Appunti su Edipo

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EDIPO: MISERIA E GRANDEZZA DELL’UOMO
La più famosa fra le tragedie di Sofocle, e forse di tutta l’antichità, è l’Edipo re, già presa da
Aristotele a modello della perfetta opera tragica e ormai entrata a far parte della cultura
contemporanea grazie alla reinterpretazione di Freud, che del mito di Edipo ha fatto una delle basi
della teoria psicanalitica.
L’opera si presenta, infatti, straordinariamente avvincente e perturbante, sia per il sapientissimo
intreccio, condotto con la tecnica del "giallo" come una inchiesta che, basandosi su indizi e con il
continuo ricorso al flashback, cerca di scoprire il colpevole di un delitto; sia, soprattutto, per la
complessità e problematicità del messaggio. Non è facile, infatti, individuare nell’Edipo un
conflitto tra protagonista e antagonista. Il protagonista, l’eroe che con la sua intelligenza ha saputo
sconfiggere la Sfinge, il buon sovrano amato dal popolo, sollecito del bene della città, coincide
anche con il colpevole del più orrendo dei delitti, per cui non esiste espiazione e perdono.
Cercando infatti di far luce sull’omicidio del re Laio, Edipo giungerà a scoprire di aver ucciso,
senza saperlo, il proprio padre e di aver sposato la propria madre.
Qual è dunque il problema sollevato dalla tragedia? Quello della innocenza e della colpa: Edipo è
soggettivamente innocente, perché ignora il male che ha fatto, opera in buona fede, animato da ansia
di giustizia e volontà di bene, eppure è oggettivamente colpevole di parricidio e di incesto. Ma
ancor più quello dei limiti e della miseria dell’uomo, che crede di poter opporre alla oscurità del
Fato la luce della sua intelligenza e la forza del suo operare e, mentre pensa di sfuggire al suo
destino, in realtà gli corre incontro.
Nel momento cruciale in cui la filosofia, con la lezione dei Sofisti e poi di Socrate, cominciava la
sua indagine sulla natura dell’uomo, le sue possibilità, i suoi doveri, i suoi limiti, anche Sofocle si
sofferma a meditare su questo essere, che nell’Antigone aveva definite δεινός; (deinòs), cioè
<<grande e potente ma anche tristo e spaventoso>> (come spiega il Lesky); lo mette in guardia dal
confidare troppo in se stesso, dal peccare di ύβρις; (hybris), cioè di superbia, opponendo il proprio
razionalismo al timore degli dei; e nello stesso tempo però, celebra la sua grandezza e la sua nobiltà,
piange la sua sconfitta, esalta la fierezza e il coraggio e con cui sa accettare, incolpevole, un destino
di sventura.
La tecnica dell’intreccio: la costruzione retrospettiva e il punto di vista
La tecnica con cui è costruito l`Edipo re è, come si è detto, assai complessa, per cui, a parziale
smentita di quanto avevamo affermato a proposito dell’Antigone, in questo dramma l’intreccio
riveste un particolare interesse.
Possiamo osservare, anzitutto, che Sofocle racconta i fatti a partire dalla fine, cioè dalla peste che
ha colpito Tebe come conseguenza di un delitto rimasto impunito; inoltre non spiega l’antefatto nel
prologo, come di solito avveniva, ma lo chiarisce a poco a poco nel corso dell‘azione scenica,
ricorrendo a frequenti flashback. Anche nell’uso di questo espediente, poi, assistiamo ad una
importante novità: nessun personaggio conosce, ed è perciò in grado di raccontare la verità tutta
intera, anche se ognuno ne conosce una parte. Edipo, Giocasta, il servo testimone della morte di
Laio, il pastore che porta Edipo bambino a Corinto sanno ciascuno qualcosa e danno ai fatti la
propria interpretazione. Sarà solo dal confronto dei diversi punti di vista, dal montaggio paziente di
questi pezzi di verità, che, come in un puzzle, il quadro finale verrà a comporsi. Tutto ciò conferisce
al dramma una insolita tensione, un’ansia di indagare e di sapere che si trasmette allo spettatore.
La tecnica dell’intreccio: gli indizi
La tecnica adottata da Sofocle è simile a quella dell’odierno scrittore di gialli: l’azione scenica
assume l’andamento di un’inchiesta, in cui Edipo agisce come un investigatore: cerca di ricostruire
l’accaduto basandosi su testimonianze parziali; raccoglie indizi, formula ipotesi, cerca le prove per
confermare le sue intuizioni. Persino il finale sembra obbedire alle regole del giallo, dove il
colpevole è sempre il meno sospetto.
Tuttavia non dobbiamo spingerci troppo oltre con le analogie: non solo lo spessore problematico
dell’Edipo è ben altro rispetto al semplice gusto per il gioco intellettuale sotteso a molti gialli; ma
anche dal punto di vista tecnico c’è una profonda differenza. Nel giallo il lettore fino all’ultima
pagina non scopre il colpevole o non comprende come si sono svolti i fatti, pur avendo a
disposizione sufficienti indizi; il suo divertimento consiste proprio in una sfida con l’autore a
riconoscere il colpevole prima della fine, decifrando gli indizi utili senza farsi fuorviare da quelli
falsi. Nella tragedia che esaminiamo, invece, mentre i personaggi rimangono ciechi davanti alla
verità, questa si fa sempre più evidente all’intuizione del pubblico che, messo in gradi di distinguere
i veri dai falsi dai falsi indizi, comprende ciò che i personaggi non vedono. Pur non essendoci un
narratore onnisciente che informa il destinatario di ciò che i personaggi non sanno, dal semplice
montaggio dei vari punti di vista il destinatario riesce a sapere più dei personaggio.
Giocasta parla per rassicurare Edipo. Tuttavia l’esito dell’intervento di Giocasta è del tutto opposto
alle sue intenzioni. Edipo infatti è turbato da una frase relativa a un fatto insignificante, dal punto di
vista di Giocasta, ma terribile per lui, perché potrebbe essere un indizio sulla sua colpevolezza.
Quale frase? Insospettito, Edipo incomincia ad indagare con altre domande. Quali sono?
Né Edipo né Giocasta vedono nella rievocazione delle profezie ricevute da ciascuno di loro un
punto di contatto che invece per lo spettatore è evidentissimo. Quale? A questo punto del dramma i
due personaggi sono già in possesso di tutti gli elementi per arrivare alla verità, non solo
sull’assassinio di Laio, ma anche sulla vera identità di Edipo: eppure la conclusione a cui giungono
è diversa. Gli indizi, infatti, sono enigmatici e per assumere un significato devono essere
interpretati. Ma qui entra in gioco la ragione umana, la sua capacità di comprendere, ma anche la
facilità con cui può essere tratta in errore. Edipo, in particolare, giunge a un passo dalla verità, ma è
trattenuto da un falso indizio. Quale?
I personaggi
Forse una ragione della cecità dei due protagonisti può essere trovata anche nel loro carattere e nei
rapporti che li uniscono. Giocasta in particolare appare sicura del fatto suo. Anziché credere al
linguaggio oscuro delle profezie, ella preferisce appellarsi alla chiarezza del discorso razionale. Il
suo ragionamento, che pretende di essere rigoroso, si può schematizzare così:
1. Apollo profetizzò che Laio sarebbe stato ucciso da suo figlio (premessa):;
2. Laio è morto assassinato per mano di ladroni (premessa)
3.Perciò la profezia non era valida (conclusione)
4. Ciò dimostra che le profezie non sono mai valide (seconda conclusione)
Ma Giocasta, come sappiamo, si sbaglia.
Edipo appare assai più turbato, pur intuendo di essere quasi l’assassino di Laio, rimane alla fine nel
dubbio, appellandosi ad una fragile speranza.
Abbiamo detto che il protagonista della tragedia è un eroe che esalta se stesso, pur soccombendo,
nella lotta per sostenere un suo fine, contro le forze che gli si oppongono. Per quale fine agisce
Edipo? Che cosa gli si oppone? Chi è il suo antagonista? Non è facile rispondere a queste domande.
Edipo stesso è alla ricerca di un antagonista e crede di vederlo dapprima in Tiresia, l’indovino che
gli ha annunciato una terribile verità, e poi in Creonte, che sospetta di complotto ai propri danni. Ma
strutturalmente il vero antagonista di Edipo è l’assassino di Laio, che egli stesso maledice. E cioè
chi? Inoltre egli agisce non solo per scoprire costui; ma anche per sfuggire al proprio destino. E in
questo caso chi è il suo antagonista?
Verso il messaggio: la funzione del coro
Giunti a questo punto della nostra riflessione, si affaccia una ipotesi interpretativa sconcertante:
Edipo è un uomo giusto e innocente che lotta contro un destino crudele, che non ha meritato.
Come si concilia l’ingiustizia subita da Edipo con l’affermazione che gli dei sono giusti?
L’intenzione di Sofocle è dunque quella di porre in dubbio la giustizia divina? Il messaggio
dell’opera conduce forse verso uno sconsolato scetticismo?
A chiarire la corretta interpretazione della vicenda e il pensiero di Sofocle interviene il coro, che
guida lo spettatore dalla oscurità del dubbio verso la luce della verità nel secondo stasimo di cui
segue una parafrasi commentata.
Parafrasi
Il coro comincia con l'affermare l’eterna validità delle leggi create dagli dei e chiede per sé che le
proprie parole ed azioni siano sempre conformi ad esse.
La seconda strofa affronta il tema della ύβρις (hybris), concetto cruciale nella tragedia greca, nel
testo tradotto con <<eccesso», a cui contrappone l’altro, altrettanto importante di ανάγκη
(anànche), qui reso con “abisso”.(traduzione corretta è necessità).
L’uomo che superbamente perde il senso dei propri limiti, compiendo azioni folli e sconvenienti,
all’improvviso si scontra con qualcosa che lo costringe a prendere atto della sua limitatezza
(“ananche”). Consapevole della fragilità umana, il coro si appoggia al dio e gli chiede di non
cessare di assistere la sua città.
Nella terza strofa si maledice chi, per superbia, non teme la giustizia divina e pecca di orgoglio e
di empietà (“toccherà l’intoccabile”). Chi pecca in tal modo merita l’ira divina; se così non fosse, se
al contrario venisse onorato, non avrebbe più senso il canto religioso del coro.
Se gli uomini non saranno più d’accordo su ciò – continua la quarta strofa – cioè non saranno
convinti che la superbia e l’empietà meritano la punizione, cesserà la doverosa devozione agli dei
(“più non mi recherò all’inviolabile ombelico della terra…”) e ad essa subentrerà l’incredulità.
Contro questa prospettiva, il coro invoca Zeus onnipotente di riconfermare il suo potere immortale.
E’ chiara dunque l’ispirazione religiosa del canto, che suona come monito contro chi vuole ignorare
le leggi divine e sostituisce alla devozione e al sacro timore degli dei la superba fiducia in se stesso.
Chi ha peccato di superbia ed empietà?
Aristotele afferma che nella tragedia la caduta dell’eroe è causata da un errore (αμαρτία =
hamartìa). In questo caso in che cosa consiste l’errore di Giocasta e di Edipo? Distingui però tra
errore o peccato involontario ed uno consapevole, di cui si è responsabili.
La catastrofe
L’ultima scena costituisce lo scioglimento del dramma, che nel genere tragico prende il nome di
catastrofe. La parola significa in greco “capovolgimento”, “brusca svolta verso il basso”, ed ha
assunto nella nostra lingua il significato intensamente negativo di “danno di enormi proporzioni”
proprio perché legata al suo impiego nel teatro tragico.
Infatti nella tragedia, dopo un momento in cui il protagonista sembra riuscire vincitore del conflitto
o scongiurare il peggio, la situazione d’improvviso si capovolge e l’eroe è travolto dalla rovina. In
opposizione alla commedia, la tragedia si caratterizza, tra l’altro, per la mancanza di un lieto fine o
di una conciliazione che porti ad un compromesso (anche se questo non è sempre vero).
Spesso il dramma si conclude con la morte dell’eroe, che a volte assume un valore di sacrificio, o di
espiazione delle proprie o altrui colpe, o di testimonianza dei propri ideali; a volte è un semplice
gesto di disperazione o, almeno in apparenza, un accadimento casuale.
C’è anche nell’Edipo re un momento sottolieto dal coro in cui l’eroe crede al proprio trionfo?
Nella storia di Edipo tutti i protagonisti vanno incontro a un a tragico destino ma in forme diverse.
Spiega quale significato, tra quelli prima indicati, hanno la fine di Laio, di Giocasta e di Edipo.
Ma anche la morte o la punizione dei protagonisti spesso non possono arrestare le conseguenze
della colpa che ricadono sui discendenti. Anche nella rovina, sia pure in modi. Rivedi a questo
proposito la sintesi dell’Antigone.
Osserva infine: nel teatro greco la morte dei personaggi, o gli atti di violenza che essi compiono,
non avvengono mai in scena; non sono cioè rappresentati, ma raccontati da una voce narrante.
Questo, secondo te, serve ad attenuare le emozioni degli spettatori, o, al contrario, ad accentuarle?
Orrore e pietà: la catarsi
Nello stasimo quarto ancora una volta il coro si fa portavoce delle emozioni dello spettatore e,
insieme, le dirige.
Vale la pena ricordare, a questo punto, l’interpretazione di Aristotele, secondo il quale la
rappresentazione tragica, <<mediante pietà ed orrore, produce la purificazione·da siffatte passioni».
Il fine della tragedia è dunque, per il filosofo la purificazione delle passioni, o, con parola greca,
catarsi. Il pubblico partecipa alle pene dell’eroe, lo patisce, ne ha pietà; ma anche ne prova orrore,
perciò lo respinge da sé, liberandosi così dagli incubi delle angosce che egli rappresenta.
Occorre ricordare inoltre che l’ideale di perfezione per i Greci è rappresentato dall'equilibrio
armonioso di tutte le facoltà dell’uomo, in cui la salute del corpo deve accompagnarsi a quella dello
spirito. Ora, le forti passioni, come la pena, la paura, l’aggressività turbano l’animo e impediscono
quella serenità che è condizione indispensabile di equilibrio. Assistendo rappresentazione tragica, lo
spettatore vive intensamente le passioni che lo turbano, deviandole però sul mondo della finzione
artistica. Egli così scarica la tensione emotiva e si libera dal "perturbante", rafforzando il proprio
equilibrio interiore.
Trova nel testo del quarto stasimo e sottolinea le espressioni di pietà per Edipo; individua anche i
passi che esprimono orrore verso un destino impuro, con cui nessuno spettatore potrà mai
identificarsi.
La vicenda di Edipo è presa anche come paradigma esemplare della sorte umana. Quale riflessione
generale sulla condizione umana si ricava dal destino dell’eroe?
Un tema emblematico: l’opposizione luce-tenebre, vista-cecità
Tutta la tragedia è percorsa da un tema emblematico: l’opposizione tra vedere ed esser ciechi, tra
luce e tenebre.
Riflettiamo. La luce della intelligenza umana si contrappone all’oscurità (= ambiguità,
incomprensibilità) della parola divina, rappresentata dall’oracolo di Apollo o anche dall’enigma
della Sfinge.
Edipo, che con la ragione umana ha vinto la Sfinge, è l’eroe di questa luce razionale. Lo dimostra
anche il suo desiderio di vedere, cioè di conoscere la verità .
Giocasta pensa ed agisce come lui (ricordi il suo modo di ragionare, sicuro e rigoroso?).
Si contrappone invece a Edipo l’indovino Tiresia, che parla l’oscuro linguaggio del dio Apollo.
Egli è cieco d’occhi, ma veggente, in quanto capace di vedere la verità, liberandola dalle false
apparenze.
Edipo e Giocasta, cercando la verità con la ragione, cadono in false interpretazioni, che li
conducono a conclusioni errate.
Così, alla fine del dramma, con un rovesciamento totale, la luce dell’intelligenza si rivela tenebra di
errore, mentre l’oscurità della profezia appare luce di verità.
In relazione a questa problematica, Edipo si punisce accecandosi.
La stilizzazione tragica: tempo e spazio
Come nella commedia, così anche nella tragedia la realtà è sottoposta ad un processo di
stilizzazione, che ne coglie ed accentua solo alcuni aspetti, senza curarsi della verisimiglianza.
Questo non toglie nulla alla verità profonda dell’opera tragica, che si pone come una riflessione sui
problemi e sul destino dell’uomo. D’altra parte, però, questo accentua la distanza tra la realtà
vissuta e la sua rappresentazione artistica e ancora una volta impedisce di confondere i due piani.
Un elemento di stilizzazione è già il carattere truce degli eventi rappresentati: casi atroci, orrendi
delitti, colpe inconfessabili, odi feroci che si tramandano in una catena di vendette.
Ma anche strutturalmente la tragedia accentua la sua inverosimiglianza mediante un processo di
semplificazione che sorvola su aspetti e passaggi logici della vicenda non direttamente funzionali al
fine espressivo stabilito; e di accentuazione, che isola e sottolinea un motivo conduttore prescelto.
Ecco perché, ad esempio, nell‘Edipo re il servo incaricato di abbandonare Edipo neonato è lo
stesso che è stato testimone dell’assassinio di Laio; come il pastore che portò Edipo a re Polibo
ricompare in veste di messaggero. Così quattro personaggi sono ridotti a due. Alla stessa logica di
semplificazione e condensazione rispondono anche il tempo e lo spazio della finzione tragica.
La vicenda di Edipo si risolve in un giorno. Gli eventi si susseguono nell’arco di poche ore, con una
densità ignota alla vita reale.
Allo stesso modo sui far de’alba Antigone manifesta alla sorella il suo proposito e prima di sera il
suo destino è già compiuto. Il luogo, poi, in cui si svolge l’azione subisce ben pochi spostamenti.
Edipo incontra i vari personaggi e parla con loro davanti alla reggia, rivolto alla piazza dove sta il
suo popolo, rappresentato dal coro; nello stesso luogo il nunzio riferisce della morte di Giocasta e
dell’accecamento di Edipo, che qui comparirà alla fine, cieco, sorretto dalle due figlie, pronto a
partire per l’esilio.
Questa unità di luogo era richiesta anche dalla struttura del teatro antico, che presentava una scena
fissa, senza sipario e scarse possibilità di trasformazioni, salvo aprire una porta per fare vedere un
interno o far scendere una piattaforma dall’alto mediante un congegno.
Ragioni tecniche, dunque, e soprattutto la volontà di condensare i fatti, estraendo da una storia il
suo significato emblematico, conducono il teatro tragico greco ad una prassi di rappresentazione in
cui il tempo della storia dura, più o meno, un giorno e lo spazio scenico è sostanzialmente fisso.
Sono queste le cosiddette unità di tempo e di luogo del teatro classico, chiamate anche unità
aristoteliche, perché considerate da Aristotele nel suo discorso sulla tragedia.
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