Il liberalsocialismo di Giuriolo
di Antonio Trentin
Tra Rosselli e Calogero
Per raccontare del liberalsocialismo come riferimento teorico per Antonio Giuriolo, giovane intellettuale non fascista e poi antifascista militante, bisogna portarsi alla metà degli anni Trenta e partire... dall’ircocervo.
L’ircocervo è una creatura della fantasia mitologica che è sempre
piaciuta molto a filosofi e letterati, critici e giornalisti che scrivono difficile. E spesso anche ai politici. Nei vocabolari si legge che l’ircovervo è
un «animale favoloso, metà caprone e metà cervo» e che in senso traslato è una «idea intrinsecamente contraddittoria, impossibile e, quindi,
inesistente».
Per inciso, tra gli ultimi a intitolare all’ircocervo una sua rivista, un
paio di anni fa, è stato Fabrizio Cicchitto, vicecoordinatore di Forza
Italia. Chissà se l’ha fatto anche per ironizzare con tutti i sociologi e
politologi inizialmente analizzatori del suo “partito inesistente”, poi
smentiti dai fatti elettorali…
Ircocervo fu il termine scelto da Benedetto Croce per bollare teoreticamente le costruzioni che tentavano di comporre in una sintesi dottrinaria accettabile il liberalismo e il socialismo, a cavallo tra politica
attiva (nell’antifascismo all’estero e nelle modeste tessiture di reti d’opposizione in Italia) e filosofia della politica (nelle università e sulle riviste). Una situazione – questa – che, dieci anni prima, aveva coinvolto
in forme molto simili anche le istanze modernizzatrici del liberalismo
classico proposte da Piero Gobetti.
Con l’attribuzione di una connotazione liberale all’evoluzione del
socialismo riformista ci aveva provato, in quegli anni, Carlo Rosselli: il
suo Socialisme Libéral scritto nell’esilio francese è del 1930 – un anno dopo
la fuga dal confino nell’isola di Lipari – ed era diventato, questo testo di
Rosselli, il fondamento ideologico del movimento Giustizia e Libertà.
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Antonio Trentin
Per quelli che erano la tradizione paterna e il clima familiare, è facile capire quanto il socialismo liberale potesse attrarre l’interesse di
Giuriolo.
Proprio all’inizio dei suoi contatti politico-letterari fuori Vicenza e
indirizzato da Francesco Flora, critico letterario incontrato a Milano, il
giovane Toni incontra a Bologna un altro critico e saggista che fa opposizione al regime attraverso la cultura, Carlo Ludovico Ragghianti, uno
dei più convinti diffusori delle idee di Rosselli. Ed è da Bologna – siamo tra la primavera e l’estate del 1937 – che Giuriolo porta a Vicenza
una copia del Socialisme Libéral.
Con un’elaborazione filosoficamente più complessa cercava la conciliazione tra liberalismo e socialismo anche Guido Calogero: una conciliazione letta da Croce come una variante malcongegnata del liberalismo, e cioè non una costruzione dottrinariamente fondata su una
sintesi accettabile, ma una sincresi arbitraria, un ircocervo appunto. E
come tale il filosofo napoletano la prese direttamente di mira in una
nota sulla sua rivista «La Critica» nel 1937.
Calogero era uno studioso poco più che trentenne, romano di nascita e professore tra Pisa e Firenze, laureato con Giovanni Gentile e
rimasto gentiliano per devozione al maestro e impronta culturale, poi
formatosi autonomamente attraverso quello che potremmo definire
noi un “ircocervo didattico”, considerata la pluridecennale disputa tra
scuole filosofiche. In una lettera del 1935, Calogero dichiarava infatti a
Gentile che i suoi maestri erano due: lui e Croce.
Ciò non toglieva – anzi: forse spiegava il fatto – che Calogero, già
agli esordi da giovane professore, nel 1929, fosse schedato come oppositore del fascismo. Con Gentile (che lo proteggeva) dibatteva di filosofia, e la fedeltà del filosofo al regime finiva messa tra parentesi negli
scambi epistolari e nei contatti personali. Intanto procedeva per proprio conto all’approfondimento di questo liberalsocialismo che avrebbe presto coinvolto anche Giuriolo e che veniva a essere una risposta
nuova – fondata sui valori di libertà e di democrazia – alla pretesa del
fascismo di aver superato, insieme, il liberalismo e il socialismo.
Calogero costruiva un ideale politico alternativo sia al liberalismo
puro che al socialismo di tipo marxista passando per ragionamenti che
culminavano in una filosofia della prassi tutta basata su un’etica volontaristica e altruistica. Questa etica liberava i valori morali e politici da
qualsiasi determinismo non solo di tipo trascendentale, ma anche sul
piano della logica e della razionalità strumentale, affidandone il fondamento a un umanesimo integrale.
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Nel 1936 con il saggio La filosofia e la vita e poi nel 1938 con un altro
libro, La scuola dell’uomo, Calogero indicava come compito della filosofia e del filosofo, come loro dovere, la promozione di nuovi valori di
civiltà. Il primo fra tutti questi valori era il riconoscimento del diritto
dell’altrui libertà attraverso un’etica personale dell’abnegazione che
reinterpretava in chiave laica – diciamo così – la morale cristiana.
Erano due cose distinte, il socialismo liberale di Rosselli, più economico-politico; e il liberalsocialismo di Calogero, tutto filosofico nei
punti di partenza. Due cose diversissime, anche se in sèguito sono state
più di qualche volta confuse dall’arbitrarietà delle semplificazioni lessicali. Eresia socialista una, eresia liberale l’altra, è stato detto spesso.
Della prima, quella di Rosselli, va tenuto presente l’intento di superare i modi interpretativi del conflitto sociale e la prassi partitica della
socialdemocrazia prefascista: una necessità che tornava pressante nelle
riflessioni di Giuriolo, appuntate pagina dopo pagina in diversi quaderni. E se poi vogliamo permetterci un aggancio estemporaneo, possiamo spingerci a collegare la seconda “eresia”, quella di Calogero, con
le molto successive – e nostre contemporanee – forme di contrattualismo teorizzate da John Rawls e ispirate al principio dell’equità.
È un aggancio, questo, che – dal mio punto di vista – mantiene decisamente attuale la teoria del liberalsocialismo come specchio, o metro,
del bilanciamento tra bisogni di libertà e bisogni di uguaglianza che anche oggi dovrebbe essere indispensabile per la vitalità della democrazia.
Eresia più eresia, dunque. Entrambe sarebbero confluite, alla fine, verso lo stesso sbocco politico: Giustizia e Libertà da una parte e
la rete liberalsocialista dall’altra sarebbero diventate, nei primi anni
Quaranta, le principali componenti costitutive del Partito d’Azione, il
partito di Giuriolo. E va ricordata, a questo punto, proprio la caratteristica organizzativa di questa rete: che non era dipendente dall’alto,
dal “centro estero” o, per quanto (poco) possibile, dal “centro interno”, com’erano le reti clandestine del Partito comunista e di quanto
permaneva del Partito socialista; ma era una rete – chiamiamola così –
poligenetica.
Perché il liberalsocialismo organizzato e poi il Partito d’Azione nascevano da nuclei locali in contatto per via culturale e intellettuale prima che
politica, attraverso un consolidarsi di reciproci riconoscimenti che passava molto per l’azione pratica di figure come quella di Giuriolo, frequente
viaggiatore ferroviario da Vicenza verso Bologna, Milano o Firenze.
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Il catechismo laico di Aldo Capitini
Lettore avido di testi teorici sul liberalismo, la socialdemocrazia, le
“terze vie” e lettore di riviste letterarie e umanistiche – in Biblioteca
Bertoliana si possono ancora leggere certe sue noterelle a matita sui
fascicoli della Critica di Croce – Giuriolo entra in quella che stava diventando la rete liberalsocialista nel 1937.
A questo punto si deve far entrare nel discorso un altro personaggio
e un altro incontro (prima per interposta lettura, poi di persona) che furono determinanti per il giovane laureato vicentino, per questo Giuriolo figura unica a Vicenza che gira per l’Italia del Centro Nord ogni volta
che può, che fa supplenze e ha qualche incarico in una scuola privata,
ma non entra nei ruoli della Pubblica Istruzione perché non si iscrive al
Partito unico, che «è professore ma non insegna» come scriverà Luigi
Meneghello, riferendosi a un momento poco più avanti negli anni.
La costruzione teorica del liberalsocialismo della quale abbiamo visto finora un elemento, quello che aveva nome Calogero, ebbe come
coautore Aldo Capitini.
Capitini – dopo una giovinezza anche psicologicamente un po’
travagliata – era stato studente e poi segretario della Scuola Normale
Superiore di Pisa, e iniziatore con Claudio Baglietto, anche lui a Pisa
come docente, di un movimento che nel 1932 proponeva due linee guida: un teismo razionalistico come approdo filosofico-religioso; e come
prassi di vita la non-collaborazione col Male, un’idea vicina alle tesi
del Mahatma Gandhi che arrivavano in Occidente in quegli anni e che
– almeno per i pochi che se ne interessavano – sconvolgevano la retorica del militarismo e dell’autoritarismo insegnata e praticata dalle scuole elementari in su. Allontanato da Pisa, dov’era direttore Gentile, per
la mancata iscrizione al Partito fascista, Capitini era tornato nella sua
Perugia nel 1933, nell’appartamento del padre custode del municipio,
sotto la torre campanaria del Comune. E viveva – un po’ come Giuriolo
– dando lezioni private. Qui a Perugia aveva perfezionato l’impianto
delle sue convinzioni, elaborandole in un volumetto pubblicato da Laterza, sempre in questo cruciale 1937 che è già stato più volte citato. Il
titolo era Elementi di un’esperienza religiosa.
Questo piccolo volume di Capitini, ben letto e ben visto da Benedetto Croce, trattava di nonviolenza, non-collaborazione, non-menzogna,
di apertura umanistica e di libera religiosità. E soprattutto di un dovere
morale: quello di trasportare tutti questi valori nella prassi del com-
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portamento personale e nelle scelte politiche. In pratica diventava un
piccolo catechismo laico su un modo di essere o diventare antifascisti
attraverso una nuova maturazione di convinzioni etiche.
Ha scritto Capitini trent’anni dopo, e dopo essere diventato nel frattempo un simbolo per gli obiettori di coscienza italiani: «Sapevano del
mio libro, ma a nessuno – dei censori del regime, intendeva – venne in
mente di leggerlo, perché se si trattava di un’esperienza “religiosa”,
essa doveva essere indubbiamente innocua».
Come doveva funzionare questa “predicazione laica” di Capitini e
come effettivamente funzionò, anche con il tramite di Giuriolo? Ad un
primo livello, risvegliando negli interlocutori un’opposizione etica al
fascismo, come dicevo, per sperare e far sperare nel ritorno alla democrazia. Ad un secondo livello, riservato ai più convinti delle prospettive economiche e politiche di Capitini, veniva indicato l’ideale di
una società libera perché giusta, in cui la collettivizzazione economica
doveva aprire spazi di libertà individuali anche sul piano intellettuale.
Era una prospettiva in qualche modo “comunistica”, questa, che risultò molto compressa, per non dire cancellata, quando dall’elaborazione
intellettuale i “capitiniani” passarono alla definizione di un programma partitico d’intesa con Calogero e con gli antifascisti provenienti da
Giustizia e Libertà.
Giuriolo lesse gli Elementi di un’esperienza religiosa appena pubblicati
e li leggeva alla mamma Marina nella casa a castello di Arzignano. Sono sue due lettere del 1947, tre anni dopo la morte di Toni, nelle quali
racconterà a Capitini che attraverso quelle letture il figlio le spiegava
che cos’era per lui l’antifascismo – cioè prima di tutto il richiamo a valori etici e poi la consequenzialità delle scelte politiche – e le spiegava
quanto fosse decisivo il rinnovamento morale per la costruzione di una
prospettiva storica nuova.
Capitini fu dunque compagno di Calogero nell’elaborazione della
teoria del liberalsocialismo, un termine che espressamente voleva echeggiare (ma superandolo) il socialismo liberale di Rosselli e il binomio (distinto) giustizia-libertà. Il primo portava l’elemento social-religioso. Il
secondo l’elemento giuridico-dottrinario. Confrontarono a lungo insieme il percorso etico e filosofico che portava – e cito da un libro di Capitini che è del 1966, ma è sicuramente espressivo delle convinzioni di quasi
un trentennio prima – a un liberalsocialismo «che non risulta da un po’
di liberalismo e un po’ di socialismo, ma tende a massime socializzazioni nel campo economico e massime libertà nel campo spirituale». Un
ircocervo, secondo Benedetto Croce, per tornare al punto di partenza,
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ma potentemente capace di coinvolgere l’attenzione di quell’ambiente
piccolissimo, ma culturalmente ricco e promettente, dell’intellettualità
laica – al quale cominciava ad appartenere anche Giuriolo – che non
voleva più essere fascista e non si accontentava più dell’insegnamento,
diciamo, politicamente astratto dalle contingenze dei tempi, di Croce.
Ecco un passo dagli appunti di Giuriolo che esprime lo stato d’animo dei giovani crociani insoddisfatti:
Lo storicismo di Croce sta battendo in questi ultimi tempi sull’iniziativa
morale; ma rimane sempre qualcosa di inerte, di contemplativo, di stoico
nella sua concezione del mondo; questa iniziativa morale sembra sorgere
chi sa perché e quando vuole la Provvidenza; a ognuno è affidata una missione, fatta la quale ci si mette in pace con la coscienza e si lascia le cose
andare come devono andare.
Che cosa fu il liberalsocialismo dei giovani non più solo crociani,
come Giuriolo, nel panorama di quegli anni? Diciamo che fu un antifascismo soprattutto etico-politico, sostanzialmente distinto rispetto
all’antifascismo sociale delle classi subalterne – per usare questa terminologia – che basavano l’opposizione al regime sull’insostenibilità
delle condizioni di vita e sul messaggio di contrasto e alternativa di
sistema socioeconomico che permaneva dagli anni prefascisti.
Mentre queste classi – o meglio le loro piccolissime avanguardie,
visto che ci stiamo occupando ancora degli “anni del consenso” mussoliniano – si rivolgevano di preferenza, una volta scelto l’antifascismo,
ai partiti marxisti, un limitato ma significativo strato di giovani intellettuali trovava molto più vicina al proprio modo di pensare l’opposizione di tipo etico-culturale di Capitini, di Calogero e degli antifascisti
laici e – tra virgolette – “borghesi”. Dei quali, possiamo dire, Giuriolo
fu un esempio perfetto.
Per chi era interessato alle connotazioni dottrinarie dell’antifascismo, il liberalsocialismo dava risposte soddisfacenti anche a proposito
del tema “terza via”, e questo lo si rintraccia bene anche nelle carte del
giovane Toni.
Fin dalla presa del potere, e di più dopo la crisi mondiale del 1929,
il fascismo e il suo corporativismo si erano posti come “terza via” tra
liberalismo liberistico e socialismo marxista, giudicati fallimentari – e
ce n’era qualche motivo – nella loro unilateralità interpretativa della
realtà economica, sociale e politica. L’impostazione socialcorporativa
di una “terza via” italiana aveva fatto ovviamente larga presa nei gio-
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vani degli anni Trenta, cresciuti senza memoria della società prefascista
e bombardati dalla propaganda sulle crisi irreversibili delle democrazie liberali e dei socialismi reali. Era stata la guerra di Spagna – molto seguita e molto commentata da Giuriolo con i familiari e gli amici
– a dissolvere le ipotesi di “terze vie” nella contrapposizione netta che
c’era stata fra totalitarismi reazionari e principi democratici.
Per qualche verso, dunque, il liberalsocialismo può essere interpretato come il tentativo di una sottile fetta di giovane intellettualità maturata in regime fascista, di contrapporre al tipo di superamento del
liberalismo e del socialismo proclamato dal fascismo all’insegna dello
Stato etico nazionale, una sintesi delle istanze liberali e socialiste più
vitali, da conciliare dialetticamente e da integrare reciprocamente. In
un certo senso il liberalsocialismo diventava così il primo movimento di “antifascismo postfascista” – se possiamo usare questa espressione – più attraente per le nuove generazioni, per i coetanei di Toni
Giuriolo e poi anche per i ventenni dei primi anni Quaranta, rispetto
all’“antifascismo prefascista” dei partiti sciolti con le leggi speciali del
1925, ricostituiti all’estero e alle prese con la schiacciante difficoltà di
farsi sentire in Italia.
La riflessione di Giuriolo
Gli Elementi di un’esperienza religiosa e poi il Manifesto del liberalsocialismo, scritto da Calogero nel 1940, dopo lunghi e lenti dibattiti condotti
nell’ombra della cospirazione, furono i testi-guida con i quali Giuriolo
prima entrò nella cerchia dell’opposizione al regime – poco più che
venticinquenne – e poi partecipò all’antifascismo attivo nei contatti con
Milano, Firenze e Bologna come si diceva. Tra l’altro incontrando più
volte – nel Veneto e altrove – Capitini, presentatogli dal professor Enrico Niccolini, che ha scritto cose molto belle e interessanti sul “campanaro di Perugia”.
Si può senz’altro dire che, per la presenza e l’attività di Giuriolo – e
con lui soprattutto di Niccolini e poi anche di altri che ebbero contatti
con Capitini, come il futuro scrittore Antonio Barolini e il piccolo “giro” di giovani vicentini che sarebbero diventati i “piccoli maestri” – Vicenza divenne il centro principale del liberalsocialismo nel Veneto, tra
lo scorcio finale degli anni Trenta e il primo tempo di guerra, prima che
l’arrivo di Norberto Bobbio come professore e l’infittirsi della trama
cospirativa trasferissero il ruolo a Padova città universitaria.
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Antonio Trentin
Il Manifesto del liberalsocialismo fu steso definitivamente il 21 aprile
1940 in una riunione segreta a Pratica di Mare, sul litorale laziale, nella
data del Natale di Roma festeggiato dal regime. Il Manifesto raccolse
insieme, in Italia, i prosecutori dell’innovazione socialista teorizzata da
Carlo Rosselli aderenti a Giustizia e Libertà con il movimento tutto interno che si era costituito intorno a Capitini e Calogero.
I punti comuni per una collaborazione organica furono accertati in
un convegno clandestino ad Assisi, in maggio, nella casa di un pretore
antifascista, Alberto Apponi, con la partecipazione di figure che saranno importanti nella Resistenza di lì a qualche anno e poi anche nella
cultura italiana del dopoguerra: tra le altre Giorgio Agosti, Antonio
Zanotti e Francesco Flora per Giustizia e Libertà; Calogero, Capitini,
Norberto Bobbio, Cesare Luporini e Tristano Codignola per il movimento liberalsocialista. Con loro quel giorno c’era anche Giuriolo, che
nel frattempo aveva portato in discussione nel Veneto prima le bozze e
poi il testo finale del Manifesto; una copia di quello che è comunemente
definito il Manifesto Calogero è nell’archivio dell’Istituto della Resistenza di Padova, proprio tra le Carte Giuriolo.
Alcuni quadernetti con la copertina lucida nera, che si usavano in
quegli anni, conservano un diario personale di Toni Giuriolo – molto intimo e tutto rivolto all’autoanalisi della rispondenza tra idealità
etiche e comportamenti di vita – e tutta una serie di approfondimenti
su teorie politiche e possibili sbocchi riformatori. In pratica un lungo
compendio di riflessioni proprio sul Manifesto del liberalsocialismo e sui
percorsi per arrivare a riconoscerlo come adeguata risposta al bisogno
di novità politiche.
Ecco alcuni “ritagli”, che fanno capire il modo di procedere di Giuriolo (anche attraverso qualche apparente incongruità terminologica,
come nel caso del trattamento per così dire “dottrinario” del vocabolo
democrazia):
Quattro esperienze fondamentali ci si presentano nel campo politico e tutt’e
quattro ci sembrano insoddisfacenti e inadeguate: democrazia, liberalismo
vecchio tipo, comunismo, nazionalfascismo. Le prime due sono certo meno
ripugnanti e perverse delle altre, ma bisogna convenire in fondo che hanno
facilitato il sorgere di esignze che poi non sono riuscite a risolvere, in modo
che queste hanno dovuto ricercare la soluzione per una via diversa e più
pericolosa.
La democrazia, col suo disprezzo dell’intima coscienza individuale, con la
sua tendenza all’accentramento e alla burocrazia, per la sua tirannia della
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maggioranza, che in effetto poi può ridursi alla tirannia di una minoranza
la quale maneggia demagogicamente la massa informe del popolo, ha preparato nella sua fisionomia essenziale lo stato totalitario.
Il liberalismo ha avuto soprattutto il difetto di essere liberalismo solo politico. La libertà era teoricamente e di diritto estesa a tutti i cittadini, ma in
effetto non la potevano esercitare che quelli i quali erano stati favoriti dalla
sorte o dalla natura: la gran massa vi rimaneva estranea. Fu così facile ai propagandisti antiliberali far passare la libertà come il privilegio di una classe,
l’abuso del capitalismo ecc. Il vecchio capitalismo è caduto perché non ha
spinto fino in fondo le conseguenze delle sue premesse, perché ha lasciato
sussistere vari privilegi e ne ha anzi protetto e legittimato l’esistenza, perché insomma non si è potuto fondere con le esigenze dell’uguaglianza.
Sui versanti del totalitarismo, naturalmente, l’avversione di Giuriolo per il comunismo sovietico e per il nazionalismo tradotto in dittatura
– e in Italia spacciato per rivoluzione – è “senza se e senza ma”, per
usare una terminologia attuale:
Il comunismo pretende di risolvere il problema politico abolendo il privilegio di proprietà; in effetto non lo risolve, perché se cancella il capitalismo
privato, ne stabilisce uno infinitamente più pesante, di stato […]. Dà a tutti
i suoi sudditi un’uguaglianza ma è un’uguaglianza nell’oppressione.
[…] Il nazionalfascismo è anch’esso essenzialmente reazionario. Anzi possiamo ben dire che raccoglie e potenzia tutti i difetti di regimi passati: della
democrazia raccoglie l’organizzazione burocratica, l’ipertrofia delle commissioni consultive, la derisione di ogni schietto valore morale, la tendenza demagogica a lusingare il popolo; del liberalismo l’incapacità a vedere
i problemi politici nella loro complessività, l’inclinazione a risolverli dal
punto di vista angustamente politico, statale, chiudendo gli occhi all’esigenza che sorge al di fuori; del comunismo porta questo statalismo invadente, questa mentalità partigiana e poliziesca, la considerazione degli uomini non come soggetti ma come oggetti da amministrare, da dirigere con
le buone o con le cattive.
Ed ecco qualche altro passo, lungo il percorso ideologico che conduce alla sintesi unitaria che volevano Giuriolo e i liberalsocialisti, e che
nel luglio del 1942 avrebbe fatto nascere il Partito d’Azione:
Liberalismo e socialismo si sono effettivamente differenziati nella storia per
la loro opposta concezione della vita politica e per la conseguente attività pra-
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tica. Eppure essi avevano una comune sostanza etica, che doveva permettere
la reciproca compenetrazione; tanto è vero che il primo asseriva di contenere
in sé le esigenze del secondo; e il secondo proclamava che con l’attuazione
del nuovo sistema economico si sarebbe entrati nel regno della vera libertà.
Nella realtà però la pratica dell’uno si allontanò spesso da quella dell’altro,
perché in ognuno dei due ideali rimanevano pregiudizi di classe, residui
mitici, differenze e sospetti; così è avvenuto che, rinserrandosi sempre più
nella loro mentalità partigiana, liberalismo e socialismo si siano sempre più
estraniati l’uno dall’altro fino a rivelarsi nemici irriducibili.
La lezione delle cose ora mostra che l’impotenza dell’uno pregiudica e corrompe le realizzazioni dell’altro e bisogna tornare, per costruire qualcosa di
positivo, alla purezza originaria delle aspirazioni, alla libertà che era posta
al fianco dell’uguaglianza.
E ancora un altro passaggio:
La compenetrazione di socialismo e liberalismo si verifica in certo senso
nell’appoggiare l’uno l’opera dell’altro; l’uno allarga e diffonde la libertà
del secondo, questo traduce in leggi ed istituzioni le conquiste sociali di
quello […]. O la libertà è un ideale morale, che tende ad allargarsi, a riconoscersi in un numero sempre più vasto di persone, e allora non può scindersi
dal concetto di giustizia; o si rinchiude in se stessa come in un monopolio
e allora avrà ragione il marxismo di definirla una sovrastruttura degli interessi borghesi.
Sono riflessioni, come si è letto, in chiave marcatamente ideologica.
Per le ultime si tratta di ampliamenti o riscritture del Manifesto del liberalsocialismo. Un numero decisamente minore di appunti di Giuriolo
riguarda le concretizzazioni programmatiche sullo Stato democratico
che doveva uscire dal disegno liberalsocialista. In queste note Giuriolo
rilegge i “punti” del Manifesto, dove tratta di ordinamento economico,
criteri tributari, sistema parlamentare e metodo elettorale, organi giurisdizionali.
Concludo proprio con alcune ultime righe, sempre ricavate da un
quadernetto nero con le coste rosse, scritto da Giuriolo tra il 1940 e il
1941 a commento dei punti del Manifesto Calogero dedicati a una futura
Corte costituzionale. E ricordo che l’idea della Corte – anzi: la Gran Corte Costituzionale come veniva chiamata nelle carte dei liberalsocialisti
e poi degli azionisti – fu il principale contributo fornito dall’area laica
all’elaborazione politico-giuridica prima e durante la fase costituente.
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Nelle idee di chi la proponeva inizialmente, la Corte doveva essere
l’organo garante dell’adeguamento di tutta la vita pubblica, nelle sue
varie forme, al dettato costituzionale: non si sarebbe trattato tanto di
un ramo o un livello del potere giudiziario, quanto piuttosto di una
sede di supervisione etica che doveva tutelare la libertà riconquistata
contro ogni tentativo totalitario. Ecco gli appunti, che bene inquadrano
l’astrattezza della proposta appena descritta: un segnale sull’attenzione alla realizzabilità dei grandi disegni ideali che evidentemente non
mancava al Giuriolo non ancora trentenne che partecipava al dibattito
con personaggi più maturi di lui:
La Corte Costituzionale […] avrà il compito di controllare il gioco, le intenzioni e la pratica dei partiti perché questi non contravvengano alla regola
fondamentale della libertà. Ora, ha qualcosa di assurdo un istituto che funge da interprete e custode della libertà: chi lo comporrà non dovrà appartenere ad alcun partito, sarà un semplice funzionario; ora, è il funzionario
il più adatto a preservare e a far risperttare la libertà? E a questa Corte gli
uomini saranno eletti o andranno per concorso? Se non saranno eletti, chi
mi assicura della loro indipendenza da parte dei partiti?
E l’ultima citazione riguarda ancora la Corte Costituzionale e la
stampa:
La stampa quotidiana è spesso in mano ai ricchi e influenzata quindi dai
ricchi; il povero non ha la possibilità di parteciparvi. In attesa che l’uguaglianza sociale elimini questa disparità, cagione per gli uni di prepotenza e
per gli altri di impotenza, bisogna che il lettore sia informato della provenienza del gironale, di chi o finanzia ecc. (magari nell’intestatura).
Ho riproposto per doverosa attenzione professionale mia a quei vecchi appunti di Toni Giuriolo, queste righe scritte al di là dei confini dell’ingenuità, ma eloquentissime proprio per questo; e per l’attualità che
conservano. Visto che di trasparenza e libertà di stampa e comunicazione – e di completezza, correttezza e indipendenza dei giornalisti – non
ce n’è mai abbastanza per dirsi tranquilli. Neanche oggi.