Persinsala Teatro
Daniele Rizzo
novembre 5, 2012
Torna al Metastasio di Prato, con grande successo di pubblico,
l’opera prima del drammaturgo Eugène Ionesco, padre
putativo del cosiddetto teatro dell’assurdo.
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La Cantatrice calva è un testo fondamentale per la drammaturgia del
secolo scorso. La leggenda narra che Ionesco, desideroso di imparare
l’inglese, avesse preso spunto da un volume di conversazione della lingua
e che proprio dall’assurdità di dialoghi didattici, avesse concepito l’idea di
una pièce completamente costruita su slogan, atti e gesti ripetuti
meccanicamente e istericamente, in cui il linguaggio e i significati perdono
diritto di cittadinanza e la comunicazione regredisce a non-sense.
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Nata in queste condizioni (di per sé paradossali), La cantatrice calva – il
titolo stesso farebbe semplicemente riferimento a un errore di un attore
durante le prove – rappresenta in maniera esemplare quello che il critico
Martin Esslin definì “teatro dell’assurdo”, la trasposizione drammaturgica
di ciò che l’esistenzialismo fu per la filosofia: il dis-velamento della
condizione concreta, a-logica e precaria, dell’essere umano.
Nei maggiori esponenti di questo teatro (elenco nel quale è inserito anche
Samuel Beckett, che però osteggiò sempre la definizione, a suo modo di
vedere “limitante”), a essere protagonista è quasi sempre l’esistenza
autentica, liberata dal giogo dell’essenza (ad esempio, l’uomo come dover
essere razionale o politico). Perso ogni punto di riferimento ideale,
smarrita la bussola delle certezze borghesi (rassicuranti solo perché
sovrastrutturali rispetto all’egemonia economica, politica e culturale di una
classe; “oggettive” solo in quanto contrarie alla soggettività, pertanto disumane), tutto viene travolto. La vita naufraga nel tentativo di superare
l’anonimato e il dominio dell’adesione “naturale” a un mondo che si
condivide in “massa” (quello delle opinioni condivise e delle
generalizzazioni: «Tutti i medici sono ciarlatani» dirà il sig. Smith), il
linguaggio disperde ogni significato e il buonsenso viene spazzato via,
bollato come semplice reiterazione di ciò che è stato già vissuto e detto da
“altri”, da “tutti” (per questo è possibile che in un’intera famiglia, ogni
componente – genitori, nonni, figli, nipoti, cugini – si chiami “Bobby
Watson”).
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Daniele Rizzo
novembre 5, 2012
La condanna non potrebbe essere più definitiva. Se vivere significa
“scegliersi” ogni istante, allora il teatro ha il compito di interrogare
direttamente la vita e di rappresentarla nella sua verità. In quest’ottica, la
Cantatrice calva può essere considerata un vero manifesto d’intenti.
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La vicenda è nota: i protagonisti sono due coppie di borghesi inglesi, gli
Smith e i Martin, che, per “passare il tempo”, decidono di raccontarsi degli
aneddoti divertenti, “bizzarri” e “curiosi”. La versione della Cantatrice
calva messa in scena presso il Teatro Metastasio di Prato, in questo senso,
rispetta fedelmente le direttrici poste dall’autore rumeno (ma francese
d’adozione). Ottima la scenografia di Claudia Calvaresi, un salotto inglese
– all’interno del quale si svolge unitariamente l’azione – caldo nei colori,
ma freddo e asettico nella sua irreale mancanza di personalità,
caratteristica enfatizzata fin dall’introduzione di Francesco Borchi (il
pompiere), che – insistendo con forza sulla natura anglosassone di ogni
cosa (baffi inglesi, giornale inglese, stufa inglese, ecc.) – accentuerà il
sovrastare del contesto (definizione-essenza) sulla psicologia (esistenza)
degli stessi personaggi.
I protagonisti sono – per gestualità eccessiva, tono “ostentatato” della
voce e mimica facciale “coerentemente” scoordinata rispetto al corpo –
convincenti nel restituire la “chiacchiera” delle conversazioni e la vacuità
dei rapporti, ovvero il nulla grottesco su cui stanno dialogando e che
stanno vivendo. Sottolineando la magistrale traduzione, ormai storica, di
Gian Renzo Morteo, citiamo a titolo di esempio di questo potpourri di
situazioni paradossali nel loro essere presentate “normali”, il momento
che vede questionare – realizzando un geniale ribaltamento
dell’esperienza (soprattutto del suo presunto del valore epistemologico) –
le signore Smith e Martin (le fastidiose ma piacevolissime Valentina Banci
ed Elisa Cecilia Langone) con i rispettivi mariti (gli arroganti e in parte
Mauro Malinverno e Fabio Mascagni) sul fatto se ci sia o meno qualcuno
quando suona il campanello (diatriba “spenta” dal pompiere con la
rivelazione: «Quando suona il campanello, talvolta c’è qualcuno, talaltra
no»).
Sintesi clamorosa di canone aristotelico (con il ferrero rispetto delle tre
famose unità di tempo, luogo e azione) e di avanguardismo esistenzialista,
questa anticommedia – come lo stesso Eugène Ionesco la definì – mostra
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oggi – tuttavia e forse “colpevolmente” agevolata in questo dalla versione
del duo Castri-Plini – tutti i segni del tempo. La spietata contestazione –
attraverso la strategia della messa in ridicolo delle sue abitudini –
dell’ottimismo (e dell’ipocrisia) del modello borghese, fallito di fatto (di
poco successiva alla Seconda guerra mondiale, l’opera è datata 1950) ma
“testardo” nel ribadire il proprio status di unica visione “capace” di
guidare la società (come mostrato dal tentativo di esclusione della
cameriera – Sara Zanobbio – dal gioco delle “storielle”), è infatti dirottata
verso una chiave più comica che umoristica.
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Certo, la presenza del cosiddetto avvertimento del contrario risulta
funzionale anche al disegno dissacrante di Ionesco. Tuttavia, se per il
drammaturgo rumeno-francese possiamo immaginare una comunanza
d’intenti con Henri Bergson (di cui era connazionale e poco più giovane),
quando questi affermava che “ridiamo tutte le volte che una persona ci dà
l’impressione di una cosa” (Il riso. Saggio sul significato del comico
del 1900) e attribuiva alla risata la funzione di “castigo sociale” nei
confronti di chi assumeva atteggiamenti contrari all’autentico “slancio
vitale”, si ha l’impressione che la potenza ironica del testo originario
abbia perso gran parte della sua valenza maiuetica, per finire quasi
interamente piegata alle istanze del semplice divertissement.
Fortunatamente, questa impressione non resiste alla s-conclusione,
quando le doti istrioniche dei protagonisti e l’esperta regia – comunque
sempre sapiente nel dosare il ritmo dell’incedere brillante della pièce –
riescono a recuperare la dimensione di uno straniamento totale dal senso
comune e di smascheramento dell’aridità strutturale del conformismo
della borghesia, fatto di stereotipi e cliché (oggi diremmo i “loghi”).
Un finale, che – richiamando una chiusura ad anello – nell’illusione di dare
un Senso a questa storia, riesce ricordarci che spetta a ognuno di noi
trovarlo, perché lei un Senso (suo) non ce l’ha.
Lo spettacolo è andato in scena:
Teatro Metastasio
via B. Cairoli, 59 – Prato
La cantatrice calva
di Eugène Ionesco
traduzione Gian Renzo Morteo
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regia Massimo Castri
con la collaborazione di Marco Plini
scene e costumi Claudia Calvaresi
progetto luci Roberto Innocenti
musiche Arturo Annecchino
aiuto regista Thea Dellavalle
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personaggi e interpreti:
signor Smith, Mauro Malinverno
signora Smith, Valentina Banci
signor Martin, Fabio Mascagni
signora Martin, Elisa Cecilia Langone
Mary, la cameriera, Sara Zanobbio
il capitano dei pompieri, Francesco Borchi
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