Il liberalsocialismo di Giuriolo di Antonio Trentin Tra Rosselli e Calogero Per raccontare del liberalsocialismo come riferimento teorico per Antonio Giuriolo, giovane intellettuale non fascista e poi antifascista militante, bisogna portarsi alla metà degli anni Trenta e partire... dall’ircocervo. L’ircocervo è una creatura della fantasia mitologica che è sempre piaciuta molto a filosofi e letterati, critici e giornalisti che scrivono difficile. E spesso anche ai politici. Nei vocabolari si legge che l’ircovervo è un «animale favoloso, metà caprone e metà cervo» e che in senso traslato è una «idea intrinsecamente contraddittoria, impossibile e, quindi, inesistente». Per inciso, tra gli ultimi a intitolare all’ircocervo una sua rivista, un paio di anni fa, è stato Fabrizio Cicchitto, vicecoordinatore di Forza Italia. Chissà se l’ha fatto anche per ironizzare con tutti i sociologi e politologi inizialmente analizzatori del suo “partito inesistente”, poi smentiti dai fatti elettorali… Ircocervo fu il termine scelto da Benedetto Croce per bollare teoreticamente le costruzioni che tentavano di comporre in una sintesi dottrinaria accettabile il liberalismo e il socialismo, a cavallo tra politica attiva (nell’antifascismo all’estero e nelle modeste tessiture di reti d’opposizione in Italia) e filosofia della politica (nelle università e sulle riviste). Una situazione – questa – che, dieci anni prima, aveva coinvolto in forme molto simili anche le istanze modernizzatrici del liberalismo classico proposte da Piero Gobetti. Con l’attribuzione di una connotazione liberale all’evoluzione del socialismo riformista ci aveva provato, in quegli anni, Carlo Rosselli: il suo Socialisme Libéral scritto nell’esilio francese è del 1930 – un anno dopo la fuga dal confino nell’isola di Lipari – ed era diventato, questo testo di Rosselli, il fondamento ideologico del movimento Giustizia e Libertà. 54 Antonio Trentin Per quelli che erano la tradizione paterna e il clima familiare, è facile capire quanto il socialismo liberale potesse attrarre l’interesse di Giuriolo. Proprio all’inizio dei suoi contatti politico-letterari fuori Vicenza e indirizzato da Francesco Flora, critico letterario incontrato a Milano, il giovane Toni incontra a Bologna un altro critico e saggista che fa opposizione al regime attraverso la cultura, Carlo Ludovico Ragghianti, uno dei più convinti diffusori delle idee di Rosselli. Ed è da Bologna – siamo tra la primavera e l’estate del 1937 – che Giuriolo porta a Vicenza una copia del Socialisme Libéral. Con un’elaborazione filosoficamente più complessa cercava la conciliazione tra liberalismo e socialismo anche Guido Calogero: una conciliazione letta da Croce come una variante malcongegnata del liberalismo, e cioè non una costruzione dottrinariamente fondata su una sintesi accettabile, ma una sincresi arbitraria, un ircocervo appunto. E come tale il filosofo napoletano la prese direttamente di mira in una nota sulla sua rivista «La Critica» nel 1937. Calogero era uno studioso poco più che trentenne, romano di nascita e professore tra Pisa e Firenze, laureato con Giovanni Gentile e rimasto gentiliano per devozione al maestro e impronta culturale, poi formatosi autonomamente attraverso quello che potremmo definire noi un “ircocervo didattico”, considerata la pluridecennale disputa tra scuole filosofiche. In una lettera del 1935, Calogero dichiarava infatti a Gentile che i suoi maestri erano due: lui e Croce. Ciò non toglieva – anzi: forse spiegava il fatto – che Calogero, già agli esordi da giovane professore, nel 1929, fosse schedato come oppositore del fascismo. Con Gentile (che lo proteggeva) dibatteva di filosofia, e la fedeltà del filosofo al regime finiva messa tra parentesi negli scambi epistolari e nei contatti personali. Intanto procedeva per proprio conto all’approfondimento di questo liberalsocialismo che avrebbe presto coinvolto anche Giuriolo e che veniva a essere una risposta nuova – fondata sui valori di libertà e di democrazia – alla pretesa del fascismo di aver superato, insieme, il liberalismo e il socialismo. Calogero costruiva un ideale politico alternativo sia al liberalismo puro che al socialismo di tipo marxista passando per ragionamenti che culminavano in una filosofia della prassi tutta basata su un’etica volontaristica e altruistica. Questa etica liberava i valori morali e politici da qualsiasi determinismo non solo di tipo trascendentale, ma anche sul piano della logica e della razionalità strumentale, affidandone il fondamento a un umanesimo integrale. Il liberalsocialismo di Giuriolo 55 Nel 1936 con il saggio La filosofia e la vita e poi nel 1938 con un altro libro, La scuola dell’uomo, Calogero indicava come compito della filosofia e del filosofo, come loro dovere, la promozione di nuovi valori di civiltà. Il primo fra tutti questi valori era il riconoscimento del diritto dell’altrui libertà attraverso un’etica personale dell’abnegazione che reinterpretava in chiave laica – diciamo così – la morale cristiana. Erano due cose distinte, il socialismo liberale di Rosselli, più economico-politico; e il liberalsocialismo di Calogero, tutto filosofico nei punti di partenza. Due cose diversissime, anche se in sèguito sono state più di qualche volta confuse dall’arbitrarietà delle semplificazioni lessicali. Eresia socialista una, eresia liberale l’altra, è stato detto spesso. Della prima, quella di Rosselli, va tenuto presente l’intento di superare i modi interpretativi del conflitto sociale e la prassi partitica della socialdemocrazia prefascista: una necessità che tornava pressante nelle riflessioni di Giuriolo, appuntate pagina dopo pagina in diversi quaderni. E se poi vogliamo permetterci un aggancio estemporaneo, possiamo spingerci a collegare la seconda “eresia”, quella di Calogero, con le molto successive – e nostre contemporanee – forme di contrattualismo teorizzate da John Rawls e ispirate al principio dell’equità. È un aggancio, questo, che – dal mio punto di vista – mantiene decisamente attuale la teoria del liberalsocialismo come specchio, o metro, del bilanciamento tra bisogni di libertà e bisogni di uguaglianza che anche oggi dovrebbe essere indispensabile per la vitalità della democrazia. Eresia più eresia, dunque. Entrambe sarebbero confluite, alla fine, verso lo stesso sbocco politico: Giustizia e Libertà da una parte e la rete liberalsocialista dall’altra sarebbero diventate, nei primi anni Quaranta, le principali componenti costitutive del Partito d’Azione, il partito di Giuriolo. E va ricordata, a questo punto, proprio la caratteristica organizzativa di questa rete: che non era dipendente dall’alto, dal “centro estero” o, per quanto (poco) possibile, dal “centro interno”, com’erano le reti clandestine del Partito comunista e di quanto permaneva del Partito socialista; ma era una rete – chiamiamola così – poligenetica. Perché il liberalsocialismo organizzato e poi il Partito d’Azione nascevano da nuclei locali in contatto per via culturale e intellettuale prima che politica, attraverso un consolidarsi di reciproci riconoscimenti che passava molto per l’azione pratica di figure come quella di Giuriolo, frequente viaggiatore ferroviario da Vicenza verso Bologna, Milano o Firenze. 56 Antonio Trentin Il catechismo laico di Aldo Capitini Lettore avido di testi teorici sul liberalismo, la socialdemocrazia, le “terze vie” e lettore di riviste letterarie e umanistiche – in Biblioteca Bertoliana si possono ancora leggere certe sue noterelle a matita sui fascicoli della Critica di Croce – Giuriolo entra in quella che stava diventando la rete liberalsocialista nel 1937. A questo punto si deve far entrare nel discorso un altro personaggio e un altro incontro (prima per interposta lettura, poi di persona) che furono determinanti per il giovane laureato vicentino, per questo Giuriolo figura unica a Vicenza che gira per l’Italia del Centro Nord ogni volta che può, che fa supplenze e ha qualche incarico in una scuola privata, ma non entra nei ruoli della Pubblica Istruzione perché non si iscrive al Partito unico, che «è professore ma non insegna» come scriverà Luigi Meneghello, riferendosi a un momento poco più avanti negli anni. La costruzione teorica del liberalsocialismo della quale abbiamo visto finora un elemento, quello che aveva nome Calogero, ebbe come coautore Aldo Capitini. Capitini – dopo una giovinezza anche psicologicamente un po’ travagliata – era stato studente e poi segretario della Scuola Normale Superiore di Pisa, e iniziatore con Claudio Baglietto, anche lui a Pisa come docente, di un movimento che nel 1932 proponeva due linee guida: un teismo razionalistico come approdo filosofico-religioso; e come prassi di vita la non-collaborazione col Male, un’idea vicina alle tesi del Mahatma Gandhi che arrivavano in Occidente in quegli anni e che – almeno per i pochi che se ne interessavano – sconvolgevano la retorica del militarismo e dell’autoritarismo insegnata e praticata dalle scuole elementari in su. Allontanato da Pisa, dov’era direttore Gentile, per la mancata iscrizione al Partito fascista, Capitini era tornato nella sua Perugia nel 1933, nell’appartamento del padre custode del municipio, sotto la torre campanaria del Comune. E viveva – un po’ come Giuriolo – dando lezioni private. Qui a Perugia aveva perfezionato l’impianto delle sue convinzioni, elaborandole in un volumetto pubblicato da Laterza, sempre in questo cruciale 1937 che è già stato più volte citato. Il titolo era Elementi di un’esperienza religiosa. Questo piccolo volume di Capitini, ben letto e ben visto da Benedetto Croce, trattava di nonviolenza, non-collaborazione, non-menzogna, di apertura umanistica e di libera religiosità. E soprattutto di un dovere morale: quello di trasportare tutti questi valori nella prassi del com- Il liberalsocialismo di Giuriolo 57 portamento personale e nelle scelte politiche. In pratica diventava un piccolo catechismo laico su un modo di essere o diventare antifascisti attraverso una nuova maturazione di convinzioni etiche. Ha scritto Capitini trent’anni dopo, e dopo essere diventato nel frattempo un simbolo per gli obiettori di coscienza italiani: «Sapevano del mio libro, ma a nessuno – dei censori del regime, intendeva – venne in mente di leggerlo, perché se si trattava di un’esperienza “religiosa”, essa doveva essere indubbiamente innocua». Come doveva funzionare questa “predicazione laica” di Capitini e come effettivamente funzionò, anche con il tramite di Giuriolo? Ad un primo livello, risvegliando negli interlocutori un’opposizione etica al fascismo, come dicevo, per sperare e far sperare nel ritorno alla democrazia. Ad un secondo livello, riservato ai più convinti delle prospettive economiche e politiche di Capitini, veniva indicato l’ideale di una società libera perché giusta, in cui la collettivizzazione economica doveva aprire spazi di libertà individuali anche sul piano intellettuale. Era una prospettiva in qualche modo “comunistica”, questa, che risultò molto compressa, per non dire cancellata, quando dall’elaborazione intellettuale i “capitiniani” passarono alla definizione di un programma partitico d’intesa con Calogero e con gli antifascisti provenienti da Giustizia e Libertà. Giuriolo lesse gli Elementi di un’esperienza religiosa appena pubblicati e li leggeva alla mamma Marina nella casa a castello di Arzignano. Sono sue due lettere del 1947, tre anni dopo la morte di Toni, nelle quali racconterà a Capitini che attraverso quelle letture il figlio le spiegava che cos’era per lui l’antifascismo – cioè prima di tutto il richiamo a valori etici e poi la consequenzialità delle scelte politiche – e le spiegava quanto fosse decisivo il rinnovamento morale per la costruzione di una prospettiva storica nuova. Capitini fu dunque compagno di Calogero nell’elaborazione della teoria del liberalsocialismo, un termine che espressamente voleva echeggiare (ma superandolo) il socialismo liberale di Rosselli e il binomio (distinto) giustizia-libertà. Il primo portava l’elemento social-religioso. Il secondo l’elemento giuridico-dottrinario. Confrontarono a lungo insieme il percorso etico e filosofico che portava – e cito da un libro di Capitini che è del 1966, ma è sicuramente espressivo delle convinzioni di quasi un trentennio prima – a un liberalsocialismo «che non risulta da un po’ di liberalismo e un po’ di socialismo, ma tende a massime socializzazioni nel campo economico e massime libertà nel campo spirituale». Un ircocervo, secondo Benedetto Croce, per tornare al punto di partenza, 58 Antonio Trentin ma potentemente capace di coinvolgere l’attenzione di quell’ambiente piccolissimo, ma culturalmente ricco e promettente, dell’intellettualità laica – al quale cominciava ad appartenere anche Giuriolo – che non voleva più essere fascista e non si accontentava più dell’insegnamento, diciamo, politicamente astratto dalle contingenze dei tempi, di Croce. Ecco un passo dagli appunti di Giuriolo che esprime lo stato d’animo dei giovani crociani insoddisfatti: Lo storicismo di Croce sta battendo in questi ultimi tempi sull’iniziativa morale; ma rimane sempre qualcosa di inerte, di contemplativo, di stoico nella sua concezione del mondo; questa iniziativa morale sembra sorgere chi sa perché e quando vuole la Provvidenza; a ognuno è affidata una missione, fatta la quale ci si mette in pace con la coscienza e si lascia le cose andare come devono andare. Che cosa fu il liberalsocialismo dei giovani non più solo crociani, come Giuriolo, nel panorama di quegli anni? Diciamo che fu un antifascismo soprattutto etico-politico, sostanzialmente distinto rispetto all’antifascismo sociale delle classi subalterne – per usare questa terminologia – che basavano l’opposizione al regime sull’insostenibilità delle condizioni di vita e sul messaggio di contrasto e alternativa di sistema socioeconomico che permaneva dagli anni prefascisti. Mentre queste classi – o meglio le loro piccolissime avanguardie, visto che ci stiamo occupando ancora degli “anni del consenso” mussoliniano – si rivolgevano di preferenza, una volta scelto l’antifascismo, ai partiti marxisti, un limitato ma significativo strato di giovani intellettuali trovava molto più vicina al proprio modo di pensare l’opposizione di tipo etico-culturale di Capitini, di Calogero e degli antifascisti laici e – tra virgolette – “borghesi”. Dei quali, possiamo dire, Giuriolo fu un esempio perfetto. Per chi era interessato alle connotazioni dottrinarie dell’antifascismo, il liberalsocialismo dava risposte soddisfacenti anche a proposito del tema “terza via”, e questo lo si rintraccia bene anche nelle carte del giovane Toni. Fin dalla presa del potere, e di più dopo la crisi mondiale del 1929, il fascismo e il suo corporativismo si erano posti come “terza via” tra liberalismo liberistico e socialismo marxista, giudicati fallimentari – e ce n’era qualche motivo – nella loro unilateralità interpretativa della realtà economica, sociale e politica. L’impostazione socialcorporativa di una “terza via” italiana aveva fatto ovviamente larga presa nei gio- Il liberalsocialismo di Giuriolo 59 vani degli anni Trenta, cresciuti senza memoria della società prefascista e bombardati dalla propaganda sulle crisi irreversibili delle democrazie liberali e dei socialismi reali. Era stata la guerra di Spagna – molto seguita e molto commentata da Giuriolo con i familiari e gli amici – a dissolvere le ipotesi di “terze vie” nella contrapposizione netta che c’era stata fra totalitarismi reazionari e principi democratici. Per qualche verso, dunque, il liberalsocialismo può essere interpretato come il tentativo di una sottile fetta di giovane intellettualità maturata in regime fascista, di contrapporre al tipo di superamento del liberalismo e del socialismo proclamato dal fascismo all’insegna dello Stato etico nazionale, una sintesi delle istanze liberali e socialiste più vitali, da conciliare dialetticamente e da integrare reciprocamente. In un certo senso il liberalsocialismo diventava così il primo movimento di “antifascismo postfascista” – se possiamo usare questa espressione – più attraente per le nuove generazioni, per i coetanei di Toni Giuriolo e poi anche per i ventenni dei primi anni Quaranta, rispetto all’“antifascismo prefascista” dei partiti sciolti con le leggi speciali del 1925, ricostituiti all’estero e alle prese con la schiacciante difficoltà di farsi sentire in Italia. La riflessione di Giuriolo Gli Elementi di un’esperienza religiosa e poi il Manifesto del liberalsocialismo, scritto da Calogero nel 1940, dopo lunghi e lenti dibattiti condotti nell’ombra della cospirazione, furono i testi-guida con i quali Giuriolo prima entrò nella cerchia dell’opposizione al regime – poco più che venticinquenne – e poi partecipò all’antifascismo attivo nei contatti con Milano, Firenze e Bologna come si diceva. Tra l’altro incontrando più volte – nel Veneto e altrove – Capitini, presentatogli dal professor Enrico Niccolini, che ha scritto cose molto belle e interessanti sul “campanaro di Perugia”. Si può senz’altro dire che, per la presenza e l’attività di Giuriolo – e con lui soprattutto di Niccolini e poi anche di altri che ebbero contatti con Capitini, come il futuro scrittore Antonio Barolini e il piccolo “giro” di giovani vicentini che sarebbero diventati i “piccoli maestri” – Vicenza divenne il centro principale del liberalsocialismo nel Veneto, tra lo scorcio finale degli anni Trenta e il primo tempo di guerra, prima che l’arrivo di Norberto Bobbio come professore e l’infittirsi della trama cospirativa trasferissero il ruolo a Padova città universitaria. 60 Antonio Trentin Il Manifesto del liberalsocialismo fu steso definitivamente il 21 aprile 1940 in una riunione segreta a Pratica di Mare, sul litorale laziale, nella data del Natale di Roma festeggiato dal regime. Il Manifesto raccolse insieme, in Italia, i prosecutori dell’innovazione socialista teorizzata da Carlo Rosselli aderenti a Giustizia e Libertà con il movimento tutto interno che si era costituito intorno a Capitini e Calogero. I punti comuni per una collaborazione organica furono accertati in un convegno clandestino ad Assisi, in maggio, nella casa di un pretore antifascista, Alberto Apponi, con la partecipazione di figure che saranno importanti nella Resistenza di lì a qualche anno e poi anche nella cultura italiana del dopoguerra: tra le altre Giorgio Agosti, Antonio Zanotti e Francesco Flora per Giustizia e Libertà; Calogero, Capitini, Norberto Bobbio, Cesare Luporini e Tristano Codignola per il movimento liberalsocialista. Con loro quel giorno c’era anche Giuriolo, che nel frattempo aveva portato in discussione nel Veneto prima le bozze e poi il testo finale del Manifesto; una copia di quello che è comunemente definito il Manifesto Calogero è nell’archivio dell’Istituto della Resistenza di Padova, proprio tra le Carte Giuriolo. Alcuni quadernetti con la copertina lucida nera, che si usavano in quegli anni, conservano un diario personale di Toni Giuriolo – molto intimo e tutto rivolto all’autoanalisi della rispondenza tra idealità etiche e comportamenti di vita – e tutta una serie di approfondimenti su teorie politiche e possibili sbocchi riformatori. In pratica un lungo compendio di riflessioni proprio sul Manifesto del liberalsocialismo e sui percorsi per arrivare a riconoscerlo come adeguata risposta al bisogno di novità politiche. Ecco alcuni “ritagli”, che fanno capire il modo di procedere di Giuriolo (anche attraverso qualche apparente incongruità terminologica, come nel caso del trattamento per così dire “dottrinario” del vocabolo democrazia): Quattro esperienze fondamentali ci si presentano nel campo politico e tutt’e quattro ci sembrano insoddisfacenti e inadeguate: democrazia, liberalismo vecchio tipo, comunismo, nazionalfascismo. Le prime due sono certo meno ripugnanti e perverse delle altre, ma bisogna convenire in fondo che hanno facilitato il sorgere di esignze che poi non sono riuscite a risolvere, in modo che queste hanno dovuto ricercare la soluzione per una via diversa e più pericolosa. La democrazia, col suo disprezzo dell’intima coscienza individuale, con la sua tendenza all’accentramento e alla burocrazia, per la sua tirannia della Il liberalsocialismo di Giuriolo 61 maggioranza, che in effetto poi può ridursi alla tirannia di una minoranza la quale maneggia demagogicamente la massa informe del popolo, ha preparato nella sua fisionomia essenziale lo stato totalitario. Il liberalismo ha avuto soprattutto il difetto di essere liberalismo solo politico. La libertà era teoricamente e di diritto estesa a tutti i cittadini, ma in effetto non la potevano esercitare che quelli i quali erano stati favoriti dalla sorte o dalla natura: la gran massa vi rimaneva estranea. Fu così facile ai propagandisti antiliberali far passare la libertà come il privilegio di una classe, l’abuso del capitalismo ecc. Il vecchio capitalismo è caduto perché non ha spinto fino in fondo le conseguenze delle sue premesse, perché ha lasciato sussistere vari privilegi e ne ha anzi protetto e legittimato l’esistenza, perché insomma non si è potuto fondere con le esigenze dell’uguaglianza. Sui versanti del totalitarismo, naturalmente, l’avversione di Giuriolo per il comunismo sovietico e per il nazionalismo tradotto in dittatura – e in Italia spacciato per rivoluzione – è “senza se e senza ma”, per usare una terminologia attuale: Il comunismo pretende di risolvere il problema politico abolendo il privilegio di proprietà; in effetto non lo risolve, perché se cancella il capitalismo privato, ne stabilisce uno infinitamente più pesante, di stato […]. Dà a tutti i suoi sudditi un’uguaglianza ma è un’uguaglianza nell’oppressione. […] Il nazionalfascismo è anch’esso essenzialmente reazionario. Anzi possiamo ben dire che raccoglie e potenzia tutti i difetti di regimi passati: della democrazia raccoglie l’organizzazione burocratica, l’ipertrofia delle commissioni consultive, la derisione di ogni schietto valore morale, la tendenza demagogica a lusingare il popolo; del liberalismo l’incapacità a vedere i problemi politici nella loro complessività, l’inclinazione a risolverli dal punto di vista angustamente politico, statale, chiudendo gli occhi all’esigenza che sorge al di fuori; del comunismo porta questo statalismo invadente, questa mentalità partigiana e poliziesca, la considerazione degli uomini non come soggetti ma come oggetti da amministrare, da dirigere con le buone o con le cattive. Ed ecco qualche altro passo, lungo il percorso ideologico che conduce alla sintesi unitaria che volevano Giuriolo e i liberalsocialisti, e che nel luglio del 1942 avrebbe fatto nascere il Partito d’Azione: Liberalismo e socialismo si sono effettivamente differenziati nella storia per la loro opposta concezione della vita politica e per la conseguente attività pra- 62 Antonio Trentin tica. Eppure essi avevano una comune sostanza etica, che doveva permettere la reciproca compenetrazione; tanto è vero che il primo asseriva di contenere in sé le esigenze del secondo; e il secondo proclamava che con l’attuazione del nuovo sistema economico si sarebbe entrati nel regno della vera libertà. Nella realtà però la pratica dell’uno si allontanò spesso da quella dell’altro, perché in ognuno dei due ideali rimanevano pregiudizi di classe, residui mitici, differenze e sospetti; così è avvenuto che, rinserrandosi sempre più nella loro mentalità partigiana, liberalismo e socialismo si siano sempre più estraniati l’uno dall’altro fino a rivelarsi nemici irriducibili. La lezione delle cose ora mostra che l’impotenza dell’uno pregiudica e corrompe le realizzazioni dell’altro e bisogna tornare, per costruire qualcosa di positivo, alla purezza originaria delle aspirazioni, alla libertà che era posta al fianco dell’uguaglianza. E ancora un altro passaggio: La compenetrazione di socialismo e liberalismo si verifica in certo senso nell’appoggiare l’uno l’opera dell’altro; l’uno allarga e diffonde la libertà del secondo, questo traduce in leggi ed istituzioni le conquiste sociali di quello […]. O la libertà è un ideale morale, che tende ad allargarsi, a riconoscersi in un numero sempre più vasto di persone, e allora non può scindersi dal concetto di giustizia; o si rinchiude in se stessa come in un monopolio e allora avrà ragione il marxismo di definirla una sovrastruttura degli interessi borghesi. Sono riflessioni, come si è letto, in chiave marcatamente ideologica. Per le ultime si tratta di ampliamenti o riscritture del Manifesto del liberalsocialismo. Un numero decisamente minore di appunti di Giuriolo riguarda le concretizzazioni programmatiche sullo Stato democratico che doveva uscire dal disegno liberalsocialista. In queste note Giuriolo rilegge i “punti” del Manifesto, dove tratta di ordinamento economico, criteri tributari, sistema parlamentare e metodo elettorale, organi giurisdizionali. Concludo proprio con alcune ultime righe, sempre ricavate da un quadernetto nero con le coste rosse, scritto da Giuriolo tra il 1940 e il 1941 a commento dei punti del Manifesto Calogero dedicati a una futura Corte costituzionale. E ricordo che l’idea della Corte – anzi: la Gran Corte Costituzionale come veniva chiamata nelle carte dei liberalsocialisti e poi degli azionisti – fu il principale contributo fornito dall’area laica all’elaborazione politico-giuridica prima e durante la fase costituente. Il liberalsocialismo di Giuriolo 63 Nelle idee di chi la proponeva inizialmente, la Corte doveva essere l’organo garante dell’adeguamento di tutta la vita pubblica, nelle sue varie forme, al dettato costituzionale: non si sarebbe trattato tanto di un ramo o un livello del potere giudiziario, quanto piuttosto di una sede di supervisione etica che doveva tutelare la libertà riconquistata contro ogni tentativo totalitario. Ecco gli appunti, che bene inquadrano l’astrattezza della proposta appena descritta: un segnale sull’attenzione alla realizzabilità dei grandi disegni ideali che evidentemente non mancava al Giuriolo non ancora trentenne che partecipava al dibattito con personaggi più maturi di lui: La Corte Costituzionale […] avrà il compito di controllare il gioco, le intenzioni e la pratica dei partiti perché questi non contravvengano alla regola fondamentale della libertà. Ora, ha qualcosa di assurdo un istituto che funge da interprete e custode della libertà: chi lo comporrà non dovrà appartenere ad alcun partito, sarà un semplice funzionario; ora, è il funzionario il più adatto a preservare e a far risperttare la libertà? E a questa Corte gli uomini saranno eletti o andranno per concorso? Se non saranno eletti, chi mi assicura della loro indipendenza da parte dei partiti? E l’ultima citazione riguarda ancora la Corte Costituzionale e la stampa: La stampa quotidiana è spesso in mano ai ricchi e influenzata quindi dai ricchi; il povero non ha la possibilità di parteciparvi. In attesa che l’uguaglianza sociale elimini questa disparità, cagione per gli uni di prepotenza e per gli altri di impotenza, bisogna che il lettore sia informato della provenienza del gironale, di chi o finanzia ecc. (magari nell’intestatura). Ho riproposto per doverosa attenzione professionale mia a quei vecchi appunti di Toni Giuriolo, queste righe scritte al di là dei confini dell’ingenuità, ma eloquentissime proprio per questo; e per l’attualità che conservano. Visto che di trasparenza e libertà di stampa e comunicazione – e di completezza, correttezza e indipendenza dei giornalisti – non ce n’è mai abbastanza per dirsi tranquilli. Neanche oggi.