, 2012, p. 83; Trib. Firenze 25 marzo 2011, ivi, 2011, p. 527; Trib. Urbino, ord. 11 novembre 2011, confermata da Trib. Urbino 31 gennaio 2012, entrambi in Trusts & attività fiduciarie, 2012, p. 401 e 406; Trib. Milano 15 novembre 2011, ivi, 2012, p. 408) e di legittimità (Cass. pen. 30 marzo 2011, n. 13276, in Trusts & attività fiduciarie, 2011, p. 408; con commenti di M. Lupoi, ivi, p. 469 e di Di Amato, ivi, p. 472), la prassi (Consiglio Nazionale del Notariato, Studio del 10 febbraio 2006, in Trust attività fid., 2006, p. 459) e la legislazione tributaria (cfr. gli artt. 74-76 della l. 27 dicembre 2006 n. 296 e le Circolari dell’Agenzia delle Entrate del 6 agosto 2007, n. 48/E e del 22 gennaio 2008 n. 3/E). ( 31 ) P. Manes, op. cit., p. 627; in questo senso anche lo studio del CNN Il trust: diritto interno e Convenzione dell’Aja: Ruolo e responsabilità del notaio, 22 febbraio 2006. ( 32 ) Non può disconoscersi infatti che a seguito dell’espressa previsione della pubblicità di un vincolo di destinazione da parte dell’art. 2645 ter c.c., anche la trascrizione del trust pare ormai non incompatibile con l’ordinamento. Cfr. il decreto del Tribunale di Torino del 10 febbraio 2011 in Trusts & attività fid., 2011, p. 627 ss., con nota di Parisi. ( 33 ) Ancorché la meritevolezza sia stato interpretata, di volta in volta, come requisito essenziale della fattispecie, o come onere per l’opponibilità. Ma v. quanto rilevato sul punto da R. Lenzi, Le destinazioni atipiche e l’art. 2645 ter c.c., cit., 239: « In primo luogo, infatti, risulta piuttosto eversivo affidare gli effetti della trascrizione, strumento destinato a dare certezza al sistema della circolazione, alla sussistenza di un requisito di non facile accertamento oggettivo, quale quello della meritevolezza, influenzando quindi, con valutazioni elastiche ed incerte, non il piano sostanziale dell’atto, bensì le regole circolatorie e di opponibilità. » ( 34 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, op. ult. cit., p. 327. 734 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 Gli interessi meritevoli sono stati interpretati in maniera diversa — in parte anche per l’influenza del dibattito non ancora sopito sull’art. 1322, comma 2o, c.c., ora correlato all’indagine sulla compatibilità con i parametri della liceità del negozio, dell’ordine pubblico e del buon costume (35) ora giudizio di rilevanza sganciato da questa indagine (36) — e correlativamente oggetto di letture diverse è stata l’ampiezza del relativo controllo, in sede di stipula dell’atto o, soprattutto, in fase di accertamento successivo, caso per caso, ad opera del giudice (37); dalla necessità (in fase di redazione del negozio da parte del notaio (38)) di verificare (esclusivamente) la liceità dello scopo (della causa) (39), da esplicitare necessariamente nell’atto (40), all’obbligo di valutarne la rilevanza anche sotto il profilo della « selezione dei valori » (41) tali ( 35 ) F. Messineo, Dottrina generale del contratto, Milano 1952, p. 13. In questo senso anche Trib. Trieste, decr. 7 aprile 2006, cit.: « il giudizio di meritevolezza andrebbe confinato nel mero esame della non contrarietà del negozio alle norme imperative, all’ordine pubblico ed al buon costume ». ( 36 ) E. Betti, Teoria generale del negozio giuridico, Napoli, rist. 2002, p. 169; A. Cataudella, Il richiamo dell’ordine pubblico ed il controllo di meritevolezza come strumenti per l’incoerenza della programmazione economica sull’autonomia privata, in Aa.Vv., Aspetti privatistici della programmazione economica, Milano 1971, p. 178; Guarneri, Meritevolezza dell’interesse, in Dig. disc. priv. - sez. civ., XI, Torino 1994, p. 407 ss. ( 37 ) Per A. Zoppini (Postilla ad A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter, in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, cit., 2007, p. 40) « la conseguenza principale di tale norma è che ogni ipotesi di destinazione patrimoniale potrà essere contestata ». ( 38 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 334: « Occorre chiedersi se il pubblico ufficiale possa e debba rifiutarsi, a norma dell’art. 28, comma 1o, n. 1, l. not., di ricevere l’atto costitutivo di un vincolo di destinazione importante separazione, qualora ritenga non meritevole di tutela l’interesse al cui perseguimento il vincolo stesso è preordinato. La risposta non può che essere affermativa, in linea di principio, poiché l’atto di destinazione in vista di un interesse non meritevole di tutela deve considerarsi nullo, in quanto inidoneo alla produzione dell’effetto di separazione voluto dall’autore; ora, è pacifico che l’intervento notarile sia vietato almeno nei casi in cui dalla proibizione legale discenda la nullità dell’atto. Poiché, tuttavia, deve considerarsi incerto, nel caso di cui si tratta, il significato stesso di quella meritevolezza di tutela dal cui mancato riconoscimento dipende la nullità, almeno finché su tale significato non si formi un consolidato orientamento giurisprudenziale, non sarà sanzionabile il comportamento del notaio che abbia ricevuto uno degli atti di cui all’art. 2645 ter, purché tale atto sia diretto al perseguimento, attraverso il vincolo di destinazione, di un fine almeno non illecito ». ( 39 ) Cass. 6 febbraio 2004, n. 2288, in Resp. civ., 2004, p. 1049. G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 328. ( 40 ) Tale expressio causae sarebbe idonea, fra l’altro, a sottrarre l’atto, ove bilaterale, al regime rigoroso stabilito per la donazione. Sul punto G. Palermo, Configurazione dello scopo, opponibilità del vincolo, realizzazione dell’assetto di interessi, in La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 85. A. Falzea, op. ult. cit., p. 7. ( 41 ) M. Bianca, Il nuovo art. 2645 ter c.c.: notazioni a margine di un provvedimento del giudice tavolare di Trieste, in Giust. civ., 2006, II, p. 190; Id., Atto negoziale di destinazione e separazione, cit., p. 216: « il principio di meritevolezza rappresenta il punto di incon- CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 735 da giustificare l’effettiva sottrazione dei beni dall’attivo patrimoniale dell’originario titolare, nel quadro di una tutela degli interessi dei creditori del disponente (42), coinvolti dall’istituzione del vincolo. Coerentemente con quest’ultima posizione, alcune pronunce (43) hanno ritenuto che siano validi solo i vincoli inquadrabili nell’« autonomia privata della solidarietà » (44), connotati da « pubblica utilità » (45), in relazione al richiamo operato dalla norma in primo luogo, « a persone con disabilità » od « a pubbliche amministrazioni »; in ambo i casi, caratterizzate da finalità di interesse sociale e comunque inquadrabili nella stessa classe degli interessi rispetto ai quali è consentita dalla legge, con esemplificazione condotta con un « decrescendo di intensità etica » (46), la costituzione di un vincolo di destinazione (47); viceversa dovrebbero considerarsi nulli (o, per alcuni, non opponibili), per mancanza della giustificazione causale, i vincoli privi di tale caratteristica (48). tro tra libertà dell’atto di destinazione e il controllo sull’opponibilità dello stesso, attraverso la regola di separazione patrimoniale ». ( 42 ) A. Gambaro, op. ult. cit., p. 170. ( 43 ) Ritiene che « gli interessi meritevoli di tutela richiamati dalla norma sono quelli attinenti alla “solidarietà sociale” e non gli interessi dei creditori di una società insolvente in quanto, diversamente opinando, si consentirebbe ad un atto di autonomia privata, per di più unilaterale, di incidere sul regime legale inderogabile della responsabilità patrimoniale (artt. 2740 e seguenti c.c.) al di fuori di espresse previsioni normative », Tribunale di Vicenza, 31 marzo 2011, in Corr. merito, 8-9-/2011, p. 806, con nota critica di G. Rispoli e in Corr. giur., 2012, 3, p. 397. ( 44 ) P. Spada, Conclusioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 203. Ciò anche in considerazione del fatto che l’unico interesse testualmente previsto dalla norma è quello relativo alla tutela dei disabili. ( 45 ) F. Gazzoni:, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., in Giust. civ., 2006, II, p. 170: « la finalità destinatoria deve poter essere ricompresa in quel concetto di pubblica utilità, che un tempo era alla base del riconoscimento delle fondazioni ». ( 46 ) P. Spada, Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, cit., p. 126. Come evidenziato, dai bisogni dei disabili si passa a quelli delle amministrazioni pubbliche, fino ad estendere la portata della norma alle esigenze di qualsiasi persona o ente. Ritiene che « non si richiede una particolare pregnanza dell’interesse del disponente, cioè la verifica da parte dell’interprete di una sua graduazione poziore rispetto all’interesse dei creditori o alla libera circolazione dei beni » G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., p. 179. ( 47 ) Secondo M. Nuzzo, op. ult. cit., p. 68, « anche al di fuori delle fattispecie previste dalle singole norme sui patrimoni separati, si deve (...) ritenere che ogni volta che l’interesse perseguito dall’atto di destinazione appartenga alla stessa classe degli interessi rispetto ai quali è consentita dalla legge la costituzione di un vincolo di destinazione, si rientri nell’ambito degli interessi meritevoli di tutela che nell’art. 2645 ter giustificano la limitazione della responsabilità patrimoniale ». ( 48 ) Al punto che, secondo la dottrina, una interpretazione diversa renderebbe la norma costituzionalmente illegittima. G. Gabrielli, Vincoli di destinazione, cit., p. 331: « la separazione, comportando indisponibilità del bene, si traduce in un limite della proprietà, che 736 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 La determinazione del contenuto della formula della « meritevolezza degli interessi », quando non anche del predicato della « solidarietà sociale », ponendosi sul piano dei valori, ha portato però a risultati diversi, condizionati dalle specificità dei casi e dalle differenti sensibilità degli interpreti. Così, ad esempio, il Tribunale di Vicenza (49) ha ritenuto (nel 2011) non ammissibile un piano di liquidazione concordataria, considerando non meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. gli interessi dei creditori di una società insolvente, perché non rispondenti ad un’esigenza di tutela della solidarietà sociale, che sola giustificherebbe al di fuori di espresse previsioni normative che un atto di autonomia privata incida sul regime legale inderogabile della responsabilità patrimoniale. Il Tribunale di Lecco (50), l’anno successivo, ha considerato meritevole di tutela il fine perseguito da un’impresa che, anteriormente al deposito del ricorso per concordato preventivo, aveva costituito sul patrimonio un vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c. con lo scopo dichiarato di permettere la soddisfazione proporzionale dei creditori sforniti di cause di prelazione; ritenendo in particolare che tale iniziativa consentisse la conoscibilità dello stato di crisi e preservasse il patrimonio da eventuali atti di distrazione o da iniziative pregiudizievoli per alcuni creditori. In materia di destinazione per « causa familiare » (51), il Tribunale di Trieste (52) ha ritenuto che per l’individuazione dei valori in nome dei quali operare la separazione si possa fare « riferimento al sistema costituzionale, ne altera nell’essenza il contenuto normale; ora, la norma costituzionale consente bensì alla legge di determinare “limiti” della proprietà, ma esclusivamente “allo scopo di assicurarne la funzione sociale” (art. 43, comma 2o, Cost.). Il precetto costituzionale sarebbe violato non soltanto se la legge limitasse direttamente la proprietà al fine del soddisfacimento di un qualunque interesse privato, ma anche se al risultato pervenisse in via mediata, riconoscendo efficacia giuridica ad atti di autonomia istitutivi di limiti ». ( 49 ) Trib. Vicenza 31 marzo 2011, cit. ( 50 ) Trib. Lecco 26 aprile 2012, in www.ilcaso.it, 2012. ( 51 ) Su cui Giudice tutelare Saluzzo 19 luglio 2012, cit., secondo il quale « l’atto di destinazione di un compendio immobiliare ex art. 2645 ter c.c. a causa familiare a favore di minori d’età non necessita dell’autorizzazione ex art. 320 c.c. sia per il conseguimento sia per il consolidamento della posizione beneficiaria »; Trib.Bologna, 5 dicembre 2009, cit., che ha considerato valido l’accordo con cui, in sede di separazione personale, un coniuge si è impegnato « ad apporre un vincolo di destinazione ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2645 ter c.c., sugli immobili di sua esclusiva proprietà, obbligandosi a non cedere l’immobile a terzi per tutta la durata del vincolo »; Tribunale Reggio Emilia, (decr. 26 marzo 2007, cit.), accogliendo accoglie un’istanza di modifica del verbale di separazione consensuale, ha ritenuto che risponda « ad una ottimale, anche perché incondizionata ed integrale, tutela della prole, e va perciò consentito il trasferimento, con atto formale, da un coniuge all’altro, a modifica del regime di separazione personale (o di divorzio) precedentemente instaurato, di taluni beni immobili con il vincolo “erga omnes” di cui all’art. 2645 ter c.c., allo scopo di garantire ai figli minori un adeguato e sicuro mantenimento »; così anche Tribunale Reggio Emilia, 23 marzo 2007, in Corr. merito, 2007, 6, p. 701 e in Il civilista 2008, 12, p. 53 (con nota di Bianchi). ( 52 ) Trib. Trieste 19 settembre 2007, in Nuova g. civ. comm., 2008, 6, 1, p. 687, con nota di Cinque, cit. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 737 ovvero a beni ed interessi corrispondenti a valori della persona costituzionalmente garantiti, sulla falsariga di quelli selezionati dalla giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione come meritevoli di ristoro ai sensi dell’art. 2059 c.c. » ed ha ammesso il vincolo per soddisfare i bisogni di una famiglia di fatto. Il Tribunale di Roma (53), recentemente, con sentenza rilevante anche per il profilo delle modalità di istituzione del vincolo, ha invece considerato che lo scopo del mantenimento, istruzione ed educazione delle figlie minori di una testatrice (che in loro favore aveva istituito un vincolo di destinazione con testamento) non sia assimilabile agli interessi previsti dall’art. 2645 ter c.c., che dovrebbero connotarsi in senso etico e solidaristico « anche quando riferiti a singole persone fisiche » (54). Come si vede, soluzioni diverse, pur muovendo da analoghi punti di partenza. Diverso approccio, sul punto, è stato peraltro seguito da altri Autori (55) che — ragionando su una interpretazione del riferimento all’art. 1322 c.c. ed al controllo sull’assenza di illiceità richiamato anche nei lavori preparatori (56) — hanno invece ritenuto riduttivo ricondurre l’ambito di applicabilità dell’art. 2645 ter c.c. alla soddisfazione di esigenze solidaristiche (57), ritenendo che non vi siano argomenti sufficienti per circoscrivere la meritevolezza codicistica (ex art. 1322 c.c.) (58), anche in considerazione del riferimentogenerico agli interessi di « altri enti o persone fisiche ». La ( 53 ) Trib. Roma 18 maggio 2013, cit. ( 54 ) E ciò anche in considerazione della durata prevista del vincolo, che eccedeva notevolmente il limite della maggiore età delle eredi, e del dato per cui lo scopo in questione sarebbe già oggetto di specifica tutela attraverso il controllo previsto per gli atti di disposizione dei beni dei minori da parte dell’autorità giudiziaria. ( 55 ) G. Vettori, Atti di destinazione e trust, in G. Vettori (cur.), Atti di destinazione e trust (art. 2645 ter del codice civile), cit., p. 9. Sulla stessa linea, G. Palermo, op. ult. cit., p. 77. ( 56 ) Si guardi il parere espresso dalla Commissione Permanente di Giustizia in data 28 giugno 2005, reperibile all’indirizzo http://www.camera.it/_dati/leg14/lavori/bollet/200506/ 0628/pdf/02.pdf, nel quale espressamente si sottolinea che il giudizio di meritevolezza coincide con l’accertamento di non contrarietà del negozio realizzato alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume e non comporta dunque alcuna valutazione di utilità sociale della destinazione (il che, peraltro, secondo la Commissione, introdurrebbe un vulnus al principio dell’art. 2740 c.c. e come tale avrebbe suggerito la non adozione dell’articolo in commento). ( 57 ) A. Di Majo (op. ult. cit., p. 114) ha segnalato che il riferimento agli interessi meritevoli, non incastonandosi nell’ambito di una negoziazione bilaterale, comporterebbe un’anomalia perché qui « l’interesse meritevole non è legato ad un fenomeno di scambio e cioè ai termini oggettivi di esso ma alle persone dei beneficiari ». P. Spada (Articolazione del patrimonio da destinazione iscritta, cit., p. 124) segnala l’ambiguità della formula dell’art. 2645 ter che « prima sembra orientare la meritevolezza ai sommi valori della solidarietà e poi “svenderla” richiamando la norma dell’art. 1322 c.c. che, nel diritto “vissuto”, fa della meritevolezza una condizione equivalente alla liceità ». ( 58 ) G. Oppo, Brevi note sulla trascrizione di atti di destinazione (Art. 2645 ter c.c.), in questa Rivista, 2007, 1, p. 2. 738 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 norma, secondo questa dottrina, non sarebbe concepita « per esigere valutazioni funzionali di prevalenza dell’interesse del disponente rispetto a quello dei creditori danneggiati dalla separazione dei beni oggetto del vincolo » (59) ma anzi legittimerebbe la riferibilità ad un interesse soggettivo atipico (60), di qualsiasi natura, patrimoniale o non patrimoniale, anche di carattere individuale (61). Anche le interpretazioni più rigorose (62), peraltro, hanno precisato — e si è posto in questa linea anche il citato decreto del Tribunale di Trieste del 2007 — che « la selezione degli interessi, al fine di verificare se il vincolo di destinazione sia idoneo a giustificare la separazione, non può operarsi che sulla base del sistema costituzionale: potrà ammettersi, allora, la costituzione del vincolo non soltanto se diretto al perseguimento di un interesse collettivo (come, per esempio, quelli al progresso della ricerca scientifica ed alla tutela dell’ambiente o del patrimonio culturale), ma anche di un interesse individuale, purché incondizionatamente tutelato e, quindi, di natura non meramente patrimoniale: quegli stessi interessi, corrispondenti a “valori della persona costituzionalmente garantiti”, la cui lesione un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato considera in ogni caso risarcenda, a prescindere dall’espressa previsione di legge di cui all’art. 2059 c.c. ». Sul punto, dunque, dovrà probabilmente attendersi che si formi un consolidato e uniforme orientamento della giurisprudenza. Fino ad allora, può dirsi che il dato letterale, se non legittima senz’altro una indiscriminata apertura alla destinazione patrimoniale purché (solo) lecita, non fornisce però argomenti decisivi per ricondurla esclusivamente alla « pubblica utilità »; essa piuttosto sollecita un giudizio « relazionale » (63) e comparativo tra l’interesse sacrificato (dei creditori generali, valutando anche se dal caso emerga alcun intento fraudolento), e l’interesse realizzato con l’atto di destinazione. Un giudizio che, anche questa è questione sulla quale le posizioni possono essere diverse, può attingere i valori da fattispecie analoghe per le quali la legge ha già ( 59 ) G. Vettori, Atto di destinazione e trust: prima lettura dell’art. 2645 ter, in Obbl. contr., 2006, 10, p. 777. ( 60 ) G. Palermo, Nemini res sua servit (servitù e vincoli atipici), in Nuova g. civ. comm., 2011, p. 340. In base all’art. 2645 ter c.c. « Domino res sua servit sembra allora poter dire, operando il ribaltamento della prospettiva assunta dall’autore del codice e dando spazio a un “nuovo modo di possedere”, nonché di trarre utilità dal bene compreso nella propria sfera di appartenenza ». ( 61 ) A. Azara, « La disposizione testamentaria di destinazione », Commento a Trib. Roma 18 maggio 2013, in Nuova g. civ. comm., 2014, parte I, p. 89. ( 62 ) G. Gabrielli, op. ult cit., p. 332. ( 63 ) Così M. Nuzzo, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, in La trascrizione del’atto negoziale di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p. 68: « ... giudizio relazionale... nel senso che il giudizio di meritevolezza costituisce il risultato di una valutazione comparativa tra l’interesse sacrificato, che è quello dei creditori generali, e l’interesse realizzato con l’atto di destinazione ». CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 739 operato la selezione quali, ad esempio, il fondo patrimoniale (64) o può essere orientato proprio considerando che, laddove il legislatore ha voluto prevedere eccezioni al principio della responsabilità patrimoniale universale, lo ha fatto espressamente e con disposizioni insuscettibili di applicazione analogica. Si aggiunga infine che non solo il « se » della destinazione ma anche il « come » (65) è anch’esso « criterio alla stregua del quale valutare la legittimità degli interessi perseguiti »: il giudizio di meritevolezza degli interessi deve essere apprezzato, cioè, in una valutazione complessiva, che tenga conto anche delle modalità con cui il vincolo viene costituito; ma il tema, come si vedrà, rimanda ad un altro punto del nostro discorso. 4. — L’analisi dell’ultimo profilo di questa ricostruzione può servirsi di una recente decisione del Tribunale di Roma, interessante perché tocca tutte le questioni finora esaminate e ne aggiunge una nuova, trattandosi del primo caso di vincoli di destinazione istituti per testamento. A fronte di un’azione proposta da uno degli eredi per far dichiarare la nullità/annullabilità/inefficacia di una disposizione testamentaria costitutiva del vincolo di destinazione ex art. 2645 ter c.c., adducendo la violazione della disposizione dell’art. 549 c.c., l’illegittimità del divieto perpetuo di divisione, il difetto dei requisiti della meritevolezza e dell’altruità degli interessi di cui all’art. 2645 ter c.c., il Tribunale dichiara inefficace (rectius nullo) il vincolo di destinazione istituito mortis causa in favore dei legittimari della testatrice, ritenendo che esso non possa essere costituito tramite testamento, e che, essendovi coincidenza tra l’erede del bene ed il beneficiario del vincolo sullo stesso cespite, si verificherebbe una sostanziale espropriazione delle facoltà che costituiscono il contenuto del diritto del proprietario, risultando questi ( 64 ) Strumento quest’ultimo che costituisce figura tipica di patrimonio di destinazione per interessi della famiglia,ma che non può trovare applicazione al di fuori del ristretto ambito della famiglia legittima attuale, e non è utilizzabile per provvedere, ad esempio, ai bisogni dei membri di una famiglia di fatto o di una famiglia legittima ove il vincolo matrimoniale si sciolga a seguito del decesso di uno dei coniugi. R. Lenzi, op. cit., p. 244: « La figura speciale del fondo patrimoniale costituisce non solo un rassicurante parametro al fine di valutare la legittimità del negozio in concreto, ma anche un utile modello di riferimento, nell’esercizio dell’autonomia privata, per costruire la disciplina della fattispecie ». Il collegamento è stato, del resto, fissato nel citato parere della Commissione giustizia del 28 giugno 2005, con cui si è anzi evidenziato che « la disciplina introdotta mediante il nuovo articolo 2645 ter concernente i beni conferiti (ed i relativi frutti) sembrerebbe modellata su quella di cui agli articoli 168 e seguenti del codice civile riguardanti il fondo patrimoniale, anche se, rispetto ad essa, si differenzia per la previsione di una più piena ed efficace garanzia sui beni rispetto agli atti di esecuzione », non essendo questi subordinati alla dimostrazione alla conoscenza che il creditore avesse della destinazione. ( 65 ) R. Lenzi, op. ult. cit., p. 241: « La valutazione circa la conformità al sistema non potrà quindi limitarsi al “se” della destinazione ma anche al “come”, cioè alle regole di attuazione dettate dall’autonomia privata. Anch’esse costituiranno criterio alla stregua del quale valutare la legittimità degli interessi perseguiti ». 740 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 abilitato a godere solo di alcune delle utilità prodotte dal bene. Incidentalmente si precisa che un’anomalia del genere non sussisterebbe nel caso dell’istituzione di un trust, che comporta il trasferimento della proprietà non al beneficiario, ma al trustee, il quale è gravato dall’obbligo di amministrazione e gestione nell’interesse altrui. Un caso interessante, dunque, per i profili che sinora sono stati analizzati, ma anche per l’ultimo citato, attinente alle modalità di istituzione del vincolo. È, questa, una delle questioni problematiche lasciate insolute dalla norma in commento, stante il riferimento (forse volutamente (66)) generico all’« atto » trascrivibile formulato dall’art. 2645 ter c.c. Tale richiamo, in effetti, potrebbe consentire ai privati di adottare, per realizzare l’effetto di destinazione, strumenti diversi (67) anche in relazione all’intento variabile e ulteriore di accompagnare tale ultimo effetto con quello traslativo: il vincolo potrebbe essere tanto « autodestinato », quanto « finale », ove costituito dal conferente direttamente in favore del beneficiario, quanto « strumentale », ove si scelga di farlo gravare non sul disponente ma su un diverso soggetto « gestore », chiamato a realizzare lo scopo dell’operazione (68). La gestione, cioè, potrebbe essere riservata a sé dal conferente (con negozio non traslativo, sganciando la destinazione dal profilo attributivo (69), ove il costituente intenda istituire il vincolo, ma non spogliarsi della proprietà del bene (70), e attribuire il controllo al beneficiario), affidata al beneficiario (con controllo da parte del conferente), o affidata ad un terzo (schema, quest’ultimo, rispetto al quale si porrebbero poi una serie di ulteriori problemi in merito alla scelta degli strumenti di attribuzione dell’ufficio gestorio (71) — ( 66 ) La scelta di non riferirsi né al negozio né al contratto è stata interpretata da autorevole dottrina come risultato di una precisa opzione del legislatore, che avrebbe così inteso lasciare libertà di adozione dello strumento più opportuno; « qualunque tipologia di atto giuridico è di per sé ammessa ed efficace », si è assunto, e potrebbe dunque essere oggetto di formalizzazione notarile e di trascrizione. A. Falzea, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione, cit., p. 5. Sulla stessa linea anche M. Nuzzo, Atto di destinazione e interessi meritevoli di tutela, ivi, p. 60. ( 67 ) M. Bianca, Novità e continuità..., cit., p. 33. ( 68 ) In questo senso, G. Palermo, Interesse a costituire il vincolo di destinazione e tutela dei terzi, in G. Vettori (cur.), Atti di destinazione e trust (art. 2645 ter del codice civile), Padova 2008, p. 287. L’ammissibilità di un soggetto attuatore della destinazione diverso dal conferente potrebbe discendere dalla previsione della possibilità che quest’ultimo agisca per la realizzazione dello scopo, atteso che non sarebbe concepibile un’azione giudiziaria del destinante contro sé stesso. Cfr. sul punto M. Bianca-M. D’Errico-A. De Donato-C. Priore, L’atto notarile di destinazione. L’art. 2645 ter del codice civile, Milano 2006, p. 31. ( 69 ) Sul punto, cfr. M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in questa Rivista, 2007, p. 208. ( 70 ) G. De Nova, Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., relazione al seminario « Atti notarili di destinazione dei beni: articolo 2645 ter c.c. », Milano 19 giugno 2006. ( 71 ) A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter c.c., CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 741 con o senza il trasferimento temporaneo della proprietà (72)-ed alle tutele utilizzabili in casi di inerzia o abusi del gestore (73)). Conseguentemente le soluzioni prospettate in merito alla natura del negozio istituivo del vincolo sono state, nell’interpretazione della giurisprudenza (74) e della dottrina, oscillanti nell’alternativa tra struttura unilaterale o bilaterale. Secondo alcuni Autori, in particolare, lo schema ordinario cui fare riferimento sarebbe il negozio unilaterale, anche perché l’ammissibilità di un atto bilaterale troverebbe ostacolo nel carattere volutamente generico della categoria dei beneficiari della destinazione e nel riferimento a « qualsiasi interessato » fra i soggetti che possono agire per la realizzazione degli interessi indicati (75). Per altri Autori (76) la natura contrattuale (e gratuita) dell’atto istitutivo deriverebbe invece anche dall’art. 1987 c.c., che impone la tipicità degli atti unilaterali e l’impossibilità di effettuare un’attribuzione patrimoniale al di in Aa.Vv., Negozio di destinazione: percorsi verso un’espressione sicura dell’autonomia privata, Quaderni della Fondazione Italiana per il Notariato, Milano 2007, p. 35. ( 72 ) Sotto forma di sublegato ex art. 662 c.c., attraverso due disposizioni a titolo particolare connesse fra loro (l’una a favore del beneficiario, l’altra a favore del gestore), e con applicazione dell’art. 671, c.c., ove si aderisca alla tesi della costituzione per testamento. Cfr. A. Merlo, op. cit., p. 514. ( 73 ) Cfr. sul punto M. Ieva, op. cit., p. 1295; A. Gentili, Le destinazioni patrimoniali atipiche. Esegesi dell’art. 2645 ter c.c., in Rass. d. civ., 2007, p. 33 ss. ( 74 ) Secondo Trib. Reggio Emilia, ord. 26 marzo 2007, cit.: « la locuzione impiegata all’inizio dell’art. 2645 ter c.c., deve, perciò, essere riferita al genus dei negozi (atti e contratti) volti ad imprimere vincoli di destinazione ai beni, purché stipulati in forma solenne; del resto, il successivo richiamo all’art. 1322 comma 2o c.c., dimostra che la norma concerne certamente anche i contratti ». Cfr. anche Trib. Reggio Emilia, sez. I, 30 novembre 2006, in Redazione Giuffrè, 2007; Trib. Reggio Emilia, sez. I, 23 marzo 2007, in G. mer., 2007, 12, p. 3183 con nota di Di Profio, cit. ( 75 ) A. Di Majo, Il vincolo di destinazione tra atto ed effetto, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p. 118, ritiene che l’atto sia unilaterale « nella intrinseca sostanza » anche nel caso di attribuzione fiduciae causa, « ove il fiduciario non fa altro che prendere atto della destinazione ed offrirsi di contribuire alla sua realizzazione » (p. 114). Secondo F. Gazzoni, (Osservazioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione..., cit., p. 223), la struttura unilaterale comporterebbe la conseguenza che « il beneficiario, ricevuto l’atto, diverrebbe creditore della prestazione, nel senso di poter profittare del vincolo, immediatamente, senza dover manifestare volontà alcuna, onde potrebbe solo, ove fosse contrario all’attribuzione, ricorrere alla remissione del debito, con il rischio di una controdichiarazione del conferente, il quale dichiari di non volerne profittare (art. 1236 c.c.), salvo ipotizzare il rifiuto quale rimedio di carattere generale, che il terzo potrebbe sempre liberamente utilizzare, al fine di salvaguardare la propria sfera giuridica personale o patrimoniale dalle altrui attribuzioni o dichiarazioni indesiderate ». ( 76 ) F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c. in Giust. civ., 2006, II, p. 165 e ss. e in www.judicium.it. Per le diverse posizioni, cfr. A. Fusaro, Le posizioni dell’accademia nei primi commenti dell’art. 2645 ter c.c., p. 35, cit. 742 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 fuori delle ipotesi tipiche (77). La struttura bilaterale — che altra dottrina non esclude si accompagni a corrispettività (78) — sarebbe compatibile con gli schemi fin qui riferiti: tanto con l’accordo tra destinante e beneficiario, la cui accettazione varrebbe a superare le difficoltà connesse all’intangibilità della sua sfera giuridica e sarebbe anzi necessaria ove la costituzione gratuita sia determinata da spirito di liberalità (79); quanto con il ricorso ad un gestore del programma formato dal conferente, diverso da quest’ultimo (ma non necessariamente dal beneficiario). Quanto alla possibilità che tale negozio attributivo sia stipulato sia inter vivos che mortis causa, la tesi contraria, accolta dall’organo giudicante nella sentenza da ultimo citata, interpreta la scelta del richiamo all’atto pubblico dell’art. 2645 ter c.c. come voluta esclusione del testamento, invece espressamente previsto come titolo costitutivo in fattispecie funzionalmente affini come il fondo patrimoniale o le fondazioni. La deroga al principio della responsabilità patrimoniale universale ex art. 2740 c.c., che si realizza ammettendo la possibilità di stipulare atti di destinazione, non consentirebbe fra l’altro un’interpretazione estensiva della norma, laddove essa fa, appunto, generico riferimento all’« atto ». Ulteriore argomento utilizzato dal Tribunale di Roma per sostenere la tesi contraria alla costituzione del vincolo di destinazione tramite testamento attiene al richiamo operato all’art. 1322 c.c.; tale riferimento al controllo di meritevolezza degli interessi si giustificherebbe solo « per i contratti che non appartengano ai tipi aventi una disciplina particolare » e non avrebbe alcuna ragione d’essere per il testamento, per cui operano altri limiti (il rispetto dei ( 77 ) Secondo P. Spada, Conclusioni, in M. Bianca (cur.), La trascrizione dell’atto negoziale di destinazione - L’art. 2645 ter del codice civile, cit., p. 204, è certo che, ove si ammetta la struttura bilaterale, non avrebbe senso, né sarebbe coerente col dato letterale della norma in commento, la coincidenza tra la persona del destinante e del beneficiario. « Non dovrebbero potersi configurare destinazioni equivalenti ai cc.dd. trust autodestinati ». In questo senso la dottrina prevalente. ( 78 ) G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione patrimoniale e pubblicità nei registri immobiliari, cit., p. 335: « Poiché la costituzione di un vincolo di destinazione importante separazione patrimoniale dà luogo in ogni caso ad un rapporto patrimoniale fra proprietario gravato e portatore dell’interesse alla destinazione stessa, lo strumento normale della costituzione non può che essere il contratto. Non sembra, anzi, di dover escludere l’ammissibilità anche di contratti connotati da corrispettività, come può accadere nel caso in cui al proprietario che consenta a subire il vincolo venga attribuito, a fronte, un qualche vantaggio ». ( 79 ) Per G. Gabrielli, op. ult. cit., p. 336, non è escluso che « ben può esservi, a fondamento della costituzione, un interesse proprio dello stesso costituente, diverso da quello di beneficiare; in questi casi di contratto gratuito, ma non liberale, ben può ammettersi che il vincolo si costituisca per effetto della sola dichiarazione del proprietario gravato, una volta resa conoscibile dal beneficiario, se non segua entro congruo termine il rifiuto di quest’ultimo ». La rilevanza da riconoscersi all’eventuale rifiuto della persona nel cui interesse il proprietario consente al vincolo fa sì che la fattispecie costitutiva sopra individuata si configuri ancora come contratto, sia pure a formazione unilaterale. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 743 diritti riservati ai legittimari, il divieto dei patti successori) e un diverso canone di valutazione della liceità (80) (dei motivi, contenuto nell’art. 626 c.c., non già nell’art. 1322 c.c.) (81). Sul punto, è da dire, dissentendo dalla soluzione fin qui riferita, che la possibilità che il negozio istitutivo del vincolo di destinazione sia stipulato tanto inter vivos quanto anche mortis causa, (o, quanto meno, l’impossibilità di escludere che possa essere stipulato anche mortis causa) sembra risultare proprio dalla lettera della norma: in primo luogo, dalla previsione per cui i terzi interessati possono agire per l’attuazione del fine anche durante la vita del conferente; il che, evidentemente, implica la possibilità che essi agiscano anche dopo la morte del medesimo e ammette l’eventualità della eccedenza della durata del vincolo rispetto alla vita del disponente stesso. Ciò, fra l’altro, sarebbe anche confermato dalla previsione per cui il limite temporale massimo è quello della durata della vita non del disponente, ma della persona fisica beneficiaria. Si potrebbe obiettare a tal proposito che gli evidenziati dati letterali autorizzino a ritenere validi atti istitutivi del vincolo (inter vivos) con effetti post mortem (per condizione di premorienza o termine di efficacia coincidente con la morte del disponente) o comunque con prolungamento della durata del vincolo oltre la morte del conferente, non anche atti mortis causa (qual è il testamento). E però, anche dal punto di vista della ratio che presiede alla scelta del tipo di atto, non sembra autorizzare alcuna discriminazione tra negozi inter vivos e di ultima volontà (82) il generico riferimento alla categoria degli « atti in forma pubblica »; il quale anzi, privilegiando il dato formale rispetto a quello della natura del negozio, dimostra di dare peso prevalentemente al rispetto di adempimenti formali, giustificati anche dall’intento di consentire un controllo di legalità degli interessi perseguiti e funzionali poi a permettere la pubblicità e dunque l’opponibilità del vincolo (83). Anzi, il dato letterale ha suggerito a ( 80 ) M. Ieva, op. cit., p. 1297; A. Merlo, op. cit., p. 512. ( 81 ) Ulteriore argomento utilizzato dalla dottrina attiene al principio il principio di equivalenza delle forme testamentarie; la sua considerazione ha però portato a diverse conseguenze interpretative, perché secondo alcuni Autori (M. Ieva, op. cit., p. 1297) la sua operatività precluderebbe la possibilità di costituire vincoli tramite testamento (stante, appunto, la regola della necessaria equivalenza quanto agli effetti dei diversi tipi di testamento), secondo Altri « una volta individuato nel testamento un idoneo atto di destinazione, non può però reputarsi necessaria la forma del testamento pubblico » (R. Quadri, L’art. 2645 ter e le nuove discipline degli atti di destinazione, in Contratto e impr., 2006, p. 1725). ( 82 ) Così, in commento alla medesima sentenza, anche R. Calvo, Vincolo testamentario di destinazione: il primo precedente dei tribunali italiani, in Fam. e d., 2013, cit. ( 83 ) Ove anche si consideri che la trascrivibilità del vincolo testamentario di destinazione non è espressamente prevista, secondo alcuni (F. Spotti, Il vincolo testamentario di destinazione, in Famiglia, Persone e Successioni, 2011, 5, p. 384 ss.) essa si potrebbe fondare sul richiamo, effettuato dall’art. 2648 c.c., ai nn. 1), 2) e 4) dell’art. 2643 c.c., atteso che 744 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 parte della dottrina (84) che la prescritta forma solenne sia imposta per la stessa validità dell’atto (85), anche perché l’esigenza di attendibilità propria del sistema pubblicitario avrebbe potuto essere soddisfatta anche dalla semplice autenticazione della scrittura privata: ciò che imporrebbe, questo sì, la necessità che il vincolo sia costituito con testamento pubblico (86). Non sarebbe necessaria dunque un’interpretazione estensiva dell’accezione « atto », di per sé inclusiva, senza alcuna forzatura (se non con l’avvertenza del rispetto della forma pubblica), del testamento. Del resto, una volta soddisfatti gli oneri di forma, nemmeno ragioni sol’effetto di separazione patrimoniale costituisce un minus rispetto a quello del trasferimento della proprietà ivi considerato. L’argomento della mancata espressa menzione del testamento quale titolo costitutivo del vincolo di destinazione è criticato da chi (A. Merlo, op. cit., p. 510) ha messo in evidenza che « laddove il legislatore ha inteso vietare una determinata disposizione testamentaria, non ha semplicemente taciuto al riguardo, bensì lo ha indicato in modo espresso (ad es. si veda l’art. 2821 c.c. che vieta la costituzione di ipoteca per testamento) ». In questo senso anche C. Romano, Vincolo testamentario di destinazione ex art. 2645 ter c.c.: spunti per ulteriori riflessioni, nota a Trib. Roma 18 maggio 2013, cit., p. 68. ( 84 ) Secondo A. Gentili, op. cit., p. 9 « la tesi che l’atto pubblico sia richiesto ad substantiam ha supporti sostanziali. L’atto di destinazione è infatti, con l’attribuzione, una delle due specie della generale categoria della disposizione. È principio pacifico che le attribuzioni patrimoniali a titolo gratuito per causa liberale per loro natura (incidenza sul patrimonio del disponente) richiedano la forma pubblica. È perciò coerente che anche la destinazione, in quanto implica la devoluzione liberale al beneficiario dei relativi vantaggi, richieda l’atto pubblico ». Su questa linea anche M. Ieva, op. cit., p. 1296. ( 85 ) Un piano diverso di discussione attiene all’idea per cui nella destinazione patrimoniale ex art. 2645 ter c.c. non si ha segregazione senza trascrizione (G. Gabrielli, La pubblicità immobiliare, in Tratt. Sacco, Torino 2012, p. 80; L. Bullo, Trust, destinazione patrimoniale ex art. 2545 ter c.c. e fondi comuni di investimento ex art. 36, comma 6o, del t.u.f.: quale modello di segregazione patrimoniale?, cit., p. 563.; G. Gabrielli, Vincoli di destinazione importanti separazione, cit., p. 325: « sarebbe lecito il dubbio, a volere rispettare la sequenza formale degli enunciati normativi, che la separazione del bene sia disposta come effetto dell’esecuzione della pubblicità ») — e dunque la destinazione avrebbe valore meramente interno e obbligatorio. Cfr. anche M. Bianca, Atto negoziale di destinazione e separazione, in questa Rivista, 2007, I, p. 197 ss. secondo la quale la destinazione opera sul piano dell’atto, mentre la separazione opera sul piano dell’opponibilità. ( 86 ) Così G. Gabrielli, op. ult. cit., p. 337. Sulla stessa linea G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in questa Rivista, 2006, II, cit., p. 165. Secondo una diversa tesi (cfr. sul punto Meucci, La destinazione di beni tra atto e rimedi, Milano 2009, p. 308; R. Quadri, L’art. 2645 ter c.c. e la nuova disciplina degli atti di destinazione, in Contratto e impr., 2006, p. 1717), in base al principio di equivalenza delle forme testamentarie quanto agli effetti producibili, il vincolo ex art. 2645 ter c.c. potrebbe essere validamente costituito con qualsivoglia forma testamentaria, sia olografa, segreta o pubblica; ciò anche sulla base della considerazione che ove si ritenesse idoneo a costituire il vincolo il solo testamento pubblico, lo stesso dovrebbe essere revocato unicamente in forma pubblica, (con ulteriore deroga al suddetto principio) e che in caso di fondazione testamentaria, non è dubbio che la stessa possa essere costituita, oltre che a mezzo di testamento pubblico, altresì mediante una scheda olografa. CONFRONTO CON LA GIURISPRUDENZA 745 stanziali deporrebbero in senso contrario, ché certamente — come sostenuto con riferimento al negozio di fondazione (87) e ribadito anche da coloro che hanno accolto sul punto una tesi restrittiva (88) — ove ne ricorrano i presupposti, l’atto (il testamento) di costituzione del vincolo di destinazione potrà essere impugnato con l’azione di riduzione o con l’azione di nullità ex art. 549 c.c. (89). Non dovrà trascurarsi, inoltre, per la risoluzione della questione in esame, la regola che presiede all’interpretazione del testamento, cristallizzata nella formula del c.d. favor testamenti: trattandosi di atto che è per natura irripetibile nel momento in cui diviene operativo, l’interprete dovrà sforzarsi di dare al suo contenuto un significato quanto più possibile conforme alle intenzioni del testatore, quali risultano proprio dalla scheda testamentaria. È un’applicazione di questo principio, ad esempio, l’art. 625 c.c., secondo il quale l’errata o falsa rappresentazione del significato oggettivo della dichiarazione — quanto alla persona dell’erede o del legatario o quanto alla cosa che forma oggetto della disposizione — non impedisce l’interpretazione correttiva del testo allo scopo di far prevalere l’effettivo intento del disponente (90). Si aggiunga che anche nel nostro ordinamento esistono schemi di coesistenza della pienezza della titolarità ottenuta per successione con l’onere di destinare specifici beni a favore di un terzo onorato, che vale a svuotare la pienezza dell’attribuzione (è il caso, appunto, dell’istituzione di erede gravata da un modus ma anche del legato, ove il fine destinatorio sia dal testatore preordinato all’attribuzione di un diritto ad un soggetto determinato), così come è testualmente ammessa la possibilità che il testatore imprima ai beni ( 87 ) F. Galgano, Delle persone giuridiche (Art. 11-35),in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma 1969, p. 175. ( 88 ) M. Ieva, op. cit., p. 1289. ( 89 ) Piuttosto, un limite applicativo della norma in commento si profila con riguardo alla natura dei beni che possono formare oggetto del vincolo, e proprio in relazione al rispetto delle formalità pubblicitarie richieste; non invece in relazione al tipo di atto o alla causa del medesimo, o ad altri vincoli di natura soggettiva (nel senso che il riferimento ad « altri enti o persone fisiche » autorizzerebbe il ricorso a tale strumento sia da parte di soggetti privati che di persone giuridiche). Secondo A. Falzea (op. ult. cit., p. 6), qualsiasi bene può formare oggetto dell’atto di destinazione, se confacente con la realizzazione dello scopo. Anche A. Picciotto, op. ult. cit., p. 1318 sottolinea che tale effetto potrebbe realizzarsi pure con riferimento ai beni mobili, risultando però sganciato dagli adempimenti formali prescritti dall’art. 2645 ter e « con tutte le gravi implicazioni in tema di opponibilità, potrebbe accedere anche a negozi non traslativi (ad es. mandato) ». Per A. De Donato (Il negozio di destinazione nel sistema delle successioni a causa di morte, in La trascrizione dell’atto di destinazione, a cura di M. Bianca, cit., p. 41) l’istituzione di un vincolo su bene mobile potrebbe avvenire « a condizione che sia realizzabile una pubblicità idonea ad evidenziare la destinazione, secondo le regole di circolazione del singolo bene mobile ». ( 90 ) Si veda sul punto G. Giampiccolo, Il contenuto atipico del testamento. Contributo ad una teoria dell’atto di ultima volontà, Milano 1954, p. 184. 746 RIVISTA DI DIRITTO CIVILE - 3/2014 relitti una destinazione tipica in termini di costituzione (diretta o indiretta) di fondazione, o ancora in termini di costituzione di fondo patrimoniale. Tali fattispecie mostrano, dunque, che la destinazione patrimoniale non può dirsi estranea al regolamento testamentario di interessi e che il valore aggiunto della disposizione finora commentata risiede, oltre che nella portata generale della causa destinatoria, anche nella sua opponibilità ai terzi tramite trascrizione. CONDIZIONI DI ABBONAMENTO L’abbonamento decorre dal 1° gennaio e scade il 31 dicembre successivo. In ipotesi il cliente sottoscriva l’abbonamento nel corso dell’anno la scadenza è comunque stabilita al 31 dicembre del medesimo anno: in tal caso l’abbonato sarà tenuto al pagamento dell’intera annata ed avrà diritto di ricevere gli arretrati editi nell’anno prima dell’inizio dell’abbonamento. 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