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problema della
formazione oggi
Il
IL PROBLEMA
DELLA FORMAZIONE OGGI
A cura di Michele La Rosa
C.I.Do.S.Pe.L.
Centro Internazionale di Documentazione e Studi Sociologici sui Problemi del Lavoro
Dipartimento di sociologia
Università di Bologna
INDICE
1. Il problema della formazione, la formazione come problema
5
6
1.1 L’orizzonte di riferimento
1.1.1 Formare nell’era della globalizzazione
7
1.1.2 Formare e principio di individualizzazione
14
1.2Quali interrogativi per le agenzie di formazione
16
1.3Il concetto di competenza come possibile trait d’union tra le caratteristiche degli attuali
contesti socio-economici e il mondo della formazione
24
1.4Brevi note conclusive
26
2. Dalla professionalità alla occupabilità
29
2.1Trasformazioni del lavoro, professionalità e competenze
30
2.2 La centralità del criterio dell’occupabilità
37
2.3 Note conclusive
41
3. L’emergenza del tema delle metacompetenze nella società e nella formazione
43
3.1Premessa: l’emergenza della metacompetenza nella società della complessità
44
3.2I presupposti teorico-epistemologici del concetto di metacompetenza
46
3.3Le dimensioni della metacompetenza. Un tentativo di definizione operativa del concetto
54
3.4La formazione alla metacompetenza
59
4. Bibliografia generale di riferimento
63
3
1. Il problema della formazione,
la formazione come problema
1.1 - L’orizzonte di riferimento
Affrontare il tema della formazione significa avventurarsi in un terreno complesso e trasversale1, in
cui sono coinvolti una molteplicità di attori: dalle agenzie istituzionali, Scuole e Università, alle realtà
formative ed alle imprese.
L’uso della parola competenza nella riflessione sul sapere e sul sapere fare è da tempo oggetto
di dibattito, poiché si tratta di un concetto dai contorni sfumati, che non a caso viene utilizzato
per esprimere l’ambivalenza di mutamenti culturali che riguardano il passaggio dalla centralità del
concetto di insegnamento a quello di apprendimento e, in riferimento al sistema socio-produttivo, il
passaggio dal fordismo al post-fordismo e alla conseguente crisi delle tradizionali categorie utilizzate
per inquadrare il lavoro e le professioni2.
Per giungere a delimitare il raggio di riflessione, in questo paragrafo introduttivo si tenterà dunque di
indicare sinteticamente i termini della questione rispetto ai quali inquadrare il problema della formazione, con particolare riferimento al tema delle competenze trasversali e delle metacompetenze, per
individuare gli interrogativi che oggi riguardano le tradizionali agenzie formative.
Formare, nella definizione etimologica più ampia, deriva da forma e significa plasmare, modellare qualcuno per fare assumere la forma voluta, educare con l’insegnamento. Dunque osserviamo che l’atto del
formare richiama quello dell’educare: guidare qualcuno, da ducere, condurre, portare verso, attraverso
“quell’insieme di attività/progetti/interventi/processi rivolti intenzionalmente e in modo organizzato
alla facilitazione del processo di apprendimento, continuo e permanente, finalizzato all’acquisizione di
skill, abilità e conoscenze, alla conseguente capacità di utilizzo, di manipolazione, produzione-creazione delle stesse, nonché alla capacità di acquisizione e sviluppo di competenze per e nel lavoro3”. Se si
assume questa prospettiva, riflettere sul formare e sull’educare significa non tanto soffermarsi sui contenuti (i singoli saperi, le discipline), ma sul modo in cui si predispone un soggetto all’apprendimento.
È evidente che, una volta stabiliti i criteri pedagogici (determinando i fini del processo educativo ed i
modi più atti a conseguirli) ci si può rivolgere ad analizzare quali siano i contenuti più idonei per realizzare la saldatura che consenta al discente, appropriandosi delle conoscenze del docente, di raggiun1
Cfr. Zanini A., Fadini U., (a cura di), Lessico post-fordista. Dizionario di idee della mutazione, Giangiacomo Feltrinelli
editore, Milano, 2001.
2
Cfr. Isfol, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di ricerca epistemologica, Angeli, Milano, 2001; La Rosa
M., (a cura di), Sociologia dei lavori, Angeli, Milano, 2002.
3
Montedoro C., “La competenza”, in Isfol, cit., 2001, p.46.
6
gere una propria autonomia critica nel processo di apprendimento4.
Questa premessa pare necessaria anche alla luce delle più recenti riflessioni in tema di formazione
al lavoro5 che sono unanimi nel ritenere superata una visione di quest’ultima progettata e fruita dai
soggetti in vista dell’inserimento sociale e infine professionale, in un’ottica di adattamento alle richieste di contesti socio-economici stabili. La formazione intesa in questa visione restrittiva, addestrare le
persone a fare delle specifiche attività, anche quando si tratti specificamente di professionalizzazione,
rappresenta un approccio inadeguato ai livelli di complessità che caratterizzano le attuali società.
Veniamo allora ad analizzare, in estrema sintesi, gli aspetti che caratterizzano i contesti societari in cui
collocare le riflessioni odierne sul tema della formazione.
Per fare questo si richiameranno alcuni termini che ormai costituiscono una sorta di mappa per leggere
le attuali trasformazioni sociali: il tema della globalizzazione, della complessità, dell’individualizzazione
dei rapporti tra individuo e società, fenomeni multidimensionali e multidisciplinari.
1.1.1 Formare nell’era della globalizzazione
L’efficacia del termine globalizzazione risiede non tanto nella capacità di indicare una rosa di fenomeni,
ma piuttosto nel tracciare i contorni del passaggio da un modello di società ad un altro6.
Rispetto al tema che qui interessa, della globalizzazione quale tratto distintivo delle società contemporanee pare necessario sottolineare il carattere di “rottura”7, di scissione tra la dimensione strutturale
e la dimensione soggettiva. Oggi infatti parlare di globalizzazione significa osservare il venire meno di
una tensione ad organizzare la politica, l’economia, la cultura entro i confini degli stati nazionali8.
Si tratta di una condizione che non si è mai realizzata compiutamente, ma che ha certamente rappresentato un obiettivo con valenze collettive ed individuali. Il contesto nazionale, spazialmente chiaramente definito, ha infatti definito per lungo tempo un raggio di azione, un orizzonte di senso significativo per le persone, coerente con le coordinate dell’agire pubblico. In questa prospettiva l’educazione9,
la formazione hanno rappresentato strumenti, via via rivisti al mutare delle condizioni societarie in
4
Cfr. Damiano E. “Il paradosso dell’asimmetria”, intervento al Seminario La comunità che apprende 22 ottobre 2002.
Montedoro C, “Il quadro teorico per la formazione”, in Isfol, Dalla pratica alla teoria per la formazione: un percorso di
ricerca epistemologica, Angeli, 2001.
6
Cfr. M. Magatti, C. Giaccardi, La globalizzazione non è un destino. Mutamenti strutturali ed esperienze soggettive nell’età
contemporanea, Editori Laterza, Roma-Bari, 2001.
7
Idem, pagina 4.
8
Melucci A., Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, Carocci editore, Roma, 2000.
9
Fischer L., Sociologia della scuola, Il Mulino, Bologna, 2003.
5
7
cui agivano, con lo scopo di socializzare individui entro organizzazioni sociali coincidenti con gli stati
nazionali, sufficientemente coesi dal punto di vista istituzionale, simbolico, valoriale, economico, conducendo all’interiorizzazione individuale (utilizzando la prospettiva funzionalista, un oggetto sociale
interiorizzato diviene parte costitutiva della personalità individuale) delle competenze e delle abilità
necessarie per vivere, adattandovisi, nel proprio ambiente sociale.
La globalizzazione mette in discussione questa rappresentazione. L’attuale fase storica è infatti sempre
più caratterizzata da una accentuata disconnessione tra l’esperienza soggettiva e l’organizzazione della
società. Si ridisegnano oggi le traiettorie tracciate dai punti di contatto tra l’esperienza individuale
e quella sociale; mutano le mappe spaziali della vita sociale, oltre l’esperienza dei confini nazionali10, per lasciare spazio a nuove composizioni: i sistemi economici e finanziari, sostenuti dai progressi
tecnologici, in particolare nel campo delle ICT11, si organizzano su scala mondiale, amplificando le
interdipendenze, a livello di conseguenze ed effetti a livello di sistema economico globale, ma allentando in parte, o riconfigurando i radicamenti politici e territoriali e soprattutto la possibilità delle
persone in carne ed ossa di percepire come “reali” o piuttosto “realistici” i meccanismi che governano
i processi che presidiano il governo dei fenomeni sociali ed economici. Anche i governi e le amministrazioni statali che presidiano le varie sfere di attività si muovono secondo strategie sempre più
“de-territorializzate”12, evidenziando connessioni e vincoli di tipo cognitivo, che riguardano l’utilizzo di
saperi specialistici, il riferimento a determinati contesti simbolici, la conformità all’azione di organismi
internazionali, la diffusione di stili culturali.
Nonostante la sfera economica abbia svolto un ruolo di primo piano nel ridisegnare gli assetti globali,
occorre infatti non dimenticare che la riorganizzazione in atto è degna di nota anche sul piano culturale:
le idee, le informazioni, le culture, supportati dalle tecnologie telematiche, viaggiano ormai a livello
planetario13.
Sugli esiti di questo fenomeno non ci sono indicazioni univoche: omologazione v.s. deficit di socializzazione, decomposizione e ricomposizione delle piattaforme culturali; ciò che si constata è l’indeterminatezza e l’autonomizzazione dei percorsi individuali rispetto a questi aspetti del vivere sociale:
“Oggi l’individuo inizia a rivendicare con forza […] la sua unicità e la sua singolarità, la sua simultanea
appartenenza a processi e reti di interazione quanto mai differenti.
10
Harvey D., La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, 1993.
Information e communication technology.
12
Wilke H., “La dinamica politica della società del sapere”, in Sociologia e politiche sociali, a. 2, n. 2, 1999.
13
Baraldi C., Comunicazione interculturale e diversità, Carocci, Roma, 2003.
11
8
In una parola, sempre di più l’individuo si pone come unità culturale in se stessa autonoma, che solo in
quanto tale può diventare un soggetto nei circuiti di dipendenza più ampi”14.
Si ridisegna in questo contesto il rapporto tra locale e globale perché con la globalizzazione si indeboliscono i vincoli spaziali in virtù della possibilità sempre maggiore di mobilità individuale; così come le
relazioni primarie non scompaiono, ma diventano meno normate, prevedibili e strutturate, aumenta la
loro contingenza e la caratteristica di essere veicoli di espressione soggettiva e di distinzione: “Oggi la
prossimità spaziale è sempre dimeno una garanzia che gli individui “vicini” abbiano veramente qualcosa di comune (come era insito nella moderna idea di cittadinanza)”15.
Il locale dunque non coincide più con la famiglia, il vicinato, la comunità, ecc., ma è tutto ciò che è
accessibile, riconfigurandosi, attraverso l’utilizzo di altri strumenti, in particolare nuove forme di comunicazione e di supporti tecnologici, che non implicano contiguità spaziale; se questo aspetto del vivere
quotidiano perde dunque di importanza, non è così per il senso di località, l’esigenza di mantenere un
senso di appartenenza, come fondamento dei processi di formazione dell’identità16.
Utilizzare il termine globalizzazione consente al contempo di visualizzare efficacemente la tendenziale
differenziazione sistemica che vede lo sviluppo di sottosistemi specializzati strutturati in base alle proprie funzione e sulla base delle proprie logiche interne17.
La società e il mondo hanno dunque un significato diverso in ogni sistema di funzione, sulla base dei
propri meccanismi interni di autoriproduzione Questa pluralizzazione di punti di vista, a partire dai quali
trattare i temi di rilevanza sociale, aumenta la complessità sociale, amplificata anche dall’interdipendenza di un sistema rispetto all’altro.
Complessità quale condizione che implica la multifattorialità della fenomenologia sociale, l’inadeguatezza di spiegazioni dei fenomeni sociali in base a schemi causali lineari, la moltiplicazione esponenziale delle scelte possibili, delle condizioni attivabili; in una prospettiva che intende la complessità non
come semplice somma o combinazione di molteplici fenomeni, ma come una costruzione di significati,
dunque non una condizione che riguarda le caratteristiche “oggettive” di un contesto, ma il modo di
osservarlo18. La società ed il mondo hanno dunque un diverso significato in ogni sistema di funzione e
ogni sistema tratta le diverse tematiche sociali in modo peculiare.
14
Bocchi G., Ceruti, M., Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, 2004, pagina 14.
idem, pagina 13.
16
Colombo M., Scuola e comunità locale. Un’introduzione sociologica, Carocci editore, Roma, 2001.
17
Cfr. Luhmann N., De Giorgi R., Teoria della società, Franco Angeli, Milano, 1993
18
Baraldi C., cit. Fischer L., cit.
15
9
All’interno di ogni sistema funzionale si consolidano, istituzionalizzandosi, forme culturali che traggono
origine da specifiche strategie di azione e dallo specifico punto di vista rispetto al quale si costruisce
la realtà; ciò produce un’incessante costruzione di simboli culturali di cui la società si serve per dare
significato alla realtà, per interpretare il cambiamento strutturale e culturale della società stessa. Nelle
società complesse in cui si osserva la differenziazione funzionale tra sistemi sociali, il patrimonio rappresentato dalle forme culturali che si sedimentano è caratterizzato da alcuni aspetti particolarmente
importanti: pluralismo culturale, centralità delle prestazioni cognitive, trattamento individualizzato di
coloro che partecipano alla comunicazione sociale, la propensione al rischio e all’azione strategica19.
Si tratta di condizioni che descrivono il concetto di modernismo come caratteristico delle società contemporanee, nelle quali la tensione verso forme sempre più elevate di conoscenza rappresenta la
condizione per lo sviluppo di questi contesti sociali; in un passaggio che dalla modernità spinge verso il
modernismo appunto: ci si aspetta che attraverso le prestazioni cognitive, più che attraverso il rispetto
delle norme, la società tragga il proprio spirito vitale, la strada del cambiamento20.
Internazionalizzazione dell’economia, crescita esponenziale del sistema delle telecomunicazioni che
destrutturano i vincoli di spazio e di tempo tipici della società industriale rappresentano fattori di trasformazione che non possono non avere riflessi sul sistema formativo, a partire dalla pressione di richieste per la diffusione delle conoscenze (linguistiche, informatiche e tecnologiche, ecc.) indispensabili
per affrontare la complessità e la relativa necessità di reperire le risorse per diffondere il più possibile
queste competenze.
Fig. 1 Formazione e globalizzazione21
1. Regionalizzazione
5. Processi di riforma che
interessano i sistemi scolastici
Formazione
e globalizzazione
4. Incremento del mercato
della formazione
2. Allungamento del
mercato del lavoro
3. Importanza della conoscenza
e dell’informazione
19
Baraldi C., cit. Fischer L., cit.
Pearce W., Comunicazione e condizione umana, Angeli, Milano, 1993.
21
Lo schema e la relativa verbalizzazione è stato costruito a partire dalle argomentazioni presentate in Colombo M., cit.,
2001, pagine 62-69.
20
10
1. L’accresciuta mobilità delle persone, dei beni, dei capitali, delle tecnologie oltre i confini nazionali
e continentali, si accompagna ad una valorizzazione di dimensioni territoriali intermedie (regioni,
distretti, ecc.) in cui lo sviluppo assume forme proprie con relative esigenze di capitale umano in
possesso di determinate caratteristiche. In un clima socio-economico in cui la concorrenza si gioca
tra regioni, conduce ad esigenze di programmazione dell’offerta formativa a livello locale, in base
allo sviluppo di dinamiche che evidenziano la crucialità del rapporto tra locale e globale e le sfide
che questo lancia al mondo della formazione.
Innanzitutto il rischio di creare nuove disparità a livello di sistemi scolastici e universitari regionali
(vedi forme patologiche di federalismo e devoluzione22) che discriminano a livello sociale, culturale
e di inserimento lavorativo altrettante persone; dall’altro l’esigenza di formare persone con elevate
qualifiche, calate sulla cultura locale, deve sapersi conciliare contemporaneamente con la necessità
di fornire quelle competenze necessarie per rapportarsi ad una società che non ha altri confini che
non siano quelli planetari. Ciò anche alla luce delle principali trasformazioni del mercato del lavoro.
2. Il secondo aspetto della globalizzazione che interroga il sistema della formazione è infatti la polarizzazione del mercato del lavoro tra professioni qualificate e altre a bassissima qualificazione e
relative differenziazioni a livello di status, tutele23, ecc. Infatti con la progressiva destrutturazione
del mercato del lavoro entra in crisi anche la consequenzialità tra istruzione e occupazione anche
se da un lato diminuiscono i rischi di disoccupazione e precarizzazione lavorativa all’aumentare dei
titoli di studio; sono dall’altro lato sempre più indeterminate le probabilità che l’istruzione garantisca accesso a determinate occupazioni. In questa prospettiva l’istruzione può essere efficacemente
interpretata come una chance: rappresenta una conditio sine qua non per l’inserimento lavorativo
desiderato, ma nello stesso tempo non lo garantisce. Si allunga così la fase di transizione tra scuola
e lavoro e in questa area grigia assumono sempre più rilevanza le competenze acquisite, ma anche
le risorse in termini di capitale sociale con il portato di disparità che ciò comporta.
3. Esistono tuttavia pochi dubbi che la quantità e la qualità di conoscenze, informazioni, competenze
che le persone avranno acquisito rappresentino il passaporto per entrare nella società della conoscenza globalizzata, e l’obiettivo per rendere questa condizione accessibile a tutti è un impegno
22
A tal proposito, a partire dal dato di fondo rappresentato dalla sempre maggiore diffusione della scolarizzazione a livello
mondiale, è necessario rilevare che a livello locale aumentano le differenziazioni di questo fenomeno e relativa distribuzione ineguale del bene istruzione.
23
Cfr. Rizza R. Il lavoro mobile, Carocci editore, Roma, 2003
11
dichiarato ad ogni livello istituzionale24. Al sistema formativo allora non è richiesto solo ed esclusivamente di trasmettere stock più o meno ampi di conoscenze ed informazioni, né preparazioni
tecnico-specialistiche, “corrispondenti” al futuro lavorativo immaginato e desiderato; si tratta invece di acquisire, attraverso la scuola e l’università, le cosiddette competenze di base, cioè i criteri
generali con cui la cultura di individuo si mantiene, si incrementa, si adatta al variare delle situazioni
esistenziali. Si tratta sostanzialmente: della capacità di comunicare, della capacità di cogliere i nessi
causali; della capacità progettuale (che include quella decisionale e della responsabilità); capacità
in grado di ricomporre l’antagonismo tra sapere critico e sapere fare, in un’integrazione che è data
dalla formazione alle competenze, oltre che alle conoscenze25, in un percorso senza soluzione di
continuità tra istruzione ed educazione, e la realizzazione di concreti processi di long life learning.
Questo perché da un lato il sapere diffuso a livello sociale interagisce con quello specificatamente
scolastico, dall’altro perché è consolidata l’idea che non si possa istruire senza educare, dunque
senza prestare attenzione al processo di costruzione dell’identità delle persone.
4. Questa sovrapposizione è richiamata da un aspetto che contraddistingue i contesti sociali contemporanei, in cui le opportunità formative si moltiplicano. Ciò ha da un lato ha portato alla consapevolezza che è necessario perseguire obiettivi di integrazione tra le varie realtà formative; dall’altro
la molteplicità di offerta necessita di attività di coordinamento (orientamento, accompagnamento,
ecc.) per evitare che le persone intraprendano percorsi formativi privi di progettualità, ma costruiti
a partire dalle dinamiche di marketing che sostengono la competizione tra realtà formative, che non
sempre si accompagna ad effettivi livelli di qualità. Infatti non è la somma di esperienze formative a
qualificare i processi di formazione permanente, ma la possibilità di valorizzare ogni esperienza che
deve efficacemente integrarsi con l’esistente.
5. Infine, quale ultimo tratto che distingue oggi i sistemi scolastico-formativi a livello europeo è l’ondata riformatoria che ha investito varie realtà nazionali, pur in presenza di elevate differenziazioni a
livello di ordinamento istituzionale del sistema di istruzione.
Le parole chiave alla base dei vari interventi sono: debolezza dei sistemi di istruzione a livello di valutazione26 della capacità di apprendimento degli studenti che frequentano i vari istituti scolastici; livelli
24
A titolo di esempio cfr. Documento della Presidenza del Consiglio Europeo di Lisbona del 23-24 marzo 2000 “Verso
un’Europa dei saperi”; Risoluzione del Consiglio dell’Unione Europea del 27 giugno 2002 sull’apprendimento permanente
(2002/c163/01).
25
Cfr. Cesareo, “Saper fare e sapere critico. Quale sistema formativo per i giovani in Lombardia”, in IRER (a cura di), Scenari dello sviluppo, Guerini e Associati, Milano, vol. II, 1998.
26
Cfr. le attività di Invalsi e il progetto PISA dell’OCSE.
12
di dispersione scolastica e universitaria ritenuti eccessivamente elevati. Ciò che accomuna le diverse
soluzioni e dispositivi adottati nei vari progetti di riforma nei diversi contesti nazionali è la critica al
principio dell’unitarietà dell’offerta formativa.
Ciò si sostanzia nel tentavo di realizzazione27 di sistemi integrati in cui scuola, formazione professionale
e università rappresentano elementi interdipendenti di un sistema unico, tra i quali viene enfatizzata la
continuità a livello sia orizzontale che verticale.
Sono stati inoltre rivisti i meccanismi che regolano le dinamiche centro-periferia28 e le diverse forme
che deve assumere il ruolo di coordinamento a livello nazionale per garantire medesimi standard di
prestazione a livello locale; è stato in vario modo rivisitata la dialettica pubblico–privato anche nei
sistemi caratterizzati dal carattere prevalentemente pubblico dell’istruzione, sia rispetto alle possibilità
di “finanziamento” di specifiche aree progettuali da parte di soggetti non pubblici; sia mettendo a
punto meccanismi di raccordo tra i locali sistemi socio-economici che hanno portato in qualche caso a
rivedere i curricola sulle esigenze del mercato del lavoro locale.
In generale si osserva, nella filosofia di fondo dei diversi interventi, il superamento del principio di
unitarietà dell’offerta formativa che implica “l’istituzionalizzazione della differenza, cioè una crescente
attenzione ai processi di scelta dello studente e della famiglie in un’ottica di responsabilizzazione di
tutti partecipanti all’istruzione”29.
In estrema sintesi, nel contesto fin qui illustrato, istruire assume il significato di formare le personalità
individuali fornendo le basi cognitive, più che normative, funzionali all’avanzamento della società. In
questo senso la funzione educativa colloca al centro della sua azione il concetto di apprendimento,
che, diffuso in modo generalizzato, attraverso la scolarizzazione di massa, diviene motore di cambiamento della società. In questo nuovo scenario le prestazioni individuali maggiormente valorizzate
riguardano non tanto l’osservanza di sistemi normativi diffusamente condivisi, ma l’intelligenza, la capacità creativa, la flessibilità, la disponibilità al cambiamento, considerate competenze necessarie al
raggiungimento della piena autonomia da parte delle persone in ambienti sociali complessi30.
Diviene allora imprescindibile tentare di comprendere il funzionamento dei sistemi scolastici e formativi, nelle interazioni che questi ultimi hanno con il sistema sociale, culturale, economico.
27
Per una sistematica illustrazione dei processi di riforma del sistema di istruzione e universitario si rimanda al cap. 7 di
questo volume.
28
Vedi a tal proposito i più recenti interventi legislativi che anche nel nostro paese hanno introdotto processi di decentramento amministrativo, come le leggi che hanno sancito l’autonomia delle istituzioni scolastica.
29
Colombo C., cit., 2001, pagina 68 (c.vo nostro).
30
Cfr. Baraldi C., cit., 2003
13
Infatti da tempo è in atto un processo che, a partire dall’espandersi della domanda di istruzione e
formazione, alle istituzioni scolastiche e formative sono stati attribuiti compiti via via più vasti31: trasmissione dei saperi, socializzazione, integrazione delle differenze culturali e sociali, prevenzione del disagio32, ecc.; si tratta di obiettivi che in contesti societari in costante trasformazione rendono necessario
elaborare nuove strategie e modalità di relazione in contesti33 complessi in cui l’istruzione assume nuovi
e diversi significati, in cui si riconfigura il rapporto tra globale e locale e in cui il mondo dell’istruzione
e della formazione sia incisivo all’interno dei territori di riferimento e non dipenda da strategie di mero
adattamento spontaneo.
Compito delle agenzie formative diviene allora quello di rendere possibile una diffusione globale
dell’apprendimento che comprenda tutti i livelli e tutte le funzioni sociali e organizzative, gli strumenti
e le abilità che consentano agli individui di potere comprendere e quindi di agire all’interno del paradigma della complessità.
1.1.2 Formare e principio di individualizzazione
La centralità della conoscenza, dell’apprendimento e del cambiamento investe le dinamiche sociali a
diversi livelli34, originando un processo in cui le tendenze moderniste si combinano efficacemente con
l’individualismo: le aspettative cognitive sono legate all’idea che gli individui siano in grado di apprendere e cambiare, sviluppando nuove condizioni di conoscenza, cioè siano in grado di diventare diversi
e di creare diversità. Infatti, nonostante l’individuazione e la stabilizzazione delle aspettative cognitive
sia socialmente costruita, nella società differenziata per funzioni, l’attribuzione delle competenze e
delle capacità investe l’individuo singolo, originando processi di inclusione sociale che premiano non
tanto la conformità a norme e regole, ma prestazioni cognitive, l’intelligenza individuale. Questo aspetto è amplificato dal processo che vede il venir meno e il riconfigurarsi delle appartenenze tradizionali
(comunitarie, familiari, professionali, ecc.) e del senso di sicurezza e di stabilità che le accompagnava,
sempre più sostituite dalla valorizzazione delle autonomie e della diversità nelle scelte, quale base
per la formazione delle identità individuali. La pluralità dei sistemi di funzione conduce infatti i singoli
individui, spogliati delle loro appartenenze tradizionali, a diventare responsabili delle proprie scelte
31
Colombo M., cit.; Fischer L., cit.
Espansione che ha fatto ritenere che alla scuole fossero affidate funzioni compensative rispetto alla debolezza di altre
istituzioni quali la famiglia, i servizi socio-sanitari, gli Enti locali, ecc. Cfr. Canevaro A. et al., Scuola come servizio sociale,
Stampatori, Milano, 1977
33
Butera F., (a cura di), Il libro verde della pubblica istruzione, Angeli, Milano, 1999
34
Melucci A., Culture in gioco, Il Saggiatore, Milano, 2000
32
14
di appartenenza e di vita (a percorsi educativi, comportamenti sociali, carriere lavorative, investimenti
economici, posizioni politiche, comportamenti sulla salute e le malattie, ecc., ecc.)35.
L’individuo come tale e la diversità che è in grado di esprimere diviene fonte autonoma di valore.
Individualismo significa in questa ottica valorizzazione di un io rispetto agli altri io; tuttavia qui si crea
un paradosso, poiché la necessità, per decretare il maggiore o minore valore di ognuno, necessita
di standard di prestazioni rispetto alle quali misurare le performance individuali. Si ricreano così ruoli
sociali come nuclei sedimentati di aspettative individuali, all’interno dei vari sistemi di funzioni. Quindi
l’autonomia individuale è soltanto fittizia, come è elevata la tensione a raggiungere risultati standardizzati da misurarsi sulla base di prestazioni che vengono effettuate nei vari sistemi di funzione, laddove il
sistema economico e le forme culturali che emana divengono più significativi di altri, poiché il sistema
economico, attraverso l’azione individuale che produce cambiamento in un contesto di libera concorrenza esalta la valorizzazione delle individualità36.
In questo contesto, l’educazione e la formazione rappresentano un ambito funzionale alla mobilitazione
delle risorse individuali, attraverso l’apprendimento e la riproduzione di saperi molteplici e compositi,
in una prospettiva che esalta il pluralismo culturale e un individualismo talvolta radicalizzato37.
In sintesi, ciò che caratterizza gli attuali contesti societari può allora essere letto come il passaggio da
una società delle regole condivise, a una società dei rischi individualizzati, da una società basata sulla
continuità e la stabilità, ad una società del mutamento discontinuo38.
Queste trasformazioni hanno evidenti ripercussioni sulle prospettive professionali delle persone,
nell’evolversi di un sistema produttivo e di servizi all’interno di un’economia globale della conoscenza.
Fino ad un passato recente esisteva un sistema di professioni sufficientemente predefinite, caratterizzato da competenze piuttosto ben marcate, da altrettanto consolidati meccanismi di aggiornamento
del sapere trasmesso da sistemi dell’istruzione e della formazione tesi a creare cittadini dai linguaggi
relativamente omogenei, in uno stato nazionale dall’identità sufficientemente definita39.
Chi entrava nel mercato del lavoro aveva davanti a sé prospettive di carriera piuttosto certe, così come
ragionevolmente prevedibile era l’entità delle retribuzioni future (addirittura fino alla pensione, condizione anche quella abbastanza prevedibile), così come il “patto” con la propria azienda si fondava
35
Cfr. Baraldi C., cit., 2003.
Cfr. Castel R., Les Métamorphose de la question social. Une chronique du salariat, Fayard, Paris, 1995.
37
Cfr. Baraldi, C., cit., 2003.
38
Cfr. Beck U., La società del rischio, Carocci editore, Roma, 2000.
39
Cfr. Magatti M., Giaccardi C., cit., 2001.
36
15
per lo più sulla fedeltà e la stabilità. Le interruzioni e le discontinuità erano, ovviamente, possibili, ma
interpretate come “incidenti”, eccezioni, in un orizzonte di relativa stabilità40. La maggior parte delle
caratteristiche di questo passato recente sono mutate o radicalmente venute meno: le professioni compaiono e scompaiono rapidamente, è sempre più breve l’arco temporale necessario per determinare
il livello di obsolescenza cui sono sottoposte le competenze; i sistemi dei saperi scolastici e universitari
mostrano progressive difficoltà nel “rincorrere” i ritmi dettati da una sistema occupazionale ed economico che si muove in modo turbinoso. Prende corpo il concetto di occupabilità41 che sostituisce la
dimensione rappresentata dal posto di lavoro, con il suo portato di fedeltà che al massimo può essere
sostituita dalla lealtà e dal senso di responsabilità. Le strategie di vita individuali sono in questo contesto mutevoli, improntate al last minute, con occasioni prese al volo, cambi di programma a secondo
delle necessità e degli eventi contingenti, in un pacchetto all inclusive in cui lavoro, vita quotidiana,
strategie familiari, socialità sono un tutt’uno e la cui cura è affidata ad individui sempre più soli e con
sempre meno reti su cui contare. L’attività lavorativa assume quindi i confini delle attitudini personali
e della performance individuale piuttosto che della singola attività lavorativa: diviene pertanto fondamentale continuare ad apprendere. È in tale ottica che il percorso effettuato per riconfigurare e ridefinire una teoria della formazione attenta alle dimensioni sopra esplicitate ha reimpostato il problema
della formazione a partire dalla centralità del concetto di apprendimento.
1.2 - Quali interrogativi per le agenzie di formazione
Prima di affrontare in modo più esplicito il tema dell’apprendimento e delle competenze, è necessario introdurre sinteticamente il tema dell’istituzionalizzazione dell’insegnamento all’interno di specifici
contesti organizzativi, poiché si tratta di una tematica centrale all’interno di questo lavoro. La scuola
e l’università rappresentano le principali istituzioni che dispensano il bene collettivo dell’istruzione
e sono caratterizzate dal rispetto di procedure formali che ne regolano l’ingresso, la permanenza, il
riconoscimento dei risultati al termine dei vari cicli, secondo i principi dell’universalismo, della formalizzazione e della valutazione42.
La forma scolastica43 si presenta quindi come luogo particolare, separato dalle pratiche sociali e so40
Bocchi G., Ceruti M., cit., 2004.
Il concetto di occupabilità è oggetto di approfondimento nel saggio di Roberto Rizza all’interno di questo volume.
42
Cfr. Colombo M., cit., 2001.
43
Cfr. Fisher L., cit., 2003.
41
16
prattutto lavorative, riservato alla funzione dell’insegnamento, da cui le famiglie sono tendenzialmente
escluse e ciò ne determina le caratteristiche essenziali: sottomissione a regole impersonali e apprendimento in base a tali regole; prescrizioni minuziose che realizzano una influenza totalizzante sugli
alunni. Il modo scolastico di socializzazione si è imposto a tal punto che la società pensa non si possa
socializzare in modo diverso, tanto che la modalità di acquisizione esperienziale della pratica sembra
non avere alcuna legittimazione sociale; si tratta di un predominio irrimediabilmente uscito dalle mura
scolastiche, divenendo un tratto caratteristico delle nostra società, sostenuta da una generalizzata partecipazione alle istituzioni scolastiche44.
I criteri utilizzati dal sistema scolastico e universitario per valutare coloro che ne sono inseriti hanno infatti acquisito una legittimazione sociale riconosciuta anche all’esterno dei sistemi stessi e sono molti i
contesti extrascolastici che si occupano di educazione, formazione e socializzazione che traggono dalla
agenzie educative, scuola e università, le stesse tipologie e modalità di insegnamento.
Il predominare della modalità di socializzazione scolastica tipica della “forma scuola” si accompagna
però ad una crisi della “istituzione scuola”, perché la sua perdita di monopolio come luogo di insegnamento ne mette in discussione la centralità.
A tal proposito si osservi che anche nel nostro paese, sul finire del secolo appena terminato, proprio
in seguito alla transizione da una società industriale, ad una post-industriale, lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione di massa e la diffusione di opportunità formative parallele alla scuola ha introdotto nella
riflessione sul sistema della formazione l’idea che da un sistema scuolacentrico ci si stesse avviando
verso un sistema formativo policentrico, con i relativi rischi di frammentazione45.
Appare dunque necessario distinguere analiticamente tra “sistema formativo ristretto” dove avviene la
formazione strutturata e il “sistema formativo allargato” che comprende la totalità delle opportunità formative, compresa la socializzazione informale, intenzionale, ma non strutturata o preter-intenzionale46
ed individuare rispettivamente le specificità di ogni sistema. Rispetto al “sistema formativo ristretto”, la
letteratura in materia è concorde nell’evidenziare alcune specifiche funzioni47 svolte in riferimento alla
società: economica, sociale e culturale; così come vi è accordo sulla crescente difficoltà ad individuare
le linee evolutive assunte dal sistema formativo nell’attuale contesto di mutamento.
44
Cfr. Brint S., Scuola e società, Il Mulino, Bologna, 1999.
Cfr. Fisher L., cit., 2003.
46
idem.
47
Sono numerose le teorie che nel corso degli anni hanno consentito di interpretare queste funzioni: dalla teoria del capitale umano, alle teorie della stratificazione, della riproduzione culturale, la teoria della socializzazione di Parsone, secondo
un continuum che va dagli approcci conflittualisti a quelli integrazionisti.
45
17
Il limite delle interpretazioni sulla connessione sistema formativo-società elaborate in contesti sociali di
matrice industriale, risiede, alla luce delle caratteristiche della società contemporanea, nell’avere posto
“l’istruzione in un legame di stretta e lineare dipendenza rispetto ai bisogni della struttura produttiva,
del mercato del lavoro, degli obiettivi di mantenimento dell’ordine sociale”48.
Sono molteplici oggi i segnali che mettono in discussione questo presupposto in direzione di una circolarità dei rapporti tra sistema formativo e società: la contestualizzazione di quest’ultima non implica
l’annullarsi di spazi di autonomia e di conseguenza la necessità di riformulare le funzioni che la scuola
svolge nei confronti della società.
Ciò alla luce di un ulteriore importante aspetto da considerare: il sistema scolastico e formativo può
infatti essere analizzato come l’insieme di una molteplicità di organizzazioni istituzionalizzate49; la qual
cosa significa che le strutture organizzative della scuola e dell’università riflettono le regole, le convinzioni e le definizioni che riguardano la natura dell’educazione, dell’istruzione, della formazione elaborate e legittimate nell’ambiente istituzionale di riferimento; altro tratto caratteristico, se si assume questa
prospettiva, è la de-connessione della struttura organizzativa scolastica dalle attività tecniche dell’insegnamento, nel senso che l’attenzione organizzativa è tesa a mantenere il massimo della conformità con
le categorie socialmente legittimate riguardanti l’istruzione, mentre inferiore è l’impegno a coordinare
e valutare le concrete attività di lavoro che si svolgono all’interno del sistema formativo. In questa ottica
scuola e università sono interpretate come organizzazioni istituzionalizzate che assumono significato,
realtà e valore nella misura in cui è il più ampio ambiente istituzionale ad attribuirglieli.
L’attribuzione di significato, legittimità e consenso trae alimento dalla conformità a regole istituzionali
che definiscono quali siano i fini dell’istruzione, quali i metodi e le attività con cui perseguirli, chi può
insegnare a chi e che cosa, cioè definiscono cosa è la scuola e cosa deve fare.
È interessante interrogarsi in che modo i processi di mutamento sociale abbiano recentemente sollecitato le istituzione formative, contribuendo ad una loro riconfigurazione in relazione alla qualità dell’insegnamento e al più generale servizio offerto, nello sforzo di vedere aumentato il consenso sociale del
proprio operare.
Viviamo oggi in un clima socio-culturale pervaso dai miti istituzionali della moderna società razionalizzata che contribuiscono a diffondere “parole d’ordine” quali la valorizzazione delle risorse umane, la
centralità dell’approccio manageriale votato all’efficienza all’interno delle strutture organizzative, ecc.;
48
Colombo M., cit., pagina 18.
Cfr. Meyer J. W, Rowan B., “Le organizzazioni istituzionalizzate. La struttura formale come mito e cerimonia”, in Powell
W. W., Di Maggio P. J., Il neoistituzionalismo nell’analisi organizzativa, Ed. di Comunità, Torino, 2000.
49
18
ciò è amplificato dalla tendenza a trasformare il sapere in merce, oggetto di scambio e quindi fonte
di profitto, ma anche dal fatto che “le richieste necessitanti dei mercati e delle tecniche, [sono] ormai
rivolte all’intero insieme dei modi e di essere umani”50, fenomeni che tendono a mutare la fisionomia
della “forma scuola” dalle fondamenta, trasformandola nello specchio di una “società che massimizza la
produzione e il consumo non per sottrarsi al peso delle occupazioni prettamente economiche, ma, paradossalmente, per non darsi più altri traguardi che non siano traguardi di produzione e di consumo”51.
Dunque le tensioni verso il modernismo, la pervasività della logica della razionalità e dell’efficienza, la
valorizzazione delle performance individuali, e così via, sollecitano il sistema scolastico e formativo, con
un impatto forte sulla definizione della mission di questo ambito istituzionale.
Ciò premesso, il nostro interesse è qui rivolto ad analizzare il modo in cui i più significativi fattori di
mutamento sociale, culturale ed economico contribuiscono a riconfigurare quella parte del sistema
formativo ristretto costituito dal sistema scolastico (con specifico riferimento a quello secondario superiore) e universitario, premendo qui ricordare che nel proprio statuto costitutivo essi hanno un’impronta universalistica, in cui la diffusione del sapere si pone nell’ottica di agire sulle disuguaglianze,
promovendo l’emancipazione delle persone e la partecipazione sociale, in vista dell’esercizio attivo
della cittadinanza.
Per effettuare questo breve excursus esplicativo riprendiamo la relazione sistema formativo-sistema
economico; sistema formativo - ambiente sociale; sistema formativo- mondo della cultura.
Rispetto ad una declinazione tradizionale della funzione economica del sistema scolastico-formativo
rappresentato in sintesi da una concezione dell’istruzione quale investimento sia a favore del singolo
che della società, poiché le conoscenze e le competenze individuali, il capitale umano, accrescono il
progresso socio-economico generale, si arriva oggi ad una concezione ben più complessa del problema. Innanzitutto si è diffusa la consapevolezza che le scelte di investimento in capitale umano non
dipendono soltanto dalla razionalità individuale, perché sono molteplici i fattori in termini di vincoli
e risorse (di stampo istituzionale, sociale e culturale) che limitano o promuovono l’efficacia di questa
scelta. Tra le conseguenze di ciò si è assistito nel tempo ad un innalzamento della domanda scolastica
e formativa con le caratteristica di spostare in avanti la formazione specializzata52.
50
Bontempelli M., Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, Editrice C.R.T., Pistoia, 2001, pagina 16.
Idem, pagina 18.
52
Vedi i punti qualificanti la recente riforma del sistema universitario e della scuola secondaria superiore. Cfr. cap. 7 all’interno di questo volume.
51
19
Fig. 2 Processi di trasformazione sociale, funzioni e significati del sistema formativo53
Significati sociali del sistema
formativo in una società
industriale
Innalzare il grado di sviluppo di
una nazione immettendo nel sistema di produzione capitale umano
sempre più qualificato
Selezionare gli individui non in
base alle origini sociali, ma in base
alle competenze acquisite, offrendo chance di mobilità sociale
Trasmettere competenze e
conoscenze tecniche e stili di vita,
norme e valori, al fine di socializzare i giovani al patrimonio culturale
di una collettività
Funzioni
delle istituzioni
formative
Significati sociali del
sistema formativo nella
società post-industriale
Processi
di trasformazione
sociale
economica
Istruzione come bene di
investimento a lungo termine
Espansione della
differenza sociale e del
pluralismo
Scuola come garante dei
diritti di riconoscimento e
luogo di realizzazione
Espansione della
differenziazione
sociale e
del pluralismo
Scuola come contesto di
interazione, socializzazione e
costruzione di cultura
Scuola come laboratorio di
civiltà
Affermazione del
modello comunicativo
di socializzazione
sociale
culturale
Inoltre, come già accennato, si è assistito ad un moltiplicarsi dell’offerta formativa, soprattutto superiore. Il proliferare di opportunità formative, di pari passo con la frazionamento delle esperienze e degli
ambiti di fruizione di informazioni e conoscenze, in assenza di una regia e di un coordinamento verso
un progetto unitario, aumenta le disparità sociali tra coloro che hanno accesso ad una molteplicità di
occasioni formative e coloro che come unica possibilità frequentano una scuola socialmente delegittimata54.
L’amplificarsi delle opportunità formative, anche attraverso lo sviluppo e la diffusione dei mezzi di
comunicazione di massa, ha infatti, tra le altre, la caratteristica di essere particolaristica, strettamente
legata alle caratteristiche individuali e familiari di appartenenza.
Infine, come già precedentemente accennato sono mutate le connessioni tra percorsi scolastici e car53
Lo schema e la relativa verbalizzazione è stato costruito a partire dalle argomentazioni presentate in Colombo M., cit.,
2001, pagine 17-30.
54
A tal proposito si osservi che le istituzioni formative hanno via via assunto una veste debole, anche a causa del proliferare
di progetti ad integrazione dei programmi “tradizionali” che hanno sì stimolato risorse potenziali interne alla scuola, i quali
spesso non si sono integrati nei curricola, perdendo così, gli uni e gli altri, valenza educativa, restando sul versante dell’informazione e della sensibilizzazione. In questo senso la tendenza ad introdurre in modo sempre più rilevante all’interno
delle attività formative risorse proprie all’extra-scolastico ha rinforzato l’idea dell’impossibilità delle agenzie formative di
porsi quali autentiche e rilevanti agenzie educative. Nei progetti formativi che integrano la programmazione delle singole
discipline, traspare in modo significativo la differenza tra insegnamento ed educazione, al punto da condurre ad una vera e
propria divaricazione tra i due aspetti. Cfr. Damiano E., cit., 2002.
20
riere lavorative, poiché all’innalzamento dei livelli di istruzione non corrisponde automaticamente l’accesso a occupazioni qualificate, le quali necessitano di competenze e capacità di eccellenza, diversificate. L’istruzione diviene sempre più un investimento a lungo termine in cui l’inserimento lavorativo
immediato non è scontato, a favore del carattere della scuola come “ambito di transizione, luogo in cui
si sviluppa il potenziale individuale in attesa di una collocazione lavorativa qualificata”55.
Rispetto al ruolo sociale delle agenzie formative, esse mantengono la funzione di selezionare gli alunni
attraverso un sistema riconosciuto di valutazione delle prestazioni, agendo sulla base del principio
dell’uguaglianza delle opportunità che consente o dovrebbe consentire, a tutti, indipendentemente
dalle origini socio-economiche, di raggiungere soddisfacenti collocazioni sociali. Oggi la complessità
e la differenziazione sociale attenuano la capacità redistributiva del sistema formativo in termini di efficacia nell’offrire uguaglianza di opportunità sociali. Ciò a causa dell’ampliarsi dei fattori discriminanti
rispetto al successo formativo e all’inserimento lavorativo: infatti oltre a fattori “tradizionali” quali le
differenze di origine socio-culturale, vi sono caratteristiche quali il genere, l’etnia, il territorio di residenza/provenienza, le scelte scolastiche, il tipo di istituto frequentato, il percorso e l’esperienza scolastica
in senso lato, il tempo di attesa tra uscita dal sistema dell’istruzione la ricerca di lavoro che conducono
a risultati molto differenziati in termini di uguali opportunità di istruzione e di inserimento lavorativo
soddisfacente. Emerge da qui, dal venire meno di concatenazioni lineari tra vantaggi e svantaggi/
successi e insuccessi, la necessità, per una garanzia delle uguaglianze concreta e non solo formale, di
promuovere le singole individualità, i singoli percorsi biografici, sostenendone le specificità ed evitando il rischio che queste ultime si trasformino in fattori di discriminazione nell’accesso e nell’utilizzo delle
opportunità formative.
A questo primato del trattamento della soggettività si associa anche la percezione e il significato attribuito alle istituzioni scolastiche e universitarie da coloro che la frequentano laddove fattori quali
l’autorealizzazione e l’espressività si integrano a motivazioni più strumentali in un mix che configura
l’istruzione come chance56.
Concludiamo infine questa disamina con alcuni cenni alla funzione culturale della scuola, quella senza
dubbio maggiormente esposta a turbamenti e trasformazioni. In particolare, è fuori dubbio che stiano
mutando rapidamente le modalità attraverso le quali scuola e università socializzano, poiché questo
percorso che non avviene più attraverso la trasmissione di norme e valori dati e condivisi una volta per
55
Colombo M., cit., pagina 20.
Dahrendorf R., La libertà che cambia, Laterza, Bari, 1981.
56 21
tutte, ma in cui imprevedibilità, contingenza, interattività sono delle costanti. All’interno dei sistemi
formativi si è affermato ciò che è stato definito un “modello comunicativo di socializzazione”57, in base
al quale non sono tanto i vincoli normativi e istituzionali a influenzare i processi di apprendimento, ma
le personalità degli attori che entrano in comunicazione in differenti situazioni.
La socializzazione scolastica e universitaria avviene pertanto all’insegna della flessibilità, e dell’adattamento situazionale, si cura il clima di classe/aula ed il benessere scolastico e formativo, la qualità delle
relazioni; gli stessi curricula perdono il carattere dell’omogeneità e della stabilità, per divenire contenitori da riempire di volta in volta, di situazione in situazione, di contenuti educativi diversi, adeguati al
contesto di apprendimento, spesso generati dal vissuto scolastico58.
Dunque, a proposito della funzione culturale il sistema formativo si trova di fronte a condizioni ambivalenti: da un lato la frammentazione delle situazioni individuali spinge verso l’individualizzazione
dei percorsi, con il rischio di de-istituzionalizzazione della forma scuola; dall’altro lato, la molteplicità
di stimoli informativi e conoscitivi che popolano l’extra-scolatico spingono gli attori interni alla scuola
insegnanti/discenti a ridefinire e ri-contestualizzare l’apprendimento scolastico.
Sulla base delle sintetiche considerazioni fino ad ora effettuate è fuori di dubbio che affinché scuola ed
università non demandino ad altri il compito educativo che le contraddistingue, esse debbano ridefinire la propria impostazione metodologica e il proprio modo di predisporre le persone all’apprendimento. La scuola e l’università devono infatti essere in grado di preparare ed attrezzare le persone a vivere
in una società che ha nell’informazione e nella produzione di conoscenza uno dei propri tratti distintivi
e proprio il proliferare delle agenzie formative rende necessario, per evitare il rischio di un uso passivo
delle informazioni e delle conoscenze stesse, che le persone acquisiscano capacità di organizzazione
razionale del pensiero, di conoscenza riflessiva, di pensiero critico e questo conferisce nuova centralità
a queste istituzioni. Infatti più si moltiplicano le occasioni di formazione, più aumenta la necessità di
possedere le competenze che permettano di usare questo surplus di conoscenza in maniere attiva e
non subordinata. Proprio lo svilupparsi e il realizzarsi della società della conoscenza rende imprescindibile per tutti la più ampia diffusione della razionalità e della capacità di analisi ed una padronanza di
modelli conoscitivi che solo l’apprendimento scolastico e universitario possono fornire.
57
Besozzi E., “Mutamento culturale e processi di socializzazione”, in Cesareo V., La cultura dell’Italia contemporanea,
Fondazione Agnelli, Torino, 1990.
58
Interessanti a tal proposito le teorie sull’insegnante “facilitatore di apprendimento” e le strategie di cooperative learning. Cfr. Chiari G., “Le dimensioni sociologiche del processo di apprendimento/insegnamento”, in Ceccatelli Guerrieri,
G., (a cura di) Qualificare per la formazione, Vita e Pensiero, Milano, 1996.
22
Infatti anche nella vita quotidiana sono necessarie delle abilità (per utilizzare apparati tecnologici, per
entrare in relazione con la complessità dell’organizzazione amministrativa e sociale, per fruire dei mezzi
di comunicazione di massa, ecc.), che necessitano che la scuola ridefinisca le conoscenze, le capacità,
le competenze da considerarsi patrimonio comune, che deve essere posseduto da tutti gli individui per
un attivo e concreto inserimento della società, rappresentando la scuola premessa indispensabile per
percorsi di formazione permanente di successo59.
Si tratta di una sfida difficile finalizzata a progettare i sistemi educativi a partire da contesti sociali in
cui sia possibile la valorizzazione di mappe cognitive individuali ed uniche, in grado di fungere da
coordinatori delle conoscenze via via necessarie per stare al passo con l’elevato tasso di ricambi degli
specialismi, in cui le competenze e i saperi sono fluidi, i percorsi di conoscenza sono transdisciplinari, le
aree di sovrapposizione tra discipline sono sempre maggiori, in una concezione di cultura come ambito
in evoluzione e non statico60.
Le istituzioni scolastiche ed universitarie si devono quindi riorganizzare per sostenere individui che devono sapere apprendere ad apprendere per riorganizzare costantemente delle conoscenze, entrando
in un ciclo di formazione permanente.
Ciò chiama in causa la mission della scuola e dell’università: socializzare in vista di una progressiva convergenza degli individui, base di partenza per collocarsi in uno status di cittadinanza universalistico.
La differenza e l’eterogeneità delle esperienze cognitive ed emotive a cui oggi sono sottoposti i singoli
studenti, i singoli individui, è un punto di partenza ineliminabile ed ineludibile.
Tuttavia scuola e università non devono abbandonare la sfida di creare nuclei comuni di contenuti da
trasmettere e replicare collettivamente, ma è necessario rivederli alla luce di una diversa concezione
della formazione.
59
Bocchi G., Ceruti M., cit., 2004.
Idem.
60
23
1.3 - Il concetto di competenza come possibile trait d’union tra le caratteristiche
degli attuali contesti socioeconomici e il mondo della formazione
Da quanto fino ad ora affermato, i processi di mutamento che caratterizzano le società contemporanee
hanno implicazioni forti sugli obiettivi e i metodi della formazione61 in un’ottica che la intende quale
attività che stimola i soggetti a sviluppare capacità adeguate per muoversi in ambienti complessi e ad
elaborare adeguate strategie per presidiarli: che consenta dunque agli individui di acquisire quegli
strumenti per conoscere, ragionare, scegliere, decidere ed elaborare strategie di innovazione e cambiamento62.
Si tratta di una prospettiva dinamica che privilegia l’analisi non solo degli “stock” di sapere che una
persona è in grado di immagazzinare attraverso la partecipazione ad una o più esperienze formative,
ma l’analisi dei flussi di apprendimento che non sono necessariamente lineari, ma che si fondano
sull’alternarsi di momenti di creatività, consolidamento, rielaborazione attraverso i quali i soggetti sperimentano e agiscono competenze riflessive in grado di destrutturare e ristrutturare gli stimoli provenienti dal contesto ambientale, in un processo di vera e propria costruzione63.
Da questo mutamento di prospettiva discende la necessità di articolare in modo innovativo l’azione
sinergica degli attori dei processi formativi, le pratiche formative, le risorse cui attinge la formazione.
Il concetto di apprendimento diviene dunque il nucleo intorno al quale ruota l’impostazione della
formazione oggi, a qualsiasi livello, in una prospettiva che ne sottolinea il carattere costruttivo: ogni
soggetto si impegna nella costruzione delle proprie abilità, assume consapevolezza del proprio punto
di vista, in una continua attività di organizzazione e di ri-organizzazione delle proprie conoscenze, in un
processo in cui la persona assume ruolo attivo, con un accento particolare sul modo in cui si apprende
e in cui si produce apprendimento64.
Contestualmente, il passaggio da un’idea di formazione quale sistema per la trasmissione di sapere,
a processo di apprendimento, implica il transitare dalla rilevanza di acquisire blocchi di saperi e conoscenze trasmessi, che via via nel percorso formativo delle persone andavano a consolidarsi in profili
professionali, da spendersi nello svolgimento di un mestiere, di una mansione di un ruolo, all’idea di
61
Cfr. Bruscaglioni M., cit., 2001.
Cfr. La Rosa M., Il contributo della sociologia alla teoria per la formazione, in Isfol, cit., 2001.
63
Cfr. Pepe D., La costruzione del sapere e l’apprendimento di meta competenze nella società della conoscenza, in Isfol (a
cura di), Apprendimento di competenze strategiche, Angeli, Milano, 2003.
64
Cfr. Montedoro C., cit., 2001.
62
24
competenza65; concetto che sintetizza l’inscindibile nesso tra il sapere e l’agire, in un rapporto però non
lineare, ma circolare, riflessivo. In questo senso ragionare di metacompetenze e di competenze strategiche assume la valenza di un’impostazione metodologica66, in base alla quale le stesse competenze si
ridefiniscono sulla base delle metacompetenze nel senso che le prime vengono ridefinite, acquistano
un senso differente perché cambia il processo di conoscenza, cambia il modo attraverso il quale ci si
appropria di contenuti specialistici, di sapere e si utilizza poi questo sapere nell’azione. In particolare il
nuovo modo di conoscere riguarda prima di tutto la riflessività del pensiero umano e il carattere autopoietico della competenza.
Il concetto di competenza (e le sue articolazioni: metacompetenze, competenze strategiche, ecc.) rappresenta allora un possibile trait d’union tra le caratteristiche degli attuali contesti socioeconomici e il
mondo della formazione, in un’ottica di non esclusivo adeguamento alle esigenze della sfera economica, ma di promozione delle persone.
Si tratta di una prospettiva dinamica che privilegia l’analisi non solo degli “stock” di sapere che una
persona è in grado di immagazzinare attraverso la partecipazione ad una o più esperienze formative,
ma l’analisi dei flussi di apprendimento che non sono necessariamente lineari, ma che si fondano
sull’alternarsi di momenti di creatività, consolidamento, rielaborazione attraverso i quali i soggetti sperimentano e agiscono competenze riflessive in grado di destrutturate e ristrutturare gli stimoli provenienti dal contesto ambientale, in un processo di vera e propria costruzione67 e che consente di leggere
in “positivo” l’individualismo, quale tratto caratteristico delle società contemporanee.
Infatti la competenza ha da un lato un carattere individuale poiché è attributo riconducibile alla personalità e quindi alla specificità individuale e può fondarsi su elementi diversi: motivazioni, atteggiamenti,
valori, conoscenze, capacità cognitive e comportamentali68, in una valorizzazione della più ampia gamma delle caratteristiche della personalità. Qui si evidenzia la posizione attiva del soggetto nell’instaurare una relazione positiva con il contesto69: quindi il modo in cui ognuno gestisce in modo autonomo
il proprio sapere, acquisisce capacità di analisi delle situazioni, di soluzioni dei problemi, di acquisire
ulteriori conoscenze, prendere decisioni; dall’altro lato, partendo dal presupposto che le identità indi65
Cfr. La Rosa M., cit., 2001.
Alberici A., “Le metacompetenze e la competenza strategica in azione nella formazione, in Isfol (a cura di), Apprendimento di competenze strategiche, Angeli, Milano, 2003, pagina 78.
67 Cfr. Pepe D., cit., 2003.
68
Montedoro C., cit., 2001.
69
Idem.
66
25
viduali multiple70 mettono a contatto tanti saperi, tanti punti di vista, è solo attraverso una costruzione
intersoggettiva che si giunge a forme legittimate di conoscenza, attraverso processi comunicativi e
aggiustamenti reciproci e non sulla base unicamente di piattaforme di definizioni date, aprioristiche e
statiche dei saperi essenziali ed universalistici.
Ritornando allo specifico ruolo di scuola e università, a fronte del rischio che producano mappe di
saperi statiche, rigide, cristallizzate e che gli individui risultino altrettanto divisi e frammentati, incapaci
di comunicare tra di loro, di mettere a confronto punti di vista diversi, è necessario che riformulino i
propri progetti formativi intorno al concetto di apprendimento, e di apprendimento dell’apprendimento, sviluppando una sensibilità che oltre al sapere di non sapere affronti il non sapere di non sapere71.
Ciò può avvenire recuperando un concetto che si è via via perso per strada nella pratica educativa che
individua negli strumenti della conoscenza, non brandelli di oggettività, di realtà, ma il fatto che gli
strumenti di conoscenza forniscono un modo di rappresentare la realtà e quindi una volta che il discente si è appropriato di questi strumenti72, può continuare questo lavoro di rappresentazione in modo
autonomo, costruendo un proprio punto di vista della realtà, da mettere a confronto con quelli altrui.
Le capacità di apprendere ad apprendere e, perché no, apprendere per apprendere, come abilità che
attivano competenze trasversali73, devono essere promosse dalla scuola e dall’università, affinché la
cultura intesa in modo il più evolutivo e complesso possibile sia strumento di promozione delle singole
individualità non tanto per ricreare meccanismi di competizione che, sostituendo via via le appartenenze e relative gerarchie sociali, diano origine a competizioni individuo vs. individuo sulla base di
prestazioni definite dalle logiche dei sistemi di funzione.
Al contrario, la sfida è individuare modalità affinché le mappe cognitive individuali aprano a forme di
multiappartenenza (spaziale, culturale, affettiva, ecc.) per dare vita a nuovi contesti di convivenza.
1.4 - Brevi note conclusive
Negli anni, gli obiettivi educativi, le metodologie pedagogiche e didattiche di scuola e università sono
andate progressivamente nella direzione di essere al contempo il più universalistici possibili, sforzandosi di personalizzare i servizi offerti, in un’ottica tesa a soddisfare i diversi bisogni e le esigenze di alunni
70 Bocchi G., Ceruti M., cit., 2004.
Idem.
72
Damiano E., cit., 2002.
73
Alberici A., cit., 2003.
71
26
e studenti diversi per provenienza, esperienze, ecc.. Tuttavia, questo processo, che ha accomunato,
anche se con modalità differenti, i vari settori del welfare74, si accompagna, sotto le spinte culturali
sopra accennate, al rischio che dalla “personalizzazione” del servizio reso, intendendo con ciò la valorizzazione dell’espressione di ogni individuo e dunque anche degli specifici bisogni, ci si diriga verso
la deriva dell’individualismo, inteso quale valorizzazione delle diverse prestazioni individuali secondo
scale di valore standardizzate rispetto alle performance richieste dalla partecipazione, individuale, ai
diversi sistemi di funzione.
In nome della necessità di un sistema formativo più efficiente e di un maggior raccordo con il mondo
del lavoro, la scuola e l’università hanno nel tempo assunto modelli sempre più aziendalistici di gestione, hanno via via introdotto didattiche con una curvatura sempre più tecnicista, hanno strutturato
sistemi di valutazione con obiettivi di oggettività maggiore.
È indubbiamente mutato il contesto socio-culturale di riferimento e quindi non si può mettere in discussione la necessità di evitare che scuola ed università divengano l’anello debole del percorso formativo di una persona. Tuttavia è ugualmente opportuno interrogarsi in quale modo ciò può avvenire.
Sono necessarie scuole e università che valorizzino i progetti di vita di ognuno, in modo da promuovere
le risorse cognitive ed emotive di ogni persona, tenendo conto della multi-appartenenza e quindi della
necessità, attraverso l’apprendimento, di fare fronte alle richieste di diversi sistemi di funzione.
Rispetto al rapporto con il mondo del lavoro, è evidente che un necessario raccordo non può passare
unicamente per un adeguamento del primo sul secondo, ma su una sorta di complementarità tra due
mondi che hanno finalità differenziate.
Il sistema formativo deve individuare, ricalibrare la propria mission che nell’era della globalizzazione e
della complessità, oltre alla trasmissione di conoscenze, per fare fronte alla propria finalità di promuovere democrazia, coesione sociale, cittadinanza, non più basarsi sulla socializzazione ad un insieme
coeso di norme, valori, simboli, coincidenti con i confini degli stati nazionali.
È oggi infatti necessario costruire sistemi di riferimento comuni per la scuola e l’università nei quali
i diversi progetti di vita possano collocarsi e confrontarsi. La scuola e l’università devono facilitare
quel processo di de-composizione, ri-composizione delle idee, degli eventi, delle esperienze, nel loro
diverso divenire storico e spaziale, per individuare punti di contatto, in modo che la rete dei saperi e
delle esperienze che emerge con il procedere dell’età planetaria consenta di creare legami attraverso
relazioni sostenibili con l’insieme degli eco-sistemi, con la molteplicità delle culture, sfruttandone il
74
Cfr. Borghi V., Magatti M., Mercato e società, Carocci editore, Roma, 2002.
27
potenziale creativo75.
La scuola e l’università devono sapersi riappropriare di un ruolo strategico non solo come contesto
di apprendimento, ma come contesto di socializzazione, di scambio culturale e di interazione sociale,
che si pongano come finalità la mediazione tra contenuti e forme di cultura, tra stili di apprendimento/
insegnamento e la pluralità di percorsi culturali.
In questo modo la scuola e l’università diventano luoghi non di semplice trasmissione di cultura, ma
di costruzione di cultura76; ciò può avvenire attraverso l’acquisizione di strumenti che consentano l’accesso a diversi tipi di conoscenza realizzando la comunicazione tra persone che sono espressione di
culture diverse e requisiti comunicativi disomogenei, al fine di evitare nuove forme di esclusione dalla
comunicazione sociale.
L’acquisizione di questi strumenti ha quale premessa di fondo l’apprendere ad apprendere, una metacompetenza che consente di ripensare la formazione finalizzata alla promozione di competenze che
mobilitano capacità77 relative allo sviluppo di una razionalità di base e di capacità critica, formazione
della coscienza individuale, sperimentazione di capacità di partecipazione, confronto tra fonti e canali
informativi, riconoscimento dei meccanismi persuasivi, uso intenzionale dei mezzi78.
In ciò la scuola veste il ruolo di “laboratorio di civiltà”79, per scongiurare il pericolo che vivere la globalizzazione significhi solo ed esclusivamente finalizzare pratiche e saperi all’efficienza economica, depotenziando l’articolazione complessa delle identità culturali, poiché l’efficienza economica vincola gli
sviluppi della conoscenza, depotenziando lo spirito critico necessario per relativizzare il primato del
momento economico, non sottomettendosi alla sua autoreferenzialità80.
“Le istituzioni scolastiche e formative si trovano dunque di fronte ad un bivio: opereranno per aiutare la
diffusione di nuovi saperi, a favore di nuovi comuni linguaggi e di una maggiore democrazia cognitiva,
oppure si arrenderanno dinanzi all’emergere di nuove disparità e di nuove barbarie comunicative di
natura tecnocratica?”
75
Cfr. Bocchi G., Ceruti M., cit., 2004.
Cfr. Colombo C., cit., 2001.
77
Cfr. Alberici A., cit., 2001.
78
Giovannini G., “Multimedialità e integrazione sociale”, in Cesareo V., cit., 1990.
79
Cfr. Colombo C., cit., 2001.
80
Bontempelli M., cit., 2001.
76
28
2.
Dalla professionalità alla occupabilità
2.1 - Trasformazioni del lavoro, professionalità e competenze
La descrizione del passaggio dal concetto di professionalità a quello di occupabilità - definizioni che
andremo a precisare di seguito - va, in via preliminare contestualizzata nel quadro delle modificazioni
in atto nel mondo del lavoro e nel tessuto produttivo. Si tratta di cambiamenti che pur condividendo
tratti comuni, non rappresentano una tendenza uniforme, poiché sono caratterizzati da varianti che,
come documenta l’approccio istituzionalista (Powell, DiMaggio 1991; Biggart, 1999), sono radicate
(embedded) in culture, storie, ambienti politici e sistemi regolativi specifici.
Una prima tendenza a riguardo è quella riferita al modello della specializzazione flessibile (Piore, Sabel,
1987) che si basa sull’esperienza dei distretti industriali dell’Italia settentrionale. Si tratta di un paradigma produttivo i cui processi di integrazione tendono a dislocarsi dal cuore delle imprese alle relazioni
fra imprese, andando a strutturare vere e proprie galassie radicate territorialmente che si confrontano
tra loro e che richiedono una forza lavoro specializzata, adattabile e cooperativa. Per questa ragione,
come sottolinea Becattini (1987), i distretti industriali, per essere definiti tali, devono possedere le
seguenti caratteristiche:
a) una produzione flessibile capace di venire incontro alle fluttuazioni della domanda e in grado di
realizzare l’intera gamma della serie produttiva;
b) la presenza di molte piccole imprese con lo stesso tipo di produzione flessibile;
c) una divisione dei compiti tra imprese, per cui alcune vendono direttamente i prodotti sul mercato,
mentre altre eseguono processi particolari o producono determinate componenti di un prodotto;
d) un intreccio di cooperazione/competizione tra le imprese presenti sul territorio;
e) una data produzione manifatturiera dominante;
f) una forte interconnessione fra la realtà produttiva e l’ambiente familiare, politico e sociale.
Sulla base di queste dimensioni si potrebbe affermare che dal punto di vista strettamente produttivo il
distretto è costituito da “una popolazione di piccole e medie imprese indipendenti, tendenzialmente
coincidenti con le singole unità produttive di fase, appoggiantisi ad una miriade di unità fornitrici di
servizi” (Becattini, in Pyke, Becattini, Sengenberger, 1991, p. 63). Le indagini sui distretti hanno inoltre
contribuito a mettere a fuoco due ulteriori aspetti. In primo luogo, hanno dimostrato che l’organizzazione decentrata dei distretti costituisce una struttura particolarmente duttile per rispondere in modo
flessibile ai cambiamenti e alle mutevoli esigenze del mercato. In secondo luogo, hanno provato che
nei distretti la capacità di innovare e migliorare la qualità dei beni prodotti è attribuibile proprio all’esi-
30
stenza di economie esterne alle singole aziende, ma interne all’area in cui esse sono localizzate. In
altri termini, sono la disponibilità di una manodopera specializzata, di servizi e infrastrutture collettive
e l’esistenza di fattori “immateriali” di natura sociale, culturale e istituzionale a rendere i distretti industriali così competitivi sul mercato81. In effetti, il distretto industriale dovrebbe essere considerato non
come un semplice aggregato economico di unità produttive, ma come un unico insieme interrelato
di aspetti economici, sociali, politici e istituzionali. Proprio per questo motivo, Becattini definisce il distretto industriale come “un’entità socio-territoriale caratterizzata dalla compresenza attiva, in un’area
territoriale circoscritta, naturalisticamente e storicamente determinata, di una comunità di persone e di
una popolazione di imprese industriali” e ne caratterizza l’emergere storico come “un ispessimento, in
un certo luogo, delle interdipendenze industriali e sociali” (Becattini, 1987).
Una seconda tendenza legata alle modificazioni del lavoro e del tessuto produttivo che ha dato luogo
ad un sistema regolativo specifico è quella caratterizzata dalla produzione diversificata e di qualità: in
questo modello la competizione è basata soprattutto sulla qualità e la diversificazione dei prodotti e
non sul loro prezzo. Grande importanza è attribuita al coordinamento dell’economia ed alla qualificazione e fedeltà della forza lavoro appartenente per lo più a grandi imprese e corporations. I lavoratori devono, infatti, sapere integrare diversi compiti nell’esecuzione della propria mansione, imparare
rapidamente, essere coinvolti dalla strategie aziendali. Per questo grande rilevanza è accreditata alla
formazione professionale, alla capacità di iniziativa, all’attitudine verso la soluzione di problemi, alla
collaborazione tra azienda e maestranze, all’abilità a lavorare con gli altri. Si tratta di un paradigma di
organizzazione dell’economia che caratterizza soprattutto Germania e Giappone, paesi nei quali il settore industriale continua ad avere, anche nell’epoca della società dei servizi, un ruolo centrale e dove
la crescita del terziario tende soprattutto a concentrarsi nei servizi alle imprese.
Un terza tipologia che contraddistingue gli attuali mutamenti nel lavoro e nel mondo della produzione
è quella caratterizzata dalla produzione di massa flessibile che comporta la presenza di una grande
varietà di prodotti allo scopo di assecondare l’instabilità della domanda e la volatilità dei mercati mantenendo bassi i prezzi. Si tratta di un modello di organizzazione dell’economia diffuso soprattutto negli
Stati Uniti, dominato da grandi imprese transnazionali e dal settore dei servizi; entrambi presentano
una struttura dell’occupazione contrassegnata dalla polarizzazione tra funzioni manageriali ed esecutive a bassa qualificazione e dalla conseguente distinzione tra core-workers e peripfhery workers in
81
Marshall si riferisce a questi aspetti quando parla di una “atmosfera industriale” che si caratterizza per la circolazione e
diffusione rapida di conoscenze e informazioni, e per lo sviluppo di continue innovazioni incrementali.
31
cui la differenziazione tra le diverse attività del terziario costituisce l’elemento chiave per l’analisi della
stratificazione sociale. I servizi finanziari sono quelli maggiormente sviluppati, anche se è in atto un
contestuale processo di espansione dei servizi sociali ed educativi (Maione, 2001).
Nonostante la tripartizione ora presentata mostri una certa variabilità istituzionale nelle forme di organizzazione del tessuto economico, le tendenze che abbiamo esaminato indicano tuttavia come la
sperimentazione di modelli flessibili conduca ad una certa convergenza tra le tre tipologie, allentando
i confini tra piccole e grandi imprese. In entrambi i casi - per le grandi e le piccole imprese - si diffonde
infatti un modello organizzativo a rete (Castells, 2002) caratterizzato da una stretta collaborazione tra
imprese; da questo punto di vista “i distretti possono essere visti come reti di piccole e medie imprese che tendono a formalizzarsi maggiormente nel tempo, mentre la grande azienda si trasforma in
impresa-rete” (Trigilia, 1998, p. 378).
Ciò comporta un ribaltamento della logica fordista basata sull’autonomia dell’impresa dall’ambiente
esterno ed un potenziamento della collaborazione tra aziende fornitrici, spesso di grandi dimensioni,
e subfornitrici, al contrario caratterizzate da una taglia ridotta. Le reti così create funzionano come sistemi di apprendimento, come insieme di relazioni formali ed informali che favoriscono la capacità di
reazione ed aggiustamento alle trasformazioni del mercato.
Fig. 1 La convergenza nell’organizzazione dei modelli produttivi reticolari
Distretti industriali
Grande azienda integrata verticalmente
Reti di piccole e medie imprese
Impresa-rete
Reti come sistemi di apprendimento
Naturalmente, tali innovazioni hanno forti ripercussioni sull’organizzazione del lavoro, sulla riduzione
della cesura netta, tipica nel fordismo, tra concezione ed esecuzione dei prodotti. Ne consegue un
decentramento dell’autorità con uno snellimento delle componenti centrali aziendali che finiscono per
occuparsi essenzialmente delle decisioni strategiche; la possibilità di produrre beni differenziati in serie
brevi conduce ad un potenziamento della pratica del just in time, della riduzione degli scarti e dei tempi morti, della sincronizzazione della produzione alla domanda proveniente dal mercato. Ciò richiede
una maggiore collaborazione della forza lavoro, una formazione polivalente, una crescente autonomia
32
degli individui che non sono più coordinati da prescrizioni sugli obiettivi, ma controllati sulla base dei
risultati raggiunti, fattori questi che favoriscono un utilizzo flessibile della forza-lavoro.
Tale flessibilità, e qui giungiamo al tema del rapporto tra imprese e mercato del lavoro, può seguire,
in via generale, come osserva Carnoy (2000), una “via alta” o una “via bassa”. La prima è centrata sulla
qualità dei beni prodotti all’interno di reti di imprese (distretti) o imprese-rete (risultato della riconfigurazione organizzativa della grande impresa fordista) che non competono essenzialmente sul costo del
lavoro, ma offrono stabilità e certezza dell’impiego a lavoratori qualificati e sottoposti ad una formazione continua. La seconda si caratterizza per una tendenza a ridurre il costo del lavoro, precarizzando
i rapporti d’impiego, facendo largo uso dei contratti atipici, operando pressioni sui legislatori affinché
riducano i salari minimi e il potere di contrattazione dei sindacati.
Fig. 2 La flessibilità del lavoro
La via alta
La via bassa
Flessibilità funzionale e
dell’orario di lavoro nel
quadro di una stabilità
Precarizzazione dei rapporti
d’impiego in funzione
della riduzione del costo
del lavoro
e certezza dell’impiego
È tuttavia possibile osservare come entrambe queste pratiche si stiano irradiando simultaneamente
non solo nell’ambito delle differenti imprese, ma all’interno delle singole imprese. Quelle caratterizzate, ad esempio, da un ambiente di lavoro ad alta qualità, possono anche al contempo ridurre la
propria forza lavoro garantita, abbassare i salari per alcune fasce professionali, ricorrere all’uso della
subfornitura esternalizzando funzioni e creando una segmentazione crescente tra i lavoratori. In realtà,
entrambe le modalità - la via alta così come la via bassa - paiono in crescita e i confini tra loro vieppiù
fluidi, relativamente aperti ed ambigui.
Ne consegue che il mercato del lavoro che si fa più frammentato, mobile, attraversato da fenomeni di
flessibilizzazione dei contratti ed individualizzazione dei rapporti (Barbier, Nadel, 2002) con un offuscamento della centralità del lavoro dipendente a tempo pieno ed indeterminato e la rapida diffusione
33
di rapporti di impiego flessibili ed instabili, alternativamente definiti come “non standard”, “atipici”,
“precari” e “contingenti” (Smith, 1997; Boltanski, Chiapello, 1999; Esping Andersen, 2000). Ne deriva,
come sottolinea Dahrendorf (1995), che la natura del lavoro sta cambiando e che una carriera unica che
copra l’intera esistenza della persona sarà sempre di più l’eccezione e non la regola.
Proprio l’attuale stato di permanente cambiamento nel tessuto produttivo, nel mercato del lavoro,
nei sistemi organizzativi e nell’ambiente lavorativo sta determinando una perdita di ancoraggio di
alcune categorie fra le quali spiccano quella di mestiere, di mansione, di ruolo (Isfol, 2001). Ciò implica la necessità di trattare il sapere professionale in termini maggiormente dinamici, legandolo alle
trasformazioni del lavoro, sia sotto il profilo dei contenuti operativi, sia nell’ambito delle dimensioni
organizzative. Lo sviluppo della propria professionalità si deve combinare pertanto con l’arricchimento
delle proprie competenze; esse divengono quindi una variabile che lega il livello dell’apprendimento
individuale con il contesto lavorativo, non possono essere riferite alla mera qualificazione professionale, ma vanno ricomprese entro un’accezione più ampia che conduca ad un agire fondato sulla problematizzazione dell’ambiente sociale, culturale ed economico e sulla previsione degli esiti delle proprie
azioni. Tendenza particolarmente necessaria oggi, alla luce del già citato permanente cambiamento
nei sistemi organizzativi e nell’ambiente lavorativo.
La competenza che in questo quadro assume una connotazione più dinamica, ampia e agganciata agli
attuali processi di trasformazione, può essere declinata operativamente e può costituire un fattore di
cambiamento del contesto, andando ad agire sulle dimensioni professionali, organizzative e relazionali
del lavoro.
Più che di una competenza specifica è però preferibile riferirsi al plurale, alle competenze, diverse per
natura e legate a quelle capacità (capabilities nei termini proposti da Amartya Sen) ed abilità che assicurino una positiva interazione con l’ambiente sociale ed economico.
In quest’ottica, l’acquisizione di saperi tecnico-professionali non è sufficiente poiché nel lavoro (dematerializzato ed informatizzato, soprattutto nei suoi settori trainanti) assumono centralità gli aspetti
cognitivo-relazionali che accentuano la necessità di trasformazione dei caratteri richiesti alla qualificazione professionale di ognuno: dal mero saper fare al lavoro della conoscenza, nel cui contesto gli
aspetti cognitivi e relazionali assumono centralità. La natura delle trasformazioni che investono il mondo del lavoro implica, quindi, la promozione di competenze che vadano oltre le capacità professionali
specifiche per comprendere quelle di tipo sociale, rese efficaci con l’attitudine al lavoro di gruppo,
all’assunzione di responsabilità, all’abilità nel gestire il rischio.
34
Fig. 3 I nuovi contenuti del lavoro
Dalla mansione parcellizzata
al lavoro della conoscenza
Allorché il lavoro si fa maggiormente eterogeneo, meno standardizzabile sulla base dei dogmi tayloristici ed il lavoratore si trova ad affrontare un insieme di situazioni assai differenti tra loro, anche il concetto di ruolo assume un aspetto maggiormente dinamico, integrando tre componenti fondamentali:
i) il compito lavorativo, che va considerato in relazione all’insieme di mansioni presenti nel contesto
aziendale ed in quello produttivo; ii) le relazioni interpersonali ed istituzionali che il soggetto deve
essere in grado di gestire per portare a termine in modo valido i suoi compiti lavorativi; iii) il sistema
di significati che gli attori devono essere in grado di dominare e che struttura il rapporto con le altre
persone, con il sistema produttivo e sociale, nella complessità della situazione storica, sociale, culturale
e territoriale (Pellerey, 1999).
Emerge, da questo punto di vista, la rilevanza della capacità di apprendimento e non solo di quelle
operative connesse ad un’area specifica del sapere. L’atto del conoscere, infatti, comprende non solo
l’acquisizione di una serie di informazioni, ma l’esercizio del ragionamento deduttivo ed induttivo, il
saper apprendere per tutto l’arco della vita.
Si tratta di elementi che fanno riferimento alle cosiddette competenze trasversali, alle metacompetenze82, che implicano capacità di risoluzione di problemi, doti comunicative e relazionali, propensione al
lavoro di gruppo, abilità nel saper affrontare situazioni nuove. Tali fattori rendono essenziale il potenziamento della propria capacità di agire sulla realtà ed al contempo di interpretarla.
Ciò è raggiungibile attraverso una gestione autonoma del proprio sapere che implica l’acquisizione e
lo sviluppo di abilità strategiche nella soluzione di problemi, di acquisizione delle conoscenze, di presa
di decisioni. Il concetto di competenza così arricchito, riformula e rimodula quello di professionalità.
Al suo interno trovano spazio aspetti molteplici comprendenti le modalità di funzionamento del pensiero, lo sviluppo della motivazione, il ruolo svolto dall’esperienza, la necessità di integrare pensiero
ed azione.
Da questo punto di vista emergono alcune dimensioni essenziali cui fare riferimento per una riformulazione dei rapporti tra competenze, conoscenze in quanto capacità di governo delle dinamiche organizzative e relazionali, e capacità attivabili.
82
Cfr. Chicchi in questo stesso volume.
35
Tra i principali elementi problematici ci pare di dover segnalare:
• quelli legati ai contenuti lavorativi specifici del bene prodotto o del servizio offerto;
• quelli organizzativi connessi alla situazione di lavoro ed ai processi organizzativi;
• quelli relazionali caratterizzati dalla capacità di attivare e gestire relazioni all’interno dell’organizzazione e al di fuori di essa;
• quelli di analisi e gestione della risorse a disposizione dell’individuo e del contesto in cui opera;
• quelli di apprendimento e progettazione che si riferiscono alla capacità di cogliere le sollecitazioni
valorizzandole in funzione dell’arricchimento delle proprie conoscenze ed abilità (Gosetti, 2004).
Questo insieme di fattori sanciscono oggi il passaggio da un modello organizzativo del lavoro inteso
come sequenza di operazioni, ciascuna delle quali è descritta nei suoi contenuti, nelle sue modalità, nei
tempi di realizzazione, strettamente intrecciato alla creazione di un posto di lavoro costituito dall’unione fisica e sociale dei compiti da eseguire (Borghi, 2002), all’affermazione di un paradigma differente
connesso al ruolo crescente dell’improbabile e dell’imprevisto nella vita economica e sociale. L’efficienza non è più commisurata ad un mondo di operazioni e di oggetti, ma si esprime soprattutto nella
capacità di expertise e di messa in ordine di un mondo di eventi nei cui confronti gli attori devono
affinare capacità di apprendimento continuo.
Sotto questo profilo la professionalità non si riduce all’imparare un mestiere, ma si combina con lo
sviluppo di un modello di competenza basato su tre caratteristiche essenziali: i) le conoscenze, cioè
il sapere specifico richiesto dalla professione e dal campo del sapere generale ed organizzativo; ii) le
capacità, cioè le abilità professionali connesse allo svolgimento dell’attività lavorativa e all’utilizzo del
bagaglio di conoscenze; iii) la qualità, cioè le doti personali indispensabili sia nell’implementare le proprie capacità, sia nell’orientare i comportamenti organizzativi (Quaglino, 1985). La prospettiva delineata tende quindi a mettere al centro il tema della qualità professionale di un individuo che è costituita
dall’insieme delle sue conoscenze, capacità, abilità, doti professionali e dal modo in cui questo insieme
può essere mobilitato in una situazione lavorativa o nell’esercizio di una professione.
Questo mutamento di prospettiva può essere sintetizzato affermando che si è passati dal centrare
l’attenzione sul saper fare professionale legato ad un preciso posto di lavoro, al considerare in tutta la
sua complessità il saper agire professionalmente. In questa direzione, l’apprendimento, la formazione
permanente lifelong divengono elementi indispensabili, sia per la crescita degli individui - in quanto
rappresentano un’opportunità per sviluppare e mantenere le proprie competenze - sia per la aziende
in quanto componenti essenziali della loro crescita in competitività.
36
2.2 - La centralità del criterio dell’occupabilità
L’apprendimento per tutto l’arco della vita, l’acquisizione di competenze professionali trasferibili basate sulle abilità necessarie in un mercato del lavoro flessibile, mobile, fluido nel consentire passaggi da
un rapporto di lavoro ad un altro, ha posto al centro il tema dell’occupabilità che implica, tra gli obiettivi prioritari, la predisposizione di politiche attive dell’occupazione al fine di formare una forza lavoro
competente, qualificata che sia in grado di agire in un mercato del lavoro in perpetuo cambiamento.
Le politiche del lavoro, in altri termini, sono oggi incentrate su alcune idee di fondo intrecciate tra loro:
la flessibilizzazione dei rapporti di impiego da sviluppare attraverso incentivi alla mobilità tra un’occupazione ed un’altra e tra rapporti standard e non standard (Samek Lodovici, Baici, 2001; Magatti, Rizza,
2003), la correlazione tra cicli produttivi ed orari di lavoro e fra questi ultimi e i carichi di cura familiari,
spesso concentrati sulle donne (Saraceno, 1998), la formazione professionale e quella continua lungo
tutto l’arco della vita (La Rosa, 2002), la messa a punto di servizi per l’impiego che assicurino con
continuità un adeguamento delle caratteristiche del lavoro ai cambiamenti della produzione e delle
tecnologie (Acconero, 2002). In questa direzione, il concetto di occupabilità si prefigge l’obiettivo di
un miglioramento qualitativo delle performance del mercato del lavoro e delle opportunità per gli
individui, offrendo loro possibilità di maggiore scelta attraverso processi di riqualificazione (Tronti,
2001). I lavoratori non sono infatti più sostenuti da un addestramento centrato su contenuti specifici,
ma si orientano verso la crescita della capacità di apprendere, al fine di mettere in relazione i differenti
contenuti professionali appresi con le relazioni sociali attivate.
Il tema dell’occupabilità è anche una delle questioni centrali su cui convergono le direttive comunitarie
a partire dalla revisione del Trattato dell’Unione Europea realizzato ad Amsterdam nel 1998. Il raggiungimento della piena occupazione rappresenta il nucleo centrale della strategia dell’Unione Europea
che assegna un ruolo rilevante al miglioramento della capacità di inserimento professionale, all’incentivazione dello spirito imprenditoriale, alla riorganizzazione del lavoro promovendo la reciproca capacità
di adattamento delle imprese e dei lavoratori, il rafforzamento delle politiche relative alle pari opportunità. Più specificatamente l’Unione Europea ha enfatizzato i seguenti elementi che rappresentano linee
direttive che tutti gli stati membri sono invitati a percorrere:
i) migliorare l’occupabilità, ovvero le capacità di inserimento professionale, attraverso misure di politica attiva del lavoro mirate alla formazione dei giovani e dei disoccupati di lungo periodo;
ii) sviluppare l’imprenditorialità, favorendo iniziative di creazione di impresa da ricercare soprattutto
37
attraverso la semplificazione dell’accesso al mercato da parte degli attori economici e la riduzione
del carico amministrativo e fiscale soprattutto sulle aziende medio-piccole, spina dorsale dell’economia europea;
iii) incentivare l’adattabilità delle aziende e dei lavoratori, da raggiungere attraverso la negoziazione
tra le parti sociali, la ricerca di nuove forme di organizzazione del lavoro e di gestione dei tempi di
lavoro;
iv) dare nuova forza alle politiche per le pari opportunità, sia in riferimento alla riduzione delle discriminazioni tra uomini e donne, aumentando, ad esempio, la conciliazione tra vita professionale e
familiare, sia per quanto concerne la partecipazione al mercato del lavoro da parte dei disabili.
Particolare enfasi è attribuita al rafforzamento della coesione sociale da raggiungere aumentando la
partecipazione al mercato del lavoro. L’obiettivo centrale è quello dell’aumento dell’occupabilità dei
cittadini europei, individuando alcuni grandi settori che richiedono un impulso specifico in considerazione del ruolo centrale da essi ricoperto nel perseguimento degli obiettivi a lungo termine. In particolare si fa riferimento a:
• un potenziamento delle politiche verso la piena occupazione nell’ottica della creazione di nuovi e
migliori posti di lavoro. L’attenzione è rivolta alla realizzazione di politiche attive incentrate sull’occupabilità di gruppi che non hanno accesso al mercato del lavoro spesso a causa di qualifiche
insufficienti. Importante, a questo proposito, è ritenuta i) la riduzione degli oneri fiscali sul lavoro
allo scopo di accrescere la domanda e il tasso di occupazione, ii) il miglioramento dell’efficienza del
mercato del lavoro, con l’obiettivo di scongiurare il verificarsi di situazioni nelle quali alti tassi di disoccupazione coincidono con la penuria di manodopera, iii) l’invecchiamento attivo, scoraggiando
misure di prepensionamento, iv) l’incremento della partecipazione femminile al mercato del lavoro,
v) l’incoraggiamento della creazione di un ambiente più favorevole all’imprenditorialità;
• la promozione delle competenze e della mobilità attraverso la riduzione degli ostacoli amministrativi al riconoscimento professionale delle qualifiche formali. Il tutto allo scopo di favorire la diffusione
di un’economia basata sulla conoscenza.
Da queste considerazioni si evince che il concetto di occupabilità, come sottolinea Gallino (1998, p.
242), “è una caratteristica personale definibile come una somma variabile di competenze formali, di
saper fare pratico, di capacità di lavorare con gli altri, di esperienze sul terreno”. Esso può essere incrociato con quello di inoccupabilità poiché “gran parte dei giovani stentano a trovare lavoro quando
escono dalla scuola non tanto perché le imprese non abbiano un lavoro da offrire loro, quanto piutto-
38
sto perché non li considerano idonei a venire occupati” (Gallino, 1998, pp. 242-243). Il tema dell’occupabilità è dunque strettamente intrecciato con il mondo della scuola e con quello del lavoro. La prima,
come è noto, ha costruito pochi rapporti con il secondo che a sua volta però spesso finisce per erodere
e consumare l’occupabilità degli adulti, accreditando poca importanza alla formazione continua ed
all’aggiornamento professionale. A giudizio di Gallino (1998, pp. 244-245) un modo per accrescere
l’occupabilità “dovrebbe allora consistere nel fare entrare (molto) più lavoro nella formazione e (molta) più formazione nel lavoro. Meglio, nell’intrecciare strettamente l’una con l’altro”. L’occupabilità,
letta sotto questa lente, fa riferimento sia agli aspetti soggettivi – vale a dire alle caratteristiche della
persona, alle capacità e competenze di cui può disporre - sia a quelli oggettivi, di contesto, attinenti
all’ambiente istituzionale del quale l’attore fa parte e che egli stesso contribuisce a costruire (Scott,
1998). È possibile quindi sottolineare come l’occupabilità possa essere riferita “all’insieme di condizioni, costituite da elementi individuali, del contesto di appartenenza del soggetto e della relazione che si
instaura tra individuo e contesto di appartenenza, che possono presentarsi come concrete opportunità
di lavoro, fatte di modalità e strumenti di ingresso e permanenza al lavoro, di risorse che attribuiscono
certezza in un ambiente incerto e provvisorio” (Gosetti, 2004, p. 14). Le dimensioni dell’occupabilità
sono dunque plurali ed implicano, come abbiamo sottolineato, un rapporto stretto tra la sfera individuale e quella societaria. Il loro intreccio permette di comporre un quadro di analisi caratterizzato dalla
presenza di una molteplicità di elementi. Essi fanno riferimento, da un lato, come abbiamo visto, alle
caratteristiche personali del soggetto - età, genere, livello di qualificazione, percorsi di vita individuali,
al suo percorso formativo e scolastico - determinante nel tracciare la sua appetibilità nei confronti del
mercato del lavoro, all’itinerario professionale seguito - coerente o frammentato, caratterizzato da un
accumulo di competenze in grado di migliorare nel corso del tempo l’occupabilità di una persona, o
al contrario connotato da esperienze confuse, poco qualificanti e qualitativamente scadenti. Elementi
che tuttavia devono essere integrati con aspetti attinenti all’origine sociale degli attori, alla famiglia
di appartenenza, al contesto socio-economico e culturale di provenienza. Si tratta di fattori decisivi
nella configurazione dei percorsi di occupabilità dei soggetti, alla luce della struttura socio-economica
italiana, caratterizzata da bassa mobilità sociale e da una struttura della disuguaglianza che tende a
riprodursi nell’arco delle generazioni (Schizzerotto, 2002). Nel nostro paese, infatti, la provenienza
familiare è spesso determinante rispetto al titolo di studio detenuto, e quest’ultimo rappresenta un fattore determinante per il tipo di occupazione trovata. Il primo impiego, inoltre, struttura fortemente le
chances e i percorsi di mobilità intragenerazionale. Da questo punto di vista emerge come, nonostante
39
il concetto di occupabilità richiami l’elaborazione di politiche attive del lavoro centrate su un insieme
di opportunità da fornire ai soggetti, quali ad esempio la formazione, l’orientamento professionale, i
servizi per l’impiego, il sostegno all’incontro tra domanda ed offerta, la messa a punto di finanziamenti
ed opportunità per la costruzione di un’attività autonoma – nondimeno fondamentale appare anche la
predisposizione di misure di welfare – di cui I’Italia è scarsamente dotata – tese a riequilibrare condizioni di partenza fortemente differenziate e diseguali. Ci riferiamo sia a politiche redistributive generate da
trasferimenti monetari, sia a quelle concretizzate mediante la strutturazione di servizi, quali ad esempio
l’istruzione, l’educazione permanente, il sostegno alla genitorialità, la sanità. Non si può pensare infatti
che l’occupabilità sia un traguardo che un soggetto può raggiungere senza supporti esterni pubblici ed
universalistici. E su questo piano sembrano urgenti misure volte ad attenuare l’impianto familistico (Ferrera, 1997; Esping Andersen, 2000; Mingione, 1997; Saraceno, 1998) del sistema di welfare italiano,
caratterizzato da una bassa spesa sociale proprio a causa del ruolo sussidiario attribuito alla famiglia nei
confronti dello Stato. Oltre a ciò il carattere occupazionale del tessuto di welfare italiano che assegna
diritti e benefit in funzione della presenza di un reddito derivante da un contratto di impiego standard,
finisce per favorire i lavoratori già inseriti nei settori centrali del mercato del lavoro penalizzando ad
esempio i lavoratori atipici per i quali il rapporto tra lavoro e tutele è spezzato e quasi inesistente. Sotto
questo profilo il concetto di occupabilità va considerato in una accezione ampia, coinvolgendo sia la
dimensione pro-attiva dei soggetti, la loro propensione al cambiamento, all’adattamento ed all’aggiornamento professionale, sia le politiche istituzionali, passive ed attive, volte a sostenere gli attori
nel loro corso di vita, privato, familiare e professionale. Seguendo questa linea di ragionamento alcuni
interrogativi sorgono però spontanei: come è possibile per una donna con carichi di cura costruire un
percorso di occupabilità vista l’assenza di servizi di sostegno alla maternità che provocano oltre che
bassi tassi di occupazione femminile, esperienze intermittenti con il lavoro caratterizzate da frequenti
uscite ed entrate alternate da varie relazioni di impiego (standard, atipico, irregolare)?
E d’altra parte come può un lavoratore con contratti instabili ed a termine - oggi sempre più frequenti
soprattutto per i giovani - strutturare una traiettoria professionale coerente ed ascendente se la rete di
sicurezza sociale e l’acquisizione dei diritti sono strettamente legati alla collocazione nel mercato del
lavoro tradizionale e regolare? In questo caso il ruolo della famiglia in quanto istituzione in grado di
sostenere le carriere instabili degli atipici diviene cruciale. Avere il supporto familiare può permettere
la formazione di una carriera esterna - esplorare il mercato del lavoro in attesa di trovare un contratto
soddisfacente - non averla significa rischiare di entrare in una spirale di occupazioni instabili e non
40
protette; e abbiamo visto che il primo lavoro ha un forte effetto predittivo per la futura carriera professionale. Un tessuto di welfare debole ed ingiusto rischia in definitiva di scaricare sui singoli e sulle reti
di appartenenza i requisiti di occupabilità con forti effetti di sperequazione sociale.
Fig. 4 I criteri dell’occupabilità
Versione riduttiva
Versione complessa
Si tratta di un requisito
dei singoli, del loro
capitale umano
Insieme di politiche
del lavoro
passive ed attive
2.3 - Note conclusive
Come abbiamo cercato di sottolineare, profondi, benché non omogenei, sono i cambiamenti in atto nel
tessuto produttivo, nel mondo del lavoro e delle professioni. Il mercato del lavoro è in una fase di trasformazione strettamente intrecciata con il rivolgimento organizzativo attraversato dal sistema delle imprese.
Da un lato assistiamo allo sviluppo di reti tra piccole e medie imprese per rispondere con maggiore
efficacia ai repentini mutamenti del mercato e alla necessità di controllarlo, dall’altro lo smembramento
della grande impresa integrata verticalmente favorisce la costituzione di imprese-rete coordinate orizzontalmente e legate tra loro da rapporti di potere fondati su competizione, presidio oligopolistico dei
mercati (Fligstein, 2004), decentramento dell’autorità e parallelo accentramento del controllo (Harrison,
1997). E tra queste formazioni sociali sempre più frequenti sono le relazioni interorganizzative che spesso
assumono l’aspetto di catene di subfornitura. Di fronte a questi processi anche il lavoro e la sua organizzazione sono stati sconvolti: si fa sempre più opaca, come abbiamo visto, la differenziazione tra concezione
ed esecuzione dei prodotti, si promuove la collaborazione della forza lavoro riunita in team autonomi, si
istituiscono controlli sui risultati raggiunti. Ne derivano possibilità emancipative per gli attori nei termini di
maggiori requisiti di qualificazione professionale ed aggiornamento continuo, di creatività da immettere
nell’attività lavorativa, di varietà ed arricchimento delle mansioni (ciò che abbiamo chiamato la via alta alla
41
flessibilità), ma anche ed al contempo si profilano nuove forme di segmentazione professionale, riappaiono mercati del lavoro primari e secondari caratterizzati da un crescente dualismo tra insider ed outsider,
core workers e periphery workers, possibilità di carriera, alti redditi e stabilità del lavoro per alcuni, rischi
di precarietà, povertà e vulnerabilità sociale per altri (fenomeno che abbiamo sintetizzato con la denominazione di ‘via bassa’ alla flessibilità). Di fronte a questi processi potenzialmente liberatori, ma anche
forieri di nuovi rischi, il concetto di professionalità si è arricchito, ha perso la connotazione di mestiere
caratterizzato da ruoli parcellizzati e si è andato combinando con un modello di competenza in grado di
integrare conoscenze, capacità e qualità personali. Dal saper fare professionale legato ad un posto di lavoro si è passati ad un saper agire professionalmente; in questo contesto emerge la rilevanza dell’apprendimento continuo, sempre più necessario oggi alla luce delle trasformazioni in atto nel mercato del lavoro
mobile. Modificazioni queste che hanno anche posto al centro dell’attenzione il concetto di occupabilità
che incorpora, nelle proprie linee essenziali, la necessità di mettere in atto politiche del lavoro attive al
fine di formare una forza lavoro competente nel quadro di un mercato occupazionale permanentemente in evoluzione. L’enfasi posta dalle autorità nazionali ed internazionali sulle politiche, evidenzia come
l’occupabilità non possa essere concepita come un requisito in possesso dei singoli, ma debba essere
costruita attraverso azioni istituzionali in grado di accompagnare i soggetti lungo l’intero arco della vita.
Ciò chiama in causa il tessuto di welfare, nella sua capacità di sostenere i soggetti offrendo loro una rete
di protezione di fronte ai rischi vulneranti causati da un mercato del lavoro sempre più de-regolato e nelle opportunità che è in grado di offrire al fine di favorire la costruzione di percorsi professionali densi di
esperienze arricchenti (ad esempio attraverso la leva essenziale della formazione e dell’aggiornamento).
Sotto questo profilo è allora possibile mettere in rilievo alcuni percorsi in grado di favorire l’occupabilità
delle persone, soprattutto se intrecciati fra loro. Innanzitutto è necessaria una maggiore integrazione tra
studio e lavoro che sia in grado di offrire più formazione nel corso della vita lavorativa e più frequenti
esperienze professionali negli anni della formazione. In secondo luogo è essenziale la costruzione di un
percorso in grado di ricomporre biografie professionali frammentate - oggi sempre più frequenti a causa
della deregolazione del tessuto socio-economico - attraverso la messa a punto di supporti e servizi per
facilitare l’inserimento nel mondo del lavoro, la stabilizzazione dei rapporti di impiego, l’arricchimento
delle traiettorie professionali. Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso un rafforzamento del welfare
e del contesto entro il quale si costruiscono le relazioni tra domanda ed offerta di lavoro; si tratta cioè di
valorizzare e sostenere l’attivazione di rapporti tra tutti i soggetti interessati alla regolazione del mercato
del lavoro, vale a dire imprese, sindacati, associazioni ed attori pubblici.
42
3.
L’emergenza del tema delle metacompetenze
nella società e nella formazione
Chi insegna a scuola - penso - dovrebbe sempre avere un altro luogo dove impara o ri-impara
a sua volta, come se fosse a scuola.
Marco Rossi-Doria
3.1 - Premessa: l’emergenza della metacompetenza nella società della complessità
Due ci paiono essere i temi emergenti che caratterizzano fortemente le trame sociali della contemporaneità e che ci obbligano ad una profonda riflessione sulla attualità dei metodi tradizionali di trasmissione dei saperi: la crescente complessità e il processo di individualizzazione sociale83.
Questi due fenomeni sono, a nostro avviso, tra loro strettamente intrecciati e per questa ragione non
comprensibili pienamente se analizzati disgiuntamente84.
La complessità sociale può (e a parer nostro deve), infatti, essere interpretata come l’effetto dell’indebolimento normativo di una serie di routine sociali, di prassi istituzionali e di costrutti culturali che
vincolavano, e nello stesso tempo però, supportavano e semplificavano l’agire individuale della prima
modernità.
Sempre di più oggi il soggetto immerso nella complessità deve, invece, diventare demiurgo del suo
percorso di definizione sociale, che non è più previsto e prevedibile, dato per scontato, ma invece
aperto, a seconda delle scelte personali messe in campo, a diverse traiettorie di posizionamento nel
campo sociale.
“La complessità dell’esperienza contemporanea è sottolineata dal compito arduo, di fronte all’arretramento delle istituzioni, per il soggetto individuale, di creare e indicare autorevolmente nuove forme
istituzionali basate su un reciproco riconoscimento: la vita sociale contemporanea oggi non può essere
considerata un apriori come nell’esperienza della modernità, ma il prodotto di un atto di responsabilità
originato da una scelta individuale, capace così di esporre il soggetto contemporaneamente ad un
conflitto intrapsichico ed interpsichico (Varchetta, 2003, p. 16).
83
Per quanto riguarda il concetto di complessità si vedano i diversi lavori di Mauro Ceruti (e in particolare Bocchi, Ceruti
1985 e 2004, Ceruti, 1989).
Il paradigma della complessità “appare - al di là del suo carattere di interprete di un’epoca in cui si parla sempre più diffusamente, come si è detto, di “società complessa” (intendendo quella “postindustriale” caratterizzata dalle intercomunicazioni di tutti i fenomeni sociali e di essi, presi nel loro complesso, con la biosfera, dal dilatarsi ed organizzarsi dell’informazione, dal predominio della tecnica ecc.) di “saperi complessi” (che devono così essere sviluppati secondo moduli cognitivi
“sistemici”, capaci di decantare le ricche connessioni interne a ciascun sapere e gli intesi scambi tra saperi diversi), di nuovi
problemi sociali e politici contraddistinti anch’essi dalla complessità (avvento di società multirazziali; esigenza di politiche
mondiali capaci di superare la forbice che esiste tra il nord e il sud del mondo ecc.) - anche, e forse prima di tutto come un
modello di autocomprensione e di organizzazione interna dei saperi, come un modello epistemologico. Anche su questo
punto stiamo assistendo, infatti, ad una svolta precisa e assai significativa. (…) Si rileva che stanno tramontando, anzi, sono
già tramontate, le immagini semplificate dei saperi (e della loro storia) che erano state tipiche di una certa tradizione positivistica, classica e neo, e che hanno a lungo dominato la riflessione epistemologica” (Cambi, Cives, Fornaca, 1991, pp. 1-2).
Per quanto riguarda la definizione del concetto di individualizzazione rimandiamo, tra i diversi contributi esistenti in merito,
ai volumi di Giaccardi, Magatti, 2001 e 2003.
84
Si veda in proposito la prima parte del volume Chicchi, 2001.
44
La biografia delle persone appare, dunque, sempre più separata dalle determinazioni del contesto e
“viene messa nelle loro mani, aperta e dipendente dalle loro decisioni” (Beck, 2000, p. 195).
Se la complessità sociale è dunque interpretabile anche come effetto della ridondanza di possibilità
a disposizione degli individui, si comprende facilmente il perché la società attuale sia stata spesso
descritta come società del rischio. Il rischio è infatti, in quest’ottica, lo spazio accresciuto dell’azione
soggettiva e della libertà di scelta, scelta che in quanto non più determinata a priori dal contesto di
appartenenza, non produce effetti scontati, ma emergenti e a volte imprevedibili anche agli stessi
attori che li hanno generati. Potremmo in questo senso sostenere che l’esercizio dell’azione sociale si
auto-costituisce, oggi, secondo percorsi che non sono né prevedibili né programmabili in tutti i suoi
aspetti ma che in ogni modo non sono casuali perché radicati in contesti simbolici e culturali da cui,
comunque, non è possibile prescindere (Casiccia, 2000).
Ci troveremmo, dunque, di fronte ad una radicale ridefinizione della natura dell’azione umana, condotta, ora, ad operare in situazioni d’incertezza mai sperimentate prima. Di fronte alla velocità e alla
variabilità con cui si manifesta storicamente la complessità sociale, di fronte al vorticoso dinamismo
socio-economico contemporaneo il pensiero di ciascun attore deve, quindi, per non essere travolto,
“armarsi ed agguerrirsi per affrontare l’incertezza”: “tutto ciò che comporta possibilità comporta rischio, e il pensiero deve riconoscere la possibilità dei rischi come i rischi delle possibilità” (Morin, 2001,
p. 95). Nella società della tarda modernità l’individuo “deve perciò imparare, pena una condizione di
svantaggio permanente, a concepire se stesso come centro dell’azione, come ufficio-pianificazione in
merito alla propria biografia, alle proprie capacità, ai propri orientamenti, alle proprie relazioni ecc.”
(Beck, 2000, p. 195).
Questo, allora, ci pare in sostanza e in sintesi il tema che si pone con evidenza fenomenologica al
formatore contemporaneo: sviluppare, nei discenti, nuove capacità85 che li pongano nella condizione
di poter scegliere e condizionare (se non auto-determinare) la loro carriera di vita in condizioni sociali
di incertezza crescenti. Il concetto di metacompetenza, che di seguito vorremmo cercare di confinare
concettualmente e che, in rapporto privilegiato con la formazione superiore, è l’oggetto del presente
volume, rappresenta, in questo senso, contemporaneamente la scommessa teorica e la proposta pratica a quest’attuale ed ardua necessità pedagogica.
85
Il termine capacità non è qui usato in modo casuale. Ci vogliamo, infatti, volontariamente riferire al tema della promozione delle capabilities sviluppato dal premio Nobel per l’economia Amartya Sen.
45
3.2 - I presupposti teorico-epistemologici del concetto di metacompetenza
Il concetto di metacompetenza si fonda sul presupposto che il soggetto sia in grado di giocare un
ruolo attivo e responsabile nei confronti della propria azione d’apprendimento e quindi, in virtù di ciò,
di auto-gestire strategicamente la complessità sociale. Il presupposto epistemologico alla base del
concetto è rintracciabile, in primo luogo ma non solo, all’interno dei paradigmi psico-pedagogici postcognitivisti e in particolare in quelli di matrice costruttivistica (Alberici, 2003 e Pepe, 2003). Il costrutto
di metacompetenza affonda cioè le sue “radici” nella storia della riflessione scientifica ed epistemologica della seconda metà del novecento ed è il risultato della crisi di quel modello epistemico razionale
fondato sull’assunto di base che la conoscenza del mondo sia il frutto di una rappresentazione analitica
ed oggettiva della realtà esterna, raggiungibile solo attraverso l’impiego neutrale di modelli d’analisi
di tipo logico-deduttivo. Il costruttivismo esprime infatti l’esigenza teorica di allontanarsi da un modello
di cognitivismo ancora troppo legato alle formule meccanicistiche e lineari proprie del comportamentismo (fondato come è noto sul modello “stimolo-risposta”) che non prevedono la problematizzazione
del rapporto tra ciò che è osservato e colui che osserva86.
Il costruttivismo, che si fonda (tra l’altro) a partire da alcune “rivoluzionarie” intuizioni di Piaget, interpreta invece i processi di apprendimento come attività di “costruzione” attiva del mondo da parte del
soggetto e non semplicemente come ricezione e codificazione di dati ed informazioni a lui esogene;
“in tale prospettiva, pertanto, il soggetto gioca un ruolo essenziale e costitutivo in quanto “agente epistemico”, che entra in una complessa relazione di adattamento con i contesti ambientali in cui pensa
ed agisce” (Santoianni, Striano, 2003, p. 66).
Gli assunti del più recente costruttivismo sul tema dell’apprendimento crediamo possano quindi essere
sintetizzati in tre argomentazioni principali: a. la conoscenza non è il risultato di una passiva trasmissione di informazioni ma è il prodotto dell’attività soggettiva; b. essa si determina all’interno del contesto
di azione del soggetto e in questo senso ha un carattere necessariamente “situato”; c. la conoscenza
si sviluppa in termini dialogici e intersoggettivi attraverso forme di collaborazione e di negoziazione
sociale.
Nel costruttivismo assume, inoltre, particolare rilevanza l’attività soggettiva di attribuzione/costruzione
dei significati simbolici dell’esperienza (soprattutto nel filone detto culturalista che si rifà all’opera di Vy86
In questo quadro la cognizione sarebbe dunque ancora il frutto di una passiva rappresentazione degli input ricevuti dalla
realtà esterna, all’interno di una logica di ingenua corrispondenza tra mappe cognitive ed ambiente.
46
gotskij) e viene sottolineato il carattere di continua emergenza e polisemia dei processi di trasferimento
delle conoscenze, che non producono mai effetti d’apprendimento predeterminabili e standardizzabili
a prescindere dai soggetti e dai contesti in cui l’azione formativa è concretamente agita87.
Il discente da ricettore passivo delle azioni pedagogiche e formative diviene, infatti, in quest’ottica
interpretativa, un soggetto attivo e in quanto tale responsabile della costruzione e dello sviluppo delle
sue diverse competenze. La conoscenza infatti non si trasmette, non si trasferisce, ma è il frutto del
tentativo del soggetto di organizzare al meglio le proprie dinamiche di adattamento sociale. Il costruttivismo quindi si caratterizza pedagogicamente con il rifiuto di una relazione pedagogica passiva,
astratta ed eccessivamente formalizzata. Per riassumere nella tavola successiva riportiamo le principali
caratteristiche dell’approccio costruttivista al tema dell’apprendimento.
Tav. 1 Principali aspetti del costruttivismo pedagogico
•
•
•
•
•
•
sapere come attività di costruzione personale
apprendimento attivo
apprendimento collaborativo
importanza del contesto di apprendimento
importanza dell’esperienza
valutazione intrinseca
Fonte: nostra elaborazione
Per quanto riguarda gli studiosi che possono considerarsi “ispiratori” del concetto di metacompetenza,
essi sono certamente numerosissimi e in questa sede non possiamo, evidentemente, che analizzare in
estrema sintesi il contributo di alcuni tra gli autori più significativi a riguardo88. Certamente però non
possiamo non citare qui Dewey e soprattutto Piaget, Vygotskij, Bateson e più recentemente, crediamo,
l’opera di Gardner89, Morin e Lipman, che hanno contribuito a tracciare gli assi di una nuova azione
pedagogica della complessità.
87
Questo significa che “le strutture della conoscenza sono continuamente modificabili e non definite una volte per tutte;
in particolar modo il loro dinamismo interno è la risultante dell’interazione sinergica con i fattori ambientali” (Santoianni,
Striano, 2003, pagina 52).
88
Da un punto di vista peculiarmente filosofico le tracce del costruttivismo sono da ricollegare in primo luogo all’opera di
Kant e di Vico. Specificatamente ai contributi di stampo psico-pedagogico si veda Isfol, 2003.
89
Per il contributo teorico di questo autore allo sviluppo del costrutto della metacompetenza si vedano i saggi di Montedoro (in particolare il par. 2.4.) e Alberici (in particolare il par. 1.2.) in Isfol, 2003.
47
Per quanto riguarda in particolare l’opera di Dewey90 il suo contributo alla concettualizzazione del costrutto di metacompetenza è rintracciabile, crediamo, nel concetto di pensiero riflessivo e nel concetto
di learning by doing91. Con tali concetti Dewey, sottolineando l’importanza dell’esperienza nei processi
d’apprendimento, contribuisce a definire tal evento come un processo dinamico ed attivo, legato alla
capacità soggettiva di comprendere riflessivamente le conseguenze delle nostre azioni situate.
Per quanto riguarda il contributo di Piaget, a causa della sua incidenza nella definizione e sviluppo del
costrutto teorico della metacompetenza, occorre qui di seguito soffermarsi in termini leggermente più
ampi. L’opera di Piaget, come detto, rappresenta, infatti, nell’alveo delle scienze cognitive, il maggior
ispiratore del paradigma costruttivista. La sua “epistemologia genetica” chiarisce come, da un punto
di vista topologico, l’azione del conoscere non sia situabile né all’interno del soggetto né nell’oggetto
esterno, ma piuttosto nella loro reciproca interazione (Santoianni, Striano, 2003). In questo senso il conoscere sarebbe il frutto di un’attività mentale indirizzata a generare strutture cognitive per migliorare
funzionalmente le relazioni di adattamento con l’ambiente in cui il soggetto si trova ad agire. L’adattamento è dunque una delle nozioni chiave della teoria piagetiana ed è descritto dallo studioso ginevrino
attraverso i concetti di assimilazione ed accomodamento92.
Entrambi i concetti sono per Piaget invarianze funzionali dell’attività mentale e pratica dell’individuo,
vale a dire che esse “sono osservabili durante tutta la vita a ogni livello di funzionamento comportamentale ed intellettuale” (Rizzardi, 2000, p. 62). Più specificatamente l’“assimilazione è il nome attribuito al processo mediante il quale l’organismo applica strutture acquisite, senza modificarle, a nuovi
aspetti dell’ambiente; si tratta di un processo che agisce sull’organismo per incorporare l’ambiente.
L’accomodamento, d’altra parte, è un processo rivolto all’esterno per mezzo del quale l’organismo modifica le strutture esistenti per adeguarsi alle richieste dell’ambiente. L’attività di accomodamento alle
nuove situazioni porta alla differenziazione delle strutture esistenti e alla formazione di nuove strutture”
(Ivi, p. 1). In questo senso l’accomodamento implica uno sviluppo intellettuale del soggetto che riorganizza (accomoda) le sue strutture cognitive in virtù dell’aumentata complessità ambientale: maggiore
sarà il controllo del soggetto sulla sua azione di accomodamento maggiore saranno le possibilità di
90
Si vedano, tra gli altri, per un approfondimento dell’opera dell’autore: Dewey 1990, 1968, 1961 e 1992.
Con tali concetti Dewey sottolinea nell’azione di apprendimento l’importanza del circolo continuo e virtuoso tra esperienza e riflessione sull’esperienza.
92
La definizione della differenza tra questi due modelli di adattamento introdotti da Piaget è per noi significativa perché ci
permetterà, crediamo, di comprendere alcune importanti dimensioni del pensiero “meta” e quindi di meglio formalizzare i
confini del concetto di metacompetenza.
91
48
portare a buon esito tale operazione93.
La teoria di Piaget è soprattutto nota per l’analisi dello sviluppo dell’intelligenza (epistemologia genetica). Il soggetto, a partire dalla sua nascita inizia, infatti, un percorso di sviluppo intellettuale che
è descrivibile secondo alcune precise fasi evolutive. In proposito l’ultimo stadio descritto dall’autore
è denominato il periodo delle operazioni formali (o stadio operativo formale). Tale fase di sviluppo
intellettivo (che normalmente giunge a maturazione verso gli undici/dodici anni d’età) è caratterizzata
dal fatto che il soggetto sviluppa la capacità di attivare ragionamenti astratti ed ipotetici, senza necessariamente riferirsi a situazioni concrete e/o tangibili. “Per Piaget l’emergere del pensiero operativo
formale costituiva il culmine dello sviluppo cognitivo tanto che non delineò alcun nuovo stadio cognitivo nella vita adulta” (Ivi, p. 69). Recentemente però altri ricercatori, proprio a partire dalle argomentazioni piagetiane, hanno espresso l’esigenza e avanzato la possibilità di individuare per la vita adulta
almeno un altro stadio (ideale) di sviluppo mentale: il periodo postformale94. Il pensiero postformale
è meno generale ed astratto del pensiero formale tematizzato da Piaget e questo permette ai soggetti che lo sviluppano un maggior grado di adattamento (accomodamento) alle contraddizioni insite
nell’esperienza di ciascun essere umano. I teorici e gli studiosi che hanno contribuito a fissare le caratteristiche di questa modalità di organizzazione del pensiero sono molteplici (e non sempre tra loro
del tutto concordi) ma in linea di massima è possibile individuarne alcune caratteristiche condivise e
distintive: a) il relativismo, ossia la comprensione della parzialità del proprio punto di vista come solo
una delle tante rappresentazioni possibili della realtà e quindi la capacità di pensare dialetticamente;
b) l’accettazione delle contraddizioni, ossia la consapevolezza che la realtà può presentarsi sotto forma
di paradossi o ambiguità non sempre risolvibili; c) l’integrazione, ossia la capacità di operare sintesi e
mettere a sistema un insieme di elementi complessi apparentemente contraddittori o non collegabili
tra loro (Rizzardi, 2000). Il pensiero postformale permette dunque di superare le “rigidità” del pensiero
logico-operazionale e di sviluppare forme più “plastiche” di adattamento alla complessità sociale tipica
93
Ricordiamo che per Piaget la mente “organizza il mondo organizzando se stessa” (Piaget, 1937, pagina 311). In questa
prospettiva “gli esseri viventi sopravvivono e si adattano alla loro esistenza conferendo forma al flusso di esperienza
che sono in grado di manipolare. In questo senso il mondo, in quanto tale, non ha una forma prestabilita e quindi non
permette percezione e conoscenza diretta. Per percepire e conoscere il mondo siamo obbligati a dargli una forma che ci
è congeniale” (Pépin, 1998, pagina 175). Possiamo dunque affermare che con Piaget e soprattutto con il costruttivismo, si
passa da una concezione della conoscenza come attività di rappresentazione di una realtà esterna ed indipendente ad una
conoscenza intesa come funzione adattiva del soggetto all’ambiente (Cfr. von Glasersfeld, 1987).
94
Più che uno stadio necessario nella formazione del pensiero adulto, il pensiero post-formale rappresenta un’evoluzione
possibile ed auspicabile del pensiero operativo-formale, evoluzione che però non è per niente scontato che si realizzi in
tutti i soggetti adulti; ciò dipenderebbe, infatti, anche dalle condizioni e dagli stimoli ambientali all’interno delle quali
agisce l’individuo.
49
dell’età contemporanea. L’accento è posto sulla necessità di recuperare l’importanza della soggettività
e dell’esperienza: “Per l’adulto devono entrare in gioco il sentire soggettivo e le esperienze personali,
altrimenti il risultato sarà un ragionamento “limitato, chiuso e irrigidito, incapace di rapportarsi alle
complesse dimensioni umane dell’esperienza quotidiana”. In questa prospettiva, il pensiero adattivo,
genuinamente maturo, comporta l’interazione tra forme di elaborazione astratte ed oggettive e forme
espressive e soggettive che nascono dalla sensibilità al contesto” (Ivi, 2000, pagina 70).
Tav. 2 Le fasi avanzate dello sviluppo intellettivo al pensiero complesso
Pensiero formale
Pensiero post-formale
ragionamenti astratti e ipotetici
relativismo del proprio punto di vista - accettazione delle contraddizioni di realtà - integrazione e sintesi della complessità
Fonte: nostra elaborazione
All’interno di questa cornice di sfondo definita dagli assunti del pensiero costruttivista ci sembra utile
presentare, al fine di meglio cogliere e quindi definire la semantica del concetto di metacompetenza,
anche alcune tracce per noi significative delle più recenti riflessioni di Morin e Lipman.
Edgar Morin ha manifestato, infatti, in più occasioni la necessità di sviluppare nuove forme di conoscenza (e di razionalità) che siano adatte alla comprensione dell’attuale complessità sociale.
Lo studioso francese, inoltre, suggerisce alcuni percorsi per sviluppare un’educazione al pensare in
seno alla complessità. In primo luogo occorre che il pensiero si doti e sia addestrato a fare uso di macroconcetti; vale a dire di concetti, e costellazioni di concetti, che siano capaci di comprendere la realtà
in tutte le sue sfumature e ambiguità senza operare semplificazioni univoche ed arbitrarie della stessa.
Pertanto per Morin è indispensabile “formare” le menti affinché possano disporre “di un’attitudine
generale a porre e trattare i problemi e di principi organizzatori che permettano di collegare i saperi e
di dare loro senso” (Morin, 2000, pagina 15).
In secondo luogo per l’autore francese è possibile identificare tre forme di pensiero che ci permettono
di affrontare adeguatamente la contemporaneità: il pensiero “dialogico” (che se appreso consente di
mantenere aperta la complessità del mondo e a non suddividerlo in sezioni autoreferenziali), il pensiero
50
“ricorsivo” (che mette il soggetto in grado di comprendere la processualità ricorsiva e circolare propria
del reale) e infine il pensiero “ologrammatico” (in virtù del quale “possiamo arricchire la conoscenza
delle parti attraverso il tutto e del tutto attraverso le parti in uno stesso movimento che produce conoscenze (…).
L’idea ologrammatica è essa stessa legata all’idea ricorsiva che a sua volta è legata all’idea dialogica”
(Morin, 1995, p. 75). In altre parole per attualizzare la conoscenza, l’educazione contemporanea dovrà
cercare di superare gli specialismi e l’isolamento disciplinare delle informazioni, comprenderle in un
contesto più ampio, relazionare coerentemente il tutto con le sue parti: infatti “…la società, in quanto
tutto, è presente all’interno di ogni individuo nel suo linguaggio, nel suo sapere, nei suoi doveri, nelle
sue norme. Così come ogni singolo punto di un ologramma contiene la totalità dell’informazione di ciò
che rappresenta, ogni singola cellula, ogni singolo individuo contiene in modo ologrammatico il tutto
di cui fa parte e che nel medesimo tempo fa parte di ciascuno di essi” (Morin, 2001); comprendere dunque le diverse dimensioni della realtà, ricomprenderle in un tutto, affrontare cioè la complessità che
lega l’unità alla molteplicità e viceversa, e stimolare lo sviluppo di una “intelligenza generale” capace
di affrontare il complesso e il globale, diventa un compito prioritario del formatore.
Tav. 3 Le dimensioni strategiche del pensiero contemporaneo secondo Edgar Morin
Il pensiero dialogico: permette di mantenere l’unità/complessità del mondo
Il pensiero ricorsivo: permette di comprendere la processualità ricorsiva e circolare degli eventi
Il pensiero ologrammatico: permette di capire la relazione tra il tutto e le sue parti e viceversa
Fonte: nostra elaborazione
Nella stessa direzione, seppur a partire da argomentazioni metodologiche e disciplinari differenti, si
muove il pensiero di Lipman, volto all’elaborazione di una prassi didattica che si pone come obiettivo
esplicito l’educazione al pensiero complesso. Secondo il filosofo statunitense, già allievo di Dewey, “Il
pensiero complesso (…) è un pensiero consapevole delle proprie assunzioni ed implicazioni nonché
delle ragioni e dell’evidenza che sottendono questa o quella conclusione. Tiene conto della sua stessa
metodologia, delle proprie procedure, delle proprie prospettive e punti di vista. Il pensiero complesso
è preparato a riconoscere i fattori che determinano i preconcetti, i pregiudizi, e l’autoinganno.
51
Implica un pensare sulle proprie procedure ed allo stesso tempo pensare i propri contenuti (…).
Quanto qui si definisce pensiero complesso include dimensioni ricorsive, metacognitive, autocorrettive
e tutte quelle altre forme di pensiero che implicano una riflessione sulla propria metodologia mentre
allo stesso tempo si applicano ad un contenuto” (Lipman, 1991, pp. 23-24).
Come efficacemente argomenta Maura Striano in un suo recente contributo (Striano, 1997) il modello
didattico di Lipman è un modello di natura dialogica e comunitaria. In questa prospettiva Egli teorizza
una concezione di apprendimento da configurare in forma di “comunità di ricerca” (Lipman, 1993),
intesa come uno spazio didattico aperto al dialogo e a percorsi di apprendimento interattivi, autoriflessivi e di sperimentazione del reale in tutta la sua complessità. Il pensiero che si viene formando
all’interno della comunità di ricerca ha quindi un’origine “sociale” in quanto prevalentemente basato
sull’interiorizzazione delle esperienze d’apprendimento messe in atto all’interno del gruppo o dei gruppi di cui l’individuo fa parte.
“La comunità di ricerca è una matrice sociale che genera a sua volta relazioni sociali, determinando lo
strutturarsi di una varietà di matrici cognitive da cui hanno origine nuove relazioni cognitive. Ma entrambe le componenti devono essere all’opera: la componente “comunità” e la componente “ricerca”
(Lipman, 1991, p. 92).
Lipman come Morin si pone, dunque, l’obiettivo di sviluppare nei discenti saperi che non siano “imprigionati” nelle loro proprietà specialistiche e/o locali e quindi di creare le condizioni didattiche per sviluppare forme di pensiero di livello superiore (higher order thinking). “Un pensiero di alto livello muove
verso l’intelligibilità. Da un lato ciò indica che tale pensiero cerca un carattere generale ed uniforme
negli eventi per renderli prevedibili e ricavarne leggi.
D’altro canto l’intelligibilità suggerisce la ricerca di un significato negli eventi. Un pensiero di alto livello
tende a mostrare intensità qualitativa ed infine mostra una notevole ampiezza, evidenziando un vasto
campo di applicabilità. Esso è comprensivo e pervasivo” (Ivi, p. 94).
Il filosofo nordamericano rilevando e confermando l’importanza deweyana dell’esperienza sociale nella
formazione della conoscenza arriva, infine, a teorizzare tre fondamentali dimensioni del pensiero complesso: la dimensione critica (critical), la dimensione creativa (creative) e la dimensione di cura (caring)
(Striano, 1997). Più dettagliatamente la prima dimensione è rivolta a sviluppare abilità d’individuazione
e risoluzione dei problemi.
Essa si caratterizza per una disposizione alla ricerca, all’individuazione di nuove connessioni e distinzioni interne ai problemi, per un’azione ordinatrice fondata sulla responsabilità e la propria capacità di
52
decisione, ma anche su valenze meta-cognitive del pensiero e per una disponibilità continua all’autocritica e all’autocorrezione.
La dimensione creativa si configura, invece, come capacità di sintesi della complessità e di risoluzione
dei problemi, come disposizione alla rottura delle routine e inoltre come capacità interpretativa della
complessità, sotto nuove ed originali configurazioni; infine per l’abilità ad usare contemporaneamente
una pluralità di codici espressivi. La dimensione della cura è forse l’aspetto più originale della proposta
di Lipman.
Essa si riferisce alla capacità del soggetto di dare valore e significato morale a se stessi e al mondo che
ci comprende. La cognizione deve dunque riuscire anche ad articolarsi con le dimensioni “affettive” ed
emozionali dell’esperienza umana, mirare al superamento di un pensiero che si costruisce e si sviluppa
solamente all’interno della chiusa ed autoreferenziale dimensione razionale.
Come sostiene Lipman “L’approccio educativo all’insegnamento del pensiero deve includere il pensiero affettivo, non semplicemente per una vaga fedeltà al pluralismo democratico, ma perché non porre
l’accento sugli altri aspetti (del pensiero) semplicemente avrebbe come risultato la superficialità del
trattamento di ogni suo singolo aspetto” (Lipman, 1995, pagina 68).
Il concetto di “cura di sé” acquista dunque una forte centralità nella prassi educative e nelle azioni
formative dedicate alla generazione di competenze (sia di primo che di secondo ordine)95.
L’acquisizione della disposizione ad aver “cura di sé”, infatti, assume il significato di motivare nel soggetto lo sviluppo di un’attenzione speciale e di una forte motivazione interiore rispetto al tema della
costruzione attiva della propria identità sociale nella complessità contemporanea.
“Si elabora così una “cultura di sé” in cui “l’aver cura di se stessi” occupa un posto centrale e quel
“aver cura” viene a significare ascoltarsi, interrogarsi, ri-modellarsi interiormente, strutturarsi e ri-strutturarsi secondo un disegno (o forma) che proprio nell’equilibrio reciproco tra i vari elementi (o funzioni)
trova il proprio baricentro” (Cambi, 2004, p. 130)96.
95
Scrive in proposito Franco Cambi “Sulla scia di Foucault, alcuni pedagogisti italiani (Massa, Demetrio, ecc.) hanno ulteriormente sottolineato la pedagogicità della cura di sé, delineandola come una categoria forte dell’attuale teoria della formazione: ne hanno indicato la centralità teorica in vista della formazione di un soggetto aperto, auto-centrato, problematico sì, ma anche consapevole di sé e della propria “forma”; e hanno indicato la valenza tecnica, l’articolazione tecnica che
essa può assumere: ad esempio, nell’autobiografia vissuta come un’avventura di ri-comprensione di sé, di auto-controllo,
di ri-progettazione della propria esistenza e della propria forma esistenziale” (Cambi, 2004, p. 130).
96
Si veda in proposito anche il concetto di intelligenza emotiva proposto da Goleman (1996).
53
Tav. 4 Le tre dimensioni del pensiero complesso secondo l’approccio di Lipman
dimensione critica:
dispone alla ricerca e alla individuazione di connessioni nuove e significative tra i fenomeni e
i problemi, permette di sviluppare azioni di autocritica e autocorrezione
dimensione creativa:
sviluppa capacità di sintesi della complessità, permette l’uso combinato di differenti codici
espressivi a seconda delle situazioni
dimensione di cura:
permette di attribuire valore e significato a se stessi e al mondo in cui si agisce
Fonte: nostra elaborazione
Il nostro breve e certamente incompleto excursus sulle diverse concezioni sviluppate sul tema della
“psico-pedagogia della complessità” ci ha, dunque, mostrato come l’attività formativa contemporanea debba necessariamente basarsi sulla valutazione del soggetto discente come attore protagonista
dei suoi percorsi di apprendimento. Affinché quest’obiettivo possa essere efficacemente perseguito,
il soggetto deve quindi attivare alcune competenze d’ordine superiore che lo mettano in condizione
di affrontare con successo la crescente variabilità dell’ambiente contemporaneo. Queste competenze
possono essere definite, quindi, metacompetenze e nel prossimo paragrafo, a partire dalle stimolazioni
appena presentate, sarà nostra intenzione tentare di precisare la loro portata semantica.
3.3 - Le dimensioni della metacompetenza.
Un tentativo di definizione operativa del concetto
Il concetto di metacompetenze, come lo stesso termine evidenzia, si riferisce ad una serie di competenze d’ordine superiore che mettono il soggetto nella condizione di poter organizzare, generare,
valorizzare e rinnovare il suo corredo di competenze al fine di ottimizzare il proprio adattamento sociale. In altre parole da un punto di vista formativo la questione delle competenze meta risiederebbe,
in primo luogo, nella necessità di spostare l’attenzione pedagogica al di là dei contenuti specifici delle
competenze, per concentrarla, altrimenti, sulle modalità di costruzione, sostegno ed adattamento delle
54
stesse. In questo senso, e in particolare, il costrutto della metacompetenza si può e si deve descrivere
anche come accrescimento della capacità di un soggetto ad apprendere ad apprendere (deuteroapprendimento) lungo tutto il corso della vita e lungo le sue diverse fasi evolutive (lifelong learning)97.
“L’accento quindi si sposta. Dallo sviluppo della triade sapere, saper fare, sapere essere, con le sue
varianti più o meno creative, ci si avvia alla ricerca delle competenze che possano consentire la crescita
e la trasformazione delle competenze di cui il soggetto è portatore. Dalle competenze alle metacompetenze per l’apprendimento in tutte le espressioni della vita”. Nella società della complessità e del
rischio dunque, “appare sempre più cruciale lo sviluppo delle metacompetenze orientate ad appoggiare e gestire l’apprendimento come pratica continua, negli ambienti di lavoro e nelle organizzazioni,
e nelle esistenze individuali e sociali. Apprendere ad apprendere è divenuta la direttrice fondamentale
proposta alla riflessione ed alle pratiche di quanti si occupano di formazione in tutti i campi e in tutte
le dimensioni” (Montedoro, 2004, pagine 71-72).
Sempre rispetto al problema definitorio del costrutto concettuale in oggetto, occorre affermare, inoltre, la necessita di mantenere una posizione integrata tra competenze e metacompetenze98. Le une
non sono, infatti, sviluppabili efficacemente se non a partire dalle altre e viceversa99. Infatti, “attribuire
uno status autonomo al concetto di metacompetenza non deve costituire la fuoriuscita dal territorio
della competenza. Pertanto vanno portati ad un livello di consapevolezza critica i punti di contatto che
determinano un’effettiva continuità tra il piano della metacompetenza e quello della competenza”
(Alberici, 2003, p. 105), sviluppando nella trasmissione di conoscenza una sinergica e riflessiva azione
tra processo e prodotto formativo. La formula apprendere ad apprendere, che connota fortemente il
concetto di metacompetenza, non rappresenta, dunque, solo uno sterile gioco linguistico di tipo ricorsivo per addetti ai lavori, esso, invece, indica e descrive una mente che è sì “piena” di saperi ma che è
anche capace “di gestire i propri processi di apprendimento, di coglierne la complessità, i dismorfismi,
le tensioni e di regolare il tutto con una capacità riflessiva e metariflessiva” (Cambi, 2004, p. 31). Una
mente cioè che fa delle metacompetenze una risorsa strategica irrinunciabile e prioritaria.
97
Si vedano in proposito i contributi raccolti sul tema in Isfol, 2003.
In questo senso il concetto di metacompetenza non può non scontare una già presente difficoltà definitoria implicita nel
concetto di competenza da cui proviene etimologicamente. Infatti “competenza significa molte cose” è “nozione di confine che ha uno stemma dialettico al proprio interno, che si valorizza in quanto si integra (e non si separa) rispetto ad altre
nozioni diverse e contigue (tipo: conoscenze, capacità, riflessività, criticità). Siamo davanti ad una nozione articolata e che
va accolta/usata/presidiata nella sua articolazione, per non perderne il significato più autentico e più pregnante” (Cambi,
2004, pagine 24-25).
99
Le competenze di qualsiasi ordine di complessità siano, si devono comunque richiamare saperi d’ordine tecnico, e tale
dimensione non va comunque mai sottovalutata o dimenticata.
98
55
Tav. 5 La natura integrata e sinergica tra competenze e metacompetenze
Competenze
Metacompetenze
apprendere ad apprendere
saperi teorico-pratici
autogestione e aggiornamento dei saperi
Fonte: nostra elaborazione
Al di là di queste preliminari considerazioni per definire in modo sufficientemente preciso il concetto
(e quindi cominciare a renderlo oggetto “specifico” di possibili attività formative) occorre, però, anche
avanzare con maggiore precisione le capacità che se sviluppate in un soggetto permettono la sedimentazione e l’attivazione funzionale delle metacompetenze. In altre parole: quali sono le abilità che
permettono al soggetto di operare in senso strategico100 nella sua azione di adattamento sociale?
Crediamo sia possibile, in proposito, individuare almeno due principali (distinguibili solo analiticamente) assi d’argomentazione: il primo riguarda le proprietà emotive e motivazionali del soggetto che
apprende ad apprendere e il secondo lo sviluppo d’alcune capacità che riguardano l’organizzazione
intellettiva ed epistemologica dei soggetti101.
Riguardo al primo asse individuato, lo sviluppo e la gestione delle metacompetenze richiede la presenza di una radicata ed attiva passione interiore verso il conoscere102. Tale disposizione “affettiva” verso
il percorso d’acquisizione dei saperi permette al soggetto di comprendere come la sua esperienza sia
intrinsecamente legata alla possibilità di dare un Senso al reale e alla possibilità di costruirne e attribuirne una valenza personale. Operazione che certamente oggi non è realizzabile al di fuori di una, tanto
competente quanto continua, interrogazione rivolta verso il mondo e le sue diverse rappresentazioni
simboliche. I requisiti per lo sviluppo di tale disposizione sono rintracciabili nel piacere del conoscere
100
Nel senso attribuito dalla Alberici al concetto di competenze strategiche (Alberici, 2004).
In proposito Michele Pellerey parla in modo simile di una fase motivazionale e di una fase volizionale (Cfr. Pellerey, 2003).
102
Rispetto a tele questione concordiamo con Cambi (2004) che solo a partire dal “lavoro” scolastico si può sollecitare ed
indirizzare questa fondamentale condizione mentale, che non è una forma della mente “bensì una struttura, per così dire,
preliminare e trasversale” (Cambi, 2004, pagina 33).
101
56
e nel piacere di acquisire punti di vista plurali ed elastici del mondo senza ridurre arbitrariamente la
sua complessità e la sua a volte irrisolvibile contraddittorietà ed infine nel piacere ad allargare i propri
orizzonti di senso (curiosità verso il non ancora noto) (Cambi, 2004)103.
Il secondo asse definitorio deve riguardare, come anticipato, le dimensioni cognitive che devono connotare e strutturare le metacompetenze. Possiamo, senza pretese di esaustività, indicare in proposito
le seguenti (e strettamente interrelate tra loro) qualità di base: la trasferibilità, la riflessività e la metacognizione.
Per trasferibilità intendiamo riferirci a quella capacità che permette al soggetto di affrontare con efficacia adattiva differenti situazioni e variabili contesti d’azione. In questo senso, l’acquisizione di metacompetenze permette al soggetto di attivare con “facilità”, nelle diverse situazioni in cui si trova ad
operare, saperi teorico-pratici per migliorare il suo adattamento sociale (e/o la sua funzione sociale). La
trasferibilità si radica nel soggetto attraverso la maturazione di disposizioni alla flessibilità mentale ed
operativa, alla inter-disciplinarietà dei saperi, alla elasticità mentale, alla adattabilità relazionale, ecc..
“La trasferibilità, quindi, fa parte integrante delle competenze, poiché ne predispone l’applicabilità e
crea un’intelligenza competente in modo flessibile (…) Come tale la trasferibilità va coltivata ed è compito specifico della scuola farlo” (Ivi, pagina 29).
La riflessività rappresenta invece per il soggetto la possibilità stessa del comprendere ed abitare la
complessità odierna. “Non c’è conoscenza vera se il conoscere non si applica anche alla conoscenza
stessa, in un atto di auto o meta-riflessione. E ciò è necessario proprio per governare le conoscenze,
capirne la struttura e il senso: per padroneggiarle in tutto il loro “spettro” (Ibidem). La riflessività è
dunque controllo ed interrogazione continua sui contenuti e sulle prassi di acquisizione ed aggiornamento delle proprie competenze; disponibilità a rimettersi in gioco continuamente; disponibilità a
ristrutturare, con coscienza di causa, le proprie premesse epistemologiche e le proprie routine operative per meglio “accomodarsi” (nel senso piagetiano) alle trasformazioni ambientali. Riflessività è
però in quest’ottica anche disposizione al pensiero critico ed auto-critico, capacità di fare sintesi dei
diversi punti di vista e premessa allo sviluppo di un pensiero dialettico. La disposizione alla riflessività
rappresenta dunque una qualità centrale e necessaria per fondare il costrutto delle metacompetenze,
e dunque un atteggiamento non aggirabile per sviluppare nel soggetto la capacità di apprendere ad
apprendere.
103
Per un approfondimento di questi temi in chiave psico-pedagogica si veda l’eccellente contributo di Michele Pellerey in
Isfol, 2003.
57
La meta-cognizione è il quadro mentale di second’ordine all’interno del quale il soggetto organizza la
gestione della sua conoscenza, e quindi è anche il luogo dove la metacompetenza affonda più profondamente le sue radici. La dimensione metacognitiva della metacompetenza è d’altronde strettamente
legata dall’esercizio della pratica riflessiva: “La messa in atto di procedure autoreferenziali ed autoriflessive sul pensare, sull’apprendere, sul conoscere, rappresenta la condizione di possibilità per poter
costruire conoscenza sul pensiero ed “apprendere a pensare” in modo consapevole e riflessivo. Ciò
consente, inoltre, l’acquisizione e lo sviluppo di strumentalità cognitive di “alto livello”, che rappresentano una fondamentale risorsa per la gestione dei processi di apprendimento e di costruzione delle
conoscenze in diversi contesti ed in diversi ambiti disciplinari”. (Santoianni, Striano, 2003, p. 118). La
metacognizione organizzando la conoscenza su di un piano/livello “meta” permette di organizzare gli
atteggiamenti di controllo, critica e retroazione sui propri saperi, di comparare e collegare gli statuti
dei diversi saperi specifici o disciplinari acquisiti, di attivare operazioni di de-strutturazione e quindi
di ri-strutturazione dei propri schemi cognitivi, di passare dal sapere particolare al sapere generale e
viceversa, senza eccessiva difficoltà. “La metacognizione dà corpo a un campo di metaconoscenze, che
implicano sì le conoscenze, senza le quali non c’è alcuna riflessione “meta”, ma che in quelle conoscenze non si collocano poiché appunto sono “meta” ” (Cambi, 2004, pagina 30).
Un altro importante contributo alla definizione del concetto di metacompetenza è quello, propostoci
da Aureliana Alberici (2003) e declinato secondo il modello della competenza strategica104.
L’ipotesi di partenza dell’autrice è che “i caratteri della metacompetenza si esprimano in modo compiuto nel costrutto della competenza strategica e che la metacompetenza, intesa secondo l’angolatura
offerta dal costrutto-modello della competenza strategica, attenga alla disposizione soggettiva a costruire attivamene le competenze” (Ibidem). Le caratteristiche di tale impostazione interpretativa sono
strettamente collegate al presupposto costruttivista di un soggetto attivamente impegnato a costruire
il suo percorso di adattamento sociale inteso, quest’ultimo, come un progetto e come un’invenzione
creativa piuttosto che come un destino prefigurato ed eterodiretto. Secondo l’Alberici, inoltre, la conoscenza si esprime e si trasforma in competenza solo nel momento in cui tale costrutto culturale è
riconosciuto come “utilmente attivabile” all’interno del gruppo, della società o della organizzazione in
cui si agisce.
104
Ci pare significativo sottolineare come nella interpretazione dell’autrice il concetto di competenza strategica non si
riduca a quello di competenze trasversali. Quest’ultimo infatti ne esprime soltanto un aspetto particolare e cioè si riferisce
specificamente alla capacità di un soggetto di trasferire ed adattare “con profitto” le sue conoscenze teorico-pratiche in
campi disciplinari differenti.
58
Per questo motivo, la generazione delle competenze è sì il frutto di un processo di sviluppo soggettivamente orientato, ma anche il risultato di un’attività di definizione intersoggettiva che avviene secondo
ed attraverso la mediazione delle culture presenti nei diversi gruppi d’azione.
Secondo l’impostazione di Gardner che l’autrice richiama, la competenza strategica è quindi concettualmente assimilabile ad un “regolatore di secondo livello, una metafora generale per il resto della
persona che funziona a partire dall’analisi dei valori e degli schemi interpretativi di una determinata
società” (Gardner, 2002, pagina 296). Più specificatamente l’autrice individua delle dimensioni/direttrici attraverso le quali è possibile declinare (e organizzare) le attività formative finalizzate allo sviluppo
della competenza strategica o detto in altri termini, all’insegnamento all’apprendere (Alberici, 2003).
Tali dimensioni sono sintetizzate di seguito:
• Dimensione della biograficità: cioè la capacità di riconoscersi, di attribuire senso, di orientarsi nella
complessità lungo le diverse fasi della carriera di vita, di progettare e di prendere decisioni.
• Dimensione della metacompetenza: cioè le strategie di innovazione, regolazione e organizzazione
delle competenze e degli schemi cognitivi acquisiti, a seconda delle condizioni ambientali.
• Dimensione della simbolizzazione: competenza simbolica in senso lato: linguistica e logica.
• Dimensione della emozione: competenze emotive personali ed interpersonali.
• Dimensione sociale: competenze di comunicazione, relazione e di assunzione di ruoli funzionali.
Queste ultime considerazioni sulla natura del concetto di metacompetenza ci mostrano ancora una volta la complessità del costrutto e ci portano dunque a riflettere, più da vicino, sulle modalità attraverso
cui organizzare la formazione di tali capacità adattive105.
3.4 - La formazione alla metacompetenza
La crescente variabilità e imprevedibilità dell’ambiente sociale contemporaneo pone dunque il tema/
problema della riformulazione delle prassi didattiche, che non possono più organizzarsi attorno alla
trasmissione passiva, statica e prevalentemente lineare di competenze specialistiche, prodotte per
favorire l’adattamento (inserimento?) dei soggetti in contesti di relativa staticità processuale.
La questione si pone dunque nel merito dei contenuti dei saperi, ma soprattutto dei metodi d’attiva105
Questo tema sarà affrontato in modo più dettagliato e specifico, rispetto alla formazione superiore, negli altri saggi
raccolti in questo volume.
59
zione delle capacità teorico-pratiche che devono essere trasferite, all’interno dei contesti istituzionali
della formazione, per migliorare le strategie adattive dei discenti. Si tratta in sintesi di attivare prassi
formative innovative, che agiscano non solo sul livello tecnico dei problemi ma anche ad un livello
cognitivo d’ordine superiore, capaci in quanto tali di promuovere (meta)conoscenze, in primo luogo
dinamiche (facilmente trasferibili e de-localizzabili su contesti di azione diversi) e riflessive (capaci di
mettere in discussione continuamente e a seconda delle contingenze i propri assunti teorico-pratici).
“Ciò significa che la competenza va correlata al modello di cultura/sapere/prassi di un tempo storico
(il nostro: il postmoderno, per usare una formula) e ai bisogni cognitivi/produttivi di una società (quella
attuale). Nella congiuntura storico-sociale odierna le competenze sono costantemente in itinere, vengono rinnovate e ristrutturate, anche radicalmente. Quindi tali competenze vanno definite nel presente
e nel futuro, e in un futuro contrassegnato dall’innovazione e dalla trasformazione” (Cambi, 2004,
pagina 24).
Il percorso di riflessione che porta all’emergenza del concetto di metacompetenza è legato, dunque,
alla maturazione della consapevolezza che alla trasmissione di competenze “di contenuto”, incentrate
su conoscenze “specialistiche” e “locali”, occorra oggi affiancare ed integrare una seconda tipologia
di competenze che chiameremo convenzionalmente “formali” (Cfr. Cambi, 2004). Competenze, cioè
come già argomentato, non localizzabili e articolabili in un corpus statico di conoscenze, non confinabili disciplinariamente, ma “trasversali” ai diversi saperi, in grado di stimolare nei discenti la formazione
di una forma mentis disposta alla complessità, e capaci di sedimentare disposizioni volte alla riflessività, all’interrogazione dei propri presupposti epistemologici e all’apprendimento continuo per tutto
il corso della vita. In quest’ottica, dunque, la metacompetenza è una competenza d’ordine superiore
che riguarda la capacità di un soggetto ad integrare e sistematizzare tra loro, attraverso competenze
formali, diverse competenze di contenuto al fine di gestire con consapevolezza ed efficacia pratica il
proprio percorso di apprendimento; apprendimento a sua volta finalizzato a definire in modo “positivo” la propria esperienza di vita in contesti sociali caratterizzati da complessità crescente. Acquisire
metacompetenze significa allora anche acquistare l’abilità di selezionare e gestire riflessivamente le
competenze specifiche utili al proprio adattamento sociale e in virtù di ciò dispiegare le proprie abilità
più alte, nel tentativo di attribuire un senso personale alla propria biografia sociale (Varchetta, 2003).
In questo senso e conseguentemente il costrutto di metacompetenza è anche caratterizzabile “nei
termini della capacità propria di un individuo, di adattarsi e riadattarsi alle dinamiche evolutive del suo
sistema ambientale e relazionale di riferimento, costruendo e trasformando continuamente i propri
60
modelli di conoscenza ed azione” (Pepe, 2003, pagina 134).
Il tema della formazione all’acquisizione di metacompetenze è quindi relativo, in questo senso, alla
possibilità di stimolare nei soggetti lo sviluppo di capacità trasferibili, non dipendenti dai singoli contesti situazionali. “In effetti, il processo di tranfer, quando la distanza tra l’esperienza precedentemente
acquisita e concettualizzata e la nuova situazione è consistente, implica l’attivazione di processi di riflessione critica e l’avvio di un processo decisionale centrato sull’elaborazione di un’intenzione consapevole ed esplicita di affrontare una vera e propria trasformazione degli elementi caratterizzanti le proprie
competenze e della maniera di combinarli tra loro” (Pellerey, 2003, pagina 152). Le metacompetenze
permettono di sviluppare, in questo senso, anche abilità soggettive di continua de-strutturarazione e
quindi re-contestualizzazione dei sistemi acquisiti di competenze.
Per stimolare nei discenti lo sviluppo di tali disposizioni occorre naturalmente attivare azioni formative
complesse106 che agiscano lungo i diversi livelli della relazione didattica. Un ruolo importante, ad esempio, gioca il livello psicologico delle motivazioni all’apprendimento107. In questo senso il formatore ha
un “ruolo preciso nell’aiutare a canalizzare tali forze interiori secondo percorsi validi dal punto di vista
della crescita personale, sociale, culturale e professionale. A esempio, il bisogno di sentirsi autonomi
va guidato verso lo sviluppo di un proprio progetto di carriera professionale, di una capacità di scelta
basata su valori caratterizzanti la propria identità e di perseveranza nel portare a termine le proprie
scelte e i propri progetti” (Pellerey, 2003, p. 158).
Diventa dunque cruciale coinvolgere emotivamente il soggetto al proprio percorso di apprendimento
(ad esempio favorendo azioni di co-progettazione dei processi formativi108) e renderlo (creando gli spazi e i sostegni adeguati allo sviluppo della sua autonomia progettuale) protagonista “convinto” e “consapevole” del suo complessivo percorso formativo, ponendolo, dunque, nella condizione di sviluppare
106
In quest’ottica appare fondamentale, ad esempio, lo sviluppo dell’istituto del tirocinio. (Cfr. Frabboni, Guerra, Lodini,
1995).
107
Su questo tema, ed in particolar sui concetti di motivazioni intrinseche e motivazioni estrinseche, si veda il già citato
saggio di Pellerey in Isfol. 2003.
108 L’organizzazione contemporanea del sapere e delle esperienze sociali richiede certamente il superamento di una concezione della formazione da un lato, legata alle esigenze tecniche di un sistema produttivo ancora “triviale” e “meccanico”,
e dall’altro, rivolta ad utenti “passivi” da istruire funzionalmente. Oggi con il mutare delle condizioni sociali ed economiche
“gli attori vanno messi in grado di individuare le possibilità di scelta con le quali costruire le proprie decisioni. Dobbiamo
arrivare ad un sistema che metta in primo piano i processi di personalizzazione nel sistema formativo e di risoluzione dei
problemi, superando la tradizionale formula: all’inizio le conoscenze, poi la didattica, poi la pratica. All’inizio non vi è il
sapere, ma il problema. Ciò significa mettere in primo piano la necessità di lavorare sull’intelligenza delle percezioni e delle
produzioni dei soggetti di fronte alla realtà. Quest’operazione si ottiene semplicemente attraverso forme di coinvolgimento
dell’utenza e della sua pratica di intelligenza fin da subito, nel processo quotidiano della formazione fatto di pratiche, di
conoscenza e di azione” (Padoan, 2003, pagina 48; corsivo nostro).
61
un suo personalizzato stile di apprendimento. La complessità dell’azione formativa rivolta allo sviluppo
del sapere riflessivo e meta-cognitivo implica, quindi, da parte del docente/formatore, un’attenzione
integrata su due principali dimensioni dell’apprendimento: quello cognitivo e quello “affettivo”.
Occorre attivare in questo senso un’attenta “ricognizione delle conoscenze e delle strumentalità apprenditive culturalmente determinate di cui i soggetti dispongono” ed “identificare gli elementi affettivi e motivazionali implicati nei processi di apprendimento e di costruzione della conoscenza” ed ancora
“individuare e monitorare le strategie cognitive sottese ad un determinato compito di apprendimento”
(Santoianni, Striano, 2003, pagine 118-119).
Tutto ciò richiede l’acquisizione da parte dei formatori di “competenze relative all’organizzazione ed
all’elaborazione di dati di conoscenza, sia di competenze relative alla gestione, al controllo, al monitoraggio dei processi cognitivi messi in atto nei processi di apprendimento” (Ivi, pagina 119), ed infine lo
sviluppo della disposizione all’ascolto e alla socialità del gruppo di lavoro.
62
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Finito di stampare nel mese di settembre 2008