Commento al Trattato di Lisbona

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L’UNIONE EUROPEA
SECONDO LA RIFORMA DI LISBONA*
SOMMARIO: 1. Considerazioni generali sul Trattato di Lisbona del 2007.
- 2. La natura giuridica del processo di integrazione. - 3. I problemi legati alla disciplina di recesso, revisione ed entrata in vigore. - 4. Il tentativo di superamento di un’ottica meramente internazionalista ed il nuovo
assetto istituzionale e normativo. - 5. I valori “propri” dell’Unione
Europea nella riforma di Lisbona. - 6. Le innovazioni nelle politiche materiali e l’abolizione dei “pilastri”. - 7. La cittadinanza dell’Unione. - 8.
L’identità popolare europea ed i principi di solidarietà, sussidiarietà e
proporzionalità. - 9. La “nuova” Corte di giustizia. - 10. Le cooperazioni
rafforzate ed il futuro dell’Unione Europea.
1. Il processo di integrazione europea ha trovato un indubbio rilancio,
dopo la grave crisi seguita al fallimento del Trattato che adotta una
Costituzione per l’Europa di Roma del 2004 (d’ora in poi Trattato “costituzionale”), grazie alla firma, avvenuta il 13 dicembre 2007, del Trattato
di Lisbona. Esso, a norma dell’articolo 6, questo è sottoposto alla ratifica
degli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali
per entrare in vigore il 1o gennaio 2009 (oppure il primo giorno del mese
successivo all’avvenuto deposito dell’ultimo strumento di ratifica), consentendo di celebrare le nuove elezioni del Parlamento europeo del 2009
nell’ambito del nuovo quadro giuridico-istituzionale dell’Unione Europea.
La riforma si concretizza nel nuovo Trattato sull’Unione Europea (d’ora in
poi NTUE), che è ampiamente riscritto definendo il quadro e le regole del
gioco, e nel Trattato sul funzionamento dell’Unione (TFUE), che si occupa
soprattutto delle politiche comuni: essi, secondo l’art. 1 del NTUE, hanno
lo stesso valore giuridico.
Il Trattato di Lisbona comprende solo 7 articoli, alcuni dei quali evidentemente corposi, 37 Protocolli, 65 fra Dichiarazioni relative alle disposizioni dei Trattati ed ai connessi Protocolli oppure espresse da Stati
membri. Rispetto al Trattato “costituzionale” esso non sostituisce in toto
i Trattati UE, CE e CEEA ma si limita a modificarli, abbandonando il
metodo del consolidamento normativo indicato dalla dichiarazione di
* Si segnala che SudInEuropa ha dedicato un numero speciale (febbraio 2008) alla
riforma di Lisbona con interventi di Ugo Villani, Girolamo Strozzi, Luigi Daniele, Roberto
Mastroianni, Enzo Cannizzaro, Lucia Serena Rossi, Francesco Munari, Ruggiero Cafari
Panico, Claudia Morviducci, Maria Caterina Baruffi, Paola Puoti, Giandonato Caggiano e
Chiara Gabrielli.
SudInEuropa è disponibile anche su internet all’indirizzo
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Laeken, per tornare alla tecnica degli emendamenti “a pettine” con evidenti conseguenze opache in termini di leggibilità.
Viene inoltre fatto scomparire in termini quasi “maniacali” ogni riferimento terminologico ad una “costituzione”, cassando qualsiasi accenno
anche puramente simbolico a quanto si possa minimamente collegare ad
un assetto istituzionale di tipo costituzionale. Grave è infatti, in termini
di trasparenza e di avvicinamento dei cittadini al processo di integrazione, l’abbandono della corretta terminologia rispetto alle norme comunitarie che invece di essere chiamate con il loro vero nome, e cioè legge
comunitaria e legge quadro, tornano agli attuali “regolamenti” e “direttive”. Altrettanto criticabile è la mancata esplicitazione del “primato del
diritto comunitario” il quale, per quanto non possa che restare tale rispetto agli ordinamenti interni come ripetutamente sancito dalla Corte di giustizia, non deve comunque essere formalmente espresso all’interno Trattato ma semplicemente “ricordato” nella Dichiarazione n. 17.
Si tratta della logica “anticostituzione” che porta alla cancellazione,
ma solo quali simboli ufficiali, della bandiera con le 12 stelle d’oro in
campo blu e dell’Inno alla gioia di Beethoven nonché del motto Unita
nella diversità! Si tratta di modifiche che, se non nascondessero la ferma
resistenza di alcuni Membri a progettare un’evoluzione in termini più
spiccatamente politici del processo di integrazione, sarebbero solo degne
di ilarità;e meno male che, essendo una festa, almeno il 9 maggio è stato
salvato! È peraltro da segnalare che con apposita Dichiarazione n. 52 allegata all’Atto finale, 16 Stati membri (tra i quali l’Italia), hanno affermato che “per essi, la bandiera rappresentante un cerchio di dodici stelle
dorate su fondo blu, l’inno trattato dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven, il motto dell’Unione “Unita nella diversità”, l’euro quale moneta dell’Unione europea e la giornata dell’Europa
del 9 maggio continueranno ad essere i simboli della comune appartenenza dei cittadini all’Unione europea e del loro legame con la stessa”.
Altrettanto si può dire della mancata incorporazione nel nuovo testo
della Carta dei diritti fondamentali, alla quale comunque viene finalmente riconosciuto lo “stesso valore giuridico dei Trattati” attraverso sia la
Dichiarazione solenne resa il 12 dicembre dalle tre istituzioni Parlamento, Consiglio e Commissione sia l’art. 6 del NTUE (“L’Unione riconosce i
diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali
del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati”) sia ancora dalla Dichiarazione n. 1 allegata al
Trattato di Lisbona. Anche se tale “sradicamento” appare in palese e singolare contraddizione con una realtà che basa buona parte della sua identità proprio sui valori fondamentali della persona.
Bisogna dire che aver “paura” dei simboli di appartenenza alla più
grande costruzione storica e politica dell’ultimo secolo è sicuramente
preoccupante per di più in un momento in cui più ci sarebbe bisogno di
riconoscersi, soprattutto per le giovani generazioni, nell’Europa.
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Tuttavia, la riconduzione del quadro normativo nei confini dei semplici (si fa per dire) Trattati potrebbe consentire di tornare, in un futuro
non lontano, ad introdurre con maggiore facilità modifiche più consone ad
un vero e proprio testo costituzionale di quelle già individuate a Roma nel
2004. Il che sarà possibile proprio attraverso un intervento in particolare
sul NTUE in quanto in esso sono fissati i principi e le competenze delle
istituzioni; e non a caso le relative procedure di revisione sono più impegnative rispetto al secondo, che potrà essere invece modificato senza la
convocazione di una conferenza intergovernativa.
Ad ogni modo i nuovi Trattati, con i quali si “manda in pensione” la pur
gloriosa espressione “Comunità europea” (CE) e viene abolita la struttura su tre pilastri attribuendo all’Unione la personalità giuridica, lasciano
nonostante tutto inalterato l’impianto essenziale del Trattato “costituzionale”, grazie alla concessione di una ampia serie di deroghe a singoli Stati membri. Tuttavia la presenza di tanti opt-out (clausole di rifiuto), optin (clausole di consenso), protocolli e dichiarazioni producono il non esaltante risultato di fornire un testo estremamente complesso e di difficile
comprensione anche per gli addetti ai lavori. Se poi si considera ad esempio, la relativa applicabilità sul territorio britannico dei principi della
Carta per un Paese che già non partecipa allo spazio Schengen ed alla
moneta unica, si comprende come l’interprete debba spesso sottoporsi ad
evoluzioni acrobatiche per fornire una lettura corretta dei testi normativi. Il tutto con buona pace della necessità di rendere i Trattati più comprensibili ai cittadini.
In questo contesto numerosi aspetti positivi devono tuttavia essere
segnalati. Per la cittadinanza dell’Unione esistono passi in avanti verso
una diversa dignità di tale nozione in vista di una sua auspicabile e piena
autonomia giuridica. Così come è importante il Titolo relativo ai principi
democratici comprensivo del diritto di iniziativa popolare grazie al quale
almeno un milione di persone che abbiano la cittadinanza di un numero
significativo di Stati membri possono invitare la Commissione a presentare una proposta appropriata in un determinato ambito.
Ed è ancora positiva la pur molto articolata disciplina delle cooperazioni rafforzate. Esse – nella misura in cui consentono ad alcuni degli Stati
membri di approfondire, con il consenso degli altri ed entro i limiti prefissati, il processo di integrazione – rappresentano forse l’irrinunciabile
ed inevitabile strumento grazie al quale conciliare l’ampliamento dell’Unione con la necessità di non disperderne progressivamente i valori politici che ne restano a fondamento. L’integrazione differenziata è agevolata
in particolare in materia di cooperazione giudiziaria penale e di polizia,
venendo incontro ad una esigenza molto sentita dai cittadini.
Peraltro, al fine di rispondere a tale domanda di benessere e di sicurezza l’Unione deve disporre di una effettiva capacità di governo dell’economia e della sicurezza. I 15 Paesi che, con riferimento al 2008, hanno
adottato l’euro hanno già fatto una scelta: per loro l’integrazione della
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politica economica non è un’opzione ma una necessità che potrebbe proiettarsi anche sulla politica estera e della sicurezza.
Importanti passi in avanti si registrano sull’assetto istituzionale che
più mostrava segni di intollerabile inefficienza e fragilità democratica a
seguito dell’ampliamento a 27 Stati. È prevista la figura del Presidente
del Consiglio europeo, eletto per due anni e mezzo dai Capi di Stato e di
governo, mentre a partire dal 2014 viene ridotto il numero dei componenti della Commissione europea. Nel Consiglio dei ministri è migliorata
la determinazione del voto a maggioranza qualificata prendendo in considerazione la doppia soglia del numero dei Paesi membri (per il 55%) e
della popolazione (65%); dovrebbe essere così riequilibrata, formalmente
a partire dal 2014 ma in pratica con transizione fino al 2017, una situazione che favorisce i Paesi più piccoli.
Merita particolare segnalazione l’aver quasi generalizzato la procedura di codecisione, ora qualificata come procedura legislativa ordinaria, grazie alla quale anche il Parlamento europeo è associato al Consiglio nell’esercizio del potere normativo ivi compresi settori chiave quali la politica di libertà, sicurezza e giustizia. Questa è infatti centrale nella lotta al
terrorismo, alla criminalità organizzata e nella gestione dei flussi migratori.
È inoltre interessante il potenziamento della capacità d’azione dell’UE, attraverso nuove basi giuridiche rafforzate, in settori ormai prioritari quali energia, sanità e protezione civile; sono altresì previste nuove
disposizioni su cambiamenti climatici, servizi di interesse generale,
ricerca e sviluppo tecnologico, coesione territoriale, spazio, aiuti umanitari, sport, turismo e cooperazione amministrativa.
In particolare, la solidarietà diventa un concetto centrale del settore
energetico per cui l’Unione acquisisce competenza ad offrire sostegno in
caso di difficoltà di approvvigionamento dei singoli Membri. Le nuove
disposizioni in materia di protezione civile, aiuti umanitari e sanità sono
intese a potenziare le capacità di risposta dell’Unione alle minacce alla
sicurezza dei cittadini; inoltre, una clausola sociale orizzontale dà rilievo
all’impegno comunitario sull’occupazione e sulla protezione sociale in
quanto, nel definire ed attuare le varie politiche dell’UE, occorre tener
conto degli aspetti sociali (promozione di un elevato livello di occupazione, adeguata protezione sociale, lotta contro l’emarginazione, ecc.).Viene
inoltre confermato il ruolo delle regioni e delle parti sociali quali componenti del tessuto politico, economico e sociale dell’Unione.
2. Il ridimensionamento del valore simbolico di un cammino verso un
futuro reale assetto costituzionale, che era stato espresso pur con tutti i
suoi limiti dal Trattato “costituzionale”, deve comunque indurci a riflettere sulla natura del processo di integrazione dopo le modifiche che
saranno apportate al sistema giuridico-istituzionale comunitario con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona.
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Certo, la necessità di definire e qualificare l’ordinamento giuridico
dell’Unione(soprannazionale, internazionale, quasi federale, interno,…)
può anche apparire di carattere meramente nominalistico. E tuttavia
cimentarsi in questa direzione presenta la sua utilità perlomeno nel chiarire la complessità di un ordinamento del tutto originale che trova la sua
novità proprio nel “virtuoso” intrecciarsi di una pluralità di ordinamenti
giuridici. E ritengo che il Trattato di Lisbona, come vedremo, rappresenti comunque un pur modesto tentativo di dare comunque un nuovo equilibrio al rapporto tra livelli diversi di organizzazione del potere (internazionale, sopranazionale, statale, regionale) soprattutto alla luce dei numerosi de profundis che da più parti erano stati recitati sull’integrazione
europea dopo il fallimento del Trattato “costituzionale”.
Peraltro quest’ultima esperienza conferma come, nonostante gli enormi passi in avanti, la dimensione internazionalistica sia ancora fortemente presente: la fonte giuridica dell’intero processo risiede tuttora nei
Trattati ed il fondamento politico è sempre dato dalla sovranità degli
Stati membri.
Bisogna quindi parlare con estrema cautela di trasferimento di porzioni di sovranità o di condivisione della stessa tra Stati e Unione Europea. Infatti, da un lato non può sottacersi la singolarità di ipotizzare
tale trasferimento ad un ente che in termini di sovranità non è ancora
costituito; dall’altro, si evidenzia con chiarezza la circostanza di trovarsi
di fronte ad un soggetto caratterizzato da un significativo equilibrio dinamico e da una limitazione reciproca tra una pluralità di istanze e poteri.
Si delinea, in altri termini, quella che è stata definita una natura sostanzialmente “poliarchica” dell’Unione, basata sulla progressiva attribuzione di competenze dagli Stati membri all’UE stessa.
Sotto questo profilo anche il NTUE è molto chiaro a partire dall’art. 1
in cui si afferma che “gli Stati membri conferiscono competenze per conseguire obiettivi comuni”, obiettivi che “sono perseguiti con i mezzi appropriati, in ragione delle competenze che le (all’UE, ndr) sono attribuite nei Trattati” (art. 3, par. 6); e successivamente l’art. 5, sulla base del
principio di attribuzione, evidenzia la delimitazione delle competenze
dell’Unione attraverso il suddetto principio (“l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi
competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati
membri”). Quest’ultima appartenenza, del resto, è già sancita, tanto per
non creare equivoci, al precedente art. 4!
Ciò implica chiaramente che l’Unione non è titolare di una competenza generale ma solo delle competenze che sono, via via, conferite dagli
Stati attraverso i Trattati. L’Unione, pertanto, può agire solo sulla base di
norme convenzionali che la abilitino a farlo: si tratta di un rapporto di
“derivazione storico-giuridica” delle competenze dell’UE da quelle degli
Stati membri.
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D’altronde bisogna rammentare che le aree di competenza attribuite
in via esclusiva all’Unione sono, ai sensi dell’art. 3 TFUE, solo cinque e
riguardano l’unione doganale, le regole di concorrenza necessarie al funzionamento del mercato interno, la politica monetaria per i Paesi aderenti all’euro, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro
della politica comune della pesca e la politica commerciale. Inoltre una
competenza esclusiva è prevista in ordine alla conclusione di accordi
internazionali determinata sulla base di un atto legislativo dell’Unione
oppure qualora essa risulti necessaria per l’esercizio di una sua competenza interna o ancora nella misura in cui essa sia suscettibile di incidere su regole comuni o alterarne la portata.
Le competenze concorrenti (con gli Stati membri) sono invece relative
ad a tutti gli altri settori nei quali comunque i Trattati attribuiscano
all’Unione qualche competenza (art. 4 TFUE); per di più, gli Stati membri esercitano la loro competenza nella misura in cui l’Unione non ha
esercitato la propria (art. 2 par. 2 TFUE). Quest’ultimo caso si verifica
quando le istituzioni dell’Unione decidono di abrogare un atto legislativo, in particolare per assicurare meglio il rispetto costante dei principi di
sussidiarietà e proporzionalità (Dichiarazione n. 18)
In ulteriori sette settori è prevista una semplice competenza di sostegno, coordinamento o completamento (art. 6 TFUE). In particolare, la
cooperazione allo sviluppo e gli aiuti umanitari possono qualificarsi come
competenze parallele concorrenti, nel senso che l’Unione conduce una politica autonoma che non impedisce agli Stati membri di esercitare le loro
competenze, senza tuttavia limitarsi ad essere “complementare” a quella portata avanti dai paesi europei. Il complesso di queste attività si inquadra peraltro in un generale coordinamento delle politiche economiche, occupazionali e sociali fra gli Stati membri (art. 5 TFUE).
Ed ancora, una dimensione sicuramente internazionalistica è evidenziata dalla politica estera e di sicurezza comune (di cui agli artt. 21 ss. del
Titolo V NTUE) rispetto alla quale certamente non si evidenziano grandi
passi in avanti in ordine al processo decisionale, fermamente ancorato al
criterio dell’unanimità (art. 22) salvo allorché diversamente previsto dal
Trattato. In altri termini, la delicatissima questione delle scelte legate
alla pace ed alla guerra, e delle relative spese, è sottratta alla competenza dell’unica autorità democraticamente legittimata. In tale contesto, la
nascita della figura dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 18 NTUE), a cavallo tra Consiglio e Commissione, è certamente non priva di interesse nel tentativo di “personificare”, unificandola, l’attività di politica estera dell’Unione.
Riprenderemo successivamente alcune considerazioni sulla politica
estera che pur presenta, nella nuova disciplina, interessanti novità. E tuttavia, di fronte all’attuale processo di globalizzazione, che ha fortemente
attenuato i poteri dei singoli Stati membri riguardo al governo delle relazioni internazionali, non tentare, attraverso soluzioni più organiche, un
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recupero di capacità di controllo in questa direzione è certamente un grave errore che relega i margini di azione internazionale dell’Unione ad un
insignificante e certamente inefficace “minimo comune denominatore”.
3. Un ulteriore elemento che sottolinea la caratterizzazione internazionalistica del processo di integrazione è dato dalla clausola di recesso:
questo è stato espressamente disciplinato (artt. 50 NTUE e 218 par. 3
TFUE), consentendo pertanto di evitare complessi dibattiti sulla riconducibilità o meno di tale ipotesi alle norme generalmente previste in materia dalla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969 (art. 56).
È vero che la procedura del ritiro volontario dall’Unione è particolarmente articolata e che, una volta notificata tale intenzione da parte dello Stato
membro, l’Unione apre con esso una trattativa per negoziare le modalità
di questo ritiro: il Consiglio dei ministri, a maggioranza qualificata e previa approvazione del Parlamento europeo, può così concludere l’accordo
sancendo l’uscita dall’UE. A fronte di una regolamentazione atta ad indicare la specificità della realtà comunitaria rispetto alle tradizionali organizzazioni internazionali, tuttavia il par. 3 dell’art. 50 NTUE prevede che,
in mancanza di tale accordo, il Trattato cessi comunque di applicarsi allo
Stato interessato due anni dopo la notifica in questione, salvo ulteriore
proroga concordata. Allo Stato membro, in altri termini, alla fine è lasciata piena libertà di svincolarsi dai legami dell’Unione (almeno in astratto).
È quindi indubbio che si tratti di un passo indietro rispetto alla disciplina prevista dall’art. 51 del Trattato dell’Unione Europea (d’ora in poi
T.U.E.), che indica per lo stesso una durata illimitata (come del resto
l’art. 3 del Trattato di Lisbona) senza tuttavia alcun riferimento formale
ed esplicito all’ipotesi di recesso. Ed anche se appare difficile escludere
comunque l’esercizio di tale istituto nel contesto giuridico preesistente,
il significato “politico” che ne deriva non è certamente incoraggiante nell’ottica della irreversibilità del processo su base sovranazionale.
Così a proposito delle procedure di revisione o emendamento, la disciplina proposta (art. 48 NTUE) si basa sul tradizionale metodo della Conferenza intergovernativa (e quindi il criterio dell’unanimità) per consentire una qualsiasi modifica.In effetti, l’aver sostanzialmente riprodotto la
disciplina dell’art. 48 T.U.E. rispetto ad una realtà giuridica abbastanza
diversa appare per lo meno singolare. È vero che per la convocazione della Conferenza è sufficiente la maggioranza semplice ai fini dell’esame delle modifiche proposte (par. 2), ma si tratta di un aspetto del tutto secondario. E soprattutto, nella stessa disposizione per la prima volta viene messo
in discussione l’acquis comunitario al momento in cui si consente al governo di qualsiasi Stato membro, al Parlamento europeo o alla Commissione
la facoltà di sottoporre al Consiglio progetti intesi a modificare i trattati
anche nel senso di ridurre le competenze attribuite all’Unione (par. 2); si
sancisce in altri termini un’ipotesi di retromarcia, se generalizzata, o di
cooperazione indebolita, ove limitata ad alcuni Stati membri!
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In realtà, se non si supera l’ottica “tradizionale” meramente intergovernativa, la necessità di raggiungere il consenso fra un numero progressivamente più alto di Stati membri renderà estremamente improbabile
qualsiasi modifica (migliorativa). Fra l’altro, l’aver espressamente prevista la possibilità di recesso dall’Unione in maniera sostanzialmente unilaterale (come si è appena esaminato) avrebbe dovuto comunque “tranquillizzare” i Paesi membri che si fossero visti costretti a “subire”, da
parte della maggioranza (ovviamente più che qualificata), una revisione
per essi inaccettabile.
Per questa ragione, anzi, con l’eliminazione di ogni riferimento formale di natura “para-costituzionale”, la sottoposizione di tale revisione
alla ratifica da parte di ciascuno degli Stati membri potrebbe più facilmente collegarsi alla procedura tipica di pressoché tutti gli accordi multilaterali dei quali si consente l’entrata in vigore, in considerazione dell’alto numero dei Paesi firmatari, una volta ottenuto il deposito di un
determinato numero minimo di ratifiche. Pur non trascurando le particolari difficoltà connesse con il funzionamento di un sistema fortemente
istituzionalizzato come quello in esame, sarebbe stato “coraggioso” adottare procedure come ad es. quella prevista dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966. Per esso, i relativi emendamenti
entrano in vigore dopo l’approvazione da parte dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite e l’accettazione, secondo le rispettive procedure costituzionali, “da una maggioranza di due terzi degli Stati parti” (art. 51
par. 2). Non è in questo caso richiesto, per la modifica di un atto pur
“costituzionale” nella delicata materia dei diritti umani, il criterio della
unanimità.
L’insuperato problema politico, e contestualmente giuridico, è dato in
altri termini dalla circostanza che l’UE non è titolare del potere di revisione, essendo nel Trattato il relativo procedimento ancora “eteronomo”.
Ma una realtà come quella dell’Unione, sottoposta ad evidenti sollecitazioni politiche ed economiche di grande rilievo, rischia di rivelarsi inadeguata a fornire le risposte, efficaci e rapide, ad essa richieste se vuole
essere in grado di giocare un ruolo da protagonista nello scenario globale. Certamente, in proposito, ritorna la considerazione, appena svolta, che
l’Unione non è titolare di una competenza generale ma solo di quelle che
ad essa vengano conferite specificatamente dagli Stati tramite un trattato. E tuttavia immaginare che la semplice rimodulazione tecnica di una
competenza preesistente al fine di un più efficace esercizio della stessa
possa cadere sotto le “forche caudine” di una classica revisione di un
trattato lascia francamente perplessi.
C’è d’altronde ben poco da meravigliarsi della situazione appena descritta se solo si pensa che il Trattato “costituzionale” non è entrato in vigore nonostante l’avvenuta ratifica da parte della maggioranza sia degli
Stati membri sia della popolazione degli stessi. Sarebbe molto più serio
e coerente, in futuro, porre gli Stati ed i loro popoli di fronte alla secca
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alternativa di aderire ad un Trattato che modifichi sensibilmente il quadro normativo esistente oppure abbandonare il processo di integrazione
europea. Chiamiamola, se si vuole, cooperazione “forzata” invece che “rafforzata” (secondo quanto invece previsto di fronte a settori particolari e
di cui in seguito); ma il significato altamente politico e strategico del processo di integrazione europea in atto non può essere subordinato a nuove
forme di esercizio del diritto di veto salvo a dichiararne una deprecabile
sconfitta!
È anche a mio avviso auspicabile che, ovviamente passando attraverso le opportune modifiche costituzionali nei singoli Stati membri, si operi
una proiezione su scala europea dello stesso strumento del referendum di
approvazione. In altri termini, il coinvolgimento democratico dei cittadini europei nelle procedure dirette all’entrata in vigore dei Trattati potrebbe determinarsi sulla base di una maggioranza dell’intera popolazione
dei Paesi membri (al limite con il correttivo dell’esistenza della maggioranza popolare in almeno un predeterminato numero minimo di Stati). Si
tratterebbe, in fondo, di una più significativa applicazione del principio
della democrazia partecipativa grazie al quale è già operato dal NTUE,
come si è accennato, il riconoscimento del diritto di iniziativa popolare
con cui 1 milione di cittadini europei, aventi la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono invitare la Commissione a presentare una proposta legislativa ai fini dell’attuazione dei Trattati (art. 11
par. 4 NTUE e art. 24 co. 1 TFUE). Nulla comunque impedirebbe, nel frattempo, la previsione di un referendum europeo di natura consultiva da
celebrarsi nello stesso giorno in tutta l’Unione.
Gli elementi indicati appaiono sufficienti ad evidenziare che non ci
troviamo di fronte ad uno Stato federale o pre-federale ma nemmeno ad
un super-Stato. Tra l’altro il rapporto gerarchico tra le norme comunitarie e quelle statali era stato espressamente disciplinato dall’art. I-6 del
Trattato “costituzionale” nel senso che “la Costituzione e il diritto adottato dalle istituzioni dell’Unione hanno prevalenza sul diritto degli Stati
membri”. Come si è già detto, tale affermazione è scomparsa anche se
nulla cambia in ordine alla “gerarchia” del relativo rapporto;ma anche
questa prevalenza non produce, in caso di contrasto, la nullità delle
norme interne in conflitto con quelle comunitarie.
4. Ciò premesso, per inquadrare “realisticamente” natura e qualità
dell’attuale stato dell’Unione si devono nel contempo ricordare gli enormi passi in avanti percorsi dal “punto di partenza” di tipo internazionalistico: è infatti indubbio che l’esercizio di competenze anche legislative,
attribuite ad un ordinamento giuridico distinto da quello interno, evidenzia la consistenza di elementi aventi varia natura, comunque caratterizzati da una significativa integrazione fra situazioni e fonti appartenenti a
varie dimensioni (interna, internazionale, comunitaria). Si tratta in altri
termini di un ordinamento giuridico dell’integrazione che si sviluppa
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attorno ad un modello a rete, con contaminazioni reciproche fra istituzioni ed istituti appartenenti a questi ordinamenti. Sotto alcuni profili queste contaminazioni le vediamo anche rispetto alla nostra Costituzione alcune delle quali sono preesistenti alle ultime modifiche. Si pensi ad es.
all’art. 70 per cui la funzione legislativa è esercitata dalle due Camere,
ma esso deve evidentemente coordinarsi con l’analoga funzione svolta in
sede comunitaria e comunque produttiva di effetti diretti nell’ordinamento italiano; così dicasi per l’art. 81 disciplinante il bilancio dello Stato a
sua volta vincolato agli impegni derivanti dal sistema monetario europeo;
o ancora all’art. 104 che sancisce l’indipendenza da ogni altro potere della nostra magistratura eppure subordinata sotto più aspetti al potere giurisdizionale comunitario, e così via. Ci troviamo quindi di fronte ad una
integrazione determinata a diversi livelli che sono anche costituzionali.
È altresì indubbio che questo ordinamento, come oggi si è costruito,
contiene comunque forti indizi di federalismo: al di là della soggettività
internazionale, non possiamo trascurare la rilevanza giuridico-istituzionale ma anche politica della circostanza per cui l’UE oggi è membro di
alcune organizzazioni internazionali a partire dalla Food Agricultural
Organization (FAO) fino alla World Trade Organization (WTO). Rispetto a
quest’ultima, il riconoscimento della qualifica di “membro originario” è
diretta conseguenza dell’attribuzione alla Comunità europea di una competenza “esclusiva” in materia di relazioni commerciali esterne e costituisce una esplicita formalizzazione giuridica di una posizione di “parte
contraente de facto” già acquisita nell’ambito dell’Accordo Generale del
1947.
In questa “direzione ideale” il Trattato di Lisbona contiene sicuramente alcuni elementi interessanti legati alle novità in tema di istituzioni e di adozione degli atti giuridici.
a) Sul piano istituzionale, rappresenta una circostanza significativa
l’attribuzione al Parlamento europeo del potere di eleggere il Presidente
della Commissione per di più a maggioranza dei membri che lo compongono (art. 17 par. 7 NTUE), con ciò cambiando significativamente l’attuale disciplina che prevede tale potere in capo ai governi degli Stati membri. Il Parlamento, ed indirettamente gli elettori, possono quindi esercitare un’influenza concreta sulla linea politica della Commissione, attribuendo finalmente una dimensione autenticamente europea alle elezioni
per il Parlamento di Strasburgo.
La composizione dello stesso viene fissata (per un massimo di 750
membri più il Presidente) attraverso il principio di rappresentanza
“degressivamente proporzionale”, con una soglia minima di 6 seggi e una
soglia massima di 96 seggi per Stato membro (art. 14 NTUE).
Per lo meno contraddittoria appare però la rideterminazione del numero di parlamentari europei ancorata alla popolazione residente anche
extracomunitaria, che ha comportato per l’Italia una ovvia penalizzazione
pur parzialmente ridotta (con apposita Dichiarazione n. 4) dopo un brac-
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cio di ferro con il nostro governo. Parlo di contraddittorietà in quanto se
proprio si vuole utilizzare tale parametro bisogna avere il coraggio di trasformarlo in uno strumento di qualificazione della nuova cittadinanza europea che, slegata dalla consequenzialità con la cittadinanza di uno Stato
membro, trovi una disciplina giuridica autonoma: e possa ad esempio
riconoscere l’elettorato attivo e passivo al Parlamento europeo agli extracomunitari di lunga residenza.
Anche la nuova procedura di bilancio accresce i poteri del Parlamento
europeo, eliminando la distinzione tra “spese obbligatorie” (per le quali
nel “pre-Lisbona” l’ultima parola spetta al Consiglio) e “spese non obbligatorie” (per le quali nel “pre-Lisbona” l’ultima parola spetta al Parlamento): quindi, secondo la nuova procedura il Parlamento decide con il
Consiglio la totalità delle spese. In ordine a tale procedura va inoltre sottolineato che la Commissione non sottopone più al Consiglio un progetto
preliminare bensì presenta a Consiglio e Parlamento europeo una vera e
propria proposta contenente il progetto di bilancio europeo attraverso una
versione semplificata della procedura legislativa ordinaria.
Il Parlamento europeo non riesce invece ad intaccare il potere, ben
saldo nelle mani intergovernative del Consiglio, di deliberare in ordine
alle imposte sulla cifra d’affari alle imposte di consumo ed altre imposte
indirette. Evidentemente la tassazione a livello europeo non è questione
su cui un’assise parlamentare è ritenuta degna di occuparsi!
b) Poche ma interessanti modifiche riguardano il Consiglio europeo,
la cui figura certamente si consolida a partire dal riconoscimento del suo
carattere “istituzionale” e sempre più autonomo rispetto al Consiglio
(art. 15 NTUE); esso viene presieduto da una personalità priva di mandati
nazionali, accrescendo la visibilità dell’Unione e la coerenza complessiva
della sua azione.
Il Consiglio europeo – composto dai capi di Stato o di governo degli
Stati membri, dal suo Presidente e dal Presidente della Commissione –
continua ad avere compiti di impulso e di indirizzo politico, senza esercitare funzioni legislative. Tuttavia ad esso si attribuisce il potere di adottare numerose decisioni alcune delle quali di portata molto significativa.
Si pensi infatti – al di là di quelle assunte nella determinazione relative
alla PESC, alla azione esterna (art. 22 NTUE) ed alla eventuale definizione di una politica di difesa comune (art. 42 NTUE) – alla composizione
del Parlamento europeo (art. 14 par. 2 NTUE), al numero dei membri
della Commissione ed al relativo sistema di rotazione degli stessi (art. 17
par. 5) nonché alla stessa nomina della Commissione (par. 7) ed a quella
dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art.
18 par. 1). Sono importanti inoltre le competenze decisionali concernenti
la procedura di revisione ordinaria dei Trattati, la non convocazione a tal
fine della convenzione o la revisione semplificata (art. 48 NTUE), la proroga del termine relativo alla cessazione dei Trattati a seguito di recesso
(art. 50 NTUE). Così come merita di essere segnalato il potere di decide-
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re l’estensione delle attribuzioni della Procura europea alla lotta contro la
criminalità grave che presenta una dimensione transnazionale (art. 86,
par. 4 TFUE).
Per quanto riguarda la nuova figura del Presidente del Consiglio Europeo, questa viene eletta a maggioranza qualificata per un periodo di due
anni e mezzo con la possibilità di un unico rinnovo e non può esercitare
contemporaneamente alcun mandato nazionale. L’obiettivo è quello di
rafforzare, superando la rotazione semestrale e grazie alla continuità
temporale, la rappresentanza esterna dell’Unione. Al Presidente si affianca l’altra nuova figura del citato Alto rappresentante che partecipa a sua
volta alle riunioni del Consiglio Europeo. Se tuttavia ricordiamo che ulteriori funzioni di rappresentanza esterna sono attribuite al Presidente
della Commissione Europea, l’esigenza di far risaltare con maggior forza
l’identità dell’Unione rischia di creare non poca confusione nei cittadini
in ordine a chi la impersonifichi realmente.
In conclusione, il Consiglio Europeo, in un contesto caratterizzato dall’aumento del numero degli Stati membri e dal contemporaneo rafforzamento della dimensione sovranazionale, appare svolgere una sorta di “tutoraggio” politico ai massimi livelli del processo di integrazione che prelude ad una probabile accentuazione del suo ruolo nel sistema comunitario.
c) Quanto al Consiglio dei ministri, si prevede che la presidenza delle
sue diverse formazioni (ad eccezione del Consiglio «affari esteri», presieduto dall’ Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza) venga esercitata da gruppi predefiniti di 3 Stati membri (il c.d. “team presidencies”) per un periodo di 18 mesi. Tali gruppi si
compongono secondo un sistema di rotazione paritaria degli Stati membri, tenendo conto della loro diversità e degli equilibri geografici dell’Unione. Ogni Stato membro del gruppo esercita, a turno, la presidenza di
tutte le formazioni consiliari per sei mesi, con l’assistenza degli altri due
membri del gruppo, sulla base di un programma comune
d) Profondamente modificata risulta la composizione della Commissione ma solo a partire dal 1o novembre 2014. Fino ad allora rimane ferma
l’attuale proiezione delle rappresentanze nazionali nell’istituzione, che è
per sua natura sovranazionale, determinandone la composizione nel 2008
in 27 membri nella logica, ormai “assembleare”, di un Commissario per
Paese membro. A regime invece la Commissione risulta composta da un
numero di membri, compreso il Presidente e l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, corrispondente ai
due terzi del numero degli Stati membri, a meno che il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, non decida di modificare tale numero.I
membri della Commissione sono scelti tra i cittadini degli Stati membri
in base ad un sistema di rotazione assolutamente paritaria tra gli Stati
membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli stessi. Tale sistema, ai sensi dell’art. 17 NTUE, è stabilito all’u-
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nanimità dal Consiglio europeo conformemente all’articolo 244 del TFUE.
Ed in proposito, la Dichiarazione n. 10 relativa a tale disposizione
mira a “compensare” gli Stati non aventi un proprio cittadino nella Commissione prospettando la necessità di assicurare piena trasparenza nelle
relazioni con tutti gli Stati membri, attraverso consultazioni e scambi di
informazioni, e di prendere in considerazione le realtà politiche, sociali
ed economiche di tutti gli Stati membri.
È interessante sottolineare altresì come con il Trattato di Lisbona si
introduca un collegamento diretto tra i risultati delle elezioni europee e
l’elezione del Presidente della Commissione in quanto il Consiglio europeo nel proporre al Parlamento il candidato a tale carica deve tener conto
del relativo esito (art. 17, par. 7 NTUE).
e) Evidentemente al di fuori dell’ambito istituzionale dell’Unione, ma
inserito nell’ambito del processo decisionale giuridico e politico di questa, è il nuovo ruolo dei Parlamenti nazionali che “contribuiscono attivamente al buon funzionamento dell’Unione” (art. 12 NTUE). Essi debbono
essere informati in via generale dalle istituzioni dell’Unione e ricevere i
progetti di atti legislativi secondo le procedure previste dall’apposito Protocollo n. 1 soprattutto in funzione, ma non solo, del rispetto del principio di sussidiarietà e proporzionalità (art. 69 TFUE) secondo quanto indicato dal Protocollo n. 2.
Essi sono poi coinvolti rispetto a specifiche materie o situazioni quali,
nell’ambito dello spazio di libertà sicurezza e giustizia, ai meccanismi di
valutazione relativi all’attuazione delle politiche dell’Unione in tale settore (art. 70 TFUE), essendo fra l’altro associati al controllo politico di
Europol ed alla valutazione delle attività di Eurojust (artt. 88 e 85 TFUE).
Devono inoltre essere tenuti al corrente dei lavori del Comitato permanente istituito in seno al Consiglio al fine di assicurare all’interno dell’Unione la promozione e il rafforzamento della cooperazione operativa in
materia di sicurezza interna nonché il coordinamento dell’azione delle
autorità competenti degli Stati membri (art. 71 TFUE); questo sostituisce
il c.d. “Comitato 36” (dal numero della disposizione del T.U.E.) ridefinendone sostanzialmente la missione.
I Parlamenti nazionali partecipano altresì alle procedure di revisione
dei Trattati ai sensi dell’art. 48 TFUE e vengono informati delle domande di adesione all’Unione (art. 49 TFUE). In termini più squisitamente
politici, infine, partecipano alla cooperazione interparlamentare con il
Parlamento europeo in conformità del citato Protocollo n. 1 (artt. 9 e 10).
Nell’economia dei lavori del sistema dell’Unione non va peraltro sottovalutato il pericolo che l’opposizione di uno o pochi Parlamenti nazionali possa rendere ancora più complessa l’adozione di atti legislativi già
legata spesso al difficile criterio dell’unanimità in Consiglio degli Stati
membri; né va trascurata la circostanza che il rafforzamento della sussidiarietà dei poteri dei Parlamenti nazionali rischia di attenuare il potere
di iniziativa della Commissione. E tuttavia nel delicato e complesso equi-
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librio dei rapporti fra istanze nazionali e sovranazionali il ruolo dell’organo nazionale espressione della democrazia appare interessante soprattutto in prospettiva. In altri termini, le sovranità statali trovano ora
riscontro, nel sistema dell’Unione, non solo nei governi ma anche nei parlamenti, i quali si rapportano direttamente alle istituzioni comunitarie
senza l’intermediazione dei rispettivi governi ed inoltre relazionano fra di
loro e con il Parlamento europeo. L’importanza acquisita dai rapporti fra
istituzioni comunitarie e Parlamenti nazionali evidenzia comunque un ulteriore tentativo di ridurre il c.d. deficit democratico del sistema decisionale comunitario ma anche di rafforzarne i livelli di legittimità.
f) Per quel che concerne le novità in tema di atti giuridici, si è già sottolineato come la rinuncia a ridefinire gli atti normativi con il nome che
ad essi competerebbe(legge comunitaria e legge quadro comunitaria, come
erano opportunamente qualificati regolamento e direttiva nel Trattato
“costituzionale”)costituisca una evidente contraddizione rispetto alla necessità di trasparenza del sistema.Tuttavia viene assunta come procedura
legislativa ordinaria quella basata sull’adozione congiunta da parte del
Parlamento e del Consiglio su proposta della Commissione (art. 289
TFUE); per cui “gli atti giuridici adottati mediante procedura legislativa
sono atti legislativi” (par. 3)! Si è quindi fatto inevitabile omaggio a monsieur de la Palisse pur di non consentire “cattivi pensieri” sull’esistenza
di un sistema para-costituzionale!
Comunque l’estensione della codecisione riguarda i settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti e dei fondi strutturali, oltre allo spazio
di libertà, sicurezza e giustizia nel suo insieme. Inoltre, per alcuni settori, come le tasse ecologiche, vengono introdotte passerelle specifiche alla
procedura legislativa ordinaria.
Altrettanto interessante è la ampia estensione del voto a maggioranza
qualificata, la quale presuppone, evidentemente, l’accettazione di essere
messi in minoranza e quindi, trattandosi di Stati all’interno di un’organizzazione, di non poter più esercitare con pienezza la propria sovranità.
Tale estensione riguarda oltre 40 nuove materie tra le quali lo spazio di
libertà sicurezza e giustizia (che comprende i controlli alle frontiere, l’asilo e l’immigrazione, la cooperazione giudiziaria civile e penale e la cooperazione di polizia) La soluzione trovata, non senza difficoltà, prevede
alfine che, come si è anticipato, per maggioranza qualificata si intenda
almeno il 55% dei membri del Consiglio, con un minimo di quindici rappresentanti Stati membri che totalizzino almeno il 65% della popolazione
dell’Unione.
Un’eventuale “minoranza di blocco” (cioè la coalizione di Stati necessaria per impedire che una decisione sia presa a maggioranza) deve comprendere almeno 4 Stati membri. Tuttavia questa regola entrerà in vigore il 1o novembre 2014 e sino a tale data continuerà ad applicarsi l’attuale sistema di voto definito dal Trattato di Nizza che peraltro potrà estendersi fino al 31 marzo 2017, su richiesta di un membro del Consiglio. È
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prevista, inoltre, l’applicazione dei principi del c.d. “compromesso di
Ioannina” secondo cui i Paesi che rappresentano il 75% di una minoranza di blocco, tanto in termini di Stati che di popolazione, potranno deferire la questione al Consiglio affinché raggiunga un accordo entro un termine ragionevole. Tali soglie saranno ridotte al 55% della minoranza di
blocco a partire dal 31 marzo 2017.
Rimangono per di più sottoposti al criterio della unanimità settori
peraltro importanti come il sistema tributario, la sicurezza sociale, i diritti dei cittadini, lingue, le sedi delle istituzioni e le linee principali delle
politiche comuni di difesa, sicurezza e di politica estera.
5. Le modifiche appena descritte non possono quindi che esprimere
una volontà politica di continuità nell’approfondimento dell’Unione, pur
nei limiti indicati, come d’altronde indicato nel Preambolo del Trattato di
Lisbona sia al primo capoverso (“Decisi a segnare una nuova tappa nel
processo di integrazione europea intrapreso con l’istituzione delle Comunità europee”) che al quattordicesimo (“In previsione degli ulteriori
passi da compiere ai fini dello sviluppo dell’integrazione europea”) e come ribadito all’art. 1 NTUE (“Il presente trattato segna una nuova tappa
nel processo di creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli
dell’Europa”). L’approfondimento del processo di integrazione, peraltro,
non può che avvenire nella ricerca di una comune identità rintracciabile
nei valori propri dell’Unione che l’art. 2 NTUE individua nella dignità
umana, nella libertà, nella democrazia, nello Stato di diritto e nel rispetto dei diritti umani. Si tratta cioè del “collante” che lega indissolubilmente in un progetto strategico comune Paesi che, pur dotati di storia e
cultura diversi, hanno deciso di interpretare tali differenze come “valori”
unificanti ben sintetizzati nel motto “Unita nella diversità” nonostante la
retrocessione dalla sua ufficialità.
Tali “valori” diventano altresì il riferimento imprescindibile per i
Paesi che intendano entrare a far parte dell’Unione. È in proposito significativo che nell’art. 49 NTUE sia stato sostituito il riferimento al rispetto dei “principi”, quali sanciti nell’art. 6 par. 1 T.U.E., con quello appunto dei “valori” di cui all’art. 2 NTUE. Per di più, si aggiunge l’obbligo di
tener conto, a tal fine, dei “criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo”(par. 1). Questi, fissati a Copenaghen nel 1993 e modificati a Madrid nel 1995, sono divisi in 4 punti: situazione politica, situazione economica, capacità di assumere gli obblighi che comporta l’adesione, capacità amministrativa e di applicazione dell’acquis. Ognuno di
tali parametri viene poi ulteriormente specificato: i criteri politici, ad
esempio, comprendono da un lato democrazia e primato del diritto e, dall’altro, diritti dell’uomo e tutela delle minoranze. La democrazia ed il primato del diritto, a loro volta, vengono scrutinati utilizzando una griglia
composta da organizzazione e funzionamento del Parlamento, del potere
esecutivo e del potere giudiziario.
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Inoltre, mentre l’art. 2 T.U.E. fissa quale iniziale obiettivo il “promuovere un progresso economico e sociale e un elevato livello di occupazione”, l’art. 3 par. 1 del NTUE in termini ancor più pregnanti sotto un profilo politico dichiara che “L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i
suoi valori e il benessere dei suoi popoli”.
Così come molto significativa, almeno simbolicamente, è la circostanza di aver indicato che il Parlamento europeo è composto non più, come
recita il T.C.E., dai “rappresentanti dei popoli degli Stati” bensì dai “rappresentanti dei cittadini dell’Unione” (art. 14 NTUE par. 2, che riprende
il precedente art. 10 par. 2) a sottolineare il rapporto diretto tra Unione
e suoi cittadini senza la necessità di una intermediazione degli Stati. Lo
stesso spazio di libertà, su cui poi si esercitano i principi fondamentali
dell’UE, sempre più viene inteso quale sfera unificata di sviluppo delle
attività di governo al di sopra delle sovranità territoriali.
Di sicuro rilievo è inoltre il “metodo” della Convenzione, con immediata contaminazione dall’approccio scelto per la prima volta con la Carta
di Nizza, che viene istituzionalizzato per le future revisioni, effettuate
secondo la procedura ordinaria, del Trattato (art. 48, par. 3 NTUE). Il
superamento del mero negoziato diplomatico verticistico, attraverso un
coinvolgimento sempre più ampio della “società” (latamente intesa) e
delle istituzioni nazionali, rappresenta un importante passo verso una
costruzione “dal basso” della realtà europea e quindi anch’esso un valido strumento per il progressivo superamento di “steccati” nazionali. Il
metodo della Convenzione, così come perfezionato, si è rilevato di grande efficacia in occasione della redazione del Trattato “costituzionale” ed
ha suscitato una partecipazione ampia al dibattito sull’integrazione tanto
da dimostrarne la insostituibilità rispetto a qualsiasi futura modifica significativa del Trattato.
E ancora, non meno importante, la questione dei diritti fondamentali:
la Carta di Nizza, la prima del terzo millennio, ha segnato un momento di
grandissimo significato politico e simbolico nell’ottica di una costruzione
di una integrazione europea non fondata sui meri tipici rapporti internazionalistici. Ad essa è stato affidato l’altissimo compito di codificare il
“modello sociale europeo”, frutto di un lento cammino pluridecennale che
finalmente approda alla conclusione di una tappa dai caratteri decisivi.
Anche per questa ragione, l’acceso dibattito sull’efficacia giuridica
della Carta (“dichiarata” solennemente ed adattata, come si è detto, il 12
dicembre 2007) e sui suoi limiti, quali legati al suo mancato inserimento
in un atto giuridico di natura vincolante, dovrebbe ormai considerarsi superato. A dire il vero, essa già costituisce parametro di riferimento per
valutare la legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie nonché degli
atti statali di esecuzione delle norme comunitarie ed inoltre dà contenuto all’art. 7 NTUE (art. 7 del T.U.E.) con la relativa procedura di accertamento delle gravi violazioni dei diritti fondamentali da parte degli Stati
membri. L’inserimento della Carta a pieno titolo nel sistema dell’Unione,
30
pur se con il discutibile e singolare artificio suaccennato, presenta in tal
senso grande rilievo in ordine alla sua efficacia giuridica concreta; e nel
contempo, in una sorta di “simbiosi mutualistica”, la sua stessa presenza contribuisce ad incrementare significativamente il valore dei Trattati
nel senso della presenza di un vero e proprio Atto fondamentale che trova
nella Corte di giustizia il proprio “garante giudiziario” quale una sorta di
Corte costituzionale dell’Unione.
È altresì evidente che la Carta costituisce rispetto all’Unione un vero
e proprio habeas corpus per cui le istituzioni europee sono chiaramente
vincolate al suo rispetto e si potrà chiedere l’annullamento di un atto dell’UE che sia con essa incompatibile.
D’altronde, l’aver sostituito la sanzione formale del “primato” del diritto comunitario con un mero rinvio, attraverso la Dichiarazione n. 17,
alla costante giurisprudenza della Corte non dovrebbe far dimenticare
che quest’ultima nella sentenza 23 aprile 1986 (causa 294/83, Les Verts
c. Parlamento) ha definito i Trattati “la Carta costituzionale fondamentale della Comunità”. Non solo. Tale Dichiarazione esprime comunque, a
maggior ragione in quanto non necessaria, una “condivisione” politica da
parte degli Stati membri del principio fondamentale della supremazia
del diritto dell’Unione; per di più essa è giuridicamente suffragata da un
allegato parere del Servizio giuridico del Consiglio per il quale la mancata
inclusione della preminenza nel Trattato “non altera in alcun modo l’esistenza del principio stesso e la giurisprudenza esistente della Corte di
giustizia”.
Inoltre, l’abolizione del sistema dei tre pilastri non solo semplifica l’applicazione del diritto comunitario (evitando problemi a volte non semplici
nella mera individuazione della relativa base giuridica) ma dovrebbe consentire l’uniforme applicazione della Carta in ogni zona dell’ordinamento
giuridico comunitario, anche laddove è preclusa la giurisdizione della Corte di giustizia. Sotto questo profilo la Carta costituisce una importantissima amplificazione della nozione stessa di cittadinanza europea.
Un ulteriore rafforzamento della presenza dei “diritti fondamentali”
nel sistema comunitario è ancora dato dalla previsione di adesione alla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (art. 6 par. 2 nonché Protocollo n. 8). Grazie a questa
“clausola di abilitazione” viene superato il problema dell’assenza di fondamento giuridico ritenuto, a ragione, dalla Corte di giustizia (Parere
2/94) ostacolo insormontabile al fine di tale adesione. Quando questa si
perfezionerà, gli Stati saranno evidentemente vincolati, nel dare attuazione al diritto comunitario, anche alla Convenzione, dando ulteriore forza alla considerazione per cui i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali hanno profonde radici nel passato dell’Europa e ne definiscono in maniera determinante il futuro.
In questo contesto sarà nei fatti probabilmente ridimensionata la portata dell’opting out formulato dal Regno Unito attraverso il Protocollo n.
31
30 rispetto ad alcuni profili di applicazione della Carta (che alla Convenzione del 1950 in ampia parte di ispira); da un lato è immaginabile che le
corti britanniche, dovendosi pronunciare su casi concernenti la protezione di uno dei diritti fondamentali dalla stessa garantiti, si attengano
comunque all’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia in sentenze
riguardanti altri Stati membri. Ed inoltre comunque la Carta orienterà il
contenuto degli atti normativi adottati dalle istituzioni comunitarie con la
conseguente proiezioni in tutti gli ordinamenti interni degli Stati membri.
Si viene peraltro a determinare una parziale ma indubbia sovrapposizione tra la Carta e la Convenzione europea, con la ulteriore necessità di
una coerenza dei due ordini normativi e dei rispettivi sistemi di tutela
giurisdizionale, essendo gli Stati vincolati ad entrambe nel dare attuazione al diritto dell’Unione. D’altronde il progressivo affiancarsi dell’azione dell’UE, in un campo che era stato una prerogativa sul piano continentale al Consiglio d’Europa, è ulteriormente evidenziato dalla recente
istituzione della Agenzia dell’Unione per i diritti fondamentali (Regolamento 168/2007 del 15 febbraio 2007). Si tratta di un ente comunitario
indipendente avente lo scopo di fornire alle istituzioni competenti della
Comunità ed agli Stati membri, nell’attuazione del diritto comunitario,
assistenza e consulenza in materia di diritti fondamentali, in modo da
aiutarli a rispettare pienamente tali diritti quando essi adottano misure
o definiscono iniziative nei loro rispettivi settori di competenza. Essa
quindi lavora a stretto contatto con altre istituzioni ed organi che operano a livello nazionale ed europeo ed è chiamata in particolare ad ampliare la collaborazione con il Consiglio d’Europa e con la società civile mediante la creazione di una piattaforma per i diritti fondamenti.
Merita infine di essere segnalata la soluzione trovata riguardo alla
controversa questione delle “radici cristiane” dell’Europa. Nel Preambolo
NTUE ci si riferisce, quale fonte di ispirazione, “alle eredità culturali,
religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà,
della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto”. Più concretamente, l’art. 17 TFUE si afferma che “L’Unione rispetta e non pregiudica
lo status di cui le chiese e le associazioni o comunità religiose godono
negli Stati membri in virtù del diritto nazionale”, mantenendo con esse
un “dialogo aperto, trasparente e regolare”. Viene così trasferito all’interno del TFUE, acquisendone la forza giuridica, la Dichiarazione n. 11,
di analogo contenuto, allegata al Trattato Amsterdam del 1997.
6. Anche se hanno costituito l’aspetto più delicato ed anche controverso delle modifiche introdotte nel sistema dell’Unione, le questioni
istituzionali non esauriscono gli unici profili di novità presenti nel Trattato di Lisbona. Infatti, anche le politiche materiali, delle quali si occupa
il TFUE, sono state sottoposte ad alcune revisioni a partire dall’ambito
dell’integrazione economica.
32
a) Su di un piano generale, è stato inserita una nuova norma (art. 9)
con cui si stabilisce che, nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione, la garanzia di un’adeguata
protezione sociale, la lotta contro l’esclusione sociale e un elevato livello
di istruzione, formazione e tutela della salute umana.
In materia di politica sociale, viene rafforzato il riconoscimento e la
promozione del ruolo delle parti sociali facilitandone il dialogo, anche attraverso il vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione, nel rispetto della loro autonomia e della diversità dei sistemi nazionali (art.
152).
Istruzione e formazione vengono opportunamente arricchite dall’inserimento dello sport del quale l’Unione contribuisce alla promozione dei
profili europei, tenendo conto delle sue specificità, delle sue strutture
fondate sul volontariato e della sua funzione sociale ed educativa (art.
165, par. 1); e favorisce altresì la cooperazione con i Paesi terzi e le organizzazioni internazionale competenti del settore a partire dal Consiglio
d’Europa (art. 165, par. 3).
Riguardo alla sanità pubblica, viene estesa l’azione diretta a fronteggiare gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero ed a proteggerla in relazione al tabacco ed all’abuso di alcol nonché a fissare elevati
livelli di qualità e sicurezza dei medicinali (art. 168, par. 5).
Di sicuro interesse è l’art. 189 grazie al quale – al fine di favorire il
progresso tecnico e scientifico, la competitività industriale e l’attuazione
delle sue politiche – l’Unione elabora una politica spaziale europea promuovendo iniziative comuni, sostenendo la ricerca e lo sviluppo tecnologico e coordinando gli sforzi necessari per l’esplorazione e l’utilizzo dello
spazio.
Un apposito Titolo XXI ed una specifica norma (art. 194) costituiscono la base giuridica per la politica dell’Unione nel settore della energia
fondata, come si è detto, sull’esigenza di preservare e migliore l’ambiente e caratterizzata da uno spirito di solidarietà tra gli Stati membri. Essa
ha il compito di garantire il funzionamento del mercato dell’energia, la
sicurezza dell’approvvigionamento energetico nell’Unione, promuovere il
risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili, promuovere l’interconnessione delle reti energetiche.
Tra i settori di azione complementare dell’Unione è stato inoltre inserito il Turismo per incoraggiare la creazione di un ambiente propizio allo
sviluppo delle imprese, nell’ambito della competitività fra di esse, e favorire la cooperazione tra Stati membri, in particolare attraverso lo scambio delle buone pratiche (art. 195).
Una nuova base giuridica è introdotta anche in tema di protezione civile, al fine di rafforzare l’efficacia dei sistemi di prevenzione e di protezione dalle calamità naturali o provocate dall’uomo. Ciò comporta sostenere e completare l’azione degli Stati membri a livello nazionale, regio-
33
nale e locale concernente la prevenzione dei rischi, la preparazione degli
attori della protezione civile negli Stati membri e l’intervento in caso di
calamità naturali o provocate dall’uomo all’interno dell’Unione; promuovere una cooperazione operativa rapida ed efficace all’interno dell’Unione
tra i servizi di protezione civile nazionali; favorire la coerenza delle azioni intraprese a livello internazionale in materia di protezione civile (art.
196).
Al fine di rendere più efficienti gli interventi in tutti i settori e migliorare il necessario coordinamento con gli Stati membri, viene inoltre prevista una cooperazione amministrativa con questi per aiutarli ad attuare
il diritto dell’Unione facilitando lo scambio di informazioni e di funzionari pubblici e sostenendo programmi di formazione (art. 197).
La gran parte delle ulteriori modifiche riguarda comunque i profili
procedurali dell’adozione degli atti normativi con una estensione sia della procedura legislativa ordinaria che della decisione a maggioranza nel
Consiglio.
b) Con la indicata acquisizione della personalità giuridica l’intera
Unione si procura un evidente vantaggio rispetto alla sua capacità di azione sulla scena internazionale, valorizzata in tutti i settori ed in grado di
esprimersi in modo più efficace, coerente e visibile nelle sue relazioni con
il resto del mondo. Tuttavia, e differentemente dall’approccio “unitario”
del Trattato “costituzionale”, la sopravvivenza “virtuale” del secondo pilastro è evidenziata dalla circostanza che la PESC e la PESD vengono disciplinate nel NTUE mentre le altre azioni esterne (quella commerciale
comune, la cooperazione con i Paesi terzi e l’aiuto umanitario, le misure
restrittive, gli accordi internazionali, la clausola di solidarietà) sono regolate, ad eccezione dei profili di carattere generale, dal TFUE.
Ciò premesso, la politica estera e di sicurezza comune prevede, come
si è detto, la novità della istituzione della figura dell’Alto rappresentante
dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (art. 18 NTUE) che
è chiamato ad attuare la politica estera e di sicurezza comune ricorrendo
ai mezzi nazionali e a quelli dell’Unione. Egli presiede il Consiglio “Affari
esteri” e contribuisce con proposte all’elaborazione della politica estera e
di sicurezza comune assicurando altresì l’attuazione delle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio. L’Alto rappresentante diviene
anche uno dei vicepresidenti della Commissione europea quale responsabile per le relazioni esterne ed il coordinamento degli altri aspetti
esterni dell’azione dell’Unione, con ciò ponendo fine al dualismo tra le
sue funzioni, considerato che è anche Segretario generale del Consiglio,
e quelle del Commissario responsabile per le relazioni esterne. Questa
novità dovrebbe garantire maggiore coerenza ed efficienza nell’azione
esterna dell’Unione accrescendo il ruolo e la visibilità dell’UE sulla scena
mondiale. Attraverso questa figura viene altresì valorizzato il ruolo del
Parlamento europeo, consultato regolarmente ed informato sui principali
aspetti e sulle scelte fondamentali della sua attività, dovendosene le rela-
34
tive opinioni essere tenute in debita considerazione (art. 36 NTUE).
E tuttavia l’intero settore resta ancorato al criterio decisionale dell’unanimità (art. 23 NTUE), salvo alcuni casi marginali, con ciò ribadendo
evidenti limiti di efficacia nella sua capacità di azione. Fa eccezione la
c.d. astensione costruttiva (art. 31 NTUE) grazie alla quale uno Stato
membro, pur non obbligato ad applicare una decisione, consente che la
stessa impegni l’Unione sulla base di una “spirito di mutua solidarietà”.
D’altronde, pur essendo stata abolita la struttura in tre pilastri, la PESC
mantiene una sua evidente autonomia palesata, fra l’altro, dalla circostanza che pressoché tutte le relative disposizioni sono contenute nel
NTUE indipendentemente dalla importanza delle stesse. Secondo una
identica logica, la Corte di giustizia non è competente riguardo a tali disposizioni (art. 275 TFUE), se non per monitorare il rispetto dell’articolo
40 del NTUE e per pronunciarsi sui ricorsi, proposti secondo le condizioni di cui all’articolo 263 del TFUE, riguardanti il controllo della legittimità delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio in base al titolo V, capo 2
del NTUE.
Fra l’altro, nella Dichiarazione n. 13 relativa alla politica estera e di
sicurezza comune si sottolinea che le relative disposizioni del NTUE lasciano impregiudicate sia le competenze degli Stati membri per la formulazione e la conduzione della loro politica estera sia la loro rappresentanza nazionale nei Paesi terzi e nelle organizzazioni internazionali.
Ed altrettanto dicasi per le disposizioni riguardanti la politica comune in
materia di sicurezza e di difesa che non pregiudicano il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa degli Stati membri.
Viene comunque ribadito l’impegno per cui gli Stati dell’UE anche
membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite “si concertano e
tengono pienamente informati gli altri Stati membri e l’Alto rappresentante”. Ed è anche simbolicamente significativo che quest’ultimo venga
invitato dagli Stati membri a presentare la posizione dell’Unione,eventualmente definita, su di un tema all’ordine del giorno del Consiglio di
sicurezza (art. 34 NTUE). A fronte di irrealistiche ipotesi di attribuzione
di un unico seggio all’Unione Europea (con il criterio dell’unanimità in
politica estera si dovrebbe quasi sempre ricorrere all’astensione se non
all’assenza!), questa ci sembra questa comunque una soluzione concreta
per quanto minimale.
Così come bisogna segnalare la nascita di un’Agenzia nel settore dello
sviluppo delle capacità di difesa, della ricerca, dell’acquisizione e degli
armamenti (Agenzia europea per la difesa), aperta a tutti gli Stati membri che desiderino farne parte. Essa è incaricata di individuare le esigenze operative, promuovere misure per rispondere alle stesse, contribuire a
individuare e, se del caso, mettere in atto qualsiasi misura utile a rafforzare la base industriale e tecnologica del settore della difesa, partecipare alla definizione di una politica europea delle capacità e degli arma-
35
menti, e assistere il Consiglio nella valutazione del miglioramento delle
capacità militari (artt. 42 par. 3 e 45 NTUE).
La politica in materia di sicurezza è anzitutto basata su di una clausola di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico oppure sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo (art. 222 TFUE). Inoltre, viene istituito un corpo volontario europeo di
aiuto umanitario per inquadrare contributi comuni dei giovani europei
alle azioni di aiuto umanitario dell’Unione. Il relativo statuto e le modalità di funzionamento sono regolate da una legge europea (art. 214, par. 5
TFUE).
Ma gli Stati membri in possesso di più significative capacità militari,
disposti a sottoscrivere impegni più vincolanti in materia ai fini delle missioni più impegnative, possono instaurare una cooperazione strutturata
permanente nell’ambito dell’Unione (art. 42, par. 6 NTUE). Detta cooperazione, caratterizzata eccezionalmente dall’adozione di decisioni a maggioranza qualificata, è disciplinata altresì dall’art.46 nonché dal Protocollo n. 10. Quest’ultimo prevede che gli Stati aderenti siano in grado di
fornire al più tardi nel 2010, a titolo nazionale o come componenti di
gruppi di forze multinazionali, unità di combattimento in particolare per
rispondere a richieste dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e sostenibili per un periodo iniziale di 30 giorni prorogabili fino ad almeno 120
giorni.
Rispetto invece alla politica commerciale comune, inserita nell’ambito
dell’azione esterna dell’Unione, l’ampliamento delle relative competenze
è affiancato da un deciso rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo
chiamato ad una approvazione preventiva in particolare per gli accordi di
associazione e di cooperazione (artt. 206 e 207 TFUE).
c) Maggiori modifiche, rispetto al regime “pre-Lisbona”, sono riscontrabili, nell’ambito dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (Titolo V,
art. 67 ss. TFUE).Sul presupposto dell’abolizione del “terzo pilastro”, viene del tutto eliminata la dicotomia con le disposizioni rientrati nel Trattato che istituisce la Comunità europea (d’ora in poi T.C.E.) e fissate quali
regole generali la procedura legislativa ordinaria fondata sulla codecisione ed il voto a maggioranza qualificata. L’unitarietà della disciplina che
ne deriva, sottoposta al controllo della Corte di giustizia, è saldamente
ancorata al rispetto dei diritti fondamentali per cui la politica comune in
materia di asilo, immigrazione e controllo sulle frontiere esterne è basata sulla “solidarietà tra Stati membri ed equa nei confronti dei cittadini
di paesi terzi” (par. 2).
Gli interventi più significativi sono peraltro previsti, a partire dalla
adozione degli atti a maggioranza qualificata, per la cooperazione giudiziaria in materia penale (art. 82 ss. TFUE) fondata sul principio del riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie includendo il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri. Mediante direttive possono essere stabilite, come ac-
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cennato, norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale derivante dal carattere o dalle implicazioni di
tali reati o da una particolare necessità di combatterli su basi comuni.
Sparisce invece la discutibile categoria delle “decisioni quadro” (art. 34
par. 2 b T.U.E.) assimilabili alle direttive ma singolarmente prive di efficacia diretta.
Inoltre, per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari
dell’Unione, il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo una
procedura legislativa speciale, può istituire una Procura europea a partire da Eurojust. La Procura europea è competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio, eventualmente in collegamento con Europol,
gli autori di reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, quali
definiti dal regolamento previsto nel paragrafo 1, e i loro complici. Essa
esercita l’azione penale per tali reati dinanzi agli organi giurisdizionali
competenti degli Stati membri (art. 86 TFUE).
7. Il processo di integrazione europea deve comunque misurarsi con
il problema della cittadinanza e di un popolo europeo. Abbiamo già sottolineato l’importanza,non solo simbolica, del riferimento ai cittadini dell’Unione quali legittimanti il Parlamento europeo, pilastro della democrazia rappresentativa europea, e quindi come prima espressione di un
popolo europeo. Peraltro non può essere sottovalutata la circostanza che
la cittadinanza europea, la prima ad essere espressa da una organizzazione internazionale per quanto atipica, rappresenta ad oggi l’unico esempio di un istituto giuridico che,caratteristico del diritto interno, si è invece sviluppato in ambito interstatale.
L’opportunità di dotare tale figura giuridica di primi livelli di autonomia, pur nella dovuta ed inevitabile riaffermazione della sua dipendenza
dalle cittadinanze nazionali, è alla base della circostanza per cui il Trattato di Lisbona ha modificato il testo della norma istitutiva della cittadinanza europea. Infatti, nell’espressione contenuta nel T.U.E. essa “costituisce un complemento della cittadinanza nazionale” (anche se la versione francese recita “La citoyenneté de l’Union complète la citoyenneté
nationale”),venendo considerata in maniera del tutto “sussidiaria” rispetto alla cittadinanza dello Stato membro che comunque ne costituisce
l’indispensabile presupposto. Ben altra portata assume quanto afferma
l’art. 9 del NTUE per il quale “La cittadinanza dell’Unione si aggiunge
alla cittadinanza nazionale”: ci troviamo di fronte alla prospettiva di una
vera e propria “seconda cittadinanza” e quindi dell’autonomia di status
per quest’ultima. Per il momento assistiamo comunque ad una reciproca
ed interessante “contaminazione” tra vecchie e nuove forme di cittadinanza, legate al complesso rapporto tra dimensioni nazionale e transnazionale delle relazioni soggettive.
La necessità di una più decisa evoluzione è data dalle ulteriori novi-
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tà, non eccezionali ma almeno simbolicamente significative, introdotte
prima dal Trattato “costituzionale” e poi dal Trattato di Lisbona del 2007.
Nel considerare le variazioni introdotte da quest’ultimo va segnalato che
nel “clima” anticostituzionale ed antieuropeista che si respirava a Bruxelles durante la Conferenza intergovernativa preparatoria della riforma
il titolo relativo alla “cittadinanza” era stato estrapolato dal testo del
Trattato per essere derubricato in un Allegato dello stesso. È infatti evidente che, nel suindicato rigetto iconoclastico di ogni simbolo di portata
“paracostituzionale”, la “cittadinanza dell’Unione” costituiva un evidente ed ingombrante intralcio. L’operazione, la cui riuscita sarebbe stata di
gran lunga più devastante rispetto alla virtuale privazione di ufficialità
dei simboli (bandiera, inno, motto) non ha avuto esito positivo.
Tale “inusuale” proiezione ultranazionale dell’istituto della cittadinanza, per fortuna pienamente confermato,evidenzia quindi una opzione
politica ben precisa ed in linea con gli sforzi di meglio qualificarla operata, nei limiti del consentito, dalla Corte di giustizia. E già il Preambolo
della Carta dei diritti fondamentali aveva affermato che l’Unione “pone
la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione…” operando un ribaltamento di prospettiva rispetto alla formula dell’art. 6 T.U.E., che si riferisce agli Stati. In particolare,dopo il riconoscimento della cittadinanza all’art. 9 NTUE la Parte II del TFUE viene ad
essa dedicata (soprattutto articoli 18-25), enucleando otto diritti, in
quanto aggiunge ai sei previsti dal T.C.E. (relativi alle elezioni amministrative e parlamentari europee, alla libera circolazione, alla tutela diplomatica e consolare, al alla petizione al Parlamento europeo, al Mediatore
ed ai rapporti epistolari con istituzioni ed organi dell’Unione) quelli “alla
trasparenza” e di “accesso ai documenti” (art. 15 TFUE).
Con il Trattato di Lisbona la figura del “cittadino europeo” acquista
comunque, come si è accennato, maggiore risalto almeno simbolico. Nel
Preambolo si afferma che gli Stati membri “decisi ad istituire una cittadinanza comune ai cittadini dei loro paesi” e “decisi a portare avanti il
processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli
dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà”. All’art. 3 par. 2
NTUE si precisa che “L’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne…”. Ma è anche opportuno sottolineare il valore della dignità umana che, ripreso dall’art. 1 della
Carta e sancito immediatamente nell’art. 2, si trasforma in vero e proprio
paradigma interpretativo dell’intero Trattato e quindi di amplificazione
della figura stessa del cittadino europeo. In altri termini, rivestire di
“dignità” la cittadinanza europea non può che tradursi progressivamente
nell’assunzione di autonomia della relativa figura giuridica.
È infatti con il riconoscimento di diritti di protezione sociale autonomamente connessi alla condizione di cittadino europeo, e non allo status
funzionale del soggetto nel mercato comune, che appare più evidente una
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notevole spinta alla valorizzazione della cittadinanza dell’Unione impressa anche grazie alla giurisprudenza della Corte. In realtà emerge progressivamente l’idea per cui,istituendo la cittadinanza dell’Unione e
riconnettendo ad essa il diritto di circolare al suo interno, i Paesi membri hanno accettato la solidarietà finanziaria dei cittadini di uno Stato con
quelli degli altri Stati membri.
La stessa Direttiva n. 38 del 2004 ribadisce del resto un ben maggiore grado di responsabilità sociale nei confronti dei rispettivi cittadini in
particolare laddove prevede un diritto incondizionato di residenza, con
accesso ai diritti sociali garantiti dallo Stato membro ospitante, in favore
dei cittadini di altri Stati membri che risiedano stabilmente in esso per
oltre cinque anni; si tratta di un essenziale elemento di promozione della
coesione sociale la quale costituisce uno degli obiettivi fondamentali
dell’Unione.
Si sta in altri termini sviluppando una vera e propria dimensione sociale della cittadinanza fondata sulla solidarietà intracomunitaria. Tale
dimensione fra l’altro non può che essere rafforzata grazie al valore giuridicamente vincolante della Carta dei diritti fondamentali in considerazione del suo Titolo IV interamente dedicato (artt. 27-38) alla solidarietà.
Sotto altro profilo, è interessante sottolineare il più stretto collegamento che, con l’abolizione della suddivisione dell’Unione nei tre pilastri, si è determinato fra cittadinanza, non più ingabbiata nel primo pilastro, ed “area di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne”(già
terzo pilastro) che, ai sensi dell’art. 3 par. 2 del NTUE, costituisce uno
degli obiettivi del sistema come ulteriormente ed in termini più analitici
precisato nell’art. 67 TFUE. Viene così realizzata una significativa interazione fra la cittadinanza ed i vari profili di sicurezza garantiti nel rispetto dei diritti fondamentali, ivi compresa la protezione dei dati personali
(art. 16 TFUE)
Un’ulteriore differenza, in termini generali, si può cogliere nella circostanza che la cittadinanza dell’Unione, quale strumento per rafforzare
la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini degli Stati membri, è
inserita tra gli “obiettivi” del T.U.E. (art. 2) ma scompare nella corrispondente disposizione del NTUE. Non si tratta tuttavia di un “ridimensionamento” in quanto, in maniera più incisiva, diviene frequente nei
nuovi Trattati il riferimento ai “cittadini dell’Unione” (v. nel NTUE lo
stesso art. 3 para. 2 e 5, gli artt. 9, 10, 11, 13, 14 e 35 e nel TFUE gli artt.
20-25. 170. 227 e 228.
Il salto di qualità è ben visibile, indicando la prospettiva della istituzione di una vera e propria “seconda cittadinanza” e quindi l’autonomia
di status per quest’ultima. Per il momento assistiamo comunque ad una
reciproca ed interessante “contaminazione” tra vecchie e nuove forme di
cittadinanza, legate al complesso rapporto tra dimensioni nazionali e
transnazionale delle relazioni soggettive. E comunque sin d’ora è appena
il caso di segnalare che mentre la cittadinanza nazionale fonda la propria
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originarietà nel rapporto “cittadino-Stato”, quella europea la individua
comunque nel diverso rapporto “cittadino - Stato membro - Unione”.
Il limite di fondo e l’inadeguatezza dell’attuale “disegno giuridico”
caratterizzante la cittadinanza europea è in realtà dato dalla circostanza
che esso è avvenuto ricalcando il vecchio modello dello Stato ottocentesco attraverso il mero (anche se comunque significativo) aggiornamento
della trasposizione su base ultranazionale dei diritti di un soggetto che
circola nel territorio europeo, viene protetto dagli uffici consolari e diplomatici, indirizza petizioni agli organi comunitari.
La nuova espressione utilizzata nel NTUE peraltro suggerisce probabilmente l’intenzione di giungere, in un futuro si spera non lontano, a conferire all’Unione europea il potere di attribuire la propria cittadinanza
secondo una autonoma regolamentazione giuridica. D’altronde la Corte
sembra orientarsi in questa prospettiva quando afferma più volte che “lo
status di cittadino dell’Unione è destinato ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”; risulta quindi evidente il carattere
politicamente “strumentale” che la cittadinanza europea assume nella
costruzione di una “coscienza europea”.
Nella identica logica si prevede l’iniziativa legislativa popolare,in precedenza descritta.In proposito, appare tuttavia singolare la circostanza
che tale anche simbolicamente significativa espressione del “diritto di
partecipare alla vita democratica dell’Unione” (par. 3 dell’art. 11 NTUE)
non sia inserita nell’elenco dei diritti qualificanti la cittadinanza europea
come elencati nell’art. 20 del TFUE considerato, per di più che la relativa lett. d si riferisce alla “petizione al Parlamento europeo” ed al “diritto di rivolgersi al mediatore ed alle istituzioni ed agli organi consultivi
dell’Unione” attivabili secondo quanto previsto dallo stesso suindicato
art. 24 nei successivi paragrafi 2, 3 e 4! Spero che la ragione non debba
essere ricercata nel “sottilissimo” distinguo per cui tale iniziativa popolare sarebbe intesa come “mera facoltà” mentre a me sembra, come detto, che essa costituisca una esemplificazione importante del suddetto diritto di partecipazione democratica alla vita dell’Unione accanto alle elezioni amministrative e parlamentari europee.
Del resto, ai sensi del successivo art. 25 il Consiglio, sulla base della
triennale relazione della Commissione sulla Parte seconda del TFUE, può
all’unanimità adottare disposizioni intese a “completare i diritti previsti”
non limitandosi, come nel “pre-Lisbona”, a “raccomandarne l’adozione
da parte degli Stati membri”. Invece, e in maniera ben diversamente incisiva, si prevede che “Tali disposizioni entrano in vigore previa approvazione degli Stati membri, conformemente alle rispettive norme costituzionali”.
Merita inoltre qualche riflessione l’inserimento della più articolata
disciplina della cittadinanza all’interno del TFUE nella nuova Parte seconda intitolata Non discriminazione e cittadinanza. In altri termini, è
stata determinata, negli artt. 20 e seguenti, “continuità giuridica” tra il
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principio fondamentale del mercato “interno” (aggettivo che sostituisce
“comune”) e la cittadinanza. Tale scelta corrisponde senz’altro ad una
constatazione “storica” in quanto significative premesse della cittadinanza europea si trovano già nella nascita stessa delle CE proprio con l’affermazione del principio di non discriminazione a motivo della nazionalità. L’attribuzione del trattamento nazionale, e cioè l’equiparazione di
trattamento fra i nazionali e gli stranieri individuati quali beneficiari, è
un privilegio ben conosciuto dal diritto convenzionale internazionale, ma
solo nelle Comunità europee esso è stato elevato a principio fondamentale del sistema così costruito (ridimensionando progressivamente il concetto di straniero rispetto ai cittadini comunitari).
Ebbene proprio per questa ragione, a mio sommesso avviso, la suddetta “continuità giuridica” rafforza la nozione di “cittadinanza dell’Unione” affrancandola ulteriormente, pur entro certi limiti, da quella
nazionale dalla quale pur continua a derivare. Utile, a tal fine, è il necessario e diretto collegamento che viene infatti a porsi con l’art. 2 del NTUE
che indica i “valori” dell’Unione e, di conseguenza, con la Carta dei diritti fondamentali.
E peraltro la cittadinanza europea contribuisce nel contempo a rafforzare le singole cittadinanze nazionali degli Stati membri e con queste si
pone in rapporto di feconda interazione; sarebbe d’altronde impensabile
un rapporto di competizione con queste ultime considerato che tutte
esprimono le molteplici “identità” che ciascuno di noi porta con sé nel
proprio vivere quotidiano.
Emerge pertanto con maggior forza come giuridicamente rilevante
quanto già da tempo costituiva il comune sentire delle istituzioni comunitarie e degli Stati membri e cioè che soggetti dell’ordinamento sono
anche e soprattutto i cittadini i quali fanno parte di una nuova “comunità”, a pari titolo con i primi due, come soggetti di diritto in “posizione
egualitaria”: ci troviamo cioè di fronte ad un sistema di integrazione che
ha come perno la persona in quanto “cittadino/a” con il suo corredo di
pretese. Lo straniero comunitario in possesso di uno status giuridico nel
quale alcuni diritti tipici della cittadinanza, quali la libertà di circolazione all’interno del territorio dello Stato, sono stati già ampiamente proiettati sulla scala europea individuata come la realtà di uno spazio comune
nel quale muoversi liberamente.
8. È d’altronde abbastanza evidente che in epoca di globalizzazione ci
troveremo sempre più di fronte alla difficoltà, nello stesso ambito territoriale, di individuare realtà culturali omogenee. Diviene allora fondamentale la condivisione dei valori fondamentali posti alla base del vivere
quotidiano: tutti noi possiamo rifarci ad una visione cosiddetta occidentale del mondo, che non possiamo certo ritenere ormai tipica soltanto del
continente europeo. Ma se a questa affianchiamo qualcos’altro che è in
costruzione e cioè la maturata consapevolezza di un destino e di un futu-
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ro politico e sociale condiviso, nella cui prospettiva il reciproco riconoscimento delle differenze può diventare il contrassegno di un identità comune, allora siamo già molto avanti verso la costruzione di un identità popolare europea: si tratta di valorizzare le identità nazionali (e sub-nazionali) estendendole a una dimensione sopranazionale europea nella quale
esprimere una permanente e comune solidarietà.
In tal senso va sottolineato l’inserimento, fra i “valori” (art. 2 NTUE)
nonché fra gli “obiettivi” dell’Unione proprio il “nuovo” principio della solidarietà che, sancita come valore comune della società europea, si manifesta su basi e con finalità diverse. Nel NTUE essa è infatti considerata
quale obiettivo da perseguire nei rapporti intergenerazionali nonché in
quelli tra Stati membri rispetto alla coesione economica, sociale e territoriale (art. 3 par. 3 NTUE)oltre che nella costruzione della pace e del
rispetto reciproco tra i popoli (par. 5) tanto da dover caratterizzare l’azione esterna dell’Unione verso i Paesi terzi (art. 21 par. 1) ma anche fra
gli Stati membri (art. 24, par. 2).Questi devono poi astenersi da azioni
che possano pregiudicare una decisione dell’Unione ove intendano astenersi dal seguirla (art. 31) rimanendo comunque solidali tra loro (art. 32).
La solidarietà interna all’Unione, confermata nel relativo Preambolo,
è presente in termini significativi anche nel TFUE in materia di politica
comune in materia di asilo, immigrazione e controllo delle frontiere
esterne (artt. 67 par. 2 e 80), nel caso di difficoltà di approvvigionamento di determinati prodotti quali quello energetico (artt. 122 par. 1 e 194).
L’Unione e gli Stati membri agiscono infine congiuntamente in uno spirito di solidarietà qualora uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico o sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo
(clausola di solidarietà di cui all’art. 222).
È ovvio che un processo fondato sulla solidarietà coniugata a più livelli non può che costruirsi dal basso, cioè partendo dalle realtà istituzionali più vicine ai cittadini: non va dimenticato che il primo organo di governo europeo è il sindaco, in quanto fonda la sua legittimazione elettorale
sul “popolo europeo”; ed è proprio la circostanza di legare l’elettorato
attivo e passivo ai residenti comunitari consente di contribuire progressivamente a costruire la identità europea. In tal senso, tuttavia, il suddetto
principio di sussidiarietà,anch’esso molto discusso, non trova grandi evoluzioni nel Trattato di Lisbona, soprattutto rispetto al ruolo delle autonomie locali il rilievo delle quali non pare molto amplificato nel testo della
riforma. Ed è comprensibile come il giudizio degli enti locali, sotto questo profilo, sia poco positivo evidenziando un altro aspetto di rottura
rispetto alla internazionalità dell’integrazione; infatti, non è assolutamente detto che gli interessi di questi enti siano coincidenti con quelli
dei governi dei loro Paesi. Anzi, potrebbe pure leggersi un interesse degli
organi di governo nazionali di spostare poteri e competenze in sede europea per sottrarsi più facilmente ai controlli degli organi parlamentari e,
soprattutto, degli enti substatali. Questi ultimi del resto – ed il riferi-
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mento è particolarmente rivolto alle Regioni – stanno progressivamente
intessendo una significativa rete di rapporti extra-nazionali, anche grazie
ai nuovi poteri costituzionalmente riconosciuti dai rispettivi ordinamenti
giuridici, tali da contribuire concretamente alla nascita di una cittadinanza europea.
Il principio di sussidiarietà (art. 5 NTUE), per la sua delicata funzione
di contemperare le esigenze dell’integrazione con quelle di non allontanare in maniera ingiustificata il luogo delle decisioni dalle sedi istituzionali più vicine ai cittadini, ha trovato più specifica disciplina attraverso
un apposito Protocollo il n.2 relativo altresì anche al principio di proporzionalità. Uno degli aspetti più interessanti di tale nuova disciplina è dato
dalla procedura di allarme preventivo, che consente un intervento iure
proprio dei Parlamenti nazionali (per i quali v. anche il Protocollo n. 1),
con parere motivato, per chiedere alla Commissione di modificare la proposta (ad essi preventivamente notificata) la quale possa risultare in contrasto con l’applicazione corretta del principio in questione (art. 6).
Qualora i suddetti pareri motivati rappresentino almeno un terzo (un
quarto per lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia) dell’insieme dei voti
attribuiti ai Parlamenti nazionali (2 voti per il sistema unicamerale, 1
voto per ciascuna Camera per quello bicamerale), la Commissione è tenuta a riesaminare la proposta (art. 7). Si tratta di un meccanismo di controllo rafforzato della sussidiarietà che mira, anzitutto, a rendere più articolate ed esaurienti le motivazioni degli atti normativi comunitari, sulla
base solo delle quali la Corte di giustizia potrebbe stabilire, in casi di ricorso da parte di uno Stato membro, se il livello comunitario sia preferibile o meno a quello nazionale.
In tal senso, sarebbe utile che i Parlamenti, nell’attivare la procedura di allarme preventivo, consultassero all’occorrenza non solo, come previsto, “i Parlamenti regionali con poteri legislativi” (art. 6) ma anche gli
Enti locali (o le associazioni di questi rappresentative) laddove le specifiche materie lo richiedessero. E tuttavia, la Commissione resta libera di
mantenere inalterata la sua proposta (art. 7) né i Parlamenti nazionali
hanno il potere di adire eventualmente la Corte di giustizia se non attraverso i rispettivi governi (ai sensi dell’art. 230 TFUE). Così come nessuna azione è promuovibile dalle Regioni in quanto ad esse è data la possibilità di adire la Corte solo tramite il Comitato delle Regioni,il che rappresenta una rilevante novità ma con il grave limite di una competenza
circoscritta alla salvaguardia delle prerogative di quest’ultimo (art. 263
TFUE ed art. 8 del Protocollo). In effetti, il rispetto per il sistema delle
autonomie locali e regionali, fissato fra gli obiettivi fissati con il Trattato
di Lisbona (art. 4, par. 2 NTUE), avrebbe bisogno di ben altri elementi per
considerarsi sufficientemente concretizzato per di più alla luce della
novità, introdotta dall’art. 3 par. 3 NTUE, della finalità di raggiungere una
coesione non solo economica e sociale ma anche territoriale (v. anche il
relativo Protocollo n. 28). Solo in questi termini potrebbe determinarsi
43
una reale promozione in chiave europea del regionalismo che peraltro in
questi ultimi anni ha trovato espressione importante attraverso l’autogoverno amministrativo dei fondi strutturali.
9. Per ultimo, e non certo in importanza, mi sembra opportuno fare
riferimento, nell’ottica della ricerca di una dimensione ed anche di una
democrazia sovranazionale, all’efficace contributo offerto in questi anni
dalla Corte di giustizia. Non è questa la sede per dilungarsi sull’enorme
apporto dalla stessa fornito nel superamento, a volte con funzioni “neopretorili”, delle eccessive “prudenze” o resistenze statali rispetto all’avanzamento del processo di integrazione. È indubbio come la copiosa giurisprudenza della Corte abbia consentito, anzitutto, di dare maggiore
coerenza ed efficacia all’ordinamento comunitario, che rischiava di vedere tradotta la sua presunta “terza via” in un non meglio determinato
“limbo giuridico”. Ne è scaturita una forza dinamica del suddetto ordinamento finalmente in grado,volendone sintetizzare il significato “politico”, di rappresentare un importante salto di qualità nella costruzione di
un rapporto diretto tra l’Unione ed i suoi cittadini, nel senso della creazione immediata di diritti anche per i singoli soggetti privati superando
le tradizionali misure di attuazione statali.
Alla luce di questa chiave di lettura dobbiamo del resto valutare il
crescente ruolo assunto, nel sistema comunitario, dal Tribunale di primo
grado che, istituito nel 1988, ha assunto un progressivo rilievo fino alla
importante riforma avutasi con il Trattato di Nizza, entrato in vigore il 1o
febbraio 2003, tanto da consacrarlo come parte integrante dell’apparato
giurisdizionale comunitario. Ai sensi dell’art. 19 del NTUE, d’altronde, è
prevista una Corte-istituzione, chiamata Corte di giustizia dell’Unione europea, articolata al suo interno nella Corte di giustizia e nel Tribunale che
perde la precisazione “di primo grado” per la presenza dei Tribunali specializzati (v. poi gli artt. 251 ss. TFUE). Infatti con l’istituzione, attraverso un’attività legislativa di tipo “ordinario”, di questi ultimi in alcuni settori specifici ai sensi del nuovo art. 257 del TFUE (è stato già istituito il
Tribunale per la funzione pubblica specializzato sul contenzioso del pubblico impiego dell’Unione europea), si potrebbe arrivare, dopo l’impugnazione “di merito” di fronte al Tribunale, al terzo grado “per mero
diritto” davanti alla Corte di giustizia.
L’aver comunque generalizzato il doppio (o triplo) grado di giudizio in
ordine a tutti i ricorsi concernenti gli individui (oltre che per gli Stati e
le istituzioni) è palese espressione della crescente incidenza dell’azione
comunitaria nella sfera soggettiva delle persone fisiche e giuridiche. Con
la riforma, arricchita dal Protocollo n. 3 sullo Statuto della Corte di giustizia,e la conseguente abolizione dei pilastri,si determina altresì,come
accennato, l’estensione della giurisdizione della Corte anche a materie
(cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale) per le quali esistevano numerosi limiti e deroghe indicati dall’art. 35 T.U.E. nonché in
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materia di immigrazione, asilo, visti e libera circolazione delle persone
dall’art. 68 T.C.E. consentendo alla Corte di sanzionare i correlati inadempimenti degli Stati membri.
È invece ribadita l’incompetenza della Corte nell’esaminare la validità o la proporzionalità di operazioni effettuate dalla polizia o da altri servizi incaricati dell’applicazione della legge di uno Stato membro o l’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna (art.
276 TFUE). Permane ancora l’assenza di competenza per quel che concerne le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune e
per quanto riguarda gli atti adottati in base a dette disposizioni (art. 275
TFUE).
La Corte è invece competente a controllare il rispetto dell’articolo 40
del NTUE ed a pronunciarsi sui ricorsi, proposti secondo le condizioni di
cui all’articolo 263 co. 4 TFUE, riguardanti il controllo della legittimità
delle decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone
fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio ai sensi del Capo 2 del Titolo
V del TFUE (art. 215 TFUE).
In ordine al procedimento di infrazione è interessante segnalare la novità per cui la Commissione può chiedere già in sede di primo ricorso, ex
art. 260 TFUE, la condanna dello Stato al pagamento di una sanzione
pecuniaria qualora reputi che lo Stato membro interessato non abbia
adempiuto all’obbligo di comunicare le misure di recepimento di una direttiva adottata secondo una procedura legislativa (par. 3).
Va inoltre rilevato che, in tema di azione di annullamento, con il Trattato di Lisbona migliora, seppure parzialmente, la legittimazione processuale degli individui ad impugnare gli atti comunitari davanti alla Corte
di giustizia. Infatti essi nella disciplina pre-Lisbona possono agire, quando si tratta di regolamenti e direttive, solo se gli atti li riguardano “direttamente ed individualmente” (il che, come dimostra la prassi, costituisce
un ostacolo pressoché insormontabile). Grazie alla riforma diviene invece
sufficiente che un atto regolamentare li riguardi soltanto direttamente
sempre che lo stesso non richieda misure di esecuzione nazionali o europee, perché in tal caso è su queste ultime e non sull’atto che dovrà incentrarsi il ricorso (art. 263 co. 4 TFUE). Resta peraltro il problema di comprendere il significato di “atto regolamentare” ricostruibile solo in negativo escludendo cioè gli atti adottati attraverso la “procedura legislativa”.
Riguardo al rinvio pregiudiziale, anzitutto è affermata con chiarezza la
generalizzata estensione della competenza della Corte sull’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità degli atti adottati dalle istituzioni; viene introdotto un nuovo comma per cui, quando il quesito è sollevato in un giudizio nazionale riguardante una persona in stato di detenzione, la Corte di giustizia statuisce il più rapidamente possibile (art.
267, co. 4 TFUE).
Non va comunque dimenticato, in generale, che “secondo il principio
45
di leale cooperazione, l’Unione e gli Stati membri si rispettano e si assistono reciprocamente nell’adempimento dei compiti derivanti dalla
Costituzione” e “gli Stati membri adottano ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi derivanti
dalla Costituzione o conseguenti agli atti delle istituzioni dell’Unione”
(art. 4, par. 3 NTUE). Per cui, in sintonia con un sistema basato sulla
“integrazione tra ordinamenti”, il rispetto del diritto comunitario compete anzitutto ai tribunali nazionali. Si tratta di un obbligo che, già ben
presente nel sistema, viene ora formalmente sancito dall’art. 19 par. 1
NTUE per cui “gli Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali
necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori
disciplinati dal diritto dell’Unione”.
Infine, nella Dichiarazione n. 38 si prevede che, ove la Corte di giustizia lo chiedesse ai sensi dell’art. 252 co. 1 TFUE, il Consiglio, deliberando all’unanimità, approverebbe l’aumento di tre del numero degli
avvocati generali (ossia undici anziché otto). In tal caso, la Polonia dovrebbe disporre, come già avviene per Germania, Francia, Italia, Spagna
e Regno Unito, di un avvocato generale permanente non partecipando più
al sistema di rotazione che riguarderebbe allora cinque avvocati generali
anziché tre.
10. La complessa realtà europea contemporanea non può che basarsi
su di una collaborazione integrata fra ordinamenti giuridici, sulla interazione tra un nuovo ordinamento espressione di una realtà tendenzialmente sopranazionale e quelli nazionali ad essa subordinati ma fortemente collegati. E tuttavia il progressivo ampliamento dell’Unione rende
sempre più probabile la circostanza che tale integrazione si sviluppi su
piani differenziati, secondo quanto già si è verificato ad esempio con la
nascita della c.d. Zona Euro. Nell’assecondare inevitabilmente tale tendenza, il Trattato di Lisbona con il Protocollo n. 14 formalizza, ad esempio, la prassi esistente dell’Eurogruppo con cui i Ministri Ecofin dei Paesi
aderenti all’euro si riuniscono, con il rappresentante della Commissione,
il giorno precedente la vera e propria riunione ufficiale. Così come una
particolare forma di integrazione differenziata è costituita dalla citata
cooperazione strutturata permanente in ambito PESD di cui all’art. 42,
par. 6 NTUE.
In tale dimensione, la figura delle cooperazioni rafforzate (Titolo IV
art. 20 NTUE e Titolo III art. 326 ss. TFUE) tende ad acquisire crescente importanza testimoniata sia dalla previsione di una disciplina semplificata sia dalla cautela con cui si precisa che esse non possono costituire
un ostacolo né una discriminazione per gli scambi tra gli Stati membri né
distorcerne la concorrenza (art. 326). È opportuno, in proposito, sottolineare il ricorso al plurale nel delineare tale figura, in quanto con l’uso del
singolare si correrebbe il rischio di un “trattato nel trattato” che in fondo
amplificherebbe sempre la dimensione intergovernativa. L’aspetto inte-
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ressante è invece dato dalla esistenza di una pluralità di opzioni riguardo le cooperazioni rafforzate le quali dovrebbero almeno attenuare il
rischio che l’integrazione orizzontale,e cioè l’ampliamento, possa rallentare se non bloccare l’integrazione verticale, e cioè quella funzionalistica.
Ulteriori novità introdotte riguardano il numero minimo degli Stati
necessari per attivare una cooperazione rafforzata portato a nove (dall’attuale otto) e, soprattutto, l’adozione di un’unica procedura per primo e
terzo pilastro (in linea con la loro abolizione) con l’attribuzione di un
potere di autorizzazione anche per il Parlamento europeo(nel pre-Lisbona
solo consultato); quest’ultimo viene invece soltanto informato laddove la
cooperazione rafforzata si sviluppi nell’ambito della PESC (art. 329
TFUE).
Una sorta di incentivazione è introdotta, inoltre, per la cooperazione
giudiziaria penale, il diritto penale, la Procura europea e la cooperazione
di polizia (ad esclusione dell’Europol). Qualora un progetto di direttiva
sottoposto a procedura legislativa ordinaria (codecisione) sia sospesa dietro richiesta di uno Stato membro e rinviata al Consiglio,in assenza di
accordo dopo quattro mesi nove Stati almeno possono attivare una cooperazione rafforzata sulla base del progetto in questione attraverso la mera
informazione a Parlamento europeo, Consiglio e Commissione (art. 82,
par. 3 TFUE). Analoga procedura semplificata può essere attivata in materia di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in
sfere di criminalità particolarmente grave che presentano una dimensione transnazionale (art. 83, par. 3) nonché in ordine ai reati che ledono gli
interessi finanziari dell’Unione (art. 86, par. 1).
Infine, gli Stati partecipanti ad una cooperazione rafforzata possono
modificare la procedura di voto passando dall’unanimità alla maggioranza qualificata (art. 333 TFUE), salvo che in materia militare o di difesa.
Inutile sottolineare che un indubbio vantaggio nel ricorso alle cooperazioni rafforzate è dato dalla circostanza che esse beneficiano, di norma,
del coordinamento e del sostegno della Commissione europea e delle sue
risorse amministrative. Ed inoltre, esse difficilmente vengono modificate
al momento della loro estensione ad altri Stati partecipanti, mentre la
prassi in questi anni di assumere iniziative al di fuori dei Trattati limitate ad alcuni Stati membri suscita in genere maggiori difficoltà al momento in cui se ne decida l’integrazione nel sistema dei Trattati. In altri termini, la pur complessa procedura delle cooperazioni rafforzate costituisce
un’utile premessa perché l’iniziativa scelta sia in grado di allargarsi a
nuovi Stati e possa quindi funzionare come vero e proprio laboratorio dell’integrazione. Tale figura può quindi diventare, quale zona legittima di
diritto speciale e di “avanguardia giuridica”, l’elemento trainante rispetto alla prosecuzione del processo di integrazione.
In tal senso diventa sempre meno accettabile che anche un solo Paese
possa tenere in ostaggio il processo europeo rispetto alla revisione dei
Trattati, quando se ne ponga l’esigenza. È vero che tale procedura risulta
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ora più aperta e democratica, dato che il Parlamento europeo acquisisce
altresì la facoltà di presentare proposte a tal fine,che l’esame di qualsiasi proposta di revisione dovrà di norma essere effettuato dalla
“Convenzione” (sperimentata in occasione del Trattato “costituzionale”) e
che sono introdotte nuove procedure semplificate di revisione per modificare, all’unanimità, alcune disposizioni del Trattato con l’approvazione
dei Parlamenti nazionali. E tuttavia sarebbe auspicabile che potesse
applicarsi il ricorso al voto a maggioranza qualificata anche rispetto alla
procedura di ratifica attraverso una sorta di “autorevisione” del sistema;
il che appare oggi meno improbabile considerata la possibilità di recesso
comunque garantita allo Stato che non ritenga di dover sopportare i
“sacrifici” di una più intensa integrazione.
Appare, in proposito, abbastanza interessante che la stessa politica
estera di sicurezza comune, finora il tempio dell’unanimità, invece per
quanto concerne le cooperazioni rafforzate consenta singolarmente le decisioni a maggioranza, considerato che per il NTUE la politica estera di
sicurezza comune deve salvaguardare i valori e servire gli interessi dell’Unione nel suo insieme, affermando la sua identità, come forza coerente sulla scena internazionale.
Del resto, l’Unione Europea, pur con tutte le dinamiche politiche che
ha innescato, resta comunque una comunità di diritto, e nel diritto ha trovato in questi decenni una imprevista forza auto-propulsiva. Non a caso
l’art. 2 del NTUE inserisce, fra i valori fondamentali, il “rispetto dello
Stato di diritto”. Si è pertanto riproposta quella lotta per il diritto ai fini
di una costruzione di una società giusta e democratica, di cui parlava
Rudolph von Jhering più di un secolo fa, che un’alta applicazione sta ora
avendo attraverso il processo di integrazione europea. E resta da riflettere su quella capacità profetica di Immanuel Kant, che individuava nel
diritto la via maestra per garantire la conquista della pace. La pace tra i
Paesi membri, se ben si riflette, è stata la prima importante dimensione
sopranazionale raggiunta dall’integrazione europea.
L’Europa ha ormai la necessità di passare,dopo una pur utile discussione su se stessa, ad operare concretamente per rispondere alle grandi
sfide che l’intera Comunità internazionale deve affrontare in un contesto,
fra l’altro, che vede il progressivo indebolimento delle grandi organizzazioni universali (ONU, FMI, WTO,ecc….). Le potenzialità politiche, economiche e sociali del processo di integrazione sono enormi e solo una
miope resistenza di governi aggrappati a non attualizzate concezioni della
sovranità può evitare di accorgersene, con ciò tradendo i propri cittadini.
In quest’ottica la riforma di Lisbona, pur con tutti i segnalati aspetti
innovativi, ha registrato la volontà di alcuni Stati di fermare la crescita di
un’identità europea e quindi lo sviluppo di un correlato senso di appartenenza. Tale atteggiamento appare miope in quanto non si comprende che
valorizzare l’Europa significa nel contempo valorizzare la ricca diversità
di cultura e di storia dei nostri Paesi. Infatti la disaggregazione prodot-
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tasi per secoli nel nostro continente dei fattori di unificazione prima esistenti (dal latino alle lingue nazionali popolari, dal cattolicesimo alle divisioni intercristiane, dal diritto romano-giustinianeo ai codici nazionali,
ecc…) trova attualmente in Europa un importante superamento attraverso un processo di “nuova unificazione”. Assistiamo infatti, in controtendenza,alla costruzione, a mio avviso irreversibile, di una realtà originale
fondata certo su profili sia economici che giuridico-istituzionali ma anche
sull’unico disegno strategico incentrato sulla cultura del rispetto delle
diverse identità storiche, linguistiche, culturali. In sintesi, il processo appare progressivamente sopranazionale in quanto concretizza il primo tentativo di governo istituzionale e democratico della globalizzazione e fonda
la propria ragion d’essere sul paradigma delle libertà e dei diritti prima
che su quello dei poteri.
È in questi termini che il livello sopranazionale pare configurarsi
come un momento di passaggio più o meno lungo verso la costruzione di
una “nuova” realtà statale di tipo federale. Una realtà imperniata sulla
progressiva “desovranalizzazione” ma non sulla “denazionalizzazione”,
in quanto nessuno deve mettere in discussione la prerogativa della salvaguardia delle diverse specificità culturali nazionali (e sub-nazionali) pur
nelle loro profonde trasformazioni. D’altronde, il principio della “supremazia giuridica”,tipico di ogni ordinamento federale, non si discosta gran
che dal c.d. “primato del diritto europeo” che in maniera ormai incontestabile caratterizza l’ordinamento comunitario. Ed è in questo complessivo contesto che va probabilmente ridisegnato il concetto di “sovranità”
liberandolo da una accezione di tipo “assoluto”, ormai del tutto astratta
e scarsamente realistica, per ricondurla in ambiti più “storici” e comunque funzionalisti.
È invece in atto per l’intera comunità internazionale un cambiamento
epocale di problemi, di relazioni tra popoli e culture, di strategie e di
politiche rispetto ai quali l’Europa, che meglio di altri soggetti ha espresso la capacità di sintonizzarsi con questi cambiamenti,ha il dovere a sua
volta di attrezzarsi in maniera adeguata. Essa ha dimostrato di trarre la
forza necessaria dai valori sui quali si fonda ed ha costruito la propria
realtà: Stato di diritto, libertà, dignità della persona, solidarietà, giustizia sociale, intercultura. Essi sono il collante grazie al quale Stati nazionali storicamente tra di loro in perenne conflitto hanno abbandonato le
armi costruendo pace e sviluppo.
L’Unione, tuttavia, può diventare protagonista solo attraverso la propria capacità di essere “europea”, di “esportare” il valore del dialogo interculturale anche al di là dei suoi confini, di svolgere in altri termini un
ruolo di equilibrio strategico nell’ambito di una Comunità internazionale
nella quale l’attuale, unica, superpotenza (e cioè gli Stati Uniti) vede progressivamente ridimensionato il proprio ruolo a seguito delle note vicende militari e della propria situazione economico-monetaria. La relativa
redistribuzione del potere sullo scacchiere internazionale potrebbe vede-
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re l’Europa protagonista in un ruolo di mediatore e di affidabile interlocutore nonché di interprete più autorevole del multipolarismo regionale.
Purtroppo non si registrano significativi progressi in materia di politica estera e di sicurezza comune, le cui decisioni restano ancorate, come
si è visto, al criterio della unanimità per cui l’istituzione di un Alto rappresentante per gli affari esteri, pur donando maggiore visibilità, non
appare possa produrre concrete novità.
L’Europa resta quindi un cantiere attivo, ma è indispensabile togliere
il cartello con cui non è stato fino ad oggi consentito l’ingresso ai non
addetti ai lavori: l’Unione può perseguire compiutamente la sua missione
solo affidando tali lavori a tutti i suoi cittadini.
ENNIO TRIGGIANI
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