UNIVERSITÀ DEL SALENTO ISUFI ISTITUTO SUPERIORE UNIVERSITARIO DI FORMAZIONE INTERDISCIPLINARE Dottorato di ricerca in Diritto dell’Economia e del Mercato CICLO XXI TESI DI DOTTORATO CRISI ECONOMICA E RISPOSTE GIURIDICHE DI SEMPLIFICAZIONE Il banco di prova della conferenza di servizi COORDINATORE Prof. Antonio Cetra TUTOR Prof. F. FRANCESCO TUCCARI Anno Accademico 2011-2012 DOTTORANDO Dott. DAVIDE PRINARI 2 INDICE PREFAZIONE 7 PARTE I CRISI ECONOMICA E MODELLI DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA 9 Capitolo 1 CRISI ECONOMICA E INTERVENTO PUBBLICO 11 1. Introduzione 1.1. Crisi globale e risposte degli Stati 1.2. Dallo Stato “regolatore” allo Stato garante di ultima istanza 1.3. Questioni controverse 2. I tempi della crisi 3. Un nuovo assetto dello Stato? 3.1. Provvedimenti di sistema: gli aumenti di liquidità e l’erogazione di garanzie pubbliche 3.2. Le nazionalizzazioni 3.3. Gli Hedge found 3.4. Interventi sull'economia reale 3.5. Il nuovo «Stato salvatore» 4. Il difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali 4.1. Tipi e caratteri degli organismi internazionali di regolazione 4.2. Le regole globali 4.3. Il nuovo rapporto tra Stato e organismi internazionali 5. Novità tra demo e tecnocrazia 6. Le proposte di riforma 7. Post scriptum 19 21 22 23 25 26 26 28 30 32 33 36 Capitolo 2 AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, PRINCIPICIO DI LEGALITÀ E REGOLE DI DIRITTO 39 1. Introduzione 1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo 1.2. I fattori di cambiamento 1.3. Problemi e questioni 2. Principio di legalità e poteri impliciti 39 39 41 43 43 3 11 11 12 15 15 18 3. La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale 4. La legalità comunitaria 5. La «rule of law» globale 6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola della legalità 7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato 8. Legalità e legittimità: vizi formali e vizi sostanziali 9. I pericoli di una «caduta» della legalità amministrativa 48 51 54 56 58 61 64 Capitolo 3 LA SEMPLIFICAZIONE PROCEDIMENTALE NEL CONTESTO DEL RIFORMISMO AMMINISTRATIVO ITALIANO DEGLI ULTIMI DECENNI: ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI 67 1. Premessa 67 2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo amministrati italiano degli ultimi decenni 68 2.1. La regionalizzazione 71 2.2. La privatizzazione del lavoro pubblico 72 2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della disciplina riguardante gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale 72 2.4. Il destino del principio di separazione tra politica e amministrazione. Il rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco ai principi di merit system e tenure 78 3. Semplificazione amministrativa e competitività del Paese 80 4. Cause della complicazione amministrativa e tecniche di intervento 81 5. Gli interrogativi 83 6. La d.i.a./scia 85 6.1. La dibattuta questione della natura della d.i.a/scia e delle forme di tutela del terzo 88 6.2. La d.i.a/scia e le politiche di semplificazione: conclusioni 92 7. Il silenzio-assenso. La disciplina 92 7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione 95 8. Il silenzio inadempimento 95 8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 96 8.1.2. La ristorabilità del danno da ritardo 98 8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il dibattito svoltosi prima della riforma 100 8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, 1. n. 241/1990: persa un’occasione per la soluzione del problema? 102 8.1.3. La nuova ipotesi di responsabilità dirigenziale: i rapporti con la responsabilità dirigenziale prevista dall’art. 21, D.lgs. n. 165 del 2001 104 8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del procedimento 106 4 9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1. 241/1990 l0. Riforma dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo: è possibile una sinergia? La delega per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge n. 69 del 2009 e il varo del codice del processo amministrativo 110 PARTE II UNA DECLINAZIONE DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA: LA CONFERENZA DI SERVIZI 113 Capitolo 1 LA CONFERENZA DI SERV1ZI COME NUOVO MODELLO DI AZIONE AMMINISTRATIVA: LE DIVERSE TIPOLOGIE E IL PROCEDIMENTO 115 1. Introduzione 2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi 3. L'utilità dell'istituto 4. Il problema della natura giuridica 5. La conferenza istruttoria 6. La conferenza di servizi decisoria 7. La conferenza trasversale a procedimenti connessi 8. La conferenza preliminare 9. Il procedimento: Premessa 10. Organizzazione, funzionamento e tempi 11. Il soggetto legittimato a partecipare 12. L’acquisizione tacita dell’assenso 13. Il provvedimento finale 14. Ulteriori snodi procedimentali 115 117 119 122 127 132 136 138 140 141 147 151 154 165 Capitolo 2 LA DISCIPLINA DEI DISSENSI ESPRESSI IN CONFERENZA DI SERVIZI. RIFLESSI SUL TITOLO V DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE 169 1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso 2. La disciplina del dissenso nella L. n.340/2000 e nella L. n. 15/2005: dal principio maggioritario a quello di prevalenza 3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V della parte seconda della Costituzione 4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del 2005: spunti per una soluzione percorribile 5 107 169 172 184 194 Capitolo terzo PROFILI INTERPRETATIVI E PRINCIPALI PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELL’ISTITUTO E ASPETTI PROCESSUALI 1. Premessa 2. La partecipazione dei privati 3. La conferenza di servizi quale sede di mediazione delle discrezionalità amministrative 4. Il ruolo delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi. Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali 5. La legittimazione attiva della P.A. 6. L’instaurazione del contraddittorio 7. Gli atti impugnabili 8. le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010 Capitolo quattro LE C.D. CONFERENZE DI SERVIZI SPECIALI, O DEROGATORIE l. Premessa 2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994) 3. Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici (c.d. Legge Obiettivo) 4. La realizzazione dei/porti turistici (D.P.R. n. 50911997) 5. Interventi in materia di energia 6. Lo Sportello Unico per le attività produttive 6.1. Il Consiglio di Stato tra patologie applicative della disciplina sullo Sportello Unico e riforma del Titolo V della Costituzione 7. Altre procedure 7.1. Interventi in materia di telecomunicazioni 7.2. Norme in materia di rifiuti 7.3. Disposizioni in materia di ferrovie 7.4. Disposizioni in materia di commercio 7.5. Interventi per i Giochi olimpici invernali «Torino 2006» 7.6. Lo Sportello Unico per l’edilizia 8. Post scritum RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 201 201 201 206 214 220 221 224 228 231 231 232 241 244 247 252 259 262 262 263 264 266 268 268 269 271 6 PREFAZIONE La grande crisi economico-finanziaria, scoppiata nel 2007 in America e propagatasi fino ad oggi in tutto il mondo, con picchi di maggiore o minore gravità pone un interrogativo inquietante a chi la voglia leggere con gli occhi del Diritto: c’è un rimedio efficace? Possono gli stati dispiegare politiche che arginino il panico diffuso nei mercati? La realtà è che, mai come in questo “ tornante della storia”, il Diritto sembra avere il “fiato corto” nel rincorrere un fenomeno in costante cambiamento. Il valore della certezza giuridica, pur da tutti a parole esaltato, non può che risentire dell’esigenza di un necessario e continuo adeguamento ai sempre nuovi drammatici assetti economici dettati dalla crisi in atto. Ecco, in sintesi, la ragione di questo contributo: “tastare il polso” della realtà economica generale, giustapponendola al riformismo amministrativo negli ultimi anni, tra esigenze di regolazione e liberalizzazione, senza trascurare la profonda trasformazione del principio cardine di legalità e ponendo attenzione particolare all’istituto della conferenza di servizi, laboratorio da sempre di esperimenti più o meno riusciti in materia di semplificazione, che si è qui ritenuto “termometro” utile al fine di meglio comprendere le risposte dell’ordinamemento italiano alle pressanti esigenze provenienti dal mondo della economia. Si spera con qualche possibiltà di successo, avendo fatto tesoro della multidisciplinarità delle lezioni ISUFI e di quello che il Professor E. Sticchi Damiani ama chiamare “pensiero largo”. A lui dedico di cuore questo modesto lavoro. Lecce, giorno dell’Immacolata 2011 D.P. 7 8 PARTE I CRISI ECONOMICA E MODELLI DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA 9 10 CAPITOLO 1 CRISI ECONOMICA E INTERVENTO PUBBLICO 1. Introduzione. - 1.1. Crisi globale e risposte degli Stati. - 1.2. Dallo Stato “regolatore” allo Stato garante di ultima istanza. - 1.3. Questioni controverse. - 2. I tempi della crisi. 3. Un nuovo assetto dello Stato? - 3.1. Provvedimenti di sistema: gli aumenti di liquidità e l’erogazione di garanzie pubbliche. - 3.2. Le nazionalizzazioni. - 3.3. Gli Hedge found. - 3.4. Interventi sull'economia reale. - 3.5. Il nuovo «Stato salvatore». - 4. Il difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali. - 4.1. Tipi e caratteri degli organismi internazionali di regolazione. - 4.2. Le regole globali. - 4.3. Il nuovo rapporto tra Stato e organismi internazionali. - 5. Novità tra demo e tecnocrazia. - 6. Le proposte di riforma. - 7. Post scriptum. 1. Introduzione 1.1. Crisi globale e risposta degli Stati. Il tema dei rapporti tra Stato ed economia è da tempo focale nell’ambito di un dibattito risalente. Già a metà '800, taluni avevano teorizzato la separazione fra politica ed economia. In questa diatriba, è ricorrente la tesi che sostiene la difformità totale e originaria fra disciplina pubblica e libertà economica privata. Altrettanto risalente è, peraltro, la consapevolezza che, ove si consideri che la disciplina pubblica dell'economia sia in grado di correggere o sostituire o assicurare il mercato, deve, in ogni caso, necessariamente sussistere un certo grado di fungibilità fra Stato e mercato e che è, quindi, più importante studiare le loro interazioni che non la loro contrapposizione. Ciò rappresenta uno snodo fondamentale per la scienza del diritto pubblico, innanzitutto per una ragione di metodo e, poi, per una ragione di merito. Sul primo versante, si tratta di un tema che permette di colorare in termini critici la tradizionale contrapposizione che concepisce lo Stato e il mercato come universi di credenza in antitesi, il primo caratterizzato dai valori dell'uguaglianza, dell'uniformità e del collettivismo, il secondo caratterizzato dai canoni della libertà, della differenza e dell'individualismo. In virtù di tale semplificazione, l'economia di mercato si appaleserebbe tendenzialmente autosufficiente ed autoequilibrata e il ruolo dei poteri pubblici andrebbe configurato, quindi, in termini di «ingerenza» di un elemento estraneo e diverso rispetto alle ordinarie forze, relazioni e “spiriti”di mercato. 11 L’approccio critico a questo approccio, insieme con il richiamo alla necessità di basare le ricostruzioni su approfondite analisi delle concrete esperienze ordinamentali di ciascun paese sono stati chiaramente tratteggiati già da M.S. Giannini sin dagli anni '70 ispirando, per il vero, studi più attenti a mettere in luce la ricchezza e l'articolazione dei rapporti tra Stato ed il mercato. La consapevolezza che tanto lo Stato quanto l’economia abbiano natura istituzionale e siano prodotti dell'azione umana e non, al contrario, fenomeni naturali, ha portato a sottolineare il ripetersi in forma ciclica di «fallimenti del mercato» e «fallimenti dello Stato» e a evidenziare, su questa base, i vantaggi di una posizione eclettica, volta a valutare, caso per caso, i pregi dello strumento Stato e dello strumento mercato al fine di rispondere ai bisogni sociali in un dato momento storico. Di questa ispirazione, del resto, è debitrice la maggior parte delle carte costituzionali degli odierni ordinamenti democratici, essendo sono tutte qualificabili, sotto questo profilo, come costituzioni miste che prevedono un ampio strumentario, mediante il quale i pubblici poteri possono sempre assumere un ruolo nell'economia dello Stato. Per l'Italia, basti por mente, ad esempio, all'interazione fra le disposizioni dell'art. 41 Cost., che enunciano la libertà dell'iniziativa economica privata, sia pure prevedendo limitazioni derivanti dall'interesse pubblico, e le disposizioni dell'art. 43 Cost., che prevedono, tollerandoli, regimi di riserva e monopolio pubblico. La stessa visione si rinviene anche nel diritto europeo che, oltre a contemplare normative settoriali molto incisive, a volte (si pensi alla politica agricola, che di per sé esaurisce il 40% delle risorse europee), enuncia, già nei trattati, il principio di indifferenza alla natura pubblica o privata dei soggetti che operano su di un mercato, purché sia resa effettiva la pluralità degli operatori e siano escluse norme volte alla discriminazione per l’accesso al mercato. In quanto al merito, lo studio dei rapporti tra Stato ed economia permette, se si adotta un approccio metodologico pragmatico e non ideologicamente orientato, non tanto di misurare le (asserite) riduzioni della sfera dello Stato o del mercato, quanto a riscontrare gli sviluppi del diritto pubblico dell'economia in quanto a fini perseguiti, strumentazione disponibile, obiettivi raggiunti nei diversi momenti storici, procedendo pure a confrontare l'esperienza dei diversi ordinamenti. 1.2. Dallo Stato regolatore allo Stato assicuratore di ultima istanza Il trend, ancora dominante al momento della crisi finanziaria ed economica scoppiata nel 2007, registrava, accanto al ridimensionamento dello Stato imprenditore, la vis espansiva del c.d. “Stato regolatore”. 12 La funzione dei pubblici poteri era venuta progressivamente mutando quanto a natura e moduli di azione, ma i processi di privatizzazione e di liberalizzazione, che hanno caratterizzato l'ultimo ventennio del secolo scorso, non avevano portato ad una sua scomparsa. In effetti, gli stessi processi di privatizzazione e di liberalizzazione hanno, di frequente, portato alla riconfigurazione in impresa di preesistenti strutture pubbliche: così, a titolo meramente esemplificativo, si può rammentare la distinzione, dovuta al diritto europeo, fra gestione della rete e gestione del servizi. Per altro verso, la disciplina pubblica dell'economia è andata pesantemente perdendo il suo tradizionale carattere conformativo, per assumere un carattere sempre più marcatamente condizionale. Il primo tipo di regolazione ha, come noto, 1'effetto di conformare, sin dal momento genetico l'attività economica privata, imponendo comandi e indirizzi cui essa non può sottrarsi: in origine attività economiche, oggi interamente private, come I'attività creditizia o di assicurazione, soggiacevano a controlli amministrativi assai penetranti sia al momento di costituzione dell'impresa, sia nello svolgimento dell'attività, con una puntuale prescrizione delle attività consentite e di quelle vietate nonché delle condizioni da adempiere per il loro espletamento. Mediante la regolazione condizionale, invece, lo svolgimento dell'attività economica viene sottoposto a condizioni, al cui rispetto è legato il compimento di determinate operazioni, mentre l'attività resta in larga misura libera di indirizzarsi secondo le convenienze dell'imprenditore privato. Così, ad esempio, se un intermediario finanziario vuole sollecitare il pubblico risparmio, deve compilare e rendere noto al cliente un prospetto informativo, ma 1'autorità di vigilanza - nel caso specifico, la CONSOB - si limita a determinare lo schema di prospetto e non può effettuare controlli di merito ex ante sulle indicazioni fornite. Il suddetto fenomeno ha trovato un potente fattore di promozione anche nella dimensione sempre più transnazionale delle attività economiche e di quelle finanziarie in primis. È del tutto evidente, infatti, che regole condizionali meglio si prestano ad essere adottate anche da parte di autorità di regolazione sovranazionali con riferimento al mercato internazionale, ove, per converso, regole di tipo conformativo richiedono necessariamente l'esercizio di poteri di indirizzo politico e un ambito di vigenza e di applicazione più propriamente nazionale, dimensione nella quale può più facilmente svolgersi l'attività di vigilanza, se non proprio di sanzione. Il carattere transnazionale delle attività economiche avrebbe richiesto un corrispondente assetto regolatorio e di vigilanza altrettanto esteso, la cui costruzione ha scontato, però, non poche esitazioni, sia da parte dei 13 potenziali destinatari della regolazione, sia da parte delle autorità nazionali, da sempre restie alle cessioni di sovranità.1 Si è consolidata, così, la tendenza ad attribuire all'autoregolazione i compiti che le autorità nazionali non erano più in grado di svolgere nell'arena globale e che non intendevano però delegare ai regolatori internazionali, mentre questi ultimi, dal canto loro, si limitavano ad adottare raccomandazioni e orientamenti privi di effettiva cogenza. Fra le molteplici cause che hanno portato alla crisi finanziaria ed economica è dato verificare, in sostanza, un doppio e contestuale fallimento, da un lato del mercato, che non è riuscito ad autoregolarsi ed autocorreggersi, e, dall’altro, della regolazione, che non è stata in grado di evitare per poi, eventualmente, sanzionare l'assunzione di rischi sempre maggiori. Nello stesso momento in cui i rischi hanno assunto una dimensione di sistema, è apparso necessario che i pubblici poteri, e gli Stati in primo luogo, assumessero un ruolo centrale nell'economia. Ma il ruolo economico dello Stato, per richiamare il titolo di un celebre libro di J. Stiglitz, è ancora cambiato secondo forme almeno parzialmente nuove ed inedite. Se pure molte misure di emergenza, adottate per far fronte alla crisi nei suoi momenti più drammatici presentano forti somiglianze con l'intervento pubblico tradizionale- nazionalizzazioni, incentivi alle imprese, sostegno diretto ad alcuni settori produttivi –le misure adottate, nel loro complesso, non sembrano né orientate ad un ritorno allo Stato imprenditore, né ad un abbandono dello Stato regolatore ma, più verosimilmente, ed in sintesi, alla emersione di uno Stato assicuratore di ultima istanza. Gli Stati hanno, infatti predisposto, più o meno efficacemente a seconda dei casi, una rete di garanzie che stempera decisamente i rischi ai quali il sistema economico era esposto e che non riusciva, con le sole del libero mercato, ad assorbire. La erogazione di queste garanzie ha richiesto una mobilitazione di risorse che solo gli Stati nazionali potevano permettersi, perché solo il potere pubblico può in larga misura autodeterminare 1'orizzonte temporale dei suoi impegni e può, quindi, assorbire, nel medio-lungo periodo, rischi che sul breve periodo sarebbero insostenibili per un soggetto privato. Lo strumentario connesso a questo nuovo ed inedito ruolo dello Stato nell'economia è ancora in fase di definizione e consolidamento e non si presta, quindi, a bilanci o valutazioni definitive, ma merita una sia pur approssimata analisi al fine di individuare le tendenze emergenti e preponderanti. Si appalesa, comunque, l'innegabile asimmetria fra il contesto mondiale della crisi e la risposta locale dei singoli ordinamenti 1 Cfr. STIGLITZ J., Il ruolo economico dello Stato, Il Mulino, Bologna, 1992. 14 nazionali, che richiederà quasi inesorabilmente un maggiore sviluppo del ruolo delle sedi sovranazionali preposte alla regolazione e alla vigilanza. 1.3. Questioni controverse La crisi ha dimostrato che l'autonomia privata è multiforme. Essa si presenta come libertà nei confronti del potere pubblico, ma può anche atteggiarsi come potere nei confronti di altre situazioni soggettive private. I clienti delle banche che sono fallite o hanno rischiato il fallimento, o i risparmiatori che hanno inconsapevolmente comprato i c.d. titoli tossici, non hanno trovato alcuna garanzia o salvaguardia nell'ambito delle regole di mercato e hanno dovuto cercare necessariamente tutela nell'intervento pubblico. La disciplina pubblica dell'economia non può, allora, non considerare l'asimmetria fra i diversi interessi in gioco erogando misure di tutela e garanzia per gli interessi e i diritti che rischino di essere travolti nel caso in cui l'equilibrio di mercato cessi di funzionare. Il ruolo economico dello Stato si va vieppiù traformando, a seguito della crisi, verso la prestazione di garanzie di ultima istanza, che non necessariamente comportano, a differenza di quanto avvenne dopo la crisi del 1929, la costruzione di nuovi apparati e l'elaborazione di nuovi complessi assetti regolatori. L'applicazione e l'attuazione della regolazione non possono essere appaltate, peraltro, interamente all'autoregolazione, né possono basarsi unicamente su regole prive di cogenza e non accompagnate da sanzioni efficaci. La necessità implementare delle regole con efficacia cogente nella nuovo contesto globale dei fenomeni economici sta conducendo ad una riperimetrazione dell’attuale assetto attuale e, in ispecie, della funzione dei regolatori internazionali. 2. La cronologia della crisi Il 2007 passerà alla storia come l'anno di inizio della prima grande crisi economica globale, dapprima manifestatasi negli Stati Uniti e successivamente estesasi, con effetti esplosivi, nei mercati internazionali. Dal 2000 il mercato finanziario americano aveva mostrato una crescita esponenziale, dando luogo al fenomeno della c.d. finanziarizzazione: il valore aggiunto del settore finanziario si era incrementato più del reddito nazionale; la quota degli utili delle società di questo settore si era quadruplicata rispetto ai profitti totali di tutte le società quotate; la quota del valore delle società finanziarie era triplicata rispetto al valore totale della Borsa. 15 Già dalla primavera del 2006, tuttavia, sebbene l'economia mondiale fosse ancora caratterizzata da una stabile ed intensa liquidità, oltre che da una politica monetaria molto espansiva, iniziava a prendere piede un clima di instabilità che, improvvisamente, avrebbe portato ad una contrazione tanto violenta quanto repentina del debito del sistema, il c.d. deleveraging. Nel mercato degli immobili americano erano, così, iniziate ad emergere le c.d. bolle speculative, originate dalla grande liquidità a disposizione dei privati e dall'assenza di controlli sulla inflazione dei prezzi degli asset, cioè dei titoli di investimento. Molti strumenti finanziari emessi dalle banche erano divenuti «titoli tossici»: i prestiti concessi erano stati convertiti, mediante cartolarizzazioni, in obbligazioni destinate al mercato finanziario, non trovando, quindi, più debita indicazione nel bilancio dell'istituto di credito. In tal modo, gli investitori non erano in condizione di conoscere la situazione economica delle banche; di conseguenza, la minore informazione sui rischi legati alle operazioni economiche, accompagnata dal graduale indebolimento delle regole giuridiche del settore finanziario (in particolare con riguardo alla vigilanza prudenziale) hanno accentuato i fenomeni di moral hazard. Nel febbraio 2007 i primi sintomi della crisi incombente si sono manifestati con l'annuncio, da parte degli istituti di credito HSBC e New Century Financial Corp., di forti perdite nel proprio portafoglio di mutui sub prime, concessi ed erogati ad una clientela difficilmente solvibile. La deflagrazione della crisi è avvenuta in uno con la reazione della politica monetaria americana volta dell'inasprimento dei saggi di interesse per aggredire la bolla speculativa immobiliare, il dollaro costantemente in flessione e l'inflazione: tali fattori hanno prodotto la vertiginosa caduta dei prezzi degli immobili, la perdita di valore delle garanzie immobiliari e l'impossibilità dei soggetti che hanno acceso mutui ipotecari, soprattutto i sub prime, onorare gli impegni assunti con le banche. Nell'estate 2007, la finanziaria Bear Stearns ha annunciato difficoltà di due suoi hedge funds i quali avevano investito in titoli garantiti da mutui sub prime, mentre le agenzie di rating, tra cui, in particolare, Moody's e Standard & Poor's, hanno tagliato i rating dei titoli americani per 12 miliardi di dollari. Con il blocco del mercato monetario, la BCE, in Europa, ha adottato la politica delle aste di liquidità, mezzo funzionale all’iniezione di liquidità nel capitale delle banche senza abbassare i tassi. La crisi si è generalizzata: non si è limitata al settore immobiliare americano, ma si è estesa ai settori finanziario, bancario, borsistico, anche oltre i confini statunitensi. Il fallimento dei mutui sub prime, avvenuto negli Stati Uniti, ha iniziato a far sentire i suoi effetti in Europa: la banca tedesca IKB ha dichiarato le proprie difficoltà, così come la Sachsen LB; la Northern Rock 16 e Barclays hanno chiesto un finanziamento straordinario alla Bank of England. Nel settembre 2007, i clienti della Northern Rock hanno chiesto di estinguere i depositi, in una corsa agli sportelli che non si verificava da oltre centoquarant'anni. Nel febbraio 2008, l'istituto di credito è stato nazionalizzato. I mercati sembravano tuttavia offrire segnali di ripresa, in seguito alla decisione di tre grandi banche americane, Bank of America, JP Morgan e Citigroup, di acquistare gli asset tossici delle banche. Altri interventi di salvataggio sono stati condotti nella primavera del 2008, quando la società finanziaria JP Morgan Chase ha acquistato Bear Stearns, e nell'estate 2008, quando gli Stati Uniti hanno nazionalizzato gli istituti di concessione di prestiti Fannie MAE e Freddie Mac. Il 15 settembre 2008 è stato il giorno peggiore per Wall Street dall'11 settembre 2001: è fallita Lehman Brothers, le cui attività sono state rilevate in parte da Barclays e, per quanto riguarda Asia, Europa e Medio Oriente, dalla giapponese Namura Holdings; Merill Linch è rilevata da Bank of America; AIG è risultata fortemente compromessa nella crisi. A fine settembre 2008, dopo il crollo delle proprie azioni, Goldman Sachs e Morgan Stanley hanno rinunciato allo status di banche d'investimento per divenire in banche commerciali. Nel contempo, la crisi è tornata a manifestarsi incisivamente nell'Europa continentale: il gruppo Fortis è stato salvato dai governi di Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Di lì a poco, le attività di Fortis in Belgio e Lussemburgo sono state acquisite da BNP. Nell'ottobre 2008, il Senato americano ha approvato un piano di risanamento da 850 miliardi di dollari. A livello internazionale, i ministri economici dei paesi del G7 hanno concordato una comune strategia di interventi. I governi europei, invece, non hanno parlato con una sola voce, limitandosi a proporre manovre secondo esigenze e interessi nazionali, ma hanno trovato un accordo sulla ricapitalizzazione delle banche in difficoltà, nonché sulla garanzia pubblica a tutti i prestiti interbancari per sbloccare la liquidità e una revisione delle norme di contabilità a livello europeo. E indubbio che gli interventi di carattere nazionale si siano appalesati non adeguati a risolvere un problema di portata internazionale, a causa dello scarso coordinamento tra gli Stati; d'altra parte, i regolatori internazionali hanno dimostrato la propria debolezza nell'impossibilità di delineare una strategia adeguata ed efficace. In questo situazione, le conseguenze della crisi e dei successivi provvedimenti adottati dai regolatori nazionali ed internazionali hanno inciso su un triplice profilo: il rapporto tra Stato e mercato, il ruolo dei 17 regolatori internazionali e l'incidenza sull'economia del potere politico rispetto a quello dei tecnici. 3. Un nuovo ruolo dello Stato? L'improvvisa mancanza di liquidità, il fallimento delle banche e degli altri istituti di credito e l’improvviso tracollo delle Borse hanno reso indispensabile l'intervento dei poteri pubblici nell'economia, modificando il rapporto preesistente tra Stato e mercato. I provvedimenti adottati da ciascun ordinamento per aggredire tale stato di cose sono stati, in un primo momento, condizionati da una politica di intervento «caso per caso», mediante aumenti ricapitalizzazioni mirate e sottoscritte in parte dal mercato, ma soprattutto, dai fondi governativi. A dispetto dei tentativi di coordinamento operati dalle organismi internazionali, le strategie poste in essere dagli Stati per fronteggiare la crisi si sono rivelate piuttosto eterogenee tra loro, ma con un elemento di fondo comune. In controluce, si può notare che negli Stati Uniti, come in Europa, si è assistito alla progressiva metamorfosi del modello dello Stato regolatore, affermatosi sullo Stato interventista nell'ultimo quarto del XX secolo, per cui il pubblico potere non indica i fini dell'attività economica, ma ne stabilisce regole e procedure senza svolgere direttamente l'attività di vigilanza, ma conferendola ad autorità istituite ad hoc. Esse, come noto, sono istituzioni indipendenti dal circuito politico ed elettorale, dotate di mandato specifico e di poteri incisivi previsti dalla legge, composte da persone scelte per la loro elevata competenza tecnica e per la loro imparzialità. Diversamente dello Stato sociale, visto come un «dispensatore di beni», lo Stato regolatore non si pone l’obiettivo di soddisfare tutti i possibili bisogni sociali, ma mira, più che altro, a fornire risposta a problemi circoscritti, rispettando, per quanto possibile, le logiche di azione dei sistemi regolati. All’indomani della crisi economica, gli Stati nazionali non si sono limitati ad emanare regole destinate agli operatori del mercato, ma si sono spinti sino al punto di porre in essere interventi destinati ad avere un'incidenza immediata nell'economia. Le banche centrali dei vari paesi, ad esempio, hanno attuato massicce immissioni di liquidità in cambio di asset ormai privi di valore, mentre i governi hanno varato piani di nazionalizzazione delle banche in difficoltà, hanno erogato risorse per l'acquisizione di istituti di credito tecnicamente falliti e hanno previsto incentivi e misure favorevoli ad alcuni contesti industriali (ad esempio, la filiera automobilistica). 18 Con riguardo all'economia reale, gli Stati sono intervenuti a sostegno delle famiglie e delle imprese, evocando il modello di Stato gestore, ingegnere sociale e dispensatore di beni che caratterizzò il periodo compreso tra gli anni '40 e gli anni '70, del secolo scorso. Ci si può allora chiedere se questa modificazione degli assetti istituzionali vada considerata come un ritorno al passato o non costituisca, invece, un nuovo modello di intervento pubblico nell'economia, destinato a durare e a non esaurirsi con l'emergenza della crisi. 3.1. Provvedimenti di carattere sistemico: gli incrementi di liquidità e la concessione di garanzie pubbliche Tra gli strumenti di sostegno del settore finanziario posti in essere dagli ordinamenti statali per fronteggiare la crisi si pongono quelli finalizzati ad aumentare la liquidità a disposizione degli intermediari e delle banche e a garantire la loro esposizione debitoria. Tali operazioni hanno consentito di supportare le banche mediante tecniche che, in un mercato privato, avuto riguardo al particolare contesto storico ed economico, non sarebbero possibili; per altro verso, hanno aumentato la fiducia dei risparmiatori posto che incentivano le transazioni. Gli strumenti più frequenti sono l'istituzione di fondi speciali, la concessione di garanzie pubbliche e lo scambio di titoli di Stato, in giustapposizione alle operazioni svolte dalle banche centrali. Negli Stati Uniti, con 1Emergency Economic Stabilization Act of 2008 è stato conferito al segretario al Tesoro americano il potere di adottare il Troubled Asset Relief Program, allo scopo di far fronte alla scarsa liquidità degli intermediari finanziari. Munito di tali poteri, il governo ha quindi acquistato prodotti finanziari «problematici» o «tossici», costituiti in parte da titoli relativi a mutui immobiliari, in parte da qualsiasi altro strumento al quale il segretario, previa comunicazione al Congresso, ritenesse o ritenga opportuno estendere l'intervento pubblico. In tale contesto, il segretario al Tesoro è stato chiamato a esercitare ogni diritto connesso ai titoli acquistati, ivi compreso quello di vendere, concedere prestiti, riacquistare e concludere transazioni finanziarie sui titoli, secondo termini e condizioni dal medesimo determinati, in conformità ai vincoli di legge e alle linee di intervento previamente pubblicate. Le somme così incassate sono state destinate al trasferimento all'erario e alla riduzione del debito pubblico. Al fine di stemperare il carattere centralistici del provvedimento, si è promosso il coinvolgimento del settore privato nell'attuazione del 19 programma, attraverso l'incentivo all'acquisto dei titoli «infetti» e all'investimento nelle istituzioni finanziarie. Si badi che l'intervento pubblico, inoltre, deve, per legge, comunque svolgersi secondo i meccanismi di mercato, acquistando al prezzo più basso e privilegiando il ricorso a procedure d'asta. In Italia, è stato previsto, con la l. n. 185/2008, che il ministero dell'Economia e delle Finanze possa fornire la garanzia statale sulle passività delle banche, su operazioni bancarie di rifinanziamento e sui finanziamenti erogati dalla Banca d'Italia per ovviare a gravi crisi di liquidità; può, inoltre, procedere a operazioni temporanee di scambio tra titoli di Stato e strumenti finanziari. Nell'ordinamento tedesco, la Finanzmarktstabilisierungsgesetz, approvata il 17 ottobre 2008, ha istituito uno speciale Fondo per la stabilizzazione del mercato finanziario gestito dalla Bundesbank, in conformità agli indirizzi del ministero delle Finanze, con il quale sono stati messi a disposizione delle banche in difficoltà 500 milioni di euro, mentre allo Stato spetta una partecipazione azionaria per ciascun istituto di credito che benefici di tale liquidità. Il piano tedesco prevede che le partecipazioni azionarie pubbliche detenute presso i vari istituti di credito entrino nell'amministrazione fiduciaria delle banche (Banken-Treuhand). Anche in Francia il piano di risanamento dell'economia ha previsto la creazione del Fonds stratégique d'investissement (FSI), che assume la natura giuridica di società per azioni, ma di fatto è una filiale della Caisse des dépots, con la funzione di sostenere le piccole e medie imprese mediante l’erogazione diretta di liquidità. Gli Interventi pubblici in ambito europeoper sostenere il settore finanziario sono stati agevolati anche dalla decisione del Consiglio europeo di modulare con meccanismi di flessibilità l’applicazione delle regole comunitarie sugli aiuti di Stato e sul Patto interno di stabilità. In ossequio a tali principi, il 26 novembre 2008 la Commissione è pervenuta ad una comunicazione in cui è stato stabilito un piano di ripresa fondato sia su misure a breve termine che su «investimenti intelligenti» finalizzati a garantire una maggiore crescita e prosperità sostenibile a lungo termine. È stata ammessa, in particolare, la necessità, seppur in via del tutto eccezionale e temporanea, di procedere a nuovi aiuti di Stato alle imprese di interpretando estensivamente la relativa disciplina comunitaria. Successivamente, il 22 gennaio 2009 è stato poi precisato che gli aiuti dovrebbero interessare in particolare le banche, attraverso iniezioni di liquidità dirette alla duplice finalità di sbloccare i prestiti bancari alle imprese, garantendone così l'accesso ai finanziamenti, e allo stesso tempo di indurre l’intrapresa privata ad investire nel futuro. 20 3.2. Provvedimenti di carattere sistemico: le nazionalizzazioni La seconda tipologia di provvedimenti di carattere sistemico posti in essere dagli ordinamenti internazionali per fare fronte alla crisi economica consiste nella nazionalizzazione delle banche in difficoltà, vale a dire l'acquisto di azioni o la sottoscrizione di aumenti di capitale da parte dello Stato o di altri operatori pubblici in presenza di gravi situazioni di inadeguatezza patrimoniale delle banche o di altri istituti di credito. Nell'ordinamento statunitense, l'opzione della pubblicizzazione proprietaria è stata resa possibile dalla latitudine dell'autorizzazione legislativa a sottoscrivere qualsiasi strumento finanziario cui il segretario, previa comunicazione al Congresso, ritenga opportuno estendere l'intervento pubblico, ivi compreso, appunto, l'acquisto di azioni di operatori bancari e di altri intermediari finanziari. In Europa, il Banking Bill britannico ha affidato al Tesoro il potere di emanare ordini di trasferimento delle azioni, così configurando l'ipotesi di una temporary public ownership, sebbene le azioni acquisite dallo Stato siano privilegiate e non conferiscano, di conseguenza, alcun diritto di voto in seno agli organi societari. In tal modo, il Regno Unito ha deliberato di entrare nel capitale delle otto banche più importanti, con un piano di ricapitalizzazione di 50 miliardi di sterline, ponendo in essere una vera e propria pubblicizzazione proprietaria. Anche in Germania la concessione di finanziamenti pubblici, attraverso il FSI, ha determinato l'acquisizione da parte dello Stato di azioni delle banche salvate. In Italia, il ministero dell'Economia e delle Finanze è stato autorizzato, al ricorrere di determinati presupposti e anche in deroga alle norme sulla contabilità di Stato, a sottoscrivere aumenti di capitale deliberati dalle banche che presentino una situazione di inadeguatezza patrimoniale accertata dalla Banca d'Italia. A differenza delle operazioni poste in essere in passato, tuttavia, si è mantenuta ben ferma la natura privatistico-commerciale e la struttura societaria delle banche e degli intermediari finanziari: a mutare è stata soltanto l'identità dell'azionista e, talora, il modo in cui egli esercita i suoi diritti. Si è infatti previsto, conformemente a quanto statuito dal Banking Bill britannico, che le azioni detenute dal ministero sono privilegiate nella distribuzione dei dividendi e conseguentemente non conferiscono al medesimo alcun diritto di voto negli organi sociali. Negli Stati Uniti, poi, il segretario al Tesoro può decidere di estendere l'intervento pubblico, previa comunicazione al Congresso, a qualsiasi 21 operazione finanziaria, ivi compreso l'acquisto di azioni di operatori bancari e finanziari. 3.3. Provvedimenti di carattere sistemico: i fondi sovrani Mentre, dunque, in Germania e nel Regno Unito si è scelta la strada della nazionalizzazione, le operazioni di ricapitalizzazione negli Stati Uniti hanno coinvolto anche nuovi azionisti pubblici stranieri, ovvero i fondi sovrani o sovereign wealth founds. I fondi sovrani sono veicoli di investimento di proprietà pubblica, originati dai surplus legati alle materie prime (commodity funds), ovvero dalle esportazioni di prodotti (non-commodity funds) e destinati ad investimenti con rendimenti più elevati rispetto alle riserve ufficiali.2 Nonostante sia sorta più di cinquant'anni fa, lo sviluppo di tale forma di investimento pubblico si è avuto solo nell'ultimo decennio, soprattutto nei paesi arabi, in Cina e in Giappone. Sebbene gli Stati Uniti nel 2005 avessero fortemente osteggiato l'ingresso del fondo sovrano del Dubai nell'economia americana, in occasione dell'attuale crisi economica globale non sono state registrate reazioni ostili. Dal punto di vista economico, infatti, l'operazione risponde pienamente alle logiche di mercato e al principio di efficienza. Il riutilizzo del surplus accumulato nei fondi sovrani favorisce la ripresa dell'economia, senza il rischio di dover rimborsare gli investitori e di deviazioni dalle strategie di investimento. Dal punto di vista politico, invece, l'impiego dei fondi sovrani suscita qualche perplessità in ordine alle possibili implicazioni di una «nazionalizzazione cross-border»; ciò nonostante gli investitori esteri sono rimasti nella maggior parte dei casi azionisti di minoranza e, nelle ipotesi in cui siano divenuti azionisti di maggioranza, non hanno comunque acquisito diritti di governance. Sicché, diverse sono state le risposte degli Stati: l'amministrazione americana, ancora durante la presidenza Bush, ha incentivato gli investimenti esteri diretti; la Francia ha impedito l'ingresso di stranieri nel capitale delle banche; in Italia, invece, il problema non si è posto, non essendosi verificato un coinvolgimento diretto nel fallimento degli istituti di credito. Al fine di ridurre i rischi connessi a questa forma di investimento e di scongiurare soluzioni protezionistiche, il Fondo Monetario Internazionale 2 V. SINISCALCO M., Governi alle porte: Crisi del credito e fondi sovrani, in «Mercato concorrenza regole», 1, 2008, pp. 75-86. 22 (FMI) ha elaborato una serie di best practices per i fondi sovrani, in particolare sulla governante, sul risk management e sulla trasparenza. 3.4 Interventi sull’economia reale La crisi, deflagrata nel settore finanziario, ha finito inevitabilmente per incidere anche sull'economia reale, sui comparti industriali e sui servizi. Anche in Europa e negli Stati Uniti sono stati approvati piani di stimolo dell'economia, con l'obiettivo di incentivare i consumi e dare sostegno diretto alle aziende operanti nei settori maggiormente esposti alla crisi. Gli interventi dei governi in favore delle famiglie e dell'industria, piuttosto che concretizzare piani organici di rilancio, si sono configurati prevalentemente come aiuti «a pioggia», riferiti a determinati settori, in particolare quello automobilistico, ovvero mirati a contrastare criticità specifiche, come la necessità di sollevare le famiglie dal peso delle rate dei mutui. Con il d.l. n. 185/2008, convertito in l. n. 2/2009, il governo italiano ha approvato un pacchetto di misure a sostegno di famiglie ed imprese. Le misure consistono in un bonus famiglia one-off tra 200 e 1.000 euro distribuito in base al reddito; uno sconto sulle tariffe di gas ed energia elettrica dallo gennaio 2009 per le famiglie economicamente svantaggiate; il blocco delle tariffe autostradali per il primo semestre del 2009 e lo sconto del 7% sui farmaci «equivalenti». In relazione ai mutui «prima casa» il governo ha deciso che per quelli a tasso variabile, sottoscritti o rinegoziati da persone fisiche fino al 31 ottobre 2008, l'importo della rata non superi, per il 2009, il tetto massimo del 4% grazie all'accollo da parte dello Stato dell'eventuale eccedenza; i mutui, sottoscritti a partire dallo gennaio 2009, sono stati invece indicizzati al tasso di rifinanziamento principale della BCE. In campo fiscale sono stati adottati provvedimenti prevalentemente temporanei, tra i quali la riduzione dell'acconto IRPEF e IRES, la proroga della detassazione di premi, incentivi e salario di produttività e la contabilizzazione dell'IVA per cassa. Gli interventi per incentivare la produzione industriale si basano prevalentemente su politiche di investimenti pubblici, in particolare sulle infrastrutture, che sono però di lunga e difficile realizzazione. In Francia, il governo ha annunciato un piano di rilancio per 20 miliardi di euro: l'intervento si concentra, in particolare, su stimoli per far fronte alle difficoltà del settore automobilistico e per sostenere il settore delle costruzioni. Si destinano finanziamenti per le infrastrutture, ma anche per la ricerca e le università. In Germania, il governo ha previsto lo stanziamento di 23 miliardi per favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese combinato con 23 riduzione delle tasse e rilancio delle infrastrutture. Un aiuto che punta dunque all'aumento della produttività e dell'occupazione, piuttosto che un sostegno diretto alle famiglie. Il 12 gennaio 2009 la coalizione di governo ha raggiunto l’accordo su un nuovo piano biennale di stimolo per l'economia che prevede lo stanziamento di 50 miliardi di euro da investire in scuole, strade, sgravi fiscali, bonus bebè e incentivi per l'acquisto di auto meno inquinanti. È stata inoltre approvata una linea di credito di 100 miliardi di euro per le aziende in difficoltà. Nel Regno Unito è stata adottata una manovra per ridurre l'IVA dal 17, 5 al 15% a partire dallo dicembre fino alla fine del 2009. Dal 2010 è stato previsto un aumento del 5% della tassazione per tutti i contribuenti con un reddito annuo superiore alle 150 mila sterline. Per l'industria è stato deciso un finanziamento a garanzia di crediti a favore del settore automobilistico. Nel febbraio 2009 è stato emanato un piano di sostegno alle famiglie e alle imprese con il quale viene garantito un ausilio alle famiglie a basso reddito nel pagamento degli interessi ipotecari, e viene attuata una politica a sostegno dell'occupazione e di abbattimento del debito. Con riguardo agli incentivi sulla prima casa, si è stabilita la possibilità di acquistare una parte della proprietà di un immobile in comunione con le associazioni istituite ad hoc e di pagare un affitto agevolato per la porzione restante di proprietà, oppure chiedere un prestito ad una cooperativa. Negli Stati Uniti è stata stabilita una riduzione delle imposte sui redditi per i meno abbienti. Il 9 dicembre 2008, date le gravi difficoltà della divisione auto statunitense, era stato predisposto un piano di salvataggio del settore che avrebbe previsto l'erogazione di I5 miliardi di dollari di prestiti, a condizione che le case automobilistiche dimostrassero capacità di ripresa nel medio termine; in cambio, il governo avrebbe ricevuto una partecipazione nelle imprese, sotto forma di equity warrant. La supervisione del salvataggio sarebbe stata affidata ad una commissione speciale, con il compito di vagliare i piani di ristrutturazione ed eventualmente decretare il fallimento delle società. Il 12 dicembre il Senato, però, non ha raggiunto l'intesa sul piano di salvataggio, bloccandone di fatto l'iter. Un nuovo piano, presentato dall'amministrazione Obama il 17 febbraio 2009, ha infine evitato il fallimento delle più importanti case automobilistiche americane. Nel settore degli appalti, il 12 febbraio 2010 gli Stati Uniti hanno concluso con il Canada un accordo che consente alle aziende canadesi di partecipare a progetti di infrastrutture negli Stati Uniti, secondo quanto previsto dall'American Recovery and Reinvestment Act. 24 3.5. Il nuovo «Stato salvatore» Tutti gli interventi pubblici posti in essere dagli Stati Uniti e dai paesi europei si sono caratterizzati per essere finalizzati non già a sostituire la sfera pubblica al mercato, quanto a ripristinarne il corretto funzionamento. L'Emergency Economie Stabilization Act è stato emanato in un contesto di fallimento della regolazione, derivato dalla mancata osservanza del principio di trasparenza nella predisposizione delle regole contabili, da una vigilanza disattenta e da un'eccessiva fiducia riposta nella capacità di autoregolazione del mercato. Con tale programma di salvataggio si sono messi a carico del bilancio pubblico perdite private, si sono statalizzati beni e titoli, si sono nazionalizzate banche. Si pensi, poi, all'acquisizione, da parte dei governi, di azioni proprie degli istituti di credito: nessuna delle manovre emanate correla tale acquisizione all'attribuzione del diritto di voto in seno agli organi sociali. In tutti i paesi, inoltre, è stato posto un freno al potere discrezionale dell'esecutivo: gli Stati Uniti hanno istituito un ufficio ad apposita, elevata competenza tecnica con vari contrappesi in termini di controlli e di obblighi di rendicontazione. Nel Regno Unito è stata costituita un'istituzione trasparente e arm's lenght per gestire i pacchetti azionari ed assicurare che vengano rispettati i diritti dei contribuenti. Con la prima crisi economica globale emerge dunque un nuova tipo di intervento pubblico: lo Stato non si limita alla semplice regolazione del mercato, ma agisce con interventi diretti ad arginare la crisi della liquidità e della fiducia nei confronti degli istituti di credito; d'altra parte, non si spinge fino a dirigere l'economia, ma mette in opera interventi emergenziali per tutelare la stabilità del sistema economico e del risparmio, senza diventare di nuovo a pieno «Stato imprenditore».3 Questo nuovo tipo di intervento pubblico nell'economia si colloca a metà strada tra la figura dello Stato gestore e quella dello Stato regolatore ed è stato denominato «Stato salvatore». La figura dello «Stato salvatore» sembra essere rimedio transitorio ed eccezionale, sebbene i primi commentatori abbiano paventato il rischio di un ritorno ad un nuovo statalismo 4 5qualora venissero disattese la natura temporanea del provvedimento e la separatezza della gestione, nell'ambito 3 V. NAPOLITANO G., Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in “Giornale di diritto amministrativo”, 11, 2008, pp. 1083-1094. 4 V. NAPOLITANO G., op. cit. 5 Cfr., altresì ONADO M., Crisi dei mercati finanziari e intervento statale, in “Corriere giuridico”, 2008, pp. 1633-1634. 25 del soggetto pubblico, in relazione alle attività destinate al salvataggio dei soggetti privati. 4. Un difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali La globalizzazione economica ha posto in luce l'esigenza di creare un sistema di produzione di regole a livello sovranazionale che informi il comportamento degli operatori del mercato a principi uniformemente condivisi, al fine di eliminare così i rischi connessi agli scambi internazionali. Le regole sinora emanate, peraltro, non si sono dimostrate ancora idonee a costituire un utile sistema di riferimento, a causa della debolezza dei regolatori internazionali. Questi ultimi, invero, presentano una struttura organizzativa che si discosta sensibilmente sia da quella generalmente utilizzata nell'ambito degli Stati nazionali, sia anche dai modelli organizzativi elaborati in ambito internazionale e che resta conseguentemente priva di concreti riferimenti normativi. I maggiori profili di incertezza riguardano i profili di accountability di tali regolatori sovranazionali rispetto alla loro organizzazione e alla loro attività, che non viene gestita da organi investiti di legittimazione democratica, nominati in seguito ad un'elezione, ma dai rappresentanti nazionali del settore da regolare. Le regole emanate da tali soggetti si trovano tuttavia sempre più spesso ad esplicare i propri effetti negli ordinamenti statali, sia direttamente, talvolta anche senza l'interposizione del legislatore statale; sia indirettamente, attraverso l'elaborazione di una normativa nazionale ispirata ai principi elaborati a livello sovranazionale. Al fine di delineare il nuovo ruolo assunto dagli organismi internazionali di regolazione nel rapporto con gli Stati è anzitutto opportuno descrivere brevemente cosa debba intendersi per organismi internazionali di regolazione e successivamente cercare di ricostruire il valore delle regole globali. 4.1. Tipologie e caratteristiche degli organismi internazionali di regolazione Nel panorama dei regolatori internazionali, occorre anzitutto distinguere almeno tre categorie di diversa natura: le organizzazioni internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale; le reti transnazionali di regolatori finanziari; i soggetti privati con funzioni di regolazione. 26 La Banca Mondiale e il FMI vennero istituiti in occasione degli accordi di Bretton Woods, al fine di garantire la stabilità del sistema finanziario internazionale che era stata pregiudicata dalla crisi economica del 1929 e dal secondo conflitto mondiale. Alla prima, costituita dall'International Bank for Reconstruction and Development (IBRD) e dall'International Development Association (IDA), per un totale di 186 paesi, venne inizialmente affidato il compito di sostenere lo sviluppo dei paesi che erano usciti devastati dalla guerra, mentre attualmente concede prestiti a basso interesse e sovvenzioni ai paesi in via di sviluppo per operare in una vasta gamma di settori, come istruzione, sanità e gestione delle risorse naturali. Il FMI, al quale aderiscono 186 Stati, ha il compito di promuovere la stabilizzazione delle relazioni monetarie e finanziarie a livello internazionale. Entrambe queste organizzazioni, oltre a prestare direttamente ai paesi membri i mezzi finanziari necessari ad attuare piani di ricostruzione e sviluppo, emanano standards e codici di good practices che dovrebbero orientare il comportamento degli operatori del mercato, oltre che degli Stati membri, al fine di raggiungere convergenti obiettivi di policy. La seconda categoria di soggetti con funzioni di regolazione nell'ambito del mercato finanziario mondiale è rappresentata dalle reti transnazionali, quali, ad esempio, la Basel Committee of Banking Supervision (BCBS), l'International Organization of Securities Commission (IOSCO) e l'International Organization of Insurance Supervisors (IAIS). Tali organismi si caratterizzano per essere costituiti, oltre che da rappresentanti del mercato, anche dai rappresentanti governativi degli Stati che ne fanno parte: si tratta, quindi, di reti di amministrazioni nazionali che agiscono a livello sovranazionale al fine di emanare standards e guidelines destinati agli operatori del mercato. Completano il panorama degli organismi internazionali di regolazione alcuni organismi privati, come l'International Accounting Standards Board (IASB) e l'International Auditing and Assurance Standards Board (IAASB), alla membership dei quali appartengono i rappresentanti di imprese che operano nel settore contabile, oltre alle autorità di regolazione nazionali. L'attività di produzione di standards e guidelines di tali organismi privati si caratterizza per l'alta qualità delle regole e per l'ampia condivisione delle stesse, essendo il frutto dell'elevata expertise tecnica degli stessi destinatari della regolazione, che partecipano al procedimento di elaborazione. Tutti i soggetti menzionati, poi, fanno parte di organismi «ibridi», come il Financial Stability Forum (FSF), che ha emanato, nello svolgimento della sua funzione di coordinamento delle varie regole 27 prodotte in ambito finanziario, un Compendium of Standards contenente i dodici key standards da rispettare quali codici di buona pratica nell'ambito del settore finanziario. Tale organizzazione agisce, dunque, attraverso l'emanazione di raccomandazioni indirizzate ad una vasta gamma di soggetti, pubblici e privati, che operano nel mercato, tra cui banche, imprese di assicurazioni, agenzie di rating, revisori di conti, società di vigilanza, banche centrali ed organizzazioni internazionali. Ma quale valore assumono gli standard, le raccomandazioni, le linee guida? Quali effetti producono all'interno dei singoli Stati? 4.2. Le regole globali Nell'ottobre 2008 il FSF ha pubblicato un documento denominato Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market and Institutional Resilience, con il quale l'organismo ha sottoposto ai ministri delle Finanze del G20 e ai governatori delle banche centrali una serie di raccomandazioni per rafforzare il sistema finanziario attuale. I principi contenuti in tale documento sono ispirati alla creazione di un sistema finanziario nel quale sia rafforzata la vigilanza prudenziale e dove la trasparenza consenta una maggiore identificazione e gestione dei rischi. Le raccomandazioni hanno sollecitato un intervento in cinque settori: rafforzamento di capitale, liquidità e gestione del rischio nel sistema finanziario; miglioramento della trasparenza; modifica del ruolo delle agenzie di rating; rafforzamento delle risposte delle autorità ai rischi; realizzazione di un piano di azione per affrontare la crisi del sistema finanziario. A tal fine, il FSF ha richiesto la cooperazione di altre istituzioni internazionali che svolgono funzioni di regolazione. Con riguardo al primo obiettivo, relativo al rafforzamento del capitale, è stata sollecitata alla BCBS l'emanazione di standard sulla gestione della liquidità e sull'incremento della vigilanza sulla liquidità su gruppi di banche straniere. In risposta a tale raccomandazione, la BCBS ha pubblicato i Principles for Sound Liquidit» Risk Management & Supervision. Sulla base dei principi contenuti nelle raccomandazioni del FSF, alcune grandi istituzioni finanziarie hanno incrementato gli obblighi di trasparenza ed è stata, inoltre, richiesta all'IASB l'approvazione di un documento nel quale siano evidenziati i relativi rischi in riferimento alle attività finanziarie. Quanto al cambiamento del ruolo delle agenzie di rating, la IOSCO, su sollecitazione del FSF, ha modificato il Code of Conduct Fundamentals for Credit Rating Agencies. 28 Al fine di rafforzare la risposta delle autorità di vigilanza ai rischi del mercato, il FSF ha inoltre proposto la creazione di collegi di vigilanza per ciascuna delle istituzioni finanziarie globali, intensificando così la cooperazione e lo scambio di informazioni per questioni transfrontaliere. Infine, per far fronte alla crisi finanziaria, è stata sollecitata l'adozione, da parte delle banche centrali, di misure straordinarie per la fornitura di liquidità ai mercati. Come si è visto, tali misure si sono limitate ad orientare le decisioni degli Stati, delle imprese e delle istituzioni internazionali verso un comportamento comune, finalizzato ad arginare gli effetti della crisi economica; le raccomandazioni del FSF, in assenza di una legittimazione democratica dell'organizzazione, non hanno, infatti, alcuna forza cogente. Allo stesso modo, gli standard emanati dalla BCBS, dalla IOSCO e dalla IASB acquistano valore precettivo solo nel momento in cui i principi in essi contenuti vengono recepiti nell'ambito di atti normativi, quali, ad esempio, i regolamenti comunitari. Viceversa, se ciò non dovesse avvenire, la mancata adesione a tali regole non determinerebbe alcuna conseguenza giuridica; semmai, la sanzione per l'autorità nazionale che non seguisse quei principi sarebbe applicata dal mercato stesso, attraverso la manifestazione della sfiducia degli investitori. Gli standard, in definitiva, sono semplici regole di buona condotta che assumono, di volta in volta, la forma dei principles, molto generali e flessibili, ovvero delle methodologies o guidelines, più dettagliati e specifici. La particolare caratteristica di queste regole, che rientrano nella più ampia categoria della c.d. soft law, è quella di essere destinate a convincere, piuttosto che a costringere6 giacché, a differenza di quanto accade per la legge, l'adesione ad esse ha carattere volontario. La loro approvazione, inoltre, è il frutto di un procedimento al quale sono ammessi a partecipare non solo i componenti dell'organismo di regolazione, ma anche i soggetti che saranno successivamente tenuti ad applicare le regole stesse. A loro volta, i membri di tali organismi sono spesso costituiti dalle autorità nazionali di regolazione del settore finanziario; in tal modo, le istanze emerse a livello nazionale sono adeguatamente rappresentate sul piano sovranazionale, così come 1'apporto dei destinatari delle regole conferisce alle stesse un'elevata qualità tecnica, oltre che la massima condivisione. 6 BRUNNSON N., JACOBBSON B., A World of Standards, Oxford University Press, Oxford, 2000. 29 Un sistema di standard richiede, infatti, per essere efficace, una diffusa adesione da parte dei destinatari, ma anche la predisposizione di un meccanismo di enforcement che ne consenta di verificare expost 1'effettiva applicazione e che preveda l'irrogazione di una sanzione nei confronti del soggetto eventualmente inadempiente. Sotto quest'ultimo profilo, con specifico riguardo al Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market and Institutional Resilience, è stato predisposto un processo ben definito per il follow-up, con la fissazione di scadenze e di responsabilità correlate al mancato rispetto delle prime. Approvando la relazione del FSF, il G7 nell'aprile 2008 ha individuato una serie di priorità da realizzare entro i primi cento giorni, tali raccomandazioni sono state tutte affrontate per tempo, sebbene il lavoro debba ancora essere completato da parte delle autorità sia nazionali che internazionali, così come da alcuni soggetti privati. 4.3. Il nuovo rapporto tra Stato e organismi internazionali L'azione degli organismi internazionali non sempre si è rivelata efficace, proprio in considerazione della natura volontaria delle regole prodotte. Ad esempio, per quanto riguarda il libero commercio, nel § 13 della Dichiarazione del 15 novembre 2008 resa nell'ambito del G20, è stata sollecitata l'importanza di rejecting protetionism e un forte impegno ad evitare di erigere nuove barriere agli investimenti o al commercio di beni e servizi. Analogamente, il FMI ha invitato i paesi del G20 ad adottare misure più forti per combattere la corrosiva crisi economica e finanziaria globale, scoraggiando soluzioni protezionistiche e sostenendo che l'aumento delle barriere alle importazioni e alle esportazioni comprometterebbe le prospettive di una ripresa globale. Nonostante tali statuizioni di principio, gli interventi realizzati dagli Stati si sono fondati proprio sul principio del protezionismo. In ogni caso, l'impatto sistemico degli obiettivi fissati dal G20 e dal FMI dipenderà dall'effettivo esito dei negoziati in corso nel settore interessato tra gli Stati e gli organismi di regolamentazione. Sotto il profilo della cooperazione tra Stati, nella valutazione del FMI le azioni intraprese dai governi non sono state finora sufficienti ad arrestare l'evoluzione della crisi: «More aggressive and concerted policy actions are urgently needed to resolve the crisis and establish a durable turnaround in global activity». 30 Per essere efficaci, le politiche dei singoli Stati devono quindi essere coordinate a livello internazionale, in modo da limitare le difficoltà derivanti dalla divergenza delle regole. La cooperazione internazionale è necessaria, in particolare, al fine di evitare distorsioni della concorrenza e il fenomeno del c.d. goldplating, che consiste nella tendenza degli Stati a recepire la disciplina stabilita dagli organismi sovranazionali di regolazione inserendo disposizioni aggiuntive e pregiudicandone, dunque, l'armonizzazione. A tale riguardo, si è rivelato decisivo l'intervento del FSF, che ha costituito il veicolo di coordinamento di queste azioni. La membership del FSF, composta da soggetti che: rispecchiano un variegato equilibrio geografico, ha infatti consentito la circolazione di tutte le informazioni necessarie ad apprestare idonei interventi anticrisi; anzi, è stato sollecitato un ampliamento della stessa membership per consentire la rapida diffusione di tali strumenti di intervento. Sotto il profilo della cooperazione, quindi, gli organismi internazionali svolgono un ruolo di mediazione tra i singoli Stati, creando, in particolare, dei forum di discussione ed agevolando, così, la circolazione delle informazioni. Anche in questo caso, tuttavia, il dialogo tra le istituzioni è semplicemente suggerito, ma non imposto, con la conseguenza che la valutazione dell'opportunità di cooperare con gli altri ordinamenti per fronteggiare la crisi economica resta, di fatto, una valutazione affidata ai singoli Stati. Nonostante quello appena descritto sia un processo appena iniziato, si possono già tracciare delle possibili linee evolutive nell'ambito del rapporto tra Stato e organismi internazionali di regolazione. Attraverso la partecipazione agli organismi internazionali di regolazione di singole amministrazioni statali o substatali, o di enti di autoregolazione nel settore finanziario, la disciplina giuridica di interi settori di importanza nevralgica per lo sviluppo economico dei singoli paesi è trasferita dal tradizionale circuito politico-legislativo ad un differente circuito istituzionale, in cui le amministrazioni svolgono, all'unisono; funzioni informali di rappresentanza degli interessi dei singoli Stati in sede trasnazionale, funzioni regolative generali mediante partecipazione alle decisioni dell'organizzazione, funzioni regolative di dettaglio mediante l'implementazione degli standard e principi «globali» a livello nazionale, funzioni amministrative mediante l'applicazione delle regole così prodotte ai singoli casi riscontrati nella prassi, in materie caratterizzate da particolare tecnicismo. Il ruolo del legislatore nazionale sembrerebbe quindi marginalizzato, mentre può venir in maggior rilievo, alla luce di quanto evidenziato in 31 precedenza, il ruolo del legislatore comunitario, afferente ad un ulteriore circuito istituzionale. Si assisterebbe non tanto ad un'erosione, quanto ad una trasformazione della sovranità dei singoli Stati, in forza della quale le agenzie indipendenti dei singoli Stati dovrebbero internazionalizzarsi per creare un governo globale dei mercati finanziari. Può allora notarsi come, in questo nuovo contesto istituzionale, sia necessario rimeditare la stessa disciplina dell'attività amministrativa interna e lo stesso regime di responsabilità degli organi titolari di funzioni decisorie in ordine alla partecipazione agli organismi internazionali di regolazione e all'elaborazione e attuazione dei principi globali del mercato finanziario, garantendo, anche a livello nazionale, la maggior trasparenza ed accountability dell'operato delle singole amministrazioni (c.d. internal accountability). 5. Il nuovo rapporto tra potere politico e tecnici Dall'emergenza economica è derivato un rafforzamento delle prerogative del potere esecutivo a scapito degli altri poteri dello Stato: tutte le competenze decisionali, infatti, sono state attribuite direttamente all'organo politico posto al vertice dell'amministrazione, mentre sono stati abbandonati gli apporti dei tecnici. L'Emergency Economie Stabilization Act americano, tra i vari poteri affidati al segretario del Tesoro, ha previsto quello di nominare i funzionari e gli impiegati preposti all'attuazione del Troubled Asset Relief Program, di stipulare contratti e di designare istituzioni finanziarie quali agenti del governo federale ai fini dello svolgimento dei compiti richiesti dal Programma. Egli può, inoltre, avvalersi di tutti gli strumenti finanziari utili ad acquistare, detenere e vendere i titoli e le relative obbligazioni, nonché emanare regole, raccomandazioni e istruzioni. La riserva della competenza in favore di organi politici e amministrativi può essere giustificata dalla circostanza secondo cui l'esercizio della funzione di salvataggio comporta la perdita di un elevato ammontare di denaro pubblico, ma potrebbe anche fondarsi sul comportamento opportunistico degli organi elettivi che cerchino di massimizzare la propria sfera di influenza. Altro elemento che porta a rafforzare il potere degli organi politici è l'ampio margine di discrezionalità che necessariamente deve essere affidata loro per fronteggiare un contesto, come quello economico-finanziario, fortemente mutevole ed imprevedibile. 32 Nel testo di legge approvato dal Congresso degli Stati Uniti, tuttavia, sono stati rigidamente definiti i vincoli procedurali cui è sottoposta l'attuazione del programma. Il segretario è tenuto a indicare le linee guida del suo intervento, che comunque devono essere definite a priori; inoltre, devono essere adottate regole e procedure volte a prevenire conflitti di interesse e ad assumere tutte le azioni necessarie a impedire l'ingiusto arricchimento da parte delle istituzioni finanziarie partecipanti al programma. È stato previsto, infine, un articolato sistema di controlli, affidati ad una pluralità di organi diversi, tra cui il Financial Stability Oversight Board, che deve assicurare la conformità delle iniziative assunte dal segretario agli obiettivi perseguiti dalla legge, agli interessi economici degli Stati Uniti e a quelli dei contribuenti; il Congressional Oversight Panel, organo temporaneo che ha il compito di monitorare l'andamento dei mercati finanziarie la funzionalità del sistema regolatorio; il Comptroller General degli Stati Uniti, chiamato a controllare tutte le attività e le operazioni svolte nell'ambito del programma anche da parte dei soggetti privati e dei veicoli finanziari in esso coinvolti; lo Special Inspector General, nominato dal presidente, appositamente istituito per vigilare sull'attuazione del programma. Le decisioni assunte del segretario in attuazione della legge sono, inoltre, sottoposte a sindacato giurisdizionale. Allo stesso tempo, però, considerando la delicatezza delle scelte da compiere, l'entità delle risorse pubbliche coinvolte, la profondità degli effetti redistributivi generati, è parso necessario costruire un'adeguata infrastruttura giuridico-istituzionale del governo dell'emergenza, che coinvolge tutti i poteri dello Stato. Il sistema così costruito, nonostante taluni limiti, è dunque destinato ad accrescere la legittimazione democratica, la trasparenza e l'accountability dello «Stato salvatore». 6. Le proposte di riforma Di fronte alla prima grande crisi economica globale gli Stati e gli organismi internazionali di regolazione hanno emanato misure finalizzate a perseguire due obiettivi, l'uno di medio e l'altro di lungo periodo: il rilancio della crescita dell'economia mondiale e la realizzazione di un assetto economico che impedisca il ripetersi di nuove crisi come questa. Al riguardo, è opportuno verificare se tali misure siano state adottate sulla base di strategie condivise o se, viceversa, ciascuno Stato abbia seguito una propria politica di intervento. Se è vero che gli effetti della crisi si sono rapidamente manifestati nei vari paesi per via della globalizzazione, sarebbe infatti stato auspicabile, 33 considerata la vasta estensione del fenomeno, che le reazioni degli Stati fossero state convergenti. Una ulteriore problematica riguarda la strategia più idonea a scongiurare il pericolo di una nuova crisi e se, in particolare, sia necessario adottare strumenti di politica economica o rafforzare la modalità di produzione delle regole. Quanto al rilancio dell'economia mondiale, numerose sono state le sollecitazioni all'adozione di politiche concertate a livello internazionale e sovranazionale: 1'11 ottobre 2008 i ministri economici dei paesi del G7 hanno delineato una comune strategia di regole ed interventi. Sempre nello stesso mese, il FSF ha emanato raccomandazioni con le quali venivano sollecitati interventi finalizzati a rafforzare la trasparenza e la vigilanza prudenziale, nonché la realizzazione di un piano di azione per affrontare la crisi del sistema finanziario; tale piano avrebbe comportato l'adozione, da parte delle banche centrali, di misure straordinarie per la fornitura di liquidità ai mercati. Sulla base di queste indicazioni, i paesi europei e gli Stati Uniti hanno predisposto piani di risanamento dell'economia apparentemente diversi tra loro: mentre i primi si sono ispirati ad una logica proprietaria, attraverso le operazioni di acquisizione diretta delle banche fallite, l'amministrazione Obama ha adottato una politica garantista, invocando l'ausilio di investitori privati, anche esteri, pur sottoponendo ciascun intervento al rigido controllo delle procedure statali. Tali interventi, d'altra parte, sono stati tutti finalizzati all'immissione di liquidità nel mercato finanziario, conformemente alle sollecitazioni degli organismi internazionali. Ma il merito di aver voluto privilegiare politiche condivise di reazione alla crisi deve essere attribuito agli stessi Stati e non agli organismi internazionali che nonostante la loro attiva partecipazione alla risoluzione della problematica, non potevano che emanare semplici linee guida prive di forza cogente. La questione ancora aperta in riferimento al ruolo di tali organizzazioni riguarda infatti non tanto la sfiducia delle istituzioni nazionali nei confronti di quelle sovranazionali, quanto piuttosto l'assenza di adeguata legittimazione di queste ultime e conseguentemente di poteri incisivi. Al riguardo, è stata più volte sollecitata una profonda riforma del FMI e della Banca Mondiale, nonché una maggiore integrazione della vigilanza finanziaria. Con il documento Strengthening the Financial System, emanato al termine del vertice tenutosi a Londra il 2 aprile 2009, i paesi del G20 hanno deliberato l'istituzione di un nuovo organismo di stabilità finanziaria, il Financial Stability Board (FSB), del quale facciano parte tutti i paesi del 34 G20, gli attuali membri del FSF, la Spagna e la Commissione europea, e che erediti le competenze del FSF, al fine di predisporre le azioni necessarie ad affrontare i rischi finanziari. Nello stesso documento, si è auspicata una nuova configurazione dei sistemi di regolamentazione in termini di tutela della trasparenza e, conseguentemente, degli investitori, attraverso l'emanazione di standard internazionali seguiti e condivisi; in particolare, è apparsa necessaria l'estensione della regolamentazione e della vigilanza su tutte le istituzioni, gli strumenti finanziari e i mercati. Il rafforzamento delle istituzioni finanziarie globali deve inoltre essere finalizzato al sostegno dei paesi in via di sviluppo, che hanno sensibilmente contribuito allo sviluppo dell'economia mondiale recente. È stata, infine, sollecitata la revisione della struttura organizzativa delle istituzioni internazionali e, in particolare, la revisione della governance, nonché l'individuazione di principi finalizzati al sostegno delle attività economiche. Se tali riforme incidessero sulla governance e sulla vigilanza, l'azione degli organismi internazionali apparirebbe più efficace: sotto il primo profilo, in quanto tali organismi ne trarrebbero la necessaria legittimazione; sotto il secondo profilo, poiché il controllo sul corretto adempimento delle regole emanate ne potenzierebbe la forza cogente. Quanto all'obiettivo di lungo periodo, vale a dire la predisposizione di strategie che impediscano il ripetersi di nuove crisi finanziarie globali, l'azione degli Stati si è soprattutto concentrata sulla riforma della regolazione. Nel giugno 2009 l'amministrazione Obama ha presentato un piano di riforma della regolamentazione finanziaria, la Financial Regulatory Reform. A New Foundation: Rebuilding Financial Supervision and Regulation, finalizzata ad impedire il ripetersi di tre errori che hanno agevolato lo scoppio della crisi. In primo luogo, per evitare di trascurare il rischio sistemico, concentrandosi sulla stabilità di singole istituzioni finanziarie, il presidente americano ha proposto l'istituzione di un organismo di coordinamento tra le varie agenzie di regolamentazione e il conferimento alla Federal Reserve di un ampio mandato di supervisione e regolamentazione su tutte le istituzioni finanziarie sufficientemente grandi. In secondo luogo, al fine di impedire che il fallimento di grandi istituzioni finanziarie possa influenzare l'andamento dell'intera economia, si sono attribuiti alle autorità poteri straordinari per difendere la stabilità sistemica. Infine, per ridurre i conflitti di interesse associati alle agenzie di rating, si è stabilito che chi eroga un prestito sia costretto a tenerne in 35 portafoglio una quota e debba osservare più stringenti obblighi di trasparenza. Anche il Consiglio dei capi di Stato riuniti a Bruxelles il 18 e 19 giugno 2009 ha approvato il progetto di istituire un nuovo organo, lo European Systemic Risk Board, con compiti analoghi a quelli del Consiglio istituito negli Stati Uniti e di emanare raccomandazioni destinate alle autorità nazionali di supervisione per contenere il rischio sistemico. In America come in Europa, dunque, si avverte il bisogno generalizzato di una riforma della regolamentazione. A differenza di quanto previsto dal Piano Obama, che attribuisce ad un'unica agenzia il compito di supervisione e di prevenzione del rischio sistemico, in Europa vi sarebbero però ventisette agenzie con gli stessi poteri e nessuna autorità con il compito di vigilare sul corretto adempimento dei compiti loro affidati. Sarebbe, quindi, opportuno istituire un'autorità europea centrale con le stesse funzioni di quella creata dall'amministrazione americana. Concludendo, provando a tracciare un primo e provvisorio bilancio degli effetti prodotti dalla crisi economica globale, si può affermare che gli Stati ne escono profondamente trasformati sotto un duplice profilo. Cambia, da una parte, la modalità di intervento della sfera pubblica nell'economia: lo Stato non rivendica il potere di governare il mercato e adotta una politica di emergenza volta a ripristinarne il corretto funzionamento. Cambia anche la prospettiva degli Stati nell'adozione di misure a sostegno dell'economia: non più limitata ai confini nazionali, ma influenzata dalle linee guida dettate dagli organismi sovranazionali. Per far fronte alle esigenze di un mercato globalizzato, emerge, infine, l'esigenza di creare un sistema di regole a livello internazionale emanate da organismi investiti di adeguata legittimazione.7 7. Post scriptum Quanto alla situazione venutasi a determinare, specie in Europa, a seguito dello scoppio violento di operazioni speculative sui mercati, dovute all’insostenibilità di debiti pubblici oramai imbarazzanti e al corrispondente crollo di fiducia degli operatori finanziari, gli stati membri dell’Eurozona e, più in generale della UE, hanno, come noto, concordato, a fine 2011, una politica di estremo rigore, prevedendo, non dopo pochi contrasti e con il sostegno deterninante della BCE, una trattato intergovernativo volto ad 7 TORCHIA L., Il controllo pubblico della finanza privata, CEDAM, Padova, 1992. 36 accomunarne le politiche fiscali, ponendo, in prospettiva, le basi perché si addivenga alla emissione dei c.d eurobond. Pur senza potersi dilungare oltre sull’argomento, è il caso di rimarcare che il rapporto tra politici e tecnici, di cui si è sopra detto, pare essersi decisamente capovolto (si pensi ai casi della Grecia e della stessa Italia) e che la legittimazione democratica “piena” ha ceduto il passo al principio di competenza tecnica, per cui da uno “ Stato salvatore” si è rapidamente passati, almeno in Europa, ad uno “Stato da salvare”dal default (e, con esso, il sistema creditizio e l’intera economia dei paesi in difficoltà a causa del pericolo del credit crunch). Questo dato rappresenta indubbiamente una evidenza difficilmente controvertibile circa la rapidità ed imprevedibilità della crisi in atto. Quanto fin qui precisato, sia pure con ampi margini di approssimazione, può rappresentare una base di partenza valida per aggredire il mondo del diritto pubblico, nella prospettiva di tracciare un quadro generale, e, per certi versi, complementare rispetto alla corsa frenetica dell’economia e della finanza. Nel capitolo, che segue, dunque, si procederà ad uno scrutinio attento del concetto di legalità, inevitabilmente oggetto di parabole interpretative nuove, e, per certi versi non al riparo da incognite, anche in considerazione dell’innegabile interconnessione economia-diritto, posta ecletticamente alla base della presente trattazione. 37 38 CAPITOLO 2 AMMINISTRAZIONE PUBBLICA, PRINCIPICIO DI LEGALITÀ E REGOLE DI DIRITTO 1. Introduzione. - 1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo. - 1.2. I fattori di cambiamento. - 1.3. Problemi e questioni. - 2. Principio di legalità e poteri impliciti. - 3. La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale. - 4. La legalità comunitaria. 5. La «rule of law» globale. - 6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola della legalità. - 7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato. - 8. Legalità e legittimità: vizi formali e vizi sostanziali. - 9. I pericoli di una «caduta» della legalità amministrativa. 1. Introduzione 1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo Il principio di legalità è questione da sempre presente nella riflessione del e sul diritto amministrativo, per la sua stretta connessione con due caratteri essenziali degli ordinamenti moderni: la divisione dei poteri e la garanzia delle libertà individuali. Il principio di legalità è emerso, infatti, originariamente quale strumento di limitazione della sovranità. Il potere-sovrano non può considerarsi sciolto dalla legge e, anzi, può svolgere solo i compiti attribuiti dalla legge e solo per i fini che la legge indica; la prima ed essenziale limitazione del potere consiste, dunque, nel renderlo tipico e, quindi, prevedibile ex ante e controllabile ex post. La tipizzazione del potere investe sia le forme del suo conferimento, in quanto occorre una norma primaria per attribuire un potere amministrativo, sia i modi del suo esercizio, in quanto il provvedimento - e oggi anche il procedimento - non possono essere innominati e non possono essere liberamente configurati, tanto a struttura quanto ad effetti, dall’amministrazione. Lo «spazio» amministrativo è, quindi, sempre eterodeterminato, a differenza di quanto accade per 1’autonomia privata, che non può travalicare i limiti di legge, ma entro quei limiti dispone di un significativo margine di autodeterminazione (il negozio e l’illecito si caratterizzano per l’atipicità, mentre il provvedimento e il procedimento amministrativi sono tipici e nominati). Il principio di legalità opera nei confronti dell’amministrazione allo stesso tempo come limite e come indirizzo. Un potere privo di base normativa o esercitato oltre i confini posti dalla norma sarà illegittimo e, di 39 converso, ogni esercizio di potere amministrativo potrà essere oggetto di un controllo volto ad accertarne la conformità alla norma che regola il potere stesso. Emerge qui una prima aporia della configurazione del principio di legalità quale ricostruita e tramandata dalla dottrina meno recente. La necessità di ricondurre il potere amministrativo - a lungo considerato parte della sovranità e, come questa, immune da limiti - sotto il dominio di una regola ordinatrice ha fatto prevalere per un certo periodo l’impostazione positivistica, secondo la quale la regola ordinatrice deve essere identificata con la legge e la legge deve essere, a sua volta, identificata con la legge dello Stato, ad esclusione di altre possibili fonti di diritto o canoni di azione. L’amministrazione deve, di conseguenza, obbedire al comando legislativo e il principio di legalità finisce per essere largamente sovrapposto alla riserva di legge. Di qui anche la diffusione di una concezione meccanicistica dell’amministrazione, come mera esecuzione della legge, i cui limiti sono stati, però, rapidamente individuati dalla dottrina più recente. La riduzione dell’amministrazione ad esecuzione comportava, infatti, per un verso la necessità di caricare la legge di un compito immenso ed impossibile: prevedere e disciplinare tutto ciò che l’amministrazione potrebbe e dovrebbe fare in ogni possibile circostanza. Si doveva, per altro verso, ignorare la realtà dell’ordinamento vivente, nel quale il fenomeno amministrativo è sempre stato ben più ricco e complesso di quanto la sola analisi del dato normativo consentisse di vedere e riconoscere. La fissità della ricostruzione in termini meramente positivistici è stata corretta, così, mediante la riflessione su quelle che il maggior amministrativista del secolo scorso espressamente qualificò come valvole di sicurezza: la discrezionalità e le ordinanze di necessità e di urgenza.8 In ambedue i casi la norma è necessaria, ma non sufficiente a governare interamente ed esaurientemente l’attività amministrativa, perché la tipizzazione di un potere può definirne il fondamento, il fine e, in certa misura, le modalità di esercizio, ma non può invece predeterminare tutti i possibili contesti entro i quali quel potere verrà attivato e, quindi, le interazioni con quei contesti. Si spiega così anche perché il sindacato giurisdizionale sull’amministrazione abbia riconosciuto obblighi e limiti - si pensi all’obbligo di motivazione o al dovere di imparzialità - ben prima che di essi fosse data enunciazione legislativa. 8 GIANNINI M.S., Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 81-83, 525-541, 1259-1262. 40 La legalità amministrativa si è, però, andata via via articolando e complicando sempre di più negli ordinamenti contemporanei, tanto da rendere il principio di legalità una formula insufficiente a dare conto delle intricate relazioni fra amministrazione e regole ordinatrici della sua azione, della sua organizzazione e del suo ruolo. 1.2. I fattori di cambiamento I fattori di cambiamento sono molteplici e aprono nuovi temi e problemi di studio e di analisi. È significativamente mutato, innanzitutto, il ruolo della legge, tanto sotto il profilo della funzione, quanto sotto il profilo della collocazione. Sotto il primo profilo, è diventato evidente un processo di trasformazione della legge da meccanismo di selezione degli interessi meritevoli e di posizione di regole generali ed astratte in strumento di riconoscimento di una serie potenzialmente indefinita di diritti ed interessi spesso enunciati direttamente dalle carte costituzionali o, al contrario, concretamente configurati dalla giurisprudenza - e di posizione di regole speciali, volte a disciplinare, nel migliore dei casi, microsistemi9. Se la legge non seleziona un numero limitato di interessi meritevoli, ma riconosce una pluralità di interessi, potenzialmente fra loro confliggenti l’occupazione e l’ambiente, lo sviluppo industriale e la salute, la concorrenza e la tutela di produzioni tradizionali, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali -, la scelta su quale interesse debba prevalere in concreto si sposta in capo all’amministrazione, la quale dà sì attuazione alla legge, ma con un margine di discrezionalità sempre più ampio e sempre più difficile da controllare mediante il mero richiamo alla legge stessa. Sotto il secondo profilo, la legge ha ormai da tempo perso il monopolio di capacità ordinatrice e regolatrice dell’amministrazione e dei diritti ed interessi coni quali quest’ultima interagisce. Accanto e sopra alla legge ci sono le norme costituzionali, poste sia con le costituzioni nazionali sia con le carte costituzionali sovranazionali, come ad esempio la CEDU, ormai frequentemente richiamata anche dai giudici nazionali. L’amministrazione deve quindi sì rispettare ed attuare la legge, ma prima ancora deve rispettare la Costituzione: se la legge è di dubbia costituzionalità, può essere essa stessa sottoposta al sindacato del giudice delle leggi. Alla legalità costituzionale si è poi aggiunta, nel nostro ordinamento, la legalità comunitaria. Il processo di integrazione europea ha prodotto una 9 Cfr. IRTI N., L'età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979. 41 soggezione - se pur non automatica, né integrale - degli ordinamenti nazionali all’ordinamento comunitario, mediante un dialogo fitto fra le diverse giurisdizioni e un grado sempre più stretto di interpenetrazione tra fonti nazionali e fonti comunitarie, che ha assunto ormai carattere di generalità. Lo stesso fenomeno, sia pure con caratteristiche attenuate e con gradi diversi di intensità a seconda dei settori, si va verificando nei rapporti fra diritto nazionale e diritto globale, con una moltiplicazione di sedi di decisione e di sedi di controllo che influiscono sulla determinazione della regola alla quale di volta in volta l’amministrazione deve attenersi. Alla legalità ordinaria si aggiungono, così, la legalità costituzionale, la legalità comunitaria e la legalità globale, che possono anche entrare, a volte, in contraddizione o contrasto fra loro e che richiedono un’amministrazione capace di trarre la regola di diritto applicabile al caso concreto da una pluralità di fonti e capace altresì di interagire con amministrazioni e giudici di altri ordinamenti. Il mutato ruolo della legge, come la sua diversa collocazione nell’ordinamento, hanno l’effetto di ampliare il ruolo dell’amministrazione ben oltre l’esecuzione della regola, in quanto la regola va prima di tutto individuata e ricostruita e poi le va data attuazione tenendo conto del contesto e delle circostanze di specie. Anche per questo motivo si sono accentuate le esigenze di garanzia dei privati, che hanno trovato soluzione con lo sviluppo delle garanzie procedimentali. I diritti di partecipazione, di accesso, di contraddittorio, di essere uditi, sono ormai parte integrante del procedimento amministrativo e costituiscono elementi imprescindibili della legittimità dell’azione e della decisione amministrativa. A fronte di una dequotazione della legalità intesa in senso tradizionale - cioè quella che può desumersi dalla mera esistenza di una norma di legge -, si afferma una legalità di tipo nuovo, che poggia le sue basi nelle garanzie procedimentali e, quindi, nel dialogo diretto fra diritti ed interessi e amministrazione pubblica. Il riferimento al principio di legalità diviene allora insufficiente, perché la legalità piena ed effettiva dell’amministrazione richiede il rispetto di tanti e articolati principi e canoni di azione: l’imparzialità, la ragionevolezza, il contraddittorio, la proporzionalità, la trasparenza. Se si vogliono considerare questi principi e canoni nel loro complesso, si può dire che l’amministrazione deve obbedire e dare attuazione a regole di diritto - la formula esiste anche nell’ordinamento francese (règle de droit) e nell’ordinamento inglese (rule of law), seppure con valenza diversa piuttosto che al solo principio di legalità. Di qui l’emersione di nuovi profili problematici, o la nuova considerazione di temi tradizionali, enunciati brevemente di seguito e poi esaminati con l’illustrazione di casi concreti, in questo capitolo. 42 1.3. Problemi e questioni Un primo problema è relativo alla corrispondenza fra ampiezza del ruolo assunto dall’amministrazione e ampiezza dei poteri ad essa conferiti. Si può ritenere che, anche ove la norma di legge non lo preveda espressamente, l’amministrazione disponga di poteri strumentali al compito assegnatole - ad esempio, poteri di vigilanza e di controllo, o poteri di regolazione di dettaglio - necessari per il pieno ed effettivo adempimento di quel compito? La questione dei poteri impliciti si ripropone, così, nell’ordinamento vigente e ad essa si collega quella del rapporto fra legalità procedurale e legalità sostanziale: l’articolazione del procedimento «compensa» la mancata o solo parziale tipizzazione del potere da parte della norma? La tendenza a qualificare la legalità mediante l’apposizione di aggettivi emerge anche con riferimento al regime dei vizi amministrativi che, dopo la novella del 2005 alla legge sul procedimento, è diversamente configurato a seconda che si tratti, di una violazione alla legalità formale o alla legalità sostanziale. Si è visto in precedenza come la legalità dell’amministrazione abbia ormai natura plurale: può accadere, allora, che vi sia contraddizione, ad esempio, fra la legalità dell’ordinamento interno e la legalità comunitaria? E quali gli strumenti per risolvere questo contrasto? E, ancora: la stessa legalità vale sia per l’attività autoritativa, sia per l’attività consensuale dell’amministrazione, o occorre distinguere il tipo e la natura delle regole di diritto applicabili nei due casi ? Cosa accade, infine, quando è la legge a travestirsi da amministrazione e decisioni puntuali vengono prese non con provvedimenti, ma con norme primarie? 2. Principio di legalità e poteri impliciti L’amministrazione pubblica a volte si avvale di poteri che non risultano in termini espressi da puntuali disposizioni normative, ma vengono dedotti in modo implicito dalle norme che ne regolano l’attività. Il ricorso a poteri impliciti è una pratica ben conosciuta dalla scienza del diritto amministrativo: essa sembra mettere in crisi il principio di legalità, ma sul punto non si registra uniformità di vedute. Più si ritiene che la legge debba integralmente regolare i modi di estrinsecazione del potere amministrativo, più ricorrere a poteri non espressamente attribuiti dalle norme diviene un comportamento censurabile perché chiaramente vietato. Viceversa, se si reputa che sia sufficiente una base legislativa ampia all’operato dell’amministrazione, tale da consentire al soggetto pubblico di agire per perseguire nel complesso gli interessi 43 indicati dagli organi legislativi, le manifestazioni implicite del potere sono allora cautamente permesse. Occorre subito precisare che la questione dei poteri impliciti rileva principalmente nelle ipotesi in cui l’azione amministrativa consista nell’esercizio di un potere, mentre rileva meno nei casi in cui la stessa sia esercizio di autonomia privata, perché quando l’amministrazione decide di far ricorso ad un contratto è una sua facoltà, come per qualunque privato, utilizzare moduli negoziali innominati, non previsti dal codice né tipizzati in un testo di legge, senza che ciò incida sulla legittimità del suo operato. Non devono essere confusi, inoltre, i poteri impliciti con gli atti impliciti, che non sono affatto ostacolati dall’ordinamento. Con quest’ultima espressione, infatti, si intendono quei provvedimenti amministrativi che producono effetti ulteriori rispetto a quanto indicato nell’atto formale dell’autorità, di solito per espressa scelta del legislatore. Per fare un esempio, si pensi al decreto di finanziamento di un’amministrazione regionale che reca con sé la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da realizzare; sebbene il contenuto tipizzato di tale decisione provvedimentale consista nel mettere a disposizione risorse economiche per la costruzione di un’opera pubblica, in essa è insita inoltre una misura aggiuntiva, la dichiarazione di pubblica utilità, che è sottintesa a quanto statuito nell’atto. Il tema delle competenze non scritte trova riscontri anche in altri ordinamenti con lievi differenze: in Germania con l’espressione ungeschriebene Kompetenzen si indicano i poteri previsti dall’ordinamento, ma non rigorosamente assegnati ad un preciso organo amministrativo. Negli Stati Uniti con l’espressione implied powers si fa riferimento ai poteri impliciti in senso proprio, ossia poteri propriamente non previsti da norme. Di frequente nell’ordinamento comunitario si è fatto ricorso ad un modello mobile di titolarità volto ad assegnare competenze amministrative (ma anche legislative) in senso finalistico, secondo uno schema tipico del sistema europeo, in ragione del principio dell’effetto utile. Il riferimento normativo è offerto dall’art. 352 TFUE, in base al quale è autorizzata ogni azione dell’Unione che risulti necessaria per raggiungere uno fra gli scopi della stessa nel quadro delle politiche definite dai trattati, previa delibera all’unanimità del Consiglio. Dato un sistema in cui le competenze dell’autorità pubblica sono tutte attribuite, i poteri impliciti si collocano nel mezzo di una tensione tra l’esigenza della funzione, secondo la quale si tende ad attribuire all’amministrazione i poteri necessari per perseguire l’interesse assegnato, e l’esigenza di garanzia, per cui occorre proteggere il cittadino dall’esercizio di poteri non legislativamente previsti. Se si fa prevalere la prima sono legittimi tutti i poteri, interventi o mezzi adottati dall’amministrazione che siano idonei a raggiungere lo scopo fissato dalla 44 legge, mentre, se si fa prevalere la seconda, la regola generale dovrebbe impedire l’attribuzione di poteri autoritativi che non siano esplicitamente assegnati. Tale conflitto tra la funzione amministrativa e la garanzia del cittadino potrebbe risolversi in una questione di interpretazione, poiché l’operazione ermeneutica può trasformare da incerto a certo il titolo in forza del quale si esercita un determinato potere. Può dipendere dalla tecnica ermeneutica, ad esempio, decidere se l’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha il potere di limitare la concentrazione della capacità produttiva nel mercato dell’energia elettrica, quando tale potere non è attribuito espressamente, ma è dedotto dagli obiettivi fissati dalla direttiva CE n. 96/1992 di apertura del mercato europeo.10 Eppure tale lettura del problema giuridico sottostante non è in grado di garantire un livello sufficiente di certezza del diritto. Più utile è allora ragionare sulle condizioni di emersione dei poteri impliciti che sono rappresentate da un criterio di legittimazione per obiettivi e non da una espressa disposizione di legge. Legittimazione per obiettivi, però, all’interno della quale non tutto può trovare spazio: innanzitutto, i poteri impliciti non possono non accompagnare poteri espressamente conferiti, pena l’inutilità del loro impiego. È tuttavia necessario definire il grado di vicinanza rispetto al potere assegnato, proprio perché il potere implicito per definizione non può essere autonomo ed autosufficiente. La connessione è stretta quando le manifestazioni di poteri impliciti rientrano tra i modi tradizionali di intervento dell’autorità amministrativa. Si pensi ad alcuni strumenti istruttori: è chiaro che l’ente pubblico dispone anche di poteri cautelari, di poteri di sospensione, di proroga o di convalida, quando tali rimedi rientrino per deduzione nel potere originariamente attribuito. Questi poteri - impliciti rispetto alla legge, ma non rispetto all’ordinamento giuridico vivente - sono ammessi e oggi anche codificati dalla 1. n. 15 del 2005, poiché operano con lo stesso meccanismo della analogia juris: riempiono le lacune presenti nell’ordinamento, mirando a completare la previsione di legge. Minore è invece il grado di vicinanza per i poteri concomitanti o consequenziali alle funzioni espressamente conferite. Ne sono esempi i casi in cui la legge attribuisce all’amministrazione il solo potere di autorizzare l’apertura di uno stabilimento industriale, e parallelamente il soggetto pubblico predispone a tal proposito un sistema di sanzioni amministrative nell’eventualità in cui si verifichino inadempimenti. Oppure allorquando la legge permette unicamente di fissare un limite di accettabilità delle emissioni sonore, mentre l’amministrazione articola una complessa pianificazione mediante zonizzazioni. Oppure ancora quando la legge 10 TAR Lombardia, n. 1331/2002. 45 assegna ad un’autorità il compito di assicurare nell’erogazione del servizio del gas la tutela della sicurezza degli impianti, a fronte della quale il soggetto pubblico predispone un sistema di assicurazione obbligatoria a livello nazionale per tutti i clienti finali del gas. Il campo di elezione riguarda in particolare le ipotesi in cui l’amministrazione, nell’esercizio della funzione, è tenuta a ricorrere a competenze tecniche o specialistiche - spesso produttive di risultati incerti rispetto alle quali la rapida evoluzione scientifica impedisce di predeterminare i modi di estrinsecazione del potere. Per questa ragione, diverse pronunce giurisprudenziali sul tema esaminano in concreto l’operato di autorità amministrative indipendenti. Ad esempio, nel momento in cui un’autorità indipendente dispone di una base di legittimazione legale aperta ad un «autoprogramma», secondo la quale la stessa deve assicurare «il rispetto dell’ambiente, la sicurezza degli impianti e la salute degli addetti nell’erogazione dei servizi di pubblica utilità», il giudice amministrativo ha ritenuto che sia legittima la delibera con cui l’Autorità per l’energia elettrica e il gas impone una garanzia assicurativa a tutti gli utenti finali civili per gli infortuni derivanti dall’uso del gas, affidando la gestione del relativo contratto ad un unico soggetto individuato tramite gara, 11anche se l’obbligo assicurativo rappresenta una prestazione patrimoniale imposta, che ha chiaramente natura autoritativa. Tale base di legittimazione costituisce «una legge di indirizzo che poggia su prognosi incerte, rinvii in bianco all’esercizio futuro del potere, inscritto in clausole generali o concetti indeterminati che spetta all’autorità concretizzare»12. li programma legislativo aperto, la cui peculiarità è legata alla materia nella quale si interviene, sembra dunque implicitamente autorizzare quelle misure amministrative che si reputino necessarie al fine di garantire la sicurezza a tutela degli utenti e dei consumatori. Allorquando vi sia una minore incisione dello spazio di libertà riconosciuto alla sfera giuridica privata, meno stringente sarà l’obbligo di prescrittività del dettato normativo. Per questa ragione, tale tecnica di espansione delle competenze si atteggia diversamente a seconda del tipo di potere che viene esercitato. Distinguendo tra poteri di rule-making e poteri di decision-making, laddove l’attività consista nell’apposizione di una regola generale, suscettibile di applicazione ad una pluralità di soggetti, l’enumerazione normativa delle funzioni è certamente meno dettagliata. 11 12 Cons. St., n. 5827/2005; contro TAR Lombardia, n. 6392/2004 Cons. St., n. 5827/2005 46 Per giunta, la legge si limita a dettare criteri rappresentati da obiettivi e finalità, per cui il ricorso a poteri impliciti è «quasi fisiologico».13Con le dovute differenze, tale situazione è raffrontabile a quanto avviene per i poteri di urgenza, allorquando la legge fissa lo scopo per cui l’azione amministrativa è prevista, ma non il contenuto che per necessità non può che essere atipico. Laddove, invece, la legge si limiti in modo generico ad indicare gli obiettivi, gli implied powers di carattere provvedimentale richiedono fattori di legittimazione maggiormente radicati nell’ordinamento. Non sono allora sufficienti i parametri dell’efficienza e della funzionalità a legittimare l’esercizio di nuovi poteri, non enumerati dalla norma. È necessaria, innanzitutto, una copertura legislativa che sia adeguata ad un potere non programmabile in via anticipata. In secondo luogo, la legittimazione sembra rinviata «al procedimento e alle garanzie di partecipazione per far emergere la regola, che dopo l’intervento degli interessati, appaia tecnicamente la più idonea a regolare la fattispecie».14 Ma su questa tecnica di legittimazione procedimentale si tornerà più ampiamente nel prossimo paragrafo. In sintesi, può dirsi che non sussiste una regola generale che vieta il ricorso a poteri non specificamente previsti dalla legge. Il confine tra chi difende la dimensione tradizionale del principio di legalità e chi tenta di spiegare l’ammissibilità di poteri impliciti più ampi si trova nel diverso grado di capacità espansiva attribuito alla norma regolatrice del potere. A parere dei primi, lo spazio consentito è dato dai soli «poteri connotati da minore incisività per la posizione giuridica dell’amministrato», definiti «poteri impliciti in senso improprio»15, i quali non siano in grado di mettere in pericolo gli interessi sostanziali di rilievo costituzionale. Mentre, per i secondi, occorre muovere dall’ambito materiale, nel senso che il potere implicito è ammesso nella misura in cui si trovi ad operare in uno spazio nel quale la legge, in ragione dell’ambito regolato, poggi su prognosi incerte, che impongono esigenze di funzionalità dell’agire pubblico. Su un piano più generale è il ricorso ai poteri impliciti una dimostrazione di come il ruolo che nel sistema democratico assolveva la legge, quale diretta emanazione del parlamento, allo stato attuale sembra assolto di più e meglio dal diritto, quale insieme delle disposizioni normative che a vario titolo indirizzano l’amministrazione. Per questa ragione, seppur con qualche cautela, come si vedrà più avanti, la disciplina 13 MORBIDELLI G., Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in “Diritto amministrativo”, 4, 2007, pp.703-777. 14 Cons. St., n. 5827/2005 15 V. BASSI N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Giuffrè, Milano, 2001. 47 dei modi di estrinsecazione del potere andrebbe ricercata nel complesso dell’ordinamento, tenendo altresì conto dei livelli sovranazionale e globale. Sembra allora che, in particolari ipotesi, debba riconoscersi il potere di integrare la base legale del potere secondo le esigenze dell’ordinamento giuridico materiale, legittimando l’amministrazione ad alcuni interventi che non trovano espresso fondamento nella legge. Riprendendo quanto scritto nel famoso parere di Alexander Hamilton del 1791, rispetto agli implied powers, ricavati in via di interpretazione da una norma che dispone un titolo di competenza, sembrano essere conformi al sistema i resulting powers, vale a dire i poteri che derivano «from the whole mass of the powers of the government o from the nature of the political society». 3. La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale I poteri impliciti sopra analizzati suppliscono in sostanza all’assenza di un potere di azione attribuito espressamente alla pubblica amministrazione da una specifica disposizione di legge, allorquando l’autorità sia necessaria per la realizzazione di uno scopo fissato in via preventiva. Costituiscono insomma un modello di determinazione del potere teleologico o per obiettivi, che consente un ampio spettro di condotte, all’interno delle quali, una volta fissato il parametro che deve essere perseguito, si consente all’amministrazione di individuare i poteri necessari per raggiungerlo seguendo la regola dell’effetto utile. È evidente come questo sistema di legittimazione soddisfi la regola della legalità solo formalmente. Nel senso che, così ragionando, si tende a collocare il principio di legalità in una logica bilaterale tra legislativo ed esecutivo, secondo la quale la norma di legge è preposta ad investire di uno o più poteri l’ente pubblico, fissando in tal modo materia e competenza e, nei casi più importanti, organizzando l’attività in procedimenti, personale a ciò assegnato e risorse finanziarie. Laddove però la relazione tra amministrazione e legge si ferma all’aspetto formale o statico, un pezzo importante dell’amministrazione rimane fuori, poiché non viene chiaramente in rilievo il modo di esercizio del potere. Ne consegue che una lettura solo bilaterale della regola della legalità non può essere considerata soddisfacente, anche perché è facile constatare come la disciplina del potere non sia fine a se stessa, ma sia disposta in funzione della costituzione, modificazione o estinzione del rapporto giuridico con l’amministrato. Da questa concezione soggettivistica discende che la legalità rappresenta uno strumento di garanzia dei più rilevanti diritti e della libertà dell’individuo, in particolare se si considera che la «libertà amministrativa» è limitata dalla legge soprattutto nei casi di conflitto con la libertà individuale. 48 Oltrepassata la soglia della legalità formale e tenendo a mente la necessaria garanzia verso i cittadini, è necessario dunque che questo limite all’azione amministrativa entri nella regolazione del potere, definendo i presupposti, le condizioni e le modalità di esercizio dell’attività. In questo senso, allora, occorrerebbe ragionare nei termini di un principio di legalità sostanziale, in base al quale la norma è chiamata a definire alcuni limiti contenutistici al potere, quasi a descrivere lo svolgimento del potere anche nella prospettiva dei suoi destinatari. Solo così, infatti, si riescono a tutelare in modo pieno le situazioni giuridiche soggettive coinvolte. Come affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la legalità deve prendere forma in una norma di diritto che sia sufficientemente accessibile, precisa e prevedibile. Non basta che vi sia una base legale del potere pubblico, occorre anche che l’intervento autoritativo si inserisca in un quadro stabile e non contraddittorio teso ad assicurare ai privati una effettiva protezione a fronte degli abusi pubblici sul diritto al rispetto dei beni privati. Sotto questo profilo, viola ad esempio il principio di legalità un’acquisizione di terreni alla mano pubblica in assenza del decreto di espropriazione, benché essa sia legittimata da una disposizione di legge a carattere transitorio che sembra condonare in via successiva una condotta contraria alla legge16. Eppure vi sono ipotesi in cui circostanze oggettive impediscono alla legge di definire la prevedibilità e la calcolabilità dell'azione dei poteri pubblici, indicando preventivamente come il provvedimento debba essere elaborato (come sta a dimostrare anche la fattispecie dei poteri impliciti sopra analizzata). Sono le esigenze del mercato, infatti, ad imporre la necessità di adottare leggi d'indirizzo che rinviano in bianco all'esercizio futuro del potere. Ad esempio, nella direttiva quadro sulle reti e servizi di comunicazione elettronica si attribuisce, in base all'art. 8, alle autorità nazionali di regolazione il compito di garantire che non abbiano luogo distorsioni e restrizioni della concorrenza nel settore delle comunicazioni elettroniche. All'interno di questi presupposti l'autorità pubblica sembra legittimata a ricorrere a tutte le misure di regolazione adeguate a raggiungere questo risultato finale. I caratteri di prevedibilità e accessibilità non devono riferirsi soltanto alla norma che attribuisce il potere, poiché l'attività amministrativa è disciplinata e governata da un complesso di disposizioni fra le quali rientrano, da un lato, i principi e le clausole generali, dall'altro, il procedimento come luogo di costruzione dell'attività amministrativa. Se allora in particolari fattispecie la complessità dell'attività amministrativa impedisce di regolarne minutamente l'esercizio, non sembra però giuridicamente corretto lasciare all'amministrazione un tale spazio di 16 CEDU, 29 marzo 2006, Scordino 49 arbitrio. La regola della legalità si adegua alle peculiarità del caso di specie. Per cui, nei settori regolati dalle Autorità, in assenza di un sistema completo e preciso di regole di comportamento con obblighi e divieti fissati dal legislatore, la caduta del valore della legalità sostanziale deve essere compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della legalità procedurale, sotto forma di garanzie del contraddittorio [Cons. St., n. 2007/2006]. La relazione tra legalità sostanziale e legalità procedurale è dunque in questi termini: quanto meno è garantita la prima, per effetto dell'attribuzione alle Autorità indipendenti di poteri normativi e amministrativi non compiutamente definiti, tanto maggiore è l'esigenza di potenziare le forme dì coinvolgimento di tutti i soggetti interessati nel procedimento finalizzato all'assunzione di decisioni che hanno un impatto così rilevante sull'assetto del mercato e sugli operatori [ibidem]. La forma che questo processo assume è quella di un rafforzamento del principio del giusto procedimento, in base al quale tutti gli operatori devono essere posti in grado di partecipare in modo effettivo al procedimento. Ciò avviene soprattutto attraverso la consultazione preventiva; mediante la quale si raccoglie il contributo informativo e valutativo dei destinatari della regolazione amministrativa grazie al meccanismo di notice and comment. L'operatore economico è così messo in condizione di conoscere il progetto di atto e può far pervenire le proprie osservazioni. Il procedimento diventa uno strumento di garanzia e un luogo di apporto conoscitivo per l'amministrazione a fronte di scelte che coinvolgono più interessi pubblici e privati meritevoli di perseguimento, che sono valorizzati con il principio del contraddittorio, in assenza di un oro dine gerarchico. In questo quadro, occorrerebbe allora definire in modo omogeneo per tutte le autorità che svolgono funzioni regolative simili uno statuto unitario volto a definire - tra le altre cose - gli standard minimi di garanzia del contraddittorio procedimentale, i quali consentono una forma di legittimazione al potere esercitato dalle autorità. Legittimazione che proviene, dal basso e non dall'alto, poiché non è il popolo sovrano che opera secondo un sistema di rappresentanza a riconoscere l'autorità, ma sono i privati coinvolti dall'azione amministrativa a farlo. 50 4. La legalità comunitaria Così come avviene nella Costituzione italiana, il principio di legalità non è espressamente enunciato in ambito europeo: né il trattato sull'Unione europea né il trattato sul funzionamento dell'Unione europea - come modificati dopo il Trattato di Lisbona - ne fanno menzione. Eppure la sua applicazione è considerata pacifica, dato che all'art. 2 TUE si afferma che l'Unione si fonda sui principi di democrazia e dello Stato di diritto, che sono «comuni agli Stati membri». Si tratta di una menzione contenuta anche nel preambolo del TUE, ma che non è di facile spiegazione. Basti pensare che la versione inglese di questi testi indica, in luogo dell'espressione «Stato. di diritto», rule of law, anche se non è pacifica la fungibilità di questi due concetti. In questa sede è sufficiente ricordare che con il richiamo allo «Stato di diritto» si intende la soggezione di ogni atto di esercizio del potere alla regola della conformità al trattato e ai principi generali del diritto, di cui fanno parte i diritti fondamentali. La giurisprudenza comunitaria per dare sostanza alla medesima nozione utilizza l'espressione «comunità di diritto». Una dimostrazione dell'operatività di questa regola di soggezione si può riscontrare nella disposizione tesa a sottomettere al controllo giurisdizionale del Tribunale e della Corte di giustizia l'azione condotta dalle istituzioni europee, ai sensi dell'art. 263 TFUE. D'altronde, la legalità e l'azionabilità delle pretese vanno di pari passo in quanto conducono al medesimo risultato; basti pensare al fatto che l'assenza di un controllo giurisdizionale ad iniziativa privata nel secondo e nel terzo pilastro dell'Unione precedentemente all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona - a cui ora proprio mediante tale trattato si è posto rimedio - rappresentava la ragione per cui in questi settori la regola della legalità era assai meno incisiva. A fronte della sicura vigenza del principio di legalità anche nell'ordinamento comunitario, la prima difficoltà che si riscontra è comprendere se esso sia pienamente assimilabile alla medesima regola elaborata nell'esperienza statuale, oppure se si, tratti di un istituto diverso, tratto dalle esperienze giuridiche degli Stati membri, ma proprio originale e dotato di valenza autonoma. Per rispondere a questo interrogativo, occorre verificarne gli elementi essenziali, ossia l'oggetto, i destinatari e la funzione. In primo luogo, il contenuto del principio sembra mutare a seconda del diverso contesto in cui è calato. Nell'ordinamento europeo, i trattati, i regolamenti e le direttive che sono il parametro dell'obbligo di conformità, non sono leggi di provenienza parlamentare, espressione del potere rappresentativo e strumento per mettere in atto la separazione dei poteri. Ne consegue che la portata democratica del principio di legalità è messa in 51 discussione poiché viene a cadere il dogma positivista della coincidenza tra diritto e legge, essendo le.istituzioni tenute al rispetto di regole e principi, di origine e natura diversa, che mirano principalmente a garantire la ragionevolezza e la coerenza del sistema. Non è replicabile dunque una dialettica tra parlamento e governo nello spirito del principio di legalità, che è tipica dell'esperienza statuale, sulla base della quale si fonda il circuito democratico. Ciò si spiega con il fatto che, assumendo una prospettiva diversa da quella tradizionale, i poteri non sono assegnati alle istituzioni in base alla natura del soggetto destinatario secondo le categorie concettuali nazionali, ma sono ripartiti dal trattato in modo originale. La legalità prende quindi forma nel necessario rispetto dell'equilibrio istituzionale, secondo il quale deve essere salvaguardato il ruolo che a ciascun organo è affidato nel sistema in base all'architettura istituzionale europea. Nell'ordinamento europeo, infatti, il diritto non ha un valore di volontà della maggioranza, ma è un potere di apposizione di una regola legale-razionale. In secondo luogo, con riferimento ai destinatari lo spazio di intervento della regola della legalità presenta una doppia valenza. In una dimensione interna, come accennato, essa si rivolge alle istituzioni europee garantendo un corretto assetto dei poteri. All'interno dell'ordinamento europeo la legalità funge da limite all'esercizio dei poteri sia normativi sia amministrativi delle istituzioni politiche, assicurando che essi siano conformi alle fonti superiori. In questa prospettiva, i trattati istitutivi e la normativa derivata, alle quali devono aggiungersi le convenzioni internazionali a cui l'Unione europea ha dato adesione, rappresentano un parametro di legittimità degli atti, in quanto rappresentano fonti alle quali l'attività dei singoli organi deve parametrarsi. In una dimensione esterna, invece, il diritto comunitario costituisce un vincolo ulteriore al quale le amministrazioni nazionali (e i legislatori statali) sono tenute ad adeguarsi. I parametri di riferimento dell'azione dell'amministrazione nazionale non sono allora solo nazionali, perché l'amministrazione si deve attenere alle regole europee. Questo obbligo vale sia per le attività che costituiscono, in via diretta, attuazione o applicazione di disposizioni comunitarie - come avviene nei procedimenti composti, ai quali partecipano in modo coordinato tanto autorità europee quanto autorità nazionali - sia nell'esercizio delle funzioni tipicamente nazionali rispetto alle quali si impone l'applicazione del diritto europeo. L'enforcement dell'obbligo è per giunta assicurato dal fatto che è conferita ai privati la legittimazione ad agire in giudizio per la tutela di diritti attribuiti da norme comunitarie, tutela che consente di porre sotto controllo giurisdizionale la condotta delle istituzioni tenute ad intervenire. Questo tipo di vincolo integra quelli derivanti dai sistemi nazionali e si sovrappone ad essi. Il pieno rispetto della legalità comunitaria può, di 52 conseguenza, incrinare la regola della legalità nazionale, in ragione dell'obbligo della pubblica amministrazione di disapplicare la legge non conforme ad una direttiva inattuata produttiva di effetti diretti17. L'esigenza di assicurare il rispetto degli obblighi comunitari è così ritenuta preminente sull'ossequio al principio di legalità previsto a livello nazionale e determina inevitabilmente una compressione di quest'ultimo18. L'obbligo di disapplicare la norma interna incompatibile con il diritto comunitario non si è limitato ad incrinare la legalità, ma ha messo in crisi anche principi riconducibili ad essa, come ad esempio l'autorità di cosa giudicata. Anche la norma che sancisce il passaggio in giudicato di una pronuncia giurisdizionale deve essere disapplicata, qualora ciò sia necessario per il recupero di un aiuto statale corrisposto in violazione del diritto comunitario, sempreché tale aiuto sia stato dichiarato incompatibile con una pronuncia della Commissione divenuta definitiva19. Lo stesso è accaduto laddove si è affermato che il passaggio in giudicato di una sentenza non è un ostacolo al riconoscimento della responsabilità dello Stato per i danni derivanti da una sentenza di ultimo grado che non abbia applicato il diritto comunitario.20 Tale carattere di preminenza mette in luce come la legalità comunitaria sia conformata dal principio del primato: in questo senso, l'amministrazione europea e quelle domestiche sono tenute a concorrere all'affermazione della primauté du droit nell'ordinamento integrato, mediante tecniche giuridiche volte a garantire il rispetto di questa legalità rafforzata. Non solo è, dunque, configurabile un principio di legalità sovranazionale, ma si tratta di un principio che presenta tratti differenti da quello nazionale. L'amministrazione europea e quella nazionale non sono sottoposte pertanto ad un complesso di leggi bensì alla regola di diritto, nella quale rientra la normativa europea che a sua volta comprende anche le tradizioni costituzionali comuni e i diritti fondamentali. In terzo luogo, è chiaro come la regola della legalità nell'ordinamento comunitario abbia una funzione diversa rispetto a quella svolta in-ambito nazionale. Essa serve infatti a garantire l'equilibrio istituzionale tra gli organi europei, a proteggere gli Stati dalle intrusioni delle strutture sovranazionali, a definire i limiti esterni dell'azione amministrativa, rendendo le relative condotte prevedibili.e conoscibili in particolare ai titolari di diritti garantiti dalla normativa comunitaria. In questo quadro, il principio di legalità comunitario risponde alle esigenze legate ai meccanismi di cooperazione internazionale, dato che la coesione 17 CGUE, C-I03/88, Costanzo CGUE, C-392/04; i-21 Germany 19 CGUE, C-119/05, Lucchini 20 CGUE, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo 18 53 amministrativa tra operatori istituzionali passa attraverso il rispetto della legalità. Essa costituisce allora una tappa fondamentale del processo di integrazione. Il principio di legalità comunitaria presenta, in conclusione, caratteristiche peculiari, poiché consiste “in un insieme di regole e principi; diversi nella loro specifica finalità e nella loro origine, che convergono tutti nel garantire che l'ordinamento giuridico comunitario risponda a regole di certezza e, in definitiva, dì ragionevolezza e dì non arbitrarietà, nell'adozione e applicazione - sia a livello comunitario sia nazionale - delle disposizioni del trattato e delle norme derivate”21. Più che un unico principio di legalità con caratteri di univocità, risulta esservi un insieme di regole con finalità diverse volte a garantire che l'ordinamento comunitario risponda a regole di certezza, ragionevolezza e non arbitrarietà. Il sistema di garanzie è inoltre completato dal principio di giurisdizionalità, in base al quale il rapporto amministrativo può essere sempre assoggettato al controllo giurisdizionale. 5. La «rule of law» globale Come accennato, la regola della legalità non si limita ad un ancoraggio, alla previsione normativa espressa, ma è legata ad una molteplicità di fonti, per cui la pubblica amministrazione è sottoposta e deve conformarsi ai trattati e alle regole del diritto internazionale. Ma non si tratta di una novità, poiché da sempre tutti i soggetti dell'ordinamento sono tenuti al rispetto di quelle disposizioni che, entrate nell'ordinamento nazionale, hanno origine al di fuori dello Stato. A ben vedere, tuttavia, è il diritto internazionale che si è venuto modificando e ciò ha mutato di conseguenza anche il rapporto con i pubblici poteri interni. Diverse sono le tendenze di mutamento in atto nel sistema globale. Se ne citeranno sinteticamente alcune per dare conto almeno della dimensione del problema. Innanzitutto, la globalizzazione economica richiede regole generali, che si scontrano con le peculiarità giuridiche di ciascun paese, imponendo un contemperamento di interessi tra la comunità internazionale e gli Stati, che spesso si svolge a livello sovrastatale. I processi di globalizzazione richiedono una risposta amministrativa particolarmente 21 ADINOLFI A., Il principio di legalità nel diritto comunitario, in AA.VV., Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Atti del LIII Convegno di studi di scienza dell'amministrazione, Varenna 20-22 settembre 2007, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 87-123. 54 rapida ed efficace e non consentono di ricercare solo nella fonte nazionale la disciplina del modo di svolgimento dell'autorità. La seconda mutazione riguarda l'ingresso delle norme internazionali nel tessuto normativo che circonda l'attività dell'amministrazione. Sempre più spesso queste norme non sono recepite in atti legislativi interni, ma entrano automaticamente nell'ordinamento. Si pensi all'apparato di regole, di origine diversa, che accompagna un trattato o una convenzione: ad esempio, l'amministrazione dei beni culturali è tenuta a particolari obblighi di protezione e cura, definiti a livello globale, dei beni nazionali rientranti nella lista del patrimonio dell'umanità, non sulla scorta di una modifica del Trattato internazionale Unesco, ma sulla base di una specifica risoluzione del World Heritage Committee, che non abbisogna di procedure di recepimento in ambito interno. La terza modificazione dipende dal contenuto dei precetti di origine internazionale. Questi, spesso tendono ad intestare diritti ai privati, abilitando così i cittadini a rivolgersi agli organi sovrastatali per accertare che uno Stato abbia adempiuto agli obblighi strumentali alla realizzazione di finalità globali e stabiliti da fonti ultrastatali. In questo modo, le amministrazioni nazionali sono tenute a rispondere del loro operato di fronte alla comunità internazionale e l'ordinamento sovranazionale si rafforza perché attribuisce nuovi diritti e garanzie a tutti gli individui, che possono farli valere anche nei confronti dello Stato di appartenenza. La quarta mutazione è relativa al ruolo delle organizzazioni internazionali. Esse non sono solo i produttori di regole nel sistema, ma spetta loro anche il compito di garantire il rispetto delle norme che hanno concorso a produrre. Difatti, “le corti giudiziarie sono presenti anche nello spazio ultra-statale: più di cento sono le vere e proprie corti; a queste bisogna aggiungere organismi quasi giudiziari o semi-contenziosi, variamente denominati, ormai presenti in molti dei circa duemila regimi regolatori globali. Corti e organi quasi giudiziari, inoltre, operano caso per caso, con una possibilità, quindi, di fare aggiustamenti, con strategie che alternano o mescolano attivismo e deferenza, creazione del diritto e selfrestraint, dinamismo e tolleranza, rigidità e mutevolezza. Per questo motivo, le corti stanno assumendo un ruolo importante nella definizione dei rapporti tra ordinamenti giuridici”.22 Si tratta di un percorso che presenta significative somiglianze con quello che ha interessato gli Stati nazionali a cavallo tra il XIX e il XX secolo. Le tendenze in atto illustrano come, grazie alla globalizzazione giuridica, sia cambiato il rapporto dell'amministrazione con l'ordinamento 22 Tratto da CASSESE S., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino, 2009. 55 internazionale. Travalicando i confini statali, la regola della legalità si è trasformata in rule of law, con la cooperazione di organismi sovrastali che, nell'esercizio della loro attività, interferiscono in vicende nazionali. 6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola della legalità Alla legge spetta conferire e disciplinare l'esercizio di un potere, senza esercitarlo direttamente. Vi sono, però, casi in cui la norma è essa stessa strumento di esercizio del potere, in quanto, pur sotto la veste di legge formale, presenta un contenuto provvedimentale: da qui la denominazione di legge-provvedimento. I casi possono essere diversi: con legge è possibile attribuire la personalità giuridica ad un ente ben determinato, pianificare sul territorio regionale le strutture sanitarie, concedere una pensione o approvare un bilancio. È chiaro che, in questi casi, la legge non è generale e astratta, come in linea teorica dovrebbe sempre essere, ma è attuativa e concreta e i destinatari sono predeterminati o predeterminabili. Questo uso dello strumento legislativo non è peculiare degli ultimi decenni, anzi sin dalla sua genesi il parlamento ha legiferato regolamentando nel concreto alcune fattispecie che interessavano soggetti ben individuati, appropriandosi in questo modo di spazi propri dell'amministrazione. Il fenomeno è andato però via via assumendo dimensioni che presentano sempre maggiori criticità, anche a causa dell'uso crescente delle leggi-provvedimento da parte dei consigli regionali. Per giunta, nell'ipotesi in cui una legge-provvedimento regionale contravvenga ad una norma nazionale, si verifica una doppia ipotesi di contrasto costituzionale: da un lato, per la portata singolare del provvedimento legislativo, dall'altro, per l'eventuale conflitto rispetto alla normazione dello Stato. Se può essere tratteggiata facilmente la figura delle leggiprovvedimento, non è altrettanto facile definire il confine tra legislazione e amministrazione e indicare con certezza quando si è in presenza dell'una o dell'altra. Né è agevole riconoscere i caratteri della generalità e dell'astrattezza, che identificano un atto normativo in senso proprio. Occorre allora specificare che si hanno leggi-provvedimento quando il precetto incide su un numero determinato e limitato di destinatari e ha un contenuto specifico. Allo stesso modo, vi rientrano anche le disposizioni legislative adottate in sostituzione del confronto procedimentale: si pensi ad una espropriazione ope legis che non necessita a sua volta di un procedimento che la preceda, volto a dichiarare la pubblica utilità del bene. In questi casi, la veste formale legislativa impone di riconoscere all'atto il valore e il regime giuridico della legge (anche perché non si 56 ritiene abbiano cittadinanza nel nostro ordinamento le «leggi in senso formale», ossia quegli atti connotati da elementi estrinseci in senso normativo, ma privi del valore giuridico di legge). I profili di criticità che solleva questa fattispecie sono facilmente evidenziabili. Nel momento in cui una legge in senso formale presenta un contenuto tipico di un provvedimento amministrativo, si realizzano due ordini di lesioni alla garanzia a tutela delle situazioni giuridiche soggettive dei privati destinatari dell'attività così posta in essere. La prima è di carattere procedimentale, poiché il privato non può prendere parte al farsi della decisione, come avrebbe potuto fare se fosse stata rispettata la regola del procedimento. La seconda, invece, sta in una forte attenuazione della tutela giurisdizionale, in quanto la legge a differenza dell'atto amministrativo non può essere sindacata entro il termine di decadenza dinanzi al giudice amministrativo, ma ne può essere solo eccepita l'illegittimità costituzionale una volta che sia stata incardinata la controversia in un giudizio principale (senza alcuna garanzia, peraltro, che la questione di legittimità costituzionale sia effettivamente sollevata dal giudice della controversia). È chiaro inoltre che quando si adotta una legge, in luogo di un provvedimento, ci si appropria di una sfera riservata all'amministrazione: a rigore, trattandosi di un caso in cui il potere legislativo invade la sfera di un altro potere dello Stato, si potrebbe configurare un eccesso di potere legislativo e, dunque, un vizio di legittimità dell'atto normativo, qualora si desumesse dalla Carta costituzionale tale sfera di riserva. Ricorrere alle leggi-provvedimento svuota però di contenuto il principio di legalità, in quanto si inverte il rapporto ordinario, prima descritto, tra norma e atto. La norma non è più indirizzo e limite dell'atto, ma si fa essa stessa momento concreto di gestione amministrativa. Sotto questo profilo, la «legge singolare» non può che presentarsi in contrasto con uno dei canoni fondamentali dello Stato di diritto. Nonostante tale profilo critico, la Corte costituzionale ha ritenuto compatibili con l'ordinamento questi strumenti legislativi, sulla scorta di due ordini di ragioni. Per un verso, non esiste una esplicita riserva di amministrazione, sancita nella Carta costituzionale, che attribuisca alle amministrazioni pubbliche in via esclusiva le competenze gestorie. Per l'altro, non è possibile reperire nell'ordinamento limiti espliciti a carico del legislatore rispetto al contenuto dei precetti legislativi, salvo quelli formali legati all'osservanza del procedimento di formazione delle leggi23. L'attività legislativa, libera nel fine e nei mezzi, può assumere qualunque statuizione all'interno dei confini costituzionali. 23 Corte cost., n. 347/1995 57 Contestualmente la Consulta ha fissato però alcuni limiti entro i quali può ammettersi l'adozione di leggi-provvedimento. Così, tali leggi sono ammissibili solo nel rispetto del principio di ragionevolezza e non arbitrarietà, nonché delle prerogative dei giudici in ordine alla decisione delle cause in corso. Necessitando la legittimità di tali leggi di un controllo sul contenuto, in considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio, è consentito uno scrutinio stretto di costituzionalità essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia la natura provvedimentale dell'atto legislativo sottoposto a controllo [Corte cost., nn. 267/2008 e 429/2002]. Si pone così rimedio anche al problema della tutela, in quanto ciò che non può garantire il giudice amministrativo, a causa dello schermo legislativo, è assicurato dal giudice delle leggi. Rispettando il regime di controllo dei provvedimenti normativi, la legge-provvedimento può essere sindacata dal giudice costituzionale, sia pure previa intermediazione del giudice rimettente. E non sembra esservi una diminuzione dei diritti di difesa del cittadino perché, pur in presenza di un allungamento dei tempi processuali, il sindacato di ragionevolezza della legge è anche più incisivo di quello giurisdizionale sull'eccesso di potere24. Permangono, tuttavia, alcuni elementi anormali in conseguenza della sostituzione del provvedimento con la legge. Innanzitutto, occorrerà un'altra legge per far venir meno la previsione che si è disposta. In secondo luogo, il mancato rispetto della sequenza procedimentale elimina i diritti di partecipazione e nega al cittadino la possibilità di condizionare il risultato amministrativo. In terzo luogo, sotto il profilo delle garanzie, che l'ordinamento pone a disposizione dei cittadini, risulta privato di effettività il principio di legalità. 7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato Secondo la dottrina tradizionale, per il privato tutto è permesso tranne ciò che è espressamente vietato, mentre per l'amministrazione tutto è vietato tranne ciò che è espressamente consentito. Eppure, già in base all'analisi svolta finora, si può in parte dubitare della veridicità di questa affermazione. Si proverà allora a mettere in evidenza come queste endiadi non rappresentano più appieno la realtà in cui operano i soggetti pubblici e privati. 24 Cons. St., n. 1559/2004; TAR Lazio, n. 3356/2008 58 Cominciamo dalla prima ipotesi. Seppur in generale vale la regola dell'autonomia per cui tutto ciò che non è vietato è permesso, quando un ente di diritto privato incide unilateralmente su posizioni giuridiche soggettive del cittadino, limitandole, modificandole o estinguendole, opera anche per questo il principio di soggezione alla legge. Ciò dipende dal contenuto del potere esercitato, il quale è tale da imporre un più stringente obbligo di conformità alla legge, condizionando il regime conseguente. Parallelamente la natura giuridica, pubblica o privata, del soggetto che esercita il potere non incide sul relativo regime giuridico che deve essere applicato. A prescindere allora dalla veste giuridica del soggetto agente, ne consegue che un potere che sia esercitato da un ente di diritto privato richiede un pieno rispetto della regola della legalità, come se quest'ultimo fosse una pubblica amministrazione. Il caso tipico è quello dell'esercizio privato delle pubbliche funzioni. Quando la delibera di un consiglio di amministrazione di una società avente natura privatistica - come il vettore ferroviario privatizzato - sia idonea per legge a produrre degli effetti equiparabili alla dichiarazione di pubblica utilità, quest'ultima dovrà essere preceduta nelle forme adeguate da una ponderazione delle ragioni degli interessati25. Oppure: svolgendo le società private organismo di attestazione una funzione pubblicistica di certificazione, che sfocia in un'attestazione con valore di atto pubblico, l'attività da esse posta in essere è circondata di garanzie e controlli pubblici, in ragione dei quali l'autorità dei contratti pubblici dispone di penetranti poteri di vigilanza.26 È evidente, dunque, come la regola dell'autonomia sia temperata dal fatto che il principio di legalità opera sempre per i poteri, sia pubblici sia privati, che siano tali da incidere unilateralmente sulle situazioni giuridiche soggettive: per cui dovrà essere rispettata la sequenza procedimentale e saranno necessari i controlli pubblicistici. La regola della legalità mantiene dunque intatta la sua funzione di garanzia rispetto a qualunque attività che possa-risultare lesiva nei confronti della collettività, in quanto difende il privato dall'esercizio di un potere che non sia predeterminato da una norma, giacché non ci può essere un potere posto del tutto al di fuori di una previsione di legge. Riprendendo l'affermazione di partenza, veniamo alla seconda parte. Se in generale per l'amministrazione tutto è vietato tranne le attività autorizzate dalla legge, tale divieto non opera invece per quegli atti posti in essere dal soggetto pubblico che si fondano sullo scambio del consenso, come l'attività contrattuale. 25 26 Cons. St., n. 1617/2004 Cons. St., n. 991/2004 59 La persona giuridica pubblica è dotata di piena capacità d'agire ed è ampiamente legittimata a contrattare, fatta eccezione ovviamente per i negozi vietati dalla legge. Ai sensi dell'art. 11 l. proc. amm., inoltre, l'amministrazione può ricorrere ad accordi, anche sostitutivi del provvedimento, senza il limite della tassatività, ai quali si applicano i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Nella prima ipotesi si avrà attività privata dell'amministrazione, mentre nella seconda attività amministrativa di diritto privato. I contratti possono essere utilizzati per procurarsi le risorse necessarie, umane e strumentali, al corretto funzionamento della macchina amministrativa. Ovvero possono essere impiegati per tutelare gli interessi assegnati alla cura dell'ente pubblico mediante strumenti di diritto privato. Esempi di questo fenomeno sono numerosi nel servizio sanitario, svolto mediante strutture private accreditate, nell'istruzione, alla quale cooperano anche istituti privati, nelle lottizzazioni convenzionate. Tradizionalmente si afferma che, quando non viene esercitato un potere autoritativo, ossia quando l'amministrazione opera mediante strumenti paritari di natura privata, la regola della legalità - nella sua declinazione di garanzia - non presenta alcuna utilità, poiché non vi è incisione nelle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari. Se si segue questo orientamento, non vi è alcun limite per l'amministrazione che è libera di sottoscrivere qualunque negozio, a dispetto di quanto affermato all'inizio. Viceversa, discorso diverso deve essere svolto se del principio di legalità si enfatizza più che la funzione garantista, la funzione di indirizzo, in base alla quale la legge individua i fini dell'azione amministrativa ed indica mezzi e strumenti necessari per conseguirli.27 Sotto questa chiave, ben diverso è il rapporto tra principio di soggezione alla legge e attività consensuale conclusa dall'amministrazione. Se si riconosce che la legalità riveste anche un ruolo di indirizzo, pure in questa modalità di azione pubblica la legge deve offrire una base idonea che sia capace di orientare l'amministrazione. Non al punto da negare alla radice l'autonomia privata, che è espressione della personalità giuridica, ma operando una livellamento, in base al quale si tenga conto del fatto che i soggetti pubblici sono istituiti in funzione servente rispetto ai fini che l'ordinamento impone loro di perseguire. Il principio di funzionalità dell'attività impedisce allora che l'amministrazione eserciti in modo libero i propri poteri, come i privati esercitano liberamente la capacità negoziale. 27 Rif. in MARZUOLI C., Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1982. 60 La legalità prende la forma di un vincolo di scopo: l'attività negoziale dell'amministrazione non può esorbitare dal perseguimento dell'interesse pubblico ad essa assegnato. Nel rispetto del principio di libertà delle forme proprio del diritto privato, i limiti che derivano dal vincolo teleologico non comportano preclusioni assolute, espressamente stabilite con riferimento all'oggetto o ai tipi negoziali. Essi riguardano, in primo luogo, la modalità di formazione della volontà contrattuale, che è procedimentalizzata nell'evidenza pubblica. In secondo luogo, hanno ad oggetto una serie di limitazioni puntuali che si correlano alle specificità che connotano l'amministrazione. Si pensi al procedimento a cui è soggetta l'amministrazione qualora intenda addivenire alla stipula di un contratto di compravendita di cosa futura, imposto al fine di impedire che la negoziazione con il proprietario di un'area determinata, volta all'acquisto di un bene da costruire, prenda il posto della comparazione tra più aspiranti alla realizzazione di un contratto di appalto pubblico, tutelata da norme imperative.28 Il soddisfacimento delle finalità istituzionali produce dunque l'effetto di alterare il regime privatistico proprio del contratto. Al giudice è rimesso il compito di valutare, in concreto, se l'attività consensuale sia preposta al perseguimento dell'interesse pubblico, pena l'invalidità degli atti così posti in essere. Deve aggiungersi, in conclusione, come sia evidente che una graduale trasformazione dell'attività amministrativa - da autoritativa a consensuale si ripercuote sulle modalità operative del principio di legalità. Il ricorso al modulo consensuale ne muta la rilevanza da strumento di garanzia a strumento di indirizzo: laddove il primo costituisce un effettivo limite, il secondo è più un vincolo a perseguire gli obiettivi prefissati a carico dell'amministrazione. 8. Legalità e legittimità: vizi formali e vizi sostanziali Nel linguaggio della scienza politica la legittimità è sinonimo di titolarità, pertanto un potere esercitato in assenza di una norma che lo attribuisca si dice «illegittimo», mentre si dice «illegale» il potere esercitato in modo difforme rispetto alla norma che ne regola l'esercizio.29 Nel linguaggio del diritto amministrativo è in una certa misura il contrario: se l'illegalità è una categoria residuale che sta ad indicare gli atti adottati in assenza di una norma che li preveda, con la qualifica di illegittimità si 28 Cons. St., n. 31/2005 BOBBIO N., Legalità, in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI (a cura di), Dizionario di politica, UTET, Torino, 1976, pp. 518-520. 29 61 contraddistinguono tutti gli atti che non siano conformi ai parametri legislativi che ne predeterminano a vario titolo il contenuto. L'illegittimità può dipendere da un vizio formale o da un vizio sostanziale, oppure da entrambi contestualmente. Con la prima categoria si intendono le infrazioni alle norme sul procedimento o sulla forma degli atti, con la seconda le violazioni alle disposizioni legislative o ai canoni ordinatori dell'azione che riguardano il contenuto della scelta pubblica. La violazione di legge, nella forma della violazione dei modi dalla legge prescritti per l'esercizio del potere, è chiaramente un vizio che deve essere sanzionato e che, a questo titolo, conduce all'illegittimità della decisione amministrativa. Eppure vi sono alcune violazioni di legge che, ai sensi del quadro normativo vigente, non sono sanzionabili poiché non sono ritenute tali da portare all'annullamento del provvedimento. Secondo l'art. 21 octies l. proc. amm., infatti, non sono annullabili i provvedimenti affetti da vizi attinenti la fase procedimentale, allorquando essi non siano tali da influire sulla sostanza della decisione assunta dall'amministrazione. La norma distingue a questo proposito tra provvedimenti vincolati e discrezionali. Nella prima ipotesi, il provvedimento non è annullabile per vizio formale se «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Nella seconda, invece; la non annullabilità vale solo per il vizio di mancata comunicazione di avvio del procedimento (oppure di mancato preavviso di rigetto), sempreché «l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato»30. In entrambe le ipotesi l'accertamento del carattere non invalidante della violazione è lasciato al giudice. Anche prima di questa modifica alla legge sul procedimento amministrativo, intervenuta nel 2005, la giurisprudenza amministrativa tendeva a limitare i casi di annullamento dei provvedimenti viziati solo formalmente - specie con riferimento alla comunicazione di avvio allorquando essi avessero carattere vincolato. Una soluzione simile si riscontra oggi nell'esperienza comunitaria: secondo l'orientamento dei giudici del Lussemburgo, la violazione dei diritti di partecipazione può condurre all'annullamento dell'atto finale soltanto quando la partecipazione degli interessati o la considerazione di alcune informazioni rilevanti avrebbe potuto condurre il procedimento ad esiti diversi31. Ai fini del discorso che si sta conducendo, di questa disposizione di salvezza degli atti interessa la relazione con la regola della legalità, poiché è chiaro che essa conduce ad una dequotazione dei vizi formali, in quanto 30 31 TAR Puglia, n. 2288/2008 Trib. UE, T-162/06; CGUE, C-302/99, Commissione c. Francia 62 vi sono violazioni di legge che rimangono senza sanzione. In assenza delle sanzioni, è evidente il pericolo che l'amministrazione agisca senza preoccuparsi di rispettare tutte le regole procedimentali, in particolare quando esse sono onerose in termini di risorse umane ed economiche. Risultano allora esservi parametri legislativi che, conformando pur sempre l'azione pubblica, non sono ugualmente meritevoli della medesima protezione. Ne discende che il principio di legalità è sostituito dal principio di strumentalità delle forme, per cui prevalendo la sostanza sulla forma, la violazione di una norma procedimentale si traduce in un vizio di legittimità solo quando abbia compromesso le esigenze che la norma violata mirava a salvaguardare32. La scienza giuridica ha cercato per via interpretativa di minimizzare tale minaccia alla regola della legalità, ridimensionandone gli effetti e sostenendo la tesi della «invalidità non pronunciata». Si prova a sintetizzarla in tre punti. Innanzitutto, i vizi non invalidanti del provvedimento, previsti dall'art. 21 octies, non costituiscono una nuova ipotesi di irregolarità, poiché l'atto irregolare (non annullabile) è ab origine affetto da un vizio formale minore, mentre in questa ipotesi la non annullabilità discende da una verifica ex post del giudice, in base alla quale si accerta che il provvedimento non poteva essere diverso33. Ne discende che il provvedimento viziato solo formalmente è comunque illegittimo. In secondo luogo, l'art. 21 octies è una norma processuale oppure una norma sostanziale ad effetti processuali, il che non implica differenze sotto il profilo della disciplina. La norma incide solo sul profilo sanzionatorio, stabilendo che l'invalidità del provvedimento, viziato nella forma, non è censurata mediante lo strumento annullatorio. Ciò significa, per un verso, che detta norma non incide sul binomio legittimità-illegittimità, per l'altro, che la cogenza delle norme che impongono il rispetto delle procedure amministrative o relative alla forma non è messa in discussione. In terzo luogo, tale invalidità formale non rimane integralmente priva di penalità, perché a sanzionare il mancato rispetto delle regole formali può intervenire una tutela alternativa di tipo risarcitorio fondata sulla responsabilità dell'amministrazione. Questa si giustifica con il fatto che, quando vi sia una invalidità non pronunciata, non è stato chiaramente adempiuto un obbligo di protezione. Il danno economico patrimoniale allora dovrà essere risarcito. Riassumendo: il provvedimento affetto da vizi, che non influiscono sulla rimozione giurisdizionale, è pur sempre un provvedimento illegittimo perché posto in violazione di regole imprescindibili. Nonostante tale 32 33 TAR Lazio, n. 3543/2006 Cons. St., n. 4614/2007 63 illegittimità formale, il legislatore ritiene che la sanzione dell'annullamento sia sproporzionata e dannosa e privilegia la stabilità del provvedimento. Ma questo apre la strada al rimedio risarcitorio. Questa tecnica di salvezza delle decisioni assunte è riscontrabile sia, sul piano comparato, in altri ordinamenti come quello tedesco e quello francese, sia, sul piano interno, nel diritto privato. Sotto quest'ultimo profilo, essa presenta diverse similitudini con le violazioni di regole comportamentali che non determinano l'invalidità del contratto. Anche tali ipotesi comportano la responsabilità del privato per scorrettezza comportamentale, a cui segue un risarcimento del danno da interesse negativo, non essendo stato il contratto inciso al punto tale da meritare la sanzione dell'annullamento, giacché non ne è stata spostata l'economia sostanziale. Nel complesso, risulta un difficile bilanciamento tra il principio di economia procedurale e la regola della legalità, che passa per la neutralizzazione degli effetti demolitori dell'infrazione. Il pericolo insito che così si presenta - comune in parte a tutte le fattispecie esaminate di «caduta» della legalità - sta nel dilatare oltremisura il potere del giudice sul piano dell'intensità del sindacato, pur nei limiti dell'onere della prova imposto dalla legge, delegando in sostanza all'organo giurisdizionale l'accertamento di ciò che è in grado di determinare l'annullamento. 9. I pericoli di una «caduta» della legalità amministrativa Dall'analisi svolta emerge, innanzitutto, come la regola della sottoposizione dell'amministrazione alla legge sembra aver perso il ruolo centrale che nel sistema democratico era prima chiamata ad assolvere. L'amministrazione non riceve più i suoi poter in via esclusiva, da un parlamento eletto a suffragio universale; anzi le norme comunitarie e le convenzioni internazionali, che si rivolgono anch'esse ai poteri pubblici nazionali, frequentemente prevalgono sulle leggi interne. Se si guarda al versante delle fonti del diritto, ciò è direttamente connesso alla crisi dello strumento della legge, intesa nel senso di manifestazione della preminenza dell'organo parlamentare. Sotto questo profilo, quello che era il principio di legittimazione democratica della pubblica amministrazione assume ora i connotati di principio di previa determinazione di criteri generali. Non rileva dunque la provenienza della norma, ma la sua struttura, per cui la regola di attribuzione e disciplina del potere deve essere generale, predeterminata in modo astratto, destinata a governare i singoli casi concreti, come preteso dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La certezza giuridica sembra aver preso il posto del principio di democraticità. 64 La prevedibilità del potere costituisce allora la prima garanzia per il cittadino, che si accompagna a sua volta con i parametri di ragionevolezza, adeguatezza; eguaglianza e proporzionalità. Difatti, se il principio di legalità assume il significato di principio di previa determinazione dei criteri di massima dell'azione amministrativa, all'ente pubblico è impedito decidere caso per caso e in modo arbitrario. Tra i criteri che guidano l'operato amministrativo rientrano anche i principi generali e non solo le previsioni normative espresse, come risulta dall'analisi dei poteri impliciti. Se si tiene conto della precettività della Costituzione, dei principi universali, dei trattati internazionali, dei regolamenti e direttive comunitarie, delle leggi statali e regionali, più che di legalità sarebbe corretto allora parlare di principio di giuridicità o di regola di diritto. È evidente, però, il rischio legato alla sottoposizione dell'amministrazione ad una molteplicità di parametri normativi. Se la singolarità della legge era in grado di assicurare effettivamente la prevedibilità del potere, viceversa la pluralità delle norme ne rende incerta l'applicazione. Quando vi sono tante disposizioni è in parte come se non ve ne fosse nessuna e ciò può lasciare spazio ad una certa forma di arbitrio, negando in radice la funzione di garanzia tipica del principio di legalità. Se la regola della legalità serve a rendere prevedibile e calcolabile l'attività amministrativa, il fatto che vi sia una pluralità di leggi opera in senso opposto. Inevitabilmente, tante previsioni normative si limiteranno più ad indicare ciò che è vietato e meno quello che è consentito, prendendo così i caratteri che la regola della legalità assume nel diritto privato. Il pericolo principale insito in questa situazione è l'eccesso di potere giurisdizionale, dato che al giudice è rimesso il compito finale di indicare, tra una pluralità di norme, quella che deve essere applicata dall'amministrazione. Anche per questo motivo il riflesso più evidente del fenomeno è che la regola della legalità non si connota più secondo il modello della conformità tra norma e atto, di applicazione quasi automatica, quanto secondo quello della compatibilità, nel quale rileva la valutazione del giudice che integra e completa la norma, individuata fra tante, con l'applicazione di principi giuridici generali, per stabilire l'idoneità e l'adeguatezza dell'azione amministrativa al raggiungimento del fine indicato dalla norma. I rischi minori sono connessi alla preferenza che può essere accordata, caso per caso, alla regola dell'economia procedurale rispetto alla legalità sostanziale, come avviene con la dequotazione dei vizi formali, privati della tutela demolitoria. Oppure alla precedenza che in certi casi può essere assicurata alla regola della certezza del diritto rispetto al pieno rispetto della disciplina legislativa, come avviene nella legalità comunitaria. 65 I rischi futuri, invece, sono legati ad una trasformazione dei parametri di riferimento dell'azione amministrativa, che sono gradualmente integrati dal soft law, secondo una concezione più aperta del diritto. In questi casi, non vi è un obbligo di sottoposizione ad una regola predeterminata, ma un suggerimento di una modalità di comportamento. L'amministrazione è dunque chiamata a confrontarsi con standards e guidelines: un insieme di precetti di origine diversa tesi, a vario titolo, ad influire sull'operato amministrativo, specialmente allorquando è il soggetto pubblico ad attendere un determinato risultato, come il riconoscimento di un bene patrimonio mondiale dell'umanità oppure l'attribuzione di un significativo punteggio nelle classifiche OCSE. 66 CAPITOLO 3 LA SEMPLIFICAZIONE PROCEDIMENTALE NEL CONTESTO DEL RIFORMISMO AMMINISTRATIVO ITALIANO DEGLI ULTIMI DECENNI: ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI 1. Premessa. - 2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni. - 2.1. La regionalizzazione. - 2.2. La privatizzazione del lavoro pubblico.- 2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della disciplina riguardante gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale. - 2.4. Il destino del principio di separazione tra politica e amministrazione. Il rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco ai principi di merit system e tenure. -3. Semplificazione amministrativa e competitività del Paese. - 4. Cause della complicazione amministrativa e tecniche di intervento. - 5. Gli interrogativi. - 6. La d.i.a./scia. - 6.1. La dibattuta questione della natura della d.i.a/scia e delle forme di tutela del terzo. - 6.2. La d.i.a/scia e le politiche di semplificazione: conclusioni. - 7. Il silenzio-assenso. La disciplina. - 7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione. - 8. Il silenzio inadempimento. 8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. - 8.1.2. La ristorabilità del danno da ritardo. - 8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il dibattito svoltosi prima della riforma. - 8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, 1. n. 241/1990: persa un’occasione per la soluzione del problema? 8.1.3. La nuova ipotesi di responsabilità dirigenziale: i rapporti con la responsabilità dirigenziale prevista dall’art. 21, D.lgs. n. 165 del 2001. - 8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del procedimento. - 9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1. 241/1990. - l0. Riforma dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo: è possibile una sinergia? La delega per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge n. 69 del 2009 e il varo del codice del processo amministrativo. 1. Premessa La semplificazione amministrativa è da tempo all’ordine del giorno in gran parte dei Paesi occidentali. Soprattutto negli ultimi decenni si sono registrate riforme legislative e iniziative volte ad attuarla, per lo più nell’ambito di più articolati disegni di riforma dell’amministrazione. In particolare, si sono moltiplicati gli interventi finalizzati ad assicurare una semplificazione del procedimento amministrativo. All’esame delle tecniche di semplificazione procedimentale sperimentate in questi ultimi decenni è diretto il presente capitolo: alla ricognizione dei principali istituti introdotti dal legislatore con l’intento di semplificare l’attività procedimentalizzata e alla ricostruzione con metodo diacronico delle discipline che si sono succedute seguirà, quindi, il tentativo di analizzarne gli effetti anche di tipo sistematico, evidenziando i risultanti raggiunti ma anche i principali profili di criticità. 67 2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni. Ancor prima, giova inquadrare le politiche di semplificazione procedimentale in un contesto di più ampio respiro, quale è quello della riforma complessiva dell’amministrazione. Non vi è dubbio, invero, che la semplificazione amministrativa e, in specie, quella procedimentale rappresenti un tassello (certo importante) di più ampie e complesse politiche di riforma amministrativa. Ebbene, non può non cogliersi l’utilità di una disamina delle politiche di semplificazione procedimentale in atto condotta tenendo ben chiare le linee principali lungo le quali si è mosso (e si sta muovendo) il percorso delle riforme dell’amministrazione. Almeno due le ragioni che rendono opportuno un inquadramento sistematico delle politiche di semplificazione procedimentale. Da un lato, lo snellimento delle procedure amministrative non è, invero, conseguibile con interventi, tanto più se episodici e parziali, sulla sola disciplina di questo o quel procedimento, richiedendo, piuttosto, la definizione di un disegno globale, integrato e coerente che, muovendo dalla revisione delle strutture amministrative e dei loro collegamenti organizzativi, passi per una ridefinizione dei compiti ed un’ottimizzazione delle capacità di lavoro all’interno degli uffici, giungendo per questa via ad una riduzione dei passaggi e dei tempi necessari per lo svolgimento dell’agire amministrativo34. Detto altrimenti, sarebbe sbagliato pensare di poter affidare solo a siffatta tipologia di tecnica la ripresa dei complicati e lunghi processi di semplificazione amministrativa e, più in generale, di miglioramento delle performance dell’amministrazione pubblica. Volendo anzi anticipare quanto emergerà nel passare in rassegna taluni istituti valorizzati dal legislatore nel tentativo di perseguire obiettivi di semplificazione, può dirsi che un’autentica semplificazione può raggiungersi incidendo sulle cause strutturali delle complicazioni amministrative, non già con interventi destinati ad incidere sul solo procedimento, al fine di eliminarne talune fasi o a depotenziare il rilievo da riconoscere all’inosservanza di talune sue regole35. Su altro e speculare versante, il nesso tra semplificazione procedimentale e disegno complessivo di modernizzazione dell’amministrazione 34 PATRONI GRIFFI, La semplificazione amministrativa, 2008, in “www.giustiziaamministrativa.it” 35 Sul punto, le riflessioni di AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.Tar”, 2005, 2635 ss. 68 risulta, con una certa evidenza, se si considera il rischio che la semplificazione del procedimento amministrativo e taluni istituti attraverso il cui potenziamento si è inteso realizzarla (silenzio-assenso e d.i.a.) rechi con sé una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti, e, per l’effetto, un abbattimento della capacità degli apparati pubblici di assolvere adeguatamente i propri compiti. Occorre, allora, avere chiari gli obiettivi che si intende perseguire nel condurre le politiche complessive di riforma dell’amministrazione e quelle, più particolari, di semplificazione procedimentale. Al riguardo, il legislatore dei primi anni ’90, per vero sviluppando indicazioni contenute nel famoso Rapporto Giannini del 1979, ha colto nella coppia efficienza-efficacia i parametri destinati ad ispirare ed orientare la riforma del sistema amministrativo italiano; tanto in omaggio ad una auspicata aziendalizzazione dell’amministrazione pubblica, frutto peraltro di un retro terra culturale fondato sulla giusta considerazione delle lentezze, arretratezze e disfunzioni dell’apparato pubblico. Ciò che, però, non può trascurarsi è il rischio che, nel tentativo spasmodico di aziendalizzare l’amministrazione pubblica, assimilandola all’impresa privata, si perseguano obiettivi di efficienza ed efficacia a discapito di altri valori fondamentali, in specie quelli di imparzialità, legalità e responsabilità, nella mancata consapevolezza che la logica pubblica non può coincidere del tutto con quella imprenditoriale. Si tratta di un assunto che merita un qualche approfondimento. L’introduzione di criteri di razionalità economica nell’organizzazione e nel funzionamento dell’amministrazione pubblica non può e non deve finire per mettere in ombra il principale obiettivo della stessa e dei suoi funzionari, quale è quello della difesa e cura, imparziale e responsabile, degli interessi pubblici generali. Un’osservazione pare, al riguardo, quasi scontata. La modernizzazione dell’apparato pubblico e il recupero, nella sua organizzazione e nella sua attività, di efficienza ed efficacia (oltre che, indirettamente, di credibilità) deve passare per una valorizzazione del ruolo, un innalzamento delle capacità gestorie ed un rafforzamento del sistema di responsabilità dei “vertici aziendali”, di chi cioè ha la responsabilità di assicurare l’attuazione dei processi di riforma amministrativa. Non pochi pericoli prospetta, per contro, un processo riformatore che: - sul piano organizzativo, precarizza la dirigenza pubblica rendendola sempre meno idonea ad assicurare, in quanto defraudata della necessaria indipendenza statutaria, un’imparzialità di azione ed una adeguata capacità di comparare e valutare, nel definire la vicenda amministrativa, tutti gli interessi coinvolti, e spesso in contesa; 69 - e che dall’altro, intervenendo sul piano funzionale, persegue l’obiettivo dello snellimento procedimentale incidendo su talune fasi della ponderazione degli interessi in gioco per eliderne talune, in specie rendendo facoltativa la chiusura dell’iter procedimentale con un provvedimento espresso che motivatamente dia conto delle ragioni sottese alla scelta amministrativa. È un timore che è consentito nutrire alla stregua di una lettura sistemica delle linee di tendenza che hanno mosso il riformismo amministrativo negli ultimi decenni? A che punto è allora la riforma dell’amministrazione italiana? Quali le linee di tendenza e i risultati raggiunti? Non si tratta di domande cui è agevole rispondere tanto più che non è affatto certo che si possa enucleare talune indiscutibili e condivise linee di tendenza. Al di là del comune denominatore rappresentato dai dichiarati scopi efficientistici, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni si è caratterizzato non solo per cambi di intensità nella marcia, con accelerazioni e brusche battute di arresto, ma anche per fragorosi cambi di rotta, con un succedersi frenetico di riforme e contro-riforme, l’una contrapposta all’altra. La stessa instabilità degli indirizzi politici, conseguente all’alternanza al governo di maggioranze di segno opposto, non ha mancato di sortire effetti sulle sorti della politica di riforma amministrativa, non sempre atteggiatasi come politica bipartisan36. Volendo provare, ciò nonostante, a tracciare alcune tendenziali direttrici lungo le quali si è mosso, ancorché con oscillazioni e 36 Constatazione che non può non suscitare forti preoccupazioni essendo quello della riforma dell'amministrazione un processo nella cui attuazione sono quanto mai indispensabili coerenza e perseveranza di indirizzi politici, da realizzarsi prescindendo da eventuali mutamenti degli equilibri politici e parlamentari. Si impone, cioè, per usare una terminologia talvolta abusata, un sostegno bipartisan. Esigenza, quest'ultima, di cui si comprende appieno l'importanza in specie con riferimento alle politiche di semplificazione. Elevato si prospetta il rischio che le amministrazioni siano fagocitate dai propri interessi di settore, e che da ciò derivino ostacoli all'emersione ed alla concreta realizzazione di iniziative di semplificazione. Invero, la semplificazione e la qualità della regolazione costituiscono un "interesse pubblico autonomo" che tuttavia, non sostenuto da una continua e coerente volontà politica, appare inevitabilmente perdente di fronte agli interessi di settore, dotati di maggiore capacità di autoconservazione, oltre che di più elevata attitudine ad affermarsi sul piano istituzionale ed amministrativo. PATRONI GRIFFI, La semplificazione amministrativa, cit. Per usare il linguaggio di M.S. Giannini, è questa una delle "invarianti" naturali che si frappongono al processo di semplificazione, da impostare conseguentemente sulla base di una strategia di lungo periodo. Sul tema MELIS, La storia del diritto amministrativo, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di CASSESE, Diritto amministrativo generale, I, Milano, 2000, 89 ss. 70 contraddizioni, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni è consentito svolgere, in estrema sintesi, le seguenti osservazioni. 2.1. La regionalizzazione Su un primo versante, va segnalata la tendenza, per vero registratasi anche in ambito europeo37, a spostare verso il basso e verso la periferia funzioni e compiti amministrativi, con allentamento dei vincoli gerarchici che connotavano storicamente il nesso tra plessi centrali dell’amministrazione e le periferie e con conseguente valorizzazione della rete delle istituzioni periferiche, in attuazione del principio di sussidiarietà. Ne è emerso un rinnovato assetto istituzionale fondato su un modello di tipo reti colare, in contrapposizione alla tradizione amministrativa di stampo ottocentesco connotata dalla valorizzazione di schemi verticistici, gerarchici e piramidali. Scontato, al riguardo, segnalare 1’incerta e contrastata realizzazione della riforma del Titolo V (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), svoltasi tra le forti resistenze di tipo centralistico (in specie per quel che attiene alla riduzione degli apparati centrali e al trasferimento del personale), e sempre più radicali proposte di modifica costituzionale volte a riconoscere alle Regioni ancor più estese potestà esclusive. Certo è, comunque, che lo spostamento di competenze e materie tra il centro e la periferia ha imposto l’individuazione di nuove forme organizzative oltre che di nuovi poteri idonei ad assicurare l’armonizzazione e la messa in rete dei soggetti presenti nel reticolo istituzionale ormai diffuso sul territorio38. 37 Per una disamina dei tratti comuni che hanno connotato l'evoluzione dei sistemi amministrativi europei, D'ALESSIO, Convergenze e divergenze dei sistemi amministrativi europei, in Istituzioni, politica e amministrazione. Otto paesi a confronto, a cura di DI BENEDETTO, Torino, Giappichelli, 2005, 176 ss. 38 In tema CAMMELLI, Le autonomie tra sistemi locali e reti: profili istituzionali, in L'innovazione tra centro e periferia. Il caso di Bologna, Il Mulino, Bologna, 2004, 15, secondo cui “oggi il governo locale è avvolto in una fitta rete di regolazioni, procedure, vincoli e compatibilità che condizionano profondamente l'esercizio dei propri poteri. Questi ultimi restano, naturalmente, ed anzi si sono largamente accresciuti nel tempo... Ma la selezione e soddisfazione della propria "domanda" passa, almeno per le decisioni rilevanti, sempre meno per i moduli dell'autodeterminazione e sempre più per quelli della cooperazione con altri soggetti, pubblici e privati. L'intuizione dei patti territoriali, e delle altre forme negoziali promosse dal centro, muovono appunto da questi elementi territoriali, e delle altre forme negoziali promosse dal centro, muovono appunto da questi elementi". 71 2.2. La privatizzazione del lavoro pubblico Un secondo fondamentale settore di intervento del riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni è stato quello della regolamentazione del lavoro pubblico, con la contrattualizzazione del rapporto di impiego alle dipendenze dell’amministrazione pubblica. Come è stato osservato, peraltro, anche tale importante segmento del processo riformatore non è stato immune da criticità e debolezze: “Su alcuni istituti di decisiva importanza per l’efficienza organizzativa la contrattazione non è intervenuta o è intervenuta con eccessiva timidezza, come nel caso degli inquadramenti e della progressione in carriera”; tanto ha comportato che “l’area disciplinata da disposizioni normative è ancora estesa’’39. Soprattutto, una contrastata e preoccupante evoluzione ha connotato la strategica regolamentazione del rapporto che lega i dirigenti all’amministrazione: evoluzione su cui è opportuno soffermarsi per tracciarne i passaggi decisivi, ma anche per evidenziarne le sicure criticità40. Il tema merita un approfondimento se si considera che la definizione dello status dei dirigenti è con ogni evidenza destinata a condizionare i rapporti tra politica e amministrazione, la cui netta separazione aveva rappresentato il manifesto ideologico, se non la vera e propria bussola del riformismo amministrativo dei primi anni Novanta41. 2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della disciplina riguardante gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale 39 SAVINO, Le riforme amministrative, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, Diritto amministrativo generale, I, II ed., Milano, 2234. 40 Si veda, CARINCI, Giurisprudenza costituzionale e c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2006, 3-4. 41 Tra i primi fautori della scissione netta tra funzione di indirizzo politico e funzione di esecuzione amministrativa, SPAVENTA, La politica della Destra, Bari, 1910, 25; MINGHETTI, I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, Bologna 1881, 102; WILSON, The study of administration, in Political science quarterly, 1887, 2, 209 ss.; PETERS, La pubblica amministrazione. Un'analisi comparata, Bologna, 1991, 18. 72 Come è noto, la dirigenza pubblica42 è stata oggetto di profonde riforme a partire dalla generale privatizzazione dell’impiego pubblico attuata col D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 che, in attuazione di quanto stabilito dalla legge delega43, l’aveva suddivisa in due “fasce”, con limitazione della contrattualizzazione del rapporto d’impiego ai soli dirigenti sottordinati e conservazione, invece, del rapporto di tipo pubblicistico per i dirigenti generali (ossia, per quelli dei livelli apicali). Distinzione che, seppure oggetto di critiche in dottrina44, era stata ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale che ha valorizzato il ruolo di “cerniera” svolto dai dirigenti apicali tra livello politico e livello amministrativo45. Successivamente, il legislatore ha abbandonato l’originaria opzione tornando, con la legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. “legge Bassanini’’) e il conseguente decreto attuativo (D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), al regime unitario; è stata difatti estesa anche ai dirigenti generali l’applicabilità della generale disciplina civilistica con una scelta che apprezzata da taluni - in quanto volta ad evitare pericolose fratture all’interno della dirigenza pubblica e a portare a compimento l’avviato processo di privatizzazione del pubblico impiego46 - è stata invece fortemente contestata da chi ha intravisto nella collocazione dei dirigenti, anche generali, nell’area privatistica, con conseguente soggezione alla contrattazione di diritto comune, alla giurisdizione ordinaria e al connesso regime di recesso dal rapporto di lavoro, altrettanti pericoli per l’indipendenza di giudizio e per l’imparziale esercizio delle funzioni pubbliche loro conferite. In ogni caso, 42 Fra i principali studi monografici sulla dirigenza pubblica si segnalano: DURVAL, La riforma della pubblica amministrazione ed il sistema di valutazione dei dirigenti, in “Lav. e prev. oggi”, 2009, 3, 321 ss.; LANOTTE, Lavoro e P A. - La dirigenza pubblica, in “Dir. prato lav.”, 2003, 10, 682 ss.; CUCCURU, Il ruolo della dirigenza alla luce del principio di separazione fra politica e amministrazione, in “Foro amm. TAR”, 2003, 4, 1409 ss.; CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, n. 2, 231 ss.; ASTONE, Prime note sul riordino della dirigenza statale, in Funz. pubbl., 2002, 1, 31 ss.; MEOLI, Il nuovo ruolo della dirigenza, in “Foro amm.”, 1997, II, 2197 ss.; BATTINI, Il personale e la dirigenza, in “Gior. dir. amm.”, 1997, 425 ss.; PROIETTI, La dirigenza, in “Quad. dir. lav. rel. ind.”, 1995, n. 16, 72 ss.; CAPOBIANCHI, D'ALESSIO, GIRARDI, PREZIOSI, ZELEFILIPPO, La riforma della dirigenza pubblica, in “Nuova rassegna”, 1994, n. 13-14, 1665 ss.; ALBANESE-TORRICELLI, La dirigenza pubblica, in “Giorn. dir. lav. rel. ind.”, 1993, 521 ss.; D'ALBERTI (a cura di), La dirigenza pubblica, Bologna, 1990; D'ORTA, MEOLI, La riforma della dirigenza pubblica, Padova, 1994. 43 Legge 23 ottobre 1992, n. 421. 44 D'ORTA, La riforma della dirigenza pubblica tre anni dopo: alcuni nodi irrisolti, in “Lav. dir.”, 1996, 2, 283 55.; PORIETTI, op. cit. 45 Corte. cost., 25 luglio 1996, n. 313, in Mass. giur. lav., 1996, 698 55. 46 FERLUGA, La dirigenza pubblica verso la ''privatizzazione'': gli ultimi (e forse definitivi) interventi legislativi, in “Giust. civ.”, 1999, 1, 24 ss. 73 a questa trasformazione del regime giuridico della dirigenza, così sottratta al tradizionale modello burocratico, ha corrisposto l’introduzione di nuove forme di valutazione dell’operato dei dirigenti, in specie consistenti nella verifica dei risultati conseguiti e degli obiettivi raggiunti. Conseguentemente, è stato delineato il nuovo modello della responsabilità dirigenziale, concepita come una responsabilità tipica e specifica del ruolo dirigenziale, ulteriore e aggiuntiva rispetto ad altre forme di responsabilità (civile, contabile, disciplinare ecc.), sganciata dall’illegittimità degli atti e dei comportamenti posti in essere e invece strettamente connessa alla validità ed all’efficienza dell’attività gestionale svolta47. Più in generale, tra le maggiori novità introdotte dal D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80, meritano di essere attentamente segnalate la previsione generale del limite temporale massimo di sette anni per tutti gli incarichi dirigenziali e la possibilità di revoca, da parte del governo che entra in carica, dei cosiddetti incarichi di vertice (segretario generale di ministeri, incarichi di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali); facoltà esercitabile nei primi novanta giorni dall’insediamento del nuovo governo che ha ottenuto la fiducia dal Parlamento (art. 13). L’art. 13 del D.lgs. n. 80/1998, che sostituisce l’art. 19 del D.lgs. n. 29/1993, reca quindi significative innovazioni al regime degli incarichi dei dirigenti. Vengono, infatti, introdotti due principi mediante i quali si accentua il carattere fiduciario dell’affidamento di tali incarichi: quello della durata limitata nel tempo e quello - anche se limitato ai soli incarichi di “vertice” della revocabilità degli stessi da parte del nuovo governo che subentra al precedente. Su questo quadro complessivo è intervenuta la profonda riforma della dirigenza pubblica recata dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 (c.d. “legge Frattini”), in cui, da più parti, si è intravisto il tentativo di attuare una parziale (ma vistosa) inversione di rotta rispetto al percorso fino a quel momento seguito dal legislatore, con sottrazione di ampi settori del rapporto di impiego dei dirigenti al modello contrattuale e conseguente ripubblicizzazione del loro status.48 Tre i principali aspetti del previgente impianto normativo su cui la legge n. 145 del 2002 interviene in senso profondamente innovativo: 47 D'ORTA, Verifica dei risultati. Responsabilità dirigenziali, in II lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario diretto da F. Cariaci, Milano, 1995, 490 ss.; NOVIEILO, TENORE, La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, Giuffrè, 2002, 62 ss., 136. 48 Cfr., CARINCI, Sisifo riformatore: la dirigenza, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 959 ss.; CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.: dall'illuminismo del progetto alla contaminazione della prassi, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 991 ss. 74 - le modalità di determinazione dell’oggetto, degli obiettivi e della durata dell’incarico (art. 3, co. 1, lett. b); - l’introduzione, tra i parametri di valutazione della responsabilità dirigenziale, dell’osservanza delle direttive da parte del dirigente (art. 3, co. 2, lett a); - l’abolizione del ruolo unico e, quindi, del cosiddetto mercato delle competenze interno alle amministrazioni (art. 3, co. 4). In disparte la riscrittura dell’art. 15, D.lgs. n. 165 del 2001, con conseguente cancellazione del ruolo unico dirigenziale (che aveva rappresentato una delle principali innovazioni dell’impianto previgente, sempre osteggiata dalle burocrazie presso i Ministeri)49 e conseguente ripristino dei singoli ruoli ministeriali, assume un rilievo centrale la nuova disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali di cui all’art. 19 del medesimo testo unico che, nella versione tuttora in vigore, stabilisce che i predetti incarichi siano conferiti con un “provvedimento”, al quale “accede un contratto individuale”. Ebbene, se il contenuto del contratto è limitato alla disciplina del trattamento economico del dirigente, nel provvedimento di conferimento ovvero in separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri o del Ministro competente - sono individuati “l’oggetto dell’incarico e gli obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto, nonché la durata dell’incarico” (originariamente inseriti, invece, nel contratto di impiego). Quanto alla durata degli incarichi, peraltro, giova osservare che già nella disciplina del 1998 la precarizzazione del rapporto di ufficio era stata connessa al meccanismo secondo il quale la cessazione degli incarichi della nuova dirigenza “privatizzata” discendeva automaticamente dal mutamento del governo. Come osservato, “l’applicazione dello spoils system ‘‘in senso stretto’’venne peraltro limitata, dal legislatore del 1998, ai soli incarichi dirigenziali più elevati [...], cioè ad incarichi conferiti con d.P.R., previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, e relativi alla titolarità di strutture articolate a loro volta in uffici dirigenziali generali”50. A questo, tuttavia, si affiancava, già nella disciplina del 1998, quello che è stato definito spoils system “in senso lato”, attesa la già prevista “temporaneità” per tutti gli incarichi dirigenziali51. 49 CARINCI, Il lento tramonto del modello unico ministeriale: dalla "dirigenza" alle "dirigenze'': in “Lav. nelle p.a.”, 2004, 5, 833 ss. 50 BATTINI, In morte del principio di distinzione tra politica e amministrazione: la Corte preferisce lo spoils system, in “Giornale di diritto amministrativo”, 2006, n. 6, 912-913. 51 Ibidem. 75 Con la successiva legge n. 145 del 2002, tuttavia, la breccia aperta dal legislatore del 1998 è stata non poco allargata, da un lato, con la soppressione di qualunque limite alla durata minima degli incarichi dirigenziali e la sostanziale previsione della possibilità di incarichi anche brevissimi, dall’altro, con l’introduzione di una disciplina transitoria - poi dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale52 - per la quale una tantum si rendeva possibile la cessazione automatica di tutti gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale in corso al momento dell’entrata in vigore della legge. Sul primo versante, è stabilito, infatti, che la durata degli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale generale non possa eccedere il termine di tre anni, mentre, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il termine non deve superare i cinque anni53. Chiara la conseguente accentuazione dell’instabilità nell’esercizio delle funzioni dirigenziali la cui titolarità riveste carattere permanentemente provvisorio, rinvenendo peraltro la sua legittimazione primaria in un atto di investitura con cui sono conferiti ai dirigenti gli incarichi di direzione degli uffici di livello dirigenziale. Ne è risultato un complessivo quadro regolamentare del rapporto di impiego dirigenziale difficilmente compatibile con il succitato principio di netta separazione e reciproca autonomia tra indirizzo politico e azione amministrativa (asse dichiaratamente portante delle riforme avviate negli anni Novanta)54. Invero, l’accentuazione del carattere fiduciario della nomina dei dirigenti e della loro dipendenza dall’organo di vertice politico, calata nel contesto normativa che comunque continua a caratterizzare la dirigenza pubblica, ha recato con sé una “precarizzazione” di quest’ultima55. 52 Corte. cost., 23 marzo 2007, n. 103, su cui CLARICH, Una rivincita della dirigenza pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia dell'imparzialità della pubblica amministrazione, in “www.neldiritto.it” (2007). 53 Prima dell'entrata in vigore della legge n. 145 del 2002, la disciplina modificata prevedeva che gli incarichi avessero durata non inferiore a due anni e non superiore a sette anni, con facoltà di rinnovo. 54 L'espressione è di D'ALESSIO, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, in “Lav. nelle p.a.”, 2006, 3-4, 549 ss. In tema, MERLONI, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Il modello italiano in Europa, Bologna, Il Mulino, 2006; SGROI, Dalla contrattualizzazione dell'impiego all'organizzazione privatistica dei pubblici uffici, Torino, Giappichelli, 2006. 55 CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in “Lav. nelle p.a.”, 2003, 2, 231 ss. Cfr., pure, VALENSISE, La dirigenza amministrativa tra fiduciarietà della nomina ed il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, in “Giur. cost.”, 2002, 1211 ss., secondo il quale le disposizioni citate accentuano la componente fiduciaria nel rapporto tra la politica e la dirigenza, con il rischio che neanche più il regime giuridico della responsabilità dirigenziale, da far valere in caso di violazione degli obblighi 76 Tale ripensamento della filosofia sottesa alla normativa in materia di dirigenza pubblica non ha mancato, peraltro, di manifestarsi anche in sede di riscrittura della disciplina relativa alla valutazione dei dirigenti e alla loro specifica responsabilità. Di sicuro rilievo, al riguardo, da un lato, la soppressione, nel corpo dell’art. 21 del D.lgs. n. 165 del 2001, che disciplina la responsabilità dirigenziale, di una delle ipotesi cui era possibile ricondurre detta responsabilità, quella inerente ai risultati negativi dell’attività svolta, previsione più direttamente connessa alla ratio normativa tendente a riconoscere in capo ai dirigenti il massimo dell’autonomia organizzativa e gestionale, riservando alla P.A. la successiva verifica dei risultati; dall’altro, come osservato, l’introduzione, tra i parametri di valutazione della responsabilità dirigenziale, dell’osservanza delle direttive da parte del dirigente. Invero, il riferimento al rispetto delle direttive (da considerarsi altro dal raggiungimento degli obiettivi), introduce una limitazione dell’autonomia del dirigente, consentendo al vertice politico (ovvero al dirigente generale, nel caso del dirigente cui non sia affidato un ufficio dirigenziale generale) di attendere, non solo, all’indicazione degli obiettivi, ma, anche, alla definizione delle modalità concrete di realizzazione dell’obiettivo stesso56. Volendo riassumere, agli originari tre “livelli” di responsabilità (lieve, nel caso di risultati negativi o di mancato raggiungimento degli obiettivi; media, nel caso di grave inosservanza di direttive e di ripetuta valutazione negativa dei risultati dell’attività amministrativa; grave, nei casi di maggiore gravità) si sostituisce, per effetto della legge n. 145 del 2002, la tipizzazione di due sole condotte che possono essere fonte di responsabilità: il mancato raggiungimento degli obiettivi e l’inosservanza di direttive (quest’ultima non più accompagnata dal requisito della gravità). Tali fattispecie, poi, in ragione della loro maggiore o minore gravità, possono dar luogo a diverse conseguenze: nei casi meno gravi, all’impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale; in quelli più gravi, alla revoca anticipata dell’incarico ovvero al recesso dal rapporto di impiego. Lo stretto legame della responsabilità dirigenziale con l’oggetto dell’incarico dirigenziale è quindi ancor più evidente a seguito della legge pattuiti all'atto di conferimento dell'incarico, possa costituire una garanzia di stabilità, una sorta di contrappeso al cosiddetto ''pactum fiduciae". 56 Nella scorsa legislatura, si è cercato, senza risultato, di ridefinire i confini della responsabilità dirigenziale, nel quadro di progetti di legge intesi a una più generale riscrittura dell'assetto della dirigenza pubblica. In tema, cfr. GLINIANSKI, Riforma e innovazione della dirigenza nello schema di DDL del Governo contenente misure di razionalizzazione delle norme generali sul lavoro alle dipendenze delle PP.AA., in “www.Jexitalia.it.”, n. 9/2007; OLIVIERI, Brevi annotazioni sulla riforma della dirigenza, cit. 77 n. 145 del 2002, attesa l’individuazione delle infrazioni suscettibili di dar luogo a tale responsabilità (mancato raggiungimento degli obiettivi e inosservanza di direttive). Con la scomparsa di quella particolare fattispecie di responsabilità dirigenziale che trovava fondamento nei “risultati negativi della gestione”, detta responsabilità risulta oggi “tagliata esattamente a misura dei contenuti dell’incarico attribuito al dirigente”;57 in particolare, non è privo di significato che oggi non sia più prevista, quale possibile causa di un giudizio di inidoneità del dirigente, una generale e oggettiva verifica della validità dei risultati ottenuti in rapporto all’interesse della collettività e ai principi e valori di buon andamento della P.A., ma una valutazione circoscritta all’aderenza dell’operato del dirigente agli obiettivi “scolpiti” nell’originario provvedimento di incarico58. 2.4. Il destino del principio di separazione tra politica e amministrazione. Il rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco ai principi di merit system e tenure. Il complesso delle innovazioni così sommariamente descritte e, sfociata, da ultimo, nella Riforma Brunetta del 2009 sui cui contenuti ed effetti molto si discute e che pur, secondo alcuni autori, mirerebbe quanto meno ad attenuare in senso meritocratico i rischi da molti paventati59, che la riforma del 2009 parrebbe aver scongiurato. Pur restando formalmente vigente, invero, il principio per cui nella scelta dei dirigenti occorre tener conto anche “delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti’’, non vi è dubbio che l’accentuazione dell’elemento fiduciario finisca per mettere in discussione il principio cardine di separazione tra politica e amministrazione, implicando un intervento di dettaglio della prima sull’attività della seconda. Evidente il rischio di un’accentuazione della dipendenza e della fidelizzazione del dirigente al vertice politico60. 57 MAINARDI, La responsabilità dirigenziale e il ruolo del comitato dei garanti, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 1078 ss. Sul sistema dello “spoils system”, a conforto della tesi qui illustrata, si veda, tra tante, C. Cost. 81/2010 58 CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.: dall'illuminismo del progetto alla contaminazione della prassi, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 993-994. 59 GAROFALO, La dirigenza pubblica rivisitata, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 873 ss.. 60 ANGIELLO, La valutazione dei dirigenti pubblici, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 1070 ss. Rischio ancor più robusto se si considera che, in base alla vigente normativa (art. 19, co. 6, del d.lg. n. 165 del 2001, così come sostituito dall'art. 3, co. 1, letto g), L n. 145 del 2002), è il conferimento di incarichi di funzione dirigenziale semplice nonché di funzione dirigenziale di livello generale, a persone estranee a quest'ultima. 78 Diverse le ragioni che hanno determinato quella che è stata definita una “regressione” del sistema amministrativo italiano61. Alla constatazione dell’immobilismo di certa dirigenza amministrativa, scelta sulla base del criterio della sola anzianità, si è affiancato il forte impatto esercitato anche sul sistema amministrativo dall’avvento nella costituzione politica del principio maggioritario, che ha comportato l’esigenza della politica, direttamente scelta dall’elettorato sulla base di un programma politico assuntamente vincolante, di poter scegliere con discrezionalità i soggetti preposti all’attuazione del programma, sull’assunto secondo cui all’apparato burocratico sarebbe spettato unicamente di mettere in atto, in modo quasi meccanico, le direttive della politica. In una prospettiva di più ampio respiro, si delinea il rischio che siano posti in dubbio principi cardine dell’organizzazione amministrativa (non privi, peraltro, di copertura costituzionale), quali quelli, per usare un’espressione di origine britannica, di merit system (che presuppone e impone l’accesso agli uffici pubblici in posizione di eguaglianza e sulla base del merito accertato in forma competitiva) e di tenure (ossia di permanenza nel ruolo dei dirigenti)62. Principi la cui consapevole elaborazione nel dibattito costituente svoltosi con riguardo alle disposizioni relative alla pubblica amministrazione non può essere messa in discussione. Basti ricordare l’intervento, di evidente attualità, con cui Mortati rimarcò l’esigenza di ‘‘assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti’’63. Naturalmente, i principi citati non ostano affatto all’introduzione di strumenti giuridici che consentano di valutare i dirigenti pubblici quanto a risultati, efficienza ed efficacia di azione. Ciò che si sottolinea è il rischio che le illustrate riforme organizzative degli ultimi anni possano recare - in uno ad un sistema di sostanziale “irresponsabilità” degli organi politici che, non titolari della gestione amministrativa, non possono essere chiamati a rispondere delle loro scelte 61 CASSESE, L'ideale di una buona amministrazione: principio del merito e stabilità degli impiegati, Lectio magistralis per l'inaugurazione del Master in Diritto amministrativo, Napoli, Facoltà di Giurisprudenza, 19 gennaio 2007. 62 Una ricostruzione delle ragioni che hanno storicamente giustificato l'affermarsi di quei principi quali regole cardine dell'organizzazione della burocrazia nei Paesi occidentali in CASSESE, L'ideale di una buona amministrazione: principio del merito e stabilità degli impiegati, cit. 63 Intervento tenuto nella seduta del 14 gennaio 1947 della seconda Sotto commissione per la Costituzione, Prima Sezione (in AP, 1864). 79 discrezionali (restando sottoposti prevalentemente alla sola responsabilità politica) - una promiscuità nei rapporti tra potere politico e dirigenza, con conseguente deresponsabilizzazione di quest’ultima, oltre che, il che è ancor più grave, ad una progressiva perdita di quell’indipendenza statutaria premessa indispensabile per un esercizio imparziale delle funzioni. Su un piano ancor più generale il rischio è quello di una incondizionata rinuncia a costruire una dirigenza amministrativa di ruolo degna delle migliori burocrazie europee. 3. Semplificazione amministrativa e competitività del Paese Così sinteticamente illustrato il quadro generale delle riforme dell’amministrazione, è possibile focalizzare l’attenzione sulle politiche di semplificazione amministrativa. Non si tratta di un processo solo italiano. L’esigenza di por mano alle complicazioni amministrative è da tempo avvertita in tutti i Paesi occidentali, nei quali è peraltro viva la consapevolezza della difficoltà del percorso di semplificazione. Consapevolezza espressa in modo efficace con l’ossimoro simplifier est une tache assez compliquée. Una consapevolezza, del resto, non di recente emersione se già Tocqueville mise in evidenza, nella descrizione dello Stato francese alla vigilia della Rivoluzione del 1789, la complessità del sistema amministrativo e delle procedure all’epoca adottate, rilevando, per esempio, che la lentezza della procedura amministrativa è così grande che “non ho mai visto passare meno di un anno prima che una parrocchia potesse ottenere il permesso di rialzare il campanile o di restaurare il presbiterio”64. Ritornando all’interno dei confini nazionali, negli anni ’90, nell’ambito del rinnovato interesse per la riforma dell’amministrazione, si sono imposti i temi della delegificazione e della qualità della normazione, soprattutto secondaria. Già con la legge 241/1990 è cominciata a farsi strada l’idea secondo cui la “semplificazione amministrativa” è elemento trainante di una riforma dell’amministrazione pubblica, ritardi ed inefficienze costituendo le principali cause di arretratezza della macchina pubblica. Matura, in una prospettiva di ancor più ampio respiro, la convinzione dell’impatto negativo sulla competitività del “sistema Paese” del c.d. “rischio amministrativo”, per tale intendendosi l’insieme di elementi negativi che rendono l’amministrazione inefficiente, le sue regole non chiare e contraddittorie, i suoi procedimenti lenti e farraginosi: dalle 64 Citazione tratta da CLARICH, Gli strumenti di semplificazione della burocrazia: deregolamentazione, decentramento, sportello unico, nuove forme di organizzazione amministrativa e nuovi modelli procedimentali, 2000, in “www.giustiziamministrativa.it” 80 disfunzioni organizzative, alle regole che disciplinano l’attività, talvolta apparentemente destinate ad ostacolare o impedire le attività economiche, ai ritardi nella cultura della dirigenza pubblica, alla difficoltà di affermare un rigoroso regime di responsabilità per i danni arrecati alle attività dei cittadini da atti o dall’inerzia o dai ritardi delle amministrazioni, alla non risolutività delle decisioni della giustizia amministrativa ed alla ineffettività quindi del sistema rimediale (tema, quest’ultimo, come si proverà ad osservare in chiusura, intimamente connesso a quello della semplificazione dell’amministrazione e del recupero di efficienza e credibilità della stessa)65. La consapevolezza del legame che intercorre tra riforma dell’amministrazione e sua semplificazione, da un lato, rilancio della competitività, dall’altro, traspare peraltro in modo evidente se si considera che i primi strumenti di semplificazione sono stati adottati, sul piano formale, nell’ambito di una legge finanziaria (1. n. 537 del 1993); parimenti significativo è che con il d.l. n. 35/2005 sulla c.d. “competitività” sono state riscritte, nel tentativo di dare impulso al processo di semplificazione, le disposizioni della legge 241/1990 relative alla d.i.a, e al silenzio-assenso. Con legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”, sono state ancora una volta riscritte le disposizioni relative a tre istituti di semplificazione, quali la conferenza di servizi (che riguarderà la parte centrale del presente contributo), la d.i.a (oggi scia) e il silenzio-assenso. Non si intende in questa sede ripercorrere le tappe fondamentali lungo le quali si è andata dipanando in Italia, non senza accelerazioni e battute d’arresto, la politica di semplificazione amministrativa66, quanto piuttosto soffermare l’attenzione su taluni dei principi, meccanismi ed istituti introdotti e valorizzati nel tentativo di assecondare e soddisfare una sempre più avvertita esigenza di semplificazione. Prima ancora è opportuno provare a passare in rassegna le principali cause della “complicazione amministrativa”, nonché gli strumenti normalmente utilizzati nel tentativo di porvi rimedio. 65 AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e lo recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.-Tar”, 2005, 2635 ss. 66 Cfr., tra gli altri, AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.Tar”, 2005, 2635 ss.; VESPERINI, Semplificazione amministrativa, in “Dizionario di diritto pubblico”, a cura di Cassese, Milano, 2006, 5479; Natalini, Il tempo delle riforme amministrative, Bologna, 2006; Patroni Griffi, La semplificazione amministrativa, 2008, in “www.giustizia-amministrativa.it” 81 4. Cause della complicazione amministrativa e tecniche di intervento a. b. c. d. Le cause della complicazione amministrativa hanno natura strutturale: vanno individuate nella progressiva articolazione e differenziazione della società, nella sempre più frequente emersione di nuovi interessi pubblici affidati alla tutela di una molteplicità di apparati pubblici, nella moltiplicazione dei livelli amministrativi, nello sviluppo delle burocrazie, nella farraginosità, arretratezza, inutile complicazione delle “regole”, implicanti l’inutile lungaggine delle procedure amministrative. Quali, allora, storicamente, le tecniche di intervento? Volendo mutuare una quadripartizione già segnalata in dottrina67, vengono in considerazione: la delegificazione, che, in omaggio ad un’esigenza di flessibilità normativa, comporta la concentrazione delle norme in regolamenti, senza tuttavia ridurne il numero e ridimensionarne l’incidenza; la deregolamentazione, implicante l’eliminazione delle regole legislative o regolamentari non indispensabili a tutelare gli interessi pubblici inerenti le specifiche materie, con conservazione delle sole regole essenziali68; la semplificazione dei procedimenti amministrativi, conseguente all’attuazione delle stesse politiche di deregolamentazione ovvero alla riduzione dei procedimenti alle sole fasi essenziali; la deamministrativizzazione (o liberalizzazione), implicante la sottrazione di intere attività del privato alle regole amministrative69. 67 AMOROSINO, op. cit. Non esaltanti, secondo gli studi condotti da Giulio Napolitano, i risultati delle politiche di semplificazione degli ultimi anni. Il governo di centro-destra iniziò la sua esperienza adottando nel primo periodo 402 misure di semplificazione e 386 di complicazione (con un tasso di semplificazione pari a 1, 04, superiore a quello del precedente governo Prodi - 0, 77 - ma inferiore a quello del primo governo D'Alema - 1, 09): NAPOLITANO, L'attività normativa del Governo nel periodo dicembre 2001febbraio 2002, in “Riv. Trim. dir. pubbl.”, 2002, n. 2, 406. Sono seguite nel marzogiugno 2002 619 misure di semplificazione ma a fronte di 641 di complicazione (0, 97): ID., L'attività normativa del Governo nel periodo marzo 2002-giugno 2002, cit., 2002, n. 4, 986. Quindi, 477 misure di semplificazione a fronte di 415 di complicazione tra giugno e dicembre 2002 (1, 15): ID., L'attività normativa del Governo nel periodo marzo 2002-giugno 2002, cit., 2003, n. 2, 610. Negli anni seguenti i dati furono: 212 misure di semplificazione contro 329 di complicazione (tasso allo 0, 64) nel periodo compreso tra dicembre 2003 e giugno 2004, 253 misure di semplificazione contro 637 di complicazione (tasso allo 0, 40) tra luglio e dicembre 2004, 167 misure di semplificazione contro 343 di complicazione (tasso allo 0, 52) tra dicembre 2004 e giugno 2005, 182 misure di semplificazione contro 317 di complicazione (tasso allo 0, 57) tra luglio e dicembre 2005, 227 misure di semplificazione contro 295 di complicazione (tasso allo 0, 76) tra gennaio e maggio del 2006. 69 AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.-Tar”, 2005, 2635 ss. 68 82 Quest’ultima, consistente nel liberalizzare attività private, svincolandone l’esercizio ad ogni forma di preventiva verifica o valutazione di tipo pubblicistico, è tecnica di intervento cui è per vero consentito ricorrere residualmente, essendo non agevole ipotizzare una diffusa sottrazione di attività private ad ogni momento di controllo amministrativo. Le principali politiche attive di riforma sono; pertanto, quelle finalizzate essenzialmente alla deregolamentazione ed alla semplificazione. Revisione e razionalizzazione del sistema normativo e snellimento delle procedure, pertanto, rappresentano le due principali tecniche di intervento, cui deve affiancarsi l’introduzione di tecnologie e di più adeguate metodologie organizzative. 5. Gli interrogativi 1. 2. 3. In questa sede ci si sofferma come anticipato, sulle tecniche di semplificazione del procedimento amministrativo con l’intento di passare in rassegna taluni degli strumenti di semplificazione procedimentale più di recente valorizzati dal legislatore, verificandone la concreta attitudine ad assicurare l’attuazione degli obiettivi di efficacia ed efficienza amministrativa in modo non disgiunto, come osservato nella prima Parte, dal rispetto dei principi di legalità, imparzialità e responsabilità. Nel farlo, pare utile farsi orientare nella disamina dall’esigenza di dare risposta a tre interrogativi di fondo. È possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo rechi con sé una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti? La semplificazione dei procedimenti e la semplificazione delle regole possono conciliarsi? La semplificazione del procedimento amministrativo può, cioè, non essere perseguita dequotando e depotenziando regole procedimentali la cui positivizzazione ha rappresentato una conquista di civiltà procedimentale? In che modo può e deve concorrere all’abbattimento del c.d. rischio amministrativo una naturale e per vero già in atto (per quanto impensabile solo fino ad alcuni anni fa) evoluzione del processo amministrativo, della sua fisionomia, del suo oggetto, delle tecniche di tutela in seno allo stesso sperimentabili? Detto altrimenti, riforma dell’amministrazione e riforma del processo amministrativo devono convergere verso la realizzazione di obiettivi comuni? È consentito quindi pensare ad una sinergia tra riforma dell’amministrazione volta ad un miglioramento delle sue performance ed evoluzione del processo amministrativo? 83 Giova muovere, nel condurre l’analisi, dalla legge che reca la disciplina dell’azione amministrativa, la n. 241 del 1990, a più riprese modificata. Anteriormente, infatti, all’emanazione di tale legge mancava una disciplina generale del procedimento amministrativo70. Ne derivava un’eccessiva discrezionalità della P.A nella gestione della fase procedimentale, anche per quanto riguarda i tempi di conclusione della stessa. Con la l. n. 241 del 1990 è stata introdotta una disciplina organica del procedimento amministrativo volta a garantire, oltre alla dialettica con i soggetti interessati e controinteressati, l’accelerazione e semplificazione dell’azione amministrativa, attraversò istituti quali il silenzio-assenso, la denuncia in luogo di autorizzazione, le conferenze di servizi (di cui ci si occuperà nella II parte), la regolamentazione dei termini del procedimento, ecc. In particolare, la politica della semplificazione si è tradotta nella tendenza ad escludere la necessità di provvedimenti autorizzatori espressi per il compimento di determinate attività. Ferma la disomogeneità di posizioni dottrinali e giurisprudenziali in merito all’effettiva riconducibilità dei singoli istituti al capitolo della semplificazione o dell’autentica liberalizzazione, il riferimento è: - alla dichiarazione di inizio attività, ora scia71, disciplinata dall’art. 19, l. n. 241 del 1990; - alla denuncia di inizio attività, quale titolo abilitativo edilizio, disciplinato dagli artt. 22 e 23, T.U. 6 giugno 2001, n. 380, che permette di eseguire talune tipologie di interventi edilizi senza che sia necessario ottenere il permesso di costruire, attraverso la semplice notizia, data dal privato al Comune, che decorso il termine di trenta giorni previsto dalla legge darà inizio all’intervento documentato (la d.i.a. deve essere infatti accompagnata da una relazione redatta da un tecnico abilitato che asseveri la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi e il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie). Se nel termine di trenta giorni dalla presentazione della denuncia non interviene alcun ordine inibitorio da parte del dirigente o del responsabile dell’UTC, l’interessato può dare avvio ai lavori denunciati. Si osservi, in proposito, una discrasia patente tra il nuovo dettato dell’art. 19, che estende il regime della scia a tutti i casi in cui la legge si riferisca alla dia e la perdurante vigenza della disciplina vappena descritta; - al silenzio-assenso, istituto divenuto ad applicazione generalizzata a seguito della l. 14 maggio 2005, n. 80 che, nel modificare l’art. 20, l. n. 241 70 Erano invece presenti alcune normative di settore, inerenti a specifiche tipologie procedimentali, es. in materia di espropriazione per pubblica utilità (I. 25 giugno 1865, n. 2359) o di rilascio di titoli abilitativi edilizi (I. 17 agosto 1942, n. 1150). 71 Dizione e disciplina introdotte dalla legge 122/2010. 84 del 1990, ha stabilito che - salvo quanto previsto dal precedente art. 19 in materia di dichiarazione di inizio attività - nei procedimenti ad istanza di parte, il silenzio dell’amministrazione competente, inteso come mancanza di provvedimenti di diniego alla scadenza del termine fissato per la conclusione del procedimento, equivale a un provvedimento di accoglimento; - alla conferenza di servizi, quale modulo procedimentale finalizzato al contemperamento degli interessi pubblici (nel caso della conferenza c.d. istruttoria) e alla velocizzazione e semplificazione dell’azione amministrativa (si veda la II parte). 6. La d.i.a/scia Tralasciando, per ora, istituti che all’evidenza rispondono ad un’esigenza di semplificazione, quali in particolare le conferenze di servizi, gli sportelli unici e gli accordi sostitutivi, ci si sofferma in particolare sulla disciplina riguardante la d.i.a./scia, il silenzio significativo e non, le illegittimità non invalidanti di cui all’art. 21-opties, l. 241/1990: istituti e meccanismi (la cui disciplina è stata profondamente rivista dal legislatore del 2005 e del 2009), in relazione ai quali, più che per altri, vengono in rilievo gli angoscianti interrogativi sopra riportati. Quanto alla d.i.a/scia e al silenzio assenso, si tratta di tecniche di semplificazione procedimentale (per la scia, per vero, di autentica liberalizzazione) ampiamente sperimentate in molti Paesi: in Spagna, per esempio, ove i procedimenti per i quali è previsto il silencio positivo sono sensibilmente aumentati nell’ultimo decennio del secolo scorso, o in Francia dove hanno registrato un’ampia diffusione gli strumenti dell’accord implicite e del régime declaratif sostitutivo dell’autorizzazione nei settori più disparati. Prima ancora di esaminare le ambiguità che connotano la disciplina nazionale della d.i.a., giova tuttavia subito delimitare l’ambito della sua concreta operatività, anche dopo il d.l. n. 35/2005, pure dichiaratamente intervenuto con l’intento di estenderne la portata applicativa; tanto con l’intento di dimostrare che si tratta, comunque, di istituto la cui valorizzazione nella prospettiva della “lotta” alle complicazioni amministrative non può essere sopravvalutata. Ebbene, il ricorso al modulo procedimentale in esame non è consentito - oltre che, in generale, o con riferimento all’attività puramente discrezionale della Pubblica Amministrazione72 - in una serie di materie, 72 Per vero, si è registrato sul punto una contrasto interpretativo innescato da talune innovazioni che hanno interessato la disciplina della d.i.a nel passaggio dalla l. n. 241/1990, alla l. n. 537/1995 e, infine alla l. n. 80/2005. Nell'originaria formulazione dell'art. 19, l. n. 241 del 1990, l'istituto era previsto come assolutamente eccezionale, la 85 tassativamente elencate dall’art. 19, l. n. 241/1990, comma 1, in cui la delicatezza degli interessi coinvolti impone la necessità di un’adeguata ponderazione da parte dell’ufficio, con conseguente obbligo per lo stesso di concludere il procedimento con un provvedimento motivato ed esplicito. Alle materie già in precedenza indicate dalla norma (difesa nazionale, pubblica sicurezza, immigrazione, amministrazione della giustizia, amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, tutela della salute e sua praticabilità essendo relegata ai soli casi contemplati dal successivo regolamento cui la stessa disposizione primaria rinviava. La versione originaria dell'art. 19 escludeva, comunque, dall'ambito di applicazione dell'istituto i casi in cui l'atto di assenso dell'amministrazione richiedesse l'esercizio di poteri discrezionali o l'esperimento di prove, o fosse soggetto a limiti o contingenti. Venivano, in tal modo, ad esempio, sottratti al regime liberalizzato, i provvedimenti di abilitazione, che presuppongono, in genere, una valutazione personale dei requisiti di idoneità del richiedente (si pensi alla patente di guida, al porto d'anni, ecc.) e, come tali, comportanti l'esperimento di prove, tra l'altro solitamente rimesse ad un giudizio connotato da elementi di discrezionalità tecnica, Parimenti, erano escluse dal regime della d.i.a. (e lo sono tuttora) gli atti di assenso rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela di interessi superindividuali, come l'ambiente, il patrimonio storico-artistico, il paesaggio, la salute, od operanti nei settori della difesa nazionale, della sicurezza pubblica (si tratta dei settori sensibili). Con l'art. 2, l. n. 537 del 1993 (legge Finanziaria per il 1994), l'incipit della norma fu sostituito con la precisazione secondo cui "in tutti i casi …" in cui singole discipline di settore richiedano, per lo svolgimento di un'attività privata, il previo ottenimento di autorizzazioni, licenze, permessi, nulla-osta ovvero altri atti di assenso, comunque denominati, l'attività medesima può essere esercitata previa denuncia di inizio da parte dell'interessato. Ulteriore innovazione era costituita dall'introduzione di un termine perentorio di sessanta giorni entro il quale la P.A. poteva inibire l'attività. L'istituto della d.i.a, sia pur nel solo ambito delle attività vincolate, assolveva ad una funzione non tanto di semplificazione amministrativa, quanto di sottrazione dall'area del procedimento di tutta un'ampia gamma di attività private, rispetto alle quali il legislatore valorizzava l'apporto collaborativo del privato, in considerazione della natura vincolata e meramente accertativa dell'attività oggetto della dichiarazione. In questi casi, in altri termini, la P.A. si fidava di quanto dichiarato dal privato, per lo meno fino all'espletamento di una successiva attività amministrativa di verifica della rispondenza di quanto dichiarato a quanto statuito dalla normativa di settore. L'art, 19, l. n. 241 del 1990, è stato completamente riformulato dall'art. 3, d.l. n. 35 del 2005, convertito con l. n. 80 del 2005, che ha notevolmente innovato l'istituto. Per quel che in questa sede viene in rilievo, la novella del 2005 ha ampliato, secondo una tesi minoritariamente sostenuta, il campo di applicazione dell'istituto della d.i.a. trovando applicazione anche laddove il rilascio delle autorizzazioni dipenda da valutazioni tecnicodiscrezionali, considerato che il nuovo art. 19, l. n. 241 del 1990, non richiede più che l'accertamento dei presupposti dell'autorizzazione avvenga senza ''prove a ciò destinate che comportino valutazioni tecnico discrezionali'' e che il comma 3 dello stesso art, 19 prevede il potere di revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies, che mal si concilierebbe con l'assunto secondo cui la nuova d.i.a, si applica ai soli provvedimenti vincolati, giacché l'esercizio del potere di revoca presuppone l'esistenza di margini di discrezionalità in capo all'amministrazione. 86 della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesaggistico e dell’ambiente), si aggiungono, ora, per effetto delle innovazioni introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, l’asilo e la cittadinanza, materie, peraltro, connesse alla pubblica sicurezza ed all’immigrazione, già esclusi dalla formulazione previgente dell’art. 19, L n. 241/199073. Sottesa alla disposta integrazione normativa è, con tutta evidenza, la volontà di sottrarre gli ambiti suindicati a qualsivoglia automatismo, stante la rilevanza dei beni implicati. Coerentemente, il medesimo art. 9, l. n. 69/2009, esclude l’asilo e la cittadinanza anche dal campo di operatività del silenzio-assenso, inserendone il riferimento nel comma 4 dell’art. 20, L n. 241/199074. 73 LA VERMICOCCA, op. cit., 206. Per l'ingresso nel paese e l'acquisizione dello status di cittadino italiano - commenta l'Autore - occorrono verifiche che, ancorché di natura documentale e non caratterizzate da discrezionalità tecnico-amministrativa, attese le implicazioni in tema di ordine pubblico, non possono essere lasciate ad un autonomo esercizio da parte dell'interessato. 74 L'art. 9 della legge n. 69 del 2009 ha anche introdotto nel comma 2 dell'art. 19, L n. 241/1990 il seguente periodo: "Nel caso in cui la dichiarazione di inizio attività abbia ad oggetto l'esercizio di attività di impianti produttivi di beni e di servizi e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva 2006/123/ CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, compresi gli atti che dispongono l'iscrizione in albi o ruoli o registri ad efficacia abilitante o comunque a tale fine eventualmente richiesta, l'attività può essere iniziata dalla data della presentazione della dichiarazione dell'amministrazione competente". In tali casi, l'amministrazione competente potrà fare esercizio dei propri poteri inibitori "nel termine di trenta giorni dalla data della presentazione della dichiarazione", come puntualizzato dal successivo comma 3, in tal senso modificato dalla legge n, 69 del 2009. La novella introduce la possibilità, in determinati casi, dell'avvio dei lavori contestuale alla dichiarazione di inizio attività. L'innovazione si giustifica non solo e non tanto in termini di semplificazione amministrativa, quanto per l'esigenza di dare attuazione alla direttiva 2006/123/CE, espressamente richiamata dalla nuova previsione. La richiamata direttiva, entrata in vigore il 28 dicembre 2006 e da recepirsi entro il 28 dicembre 2009, contiene le disposizioni generali che consentono di agevolare la libera circolazione dei servizi e la libertà di stabilimento dei prestatori, assicurando nel contempo un elevato livello di qualità dei servizi stessi. In tal senso, là novità introdotta nell'art, 19, L n. 241/1990, costituisce un anticipo di attuazione della direttiva - reso urgente dalla imminente scadenza del termine sopra ricordato - nonché un vincolo al futuro recepimento. In deroga a quanto previsto come regola generale, la nuova disposizione consente al privato che abbia presentato una dichiarazione avente ad oggetto l'esercizio di attività di impianti produttivi di beni e di servizi e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva citata di dare subito inizio all'attività medesima (c.d. d.i.a, "immediata"), senza necessità di attendere il decorso di trenta giorni e di inoltrare un'ulteriore comunicazione di inizio effettivo della stessa. L'avvio contestuale alla dichiarazione di inizio attività non preclude alla Pubblica Amministrazione ricevente il potere-dovere di verificare la sussistenza dei presupposti legittimanti l'esercizio dell'attività oggetto della dichiarazione, da esercitarsi nel termine di trenta giorni decorrenti dalla presentazione della d.i.a. Restano, inoltre, intatti gli ulteriori poteri sanzionatori e di autotutela, 87 Più nel dettaglio, l’art. 19, l. 241/1990, circoscrive drasticamente l’ambito di operatività dello strumento, escludendone in linea generale l’applicazione per gli atti per il cui rilascio non siano previsti non soltanto limiti o contingenti complessivi - come già disponeva il testo originario ma neppure specifici strumenti di programmazione settoriale, nonché per tutti quelli rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale, all’immigrazione, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione delle finanze, alla tutela della salute e della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesistico e dell’ambiente, nonché per gli atti imposti dalla normativa comunitaria. Si fa, quindi, riferimento ad attività vincolate della Pubblica Amministrazione, implicanti una verifica di conformità sempre che non sia, ex lege, previsto un limite di tipo qualitativo o un contingentamento o una programmazione di settore. Il meccanismo è peraltro destinato a sostituire concessioni non costitutive. I margini residui non sono molti, tanto più se si tiene conto dell’intreccio di autorizzazioni cui sono soggette molte attività, sicché, anche in casi in cui un’autorizzazione è apparentemente sostituibile da una d.i.a./scia, questa finisce poi per essere in fatto inutilizzabile in assenza di altre autorizzazioni per le quali la sostituzione è esclusa75. Nell’ottica delle semplificazioni si è al cospetto, pertanto, di un’innovazione dal respiro corto. A ciò si aggiunga la diffidenza con cui, nella prassi, i privati guardano all’istituto della comunicazione di inizio d’attività, non essendo sicuri del “valore” dei “non atti” così ottenuti. Diffidenza aggravata dall’espressa previsione di un generalizzato potere di “autotutela” della p.a. sulla d.i.a./scia, anche dopo la scadenza del termine per il controllo. 6.1. La dibattuta questione della natura della d.i.a./scia e delle forme di tutela del terzo Il che comporta - passando dalla delimitazione dell’ambito applicativo dell’istituto alla decifrazione della sua natura giuridica - la trasformazione della d.i.a./scia in uno “strano ircocervo”, destinato a nascere privato per poi tramutarsi in pubblico76. Trasformazione cui ha contribuito quella parte della giurisprudenza amministrativa orientata a ritenere che la d.i.a./scia, lungi dal costituire un esperibili dalla Pubblica Amministrazione anche dopo il decorso del termine di esercizio del potere inibitorio ed ancorché abbia avuto inizio l'attività dichiarata. 75 AMOROSINO, op. cit. 76 SANDULLI, op. cit. 88 atto del privato cui la legge riconosce effetti di abilitazione all’esercizio di talune attività private (così sottratte al vaglio preventivo dell’amministrazione), sia solo il primo atto di un vero e proprio procedimento destinato a concludersi con un atto dell’amministrazione ancorché destinato ad essere manifestato per silentium. Due le tesi che al riguardo si contendono il campo. Secondo una prima impostazione77, la d.i.a./scia. costituirebbe una fattispecie a formazione successiva, configurabile come un atto amministrativo tacito destinato a formarsi in presenza di alcuni presupposti formali e sostanziali e per effetto del decorso del termine assegnato all’amministrazione per esercitare il potere inibitorio. Per altra tesi78, la d.i.a./scia, è un atto formalmente e soggettivamente privato, cui la legge ricollega direttamente l’effetto, di abilitare l’istante all’esercizio dell’attività. A sostegno di siffatta conclusione si rileva che la scia non proviene da un’amministrazione, essendo un atto del privato cui la stessa legge, in presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a formazione complessa, ricollega la legittimazione allo svolgimento di una determinata attività, così liberalizzata. Non viene in rilievo l’esercizio di una potestà pubblicistica, né un provvedimento amministrativo informa tacita (c.d. silenzio-assenso). Gli unici provvedimenti rinvenibili nella fattispecie sono quelli, meramente eventuali, che la P.A. può emanare, nel termine di legge, per impedire la prosecuzione dell’attività o per imporre la rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in autotutela anche successivamente alla scadenza di tale termine. Viene, soprattutto, richiamata la ratio dell’istituto, volto ad introdurre un regime di liberalizzazione di determinate attività, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse non è necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di legittimazione. Invero, la d.i.a. nasce storicamente non come strumento di semplificazione procedimentale ma come strumento di autentica liberalizzazione di alcune attività private. Alla logica della semplificazione procedimentale risponde, infatti, il diverso istituto, regolamentato dalla norma immediatamente successiva, del silenzio-assenso, che non è strumento di liberalizzazione, ossia strumento che facoltizza l’esercizio di talune attività da parte del privato senza che sussista un preventivo vaglio da parte della P.A., ma che, al contrario, è 77 Tar Piemonte, sez. I, 5 settembre 2006, n. 2762; Tar Abruzzo, Pescara, 1 settembre 2005, n. 494; Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916; ID., sez. VI, 20 ottobre 2004, n. 6910; Tar Veneto, sez. II, 10 settembre 2003, n. 4722; ID. 20 giugno 2003, n. 3405; Cons, St., sez. VI, 10 giugno 2003, n. 3265; Tar Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n. 397. 78 Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916; ID., sez. V, 22 febbraio 2007, n. 948; Tar Puglia, Lecce, sez. III, 3 aprile 2007, n. 1652. 89 volto, sull’assunto della necessità del vaglio preventivo perché una certa attività possa essere esercitata, a semplificare le modalità di esternazione del suddetto vaglio. Quando un’attività soggiace a silenzio assenso, invero, la stessa non può dirsi liberalizzata, essendo solo regolamentato un meccanismo procedimentale più semplificato di formazione del provvedimento, pure necessario, di esternazione dell’assenso dell’amministrazione. La d.i.a./scia, è, invece, strumento di autentica liberalizzazione, essendo storicamente nata per sottrarre certe attività al vaglio preventivo dell’amministrazione. Il relativo meccanismo, difatti, consente di iniziare l’esercizio di alcune attività sulla base di un atto che il privato formula e presenta all’amministrazione senza attendere un vaglio preventivo della stessa. Difatti, il legislatore prevede che l’amministrazione possa al più esercitare un potere inibitorio dell’attività già iniziata (peraltro entro un termine perentorio), non anche che la stessa possa e debba esprimere un assenso preventivo all’esercizio di quell’attività. Questa è, quindi, la distinzione concettualmente fondamentale tra la d.i.a./scia ed il silenzio assenso: l’uno è espressione di una tendenza del legislatore a liberalizzare certe attività, l’altro, invece, di un’esigenza di semplificare il procedimento da osservare affinché la pubblica amministrazione possa esternare la sua determinazione, ritenuta, tuttavia, ancora necessaria perché il privato possa esercitare una data attività. A sostegno dell’assunto militava già la lettera del secondo comma dell’art. 19 - come novellata da parte dell’art. 9 della legge n. 69 del 2009 ove prevede la fattispecie della d.i.a, cd. “immediata” nel senso già sopra divisato (nonché la novella contenuta nella l.122/2010 sulla segnalazione certificata di inizio attività, sostitutiva della d.i.a.). In proposito, si osserva che se il riconoscimento al privato della possibilità, in determinate ipotesi, di dare immediato avvio ai lavori oggetto della dichiarazione non toglie, come rilevato, la possibilità alla Pubblica Amministrazione di verificarne la legittimità ed eventualmente di inibirne la prosecuzione odi ordinarne la conformazione alla legge, nel termine di trenta giorni, decorrente non già dalla comunicazione di inizio effettivo - in quanto omessa nel caso di specie - bensì dalla presentazione della stessa d.i.a., tuttavia non è men vero che quel riconoscimento rafforza l’assunto secondo cui, per effetto della previsione della d.i.a., la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema “norma-potere-effetto”, ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema “norma-fatto-effetto”, in forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A. Oggi, tale interpretazione è vieppiù avvalorata 90 - - - - - dalla nuova formulazione dell’art. 19, più volte accennata e alla cui lettura si rinvia. Sul tema, è intervenuto, tra l’altro, Cons. Stato, sez. VI, 9 febbraio 2009, n. 71779. All’esito di un articolato apparato motivazionale, la sesta Sezione giunge alle seguenti conclusioni: la d.i.a. è un atto di un soggetto privato e non di una Pubblica Amministrazione, che ne è invece destinataria; non costituendo perciò esplicazione di una potestà pubblicistica; per effetto della previsione della d.i.a./scia, la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività non è più fondata sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema “norma-potere effetto”, ma è una legittimazione ex lege, secondo lo schema ‘‘norma-fatto-effetto”, in forza del quale il soggetto è abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere autorizzatorio della P.A.; il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, legge n. 241/1990, contenuto nell’art. 19 della stessa legge n. 241/1990, consente alla P, A., di esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione, con l’autotutela classica condividendo soltanto i presupposti e il procedimento; il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, di cui all’art. 19 cit., è riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio, ma di esercitare i poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi effetti, nell’osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti da tali norme. In tal, modo, il legislatore - nel recepire l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva la sussistenza in capo alla P.A. di un potere residuale di intervento anche dopo la scadenza del termine - si è fatto carico di tutelare l’affidamento che può essere maturato in capo al privato per effetto del decorso del tempo; attesa la natura di dichiarazione privata ascritta alla d.i.a., lo strumento di tutela del terzo rispetto all’attività intrapresa dal dichiarante deve essere identificato nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice denuncia di inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il giudice ha ritenuto mancanti. 79 Conforme, da ultimo, Tar Calabria, Reggio Calabria, 18 giugno 2009, n.431. 91 È quanto consente di soddisfare le esigenze di cui la giurisprudenza amministrativa si fa carico, afferenti come osservato alla tutela del terzo. Le si soddisfa, tuttavia, incidendo sul processo amministrativo, anziché stravolgendo la natura dell’istituto di diritto sostanziale: in specie, riconoscendo l’esperibilità, nel processo amministrativo, nel caso di specie ad opera del terzo, di un’azione a carattere non impugnatorio, ma volta solo all’accertamento della contrarietà dell’attività indicata in d.i.a./scia, alla disciplina di settore80. 81 6.2. La d.i.a./scia e le politiche di semplificazione: conclusioni Concludendo quanto alla d.i.a., i ristretti margini di operatività dell’istituto, la rimarcata tendenza dei privati a diffidare dallo stesso, in uno al rischio di una sua strisciante trasformazione in un autentico silenzio assenso, inducono ad interrogarsi in merito alla sua effettiva utilità quale strumento sul quale seriamente contare nel condurre un’ambiziosa politica di recupero di efficienza procedimentale. Soprattutto, la tendenza, talvolta anche giurisprudenziale, ad accostare la d.i.a./scia al silenzio assenso induce a volgere lo sguardo a questo secondo strumento di semplificazione procedimentale. 7. Il silenzio-assenso. La disciplina Il silenzio-assenso costituisce un tipico rimedio previsto dal legislatore per prevenire lo stesso prodursi delle conseguenze negative collegate all’inerzia amministrativa. La più significativa innovazione, introdotta nel 2005, nel quadro della riforma della l. 241/90, ha riguardato proprio l’ambito di applicazione del silenzio-assenso che, da strumento particolare, utilizzabile solo nei casi individuati dalle norme, diventa istituto ad applicazione generale, utilizzabile ogni qualvolta: - il procedimento sia ad istanza di parte; - il richiedente miri ad ottenere un provvedimento amministrativo; - non si verta in una materia sottratta all’operatività del silenzio-assenso per effetto della stessa previsione dell’art. 20 o per effetto di un successivo 80 In tema, CLARICH, SANCHINI, Verso il tramonto della tipicità delle azioni nel processo amministrativo, in “Rivista nel diritto”, 2009, n. 3, 446 ss. 81 Da ultimo, a conforto della ricostruzione offerta si rinvia alle fondamentali Adunananze Plenarie 3 e 15 del 2011 del Consiglio di Stato, nonché al d.l. 138/11, conv. in legge 148/2011, di parziale sconfessione del dictum espresso dal Supremo Consesso Amministrativo. 92 decreto del Presidente del Consiglio, all’uopo emanato, non avente natura regolamentare ed adottato su proposta del Ministro competente, sentito il Ministro per la funzione pubblica. Invero, l’art. 20, 1. n. 241 del 1990, come riscritto dall’art. 3, comma 6 ter, d.l. n. 35 del 2005, nel testo risultante dopo la legge di conversione n. 80 del 2005, prevede che ‘‘fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, il silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di cui all’articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non procede ai sensi del comma 2 del presente articolo”. Il silenzio-assenso, dunque, nei procedimenti ad istanza di parte, perde il carattere di istituto eccezionale, destinato ad operare nelle tassative ipotesi previste, per divenire istituto generale82. 82 Il legislatore ha, tuttavia, escluso dal suo ambito di applicazione talune ipotesi. La formazione del silenzio-assenso è esclusa in primo luogo allorché l'amministrazione avvii una procedura di conferenza di servizi entro trenta giorni dalla domanda. Utilizzando l'art. 20, comma 2, l'espressione ''può indire", deve ritenersi che l'eccezione riguardi le ipotesi di conferenza di servizi facoltativa. È lo stesso avvio del procedimento di conferenza a costituire indice della necessità di una valutazione comparativa di interessi e, quindi, di un'espressa determinazione in merito. Non trova applicazione la regola del silenzio-assenso in una serie di ulteriori ipotesi, individuabili per categorie di materie o di norme: a) gli atti e i procedimenti riguardanti le materie sensibili del patrimonio culturale e paesaggistico, dell'ambiente, della difesa nazionale, della pubblica sicurezza e dell'immigrazione, della salute e della pubblica incolumità, che, in considerazione della rilevanza costituzionale degli interessi ad esse sottesi, devono essere oggetto di un'espressa determinazione amministrativa, non essendo possibile utilizzare meccanismi di equiparazione al provvedimento espresso di comportamenti inerti; b) i casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti amministrativi formali; si è in proposito osservato che la disposizione non riguarda le ipotesi in cui la normativa comunitaria impone espressamente un provvedimento amministrativo formale. Il riferimento è invece alle ipotesi in cui è indispensabile una espressa valutazione amministrativa, come un accertamento tecnico o una verifica. In conclusione, il silenzio-assenso, non può trovare applicazione in tutti i casi in cui sussiste la necessità di svolgere una specifica attività istruttoria, vuoi in considerazione della natura degli interessi coinvolti vuoi perché la stessa normativa affida all'autorità procedente il potere di imporre prescrizioni e cautele a riprova che si richiede un provvedimento ad hoc; c) i casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come provvedimento di rigetto dell'istanza; d) i casi in cui una disposizione regolamentare, ovvero atti e procedimenti individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti, escludono l'applicazione del silenzio-assenso. I decreti in questione, essendo diretti a determinare in via generale ed astratta la disciplina applicabile ad una serie di procedimenti, hanno natura regolamentare. Non si tratta, tuttavia, di regolamenti di delegificazione, difettando dei 93 Al ricorrere delle condizioni indicate, la mancata adozione del provvedimento finale (nei termini fissati dall’art. 2 della legge n. 241/90, che generalizza l’obbligo della P.A. di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento espresso, entro termini certi e prefissati) “equivale a provvedimento di accoglimento della domanda”. La modifica apportata dal legislatore del 2005 si è rivelata, dunque, di grande impatto, avendo rovesciato il rapporto di regola ad eccezione: diversamente dalla previgente disciplina, che confinava l’operatività del silenzio assenso ad ipotesi determinate, oggi costituisce la regola che la richiesta del privato debba dirsi assentita qualora la P.A. non si sia determinata entro il termine previsto per provvedere. Diversamente, è l’inoperatività del silenzio assenso a costituire l’eccezione. Importante osservare - passando dall’ambito applicativo alla concreta disciplina dell’istituto - che, decorso il termine per la formazione del silenzio-assenso, l’esaurimento del potere della P.A. di provvedere in maniera espressa è, comunque, compensato dalla possibilità di incidere sugli effetti illegittimi del silenzio-assenso agendo in autotutela. In tal caso, però, l’eliminazione del silenzio non consegue automaticamente alla valutazione dell’illegittimità, ma presuppone il riscontro di ragioni di pubblico interesse nella direzione della cancellazione dell’atto. La conclusione trova positivo sostegno nel nuovo testo dell’art. 20, L n. 241 del 1990, il cui comma 3 specifica che, nei casi in cui il silenzio requisiti formali e sostanziali di cui all'art. 17, comma 2, L. 23 agosto 1988, n. 400; gli stessi, peraltro, non delegificano un determinato settore, limitandosi a mantenere il regime legislativo preesistente. L'art. 9, 1. n. 69/2009, ha da ultimo inserito nell'art. 20, comma 4, 1. n. 241/1990, il riferimento alle materie dell'immigrazione, dell'asilo e della cittadinanza, allo scopo di sottrarle al meccanismo del silenzio provvedi mentale. L'innovazione appare coerente con la parallela incisione dell'art. 19, legge medesima, di cui si è detto nel paragrafo dedicato alla d.i.a., e la cui ratio consiste nella opportunità di evitare l'automatica formazione di un provvedimento tacito di accoglimento della istanza in ambiti, quali quelli specificati nel comma 4 dell'art. 20, 1. n. 241/1990, in cui la delicatezza degli interessi coinvolti impone la necessità di una adeguata ponderazione a cura dell'amministrazione competente, di cui la stessa possa dare conto nella motivazione esplicita del provvedimento conclusivo. Infine, l'art. 7, L n. 69/2009, ha sostituito l'ultimo comma dell'art. 20, 1. n, 241/1990, che ora così dispone: "Si applicano gli articoli 2, comma 7, e l0-bis", Si tratta di adeguamento normativo reso indispensabile dalle modifiche, apportate dalle altre disposizioni della novella. Ed invero l'originario riferimento al comma 4 dell'art. 2, 1. n. 241/1990, è sostituito dal rinvio al comma 7, stesso articolo, in cui risulta confluito, con alcune precisazioni, il contenuto del comma 4, avente ad oggetto l'istituto della sospensione del termine di conclusione del procedimento amministrativo; resta immutato il richiamo all'art. 10-bis, disciplinante il preavviso di rigetto. L'applicazione al silenzio-assenso delle disposizioni in materia di sospensione del termine per provvedere e di comunicazione dei motivi ostativi dell'accoglimento dell'istanza comprova la valenza provvedimentale dell'istituto. 94 equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21quinquies e 21-nonies. Il richiamo a tali disposizioni conferma, del resto, la natura provvedimentale del silenzio-assenso, a tutti gli effetti equiparato ad un provvedimento, suscettibile di rimozione tramite l’esercizio del potere di autotutela della P.A. procedente. 7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione Questa essendo la disciplina attuale del silenzio-assenso, qualche riflessione si impone in merito alla possibilità di scorgere in tale istituto uno strumento da valorizzare nel perseguire una politica di semplificazione procedimentale. Viene in considerazione, al riguardo, il primo dei tre interrogativi prima enunciati. È possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo passi inevitabilmente per una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei suoi agenti? Può escludersi che il silenzioassenso sia un meccanismo cui ricorrere solo per “eludere” i problemi strutturali di un’amministrazione non sempre in grado di svolgere in modo adeguato ed efficiente, nell’ambito del procedimento, le funzioni che le sono assegnate? Soprattutto, non è più fisiologico imporre ed assicurare (con responsabilizzazioni e conseguenti sanzioni per i ritardi, oltre che con adeguati poteri sostitutivi) il rilascio di provvedimenti espressi in un tempo ragionevolmente prestabilito, incidendo sulle cause strutturali dei ritardi, oltre che dotando il cittadino di strumenti rimediali adeguati da sperimentare per ovviare alle inerzie? Il silenzio assenso e la sua propagandata generalizzazione non si pongono in contraddizione con l’obbligo generale di concludere il procedimento con provvedimento espresso, finendo col legittimarne l’elusione, a danno dei principi di buona amministrazione83? 8. Il silenzio-inadempimento Un riferimento è d’obbligo, a questo punto, alla nuova disciplina del silenzio-inadempimento, in specie volto ad esprimere l’apprezzamento per la scelta dello stesso legislatore del 2005 di snellire l’iter di formazione 83 SANDULLI, op. cit. 95 dello stesso (con l’eliminazione della necessità della previa diffida) e, per quel che più conta, con la prevista trasformazione del giudizio amministrativo avverso il silenzio, ormai volto (almeno quando l’inerzia contestata non sia stata serbata in relazione ad istanze il cui soddisfacimento implichi esercizio di discrezionalità) all’accertamento della fondatezza sostanziale della pretesa, anziché della sola violazione ad opera dell’amministrazione della tempistica procedimentale. Scelta questa - coerente peraltro con un’idea prospettata oltre trenta anni fa da Mario Nigro e fatta propria dalla storica pronuncia dell’Adunanza plenaria del 1978 (prima che fosse rimessa in discussione dalla stessa Plenaria nel 2002, per vero in un mutato contesto normativo) quanto mai opportuna al fine di evitare che il processo amministrativo possa a sua volta divenire, a causa della non risolutività delle decisioni all’esito dello stesso adottate, momento di ulteriore complicazione amministrativa, anziché fattore di definitiva risoluzione delle inerzie dell’amministrazione. Si tratta, quindi, di intervento apprezzabile laddove irrobustisce le forme rimediali assegnate al privato a fronte dell’inerzia dell’amministrazione. Se accompagnata dalla previsione della risarcibilità dei danni da ritardo, in disparte la spettanza del bene della vita invano chiesto all’amministrazione, saremmo al cospetto di un sistema normativo capace di sortire un effetto di deterrenza nei confronti delle amministrazioni inerti, chiamate quindi a fare responsabilmente i conti con le cause della inefficienza. Con parziale favore vanno salutate, al riguardo, le previsioni contenute nella legge n. 69/2009 in tema di termini dell’azione amministrativa e di conseguenze relative al mancato rispetto degli stessi. Giova passarle in rassegna. 8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69 Su un primo versante, riscrivendo l’art. 2, legge n. 241/199084, ridefinisce i termini per provvedere, anche attraverso la limitazione del ricorso ad evenienze sospensive o interruttive della relativa durata. 84 Così riformulato: "Art. 2 - Conclusione del procedimento. Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un 'istanza, ovvero debba essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo mediante l'adozione di un provvedimento espresso. Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle 96 È così introdotta una nuova disciplina dei termini massimi di conclusione dei procedimenti improntata a una generale abbreviazione dei termini stessi rispetto all’assetto previgente, nonché a principi di certezza, amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il termine di trenta giorni. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati ai sensi dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri competenti e di concerto con i Ministri per la Pubblica Amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di propria competenza. Nei casi in cui, tenendo. conto della sostenibilità dei tempi, sotto il profilo dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della particolare complessità del procedimento; sono indispensabili termini superiori a novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono adottati su proposta anche dei Ministri della Pubblica Amministrazione e l'innovazione e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. I termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli riguardanti l'immigrazione. Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza. I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall'inizio del procedimento d'ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è a iniziativa di parte. Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per u n periodo non superiore a trenta giorni, per l'acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione stessa e non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2. Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo 21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità di diffida all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 del presente articolo. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza. É fatto salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ore ne ricorrono i presupposti. La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale". Si veda, poi, l’art. 31 del d.lgs 104/2010 (Codice del Processo Amministrativo) in cui, sia pure con parziali ma non apprezzabilmente significative modifiche, è stato trasportato il comma 8 dell’articolo in parola. 97 uniformità ed estremo rigore circa il momento entro il quale la P.A. è tenuta a definire il procedimento da essa gestito. Su un secondo fronte, la legge 18 luglio 2009, n 69, introduce previsioni dichiaratamente intese ad accrescere la tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi. In tale prospettiva, vengono in rilievo due significative novità. Da un lato, il riconoscimento esplicito della risarcibilità del c.d. danno da ritardo contenuto nel “nuovo” art. 2-bis della legge n. 241, a tenore del quale “le pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1-ter, sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni’’. Dall’altro, la legge 18 giugno 2009, n. 69, nell’intento di accrescere la tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi, prevede espressamente che i predetti ritardi possono essere causa di responsabilità dei dirigenti amministrativi. Invero, il novellato art. 2, legge n. 241 del 1990, così recita al suo ultimo comma: “La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale’’. Correlativamente, il comma 2 dell’art. 7 della legge n. 69 del 2009 dispone: “II rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti; di esso si tiene conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato. Il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, adotta le linee di indirizzo per l’attuazione del presente articolo e per i casi di grave e ripetuta inosservanza dell’obbligo di provvedere entro i termini fissati per ciascun procedimento”. Si tratta di previsioni coerenti con i più generali intenti di incremento dell’efficienza e della produttività che hanno ispirato la più recente produzione legislativa in materia di organizzazione e funzionamento della pubblica amministrazione, in specie la nota legge 4 marzo 2009, n. 15 (c.d. “legge Brunetta” o “anti-fannulloni”).85 85 Fra i primi commenti, CLARICH, La "cura Brunetta" punta su formazione e premi ma il giudizio è rinviato ai decreti legislativi, in “Guida dir.”, 2009, n. 13, 38 ss. 98 8.1.2. La ristorabilità del danno da ritardo 1) 2) 3) Come osservato, a norma dell’art. 2 bis, l. n. 241/1990, “Le pubbliche amministra:doni e i soggetti di cui all’art. 1, comma l-ter; sono tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento. Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni’’. L’inosservanza del termine di conclusione del procedimento amministrativo, nella sistematica della legge n. 69/2009, integra, altresì, un elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, come esplicitato dal comma 9 dell’art. 2, l. n. 241/1990. Mentre, tuttavia, la responsabilità dirigenziale incombe sul dirigente, in aggiunta a quella cd. erariale, nei suoi rapporti con l’amministrazione alle dipendenze della quale svolge la propria attività lavorativa, la responsabilità per danno da ritardo di cui all’art. 2 bis, l. n. 241/1990, grava sulla Pubblica Amministrazione, obbligandola a risarcire il cittadino del danno ingiusto che questo abbia patito in conseguenza della inosservanza, dolosa o colposa, del termine di conclusione del procedimento amministrativo, integrando un istituto rimediale a disposizione del privato, aggiuntivo rispetto all’impugnazione del silenzio. Giova considerare che, con riferimento al danno da ritardo, vengono in considerazione tre distinte questioni interpretative, tutte già esaminate in giurisprudenza: la prima, di tipo sostanziale, attiene all’individuazione dei presupposti di ristorabilità del danno da ritardo e, prima ancora, all’identificazione delle posizioni soggettive tutelate dal meccanismo risarcitorio attivabile contro la P.A. colpevole del ritardo stesso: problematica, questa, che consente di vedere riproposta la contrapposizione teorica tra le due opzioni, aquiliana e contrattuale, relative alla natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione; la seconda, di tipo processuale, relativa all’individuazione del giudice innanzi al quale proporre la pretesa risarcitoria avente ad oggetto i danni da ritardo; la terza, parimenti a carattere squisitamente processuale, riguardante l’estensibilità della nota regola della pregiudizialità alle domande risarcitorie aventi ad oggetto il pregiudizio asseritamente subito non già per effetto di provvedimento annullabile dal giudice amministrativo, ma in conseguenza del mero silenzio dell’amministrazione. Ebbene la novella: 99 1) 2) 3) non pare idonea a fugare i dubbi interpretativi emersi in dottrina e giurisprudenza con riguardo ai presupposti di ristorabilità del danno da ritardo, in specie con riferimento alla risarcibilità del danno da ritardo mero; interviene decisamente sulla seconda, con la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo delle controversie nelle quali si fa questione del danno da ritardo; non si occupa della questione relativa alla proponibilità in forma autonoma della domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno da ritardo, non preceduta dal previo esperimento del ricorso avverso il silenzio. Giova soffermarsi sul primo dei tre indicati profili. 8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il dibattito svolto si prima della riforma Come è noto, prima della novella, controversa è apparsa la questione relativa alla spettanza della tutela risarcitoria laddove l’amministrazione adotti un provvedimento sfavorevole, legittimo, ma con ritardo rispetto ai tempi ordinari del procedimento: è questa l’ipotesi del c.d. da ritardo mero, che s’identifica nella lesione dell’interesse procedimentale (e, dunque, non collegata al bene sostanziale della vita) del privato alla tempestiva conclusione del procedimento, nel termine di cui all’art. 2, l. n. 241 del 1990, a prescindere, quindi, dall’effettiva lesione del bene finale al cui conseguimento l’istanza era rivolta. Ci si è chiesti, quindi, se l’interesse del privato al rispetto della tempistica procedimentale da parte della P.A. sia risarcibile ex se, a prescindere dalla spettanza del bene della vita richiesto ed indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto del provvedimento oggetto dell’istanza. In quest’ottica, si muoveva l’art. 17, comma 1, letto f), l. 15 marzo 1997, n. 59, che ipotizzava “forme di indennizzo automatico e forfettario per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento e di mancata o ritardata adozione del provvedimento”. La previsione richiamata assicurava un quid minimum di ristoro patrimoniale in via forfettaria; non escludeva, tuttavia, che il soggetto danneggiato dal mancato rispetto della tempistica procedimentale potesse provare di aver subito un danno in misura superiore rispetto a quella forfettariamente determinata in base alla legge del 1997. Diversi erano, infatti, i presupposti condizionanti, rispettivamente, l’attivazione del meccanismo forfettario ipotizzato dal citato art. 17 e di quello propriamente risarcitorio; l’indennizzo presupponeva il mero fatto dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere, non anche la valutazione 100 circa la maggiore o minore fondatezza, sul piano sostanziale, della pretesa del privato. Ad ogni modo, i dubbi interpretativi sollevati dalla disposizione in esame, contenuta in un disegno di legge delega, non si sono mai concretizzati, non essendo mai stata attuata la delega. Il problema di fondo consiste nel verificare se sia o meno risarcibile il danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata dal privato con l’istanza. In altri termini, occorre stabilire se l’affidamento del privato nella certezza dei tempi dell’azione amministrativa sia meritevole di tutela in sé, a prescindere dal conseguimento dell’utile finale cui l’istanza era preordinata. Diverse le posizioni interpretative al riguardo emerse. Per un primo indirizzo, va riconosciuta la responsabilità della P.A. per il solo fatto del ritardo, in assenza quindi di ogni indagine sulla spettanza del bene della vita o dell’utilità finale: si sostiene, invero, che “non è ontologicamente corretto limitare le lesioni dell’interesse legittimo al solo provvedimento (allorché esso sia, non solo illegittimo, ma anche sfavorevole). Ogni violazione di principi e di regole che riguardino qualsiasi aspetto dell’azione amministrativa, in quanto impedisca, complichi o ritardi la determinazione (o il mantenimento) di un favorevole assetto degli interessi (finali), per ciò stesso lede l’interesse legittimo, anche se l’azione amministrativa si conclude in un provvedimento sfavorevole (e legittimo). L’inerzia, il ritardo nell’adozione del provvedimento, l’andamento contraddittorio, confuso, inutilmente gravoso dell’amministrazione provocano la lesione dell’interesse legittimo, allo stesso modo in cui provoca lesione il provvedimento finale sfavorevole”. Si tratta di impostazione che, in qualche misura, pare evocare la ricostruzione dogmatica della responsabilità della P.A. come responsabilità da contatto o paracontrattuale, più vicina a quella contrattuale che a quella aquiliana, derivante dalla sola violazione dei doveri funzionali di legalità, imparzialità ed efficienza gravanti sull’amministrazione, analoghi agli obblighi di protezione nelle obbligazioni di diritto privato; ricostruzione che, come è noto, svincola la tutela risarcitoria dal giudizio sulla spettanza del bene della vita o della chance di conseguirlo, reputando sufficiente l’acclarata violazione degli obblighi procedimentali, in cui il contatto qualificato si concreta. La tutela risarcitoria, secondo questa ricostruzione, è, quindi, accordata in considerazione della riscontrata violazione degli obblighi procedimentali, tra cui quello alla definizione tempestiva del procedimento amministrativo, a prescindere dalla spettanza o meno del bene della vita. 101 Sviluppando la riportata impostazione, Cons. St., sez. IV, 7 marzo 2005, n. 875, nel rimettere la relativa questione all’Adunanza Plenaria, ha ricostruito il danno da ritardo come pregiudizio conseguente alla violazione dell’interesse al rispetto dei tempi di definizione dell’istanza prescritti dalla legge. A fondamento dell’assunto, i giudici di Palazzo Spada, oltre a richiamare la tesi della natura contrattuale della responsabilità della P.A. (da contatto amministrativo qualificato), hanno sostenuto che l’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione amministrativa è - nell’attuale realtà economica e nella moderna concezione del c.d. rapporto amministrativo - interesse meritevole di tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla previsione e all’azionabilità di strumenti processuali a carattere propulsivo, che si giustificano solo nell’ottica del conseguimento dell’utilità finale, ma appaiono poco appaganti rispetto all’interesse del privato a vedere definita con certezza la propria posizione in relazione a un’istanza rivolta all’amministrazione. Sulla questione è intervenuto Cons. St., Ad Plen., 15 settembre 2005, n. 7, optando per la non ristorabilità del danno da ritardo mero. Ad avviso dei giudici della Plenaria, invero, il danno da ritardo è risarcibile solo quando emerga la spettanza del provvedimento favorevole; quando il provvedimento adottato in ritardo è (legittimamente) negativo, il ritardo dell’agire amministrativo non è fonte autonoma di risarcimento. Invero, “il sistema di tutela degli interessi pretensivi - nelle ipotesi in cui si fa affidamento sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare un “bene della vita’’)’’. 8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, l. n. 241/1990: persa un’occasione per la soluzione del problema? La positivizzazione dell’istituto della responsabilità per danno da ritardo era già stata inserita nel disegno di legge Nicolais, A.S. 1859, presentato alle camere dal governo della scorsa legislatura, poi decaduto e, quindi, ripresentato integralmente dal nuovo governo nel corso della XVI legislatura. Nella sua originaria formulazione, la previsione di cui al d.d.l. A.C. 1441 stabiliva che il risarcimento di danno ingiusto cagionato in 102 conseguenza della inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento fosse dovuto dalle Pubbliche Amministrazioni e soggetti assimilati “indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiesto”. Nel comma 2 era inoltre prevista, “indipendentemente dal risarcimento del danno”, la corresponsione ai soggetti istanti, per il mero ritardo, di una somma di denaro stabilita in misura fissa ed eventualmente progressiva (da stabilirsi con regolamento governativo ex art. 17, comma 1, L n. 400/1988), “tenuto conto anche della rilevanza degli interessi coinvolti nel procedimento stesso’’. In sede di stesura definitiva, sia il riferimento alla autonomia del danno dalla spettanza del beneficio che quello relativo alla sanzionabilità del ritardo indipendentemente dalla dimostrazione del pregiudizio sono state espunte dal testo della norma, fomentando quindi, anziché sopire, la diatriba in materia di giustiziabilità del danno da ritardo. In dottrina, sono già emerse tesi contrapposte. Per una prima impostazione, che valorizza l’espressa previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per il contenzioso risarcitorio avente ad oggetto il danno da ritardo, l’odierna opzione normativa, implicando il riconoscimento - quanto meno in alcuni casi - della natura di vero e proprio diritto dell’interesse dei privati alla tempestiva conclusione del procedimento, confermerebbe la natura contrattuale della relativa responsabilità dell’amministrazione: tanto sull’assunto della tradizionale concezione della giurisdizione esclusiva come limitata a materie caratterizzate da “intreccio” di situazioni di diritto soggettivo e interesse legittimo86. Su altro versante, tuttavia, chi, non senza fondamento, ritiene la nuova disposizione non idonea a modificare le conclusioni già raggiunte dalla prevalente giurisprudenza, tanto più in considerazione del ripensamento dei compilatori rispetto alla prima versione del d.d.l., idoneo a suggerire la 86 Cfr. VACCA, Ontologia della situazione giuridica soggettiva sottesa all'azione di risarcimento del danno conseguente all'inadempimento da parte della pubblica amministrazione dell'obbligo di esercitare il potere amministrativo (alla luce della legge 18 giugno 2009 n. 69), in “www.lexitalia.it” (luglio 2009), il quale, muovendo dalla tradizionale concezione della giurisdizione esclusiva come limitata a materie caratterizzate da "intreccio" di situazioni di diritto soggettivo e interesse legittimo, conclude che l'odierna opzione normativa, implicando il riconoscimento - quanto meno in alcuni casi - dalla natura di vero e proprio diritto dell'interesse dei privati alla tempestiva conclusione del procedimento, confermerebbe la natura contrattuale della relativa responsabilità dell'amministrazione. 103 volontà legislativa di non disancorare il risarcimento del danno da ritardo dalla spettanza del beneficio sotteso al provvedimento omesso87. In tal senso, e contrariamente all’avviso poc’anzi riferito, non si ritiene decisiva neanche la previsione della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, verosimilmente volta a dissipare una volta per tutte i dubbi insorti all’indomani della nota sentenza della Corte Costituzionale del 6 luglio 2004, n. 204, allorché in talune pronunce si era ipotizzata l’estraneità alla sfera di cognizione del giudice amministrativo delle azioni da risarcimento da silenzio o da ritardo, essendo questi ultimi meri comportamenti, e non atti né provvedimenti88. 8.1.3. La nuova ipotesi di responsabilità dirigenziale: i rapporti con. la responsabilità dirigenziale prevista dall’art. 21, D.lgs. n.165 de1 2001 Come osservato, la legge 18 giugno 2009, n. 69, nell’intento di accrescere la tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi, prevede espressamente che i predetti ritardi possono essere causa di responsabilità dei dirigenti amministrativi. Invero, il novellato art. 2, legge n. 241 del 1990, così recita al suo ultimo comma: “La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale”. Correlativamente, il comma 2 dell’art. 7 della ridetta legge n. 69 del 2009 dispone: “II rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti; di esso si tiene conto al fine della corresponsione della retribuzione di risultato. Il Ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro per la semplificazione normativa, adotta le linee di indirizzo per l’attuazione del presente articolo e per i casi di grave e ripetuta inosservanza dell’obbligo di provvedere entro i termini fissati per ciascun procedimento”. Ciò posto, vanno segnalati i problemi di coordinamento che la nuova previsione in tema di responsabilità dirigenziale pone con la generale 87 GRECO, I nuovi profili della responsabilità dirigenziale nella legge 18 luglio 2009, n. 69, in GAROFOLI, La nuova disciplina del procedimento e del processo amministrativo, Nel diritto editore, 2009. 88 Dubbi per vero già superati dalla prevalente giurisprudenza, la quale aveva in contrario affermato trattarsi comunque di controversie aventi a oggetto l'esercizio, o meglio il mancato esercizio, dei poteri funzionali e autoritativi della P.A., come tali certamente rientranti nel perimetro della cognizione del giudice amministrativo. Cass, s.u., 31 marzo 2005, n. 6745, in Giur. it., 2005, 1949; Cons. St., Ad. Plen., n. 7/2005, cit. 104 disciplina in subiecta materia contenuta nel D. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, non inciso dalla riforma. Problemi applicativi la nuova previsione può anche innescare se si ha riguardo alle ipotesi in cui il responsabile del procedimento ex art. 5 l. n. 241/90 non rivesta qualifica dirigenziale89. Giova esaminare dapprima i problemi di coordinamento tra la nuova previsione e la generale disciplina in subiecta materia contenuta nel D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. Occorre, invero, valutare se la nuova previsione oggi inserita nell’ultimo comma dell’art. 2, l. n. 241 del 1990, secondo cui il mancato rispetto dei termini di conclusione del procedimento amministrativo “costituisce elemento di valutazione” della responsabilità dirigenziale, importi o meno l’introduzione di una ipotesi ulteriore di responsabilità dirigenziale, destinata ad aggiungersi alle due individuate dall’art. 21, d.lgs. n. 165 del 2001. Va senz’altro esclusa la possibilità di ricondurre la nuova fattispecie alla figura della “inosservanza di direttive”, considerandola un’ipotesi particolare di essa. Invero, le “direttive” richiamate dall’art. 21 vanno identificate in quelle impartite dall’organo di indirizzo politico, connesse con gli obiettivi individuati nel provvedimento di incarico; per contro, l’obbligo di osservare i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi - il cui mancato rispetto, secondo la norma, può costituire elemento di valutazione della responsabilità del dirigente - non discende da siffatte direttive, ma direttamente da disposizioni di legge o regolamento. Parimenti problematico risulta ricondurre la nuova previsione alla diversa ipotesi, ex art. 21 D.lgs. n. 165 del 2001, di “mancato raggiungimento degli obiettivi’’: anche in questo caso, infatti, gli “obiettivi’cui il legislatore ha inteso avere riguardo sono gli obiettivi specifici cui è preordinato l’incarico dirigenziale, quali risultano individuati nel provvedimento di conferimento, non già obiettivi generali dell’azione della P.A., come il raggiungimento di risultati di efficienza ed efficacia, cui è funzionale il rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti amministrativi di cui all’art. 2, l. n. 241/1990. Come è stato attentamente osservato, allora, deve ritenersi che con la novità legislativa che si esamina si è inteso introdurre una nuova ed ulteriore ipotesi di responsabilità dirigenziale, destinata ad aggiungersi a quelle già individuate dal non modificato art. 21 d.lgs. n. 165/200190. 89 Per una trattazione approfondita degli indicati aspetti, GRECO, I nuovi profili della responsabilità dirigenziale nella legge 18 luglio 2009, n. 69, in GAROFOLI, La nuova disciplina del procedimento e del processo amministrativo, Nel diritto editore, 2009. 90 GRECO, op. cit., il quale osserva che "ancora una volta, pertanto, il legislatore interviene su un tessuto normativo 'sensibile', quale è quello in materia di ordinamento 105 8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del procedimento Il rilievo ascritto dalla legge n. 69 del 2009 ai ritardi nella definizione dei procedimenti amministrativi in sede di valutazione della responsabilità dei dirigenti impone di scandagliare il rapporto tra tale peculiare responsabilità e l’imputazione degli effetti dell’attività procedimentale al responsabile del procedimento di cui all’art. 5, l. n. 241/90. Come è noto, tale norma espressamente prevede il dovere del dirigente di ciascuna unità organizzativa, come definita dal precedente art. 4, di assegnare la responsabilità dell’istruttoria e degli altri adempimenti connessi a ogni singolo procedimento “a sé o ad altro dipendente addetto all’unita’’; nella pratica, si individua quale responsabile del procedimento un funzionario di livello non dirigenziale, ciò che ha posto l’ulteriore questione del rapporto tra dirigente preposto all’unità organizzativa e responsabile del procedimento. Si è ritenuto, al riguardo, che non vi è contraddizione tra l’innovativa introduzione di una nuova forma di responsabilità, circoscritta ai dirigenti e strettamente connessa alla loro capacità di conseguire i risultati programmati, e l’intento di accrescere al massimo, per ragioni di efficienza e di trasparenza esterna, l’autonomia del responsabile della procedura, funzionario sempre più spesso diverso dal dirigente, e tuttavia molto più di questo a conoscenza delle problematiche sottese al procedimento. Invero, si è sostenuto che la coerenza del sistema sia assicurata dalla distinzione tra le possibili responsabilità (civile, penale, contabile etc.) configurabili in capo al responsabile del procedimento per il proprio operato all’interno delle singole procedure e la ben diversa responsabilità del dirigente, concernente i profili generali di funzionamento dell’ufficio, la sua efficienza, l’efficacia globale dell’azione condotta91. Sul piano del rapporto interno fra il responsabile del procedimento e il dirigente che lo nomina ai sensi dell’art. 5 L n. 241/90, il nuovo sistema si caratterizzava per il superamento del tradizionale modello gerarchico del rapporto tra dirigenza e dipendenti, in favore di un assetto incentrato sulla della dirigenza pubblica e di relativa responsabilità, introducendo rilevanti novità in una sedes eterogenea e senza interessare il testo fondamentale vigente in materia (nella specie, il Testo Unico del pubblico impiego), e quindi con modalità foriere di possibili dubbi ed equivoci interpretativi; tale tecnica legislativa, sempre più diffusa negli ultimi anni, appare certamente censurabile (oltre che contrastante con i dichiarati intenti di "codificazione" di interi settori normativi)''. Si veda, in ???? di responsabilità per mancata conlcusione dei procedimenti, poi, il recente d.l. 5/2012. 91 In tal senso, POTENZA, Spunti innovatiti attuali nella disciplina della responsabilità gestionale dei dirigenti degli enti locali, in “Foro amm.”, 1998, 2, 619 55. 106 separazione e reciproca interrelazione delle competenze, in senso “orizzontale”. Occorre verificare in che modo su questo modello incide la nuova previsione di una possibile responsabilità del dirigente conseguente alla violazione dei termini di durata massima dei procedimenti amministrativi. Pare utile segnalare che il legislatore, mosso dall’intento di conseguire obiettivi di semplificazione e di potenziamento delle garanzie dei cittadini a fronte dell’azione della P.A., li abbia perseguiti non già introducendo più puntuali previsioni relative alla responsabilità dei funzionari a diretto contatto con gli amministrati, bensì introducendo una maggiore responsabilizzazione del livello apicale dell’apparato, burocratico amministrativo. Come è stato acutamente posto in risalto, non sarà semplice coniugare l’inedita ipotesi di responsabilità dirigenziale. oggi prevista dall’art. 2, comma 9, con quella che fino a oggi è stata la netta separazione del ruolo del dirigente rispetto ai compiti e ai doveri attribuiti dalla legge al responsabile del procedimento92. 9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1.241/1990 Un cenno merita, ancora, la disciplina dettata dall’art. 21-octies, L. 241 del 1990, già, peraltro, scrutinata sotto un diverso angolo visuale nel cap. 2 del presente lavoro, recante una previsione che, forse più delle altre, è destinata ad avere un impatto decisivo sul sistema di tutela approntato dal giudice amministrativo, non più tenuto ad arrestarsi alla valutazione della illegittimità formale o procedimentale dell’atto impugnato, su cui non può quindi abbattersi la scure dell’annullamento giurisdizionale allorché il giudice si avveda della sua giustezza sostanziale all’esito del doveroso esame prognostico circa gli esiti che il procedimento avrebbe avuto allorché l’errore formale o procedimentale, pure acclarato, non fosse stato commesso. Si tratta, sul versante processuale, di un clamoroso cambio di prospettiva: l’atto amministrativo non è più l’oggetto esclusivo del giudizio amministrativo, che deve invece estendersi, a patto che sia rispettato lo spazio riservato alla discrezionalità amministrativa, al rapporto, con la verifica di ciò che nella vicenda amministrativa sarebbe comunque successo se pure le dedotte illegittimità non si fossero verificate. Volgendo lo sguardo alle possibili implicazioni di tipo sostanziale e procedimentale (anziché squisitamente processuale) della disposizione citata, non è mancato chi ha nella stessa ravvisato una misura di 92 GRECO, op. cit. 107 semplificazione procedimentale, destinata ad aprire la via alla riduzione della rilevanza degli adempimenti procedimentali. Se così fosse, si tratterebbe di scelta non del tutto in linea con quelle pure contestualmente fatte dallo stesso legislatore del 2005: quel legislatore, infatti, ha mostrato, da un lato, la tendenza a rafforzare le garanzie procedimentali - si pensi alla norma sulla comunicazione dei motivi ostativi all’accoglienza dell’istanza: art. l0-bis, cui segue una eventuale fase partecipativa - dall’altro, quella a deprezzarle. Giova, sul punto, qualche riflessione, necessariamente sintetica. L’art. 21-octies, 1. 241 del 1990, costituisce il tentativo di codificare quelle tendenze antiformaliste già apparse sia in dottrina che in giurisprudenza. Orbene, premesso che l’impostazione antiformalista va senz’altro condivisa, ci si deve però chiedere se effettivamente la nuova previsione vada nel senso di semplificare l’azione amministrativa e renderla più efficiente eliminando alcune formalità che costituivano un appesantimento. Giova considerare, al riguardo, che le norme sul procedimento o la forma degli atti non sono dettate per bizantinismi, costituendo viceversa il precipitato di principi di grande rilievo, talvolta di rango costituzionale: trasparenza, leale collaborazione, partecipazione al procedimento, accesso agli atti. Come è noto, peraltro, la legge n. 241 non ha minuziosamente disciplinato il procedimento amministrativo, dettando alcune regole, “poche ma forti”, che non sembrano certo da sé sole destinate ad indebolire la tensione efficientistica dell’azione amministrativa93. Regole, soprattutto, dettate a tutela del cittadino, oltre che della stessa amministrazione. In specie, la trasparenza dell’agere amministrativo e delle sue decisioni, la partecipazione dei privati o delle altre autorità pubbliche al procedimento, lungi dal costituire un aggravio dello stesso, consentono alla stessa amministrazione procedente di avere una visuale migliore per adottare le proprie determinazioni. I principi e le regole introdotti dalla 241 non sono quindi meramente formali. Ove la riforma della 241 avesse inteso fare un passo indietro rispetto a questi principi si aprirebbe un serio problema di costituzionalità. Si tratta del noto dibattito, sorto all’indomani dell’entrata in vigore della disposizione che si esamina, relativo alla sua natura sostanziale o processuale: - secondo una prima tesi, l’art. 21-octies ha trasformato i vizi di illegittimità individuati al secondo comma in mere irregolarità. In particolare, secondo 93 CHIEPPA, Il nuovo regime dell'invalidità del provvedimento amministrativo, in “www.giustizia-amministrativa.it” 108 una minoritaria posizione, l’art. 21-octies, configurerebbe addirittura una sorta di esimente, in grado di sollevare la P.A. dall’obbligo di rispettare gli artt. 7 e 8; - secondo la tesi contrapposta, invece, l’art. 21-octies, non incide sul regime giuridico dell’atto, cioè sulle categorie dell’irregolarità e dell’illegittimità, ma semplicemente inibisce la pronuncia di annullamento dell’atto per carenza dell’interesse a ricorrere. L’unico rimedio esperibile rimarrebbe, pertanto, il risarcimento del danno, anche se è discussa la possibilità di configurare un danno risarcibile quando il provvedimento concretamente adottato non avrebbe potuto essere diverso. In questi casi, infatti, noni sussiste solitamente una diretta lesione del bene della vita, ma semplicemente una violazione dell’interesse al rispetto delle regole procedurali, sulla cui risarcibilità esistono opinioni contrastanti. L’impostazione ermeneutica che sembra trovare maggiori consensi in dottrina e in giurisprudenza è quella che riconosce nella disposizione in esame la codificazione del principio giuridico del raggiungimento del risultato. L’invalidità del provvedimento, secondo questa ipotesi ricostruttiva, diventa irrilevante, in quanto il ricorrente non può attendersi dalla rinnovazione del procedimento una decisione diversa da quella adottata. La novella legislativa non avrebbe fatto altro, quindi, che accogliere le istanze della dottrina e della giurisprudenza che già da tempo sottolineavano come la sanzione dell’annullamento appaia inutile e, sotto certi aspetti, persino dannosa per il privato, qualora sia evidente che all’annullamento conseguirebbe comunque un provvedimento, questa volta formalmente legittimo, sfavorevole al ricorrente. In conclusione, l’art. 21-octies, comma 2, della legge 241/90, pure simile alla previsione contenuta nell’ordinamento tedesco, appare pericoloso in specie laddove, non correttamente inteso, rischia di depotenziare la funzione partecipativa del cittadino al procedimento amministrativo. Il rischio più forte è quello di un disorientamento dell’amministrazione, che farebbe meglio a non tenere conto della norma in sede amministrativa, limitandosi ad utilizzarla in sede giurisdizionale, quando sono stati commessi degli errori e non si è riusciti a correggerli attraverso l’esercizio del potere di autotutela94. Scontato ricordare le profonde radici che il diritto del destinatario ad essere sentito, prima dell’adozione di un provvedimento non favorevole, ha in altre civiltà giuridiche, ritenute meno formaliste della nostra: in Gran Bretagna, la regola dell’audi alteram partem, il diritto di essere sentiti, dal processo è passato al procedimento amministrativo ed è divenuta una garanzia (essenziale) ineludibile per gli interessati a seguito di pronunzie delle Corti giudiziarie inglesi su casi amministrativi risalenti al seicento ed 94 Ibidem. 109 al settecento. Pare piuttosto contraddittorio, allora, oltre che configgente con il principio di democraticità dell’azione amministrativa, pensare che la semplificazione dei procedimenti amministrativi possa passare per l’introduzione di una estesa dimidiazione delle regole formali e procedimentali e per un ridimensionamento del rilievo che l’inosservanza delle stesse può sortire in termini di patologia del provvedimento finale adottato dall’amministrazione. 10. Riforma dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo: è possibile una sinergia? La delega per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge n. 69 del 2009 ed il nuovo codice del processo amministrativo Per chiudere, giova confrontarsi con l’ultimo degli interrogativi da cui si è inteso prendere le mosse. In che modo può e deve concorrere all’abbattimento del c.d. rischio amministrativo una naturale evoluzione del processo amministrativo, della sua fisionomia, del suo oggetto, delle tecniche di tutela in seno allo stesso sperimentabili? È possibile pensare ad una sinergia tra riforma dell’amministrazione volta ad un miglioramento delle sue performance ed evoluzione del processo amministrativo95? Come è noto, è ormai in atto una tendenziale trasformazione del giudizio amministrativo, ruotante non più attorno alla sola azione di annullamento, al suo interno essendo sperimentabili plurime azioni. Soprattutto, è in atto una tendenza a considerare l’atto amministrativo non più l’oggetto esclusivo della cognizione del giudice amministrativo, chiamato sempre più a portare il suo vaglio sul rapporto, sì da assicurare una tutela piena (e non di facciata) all’interesse del privato. L’evoluzione che ha interessato il giudizio sul silenzio e il suo oggetto, le novità in tema di motivi aggiunti; l’introduzione del meccanismo sanante di cui all’art. 21octies, 1. 241/1990, costituiscono indizi forti del processo evolutivo accennato. Si tratta di un’evoluzione da salutare con particolare favore se solo si considera che la precedente e tradizionale visione del processo amministrativo quale sistema ruotante attorno all’atto, volto cioè a valutarne la legittimità senza che nello stesso si prenda coscienza del rapporto che all’atto è, sotteso e si accerti, quindi, l’effettiva consistenza delle 95 Per alcune riflessioni sulle "interrelazioni tra le trasformazioni che hanno riguardato il provvedimento e quelle che hanno interessato il processo amministrativo" espresse "nella consapevolezza che tra le une e le altre esiste una reciproca influenza, una osmosi continua", DE LISE, Lo statuto del provvedimento amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it. 110 1) 2) 3) 4) 5) posizioni, di vantaggio e non di cui sono titolari i protagonisti della vicenda amministrativa (amministrazione, istante e controinteressati), ha tradizionalmente indotto: ad escludere, quanto alle azioni proponibili, la sperimentabilità nel processo amministrativo a tutela di interessi legittimi, di azioni di accertamento e condanna; a ritenere, quanto alla consistenza della cognizione devoluta al giudice amministrativo e all’impegno istruttorio dallo stesso esigibile, non necessaria una complessa attività di raccolta probatoria, come attestato dalla mancata previsione, prima del varo della legge n. 205/2005, della consulenza tecnica; ad avallare la prassi processuale del c.d. assorbimento dei motivi, in forza della quale il giudice annulla l’atto sulla base della riscontrata presenza di uno solo dei diversi vizi dedotti con i motivi di ricorso, senza passare all’esame degli altri, in specie quelli sostanziali, pure necessario perché la sentenza possa orientare il successivo riesercizio del potere; ad escludere l’integrabilità in giudizio della motivazione di cui si è dedotto in ricorso la mancanza o l’insufficienza, al contempo ammettendo che, annullato l’atto sulla base della acclarata violazione dell’art. 3, L. 241/1990, l’amministrazione possa reiterare il diniego esplicitando nuove ragioni; sostanzialmente a riconoscere - a fronte di un giudizio di annullamento per intero vertente sull’atto e sui suoi vizi, anche formali o procedimentali - un amplissimo potere di riesaminare e definire la vicenda in capo all’amministrazione, cui di fatto si riconsegna, sostanzialmente indifeso, il privato, pure vittorioso in giudizio. Risvolti, quelli segnalati, certo confliggenti con l’obiettivo di rendere il processo amministrativo e le pronunce che lo definiscono davvero “risolutive”, anziché parentesi processuali di un procedimento amministrativo destinato in spregio ad ogni istanza semplificatrice - a ripartire ex novo. Ferme le conquiste ormai realizzate, occorre interrogarsi sull’opportunità (o necessità) di un’ulteriore evoluzione, spinta fino al punto da aprire il processo amministrativo al principio di atipicità delle forme di tutela. Aperture in tal senso si sono registrate nella più recente giurisprudenza impegnata ad esaminare la questione relativa all’ammissibilità, nel processo amministrativo, di un’azione di accertamento autonomo, sul modello tedesco96. 96 In senso affermativo, Cons, St., sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 717, in Rivista Neldiritto, 2009, n. 3, 446 ss., con nota di CLARICH e SANCHINI, Verso il tramonto della tipicità delle azioni nel processo amministrativo. Cfr. da ultimo, Tar Calabria, Reggio Calabria, 18 giugno 2009, n, 431. Per un attento esame della tematica, 111 Era probabilmente opportuna una scelta di campo del legislatore, coerente non solo con la rappresentata evoluzione del sistema di giustizia amministrativa nella direzione della pienezza della protezione accordata alle posizioni soggettive, ma anche con il segnalato obiettivo di rendere davvero “risolutive” le pronunce del giudice amministrativo. Un’opportunità è, al riguardo, offerta dalla delega per il riassetto della giustizia amministrativa contenuta nell’art. 44, legge n. 69 del 2009, poi trasfusa nel d. lgs. 104/2010 e, da ultimo, riesaminata in sede di primo correttivo al codice del processo amministrativo, in cui molti degli spunti indicati sono stati oggetto di apposita previsione legislativa. Due, principalmente, le direttrici di fondo lungo le quali si è mosso il legislatore delegato. Da un lato, si è cercato di incidere sui fattori che ostano ad una definizione tempestiva del processo amministrativo, ponendo mano ai criteri di riparto della giurisdizione e assicurando piena attuazione al principio di concentrazione processuale, nonché ridefinendo la disciplina dei termini processuali e della tutela cautelare. Dall’altro, per l’appunto, ci si è provati ad assicurare pieno ingresso al principio della pluralità (se non della atipicità) delle azioni proponibili: di annullamento, accertamento e risarcimento. Sullo sfondo, però, un obiettivo ulteriore: quello di rendere il sistema di giustizia amministrativa idoneo ad assicurare, con le sue decisioni, un miglioramento delle performance dell’amministrazione, orientandola, oltre che stigmatizzandone, con lo strumento risarcitorio, illiceità e ritardi. È possibile e doverosa, cioè, una sinergia tra riforma dell’amministrazione, volta ad un recupero di efficienza e credibilità, ed evoluzione del processo amministrativo, diretta a garantire che le decisioni dei giudici abbiano un’efficacia per quanto possibile “risolutiva” della vicenda amministrativa, anziché costituire parentesi di un procedimento amministrativo destinato - in spregio ad ogni istanza semplificatrice - a ripartire ex novo. CLARICH, Tipicità delle azioni e azioni di adempimento nel processo amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it 112 PARTE II UNA DECLINAZIONE DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA: LA CONFERENZA DI SERVIZI 113 114 CAPITOLO 1 LA CONFERENZA DI SERV1ZI COME NUOVO MODELLO DI AZIONE AMMINISTRATIVA: LE DIVERSE TIPOLOGIE E IL PROCEDIMENTO 1. Introduzione - 2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi. - 3. L'utilità dell'istituto. - 4. Il problema della natura giuridica. - 5. La conferenza istruttoria. - 6. La conferenza di servizi decisoria. - 7. La conferenza trasversale a procedimenti connessi. - 8. La conferenza preliminare. - 9. Il procedimento: Premessa. 10. Organizzazione, funzionamento e tempi. - 11. Il soggetto legittimato a partecipare. 12. L’acquisizione tacita dell’assenso. - 13. Il provvedimento finale. - 14. Ulteriori snodi procedimentali. l. Introduzione In linea con la ratio del presente contributo, dopo avere sviscerato le cause del tracollo della economia in questi ultimi anni ed offerto la rappresentazione complessiva della risposta semplificatoria che l’ordinamento ha approntato per recuperare efficienza e competitività, utilizzando un ideale “cannocchiale”, veniamo ad occuparci della conferenza di servizi, istituto tipico di un modo nuovo e, per certi versi “ rivoluzionario”, di intendere l’agere amministrativo. La conferenza di servizi nasce come istituto fondamentale della semplificazione amministrativa. Essa diventa altresì, nel tempo, nuovo modulo di azione amministrativa che, in presenza di diversi aspetti settoriali alla cui tutela sono preposte altrettante amministrazioni (se non proprio diversi livelli di governo), tende alla ricerca dell'interesse pubblico prevalente. In particolare, da istituto di carattere speciale richiamato, di volta in volta, all'interno di procedimenti amministrativi di settore (es. rifiuti, mondiali di calcio, etc.), esso si è trasformato, dopo le prime positive esperienze pratiche, in modello di carattere generale cui ricorrere ogniqualvolta è necessario acquisire l'assenso di più amministrazioni su un progetto od una iniziativa pubblica. Occorre poi sottolineare sin da ora come il legislatore, già all'indomani della legge generale sul procedimento (L. n. 241/90), abbia comunque dimostrato una certa propensione a (ri)disegnare, all'interno di specifici ambiti amministrativi (es. localizzazione opere pubbliche, energia, attività produttive, etc.), conferenze di servizi di carattere speciale, con caratteri di differenziazione più o meno accentuati rispetto all'istituto generale. 115 L'esigenza che sta alla: base della conferenza di servizi è, in primo luogo, la cronica frammentazione di competenze amministrative che, da sempre, caratterizza il sistema amministrativo italiano. In secondo luogo, il principio di decentramento territoriale, che trova ispirazione nell'art. 5 Cost., in virtù del quale su aspetti identici o comunque intimamente connessi è frequente, nonché necessario, il concorso di più livelli di governo (statali, regionali e locali) ai fini della loro concreta gestione. La conferenza di servizi assume dunque una duplice funzione: da un lato, essa è mezzo di accelerazione e semplificazione del procedimento amministrativo (aspetto che potremmo definire quantitativo): in un'unica sede, fisica e concettuale, si concentra infatti l'intervento di una pluralità di amministrazioni che hanno competenza, a vario titolo, ad intervenire nel procedimento stesso. Dall'altro lato, essa costituisce un formidabile strumento di mediazione (o di ponderazione, se si preferisce) delle diverse discrezionalità che, in termini spesso contrapposti, vengono a confrontarsi all'interno del procedimento amministrativo (aspetto, questo, che potrebbe dunque qualificarsi come qualitativo). La conferenza di servizi si presenta così, all'interno del panorama del diritto amministrativo, in chiave dirompente, per non dire rivoluzionaria: essa spinge infatti a decidere non solo “in tempi brevi”, ma anche in modo "fattibile”, inducendo la pubblica amministrazione ad abbandonare schemi decisionali di tipo solitario per abbracciare metodi più aperti, democratici, che attraverso il contributo di più soggetti (anche privati, come si vedrà) consentano - ove possibile, si intende, e senza che vi sia alterazione alcuna delle ordinarie competenze attribuite - la realizzazione dell'intervento o del progetto richiesto. Al pari del diritto di accesso, questo modello si pone allora non solo come mezzo di semplificazione procedimentale, ma anche quale strumento di democratizzazione dell'azione amministrativa. In questa direzione, la grande sfida che la odierna pubblica amministrazione è chiamata a raccogliere è quella del confronto aperto, ove tenere conto dei diversi e contrapposti interessi settoriali, nonché dei vari livelli di governo che ormai, dopo i recenti interventi di carattere costituzionale, sono chiamati ad applicare in senso pieno il principio di leale collaborazione. È ben vero che la pubblica amministrazione, nella sua accezione tradizionale, sembra poco propensa alla cultura della mediazione e della conciliazione. Ma su questo punto non debbono esservi dubbi, né spazio per tentennamenti. Proprio per questo motivo, ossia per spingere le amministrazioni ad aprirsi, sarebbe altresì auspicabile, in prima battuta, rafforzare l'obbligatorietà circa 116 l'utilizzo di tale strumento; in seconda battuta, il ricorso ad alcuni istituti propri della semplificazione amministrativa, quali il silenzio-assenso, che potrebbero così determinare i vari soggetti competenti a non ritrarsi da tale confronto. Accanto ai vantaggi che l'istituto in esame innegabilmente arreca, è allo stesso tempo doveroso sottolineare come sussistano, sullo sfondo, alcune problematiche che i vari soggetti istituzionalmente competenti (legislatore, giurisprudenza e pubblica amministrazione) sono chiamati a risolvere con una certa sollecitudine. La prima di esse riguarda la fase finale del procedimento e i relativi atti da adottare: se da un lato si riscontrano soluzioni che certamente non contribuiscono ad accelerare il procedimento (si vedano le opzioni adottate dalla legge n. 15 del 2005), dall'altro lato alcune scelte più recenti di politica legislativa rischiano addirittura di indurre la P.A. a non maturare decisioni sufficientemente ponderate. Si veda la riscrittura dell’istituto ex art. 44 l. 69/00. La seconda di esse riguarda invece la gestione del dissenso, annosa questione che non ha mai conosciuto una soluzione soddisfacente sin dai tempi del varo della legge n. 241 - del 1990. Ed i motivi di tale (comprensibile) difficoltà sono ben noti: da un lato la conservazione dell'assetto delle competenze amministrative, che attraverso l'applicazione di taluni criteri (primo fra tutti quello della maggioranza) rischiano invece di essere inevitabilmente alterate; dall'altro lato, il rispetto delle attribuzioni riservate ai diversi livelli di governo (Stato, regioni ed enti locali), sulle quali vi è addirittura una copertura di natura costituzionale. Un'ultima notazione riguarda la tendenza del legislatore, poc'anzi richiamata, a ritagliare all'interno dei vari settori amministrati (e normativizzati) conferenze di servizi che hanno carattere derogatorio, per alcuni particolari aspetti (es. definizione dei dissensi), rispetto all'istituto di carattere generale. Tale fenomeno rischia senz'altro di produrre una “fuga dal procedimento” non priva di conseguenze negative sia per la tenuta della legge generale sul procedimento (che rischierebbe di svuotarsi di contenuto), sia per le inevitabili difficoltà di natura applicativa ed interpretativa che, giorno dopo giorno, i principali operatori del diritto (giudici e P.A.) sono costretti a risolvere con notevoli difficoltà. 2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi Istituto centrale della semplificazione del procedimento amministrativo, la conferenza di servizi, già prima dell'entrata in vigore della L. n. 241/1990, era stata utilizzata dal legislatore all'interno di discipline di 117 settore (legge 21 ottobre 1987, n. 441, sullo smaltimento di rifiuti; legge 29 maggio 1989, n. 205, sui mondiali di calcio; legge 5 giugno 1990, n. 135, in tema di lotta sull'AIDS). Per la verità, come messo in evidenza da accorta dottrina97 l'istituto ha una origine informale, a livello di prassi amministrativa. Le prime applicazioni risalgono infatti agli anni cinquanta, per la precisione nel settore della pianificazione urbanistica, ad opera dell'allora Ministero del Lavori Pubblici. In seguito, la legge istitutiva dell'Ente Nazionale per l'Energia Elettrica (legge 6 dicembre 1962, n. 1643), prevedeva a sua volta - ai fini della installazione di nuovi impianti - l'indizione di “periodiche conferenze” per la consultazione di rappresentanze locali ed economiche e, in particolare, delle regioni, degli enti locali, delle organizzazioni sindacali e dei corpi scientifici. La legge generale sul procedimento amministrativo ha quindi esteso l'efficacia di un istituto già vitale in settori specifici, per poi modificarne, con la L. n. 127/1997 e da ultimo con le leggi n. 340/2000 e n. 15/2005, taluni tratti caratteristici98. L'importanza della conferenza è tale che lo stesso legislatore, anche successivamente, ha ritenuto opportuno continuare a legiferare in materie necessitanti una rilettura ad hoc della conferenza di servizi. Si pensi alla legge 15 dicembre 1990, n. 396 (interventi su Roma Capitale), nonché al D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (Sportello Unico per le attività produttive). Di sicuro rilievo è infine il ruolo che la conferenza assume all'interno dei contratti pubblici e, in particolare, dei lavori pubblici (legge n. 109 del 1994, c.d. legge Merloni, le cui disposizioni sono in parte qua confluite nel codice dei contratti, D.L. n. 163 del 2006). 97 D. D'ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione della complessità, Torino, 2002, 63-64. 98 Bibliografia fondamentale: G. PASTORI, Conferenza di servizi e pluralismo autonomistico, in “Reg.”, 1993, 1564 ss.; E. STICCHI DAMIANI, La conferenza di servizi; in Studi in onore di Pietro Virga; II, Milano, 1994, 1753 ss.; P. BERTINI, La conferenza di servizi; in “Dir. amm.”, 1997, 293 ss.; L. TORCHIA, La conferenza di servizi e l'accordo di programma, ovvero della difficile semplificazione, in “Giorn. dir. amm.”, 1997, 675 ss.; F. G. SCOCA, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in “Dir. amm.”, 1999, 255 ss.; P. FORTE, La conferenza di servizi; Padova, 2000; E. STICCHI DAMIANI, G. DE GIORGI CEZZI, P. L. PORTALURI, F. F. TUCCARI, Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa, Milano, 1999; L. TORCHIA, Lo Sportello Unico per le attività produttive, in “Giorn. dir. amm.”, 1999, 109 ss., F. CARINGELLA, L. TARANTINO, Il nuovo volto della conferenza di servizi; in “Urb. e app.”, n. 4/200l; D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione della complessità, cit.; F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi. Il modello e i principi, in “www.astridonline.it”, 2006. 118 Anche in risposta alle problematiche emerse nel dibattito dottrinale successivo alla L. n. 340/2000, la L. n. 15/2005, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241. Norme generali sull'azione amministrativa», ha introdotto tra l'altro alcune importanti modifiche all'istituto de quo, nell'intento di perfezionare ulteriormente il modulo procedimentale disciplinato dagli articoli 14 e seguenti della L. n. 241/1990 e di eliminare alcuni difetti di coordinamento insorti a seguito delle modifiche operate dalla citata legge 24 novembre 2000, n. 340. 3. L'utilità dell'istituto L'utilità della conferenza di servizi risiede nella possibilità di concentrare in un unico contesto logistico e temporale le valutazioni e le posizioni delle singole amministrazioni portatrici degli interessi pubblici coinvolti in un procedimento amministrativo, al fine di consentire il coordinamento tra le amministrazioni coinvolte. Come rilevato da autorevole dottrina99, l'esigenza di semplificazione e di accelerazione dei processi decisionali delle amministrazioni pubbliche cui risponde la conferenza di servizi è duplice: una è comune a molti ordinamenti, l'altra è tipica di quello italiano. In tutti i moderni sistemi amministrativi democratici, l'ordinamento riconosce una pluralità di interessi pubblici come meritevoli di tutela. Essi non sono necessariamente collocati dalla legge (e neppure, talora, dalla stessa Costituzione) in un ordine gerarchico o di prevalenza, né lo sono i soggetti preposti alla loro tutela (né a livello orizzontale, tra diversi Ministeri o enti dello Stato, né a livello verticale, tra diversi livelli di governo); gli stessi, anzi, sono spesso collocati in posizione di equiordinazione. Pertanto, il rapporto, la composizione, la ponderazione, il contemperamento fra di essi vengono sempre più spesso realizzati con moduli orizzontali e consensuali e non più, o sempre di meno, con moduli verticali e gerarchici. La prima esigenza è, dunque, quella di individuare i moduli procedimentali più efficienti per questo nuovo contesto, in cui l'interesse pubblico non è più rigidamente predeterminato e imposto, ma costituisce in concreto la risultante di un processo di formazione cui sono chiamati a partecipare - in posizione tendenzialmente paritaria - sempre più soggetti, compartecipi di un'opera di armonizzazione e contemperamento fra i diversi interessi pubblici alla tutela dei quali ciascuno di essi è preposto. La seconda esigenza nasce, invece, dall'alto tasso di dispersione delle funzioni amministrative che appare, in qualche modo, connaturato al 99 F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 2. 119 sistema italiano. Anche i recenti sforzi per riallocare in modo organico e razionale le funzioni amministrative, cercando di eliminare le disfunzioni causate da un processo secolare di stratificazione di funzioni nel tempo, hanno in verità sortito modesti effetti: essi sono stati infatti ancora una volta contrastati dalla naturale propensione delle amministrazioni italiane a riappropriarsi delle strutture e delle funzioni che si era cercato di ridurre, riallocare e riordinare. “Di fronte a questa duplice esigenza, la conferenza di servizi propone (dunque) soluzioni di grande novità istituzionale". Più in particolare, essa può essere definita come luogo istituzionale per il razionale coordinamento degli interessi pubblici e, quindi, alla stregua di strumento di attuazione del principio di buon andamento ai sensi dell'art. 97 Cost. La stessa Consulta100 ha dato il suo placet all'istituto in esame, ritenuto rispettoso del principio di legalità in quanto non comporta alcuno spostamento di competenze, dando invece luogo ad una differente disciplina delle modalità di esercizio del potere. Come segnalato da alcuni studiosi101, la conferenza di servizi “si segnala profondamente proprio perché rompe lo schema tradizionale della decisionalità solitaria e introduce un principio generale di segno opposto, quello dell'agire amministrativo contestuale e congiunto di tutti i centri amministrativi di cura degli interessi pubblici oggettivamente coinvolti, nel concreto, nei problemi amministrativi da risolvere: dal “principio della solitudine” dell'organo decidente si passa dunque al principio generale della valutazione comparativa contestuale e congiunta dell'insieme degli interessi pubblici coinvolti, anche a costo, è stato efficacemente sostenuto, di “amministrare per dissensi” (STICCHI DAMIANI). La conferenza di servizi decisoria, in particolare, costituisce un procedimento tipizzato ricompreso nella categoria dei procedimenti “di coordinamento strutturale”, diretti ossia a realizzare la sintesi della pluralità di competenze amministrative con lo strumento della partecipazione dei soggetti pubblici coinvolti nella vicenda, i cui interessi vengono fatti convergere e sono contemperati all'interno della conferenza stessa102. Soprattutto all'indomani dell'entrata in vigore della L. n. 340/2000, l'istituto in parola riveste dunque una duplice funzione: da un lato si 100 Cfr. Corte Cost., 19 marzo 1996, n. 79, in Foro it., 1996, I, coL. 1939, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge regionale lombarda nella parte in cui essa prevedeva che l'esame di progetti di nuove discariche pubbliche fosse attribuita ad un «gruppo di valutazione», organismo interno all'amministrazione, composto da funzionari regionali, con l'intervento non necessario e solo eventuale degli enti locali interessati, in violazione dell'art. 3-bis della L. n. 441/1987, secondo il quale i comuni devono partecipare all'approvazione del relativo progetto. 101 D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 38. 102 G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 1369. 120 presenta come modulo generale di semplificazione procedimentale, trattandosi, in definitiva, del «luogo del procedimento nel quale tutti gli interessi pubblici rilevanti hanno l'occasione per essere sincronicamente rappresentati» (profilo della semplificazione); dall'altro lato, come strumento di coordinamento, ossia diretto alla composizione dei vari interessi pubblici coinvolti in un dato procedimento e quindi - attraverso una loro complessiva e contestuale valutazione - alla individuazione e riaffermazione dell'interesse pubblico primario, o prevalente (profilo dell'assetto degli interessi)103. In altre parole, la conferenza di servizi è sia strumento di semplificazione (in chiave di snellimento ed accelerazione) dell'azione amministrativa, sia mezzo di coordinamento di poteri e discrezionalità amministrative diverse e, talora, contrapposte. Come rilevato, “ne consegue la capacità dell'istituto di modificare, in misura non marginale, il modo di agire dell'amministrazione, dal momento che il titolare di ciascun interesse pubblico settoriale non potrà esimersi, nel momento in cui esprime il suo punto di vista, dal farsi carico degli ulteriori interessi pubblici che vengono contestualmente in rilievo ai fini dell'emanazione dell'atto finale. Ad una serie di valutazioni separate di singoli interessi pubblici - in cui ciascuna amministrazione tende ad “assolutizzare” quello per la cura del quale è preposta, ponendo se stessa al centro del problema - si sostituisce, così, un dialogo tra amministrazioni che conduce ad una valutazione unica, globale e contestuale di tutti gli aspetti coinvolti”104. Come è stato opportunamente rilevato, «snellimento della procedura e concordamento sulle determinazioni (rectius, individuazione dell'interesse prevalente) sono obiettivi che non ha senso disgiungere: sono due anime dello stesso istituto che si influenzano reciprocamente e innescano un circolo virtuoso muovendo da un'idea tutto sommato semplice: “riunire e mettere a confronto tutti gli interlocutori in uno stesso luogo”105. Il presente lavoro avrà dunque come leitmotiv questo particolare duplice aspetto, anche al fine di valutare gli interventi giurisprudenziali che si sono succeduti sull'argomento in discussione. L'aspetto ulteriormente da sottolineare è che da strumento di natura eccezionale e di carattere facoltativo, quale era nell'assetto normativo iniziale, esso è evoluto in modulo obbligatorio e, se si preferisce, in modo ordinario di amministrare, quale forma obbligata di esercizio di pubbliche 103 Si veda, sul punto, O. FORLENZA, «Interessi prevalenti» con la conferenza di servizi, in “Guida al diritto”, 2000, n. 46, 117. 104 F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 3.. 105 P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 340. 121 funzioni106: in altre parole, la conferenza di servizi è passata da modulo speciale a istituto di carattere generale dell'amministrazione pubblica. 4. Il problema della natura giuridica Come si vedrà analiticamente in seguito, la L. n. 241/1990 prevede due tipi di conferenze di servizi: quella istruttoria (art. 14, comma l), nella quale vi è un'unica amministrazione competente a decidere (decisione monostrutturata) che, con la conferenza, acquisisce l'avviso delle altre amministrazioni portatrici di interessi coinvolti nella procedura; la conferenza decisoria (art. 14, comma 2), caratterizzata dalla necessità dell'assenso di più amministrazioni ai fini dell'adozione del provvedimento finale (decisione polistrutturata). Due sono gli orientamenti che si contendono il campo sulla natura giuridica di tale istituto, con particolare riguardo alla più problematica ipotesi della conferenza decisoria: a) parte degli studiosi ritiene si tratti di un organo amministrativo collegiale di carattere straordinario, centro formale di imputazione autonomo; b) altra parte ne sostiene la natura di mero modulo procedimentale, quale forma di raccordo tra più organi di separate amministrazioni, privo di una propria individualità107. Dunque, il dibattito si incentra riguardo alla collocazione dell'istituto, se tra gli istituti di ordine organizzativo o, viceversa, tra quelli riguardanti l'ordine dell'azione108. In altre parole, la conferenza è un organo collegiale oppure un metodo procedimentale, senza alcun rilievo sul piano organizzativo? All'indomani della legge n. 241 del 1990 era prevalsa la tesi sub a), in base alla quale il provvedimento era imputato non alla P.A. procedente che convoca la conferenza istruttoria, bensì a quest'ultima come organo autonomo, che acquisiva di conseguenza, in sede processuale, legittimazione passiva autonoma. La tesi sub b), invece, pone in rilievo come l'istituto si limiti a facilitare il coordinamento tra le singole autorità amministrative che sono gli unici centri di imputazione volontaristica, con la conseguenza che nulla è mutato dal punto di vista delle competenze. 106 D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 6. Per una rassegna dei possibili argomenti nell'uno e nell'altro senso, sia consentito il rinvio a F. MARTINELLI - M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi «derogatoria» al vaglio del giudice costituzionale, in “Urb. e app.”, 2002, 174-175. 108 D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 24. 107 122 Di qui i corollari secondo i quali l'atto finale risulta imputato solo all'amministrazione che adotta il provvedimento finale ovvero (nel caso della conferenza decisoria) alle altre amministrazioni che attraverso la conferenza esprimono la loro volontà provvedimentale; pertanto, la legittimazione passiva in sede processuale compete solo all'amministrazione o alle amministrazioni che abbiano adottato le statuizioni rilevanti all'esterno, e non alla conferenza, la quale funge da solo strumento di raccordo e di semplificazione organizzativo-procedimentale. Allo stesso modo non sono passivamente legittimate le amministrazioni che, attraverso la conferenza, esprimono solo le loro posizioni (conferenza istruttoria) ovvero adottano atti endoprocedimentali privi di efficacia esterna lesiva e non autonomamente impugnabili. La dottrina, così, ha prevalentemente optato per la “soluzione procedimentale”, rispetto a quella collegiale, soprattutto in considerazione del fatto che: a) la parte collegiale ha bisogno di una rigida predeterminazione dei componenti. Infatti, il collegio può avere una presenza necessaria ed una presenza eventuale, ma mai una presenza non definita (come la conferenza di servizi); b) sul piano della legittimazione processuale, il riconoscimento della natura di organo collegiale comporterebbe la negazione di qualunque possibilità dei componenti, in quanto tali, di agire giudizialmente per vedere riconosciuta la fondatezza dei motivi del dissenso emerso (ma anche superato) in sede di conferenza109; c) con particolare riferimento alla nuova configurazione dei rapporti tra Stato ed autonomie, a seguito della legge costituzionale n. 3/2001, occorre prestare molta attenzione alla possibile rimodulazione delle competenze, tra le diverse amministrazioni (statali, regionali e locali), che inevitabilmente conseguirebbe alla natura collegiale della conferenza di servizi: ciò che contrasterebbe, con ogni probabilità, con il nuovo sistema di riparto previsto dall'art. 117 Cost., con il principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 Cost. e, non ultimo, con il principio di (tendenziale) pari dignità istituzionale tra gli enti che compongono la Repubblica, ai sensi del novellato art. 114 Cost. Come già rilevato nel paragrafo 3, la conferenza di servizi introduce in questo modo, nel sistema, “un modo di amministrare profondamente innovativo rispetto all'atteggiarsi tradizionale dell'agire amministrativo, il cui obiettivo primario è da ravvisare, più che nella accelerazione o nel mero snellimento del procedimento, nel coordinamento dei poteri, nel momento del loro concreto esercizio, strumentale alla composizione dei vari interessi pubblici, ottenuta attraverso la loro valutazione complessiva e contestuale. 109 Ivi, 115-117. 123 Si tratta di una soluzione originale ai problemi del coordinamento delle azioni amministrative proprio perché, operando a livello procedimentale, e comportando la valutazione contestuale di tutti gli interessi pubblici coinvolti in una determinata operazione amministrativa, consente di ricucire sul piano operativo il frazionamento delle competenze e la distribuzione tra vari centri di imputazione della cura degli interessi pubblici”110. L'esposta tesi, secondo cui la conferenza funge non da organo collegiale ma da modulo organizzatorio e procedimentale, ha trovato l'avallo della Corte Costituzionale, che sul punto ha avuto modo di pronunciasi con le decisioni n. 62 dell'8 febbraio 1993 e n. 79 del l0 marzo 1996111. La questione è stata poi chiarita dal Consiglio di Stato, che con pronuncia della sez. IV del 9 luglio 1999, n. 1193112, ha concluso che la conferenza di servizi è solo un modulo procedimentale e non costituisce anche un ufficio speciale della pubblica amministrazione, autonomo rispetto ai soggetti che vi partecipano: di qui la mancanza di necessità di un'ulteriore notificazione ad un organo insussistente. L'assenza di una legittimazione processuale passiva impone, peraltro, che ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio le notifiche del ricorso vengano effettuate nei confronti di tutti quei soggetti che, in seno alla conferenza, hanno manifestato, mercé atti esoprocedimentali, la propria volontà. Il più tradizionale indirizzo trova ulteriore ed ampia conferma anche nella giurisprudenza amministrativa più o meno recente. Al riguardo è stato infatti affermato che: a) la conferenza di servizi, malgrado le innovazioni introdotte dalla L. n. 34012000, non costituisce un organo amministrativo collegiale straordinario, ma soltanto un modulo procedimentale per cui il provvedimento finale deve essere 110 Ivi, 119-121. Pubblicate rispettivamente su Le Regioni, 1993, 1563 (n. Pastori) e Foro it., 1996, I, 1939. La prima pronuncia si era occupata del presunto contrasto tra la legge su Roma Capitale e l'art. 128 Cost., ritenendo che la conferenza di servizi non sposti la competenza e, quindi, non invada la competenza degli enti locali. La seconda sentenza si è occupata della legge regionale della Lombardia sullo smaltimento dei rifiuti: la legge statale n. 441/1987 aveva previsto l'utilizzazione delle conferenze di servizi con il coinvolgimento delle autorità comunali interessate, mentre la legge regionale crea dei gruppi di valutazione autonomi, quali organi della regione in cui venivano invitati più o meno formalmente rappresentanti delle autonomie locali. La Consulta ha ritenuto che tali gruppi di valutazione non diano quelle garanzie assicurate dalla conferenza di servizi a tutte le P.A. partecipanti ed ha valutato la legge incostituzionale, qualificando la conferenza di servizi come mezzo generale dell'azione amministrativa. 112 In Cons. Stato, 1999, I, 1096 (s.m.). 111 124 imputato alle singole amministrazioni che formano la conferenza e adottano l'atto finale (T.A.R. Lombardia, sez. III, con decisione del 28 febbraio 2002, n. 888113); b) “la particolare natura della conferenza di servizi consente ai soggetti a vario titolo interessati al provvedimento finale di far conoscere il proprio punto di vista secondo lo schema della partecipazione funzionale, per cui ciascun apporto mantiene la sua autonomia. La conferenza stessa costituisce una formula organizzativa non lontana dal previo concerto, ed è strumento procedimentale di emersione e comparazione di interessi pubblici, destinati a sintetizzarsi nel provvedimento finale, e non un vero e proprio organo collegiale ove le singole manifestazioni di volontà si fondono in una. La conferenza di servizi non è il luogo giuridico in cui si assumono le decisioni finali, ma solo la sede ove tutti gli interessi pubblici rilevanti in un certo ambito vengono palesati e confrontati e, quale strumento di collaborazione e di accelerazione del procedimento, il suo valore resta determinato dall'ampiezza degli interessi considerati e dalla qualità dei singoli apporti tecnici” (Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2003, n. 349); c) Sul piano strettamente processuale, la circostanza che la conferenza di servizi non formi oggetto autonomo di rituale impugnazione (rivolta invece, più correttamente, soltanto contro i singoli organi partecipanti) non costituisce vizio di inammissibilità del ricorso, poiché tale soggetto, costituendo un semplice strumento e un diverso modulo procedimentale dell'attività della P.A., non può esser ritenuto autonomo centro di imputazione di interessi ma costituisce, invero, solo un veicolo per velocizzare le intese e gli accordi tra più enti locali, lasciando peraltro integra l'imputabilità delle singole realtà organiche (Cons. Stato, sez. V, 16 aprile 2002, n. 5295); d) la conferenza di servizi costituisce un originale modulo organizzativo in cui l'avviso espresso dalle singole amministrazioni resta pur sempre imputabile alle sole singole amministrazioni. Pertanto, il ricorso avverso la decisione finale non deve essere necessariamente notificato a tutte le amministrazioni che hanno preso parte alla conferenza, mancando in questo caso il rapporto di lesività immediata con ciascuno degli avvisi espressi in conferenza (Cons. Stato, IV, n. 2874 del 2004); e) la conferenza di servizi non assurge a soggettività giuridica autonoma, ma è uno strumento procedimentale di coordinamento di amministrazioni che restano diverse tra loro e che mantengono la rispettiva autonomia soggettiva: ne consegue che “è ammissibile il ricorso che non sia stato notificato a tutte le autorità che hanno partecipato alla conferenza di servizi, le quali non sono qualificabili come controinteressate al ricorso, mentre il gravame deve essere notificato alle autorità, tra quelle partecipanti, che mediante lo strumento della conferenza di servizi abbiano adottato un atto con rilevanza esoprocedimentale, il quale, in difetto del ricorso alla conferenza, si sarebbe dovuto impugnare da parte di chi avesse inteso contestarlo” (Tar Toscana, decisione n. 1162 del 2004). Sulla natura di strumento di semplificazione amministrativa - pur senza toccare profili legati all'impugnativa - si sofferma altresì il Consiglio di Stato 113 La decisione è riportata in “Foro amm.”, 2002, 839, con commento di G. TACCOGNA, Questioni in tema di conferenza di servizi. 125 nella sentenza n. 316 del 2004 della sesta sezione. Nel giudizio di primo grado, in particolare, era stato ritenuto che, nella conferenza convocata ai sensi della normativa sullo Sportello Unico (D.P.R. n. 447/98, oggi rivisto dal d.p.r. 106/2010), la Regione non avesse “espresso il suo assenso poiché il rappresentante legittimato si era limitato a dare comunicazione del parere favorevole della Giunta regionale, senza partecipare al confronto ed allo scambio di vedute tra i vari rappresentanti; (e) ciò sulla premessa della natura della conferenza di organo autonomo o comunque di strumento di raccordo, reciproco coordinamento e comune valutazione ancorato ad una partecipazione effettiva”. Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che: 1. il punto da risolvere è quello relativo alla possibilità di considerare il metodo collegiale come metodo necessario e indefettibile della conferenza di servizi; 2. tale istituto, anche dopo le più recenti riforma amministrative, non ha tuttavia natura di organo collegiale, quanto di modalità di semplificazione dell'azione amministrativa; 3. da ciò deriva la piena legittimità di una modalità di espressione dell'assenso rappresentata dalla trasmissione della delibera di assenso della Giunta regionale effettuata prima della conferenza di servizi, poiché “la conferenza rimane essenzialmente un luogo per l'acquisizione dell'assenso delle amministrazioni interessate ad un procedimento amministrativo e non un collegio che funziona secondo il metodo deliberativo - di derivazione parlamentare - della discussione e deliberazione tipico degli organi collegiali”. Isolata, invece, appare quella giurisprudenza secondo cui la conferenza decisoria comporta l'adozione di una decisione pluristrutturata, e quale istituto centrale della semplificazione, specie a fronte delle recenti modifiche legislative di cui alla L. n. 340/2000, essa pare assumere la configurazione non tanto di un semplice modulo organizzatorio, privo di influenza sul riparto di competenza, quanto di un vero e proprio organo amministrativo dotato di caratteri di autonomia (Tar Liguria, sez. I, 28 settembre 2002, n. 984)114. In definitiva, la prevalente giurisprudenza amministrativa ritiene che dal punto di vista della legittimazione passiva la conferenza abbia una valenza neutrale, dovendosi operare le dovute notificazioni come se non ci fosse. Conferma in tal senso proviene altresì dalla decisione n. 2107 del 2005 della quarta sezione del Consiglio di Stato. Peraltro, merita particolare attenzione la decisione n. 976 del 2004 del Tar Marche, il quale, nel ribadire in sostanza l'orientamento tradizionale, afferma che, al contrario, la speciale conferenza di servizi disciplinata dall'art. 9 del D.L. n. 114/1998 e dall'art. 13 della Legge Regione Marche n. 26/1999, in materia di distribuzione commerciale, configura, soprattutto in ragione della diversa distribuzione di poteri decisori tra i vari partecipanti alla conferenza, una sorta di 114 In “Foro amm.”, TAR, 2002, 3153, con nota di P. LOMBARDI. In senso contrario, peraltro, si veda lo stesso Tar Liguria, sentenza n. 1652 del 2003. 126 vero e proprio organo collegiale straordinario, diventando di conseguenza legittimata passiva in sede giurisdizionale. In ogni caso, anche accogliendo la tesi che esclude il carattere di organo, si sostiene che di fatto il funzionamento della conferenza di servizi va regolato sulla scorta delle norme relative agli organi collegiali, applicate analogicamente (fatta salva la presenza di norme ad hoc). Ed infatti: a) quanto alla convocazione, la conferenza di servizi deve essere convocata con un congruo anticipo da valutarsi in base al numero delle PP.AA. partecipanti e alla complessità del procedimento; b) i singoli rappresentanti delle varie PP.AA. devono ottenere l'autorizzazione ad esprimere la volontà dell'ente (l'art. 14-ter della L. n. 241/1990, come modo dall'art. 11 della L. n. 340/2000, prevede un preavviso di almeno l0 giorni, con la possibilità da parte delle PP.AA. coinvolte di chiedere entro 5 giorni, in caso di impossibilità di partecipare alla riunione, la fissazione di una nuova data entro l0 giorni); c) l'oggetto dell'ordine del giorno deve essere chiaro e non può essere mutato, salvo che non vi sia l'assenso di tutte le P.A. convocate; d) nel verbale deve darsi atto delle ragioni che hanno portato all'indizione della conferenza, nonché giustificare la legittimazione dei singoli rappresentanti. 5. La conferenza istruttoria L’art. 14 contiene una disciplina piuttosto scarna della conferenza di servizi istruttoria, limitata ai commi l e 3 del suddetto articolo, salvo, di volta in volta, verificare la compatibilità delle regole riguardanti la diversa species della conferenza di servizi decisoria. L’istituto non è stato significativamente inciso dalla L. n. 340/2000, né dalla L. n. 15/2005. La conferenza istruttoria è un istituto al quale si ricorre nel caso in cui sia opportuno acquisire fatti e interessi pubblici per mezzo di una partecipazione delle PP.AA. cui è affidata la cura di questi ultimi115. 115 Tra gli esempi più ricorrenti di conferenza istruttoria, la giurisprudenza è solita ricomprendere quella prevista dall’art. 27 del D.L. n. 22 del 1997 (c.d. “Decreto Ronchi”), in tema di localizzazione di impianti di smaltimento di rifiuti. Sulle problematiche inerenti a tale disciplina, e in particolare ai criteri per la legittimazione ad intervenire alla conferenza da parte dei comuni interessati, si rinvia a A. CAROSI, Riflessioni su localizzazione di discariche e tutela giurisdizionale, in “Foro amm. TAR”, 2003, 1999 (nota a T.A.R. Abruzzo, 26 novembre 2002, n. 712). 127 In sostanza la conferenza è uno strumento che assolve, per le amministrazioni pubbliche, alla stessa funzione che ha per i privati la partecipazione al procedimento ex artt.7 e ss. della L. n. 241, con la differenza che mentre per i privati la partecipazione è di tipo meramente cartolare, per le PP.AA. il legislatore ha ritenuto di dare la stura ad un’istruttoria aperta. Con la conferenza istruttoria viene consentita la partecipazione anche ad amministrazioni che non derivano la loro legittimazione procedimentale da altra esplicita disposizione di legge. Si prescinde quindi da una investitura formale, assumendo rilievo, alla luce della situazione concreta, la verifica della titolarità di un interesse in funzione collaborativa o difensiva e la conseguente opportunità di audizione del rappresentante dell’amministrazione116. Come si vedrà più avanti, è sempre più frequente che sia il legislatore a qualificare espressamente come istruttoria la conferenza di servizi; ciò anche perché, dopo l’avvento della legge n. 340 del 2000, la regola è data dal ricorso al modulo della conferenza decisoria. Pertanto la precisazione legislativa serve a caratterizzare in termini derogatori l’applicazione della conferenza di servizi, per l’appunto di natura istruttoria. In questo senso si richiama la legge sulle grandi opere (legge 443 del 200l). Ancora aperto è invece, come si vedrà, il capitolo relativo alla partecipazione alla conferenza da parte di soggetti privati117. L’indizione spetta alla P.A. procedente deputata all’adozione del provvedimento finale; resta da vedere se l’indizione sia facoltativa od obbligatoria, ossia se, a fronte di una attuale configurazione in termini obbligatori della conferenza decisoria spetti per la conferenza istruttoria, alla P.A. procedente, una sfera di valutazione discrezionale circa l’opportunità e l’utilità del coinvolgimento di altre amministrazioni attraverso tale modulo, piuttosto che attraverso la procedura ordinaria di cui agli artt. 7 e seguenti della L. n. 241/1990. Il problema va analizzato tenendo conto del fatto che, a fronte di una originaria configurazione in termini puramente facoltativi, già con la L. n. 127/1997 è venuta in rilievo una caratterizzazione per così dire ordinaria della procedura, evidenziata dall’inciso «di regola» che compare nell’art. 14, comma l. 116 Secondo Trib. Sup. Acque Pubbliche 12 maggio 2000, n. 33, in “Cons. Stato”, 2000, II, 1017, la conferenza può essere indetta, ove se ne ravvisi l’opportunità, anche in relazione a procedimento particolare specificamente disciplinato dalla legge. 117 Parte della dottrina sostiene che il privato possa partecipare alla conferenza quando si faccia portatore di interessi pubblici (es. l’associazione ambientale): la giurisprudenza ha in alcune sentenze valutato la conferenza di servizi un istituto rigido riservato alla P.A.; altra giurisprudenza opta per la natura di strumento elastico, cui può partecipare anche il privato. A favore di questa tesi milita la circostanza che altrimenti sarebbe necessario acquisirli al di fuori, perdendo il beneficio della contestualità. 128 Sui temi delle facoltatività e del tasso di discrezionalità non si registrano posizioni univoche. L’inciso «di regola» sembra fare della conferenza istruttoria uno strumento ordinario di esercizio della funzione amministrativa, la cui deroga necessita di specifica motivazione. Una eccezione, in presenza della quale la P.A. può decidere di non utilizzarla sarebbe, in particolare, l’urgenza che qualifichi la situazione (sulla scia dell’art. 7 e ss. della L. n. 241/1990). In conformità a tale orientamento la giurisprudenza, pur sottolineando la lata discrezionalità spettante alla P.A. in materia, non ha mancato di evidenziare la necessità che la «P.A. si prospetti il problema del coinvolgimento di una pluralità di interessi pubblici e di ricercarne la composizione attraverso lo strumento della conferenza di servizi»118. Parte della dottrina, comparando il dato normativo con la vecchia disciplina in tema di conferenza decisoria (in origine facoltativa), ha concluso nel senso dell’obbligatorietà del ricorso alla conferenza istruttoria. Questa tesi, in un panorama che dopo la L. n. 340/2000 ha trasformato in obbligatoria anche la conferenza decisori a, porterebbe alla conclusione del carattere obbligatorio di tutte e due le ipotesi di conferenza. Secondo altri, invece, l’amministrazione competente ad indire la conferenza sarebbe domina della valutazione di opportunità relativa all’indizione della conferenza, valutazione non censurabile in alcun modo in quanto afferente al merito amministrativo: l’espressione « di regola» sarebbe il « mero appello di un legislatore didascalico». Anche la giurisprudenza maggioritaria mostra in ogni caso di preferire quest’ultima soluzione. A conferma della esposta tesi della facoltatività si segnala, in particolare, la decisione n. 5249 del 2004 della sesta sezione del Consiglio di Stato. La questione atteneva alla ripartizione degli oneri, tra una amministrazione provinciale ed una società subentrata ad un consorzio interregionale per la gestione delle acque, relativamente allo spostamento di condotte idriche a seguito di lavori di allargamento e di sistemazione stradale. La norma di riferimento era data dall’art. 28 del codice della strada (D.L. 30 aprile 1992, n. 285), il quale dispone che “i concessionari di [...] distribuzione di acqua potabile [...] hanno l’obbligo di osservare le condizioni e le prescrizioni imposte dall’ente proprietario per la conservazione della strada e per la sicurezza della circolazione [...]”. Il citato art. 28 prevede poi, al comma 2, che “qualora per comprovate esigenze della viabilità si renda necessario modificare o spostare, su apposite sedi messe a disposizione dall’ente proprietario della strada, le opere e gli impianti 118 Trib. Sup. Acque Pubbliche 26 maggio 2000, n. 66, in “Cons. Stato”, 2000, II, 1022, che ha dichiarato illegittimo un provvedimento di imposizione di vincolo archeologico adottato omettendo di considerare l’opportunità di vagliare gli altri interessi pubblici coinvolti dalla misura, relativi alla realizzazione di opere idrauliche. 129 eserciti dai soggetti indicati nel comma 1, l’onere relativo allo spostamento dell’impianto è a carico del gestore del pubblico servizio; i termini e le modalità per l’esecuzione dei lavori sono previamente concordati tra le parti, contemperando i rispettivi interessi pubblici perseguiti”. La società per la gestione delle acque riteneva che il citato art. 28, comma 2, presupporrebbe dunque il coordinamento dell’azione amministrativa plurisoggettiva, previa conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 della L. 7 agosto 1990, n. 241. Il Consiglio di Stato, invece: a) ha ribadito che l’applicazione dell’art. 28 comporta che gli oneri conseguenti allo spostamento o alla modifica degli impianti, i quali interferiscono con la sistemazione o l’allargamento della strada, devono sostenersi con oneri a carico dei soggetti gestori dei servizi pubblici, tra cui anche i concessionari di distribuzione di acqua potabile, come la società appellante; b) pur essendo vero che l’art. 28, comma 2, del codice della strada, richiede che “i termini e le modalità per l’esecuzione dei lavori sono previamente concordati tra le parti, contemperando i rispettivi interessi pubblici perseguiti”, ha affermato che ciò attiene all’esecuzione dei lavori di spostamento, non incidendo in alcuna misura sull’individuazione del soggetto cui grava l’onere relativo allo spostamento dell’impianto, che resta pur sempre il gestore del servizio pubblico; c) ha tuttavia rilevato come il citato art. 28 non prescriva il previo ricorso alla conferenza di servizi di cui all’art. 14 della L. n. 241/1990. “L’indizione della stessa, inoltre, resta pur sempre una facoltà dell’amministrazione, non rinvenendosi l’ipotesi dell’indizione obbligatoria prevista al comma 2 del medesimo art. 14”, il quale verte “nell’ambito di un procedimento amministrativo in cui devono intervenire atti o provvedimenti da parte di altre amministrazioni pubbliche”. Per di più, nella fattispecie legale in esame il legislatore ha già ritenuto prevalente l’interesse pubblico alla viabilità sull’interesse dei gestori del servizio pubblico all’ubicazione degli impianti, ponendo a carico di questi ultimi gli oneri conseguenti allo spostamento degli impianti. Il ragionamento assunto dal Consiglio di Stato appare senz’altro condivisibile, atteso che dalla formulazione dell’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990, si evince in particolare come il procedimento sia diretto alla manifestazione di volontà provvedimentali, piuttosto che alla formazione di atti consensuali, per la cui regolazione si ritiene più appropriato il ricorso all’art. 15 della stessa legge generale, recante disciplina sugli “accordi” tra le amministrazioni. Si segnala, in ogni caso, come in generale il modulo della conferenza istruttoria sia in buona parte eroso dalla maggiore ricorrenza, in concreto, di ipotesi di conferenza decisoria. E ciò a seguito della legge n. 340 del 2000, in base alla cui formulazione si prevede che la conferenza è “sempre indetta” qualora siano necessari atti di intesa, nulla osta o assensi comunque denominati per la definizione dell’intervento. 130 Più in particolare, si evidenzia invece come le ipotesi di conferenza istruttoria siano per lo più intese dal legislatore in chiave derogatoria - e dunque espressamente contemplate come tali - rispetto alla conferenza decisoria. Basti pensare, al riguardo, a quanto previsto in materia di rifiuti (D.L. n. 22 del 1997), di grandi opere (legge n. 443 del 2001) e, secondo parte della giurisprudenza, di “sbloccacentrali” (D.L. n. 7 del 2002). Circa i rapporti tra le PP.AA. in sede di determinazione del contenuto del provvedimento, la conferenza istruttoria non dà luogo ad una decisione pluristrutturata, ma monostrutturata, che non risulta vincolata in alcun modo, come anche confermato dal Consiglio di Stato119 120. Ciò nondimeno, sulla P.A. procedente incombe l’onere di motivare congruamente il dissenso in ordine alle ragioni espresse durante l’istruttoria; la necessità di motivazione si presenta in modo particolare ove nel corso della conferenza sia intervenuta un’intesa informale che abbia ingenerato un affidamento. In questo caso, infatti, pur rimanendo il provvedimento nella disponibilità della P.A. procedente, il discostarsi dalle opinioni manifestate dalla stessa P.A. in sede di conferenza, ove non corroborato da adeguato supporto motivazionale (anche relativo a fatti sopravvenuti), sarà sintomatico di un’irragionevolezza dell’azione amministrativa stigmatizzabile con l’arma dell’eccesso di potere sintomatico. L’unanimità non è ovviamente richiesta, poiché la conferenza istruttoria non è un mezzo di manifestazione del consenso come per le decisioni pluristrutturate (quindi si ritiene che tutte le norme volte a rimediare alla non unanimità siano da riferirsi alla sola conferenza decisoria). 119 Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5296, in “Il Consiglio di Stato”, 2002, 331, con nota di F. Fonderico, in cui si è affermato che in tema di esame dei progetti per l’insediamento degli impianti di trattamento e stoccaggio di rifiuti, la cui istruttoria è regolata dalla L. n. 441 del 1987 (ora sostituita dal D.L. n. 22 del 1997), è irrilevante che il soggetto presente alla prevista conferenza di servizi (che ha natura meramente istruttoria), non abbia votato a favore di un determinato progetto, posto che il parere favorevole di alcuno dei soggetti intervenuti non può impedire alla regione di decidere la localizzazione dell’impianto. In questa stessa direzione, cfr. Cons. Stato, sez. V, 2 marzo 1999, n. 212, e T.A.R. Lombardia, III, 25 agosto 1999, n. 756. 120 Cfr. Tar Piemonte (n. 278 del 2002), in cui si afferma, da un lato, che la funzione precipua della conferenza istruttoria sia quella di acquisire tutti gli elementi valutativi necessari per procedere ad un compiuto esame del progetto medesimo, nonché di comporre tutti gli interessi di cui sono portatori i soggetti partecipanti; dall’altro, che la valutazione finale relativa alla decisione dell’amministrazione procedente non è comunque sindacabile sotto il profilo dell’opportunità, implicando una tipica scelta riservata all’amministrazione medesima. 131 Per gli stessi motivi la conferenza può aver luogo anche in assenza dei rappresentanti di alcune amministrazioni regolarmente convocate121. Può accadere, peraltro, che all’interno della conferenza istruttoria maturino i presupposti per la conclusione di un accordo ex art. 15, L. n. 241/1990 o ex art. 27 L. n. 142/1990 (ora 34, D.L. n. 267/2000): a quel punto l’Amministrazione procedente concorda il contenuto del provvedimento che deve emanare con le altre amministrazioni e stipula l’accordo. 6. La conferenza di servizi decisoria La disciplina generale della conferenza decisoria è dettata dall’art. 14, comma 2, e dagli artt. 14-ter e 14-quater della L. n. 241/1990, completamente riscritti dalla L. n. 340/2000 e poi, ancora, dalla L. n. 15/2005122 e, da ultimo, dalle l. 69/09 e l. 112/10. L’istituto in questione si prefigge il fine di velocizzare e semplificare l’attività amministrativa, mediante una concentrazione in un unico contesto dei procedimenti e delle competenze decisionali di una pluralità di amministrazioni il cui assenso è necessario ai fini dell’adozione di un determinato provvedimento (decisione pluristrutturata). La conferenza decisoria consente di acquisire intese, concerti, nullaosta, nel senso che le determinazioni assunte al suo interno tengono luogo di queste ultime; l’elencazione, peraltro, non è tassativa, ma meramente esemplificativa123. Si tratta - come detto - di una decisione pluristrutturata, in quanto il provvedimento finale concordato sulla base degli assensi espressi in conferenza sostituisce le determinazioni delle amministrazioni parteci– panti124. 121 La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV; 13 settembre 1998, n. 1088) ha escluso la natura di collegio perfetto della conferenza di servizi, con la conseguenza che non è necessaria la presenza di tutti i componenti, perché possa operare legittimamente. 122 Una species della conferenza decisori a madre è contenuta nell’art. 14, comma 4. Quest’ultima è caratterizzata dall’avvio riservato al privato, che può chiederne l’indizione (non la convoca egli stesso), quando ha bisogno che il provvedimento ultimo sia preceduto da più assensi, che in questo. modo vengono acquisiti in un’unica sede. Altre species della conferenza decisoria sono presenti negli artt. 14-bis e ss. 123 Pronunciandosi con riguardo a fattispecie antecedente alla L. n. 340/2000, Cons. Stato, sez. V; l marzo 2000, n. 3830, in “Cons. Stato”, 2000, 1, 1681, ha chiarito che «l’art. 14, comma 2 della L. n. 241/1990 va interpretato nel senso che tale disposizione non comporta ipotesi di deroga rispetto agli atti amministrativi generali vigenti né di variante agli strumenti urbanistici». Vedi anche, sulla portata dello strumento, Cons. Stato, sez. V; l0 marzo 2000, n. 1078. 124 Le volontà dei rappresentati delle singole amministrazioni sono raccolte nel verbale che chiude la conferenza. Dalla stessa verbalizzazione verrà desunta la verifica dei poteri rappresentativi, la validità delle convocazioni, le motivazioni e le modalità del 132 In via generale, la conferenza di servizi si applica essenzialmente all’ambito dei consensi vincolanti o parzialmente vincolanti. Si discute se la conferenza di servizi possa essere utilizzata anche per la acquisizione di pareri, con un meccanismo alternativo a quello previsto dagli artt. 16 e 17 L. n. 241/1990. Parte della dottrina ritiene che, poiché la norma fa riferimento ad assensi vincolanti o parzialmente vincolanti, sempre con lo stesso limite la conferenza possa essere utilizzata per accogliere pareri; altra tesi, invece, non vede nessun ostacolo all’utilizzo della conferenza per l’ottenimento di ogni tipo di parere, essendo la disciplina degli artt. 16 e 17, peraltro, armonizzabile con quella dell’art. 14. La risposta al quesito, certo, risente della valutazione circa la natura dell’attività consultiva ed il ruolo da questa svolto in rapporto con la c.d. amministrazione attiva; dipende in definitiva dall’accoglimento o dal superamento della concezione tradizionale del «parere» visto come valutazione resa in assoluto, completamente slegata da qualsivoglia riferimento ad un interesse particolare. Un orientamento più recente, rifacendosi all’insegnamento francese avvicina, invece, il parere all’atto di adesione, al «consentiment». Probabilmente in quest’ultimo contesto va collocata la nuova posizione che le soprintendenze ai beni culturali hanno di recente assunto a seguito della entrata in vigore del Codice dei beni culturali (D.L. n. 42/2004), che ha trasformato il potere di annullamento ministeriale sulle autorizzazioni paesaggistiche in un parere obbligatorio, in taluni casi finanche vincolante. Ulteriore problema è rappresentato dalla possibilità di acquisire a mezzo della conferenza l’atto di controllo: tale eventualità, per certi versi auspicabile, non è da praticare in ragione del fatto che il controllo interviene in una fase successiva rispetto alla perfezione dello stesso, per cui non è immaginabile l’intervento del controllo prima che la volontà della P.A. si manifesti (eccezion fatta, quindi, per i controlli di tipo preventivo). Senza dire dell’impossibilità di sovrapposizione della funzione di amministrazione attiva con quella di controllo, a guisa della posizione di terzietà che deve assistere quest’ultima ai fini di una logica autonomia funzionale125. Su questo punto si veda tuttavia il ruolo che, almeno prima dibattito, i termini dell’assenso. Quindi, il verbale ha funzione documentale, rappresentando le attività svolte e gli atti che le determinazioni assunte vengono a sostituire. 125 V’è da precisare, per giunta, che il controllo operato sul provvedimento finale non vale anche per le singole manifestazioni d’assenso: tale interpretazione è avvalorata dall’analisi comparativa dell’art. 14 e dell’art. 11, comma 3, quest’ultimo sugli accordi 133 della emanazione del suddetto Codice dei beni culturali, svolgevano le soprintendenze deputate alla cura del paesaggio. Dal momento che l’art. 14 è preordinato all’emanazione di concreti atti amministrativi, si esclude poi che il disposto del comma 3 possa essere adoperato qualora la conferenza sia stata convocata per l’adozione di un atto normativo, segnatamente di livello regolamentare (si veda in questo senso anche la giurisprudenza consultiva del Consiglio di Stato, la quale afferma che la conferenza di servizi si muove nel rispetto della normativa vigente, e non in deroga alla stessa126). L’iniziativa127 dell’indizione della conferenza spetta alla P.A. competente per l’adozione del provvedimento finale che deve definire il procedimento; la regola è rispettata anche nel caso previsto al comma 4 dell’art. 14, a mente del quale il privato interessato può solo sollecitare l’indizione della conferenza all’indirizzo dell’amministrazione competente per l’adozione del provvedimento conclusivo. La legge n. 340 del 2000 ha innovato, sul punto, la disciplina precedente (comma 2-ter dell’art. 14), per cui, in caso di iniziativa del privato subordinata ad atti di consenso di più amministrazioni, l’indizione veniva operata dall’«amministrazione preposta alla tutela dell’interesse pubblico prevalente». In caso di affidamento di concessione di lavori pubblici la convocazione compete al concedente, oppure al concessionario dietro autorizzazione del concedente, il quale conserva in ogni caso diritto di voto128. sostitutivi asserisce vadano effettuati quei controlli che dovrebbero essere effettuati sui singoli provvedimenti. 126 Cfr. Cons. Stato, I, parere n. 1622 del 1997, in Giornale di diritto amministrativo, 1998, 475, con nota di F. Fonderico. 127 In alcune ipotesi di conferenza il legislatore individua anche nominalmente l’amministrazione competente ad indire la conferenza. In altre ipotesi quali quella dell’art. 27, L. n. 142/1990 si adotta un criterio fondato sulla titolarità dell’interesse pubblico prevalente. Rimane fermo il problema inerente alla individuazione della P.A. legittimata all’indizione in base all’interesse pubblico prevalente (quest’ultimo criterio è stato spesso utilizzato dal Cons. Stato in tutt’altra fattispecie per l’individuazione dell’amministrazione titolare della competenza in materia espropriativa), se il comune perché trattasi di attività edificatoria, o la regione perché preposta a tutela dell’ambiente. Secondo parte della dottrina, dell’interesse pubblico prevalente sarebbe comunque sempre titolare l’amministrazione alla quale il privato presenta l’istanza che apre il procedimento. 128 La disciplina dettata dalla L. n. 340/2000 non ha toccato il funzionamento della conferenza in materia di appalti di lavori pubblici, che resta disciplinato della L. n. 109/1994 (ora anzi dal Codice dei contratti pubblici) e dal D.P.R. n. 554/1999. Sono tuttavia abrogati, nonostante l’apparente salvezza integrale dell’art. 7 della L. n. l09/1994 (comma 3, art. 14, L. n. 241), i commi da 7 a 14 dell’art. 7 della legge Merloni. Quanto invece alla conferenza per l’approvazione dei progetti di opere concernenti reti ferroviarie, ai sensi del comma 2 dell’art. 14, l’indizione compete al Ministero dei Trasporti ai sensi dell’art. l0 del D.L. n. 457/1997 (conv. dalla L. n. 30/1998); ovvero alle Ferrovie dello Stato s.p.a. ai sensi della presente legge, e con 134 Salvo diversa disposizione, il potere di convocare la conferenza spetta (come per la conferenza istruttoria) al responsabile del procedimento, se competente per l’adozione del provvedimento finale; altrimenti il responsabile si limita a proporre al dirigente competente l’indizione della conferenza (art. 6, comma l, letto c, della L. n. 241/1990). Rispetto alla conferenza istruttoria, l’indizione della conferenza decisoria, nella versione antecedente alla L. n. 340, aveva carattere non obbligatorio («[…] la conferenza di servizi può essere indetta»), con la conseguenza che la relativa indizione passava per una difficilmente sindacabile valutazione di opportunità da parte dell’amministrazione procedente. L’art. 9 della L. n. 340/2000, modificando il comma 2 dell’art. 14 della legge 241, ha invece previsto la trasformazione della conferenza in meccanismo obbligatorio. In questo senso, è esplicito il dato testuale, dal quale si evince che ogni qual volta sia necessario acquisire assensi, da parte di altre amministrazioni, la P.A. procedente deve indire la conferenza, salvo che non li ottenga entro quindici giorni dall’inizio del procedimento, avendoli formalmente richiesti. La legge n. 15 del 2005 ha poi portato a trenta giorni tale termine. Sullo specifico punto, l’art. 8 della L. n. 15/2005 novella l’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990 chiarendo alcuni dubbi interpretativi e rimuovendo alcuni difetti di coordinamento. In particolare, il comma l, lettera a), numero l), rende chiaro l’esatto momento di decorrenza del termine previsto per l’obbligatoria indizione della conferenza di servizi, prevedendo a tal fine che i trenta giorni (in un primo momento quindici, al pari della attuale previsione) di cui all’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990, decorrano non già dall’inizio del procedimento, ma, più propriamente, dalla ricezione della richiesta da parte dell’amministrazione invitata. Al riguardo, non era ben chiaro all’indomani della legge n. 340 del 2000, se l’obbligatorietà della conferenza fosse legata alla circostanza che le amministrazioni debitamente richieste non si pronunziassero in alcun modo nel termine di quindici (ora trenta) giorni, ovvero se la previsione scattasse anche nel caso in cui una risposta espressa vi fosse entro il termine previsto, ma si cristallizzasse in un diniego. Anche su tale problematica è intervenuta in chiave risolutiva la L. n. 15/2005. Il comma l, lettera a), numero 2), dell’art. 8, che modifica l’art. 14, comma 2, della legge 241, mira infatti a raggiungere due obiettivi: precisare, superando i dubbi interpretativi emersi in materia e ripristinando riferimento all’art. 25, comma 2, della L. n. 2109/1985, in caso di opere per la soppressione di passaggi a livello su linee delle ferrovie stesse localizzati nell’ambito regionale. 135 il parallelismo con il dissenso all’interno della conferenza, che il dissenso preventivo al di fuori della conferenza non può avere effetti preclusivi; rendere facoltativo, in tal caso, il ricorso alla conferenza, posto che l’amministrazione proponente potrebbe condividere le valutazioni espresse da quella dissenziente e non trovare utile il ricorso alla conferenza129. Occorre infine precisare che l’atto di convocazione della conferenza si deve altresì porre quale schema di decisione concordata. 7. La conferenza trasversale a procedimenti connessi Una species di conferenza di servizi istruttoria più raffinata e complessa è stata introdotta dalla legge Bassanini-bis (L. n. 12711997), che fa riferimento alle ipotesi nelle quali si vogliano acquisire interessi di altre PP.AA., non nell’ambito di un procedimento unico, bensì nell’ambito di più procedimenti connessi tra di loro, riguardanti medesimi risultati o attività. Secondo alcuni autori (SCOCA) occorrerebbe distinguere, in materia di conferenza complessa, tra procedimenti collegati in serie (in cui la conclusione del primo condiziona l’apertura del secondo) e procedimenti in parallelo (ove non si ravvisa detto condizionamento procedurale). Nel fare gli esempi del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità e di espropriazione da un lato, e di pianificazione territoriale (risultato di un procedimento di adozione e di approvazione) dall’altro, si ritiene che la sequenza cronologica, ove prescritta, abbia anche valore sostanziale; con la conclusione che «la conferenza di servizi non possa riunire procedimenti che la legge ha disciplinato non solo come separati ma anche in modo che non siano cronologicamente coincidenti». Nella originaria formulazione della norma non era chiaro a quale amministrazione spettasse l’indizione della conferenza, visto che la norma (comma 4-bis dell’art. 14) rinviava alla P.A. portatrice dell’interesse prevalente, ovvero a quella chiamata a gestire il procedimento che temporalmente precede gli altri. Era sempre fatta salva, peraltro, la possibilità che una qualunque delle PP.AA. interessate caldeggiasse l’indizione della conferenza. Più elastica è la disciplina dettata dalla L. n. 340/2000. L’art. 9 della L. n. 340, modificando l’art. 14, comma 3, della L. n. 241/1990, prevede infatti che, ove se ne ravvisi l’opportunità per l’esame contestuale di interessi coinvolti in più procedimenti connessi, l’indizione compete, previa informale intesa, ad una delle PP.AA. portatrici dell’interesse 129 Inoltre, l’ultima disposizione che novella l’articolo 14, eliminando il terzo periodo del comma 3, risolve a sua volta l’incongruenza determinata dal coordinamento tra l’art. 14 della L. n. 340/2000 e l’articolo 9, comma l, della medesima legge. 136 prevalente. Rimane comunque salva, in capo alle amministrazioni coinvolte che non siano titolari dell’interesse pubblico prevalente, la facoltà di richiedere l’indizione della conferenza. Anche per dette conferenze trasversali ogni amministrazione conserva il potere di decidere in ordine alle proprie competenze, salvo l’obbligo di motivare in caso di mancata uniformazione alle indicazioni emerse in sede di conferenza130. Esempi di conferenza trasversale sono dati in materia di opere ferroviarie (legge n. 210 del 1985), di porti turistici (D.P.R. n. 509 del 1997) e rigassificatori. 8. La conferenza preliminare L’art. 10 della L. n. 340/2000 ha riscritto l’art. l4-bis, prevedendo un’ipotesi di conferenza di servizi speciale che ha ad oggetto istanze o progetti preliminari. La conferenza, che ripercorre le direttive tracciate dall’art. 7, comma 8, della L. n. 109/1994 (riguardante ossia l’approvazione dei progetti preliminari di opere pubbliche), costituisce un’anomalia rispetto al panorama tradizionale: per un verso non si tratta di una conferenza istruttoria, posto che vi partecipano amministrazioni che saranno chiamate a prestare il loro assenso sul progetto definitivo; dall’altro lato non si verte in tema di conferenza pienamente decisoria, in quanto le amministrazioni non adottano una decisione finale ma indicano se e a quali condizioni potranno prestare il consenso in ordine al progetto definitivo131. È allora possibile parlare di una sorta di conferenza predecisoria, con la quale le amministrazioni esprimono un avviso anticipato sulla possibilità di prestare l’assenso finale, così autovincolandosi a non esprimere ex post ragioni di dissenso non emerse in sede di progetto preliminare e non legate a fatti sopravvenuti. 130 Secondo altri (cfr. D. SCALETTA, Problematiche connesse ai poteri della provincia di formazione del piano regolatore generale, in “Foro amm. TAR”, 2002, 3195), notevoli vantaggi si registrerebbero anche sul piano del buon andamento di cui all’art. 97 Cost.: la conferenza di servizi utilizzata in tema di pianificazione urbanistica, infatti, realizzerebbe una più intensa ed efficiente partecipazione degli enti locali nel procedimento di formazione dei relativi strumenti. Sotto il profilo collaborativo, la contestualità della sede collegiale consentirebbe una più completa ed esaustiva acquisizione di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti nell’attività di pianificazione. Sotto il profilo oppositivo, la conferenza di servizi potrebbe consentire di prevenire e risolvere anticipatamente l’eventuale contenzioso giurisdizionale in cui potrebbe sfociare il procedimento di formazione del piano regolatore. 131 F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, cit., 523. 137 Per questa via viene coltivata la possibilità di guadagnare un assenso di massima sull’istanza o sul progetto preliminare, che spiana la strada per ottenere l’assenso necessario sul progetto definitivo ed evitare uno spreco di complessa attività progettuale destinata a possibile insuccesso. Dal punto di vista dell’ambito applicativo, il comma l, che configura in termini facoltativi il ricorso alla conferenza, si riferisce a progetti di particolare complessità, che deve essere adeguatamente motivata e documentata. La nuova legge di riforma (L. n. 15/2005) estende tale possibilità anche alle ipotesi di insediamenti produttivi di beni e servizi (in altre parole, i procedimenti che si svolgono innanzi allo Sportello Unico per le attività produttive, di cui al D.P.R. n. 447 del 1998), subordinando in ogni caso la presentazione dell’istanza de qua alla allegazione di un studio di fattibilità che attesti la effettiva complessità dell’opera del privato (si amplia in questo modo il concetto di documentazione progettuale); il comma 2 prevede invece il ricorso generalizzato ed obbligatorio al modulo della conferenza quando il progetto preliminare (art. 93, comma 3, del Codice) abbia ad oggetto procedure per la realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico. Dunque, il comma 1 sembra riguardare opere private di particolare complessità (il che è avvalorato dal carattere facoltativo e dall’addebito delle spese della conferenza a carico dell’istante), per le quali l’interessato chiede la verifica anticipata e l’amministrazione discrezionalmente valuta l’opportunità della convocazione; il comma 2 concerne invece opere pubbliche e di interesse pubblico (e dunque pur se l’opera è di origine privata) per le quali lo strumento della conferenza, come per la conferenza decisoria classica, assume caratterizzazione obbligatoria. Circa il grado di vincolatività che grava sull’amministrazione in ordine alle opere sì private, ma di interesse pubblico (si pensi alle strutture alberghiere, per quanto sulla loro qualificazione in termini di interesse pubblico non vi è unanimità di orientamenti in giurisprudenza), ci si chiede in quale misura l’amministrazione procedente sia tenuta o meno a convocare una conferenza preliminare. La risposta non potrebbe che essere positiva, atteso che tale obbligo procedimentale trova fondamento, come già detto, nell’esigenza di evitare sprechi progettuali a carico dei soggetti, pubblici o privati che siano, committenti, e dunque assume, al pari di altri obblighi procedimentali come ad esempio il diritto di accesso e quello di partecipazione, autonoma rilevanza rispetto alla posizione sostanziale che è sottesa al bene della vita che si intende conseguire in via principale, ossia l’autorizzazione alla realizzazione dell’opera. Pertanto, la conferenza che abbia ad oggetto opere private di interesse pubblico, qualora si svolga in assenza di una fase (necessariamente) preliminare, dovrebbe essere dichiarata illegittima, a prescindere dalla 138 bontà della decisione (negativa) assunta in merito al progetto, con ogni conseguenza in ordine ai profili risarcitori, peraltro ben evidenziabili in presenza di una attività progettuale vanamente svolta132. Diverse sono le disposizioni dettate per le due ipotesi dal punto di vista procedimentale: nella ipotesi di cui al comma l, la conferenza deve pronunciarsi entro 50 giorni, ma il termine, non assistito da un qualche tipo di sanzione, è meramente ordinatorio. Nella ipotesi di cui al comma l, invece, le amministrazioni devono tutte pronunciarsi nel termine di 45 giorni, sempre che non vi siano elementi preclusivi, che fanno ritenere inaccettabile in sé l’opera progettata. Ulteriore profilo di difformità tra le due ipotesi concerne l’intensità della verifica rimessa alle singole amministrazioni. Nella conferenza di cui al comma l, le amministrazioni coinvolte devono esprimere un’indicazione di massima circa le condizioni alle quali daranno il loro assenso; per converso, nella conferenza di cui al comma 2, con la previsione che siano indicati anche gli elementi necessari e le condizioni per l’assenso sul definitivo, sembra quasi che le amministrazioni in conferenza debbano svolgere una più penetrante opera di integrazione e ausilio rispetto al progetto preliminare presentato dall’amministrazione istante. Il comma 5, ancora, specifica che il responsabile del procedimento (relativo alla realizzazione dell’opera pubblica) trasmette il progetto definitivo formulato sulla scorta delle condizioni e degli elementi indicati dalle amministrazioni, e procede, tra il trentesimo e il sessantesimo giorno successivi alla trasmissione, alla convocazione di una conferenza di servizi, questa volta pienamente decisoria, che si concluderà con un provvedimento che terrà luogo di tutti gli assensi comunque denominati. Rimane salva la previsione, ora desumibile dall’art. 143 del Codice (vedi anche art. 9, comma 2 del D.P.R. n. 554/1999) a tenore della quale in caso di appaltoconcorso o di concessione di lavori pubblici la conferenza decisori a viene convocata dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base del solo progetto preliminare133. In tal caso, la conferenza finale non si esprime anche sul progetto definitivo, e tanto evidentemente in considerazione del fatto che 132 Si veda M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 514-515. Una particolarità si desume ex adverso dalla disciplina prevista dal comma 3, che concerne le ipotesi in cui sia necessario acquisire la Valutazione di impatto ambientale. Infatti, in questo caso l’amministrazione che deve rilasciare la Via si preoccupa di vagliare il progetto esaminando tutte le principali alternative, compresa l’opzione zero. In tal modo appare evidente che nei primi due casi il legislatore ritiene che solo elementi di radicale incompatibilità possano bloccare l’opera. Mentre maggiore discrezionalità viene riservata a favore delle amministrazioni preposte alla tutela dell’ambiente, che possono bocciare senza speranza alcuna il progetto loro presentato. 133 139 per tali procedure la stesura del progetto definitivo compete al concessionario ed all’appaltatore. Ricapitolando sulla figura, in particolare, del concessionario di lavori pubblici: la conferenza di servizi sul progetto preliminare è convocata e tenuta dall’amministrazione concedente; quella sul progetto definitivo può essere convocata sempre dall’amministrazione concedente oppure, dietro autorizzazione di questa, dal concessionario, il quale è in ogni caso invitato a partecipare, senza diritto di voto, alla conferenza stessa (art. 144, comma 10, del codice). Come già anticipato, il d.d.l. Capezzone (AS 1532) tende ad ampliare ancor di più tale ruolo, assegnando in sostanza anche al concessionario (ivi compreso il gestore o concessionario di servizi) il diritto a partecipare, pur senza diritto di voto, alla conferenza di servizi avente ad oggetto il progetto di sua competenza. Su quale sia il valore degli assensi preventivi espressi in seno alle conferenze di cui ai commi l, 2 e 3, il legislatore si sbilancia nel comma 4, laddove prevede che il preventivo assenso possa essere revocato solo in base ad elementi sopravvenuti, eventualmente sottolineati dai privati in sede di partecipazione al procedimento, e quindi non in base ad una differente valutazione degli elementi di cui l’amministrazione fosse già in possesso precedentemente. In forza di un’interpretazione conforme ai principi generali, deve ritenersi che tale limite al ripensamento riguardi soltanto i profili di opportunità dell’assenso e non quelli di legittimità. Il legislatore tutela, infatti, l’affidamento eventualmente ingenerato nell’istante circa il felice esito del procedimento, inibendo l’amministrazione che ha errato nella preventiva valutazione di manifestare una volontà diversa. Si discute, anche, se il diniego manifestato difformemente da quanto espresso in sede di prima conferenza sia viziato da radicale nullità, in quanto la volontà dell’amministrazione è già stata espressa e non può essere nuovamente manifestata in assenza di elementi sopravvenuti (salvi i ricordati profili di illegittimità del primo avviso); ovvero, come appare più probabile, si tratti di un mero vizio di violazione di legge (o di eccesso di potere per contraddittorietà comportamentale), che richiama il più mite regime della annullabilità. La legge n. 15 del 2005 ha previsto in ogni caso l’applicazione della procedura del dissenso, di cui all’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, nelle ipotesi di conferenze preliminari aventi ad oggetto opere interregionali. 9. Il procedimento: Premessa Colmando una lacuna presente nella legislazione previgente, l’art. 14ter della L. n. 241/1990, come introdotto dalla legge n. 340 del 2000, fissa le regole relative all’organizzazione ed al funzionamento della conferenza. La norma è riferita genericamente a tutte le ipotesi di conferenza, anche se 140 la disciplina appare ritagliata, quanto ai profili del dissenso, in particolare sulle problematiche tipiche della conferenza decisori134 Sulle carenze ed ambiguità della disciplina legislativa si sono appoggiate, nel corso degli anni novanta, una serie di incertezze ricostruttive dell’istituto della conferenza di servizi. Nella disciplina generale previgente, infatti, non erano regolate, ad esempio: - le modalità da seguirsi, da parte dell’amministrazione procedente, nella attività di convocazione della conferenza di servizi; - non era previsto espressamente che l’atto di convocazione dovesse contemplare uno schema già elaborato di decisione; - il funzionamento della conferenza, né era fissato alcun termine per la conclusione del lavori della conferenza di servizi. La nuova disciplina legislativa - introdotta come detto dalla legge n. 340 del 2000 - apporta al contrario sufficiente chiarezza sui profili problematici indicati e, più in generale, sui caratteri funzionali dell’istituto. Non a caso, l’art. 11 della richiamata legge n. 340 del 2000 è intitolato espressamente al “Procedimento della conferenza di servizi”135. 10. Organizzazione, funzionamento e tempi Come accennato, il funzionamento della conferenza decisoria è ritagliato su quello degli organi collegiali. L’art. 10 della L. n. 15/2005 modifica l’art. 14-ter della L. n. 241/1990, introducendo disposizioni procedurali e chiarendo alcuni dubbi interpretativi. In particolare, rispetto al testo vigente si prevede, accanto al termine per l’indizione di cui all’art. 14, comma 2 (trenta giorni dalla ricezione della richiesta da parte delle amministrazioni competenti a rilasciare qualsivoglia atto di assenso), anche un termine per la convocazione (ossia, quindici giorni in via ordinaria, prorogabili di ulteriori quindici per progetti di elevata complessità). La formulazione introdotta dall’art. 9 della L. n. 340/2000, infatti, mentre stabiliva un termine (prima di quindici giorni, ora di trenta) per l’indizione della conferenza di servizi, nulla statuiva in ordine ai tempi di convocazione della stessa. Trattasi, in effetti, di due fasi logicamente e giuridicamente distinte, ma di fatto spesso confuse dal legislatore. La conseguenza, sul piano della pratica applicazione della disciplina, era 134 Con ordinanza 6 marzo 200l, la sezione VI ha ad esempio escluso, con riferimento alla normativa anteriore alla L. n. 340/2000, che alla conferenza di servizi di tipo istruttorio si applichino le disposizioni volte a disciplinare le ipotesi di dissenso come l’art. 14, comma 3-bis, della L. n. 241/1990, che, prima della L. n. 340/2000, prevedeva il potere di sospensione delle determinazioni conclusive (cfr. par. 264). 135 D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 188-189. 141 piuttosto evidente, dal momento che le amministrazioni procedenti, laddove non ravvisassero esigenze di particolare celerità, avrebbero potuto sì assolvere all’obbligo di indizione, procrastinando però allo stesso tempo sine die il momento di effettivo avvio dei lavori della conferenza stessa136. La convocazione, con l’ordine del giorno, deve pervenire alle amministrazioni con almeno 10 gg. di anticipo; le amministrazioni, entro 5 giorni, hanno la possibilità di chiedere un rinvio, in caso di impossibilità, ad una data fissata in ogni caso entro 10 gg. dalla prima (comma 2). Sul termine per la convocazione della conferenza di servizi si è ampiamente espresso il TAR Veneto, con la decisione n. 705 del 2007. In particolare, detto giudice si è preoccupato di stabilire se il termine per la convocazione della conferenza di servizi indicato dall’art. 14-ter della legge n. 241/90 sia libero o meno. Il quesito è stato risolto nel primo senso. Stabilisce, invero, la richiamata disposizione che “la convocazione [...] della conferenza di servizi deve pervenire alle amministrazioni interessate... almeno cinque giorni prima della relativa data”. Ciò significa dunque - ad avviso del giudice di primo grado - che il giorno precedente a quello fissato per la riunione (e cioè, nel caso di specie, si trattava del 2 luglio, atteso che la riunione era indetta per il successivo 3 luglio) è il dies ad quem utile per il ricevimento, da parte delle Amministrazioni interessate, dell’avviso di convocazione: avviso che, essendo pervenuto in tale evenienza alle Amministrazioni il 28 giugno, non lasciava alle stesse il margine temporale previsto dalla legge, in quanto, poiché dal computo deve escludersi, secondo la regola generale di cui all’art. 155 cpc, il giorno iniziale (e cioè il 28 giugno), residuavano soltanto quattro giorni utili. In caso di sua violazione, si tratterebbe dunque di un vizio di legittimità del procedimento. Né può affermarsi - prosegue il medesimo giudice - che l’avvenuta partecipazione alla conferenza di tutte le Amministrazioni chiamate abbia sanato il riscontrato vizio per sopravvenuto raggiungimento dello scopo: la sanatoria, infatti, potrebbe dirsi realizzata qualora il termine violato fosse previsto ad esclusivo vantaggio delle Amministrazioni stesse, ma così non è, in quanto scopo della norma non è quello di consentire la mera partecipazione delle Amministrazioni coinvolte (affinché abbiano soltanto a difendere gli interessi alla cui tutela sono preposte), ma di consentire la loro partecipazione consapevole (affinché, da una compiuta ed esaustiva analisi e dal successivo contemperamento dei vari interessi coinvolti, pubblici e privati, possano trarre, quale momento di sintesi, una conclusione che, pur nell’accertata prevalenza di quelli pubblici, sia comunque di giusto compromesso tra tutti gli interessi). Sulle modalità di convocazione alla conferenza è invece intervenuta la quarta sezione del Consiglio di Stato (decisione n. 7450 del 2004). Nel caso di specie, alcuni cittadini impugnavano l’autorizzazione concessa ad 136 F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, cit., 527 ss. 142 una impresa che, nel corso del processo produttivo di lavorazione di talune sostanze, recava problemi di inquinamento atmosferico. Tra i motivi di impugnativa vi era la mancata convocazione, alla conferenza di servizi, dell’AUSL e della provincia, competenti rispettivamente in materia di tutela della salute e dell’ambiente. Il giudice di primo grado aveva ritenuto di applicare la specifica normativa regionale (legge Regione Veneto n. 33/1985), secondo la quale la conferenza di servizi di cui all’articolo 3-bis della L. 441/1987 (normativa in materia di rifiuti) è valida quando sia presente la maggioranza dei componenti, purché essa raggiunga almeno il 40% dei componenti previsti: l’assenza dei rappresentanti delle predette amministrazioni non poteva dunque inficiare la validità delle delibere autorizzatorie assunte in quella stessa sede. A tal fine riteneva altresì valida la convocazione effettuata a mezzo fax. Il Consiglio di Stato ha invece ribaltato tale impostazione, affermando che della dedotta convocazione attraverso fax delle predette amministrazioni, le quali non hanno partecipato alla conferenza, non fosse stato offerto alcun elemento di prova da parte della amministrazione appellata (ossia, la regione): “l’avvenuta comunicazione sarebbe, infatti, dovuta essere provata attraverso un estratto dei registri del protocollo delle Amministrazioni, che erano tenute a protocollare i fax in arrivo”. Tale decisione si pone in netta controtendenza rispetto alle più recenti decisioni dello stesso Consiglio di Stato in materia di comunicazioni a mezzo fax. Nella sentenza n. 2207 del 2002 della quinta sezione, si afferma infatti che «il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione del medesimo in quello ricevente. Tali modalità, garantite da protocolli universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a garantire l’effettività della comunicazione. In tal senso, infatti, si muove la normativa più recente (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) che consente un uso generalizzato del fax nel corso dell’istruttoria, sia per la presentazione di istanze e dichiarazioni da parte dei privati (articolo 38, comma 1) che per l’acquisizione d’ufficio da parte dell’amministrazione di certezze giuridiche (articolo 43, comma 3). Tanto è vero che “i documenti trasmessi da chiunque ad una pubblica amministrazione tramite fax, o un altro mezzo telematico o informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del documento originale” (articolo 43, comma 6). Posto quindi che gli accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale, una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo l’idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche che un fax deve presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo 143 concernere la funzionalità dell’apparecchio ricevente; ma questa non può che essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio». Tornando allo snodo procedimentale entro cui si svolge la conferenza, il comma l stabilisce che essa delibera a maggioranza le determinazioni relative alla sua organizzazione. L’ambito di tali determinazioni va ovviamente desunto in negativo dagli spazi lasciati liberi dal legislatore. Una specificazione della previsione di cui al comma l, in tema di potere di auto-organizzazione, è rappresentata dal comma 3, a dire del quale spetta alla conferenza, nella prima riunione, determinare il termine per l’adozione della decisione conclusiva. In ogni caso il termine non può essere superiore a novanta giorni, fatta salva la disciplina speciale prevista dal comma 4, qualora sia necessario acquisire la VIA. L’inutile decorso del termine comporta l’attivazione dello stesso meccanismo previsto nel caso di dissenso, ossia il radicarsi in capo all’amministrazione procedente del potere di adottare la decisione definitiva sulla base delle posizioni acquisite in sede di conferenza. Il meccanismo è simile a quello previsto, in caso di mancato rispetto del termine, dal previgente comma 2-bis dell’art. 14, il quale prevedeva peraltro il potere di assumere da parte dell’amministrazione procedente, in via solitaria, la determinazione finale dandone comunicazione, a seconda dei casi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della regione od al Sindaco ai fini dell’eventuale sospensione137. Sulla natura dei termini previsti dalla normativa sulla conferenza di servizi è intervenuto il Consiglio di Stato. La questione aveva ad oggetto una procedura di localizzazione di opere pubbliche: è qui necessario, come noto, una intesa tra Stato e Regione, da raggiungere in esito ad una conferenza di servizi, che viene convocata qualora sia necessario apportare, per l’approvazione del progetto stesso, una variante agli strumenti urbanistici vigenti. La disposizione di cui al D.P.R. n. 383/1994 prevede, peraltro, che nel caso in cui non sia raggiunta la predetta intesa nel termine di 90 giorni, la decisione è rimessa al Consiglio dei ministri. Nel caso di specie alcuni privati, interessati dalla predetta procedura di localizzazione, contestavano che l’intesa fosse intervenuta ben oltre lo scadere del termine di 90 giorni, ossia in un momento in cui le amministrazioni avrebbero già consumato i rispettivi poteri decisori, e che i medesimi poteri dovevano intendersi ormai devoluti in capo al Consiglio dei ministri. 137 La riforma del procedimento amministrativo (L. n. 15/2005) prevede ora una intervento risolutivo anche in sede di Conferenza Stato-Regioni, oppure Unificata, in caso di contrasto tra amministrazioni statali e regionali, oppure locali, oppure ancora tra amministrazioni regionali e locali. 144 Il Consiglio di Stato (sez. IV, n. 6714 del 2004) non ha condiviso tale impostazione, ritenendo al contrario che: a) il termine di 90 giorni per la formazione dell’intesa non deve considerarsi perentorio; b) la norma in parola è rivolta unicamente a regolare il potere d’intervento del Consiglio dei ministri, ma non può essere interpretata nel senso che, decorso il termine di 90 giorni, la regione perde il potere di procedere alla formazione dell’intesa, potere che, dunque, può essere efficacemente esercitato fintanto che non risulti esercitato quello, concorrente, del Governo (cfr. Cons. St., Sez. IV, 6 maggio 1992, n. 481); c) a sostegno della non perentorietà di tale termine si osserva, da un lato, che secondo l’orientamento della giurisprudenza tale natura deve essere espresamente prevista dalla singola disposizione; dall’altro lato, che in assenza di specifica previsione in tal senso, i termini per l’esplicazione di potestà pubbliche hanno, di regola, carattere meramente sollecitatorio. Pur riferito ad una conferenza di settore, si deve ritenere che i principi elaborati in questa sede dal giudice amministrativo siano senz’altro estensibili alla procedura ordinaria della conferenza di servizi. Sull’argomento si avrà peraltro modo di tornare più avanti. L’art. 8, comma l, lettera d), della legge n. 15 del 2005, prevede a sua volta il ricorso a sistemi informatici per lo svolgimento concreto delle conferenze, presumibilmente anche a distanza (c.d. teleconferenze). Ci si interroga - al di là degli innegabili risparmi sul piano della spesa pubblica sull’efficacia di tale strumento, posto all’interno di un modello le cui possibilità di successo - come più volte ribadito nel corso di questo lavoro si basano proprio sul confronto (fisico) diretto e dialettico tra le varie amministrazioni portatrici di diversi interessi (dopotutto, nella conferenza di servizi si assiste ad un vero e proprio “gioco delle parti”). Nei procedimenti in cui è richiesta la VIA (valutazione d’impatto ambientale), la conferenza di servizi, benché riunita prima della adozione del provvedimento sulla valutazione di impatto ambientale, attende di conoscere tale determinazione per esprimersi. Nel caso, però, la Valutazione non venga adottata nei termini per l’adozione del provvedimento, l’amministrazione competente si esprime all’interno della conferenza; in tal caso la conferenza si conclude nei trenta giorni successivi al decorso del termine entro cui doveva essere adottata la VIA. Rimane tuttavia ferma la possibilità che la conferenza, a maggioranza dei partecipanti, deliberi la proroga di altri trenta giorni per esigenze istruttorie138. 138 La sanzione per l’amministrazione competente ad adottare la Via in caso di ritardo consiste nella dequotazione del suo dissenso, che può essere superato mercé l’adozione della decisione finale da parte del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 14145 La L. n. 15/2005 reca disposizioni dirette ad evidenziare meglio gli esatti tempi di intervento e di inserimento della VIA: anche in linea con quanto previsto dalla normativa vigente in materia ambientale (ove si fa riferimento, in via implicita ovvero esplicita, ad una sospensione dei termini previsti per la procedura di approvazione ogniqualvolta risulti necessario acquisire detta valutazione) la disposizione in parola (art. 1O, comma l, lettera c) indica la complessiva durata del procedimento di conferenza di servizi nel caso in cui al suo interno debba essere acquisita una valutazione di impatto ambientale. Si prevede, al riguardo, la sospensione dei termini della conferenza di servizi, qualora debba essere assunta tale valutazione. Si tratta di una soluzione tutto sommato conforme alle disposizioni che, in generale, regolano la VIA: in esse si fa infatti riferimento, in via implicita ovvero esplicita, ad una sospensione dei termini previsti per la procedura di approvazione dei progetti di volta in volta interessati. Ed infatti, mentre la L. n.349/86 prevede che, decorsi i termini per la pronuncia sulla compatibilità la «procedura di approvazione del progetto riprende il suo corso» (ipotesi di sospensione implicita), il D.L. n. 22/1997 (c.d. «decreto Ronchi ») stabilisce espressamente, all’art. 27 (recante norme per la realizzazione di nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti), che il termine di novanta giorni indicati per la conclusione dei lavori della conferenza di servizi (si noti la coincidenza di tale previsione con quella riportata nella L. n. 241/1990) «resta sospeso fino all’acquisizione della pronuncia sulla compatibilità ambientale» (ipotesi di sospensione esplicita). Per quanto attiene alla valutazione comunque espressa in tema di VIA, il legislatore non affronta apertamente la questione, ma alcune tracce ricostruttive possono essere desunte dal comma 5 dell’art. 14-ter. Infatti, quest’ultimo prevede che se sia già intervenuta la Via, le disposizioni di cui al comma 3 dell’art. 14-quater, volte a superare il dissenso espresso in seno alla conferenza siano applicabili solo laddove si tratti di amministrazioni preposte alla tutela della salute pubblica. quater (oppure alla Conferenza Stato-Regioni/Unificata, secondo le linee della nuova riforma). Questa prospettazione normativa, peraltro, suscita non poche perplessità, dal momento che si fanno pesare sulla tutela di un bene di rango superiore, quale può essere quello della tutela dell’ambiente, eventuali disfunzioni dell’amministrazione. Ciò che sorprende, in definitiva, è che possa essere sminuito il peso della decisione di un’amministrazione la cui competenza a decidere è fondata anche sul possesso di particolari strumenti di rilevazione e di valutazione dei rischi derivanti all’ambiente dalla costruzione di un’opera. Da questo punto di vista il legislatore forse si sarebbe dovuto muovere o nel senso di stigmatizzare il comportamento inerte del responsabile del procedimento, ovvero di prevedere interventi surrogatori di altre amministrazioni aventi competenze di analoga natura. Per una recente applicazione giurisprudenziale in materia di rapporti tra VIA e conferenza di servizi, vedi T.A.R. Veneto, sez. I, sentenza n.2234/2005. 146 Da ciò si desume che negli altri casi il provvedimento negativo di Via espresso prima della conferenza non possa in alcun modo essere superato, salva la sua impugnazione dinanzi al giudice amministrativo. Ulteriore chance è fornita, però, dal disposto del comma 5 dell’art. 14-quater. Secondo questa disposizione il provvedimento negativo di Via può comunque essere superato attraverso il meccanismo di cui al comma 2, letto c-bis) dell’art. 5 della L. n. 400/1988, che prevede che il Consiglio dei ministri su impulso del Presidente possa svolgere una funzione di mediazione per il superamento dei contrasti tra le amministrazioni. 11. Il soggetto legittimato a partecipare Quanto alla rappresentanza dell’amministrazione coinvolta, il comma 6 stabilisce che un unico rappresentante legittimato dall’organo competente esprime la volontà dell’amministrazione in modo vincolante per la stessa su tutte le decisioni che le competono. Dal momento della nomina, pertanto, la volontà dell’amministrazione, in ogni fase, viene manifestata dal rappresentante debitamente legittimato dall’organo competente; e tanto in omaggio alla generale costruzione secondo la quale la conferenza non introduce elementi di novità rispetto all’organizzazione delle singole amministrazioni. La norma, in sostanza, sopendo le dispute sorte in passato, richiede che il rappresentante dell’ente sia dotato preventivamente del potere di vincolare l’ente, potere che presuppone un’investitura ad hoc dell’organo competente (ove non coincidente) in relazione allo specifico ordine del giorno139. Tale autorizzazione assume valenza decisiva alla luce delle 139 Prima della L. n. 340/2000, si discuteva circa il margine di azione del soggetto che interveniva in sede di conferenza in rappresentanza dell’amministrazione, con particolare riguardo alla possibilità per il rappresentante di assentire a determinazioni in parte diverse da quelle in relazione alle quali era stato conferito il potere rappresentativo. Si sono prospettate tre distinte ipotesi di definizione dei rapporti tra soggetto rappresentante ed ente rappresentato. Una prima ipotesi vede il rapporto in questione fondarsi su direttive la cui attuazione è sottoposta alla verifica del rappresentato; altra ipotesi parla di delega condizionata al rappresentante che partecipi alla conferenza. con conseguente impossibilità di adesione da parte dell’ente rappresentato alla determinazione concordata in caso di scantonamento da quanto indicato nella delega ed inefficacia degli assensi infedeli; altri, infine, paventa una riserva attraverso la quale il rappresentato si riserva di esprimere un consenso definitivo all’esterno della conferenza. Quest’ultima ricostruzione, peraltro, è stata giudicata in dottrina disarmonica rispetto all’intento di concentrazione procedimentale che anima l’istituto della conferenza, dovendosi sin dall’inizio sedere al tavolo della conferenza solo un soggetto in grado di esternare pienamente la volontà dell’ente che rappresenta in sede procedimentale. 147 modifiche introdotte dalla L. n. 15/2005, che ha eliminato l’istituto del dissenso postumo: dunque, le posizioni delle amministrazioni saranno “cristallizzate” esclusivamente all’interno della conferenza. La delega è in particolare necessaria - pena l’illegittimità del parere emesso - quando l’organo legittimato non può partecipare direttamente, come nel caso di organi collegiali rappresentati in conferenza (es. comuni): in tal caso il collegio deve deliberare il conferimento della delega, fornendo al delegato l’indirizzo votato dal collegio140. In proposito, la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile sia che la delega risulti condizionata ad una determinata soluzione, sia che in essa venga inserita una espressa riserva di preventivo esame, da parte della amministrazione delegante, dello schema delle determinazioni definitive verso le quali le amministrazioni partecipanti si orientano141. Sul tema dei poteri esercitabili in conferenza, e in particolare da parte del sindaco (in relazione agli aspetti urbanistici), è intervenuto il Consiglio di Stato con decisione n. 4780 del 2004 della quinta sezione. Come noto, la conferenza prevista dall’art. 27 del D.L. n. 22/1997 (c.d. decreto “Ronchi”) per l’autorizzazione allo smaltimento di rifiuti, può comportare, ove necessario, l’adozione di una variante agli strumenti urbanistici. Gli appellanti avevano dedotto, in particolare, la violazione dell’art. 27, comma 5, della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del D.L. n. 267/2000), considerato che la partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi dovesse considerarsi inefficace, in assenza di ratifica del Consiglio comunale, in quanto si andava ad incidere sulla destinazione urbanistica dell’area interessata dall’intervento. Il rilievo trae argomento dal dato che, in base all’art. 27, comma 5, del D.L. n. 22/1997, l’approvazione del progetto di discarica costituisce, ove occorre, variante allo strumento urbanistico comunale. Il Consiglio di Stato ha rigettato l’eccezione, in quanto la norma invocata del TUEL non poteva trovare applicazione al caso di specie. Ovviamente qualora l’oggetto della conferenza risulti del tutto stravolto allora il rappresentante dell’ente, a meno che non coincida con l’organo competente a manifestare la volontà dell’ente, sarà ritenuto privo dei poteri necessari ad esprimere definitivamente la volontà dell’ente rappresentato. 140 Secondo alcuni autori (SCOCA), in questo caso l’indirizzo espresso non dovrebbe legare il rappresentante a posizioni «definitivamente precostituite, perché queste impedirebbero la valutazione congiunta e contestuale di tutti gli interessi coinvolti». 141 Corte Cost., 28 luglio 1993, n. 348. Queste limitazioni sono da taluni viste con sfavore in quanto da un lato sortiscono l’inevitabile effetto di appesantire la procedura nel suo complesso, e dall’altro incidono negativamente sulla valutazione comparativa degli interessi, che dovrebbe invece svolgersi contestualmente e incondizionatamente; la delega dovrebbe essere, in altre parole, « ragionevolmente ampia ». Il citato meccanismo della delega condizionata e della riserva di esame non sembrano inoltre coerenti con la necessità di assicurare alla conferenza rappresentanti in grado di esprimere « definitivamente» la volontà dell’ente (BERTINI). 148 Ed infatti, la disposizione secondo cui “ove l’accordo comporti variazione degli strumenti urbanistici, l’adesione del sindaco allo stesso deve essere ratificata dal Consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”, si riferisce più propriamente all’accordo di programma, contemplato dalla norma stessa, il quale “consiste nel consenso unanime delle amministrazioni statali e locali e degli altri soggetti pubblici interessati, ma non può estendersi alla differente ipotesi della Conferenza dei servizi, prevista in tema di approvazione di progetti di discarica, diretta alla acquisizione contestuale e coordinata della pluralità di interessi incisi, nell’ambito di un provvedimento di amministrazione attiva di esclusiva attribuzione regionale, senza che possano assumere efficacia vincolante e preclusiva gli eventuali dissensi’’. In altri termini, il giudice amministrativo ha ritenuto che le disposizioni sull’accordo di programma non siano applicabili - per analogia - alla conferenza di servizi: mentre il primo si caratterizza per il livello di alta pianificazione, e dunque in grado di incidere sul quadro normativo esistente, la conferenza di servizi si muove maggiormente sul piano degli specifici interventi, nel rispetto del quadro normativo vigente (cfr. Cons. Stato, parere n. 1622 del 1997). Sul rapporto tra conferenza di servizi ed accordi di programma, si veda più avanti il capitolo VI, specificamente dedicato ai profili processuali. Per quanto attiene, poi, alla individuazione dell’organo, politico o amministrativo, legittimato a partecipare alla conferenza, si deve assumere come punto di partenza il ragionamento del Consiglio di Stato che, in sede consultiva (parere n. 1622 del 1997), si è espresso nel senso che l’istituto della conferenza di servizi non muta l’assetto normativo vigente, muovendosi anzi nel pieno rispetto dello stesso. Se ne dovrebbe concludere che, in generale, restando inalterata la vigente normativa (fatte le dovute eccezioni in ordine alle cosiddette conferenze speciali, o derogatorie), dovrebbe mantenersi altrettanto immutato il quadro delle competenze, non solo esterne (quelle cioè istituzionalmente attribuite all’amministrazione), ma anche interne, relative ossia alla distribuzione dei diversi poteri sul piano organizzativo dell’amministrazione. Pertanto, se attributario di una certa funzione (di gestione) è l’organo dirigenziale, unico legittimato a partecipare con pieni poteri alla conferenza sarà lo stesso dirigente della struttura competente (senza che occorra ovviamente un atto di delega), oppure un funzionario da lui delegato. Se invece si tratti di poteri riservati alla sfera di indirizzo politico (si pensi ancora agli interventi di pianificazione, all’interno dei quali la conferenza è concepita al fine di apportare varianti agli strumenti urbanistici), competente a partecipare non potrà che essere un componente, vertice compreso, dell’organo collegiale di governo (giunta regionale, provinciale o comunale), purché abbia ricevuto una specifica delega in tal senso da parte del collegio da lui rappresentato (salvo che la competenza ad 149 esprimere la volontà dell’ente sia invece direttamente attribuita al Sindaco, nel qual caso lo stesso sarà ex lege legittimato, o meglio autorizzato, ad agire di propria iniziativa - salvo l’opportunità di un coinvolgimento degli organi collegiali - e fermo restando il potere di delegare ad altri una sua competenza)142. In questi termini sembra esprimersi il Consiglio di Stato nella sentenza n. 8080 del 2003 della quinta sezione. Nel caso di specie (si trattava di apertura di nuovi centri commerciali), la parte appellante deduceva violazione dell’art. 107 del D.L. n. 267/2000, e degli artt. 14 e seguenti della L. n. 241 del 1990, considerato che, ai sensi di tali disposizioni, rientrando il rilascio di provvedimenti autorizzativi nella competenza dei dirigenti, avrebbero dovuto partecipare alla conferenza di servizi organi dirigenziali ed amministrativi e non, come in concreto era accaduto, politici o amministratori. Le norme di riferimento (tra cui anche una legge regionale di attuazione del D.L. n. 114/1998) prevedono infatti il rilascio dell’autorizzazione commerciale ad opera del dirigente e tale competenza - sempre secondo la tesi dell’appellante - non muta se si decide in conferenza di servizi. Secondo il Consiglio di Stato la “conferenza di servizi, abbia essa funzione istruttoria o decisoria, costituisce un modulo organizzativo di semplificazione ed ottimizzazione temporale del procedimento al fine del miglior raccordo delle Amministrazioni nei procedimenti pluristrutturali destinati a concludersi con decisioni connotate da profili di complessità. Siffatta modalità di svolgimento dell’azione amministrativa presuppone e conserva integri i poteri e le competenze delle Amministrazioni partecipanti, alle quali, pertanto, restano imputati gli atti e le volontà espresse nel corso della conferenza”. “Di qui la necessità - prosegue il Consiglio di Stato - che anche i rappresentanti indicati nell’art. 9 comma 3, del D.L. n. 114/1998, perché la loro partecipazione sia coerente alla funzione attribuita alla conferenza, siano legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’Amministrazione”. Il Supremo Consesso amministrativo conclude affermando che la censura relativa alla partecipazione di politici o amministratori, in luogo di organi dirigenziali ed amministrativi competenti, “imponeva, in ogni caso, l’impugnazione degli atti di delega”. In tale occasione il Consiglio di Stato, dunque, sfiora ma non tocca con la dovuta incisività il problema dell’organo legittimato a partecipare, in relazione soprattutto alle conseguenze che l’istituto della conferenza di servizi comporta sul piano delle competenze, non tanto esterne quanto interne, dell’ente partecipante. Significativo appare il passaggio in cui si afferma che la conferenza di servizi, in quanto modulo essenzialmente di semplificazione procedimentale, non altera il quadro dei poteri e delle competenze delle amministrazioni partecipanti. 142 S. GLINIANSKI, La legittimazione a partecipare alla conferenza di servizi e la competenza all’adozione della decisione conclusiva, in “www.giust.it.”. 150 Sempre in merito all’istituto della legittimazione procedimentale è intervenuta un’altra interessante pronuncia del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 4568 del 2003), in cui la parte appellante rilevava, tra l’altro, che sarebbero mancati, per alcuni partecipanti alla conferenza di servizi, i poteri di rappresentanza e le relative deleghe. Il Consiglio di Stato ha tuttavia ritenuto infondata tale censura “poiché, in termini generali, si deve ritenere che essendo la conferenza di servizi ispirata da esigenze di celerità e semplificazione, ciò che rileva è l’effettiva sussistenza del potere di rappresentanza degli enti invitati in capo ai partecipanti, e non anche la documentazione formale dello stesso”. Dall’esame dei verbali della conferenza, si evinceva infatti come tutti i partecipanti fossero muniti della necessaria legittimazione, pur in difetto di formale delega e conferimento di poteri, atteso che la presenza fisica, in alcuni casi, dell’assessore competente o comunque dell’organo di vertice dell’amministrazione (es. direttore ente parco) legittimasse anche la presenza e i poteri del dirigente della struttura di riferimento. A parere di chi scrive, ciò sarebbe vero fino a quando il dirigente competente non sia legittimato, per i poteri conferitigli dalle norme o dal contratto, ad impegnare la relativa amministrazione di appartenenza; circostanza questa che si verifica, come nel caso di specie, in particolare laddove occorra intervenire in materia di pianificazione urbanistica, la cui regolazione è rimessa direttamente agli organi collegiali di direzione politica dell’ente territoriale. Qualora si tratti invece di atti strettamente dirigenziali (es. rilascio concessione edilizia), la presenza del dirigente preposto alla struttura competente per materia risulta di per sé sufficiente a legittimare la sua partecipazione, non necessitando ovviamente in questo caso di ulteriori e formali deleghe da parte di strutture (financo politiche) ad esso sovraordinate. Fatta salva, ovviamente, l’ipotesi in cui parteciperà un funzionario della struttura stessa, per il quale occorrerà, questa volta, il rilascio di un formale atto di delegazione da parte dello stesso dirigente competente. 12. L’acquisizione tacita dell’assenso Ai sensi del comma 7, in ogni caso si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso la volontà definitiva dell’amministrazione. Si tratta, dunque, di una vera e propria ipotesi di silenzio-assenso. La precedente formulazione introdotta dalla legge n. 340/2000 prevedeva che, in alternativa al dissenso (espresso): a) poteva essere espresso un dissenso “fuori” dalla conferenza, nel termine perentorio di trenta giorni dalla data di ricevimento della determinazione (c.d. dissenso postumo); b) nel medesimo termine, poteva essere altresì proposta impugnativa. Ciò che rendeva oltremodo dubbio se, espresso il dissenso fuori conferenza in via 151 giurisdizionale, all’amministrazione fosse o meno del tutto inibito l’accesso alla tutela giurisdizionale avverso il successivo provvedimento finale. In ogni caso, tale disposizione appariva censurabile poiché non era sincronizzata con i tempi di reazione processuale (60 giorni), determinando, all’effetto pratico, un dimezzamento del normale termine di decadenza che nemmeno la legge n. 205/2000 contempla nella parte in cui si provvede alla dimidiazione dei termini processuali (Ciaglia)143. Tali previsioni sono state tuttavia eliminate dalla legge n. 15/2005, facendo venire meno, con tutta probabilità, le problematiche relative al dies a quo per l’impugnativa dei provvedimenti della conferenza, nonché alla natura, costitutiva o semplicemente dichiarativa, del provvedimento finale di cui al richiamato comma 9 (v. par. 4). In linea generale, la norma di cui al comma 7, come risultante anche a seguito delle modifiche ad essa apportate dalla legge n. 15/2005, sembra fare riferimento al caso della mancata partecipazione alla conferenza di servizi da parte del rappresentante, alla partecipazione di rappresentante che non si sia pronunciato o non sia stato munito del potere di rappresentare l’ente. La disposizione in parola sembra ora coniugarsi, finalmente, con la previsione di cui al comma l dell’art. 14-quater, il quale prevede che il dissenso, a pena di inammissibilità, sia espresso in conferenza. La dottrina che si era espressa sulla precedente formulazione aveva infatti denunciato una antinomia, al riguardo, superabile soltanto considerando il caso del (precedente) comma 7 quale deroga fisiologica al meccanismo descritto al citato art. 14-quater, comma 1144. 143 È ben vero che, anche a seguito di alcune pronunce (cfr. TAR Toscana, sez. III, 1l aprile 2003, n. 13871), si andava delineando - prima dell’intervento riformatore - una situazione in base alla quale: a) alle amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi era tendenzialmente riservata la possibilità di impugnare la determinazione conclusiva ai sensi del comma 7 dell’art. 14-ter, ossia entro trenta giorni dalla sua adozione, e in particolare per ragioni legate al mancato rispetto delle regole di organizzazione della conferenza o di quelle fissate per legge o di quelle stabilite dalla stessa conferenza, nella misura in cui la loro violazione avesse inciso negativamente sul corretto svolgimento dei lavori della conferenza e sui diritti delle amministrazioni partecipanti (in sostanza, per vizi procedimentali); b) ai soggetti estranei alla conferenza (dunque i privati, in prevalenza) era infine riservata la possibilità di impugnare il provvedimento finale, adottato ai sensi del comma 9 dell’art. 14-ter, entro l’ordinario termine di decadenza (in sintesi, per vizi sostanziali). Tale prerogativa, per la giurisprudenza, sarebbe stata preclusa alle amministrazioni partecipanti, cui era invece circoscritto il ricorso ai rimedi di cui al comma 7 dell’art. 14-ter. Sul punto, la dottrina aveva tuttavia manifestato alcune considerazioni critiche. 144 F. CARINGELLA, Il processo amministrativo, Napoli, 2002, 187. In merito, invece, alla invocata formulazione del dissenso in modo motivato, la mancata riproposizione 152 Si segnala in ogni caso come la giurisprudenza amministrativa che si è pronunziata sul punto non sia giunta, sino ad ora, a soluzioni univoche. In particolare, mentre alcuni TAR propendono per la soluzione dianzi prospettata (ossia, applicazione del silenzio-assenso alle amministrazioni non partecipanti oppure partecipanti ma inerti), altri ritengono al contrario secondo una interpretazione letterale del suddetto comma 7 - che il meccanismo del silenzio-assenso scatti soltanto per le amministrazioni che abbiano effettivamente preso parte al procedimento, non anche per quelle ab initio assenti. Pur considerando oscura, sul punto, la formulazione attuale del comma 7 dell’art. 14-ter, non sembra tuttavia - ad avviso di chi scrive - che l’indirizzo da ultimo adombrato possa proficuamente inserirsi all’interno di quelli che sono considerati canoni fondamentali della conferenza di servizi, ossia semplificazione procedimentale e mediazione delle diverse discrezionalità. Argomenti testuali sono inoltre evincibili in tal senso da parte del richiamato comma l dell’art. 14-quater (sul punto si veda, amplius, capitolo V, par. 2). Ci si interroga - parallelamente - se l’istituto del silenzio-assenso trovi applicazione nei confronti della conferenza di servizi, ossia non solo con riguardo alle singole amministrazioni partecipanti, ma anche all’intera procedura; e ciò anche a seguito delle modifiche apportate, all’art. 20 della legge generale sul procedimento, da parte del decreto-legge n. 35 del 2005. Ci si riferisce, in particolare, alle ipotesi di silenzio non delle amministrazioni partecipanti (ipotesi già disciplinata dall’art. 14-ter, comma 7, come anche modificato dalla legge n. 15 del 2005), ma di quello serbato dall’amministrazione procedente. La problematica sussiste in particolare laddove l’amministrazione procedente, nei termini previsti per la conclusione dei lavori della conferenza di servizi, non si sia espressa né positivamente, né negativamente145. Si dovrebbe essere indotti a propendere per una soluzione che diriga in ogni caso l’amministrazione procedente ad esprimere, in senso positivo oppure negativo, la propria posizione entro il termine previsto per la fine dei lavori della conferenza (tenuto peraltro conto del notevole tempo che, a differenza della altre amministrazioni semplicemente convocate, la stessa dell’inciso di cui all’art. 14-quater (secondo cui la motivazione del dissenso nell’ambito della conferenza è a pena di inammissibilità) faceva inoltre nascere il dubbio se il congegno tacito funzionasse anche in caso di dissenso privo di un pur stringente bagaglio motivazionale. L’identità di ratio sembrava deporre nel senso dell’improduttività di effetti di un dissenso postumo privo di motivazione (e quindi incapace di fornire un contributo collaborativo) e della conseguente formazione del silenzio assenso. 145 Sul punto, M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 523. 153 ha avuto a disposizione per svolgere una adeguata ed approfondita istruttoria). Si pensi inoltre al caso in cui la maggioranza delle amministrazioni partecipanti si sia espressa in senso negativo, piuttosto che positivo. È chiaro che, in questo caso, un comportamento inerte dell’amministrazione procedente potrebbe surrettiziamente provocare il superamento delle amministrazioni dissenzienti, determinando indirettamente una svolta positiva nella decisione finale, e con ciò tradendo quella che è la effettiva ratio perseguita dal legislatore, ossia quella di far emergere l’interesse prevalente (e non quello dell’amministrazione procedente). D’altra parte, secondo l’art. 20 della legge n. 241 del 1990, nella formulazione introdotta dal D.L. n. 35 del 2005, la conferenza di servizi può essere utilizzata dal terzo estraneo al procedimento - quale mezzo di tutela procedimentale - anche per evitare gli effetti iugulatori del silenzioassenso, e dunque per avere la possibilità di un confronto aperto proprio in sede di conferenza. In altre parole, lo strumento della conferenza di servizi, in chiave di semplificazione procedimentale, si pone quale alternativa al meccanismo del silenzio assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241: laddove trova applicazione l’uno, non si ricorre all’altro, e viceversa. Entrambi sono strumenti di accelerazione dell’azione amministrativa, ma con diversi fondamenti ed applicazioni. Il meccanismo del silenzio-assenso non sembra dunque trovare applicazione al modulo generale della conferenza di servizi (ipotesi di silenzio dell’amministrazione procedente). Diverso è il caso del silenzio serbato dall’amministrazione partecipante, ipotesi questa invece ammessa e appositamente disciplinata dal comma 7 dell’art. 14-ter. 13. Il provvedimento finale La natura degli atti emessi dalla conferenza è un tema che divide le opinioni della dottrina. Molti autori ritengono che la determinazione conclusiva della conferenza possa ascriversi alla categoria degli accordi o comunque dei procedimenti negoziati, anche sulla base di un dato testuale: l’art. 15 della legge n. 241/90, nel riferirsi alle ipotesi dell’art. 14, parla infatti di “accordi”. Questa disposizione fornisce un pesante argomento testuale a favore della teoria negoziale: secondo la sistematica della legge 241/90, la decisione assunta in sede di conferenza avrebbe natura analoga a quella degli accordi di programma, e come tale sarebbe imputabile a ciascuno dei partecipanti. 154 Secondo altri autori146, tuttavia, questa posizione non appare del tutto condivisibile, “non fosse altro per il fatto che l’esistenza di dissensi, che vengono superati attraverso la previsione di un apposito meccanismo, nega in radice la possibilità di un accordo, quale che sia il significato giuridico che si vuole attribuire a questo termine. Perché possa trattarsi di accordo, in definitiva, dovrebbe essere sempre richiesta l’unanimità e non dovrebbe esistere un meccanismo di superamento del dissenso”. Sempre secondo la dottrina da ultimo richiamata, “più convincente, sul punto, risulta la posizione di chi ritiene che la conferenza non abbia valore di accordo ma di provvedimento, dal momento che essa non consente uno scambio di consensi su un programma comune, cui naturalmente consegue l’assunzione di impegni reciproci”. Come viene opportunamente sottolineato, la conferenza di servizi resta piuttosto nel “cono d’ombra del provvedimento amministrativo” (Falcon)147: prova ne sia che esiste un meccanismo di superamento del “dissenso”, inconciliabile con l’idea di accordo. Prima di affrontare direttamente il tema del provvedimento finale, occorre soffermarsi - pur brevemente - sulle fasi conclusive della conferenza di servizi prima della legge n. 15/2005. Esse erano caratterizzate da una complessa trama normativa, caratterizzata dai seguenti passaggi procedimentali: a) ai sensi dell’art. 14-quater, comma 2, al termine dei novanta giorni, l’amministrazione procedente (ossia, l’amministrazione deputata ad adottare il provvedimento finale) adottava, sulla base della maggioranza delle posizioni espresse, la c.d. determinazione conclusiva (fase necessaria); b) ai sensi del precedente art. 14-ter, comma 7, qualora alcune delle amministrazioni non si fossero per caso espresse in sede di conferenza (c.d. amministrazioni «silenti»), entro trenta giorni dalla determinazione conclusiva le medesime avevano la possibilità di rilasciare tardivamente il proprio parere (c.d. parere postumo). In caso di silenzio protratto oltre il termine di trenta giorni, si applicava l’istituto del silenzio assenso (fase aventuale)148. 146 G. GARDINI, La conferenza di servizi: la complicata esistenza di un istituto di semplificazione, pp. 9-10 della relazione presentata al convegno “Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241, tra garanzia della Iegalità ed amministrazione di risultato”, Urbino, 18-19 maggio 2006. 147 FALCON, Gli accordi tra amministrazioni e tra amministrazioni e privato, in La semplificazione amministrativa, Vandelli e Gardini (a cura di), Quaderni della Spisa, Rimini, Maggioli, 1999, p. 1. 148 La precedente formulazione prevedeva altresì la possibilità di impugnare, nel medesimo termine di trenta giorni, la determinazione conclusiva della conferenza di servizi. 155 c) ai sensi dell’art. 14-ter, comma 9, l’amministrazione precedente adottava il provvedimento finale, che sintetizzava la fase sub a (necessaria) ed eventualmente quella sub b, sostituendo ad ogni effetto qualsiasi atto di assenso, anche nei confronti degli assenti (fase necessaria). Si poneva la questione circa la corretta qualificazione da attribuire al provvedimento finale: se, in altre parole, lo stesso dovesse rivestire natura costitutiva oppure più semplicemente dichiarativa. La corretta qualificazione nei termini sopra indicati del provvedimento finale assumeva rilievo fondamentale con riferimento alla decorrenza dei termini per l’impugnazione degli atti della conferenza: in altre parole, secondo la tesi che qualificava come costitutivo il provvedimento finale, il termine per l’impugnazione non poteva che decorrere dalla conoscenza di quest’ultimo; qualora si optasse, invece, per la natura semplicemente dichiarativa dello stesso, il termine per impugnare sarebbe decorso dall’adozione della determinazione conclusiva, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 2, da parte dell’amministrazione procedente. La giurisprudenza che si era espressa sul punto sembrava prediligere quest’ultima tesi. Al riguardo, era intervenuta una pronuncia del Tar Veneto (n. 672 del 2003), la quale aveva stabilito che la natura sostanzialmente dichiarativa del provvedimento finale, conforme alla decisione assunta in sede di conferenza di servizi, si evinceva: “1) dal fatto che l’art. 14-quater dichiara espressamente che la determinazione conclusiva della conferenza di servizi è immediatamente esecutiva; 2) dal fatto che anche l’amministrazione procedente manifesta il suo avviso e non può poi modificare le indicazioni emerse nella decisione della conferenza di servizi, essendo illogica e contraria alla ratio della norma la possibilità di una rielaborazione della determinazione conclusiva, che costituisce il risultato dell’incontro delle volontà di più amministrazioni; 3) dal fatto che l’art. 14-ter, co. 7, della legge 241/90 consente (rectius, consentiva) all’amministrazione dissenziente di impugnare direttamente la determinazione conclusiva prima del recepimento finale149; 4) dal fatto che l’art. 14-ter, comma 9, della legge 241/90 subordina l’operatività del provvedimento alla sua “conformità” alla determinazione finale della conferenza di servizi, con effetto sostitutivo di tutti gli atti di assenso necessari”. Di qui, la conclusione secondo cui l’effetto lesivo si sarebbe prodotto già dalla determinazione conclusiva della conferenza di servizi, con ogni conseguenza in ordine ai termini decadenziali previsti per l’impugnazione degli atti della conferenza: in altre parole, secondo i giudici veneti non sarebbe stato necessario attendere il provvedimento finale, ai fini dell’impugnazione, a pena di irricevibilità, per tardività, del ricorso stesso. 149 Tale previsione è stata tuttavia respinta con l’entrata in vigore del nuovo disegno di riforma. 156 Dello stesso avviso appariva inoltre il Consiglio di Stato (sez. VI, n. 5708 del 2003), che nel ricorso in appello avverso la stessa decisione sopra segnalata ribadiva che il ricorso di primo grado dovesse ritenersi intempestivo, in quanto la conoscenza, da parte dell’interessato, degli atti, e segnatamente di quello conclusivo della conferenza dei servizi, avesse effetto preclusivo sull’impugnazione, a motivo della tardività della notifica del ricorso, del provvedimento conclusivo della conferenza dei servizi medesima. Da una lettura dell’art. 14-ter, comma 9, della L. 7 agosto 1990, n. 241, emerge infatti come il provvedimento finale costituisca “atto meramente esecutivo e consequenziale delle determinazioni assunte in sede di conferenza di servizi”. Eventuali modificazioni o integrazioni della determinazione conclusiva del procedimento - proseguiva lo stesso Consiglio di Stato - potrebbe unicamente discendere “da una nuova convocazione, riunione o deliberazione da parte della conferenza medesima”; in altre parole, occorrerebbe agire in via di autotutela, secondo il principio del contrarius actus, che impone come noto di ripercorrere la stessa procedura adottata per l’atto che si vuole rimuovere o modificare150. Secondo la ricostruzione appena offerta alla luce del sistema previgente alla legge n. 15/2005, emergeva come l’orientamento avallato dai giudici amministrativi rischiasse di non tener sufficientemente conto dell’ipotesi - nemmeno tanto di scuola - dei cosiddetti “ribaltoni”: ed infatti, era ben possibile immaginare che all’esito del procedimento non si fossero espresse una serie di amministrazioni che, per mera consistenza quantitativa, erano tuttavia in grado di mutare, nei trenta giorni successivi alla comunicazione, l’orientamento adottato a maggioranza e confluito nella determinazione conclusiva. Pertanto, il provvedimento finale avrebbe assunto - nella ipotesi sopra delineata - un ruolo di assoluto rilievo, in quanto attestante che la prima maggioranza che si era espressa in sede di conferenza, e che aveva dato luogo ad una prima (ma provvisoria) determinazione conclusiva ai sensi dell’art. 14-quater, comma 2, era stata superata da tutte quelle amministrazioni (silenti) che, a norma dell’art. 14-ter, comma 7 (nella vecchia formulazione), si erano espresse, in senso ovviamente opposto, nei trenta giorni successivi dalla comunicazione della determinazione stessa. In questa direzione, il provvedimento finale assumeva dunque natura costitutiva, e non meramente dichiarativa, come invece sostenuto dai giudici amministrativi. 150 A conferma di tale indirizzo si deve soggiungere che, ancora più in radice, l’art. 14-ter, al comma 9, subordina l’operatività del provvedimento alla sua conformità alla determinazione assunta in conferenza, così escludendo che il provvedimento finale possa sostituire gli assensi necessari in ipotesi di mancata uniformazione all’esito della conferenza. 157 In sintesi, poteva attribuirsi al provvedimento finale di cui al comma 9 dell’art. 14-ter una duplice natura, o meglio asimmetrica, che prendeva forma, nell’uno o nell’altro senso a seconda del numero di “silenti” che si riscontravano al termine dei lavori della conferenza di servizi: qualora tale numero non fosse comunque sufficiente ad operare un “ribaltone” della maggioranza che si era espressa sul tipo di intervento da effettuare, il provvedimento finale avrebbe assunto valore eminentemente dichiarativo, in quanto sostanzialmente confermativo delle decisioni adottate in sede di determinazione conclusiva, e dunque il termine di impugnazione sarebbe decorso dalla sua effettiva conoscenza. Nel caso in cui, invece, le amministrazioni silenti fossero state così consistenti, sotto il profilo quantitativo, da rendere ipotizzabile un mutamento di indirizzo a seguito di rilascio del parere postumo, sarebbe stato necessario attendere lo scadere dei trenta giorni di cui al (vecchio) comma 7 e, di conseguenza, l’adozione del provvedimento finale costitutivo degli effetti di cui al successivo comma 9 (e soprattutto di sintesi di tutte le posizioni comunque espresse, dentro e fuori conferenza), che avrebbe infatti potuto risultare eventualmente difforme rispetto alla determinazione conclusiva, per fare scattare i termini decadenziali di impugnativa151. A ben vedere, la formulazione originaria del disegno di legge di novella della legge 7 agosto 1990, n. 241 (poi divenuto legge n. 15/2005), prevedendo modifiche ai commi 2 e 3, stabiliva il principio (ricavabile soltanto implicitamente e non senza qualche difficoltà dal testo introdotto dalla legge n. 340/2000) secondo il quale il provvedimento finale della conferenza di servizi non è altro che la « cristallizzazione » delle posizioni assunte in conferenza e di quelle postume, emerse fuori conferenza, ossia a seguito del ricorso alla procedura di cui al comma 7 dell’art. 14-ter. Trovava dunque conferma - con qualche correttivo -lo schema introdotto dalla L. n. 340/2000 in merito alla scansione delle fasi finali della conferenza. Scansione che si basa su un modello di tipo binario, ossia composto da determinazione conclusiva (relativa alle posizione espresse “in conferenza” e provvedimento finale (che tenga conto altresì delle posizioni emerse “fuori conferenza”). Il testo ha invece subito un radicale mutamento, nella direzione indicata, nel corso del successivo iter parlamentare. Più in generale, nell’obiettivo di « riportare a sistema» alcune disposizioni contenute negli articoli 14-ter e 14-quater in tema di fasi conclusive della conferenza di servizi (che, in ragione della loro frammentarietà e disomogeneità, hanno spesso posto notevoli problemi di matrice interpretativa e ricostruttiva agli operatori del diritto), si è ritenuto di collocare tutte le disposizioni attinenti alla conclusione della conferenza 151 M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 517. 158 all’interno dell’art. 14-ter, appositamente dedicato alle singole fasi del procedimento. Correlativamente, l’art. 14-quater si riferisce alla sole (ma piuttosto variegate) ipotesi di dissenso. In particolare, con la legge n. 15 del 2005: - viene eliminata la possibilità di esprimere il dissenso entro trenta giorni dalla chiusura del procedimento (c.d. dissenso postumo). Si tratta di una modifica rilevante, dal sapore un po’giacobino, ma comunque in linea con le esigenze di semplificazione ed accelerazione del procedimento; - è stato dunque consacrato l’istituto del silenzio assenso all’interno della conferenza di servizi: se l’amministrazione non concorda con l’intervento proposto, lo deve manifestare espressamente e perentoriamente, nell’ambito dei lavori della conferenza, e giammai in esito alla chiusura del relativo procedimento. In caso contrario, si intende acquisito il suo parere favorevole. Anche nel procedimento amministrativo si pone fine alla prassi dei c.d. “ribaltoni”: le posizioni di tutte le amministrazioni trovano infatti la loro “cristallizzazione” alla fine della conferenza di servizi, e non dopo di essa (come consentiva il precedente sistema). Come si avrà modo di vedere, non tutti i TAR sono tuttavia concordi con questa linea interpretativa, limitando il meccanismo del silenzioassenso alle sole amministrazioni che abbiano effettivamente partecipato ai lavori della conferenza; - il provvedimento finale costituisce ora “atto meramente esecutivo e consequenziale delle determinazioni assunte in sede di conferenza di servizi’’ (sebbene con valenza costitutiva, come si dirà appresso). Ci si chiede, piuttosto, se dopo l’eliminazione dei pareri postumi il provvedimento finale possa continuare ad avere una sua dignità autonoma rispetto alla determinazione conclusiva, o se piuttosto la sua emanazione non debba rivestire, dopo le modifiche apportate dalla legge 15, una natura eminentemente formale (in quanto “conforme” alla stessa determinazione conclusiva); - è stata parimenti eliminata la possibilità di impugnare la determinazione conclusiva nel termine (assai discusso) di trenta giorni. Si evitano in questo modo difficoltà interpretative ed applicative in merito ai rimedi giurisdizionali attivabili. Dunque, il termine per impugnare tornerà ad essere quello ordinario di sessanta giorni, data la soppressione dello specifico inciso alla precedente formulazione del comma 7. Sul punto, infatti, anche la dottrina più autorevole (Cerulli Irelli) è concorde nel ritenere che la soppressione della seconda parte del comma 7 sia irrilevante, essendo comunque in facoltà dell’amministrazione dissenziente avvalersi o meno del mezzo giurisdizionale. Sul punto, si veda più avanti (in questo stesso paragrafo) il dibattito che si sta evolvendo nella giurisprudenza, nuovamente, sul momento in cui si radica la effettiva 159 lesione in capo al ricorrente (se, in altre parole, nella fase della determinazione conclusiva oppure in quella del provvedimento finale). La legge n. 15 del 2005 interviene così nuovamente sul rapporto che intercorre tra conclusione del procedimento e provvedimento finale. Come messo in rilievo da alcuni studiosi, la necessità di preservare una fase dedicata alla emanazione di un provvedimento finale (seppure conforme, come espressamente previsto, alla determinazione conclusiva della conferenza) si giustifica soprattutto in termini di effetti costitutivi: è con l’emanazione dell’atto che si producono gli effetti giuridici tipici derivanti dalla conclusione del procedimento. In altre parole, laddove la determinazione conclusiva condiziona il profilo sostanziale del potere amministrativo, la presenza dell’atto unilaterale appare indispensabile ai fini della produzione degli effetti giuridici152. A tale riguardo si è di recente espressa la giurisprudenza amministrativa. Secondo un primo indirizzo si ritiene inammissibile, per assenza di lesività immediata, l’impugnazione del verbale conclusivo della conferenza di servizi. Si richiamano al riguardo alcune pronunzie del TAR Toscana (cfr. decc. nn. 4274 del 2006, 383 del 2007 e 758 del 2007), che ha inaugurato tale percorso partendo da una disamina dell’istituto, come anche ridefinito a seguito delle modifiche normative apportate dalla legge n. 15 del 2005 (su tale orientamente è pure intervenuto, come si vedrà in senso parzialmente difforme, il TAR Catania). Ebbene, secondo i giudici toscani (si riporta qui, per esteso, l’intero passaggio) “sia nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15, che in quella risultante dalla recente novella, emerge una costruzione dell’istituto della conferenza di servizi che impone una distinzione bifasica: - il momento istruttorio, caratterizzato dall’acquisizione degli avvisi dei soggetti pubblici (necessariamente) coinvolti nel procedimento, senza che la naturale efficacia provvedimentale - autonoma e definitiva - dell’avviso richiesto alla singola Amministrazione partecipante, quando esso si esprima al di fuori della conferenza, possa incidere sulla sua (trasformata) natura meramente endoprocedimentale laddove venga pronunciato in sede di conferenza, sia pure decisoria; - il momento conclusivo, costituito dal provvedimento successivo e monocratico adottato dall’Amministrazione procedente, pur sempre tenendo conto degli esiti della conferenza di servizi decisoria. In altri termini, l’affermazione contenuta nella disposizione di cui all’art. 14-bis, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990, secondo cui « all’esito dei lavori della conferenza, e in ogni caso scaduto il termine di cui al comma 3, l’amministrazione procedente adotta la determinazione 152 P. BERTINI, La conferenza di servizi, in “Dir. amm.”, 1997, 326. Vedi nota 125. 160 motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede », testimonia dell’architettura che il legislatore ha voluto fare propria nel fissare le regole di funzionamento dell’istituto della conferenza di servizi e che si compendia nella necessità che rispetto all’esito dei lavori della conferenza di servizi decisoria si sostituisca pur sempre un provvedimento conclusivo del procedimento (del quale la conferenza costituisce solo un passaggio procedurale), avente la veste di atto adottato (di regola e tranne specifiche eccezioni) da un organo monocratico dell’Amministrazione procedente”. In ragione del percorso ricostruttivo sopra esposto, il TAR Toscana conclude allora per la natura endoprocedimentale del verbale (sebbene) conclusivo della conferenza, che per definizione non assurge al rango di provvedimento conclusivo e quindi idoneo a pregiudicare la posizione giuridica soggettiva dei privati interessati. Ne deriva la inammissibilità delle domande giudiziali annullatorie rivolte avverso tali atti (verbali conclusivi) di natura endoprocedimentale ed inidonei a definire i relativi procedimenti. In conclusione, il verbale della conferenza di servizi non può ritenersi equipollente, e quindi sostituire, il provvedimento finale del procedimento non ancora concluso. Sulla falsa riga di quanto testè affermato (ma con alcune differenze che saranno vieppiù sottolineate) si colloca il TAR Catania, che con decisione n. 1254 del 2007 sottolinea come (sì riporta integralmente, anche in questo caso, il passaggio di interesse) “la prescrizione di cui al comma 6-bis dell’art. 14-ter della legge 241/90 abbia una funzione ed uno scopo ben delineati dal legislatore. Nel configurare quel particolare modulo procedimentale che è costituito dalla Conferenza dei servizi, infatti, il legislatore della riforma della L. 241/90, operata con la L. 15/2005, ha sentito la necessità di prevedere e prescrivere che l’Amministrazione responsabile del procedimento (e, per essa, il relativo funzionario), all’esito dei lavori della Conferenza adotti un “provvedimento finale” che, non solo (e non tanto) riepiloghi a scopo meramente elencativo (e dichiarativo) le determinazioni concordate o emerse in Conferenza, ma “adotti”, con valenza costitutiva, le determinazioni conclusive del procedimento153. Lo scopo di questa norma è, principalmente, di consentire che il cittadino abbia come proprio referente solo il responsabile del procedimento e quindi “una” amministrazione, lasciando che il “concerto” tra più Enti rimanga all’interno dei processi decisionali della P.A. 153 In dottrina, P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit. 161 Inoltre, rappresentandosi che, specie in riferimento a progetti o iniziative di maggiore spessore e complessità, possono emergere una pluralità di vedute e di apprezzamenti da parte dei diversi Enti coinvolti nel procedimento (o anche dei privati interessati o controinteressati), il legislatore ha voluto che la decisione finale restasse ascritta comunque alla responsabilità dell’Amministrazione incaricata del provvedimento finale, ovvero di quella cui è demandata la cura di quei particolari interessi pubblici che sono oggetto del procedimento. Ciò in quanto la conferenza di servizi non è un organismo deliberante, ossia un consesso ove le decisioni si adottano a maggioranza (ad eccezione delle regole di autorganizzazione, art. 14-ter comma l), ma un “modulo procedimentale’’e di confronto tra diverse P.A. (Cfr. Consiglio di Stato, V, 5 aprile 2005, nr. 1543), le cui valutazioni e decisioni non possono che essere ponderate responsabilmente (ossia con piena responsabilità di decisione) da parte di chi è chiamato ad adottare il provvedimento finale (cfr. Consiglio di Stato, VI, 3 marzo 2006, nr. 1023). In altre parole, trattandosi di una determinazione “plastica” che può assumere pluralità di forme e contenuti (cfr. i diversi presupposti per la convocazione della conferenza dei servizi di cui all’art. 14, commi da l a 5), la decisione che emerge da una conferenza dei servizi può essere anche relativa a più scelte possibili, fare emergere più orientamenti e, comunque, essa non esclude che nella decisione finale il rappresentante dell’Amministrazione decidente possa disattenderne motivatamente in tutto o in parte il contenuto (così come avviene in relazione a qualsiasi istruttoria), naturalmente fatto salvo il riferimento, contenuto nella norma di legge in esame, agli orientamenti “prevalenti” che sono elemento necessario della motivazione (come rende palese l’inciso “tenendo conto”) e che quindi non vincolano, ma obbligano (in caso di decisione difforme) ad una penetrante motivazione”. È importante tale affermazione del TAR Catania, il quale evidenzia una importante novità apportata dalla legge di riforma del 2005, laddove il meccanicistico - e arido - criterio quantitativo basato sulla mera maggioranza è stato sostituito, anche per evitare più volte denunziate possibili applicazioni “selvagge” di tale metodo (maggioritario), da un diverso criterio, di stampo più qualitativo, che si fonda al contrario sulle “posizioni prevalenti”. Di talché l’amministrazione potrebbe a rigore anche disattendere il parere della maggioranza numerica per aderire all’orientamento che, a suo avviso, appare più convincente, pure in termini di legittimità dell’azione amministrativa. Alla luce di tali premesse, laddove accada - prosegue il TAR Catania _ che le determinazioni della conferenza dei servizi siano in sé vincolanti ed autoesecutive (per come formulate), ferma restando la loro immediata 162 impugnabilità (si vedano su tale punto le affermazioni più avanti riportate), ciò non esclude che debbano comunque tradursi nel provvedimento finale. “Per altro verso, alla stregua dei consolidati principi giurisprudenziali e dottrinari in materia, anche gli atti endoprocedimentali (o preparatori del procedimento), laddove - e nella misura in cui - contengono ordini precisi ed autoesecutivi rivolti ai destinatari e prevedono anche sanzioni o provvedimenti sostitutivi, anticipando sostanzialmente, in tutto o in parte, l’efficacia finale del provvedimento conclusivo della sequenza procedimentale, devono ritenersi indubbiamente lesivi, e pertanto non può negarsi come sussistente l’interesse a coltivare il relativo gravame; interesse che poi viene meno quando il provvedimento finale è emanato, dovendosi necessariamente impugnare quest’ultimo che riassume in sé gli effetti derivanti dalle conferenze medesime, sostituendoli integralmente”. In altre parole, colui che muove qualsivoglia doglianza nei confronti di una decisione adottata in seno alla conferenza di servizi può farlo direttamente avverso il verbale conclusivo, qualora questi riassuma le caratteristiche decisionali sopra descritte (ossia, ordini precisi ed autoesecutivi), altrimenti può (comunque) attendere a tal fine il provvedimento finale, senza incappare in un vizio di inammissibilità del gravame. Fermo restando che tale attesa diventa obbligatoria nel momento in cui il verbale non abbia contenuto sostanzialmente decisionale (in questa stessa direzione si veda anche TAR FVG, dec, n. 292 del 2007). Dunque, la differenza tra TAR Toscana e TAR Catania sta in questo: mentre il primo appare sempre contrario all’impugnabilità del verbale conclusivo, il secondo risolve tale quesito in termini più sostanziali (e comunque facoltativi), ossia nel senso di interpretare, di volta in volta ed in concreto, contenuto e volontà del verbale medesimo. Qualora esso contenga ordini autoesecutivi e immediatamente applicabili, il soggetto che si sente leso avrà due strade: impugnare subito il verbale oppure attendere l’emanazione del provvedimento, senza incorrere in rischi di inammissibilità del ricorso. Qualora invece tali ordini non abbiano tale natura, dovrà in ogni caso attendere il provvedimento finale. A parere di chi scrive occorre stabilire, in altri termini, il giusto rapporto tra verbale di “fine lavori” e determinazione conclusiva della conferenza di servizi: qualora il primo denoti la volontà dell’amministrazione procedente di assumere una certa posizione (prevalente), si sarà dinanzi, in sostanza, ad una vera e propria determinazione conclusiva ai sensi del comma 6-bis, cui farà poi seguito un “conforme” provvedimento finale (comma 9); lo schema è dunque binario: verbale/determinazione conclusiva - provvedimento finale. In questo caso, il soggetto che si sente leso potrà percorrere la prima strada, ossia impugnare subito il verbale 163 oppure - e comunque - attendere l’emanazione del provvedimento finale, ma senza rischio di inammissibilità. Qualora, invece, tale contenuto decisionale non emerga nel verbale ultimo della conferenza di servizi, limitandosi questo al mero riscontro, acritico e riassuntivo, delle posizioni rilevate nel corso dei lavori (e dunque senza intercettare l’interesse prevalente), soccorrerà la seconda strada, delineata dal TAR Toscana (impugnazione del solo provvedimento finale). Con l’unica precisazione che tra “mero” verbale e provvedimento finale si dovrebbe collocare la determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis. lo schema diventa in questo caso ternario (verbale - determinazione conclusiva - provvedimento finale), dal momento che cade l’assimilazione tra verbale e determinazione conclusiva. È altamente probabile che l’incertezza giurisprudenziale tragga la sua origine dal mutato contesto normativo. Ed infatti, la legge n. 340 del 2000 aveva correttamente inserito due momenti decisionali, l’uno provvisorio (determinazione conclusiva) e l’altro definitivo (provvedimento finale), atteso che medio tempore potevano acquisirsi posizioni postume, ossia successive (30 gg.) alla chiusura dei lavori della conferenza; l’originaria stesura del d.d.l. governativo, poi divenuto legge 15, esaltava anzi questo ruolo del provvedimento finale, ossia di “sintesi” tra determinazione conclusiva ed eventuali pareri postumi. Al contrario la legge n. 15 del 2005, se da un lato ha eliminato i predetti pareri postumi, dall’altro lato non ha in ogni caso intaccato la fase relativa al provvedimento finale, il quale, tuttavia, ha ormai perso il suo principale significato (sintesi tra posizioni emerse dentro e fuori conferenza). Considerato peraltro che esso deve risultare “conforme” alla determinazione conclusiva, non se ne comprende a questo punto l’utilità teorica e pratica. È chiaro che tale questione troverà in ogni caso una risoluzione qualora si approvi, come si è approvato, definitivamente il richiamato d.d.l. AS 1532 della XV legislatura. Esso prevede infatti, all’art. 3, comma 5, letto c), che “il verbale recante la determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis, nonché le indicazioni delle dichiarazioni, degli assensi, dei dinieghi e delle eventuali prescrizioni integrative, sostituiscono” gli atti di assenso comunque denominati e necessari per la definizione del procedimento. Lo schema diventerebbe allora “unico”, dal momento che vi sarebbe integrale assimilazione non solo tra verbale e determinazione conclusiva, ma anche tra questi due atti ed il provvedimento finale di cui al comma 9. Da impugnare sarà direttamente (e soltanto) il verbale conclusivo dei lavori. Ci si chiede, piuttosto, se vi sia sufficiente spazio per scegliere e ponderare da parte della P.A. procedente, dal momento che la decisione sarà inoltre contestuale alla chiusura della stessa conferenza, senza dare ulteriore spazio a momenti valutativi da parte della amministrazione procedente. Si tratta di una sicura opera di semplifica164 zione, forse anzi eccessivamente impressa in questa direzione, con il rischio di aversi provvedimenti non sufficientemente ponderati. 14. Ulteriori snodi procedimentali L’iter della conferenza segue tendenzialmente una linea snella, come si evince dal comma 8 che limita la richiesta di chiarimenti e documenti ad una sola volta. se gli stessi non sono forniti l’amministrazione procede prescindendone. Anche in questo caso la scelta del legislatore, volta ad un’accelerazione procedimentale, pare un po’di grana grossa: si sarebbe potuto, infatti, utilizzare degli strumenti più elastici quali quello del silenzio facoltativo o del silenzio devolutivo di cui agli artt. 16 e 17, L. n. 241/1990 in materia di pareri e valutazioni tecniche. Nulla dispone la legge, inoltre, sul modus redigendi del verbale conclusivo. Sul punto specifico si è espresso il TAR Piemonte, che nella decisione n. 4074 del 2005, a fronte del ricorrente il quale sosteneva che il verbale della conferenza dei servizi sarebbe stato nullo per difetto di sottoscrizione contestuale di tutti i partecipanti, ha tenuto a precisare che la normativa generale in materia di conferenza dei servizi nulla dispone in materia di verbalizzazione delle attività della conferenza stessa ed a maggior ragione non prescrive affatto che il verbale debba essere necessariamente sottoscritto da tutti i partecipanti (anziché dal solo responsabile del procedimento che la ha indetta). In ogni caso, per principio generale, persino gli atti di un organo monocratico non possono considerarsi nulli se mancanti della firma, tutte le volte che, come nel caso in esame (in cui i partecipanti erano nominativamente indicati), non vi siano dubbi circa l’identità del soggetto emanante (T.A.R. Piemonte, I, 30 ottobre 2002, n. 1807; T.A.R. Emilia-Romagna - Bologna, 23 dicembre 2002, n. 2609). Per quanto attiene, invece, alla motivazione del provvedimento che definisce la conferenza, sembra poi essere ammessa la motivazione ob relationem, anche in collegamento con quanto previsto dall’art. 3, comma 2, della legge n. 241 del 1990. Si richiama al riguardo la pronunzia del TAR Piemonte n. 4348 del 2006, in cui la determinazione conclusiva della conferenza di servizi e il provvedimento del responsabile dello Sportello Unico per le attività produttive, di segno negativo rispetto alla domanda presentata (coltivazione di cava), richiamava i vari atti provenienti dalle diverse amministrazioni titolari dei diversi interessi pubblici coinvolti, facendo proprio il contenuto di tali atti attraverso l’espressione di un unanime parere negativo all’intervento richiesto. La motivazione della determinazione appariva 165 dunque adeguata, posto che in tal modo si realizzava la forma tipica della motivazione per relationem disciplinata dall’articolo 3, comma 3, della legge 2 agosto 1990, n. 241, secondo il quale quando le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione questo deve essere indicato e reso disponibile. La prima condizione indicata dalla norma appena richiamata risultava soddisfatta, così come pure la seconda condizione, risultando dagli atti del giudizio che la determinazione conclusiva della Conferenza di servizi (di cui costituivano parte integrante e sostanziale i pareri ivi citati) era stata comunicata alla società ricorrente con nota dello stesso Responsabile dello Sportello Unico. Gli atti impugnati erano quindi dotati di sufficiente motivazione. In tema di autotutela, quanto alla revoca sembra a taluno da escludersi dopo la legge n. 340/2000 uno jus poenitendi della P.A. esercitato senza la convocazione di una nuova conferenza, perché, intervenuto il consenso di tutti i partecipanti (o il surrogato della maggioranza), la materia regolata dal provvedimento finale esce dalla sfera di disponibilità della P.A. procedente; a sostegno dell’assunto depone la circostanza che la conferenza è tesa a coagulare la volontà di più PP.AA. Pertanto, la nuova fisionomia della conferenza sembra inibire ripensamenti unilateriali non suffragati da una complessiva rivisitazione collegiale dell’originaria posizione154. A conferma di tale impostazione è sufficiente rilevare che la pubblica amministrazione ben può procedere alla rimozione dei propri atti, restando tuttavia « soggetta alla procedura del contrarius actus, ossia a seguire il medesimo procedimento di emanazione degli atti che intende rimuovere o modificare» (Cons. Stato, sez. V, 2 ottobre 2000, n. 5210)155. 154 Sul punto si veda F. G. SCOCA, Analisi giuridica, cit., 280. L’autore ritiene che, essendo le determinazioni finali il frutto di valutazioni comuni, contestuali e quindi interdipendenti, la revoca è sì possibile, ma deve avvenire «attraverso una nuova comune e contestuale valutazione globale degli interessi e, quindi, attraverso una nuova convocazione della conferenza di servizi». Altra parte della dottrina ritiene inoltre che lo jus poenitendi sia pienamente esercitabile, singolarmente da parte di ciascuna amministrazione, almeno sino all’esito dei lavori della conferenza (ossia prima che l’amministrazione procedente adotti la determinazione conclusiva); cfr., sullo specifico punto, F. MARTINELLI, M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 175. 155 Alcuni autori ritengono che il potere delle amministrazioni si consumi, con l’effetto che l’assenso non possa più essere ritirato. Altri sostengono che il principio di autotutela ha valenza generale e non è sconfessato dalla partecipazione ad una conferenza. A ben vedere, però, quello in esame è un falso problema, in quanto una valutazione può essere fatta soltanto sulla scorta della tipologia manifestata. Ad esempio, se l’assenso è un parere, la natura consultiva dell’atto in questione renderà impossibile un intervento in autotutela. Stesso discorso può essere fatto per gli atti di controllo, sempre che si ammetta la possibilità che esso possa essere reso in sede di conferenza. Quindi, dovrà essere operato un esame caso per caso sulla scorta della 166 Si segnala al riguardo la decisione n. 560 del 2005 del Tar Liguria, in cui si afferma che è possibile ricorrere a tale meccanismo (annullamento in autotutela) laddove sia stato seguito, dall’amministrazione procedente, secondo i principi vigenti in materia, il medesimo procedimento espletato in precedenza. La stessa amministrazione ben poteva, quindi, riesaminare le determinazioni di sua competenza già adottate, e riconvocare la conferenza per acquisire l’assenso degli altri enti interessati. L’assunto - prosegue il giudice ligure - è del resto corroborato dal sopravvenuto comma 6-bis dell’art. 14-ter della L. 241/90 (come introdotto dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15) il quale, nel disporre che ‘‘All’esito dei lavori della conferenza [...] l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione [...]”, riconosce in testa a quest’ultima la piena titolarità di tutta la funzione procedimentale, dalla sua attivazione alla sua conclusione. natura dell’atto d’assenso, al fine di ponderare la percorribilità di un intervento in autotutela. 167 168 CAPITOLO 2 LA DISCIPLINA DEI DISSENSI ESPRESSI IN CONFERENZA DI SERVIZI. RIFLESSI SUL TITOLO V DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE 1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso. - 2. La disciplina del dissenso nella L. n.340/2000 e nella L. n. 15/2005: dal principio maggioritario a quello di prevalenza. - 3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V della parte seconda della Costituzione. - 4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del 2005: spunti per una soluzione percorribile. 1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso Il problema più rilevante nello studio dell’istituto della conferenza di servizi decisoria riguarda gli incidenti che possono verificarsi in seno alla conferenza e che possono portare: a) ad una manifestazione di dissenso da parte di una delle amministrazioni; b) alla mancata partecipazione da parte di un’amministrazione alla conferenza; c) alla partecipazione con organi privi di potere rappresentativo. Queste problematiche sono state affrontate e risolte nel tempo dal legislatore sulla scorta di una pluralità di interventi che hanno evidenziato cinque distinte fasi, prima della definitiva soluzione fornita con l’art. 14quater della L. n. 241, come riscritto dall’art. 12 della L. n. 340/2000 e poi dalla legge n. 15 del 2005, 69/09 e 122/10. L’originaria disciplina della L. n. 241 era improntata sul principio di unanimità degli assensi alla decisione finale (ove necessari in base alle regole ordinarie al di fuori della conferenza), tanto che la conferenza veniva paralizzata sia nell’eventualità di mancata partecipazione di una P.A. necessaria, sia nell’ipotesi di dissenso manifestato in seno alla conferenza da una P.A. intervenuta, col consequenziale obbligo di adottare in alternativa le vie ordinarie. Il legislatore si era premurato di adottare un meccanismo di silenzio assenso (comma 3) per la P.A. che non interveniva o lo faceva mediante un rappresentante privo della legittimazione a manifestare la volontà dell’ente in seno alla conferenza. In forza di tale fictio juris l’autorità procedente poteva adottare il provvedimento finale, salvo che entro i 20 giorni successivi non intervenisse il motivato dissenso della P.A. inerte. A seguito di ciò, si discuteva in passato se fosse 169 necessario indire una nuova conferenza o si realizzasse una mera sospensione del procedimento. Veniamo ora alla seconda fase; all’indomani della L. n. 241 è stato posto all’ordine del giorno il problema di scardinare o temperare il principio dell’unanimità156 che, inteso in senso rigido, portava di fatto alla paralisi della conferenza con l’attribuzione di un potere di veto a tutte le amministrazioni chiamate ad esprimere il proprio assenso. La L. n. 537/1993 ha quindi previsto che, in caso di dissenso di un’amministrazione intervenuta, il provvedimento poteva essere adottato con l’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri, sollecitato dall’amministrazione procedente. Detta determinazione faceva allora le veci della deliberazione unanime della conferenza. Ulteriore problema posto dalla L. n. 537 riguardava la praticabilità del descritto meccanismo, imperniato sull’intervento sostitutivo centrale anche nei procedimenti di competenza delle regioni e degli enti locali. Di fronte a tale meccanismo si sollevava infatti, da più parti, l’obiezione circa la difficile armonizzabilità dell’esportazione dell’intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri nella sfera di competenza regionale, presidiata a livello costituzionale dagli artt. 117 e 118 della Carta Fondamentale, e ciò ancor prima della riforma costituzionale del 157 2001 . Con la L. n. 127/1997 si innesta la terza fase: l’amministrazione procedente può adottare il provvedimento ed incorrere nel potere di sospensione attribuito all’organo di vertice. Qui, si attribuisce all’amministrazione procedente il potere di adottare la statuizione finale nonostante il contrario avviso espresso in seno alla conferenza, a patto che detto provvedimento venisse comunicato al Presidente del Consiglio dei Ministri o della regione o al Sindaco (previa deliberazione dei rispettivi organi consiliari). Trascorsi 30 giorni dalla comunicazione all’organo di vertice senza che questi sospendesse il provvedimento, a seguito della valutazione comparativa delle ragioni espresse dall’amministrazione dissenziente e da quella procedente, la deliberazione si intendeva esecutiva. Il potere di sospensione veniva ad 156 Deroghe espresse al principio di unanimità sono previste nella legislazione di settore: ad esempio, l’art. 9, comma 2, del D.L. n. 114/1998, in tema di autorizzazione alle grandi strutture di vendita, prevede che nella conferenza alla quale partecipano un rappresentante ciascuno per regione, provincia e comune, la decisione sia presa a maggioranza, anche se la regione non può mai essere messa in minoranza, in quanto l’autorizzazione è condizionata al suo parere favorevole. Si ha in questo modo la creazione di un organismo collegiale atipico, i cui singoli componenti hanno all’interno dello stesso un peso dissimile. 157 Parte della dottrina si era richiamata in questo caso a quella giurisprudenza costituzionale (Corte Cost., 21 gennaio 1991, n. 37), che aveva ritenuto ammissibile una simile ingerenza in presenza di interessi nazionali urgenti e improrogabili. 170 assumere una matrice discrezionale, parametrata alle ragioni del dissenso158. La sospensione provocava sine die un arresto procedimentale che impediva alla P.A. procedente l’emanazione del provvedimento, dando luogo alla necessità di indire una nuova conferenza ovvero di procedere per le vie ordinarie ove si potesse fare a meno dell’assenso. In merito all’ambito applicativo, non era chiaro cosa accadesse nel caso di dissenso plurimo, dal momento che il legislatore sembrava aver preso in considerazione solo il dissenso singolo; è prevalsa in dottrina la tesi estensiva motivata sulla ratio acceleratrice dell’istituto. Infine, permaneva un cono d’ombra circa il regime applicabile in caso di dissensi misti espressi sia da amministrazioni centrali che da enti territoriali. La disciplina ricordata, imperniata sul binomio potere di adottare il provvedimento-potere di veto centrale, era espressamente estesa, diversamente dalla disciplina previgente, sia al caso di dissenso interno alla conferenza sia all’ipotesi del dissenso postumo, espresso nei venti giorni dalla comunicazione dell’esito al fine di evitare la formazione del silenzio assenso. Giova infine rammentare che il ricordato meccanismo non trovava applicazione nel caso di motivato dissenso espresso da amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute. In detti casi permaneva, infatti, il rimedio di cui alla legge del 1995, necessitante della determinazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. Venendo alla quarta fase, la L. n. 191/1998, in coda all’art. 14, comma 3-bis, si è preoccupata di disciplinare la situazione che consegue al potere di sospensione, prevedendo che: « In caso di sospensione la conferenza può entro 30 giorni pervenire ad una nuova decisione che tenga conto delle osservazioni del Presidente del Consiglio dei ministri. Decorso inutilmente tale termine, la conferenza è sciolta ». Tale formulazione ha destato peraltro alcuni dubbi per il riferimento al solo potere di sospensione del Presidente del Consiglio159. 158 Il significato del potere di sospensione nasconde una sorta di potere di «sostituzione», dal momento che l’unanimità non viene meno, ma l’organo dissenziente viene sostituito. Il Presidente del Consiglio dei Ministri (oppure la Conferenza StatoRegioni/Unificata, secondo il nuovo disegno di riforma) deve fare le veci dell’organo che originariamente si era espresso in chiave negativa. Si tratta, quindi, di una sostituzione, secondo altri di avocazione, nella valutazione circa l’effettiva compromissione dell’interesse pubblico la cui cura è attribuita all’organo dissenziente, ed eventualmente della cedevolezza della posizione di questo interesse rispetto agli altri presenti nella conferenza. 159 Nonostante il silenzio del legislatore, la dottrina ha anche in modo ragionevole reputato che, in alternativa alla strada della rideterminazione ossequiosa rispetto alle 171 2. La disciplina del dissenso nella L. n. 340/2000 e nella L. n. 15/2005: dal principio maggioritario a quello di prevalenza Sul piano delle caratteristiche che deve possedere il dissenso, la legge n. 340 del 2000 è nuovamente intervenuta, chiarendo che deve trattarsi, a pena di inammissibilità: a) di un dissenso propositivo, ossia corredato dalle condizioni per il suo superamento; b) espresso “in conferenza” (punto questo, come visto, alquanto controverso); c) pertinente all’oggetto della conferenza; d) congruamente motivato. Tali caratteristiche del dissenso - si ripete poste a pena di inammissibilità, nel senso ossia che l’amministrazione deve considerare tali pareri come se non ci fossero - non sono state poi oggetto di modifica da parte della legge n. 15 del 2005. La specifica sanzione dell’inammissibilità evidenzia con nettezza che detto dissenso si deve considerare tamquam non esset laddove si presenti in termini puramente ostruzionistici, in quanto non corredato da supporto motivazionale ovvero da apporto costruttivo inteso ad indicare le condizioni idonee a sanare il contrasto. In tale ultimo caso, in definitiva, la conferenza potrà decidere senza neanche darsi carico sul piano motivazionale delle ragioni del dissenso, ossia della sua non idoneità a scalfire, sul piano della legittimità e dell’opportunità, la tenuta della statuizione conclusiva. Sul punto si è soffermata la più recente giurisprudenza, in particolare per definire il ruolo della regione in materia urbanistica (si rinvia per un approfondimento al paragrafo 2 del capitolo V). La disposizione chiarisce inoltre, in questo modo, la distinzione - non direttamente percepibile nel sistema antecedente alla L. n. 340 - tra assenso “con prescrizioni” e dissenso “celato”; figura quest’ultima che si riproponeva ogniqualvolta le condizioni poste al rilascio dell’assenso erano tali da impedire - in sostanza - la concreta realizzazione del progetto. Appare chiaro, infatti, come la richiesta di alcune modifiche progettuali delinei, a seconda della loro applicazione a fini progettuali, una situazione di sostanziale assenso, qualora ‘le modifiche si rivelino di diretta praticabilità, oppure di dissenso, nel caso opposto, ove le stesse debbano indicazioni del Presidente del Consiglio, l’amministrazione potesse battere le vie della cicatrizzazione dei dissensi per le vie ordinarie o in seno alla conferenza. In tal caso, la ricomposizione dell’unanimità avrebbe escluso la necessità di sincronizzare il provvedimento terminale con i moniti dell’organo centrale, espressione di un potere di interdizione che nasce per effetto del dissenso e che dovrebbe coerentemente consumarsi al momento della ricomposizione dell’unanimità. 172 quindi assumere la valenza di proposta progettuale (sostanzialmente) alternativa. Lo stesso Consiglio di Stato sembra generalmente propenso a considerare come dissensi in senso sostanziale quei pareri asseritamente favorevoli che tuttavia, in realtà, per la quantità e la qualità delle prescrizioni (e condizioni) poste alla base del rilascio del parere favorevole, sono in realtà idonee a disvelare una posizione negativa dell’amministrazione partecipante. È quanto emerge dall’ord. n. 7566 del 2004 della quarta sezione del Consiglio di Stato. Tale posizione sembra vieppiù trovare conferma nella formulazione dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990, dove indirettamente si evince come l’indicazione delle modifiche progettuali necessarie ai fini dell’assenso costituisca uno dei presupposti essenziali per l’ammissibilità del dissenso. Si richiama al riguardo la decisione n. 5498 del 2004 della quarta sezione del Consiglio di Stato. Nel caso di specie, sulla istanza di autorizzazione a coltivare una cava di ghiaia presentata da una impresa appaltatrice, il comune “esprimeva parere positivo, rappresentando tuttavia che la attività estrattiva non era consentita dal vigente strumento urbanistico”. Successivamente, il comune stesso negava l’autorizzazione. La società richiedente impugnava il provvedimento negativo per eccesso di potere, in quanto fortemente contraddittorio rispetto al parere favorevole espresso in conferenza. Il Consiglio di Stato ha rigettato il gravame, attribuendo valore meramente formale al preventivo avviso favorevole (peraltro del tutto generico), ed assegnando invece valore sostanziale (e preminente) alla “espressa riserva” manifestata nella stessa sede, riserva che in realtà celava un evidente posizione dissenziente. Ultimo esempio si ricava infine dalla decisione n. 6292 del 2004 della quinta sezione del Consiglio di Stato: qui, per la realizzazione di un impianto di smaltimento rifiuti veniva convocata una conferenza di servizi per il rilascio del necessario provvedimento autorizzatorio. A seguito delle modifiche progettuali concordate in seno alla prima riunione, la Regione, senza riconvocarne un’altra, revisionava integralmente il progetto, approvandolo con provvedimento definitivo. Il Consiglio di Stato, in aderenza alla decisione di prime cure, ha evidenziato in tale occasione il difetto di “carenza istruttoria derivante dalla mancata sottoposizione del nuovo progetto all’esame della conferenza”, rilevando come proprio “in esito alle risultanze della conferenza di servizi, il commissario (ossia, l’amministrazione procedente) aveva completamente rielaborato il progetto”. Appare chiaro che, qualora l’amministrazione si fosse limitata a recepire (o meglio, a ratificare) le risultanze istruttorie della conferenza di servizi, ossia a modificare il progetto secondo le modifiche in quella sede concordate, un nuovo 173 passaggio in conferenza avrebbe potuto costituire soltanto una vuota formalità, idonea esclusivamente a rallentare l’iter procedimentale. Nel caso delineato sembra invece che l’amministrazione procedente abbia compiuto una attività di ultrarecepimento, diretta ossia a non limitarsi alla semplice trasposizione delle indicazioni emendative emerse in conferenza, ma a stravolgere completamente il progetto, configurando un qualcosa di oggettivamente diverso dal progetto approvato in conferenza: pertanto, in quest’ultimo caso sarebbe stato vieppiù necessario un nuovo confronto dialettico tra le amministrazioni interessate (si tratta, in sostanza, di un aspetto molto simile alla disciplina dell’autotutela applicata all’istituto della conferenza di servizi). Per quanto riguarda, invece, la disciplina in senso stretto sulla gestione del dissenso - che è tra l’altro il punto maggiormente problematico - l’evoluzione normativa di cui si è detto è stata profondamente segnata dalla L. n. 340/2000, che ha proposto un più radicale strumento di elisione dei dissensi maturati in conferenza, sostituendo il farraginoso meccanismo dato dal binomio adozione del provvedimento-potere di sospensione con un più lineare meccanismo che abilitava l’amministrazione procedente, ove lo ritenesse, a recepire la posizione maggioritaria espressa in sede di conferenza160. La decisione “a maggioranza” trovava un limite soltanto in presenza di dissensi espressi in materia di interessi sensibili (paesaggio, ambiente, salute), nel qual caso la decisione veniva rimessa ad un secondo livello di valutazione, ossia al Consiglio dei Ministri (integrato, in caso di dissenso regionale, dal Presidente della regione interessata, che in ogni caso partecipava senza diritto di voto). Tale criterio era tuttavia soggetto a critiche, sia per il rischio che posizioni di dissenso basate su aspetti legati alla legittimità dell’azione amministrativa potessero essere agevolmente superate (anche attraverso surrettizie strategie dell’amministrazione procedente, come si vedrà), sia per la difficoltà (se non assurdità) di considerare tutte le amministrazioni partecipanti allo stesso livello di importanza, in base al noto principio una amministrazione = un voto. È per questi motivi che la regola maggioritaria è stata successivamente, almeno in parte, “stemperata” con il nuovo disegno di 160 La norma maggioritaria apre molti interrogativi, tra i quali: a) la compatibilità dei voti per numero di amministrazioni o in base agli interessi da queste rappresentati; b) la compatibilità con i principi costituzionali della superibilità del dissenso delle regioni in materia in cui queste abbiano competenza costituzionale (vedi Corte Cost. sento n. 206/2001); c) la necessità di evitare la partecipazione al voto di amministrazioni il cui assenso non sia legalmente contemplato (ad es. P.A. chiamata ad esprimere solo un parere), e tanto per evitare un inquinamento della maggioranza. 174 riforma (L. n. 15/2005), ossia attraverso l’introduzione del concetto di “posizioni prevalenti”. E ciò in conseguenza di alcune considerazioni ed implicazioni critiche, derivanti dalla prima (pratica) applicazione di detto criterio all’indomani della entrata in vigore della L. n. 340, che la dottrina aveva puntualmente messo in evidenza. La legge di riforma n. 15 del 2005, in particolare, nell’obiettivo di « riportare a sistema» alcune disposizioni contenute negli articoli 14-ter e 14quater in tema di fasi conclusive della conferenza di servizi (che, in ragione della loro frammentarietà e disomogeneità, hanno spesso posto notevoli problemi di matrice interpretativa e ricostruttiva agli operatori del diritto), ha innanzitutto ritenuto di collocare tutte le disposizioni attinenti alla conclusione della conferenza all’interno dell’art. 14-ter, appositamente dedicato alle singole fasi del procedimento, Correlativamente, l’art. 14quater si riferisce alla sole (ma variegate) ipotesi di dissenso. Si interviene così, in modo significativo, sui meccanismi attraverso i quali pervenire ad una decisione da parte dell’amministrazione procedente. In particolare si prevede - contrariamente alla L. n. 340/2000 in cui si faceva esplicito riferimento al criterio della maggioranza - che “l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede”. Come rilevato dalla dottrina161, “volendo esemplificare i possibili casi che potranno porsi nel nuovo regime, l’amministrazione procedente potrà discernere (...) tra le ragioni di legittimità e quelle di opportunità poste alla base di un dissenso “non rilevante”. La legge n. 15 del 2005 (...) sembra consentire senz’altro alla “prevalenza” delle posizioni espresse di superare eventuali questioni minoritarie di mera opportunità; occorrerà, invece, pur in presenza di posizioni prevalenti favorevoli, un maggiore approfondimento motivazionale in caso di dissenso motivato da obiezioni di legittimità di competenza dell’amministrazione dissenziente. Per le stesse ragioni, “la prevalenza delle posizioni espresse potrà essere anche disattesa - con una congrua motivazione - in caso di fondata (pur se minoritaria) obiezione di legittimità, mentre sarà ben più difficile che possa essere disattesa al fine di tener conto di obiezioni di pura opportunità”. Il criterio della maggioranza - prosegue la stessa dottrina - si era rivelato infatti di difficile applicazione, specialmente per la carenza di precisi criteri di conteggio e/o di ponderazione dei voti ai fini della formazione delle maggioranze (e anche per la difficoltà di definire, de jure condendo, i criteri stessi); ma anche per la difficoltà di identificare normativamente le amministrazioni legittimate ad intervenire nelle 161 F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 8-9. 175 conferenze (con il conseguente rischio che l’amministrazione convocante si trovasse in condizione di poter facilmente precostituire la maggioranza numerica con un’accorta gestione dell’elenco delle amministrazioni invitate a partecipare)”. Come evidenziato nella relazione di presentazione all’assemblea del Senato del 20 marzo 2003, “il criterio della maggioranza, introdotta dalla L. n. 340, propone dubbi ed incertezze interpretative di difficile soluzione (come si calcola la maggioranza, in presenza di amministrazioni di diversa natura e dimensione: regioni, comuni, province, comuni grandi e comuni piccoli, amministrazioni dello Stato, amministrazioni fortemente interessate e altre interessate solo marginalmente, ecc.), e pone problemi assai ardui già al momento della identificazione delle amministrazioni da convocare alle riunioni della conferenza”. Trova dunque affermazione quell’orientamento secondo il quale il superamento del dissenso deve intendersi non solo (come era insito nel sistema introdotto dalla legge n. 340 del 2000) in senso meramente e aridamente quantitativo-formale (ossia con riferimento al mero computo numerico del numero degli assensi e dei dissensi espressi), ma anche in un’ottica qualitativa-sostanziale, rilevabile in concreto162. In altre parole, nell’esercizio dei poteri sostitutivi i dissensi manifestati in conferenza, qualora in posizione minoritaria, potranno essere superati dall’amministrazione procedente soltanto motivatamente e ragionevolmente, con la conseguenza che, laddove le argomentazioni del diniego si appalesino come oggettivamente insuperabili - e nel caso in cui si eccepiscano vizi di legittimità tale aspetto è reso ancora più evidente -la determinazione conclusiva positiva non dovrebbe essere adottata163. La tesi appena prospettata trae la sua origine dalla preoccupazione che, attraverso una applicazione « selvaggia» del principio di maggioranza, si potesse aprire lo spazio per una proliferata diffusione di comportamenti illegittimi. 162 D. D’ORSOGNA, Spunti di riflessione sulla nuova conferenza di servizi, in “Cons. Stato”, 200l, 2, 688. 163 Argomentazioni in questo senso possono essere tratte anche da F. G. Scoca, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 1999, 285. Il tema dell’omessa o insufficiente motivazione, che di per sé integra una violazione dell’art. 3 della legge fondamentale sul procedimento, è stata efficacemente affrontata nella sentenza n. 2085 del 2003 della Sesta sezione del Consiglio di Stato, ove si impugnava un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto a seguito di rimessione degli atti della conferenza, da parte dell’amministrazione procedente, in presenza di un dissenso espresso in materia di tutela ambientale (caso di apertura una miniera, cui ostava la presenza di una falda acquifera). Nel caso di specie, si metteva in rilievo il deficit motivazionale che, in rapporto alle coordinate normative di riferimento, inficiava il provvedimento di determinazione sostitutiva. 176 Sembra dunque trovare conferma quella parte della dottrina secondo cui la regola maggioritaria, basata unicamente sulla prevalenza quantitativa, non sembra coincidere con una cura qualitativa degli interessi pubblici coinvolti164. Senza dimenticare, peraltro, che ciò potrebbe determinare una possibile violazione di competenze costituzionalmente garantite. In questa direzione si è mosso il nuovo disegno di riforma (legge n. 15 del 2005), sia nel senso - da ultimo considerato - di preservare le competenze costituzionalmente garantite ad enti locali e territoriali, sia nel nell’ottica di sostituire il criterio della maggioranza con quello della valutazione delle posizioni prevalenti, da operarsi a cura dalla amministrazione procedente (art. 10, comma l, lettera f). Come affermato da autorevole dottrina (Cerulli Irelli), “mentre il criterio della maggioranza è eminentemente soggettivo, nel senso che ad ogni Amministrazione partecipante corrisponde un voto, si può ritenere che il criterio della prevalenza vada riferito al tipo e all’importanza delle attribuzioni di ciascuna Amministrazione con riferimento alle questioni in oggetto. Ne deriva che per stabilire quale sia la posizione prevalente, l’Amministrazione procedente che è responsabile di questa determinazione, dovrà avere riguardo alle singole posizioni e le diverse Amministrazioni coinvolte assumono in sede di conferenza con riferimento al potere che ciascuna di esse avrebbe di determinare l’esito, positivo o negativo, del procedimento, in base alle singole leggi di settore di cui si tratta”. Altra parte della dottrina (Picozza) ha poi sottolineato come si sia passati dal criterio dell’unanimità a quello della maggioranza, sino all’altro (attuale) del “prudente apprezzamento”. Resta ferma, ovviamente, la particolare disciplina applicabile in presenza di dissensi concernenti interessi sensibili (ambiente, paesaggio, salute ed ora anche pubblica incolumità), nella cui ipotesi si procede ad una valutazione di secondo grado che sarà espressa, in via generalissima: a) da organi collegiali di governo (Consiglio dei ministri oppure giunte regionali, provinciali o locali), qualora il contrasto sorga tra amministrazioni appartenenti allo stesso livello di governo; b) da organismi istituzionalmente deputati alla “gestione” della leale collaborazione (Conferenza Stato-Regioni oppure Unificata), qualora il contrasto sorga tra amministrazioni riconducibili a diversi livelli di governo (si veda più avanti la specifica disciplina). È chiaro il rapporto, da regola a eccezione, tra il comma 2 e il comma 3 dell’art. 14-quater: il meccanismo della determinazione sostitutiva, in altre parole, scatta soltanto nel momento in cui si ravvisi la presenza di 164 G. TULUMELLO, La semplificazione procedimentale applicata all’urbanistica: profili problematici delle recenti riforme legilslative, in “Giur. it.”, 2002, 453. 177 amministrazioni portatrici di interessi sensibili all’interno di una minoranza dissenziente, e non di una maggioranza (o meglio, di una complessiva “posizione prevalente”) contraria all’intervento, nel qual caso - trovando applicazione il criterio della maggioranza (rectius, delle posizioni prevalenti) - la determinazione sarà negativa. Dunque, la regola è data dal fatto che in conferenza di servizi si prendono le decisioni finali sulla base del criterio della “prevalenza”, fatte salve le ipotesi in cui, tra i dissenzienti in minoranza, vi siano alcune amministrazioni portatrici di determinati interessi cosiddetti “sensibili” (es. ambiente, salute o paesaggio). In tal caso (eccezione), la decisione andrà assunta dall’organo collegiale individuabile secondo i parametri indicati dallo stesso comma 3165. La legge n. 15 del 2005 ha esteso l’area degli interessi sensibili anche alle tematiche concernenti la pubblica incolumità, con l’obiettivo di conferire il giusto rilievo agli aspetti concernenti le condizioni di sicurezza in. cui vengono concepiti e realizzati gli interventi oggetto di approvazione da parte della conferenza. La nozione di pubblica incolumità, peraltro non consueta nella nostra normazione positiva, e di contenuto assai ampio, coinvolge tutte le situazioni di pericolo in cui le persone possono trovarsi, da quelle concernenti fatti di ordine e sicurezza pubblica a quelle concernenti calamità naturali, o incidenti prodotti dall’uomo, o da opere dell’uomo, incendi, crolli di edifici, rottura di argini e così via. La norma perciò apre il dissenso qualificato a molteplici Amministrazioni, dalle forze 165 Al riguardo si è espressa la decisione n. 4568 del 2003 della sesta sezione del Consiglio di Stato. Nel caso di specie, la parte appellante riteneva che non si sarebbero potuti ritenere conclusi i lavori della conferenza di servizi, essendo stato espresso dissenso dalla Soprintendenza, vale a dire da un’amministrazione preposta a tutela del paesaggio e dell’ambiente, in applicazione dell’art. 14- quater, L. n. 241/1990; pertanto, la decisione andava rimessa al Consiglio dei Ministri (in quanto la soprintendenza deve intendersi quale organismo statale). Il Consiglio di Stato non ha condiviso tale impostazione, atteso che “l’art. 14-quater, L. n. 241/1990, nel prevedere al comma 2 che la conferenza di servizi delibera a maggioranza e al comma 3 che occorre la delibera del Consiglio dei Ministri, se il dissenso è espresso in conferenza di servizi da un’amministrazione statale preposta alla tutela del paesaggio, ambiente, territorio, patrimonio storico-artistico, salute, va interpretato nel senso che la delibera del Consiglio dei Ministri occorre solo nell’ipotesi in cui vi sia in conferenza di servizi una maggioranza favorevole e l’amministrazione statale preposta alla cura di interessi ambientali - paesistici etc. sia rimasta in minoranza; sicché si ritiene che la conferenza di servizi non possa concludere il procedimento, occorrendo la fase ulteriore in Consiglio dei Ministri; laddove invece l’amministrazione statale non sia l’unica dissenziente perché la maggioranza dei partecipanti alla conferenza di servizi si esprimano in senso negativo, il procedimento si conclude con la determinazione negativa della conferenza di servizi; e non occorre l’intervento del Consiglio dei Ministri’’. 178 dell’ordine, ai vigili del fuoco, al Corpo forestale dello Stato, agli uffici della protezione civile e così via (Cerulli Irelli). Al dissenso concernente interessi sensibili si accompagna inoltre, con la nuova riforma della L. n. 241, un nuovo e diverso tipo di dissenso riguardante la posizione (negativa) espressa da una amministrazione regionale in merito a materie costituzionalmente riservate alla regione stessa, ed a prescindere dalla presenza o meno di interessi sensibili. E questo in ragione della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha segnato, come è noto, una svolta in senso « federalista» nell’assetto delle funzioni e dei compiti demandati agli enti territoriali. Viene così inserita, come appena detto, una specifica ipotesi di dissenso regionale la quale, nel complesso, costituisce una eccezione alla regola della maggioranza, diversa ed ulteriore rispetto a quella prevista dal comma 3 dell’art. 14-quater, in quanto, prescindendo dalla presenza o meno di interessi sensibili, si estende all’intera area di materie costituzionalmente attribuite alla competenza, legislativa o amministrativa (si deve presumere), delle regioni. Ciò premesso, la disciplina della gestione del dissenso si articola, in particolare, nelle seguenti fasi: A. Nelle ipotesi in cui il dissenso verta su interessi sensibili (tra cui rientra ora anche il concetto di “pubblica incolumità”): A.1. Laddove il contrasto riguardi solo amministrazioni statali (valutazioni di primo livello), la soluzione sarà rimessa al Consiglio dei ministri (valutazione di secondo livello); A.2. Laddove il contrasto sorga tra una amministrazione statale ed una regionale, oppure tra amministrazioni regionali (ossia, appartenenti a due diverse regioni), la valutazione di secondo livello, in chiave risolutori a, sarà rimessa alla Conferenza Stato-Regioni; A.3. Laddove il contrasto riguardi una amministrazione statale ed una locale, oppure una amministrazione regionale ed una locale, la soluzione sarà riservata alla Conferenza Unificata. B. Nelle ipotesi in cui il dissenso incida su competenze regionali (la legge non distingue tra competenze legislative o amministrative, dunque si deve ritenere che entrambi i profili siano di conseguenza interessati): B.1. Laddove il contrasto sorga tra una amministrazione statale ed una regionale, oppure tra amministrazioni regionali (ossia, appartenenti a due diverse regioni), la valutazione di secondo livello, in chiave risolutoria, sarà rimessa alla Conferenza Stato-Regioni; B.2. Laddove il contrasto riguardi una amministrazione statale ed una locale, oppure una amministrazione regionale ed una locale, la soluzione sarà riservata alla Conferenza Unificata. C. Nelle ipotesi in cui la decisione (sia su interessi sensibili, sia su materie regionali) sia riservata ad una delle due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata), ossia nelle ipotesi sopra individuate A.2., A.3., B.1. e 179 B.2., qualora non si pervenga, entro i successivi novanta giorni, ad una soluzione (di secondo livello), si innesca una ulteriore fase (che potrebbe definirsi “valutazione di terzo livello”) davanti: C.1. Al Consiglio dei ministri, nelle ipotesi in cui si verta su competenze statali ai sensi degli articoli 117 e 118 Costo Tempo di definizione della questione: 30 giorni; C.2. Alla “competente Giunta regionale” negli altri casi (sul punto si svolgeranno più avanti alcune osservazioni critiche). In quest’ultimo caso, qualora non si pervenga ad una soluzione nei successivi trenta giorni, si rimetterà (in quarta istanza) la questione al Consiglio dei ministri, che delibera con la partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate (non è chiarito se con o senza diritto di voto. D. Infine, quale ipotesi residuale, è previsto che “in caso di dissenso tra amministrazioni regionali, i commi 3 e 3-bis (ossia in presenza di qualsiasi dissenso concernente interessi sensibili oppure materie strettamente regionali) non si applicano nelle ipotesi in cui le regioni interessate abbiano ratificato, con propria legge, intese per la composizione del dissenso ai sensi dell’articolo 117, ottavo comma, della Costituzione, anche attraverso l’individuazione di organi comuni competenti in via generale ad assumere la determinazione sostitutiva in caso di dissenso”. Sul piano dei termini a normativa, il comma 3 dell’art. 14-quater prevede che la deliberazione del Consiglio dei Ministri o dell’altro organo collegiale debba intervenire nel termine dì trenta giorni, a decorrere evidentemente dalla ricezione della richiesta dell’amministrazione procedente di pervenire al superamento del dissenso, prorogabile dal Presidente del Consiglio dei ministri, per la complessità dell’istruttoria, fino a sessanta giorni. Come si vedrà più avanti, per le decisioni rimesse alla Conferenza Stato-Regioni oppure a quella Unificata il meccanismo di superamento dei dissensi, di recente introduzione, è alquanto diverso. Si pone il problema della perentorietà dei termini in parola. Il problema è stato già affrontato, per la verità, con riferimento ai termini generalmente previsti per il procedimento ordinario della conferenza di servizi. Nonostante a sostegno della tesi negativa si ponga la pretesa caratterizzazione eccezionale dell’intervento dell’organo politico centrale, la soluzione della natura ordinatoria - già risolta positivamente in questo senso dal Consiglio di Stato - è suffragata dai seguenti elementi: a) il principio generale in tema di procedura amministrativa, ribadito dalla giurisprudenza con riguardo al termine per la definizione del procedimento amministrativo ai sensi dell’articolo 2 della L. n. 241/1990, è quello della natura non perentoria dei termini laddove la consumazione del potere decisorio non sia comminato da una previsione legislativa decadenziale, che nella specie difetta; 180 b) la soluzione della natura ordinatoria è in linea con la caratterizzazione pacificamente ordinatoria dei termini per la definizione della procedura base della conferenza di servizi, ai sensi della legge dell’articolo 14-ter, comma 3. Chiare esigenze di parallelismo impediscono allora di annettere un rilievo diverso, nell’un caso ordinatoria e nell’altro preclusivo-decadenziale, al decorso infruttuoso del termine per la definizione del procedimento; c) la soluzione della perentorietà inciderebbe negativamente sul diritto del privato, che abbia presentato l’istanza, alla definizione del procedimento amministrativo ai sensi dell’articolo 2 della L. n. 241/1990, impedendo in concreto la formale definizione della procedura con un provvedimento espresso. Da segnalare, poi, che la disposizione racchiusa nel comma l, lettera b), dell’art. 11 della L. n. 15/2005, nel recare modifiche all’articolo 14quater, comma 3, della L. n. 241/1990, distingue la complessità istruttoria (che comporta una proroga dei termini di sessanta giorni per l’esame da parte del Consiglio dei ministri o di altri organi esecutivi) dalla carenza istruttoria, che in tal caso dovrebbe impedire l’utile decorso dei termini (complessivamente indicati in 90 giorni) per la determinazione sostitutiva dell’organo collegiale di Governo o degli altri organismi istituzionali deputati alla gestione della leale collaborazione (Conferenza Stato-Regioni oppure Unificata). Con particolare riferimento al procedimento di secondo livello che si svolge davanti ad una delle due Conferenze di cui al decreto legislativo n. 281 del 1997, è intervenuto un importante parere del Consiglio di Stato (13 luglio 2005, n. 2140), il quale ha ritenuto che il nuovo art. 14-quater rende palese l’intento del legislatore di assicurare alla Conferenza (Stato-Regioni oppure Unificata) un termine “pieno” di 30 giorni (eventualmente prorogabili nei termini anzidetti) per l’assunzione della decisione sostitutiva. La ratio della disposizione in esame è, peraltro, anche quella di pervenire sollecitamente e, comunque, nel minor tempo possibile, alla definizione della questione con il superamento del dissenso. Ne consegue che l’interpretazione più coerente con la ratio e con le esigenze sottese dalla norma è quella che identifica il dies a quo, a far data dal quale debba decorrere il periodo di trenta giorni, nell’iscrizione all’ordine del giorno della Conferenza, in modo da assicurare a quest’ultima tutto lo spatium deliberandi previsto dalla legge. Deve peraltro ritenersi - prosegue lo stesso organo consultivo - che dalla stessa norma derivi anche l’obbligo, in linea di principio, di iscrivere all’ordine del giorno della prima conferenza utile la decisione sostitutiva richiesta. Tale esito sembra infatti discendere con chiarezza dalla natura eminentemente sollecitatoria delle disposizioni in esame, mentre a tale 181 dovere funzionale l’amministrazione (la Segreteria di una delle due Conferenze) potrà sottrarsi soltanto in caso di macroscopica e radicale assenza di documentazione, che metta l’organo collegiale nell’impossibilità di adottare qualunque decisione. Riepilogando, una volta ricevuta la documentazione trasmessa a seguito del dissenso, l’amministrazione procedente, ossia la Segreteria della Conferenza, dovrà pertanto provvedere, in linea di massima, all’iscrizione del relativo affare all’ordine del giorno della prima Conferenza utile, e sarà dalla data di questo primo esame dell’affare che inizierà a decorrere il termine di trenta giorni previsto dalla legge. La Segreteria, prima dell’iscrizione, dovrà sempre verificare, in ogni caso, la completezza della documentazione istruttoria, e acquisire una relazione sintetica da parte dell’amministrazione procedente e dissenziente. Come segnalato nel citato parere del Consiglio di Stato (n. 2140 del 2005), la disciplina relativa al superamento del dissenso, inoltre, “non può che riguardare le conferenze decisorie, e non le conferenze c.d. “istruttorie”, che provvedono ad un esame congiunto degli interessi coinvolti, ma non adottano determinazione conclusive”. La Conferenza (Stato-Regioni o Unificata), investita a seguito del motivato dissenso delle amministrazioni indicate dalla legge, è così chiamata a porre’in essere la decisione che, per il richiamato dissenso, la conferenza di servizi non è stata in grado di assumere; tale decisione non potrà pertanto che risolversi in una determinazione conclusiva del procedimento che, in adesione del dissenso, neghi le autorizzazioni od i nullaosta da acquisire, ovvero che, superando motivatamente il dissenso, li conceda. La decisione potrà, peraltro, in parte concedere ed in parte negare le autorizzazioni ed il nulla osta richiesti, non potendo escludersi che il motivato dissenso sia ritenuto soltanto in parte superabile”. In merito a tale particolare fase di gestione del dissenso, il citato parere del Consiglio di Stato ha altresì affermato, da un lato, che tutti i soggetti portatori degli interessi sensibili, come indicati dalle norme in questione, sono legittimati ad esprimere il “motivato dissenso” che dà origine alla rimessione della decisione agli organi collegiali che risultano competenti in base al tipo di conflitto: dunque, non deve esservi necessaria coincidenza tra amministrazioni dissenzienti ed organi istituzionali che compongono le due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata). E ciò in quanto i collegi deputati alla decisione sostitutiva sono stati indicati come tali dalla legge non in quanto capaci, per la loro composizione, di assicurare la presenza di tutte le amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi, quanto piuttosto per la loro idoneità a rappresentare e garantire adeguatamente la ponderazione degli interessi in gioco; dall’altro lato, che la composizione delle due Conferenze non può che essere quella istituzionalmente prevista dal D.L. n. 281 del 1997, con la 182 conseguenza che la rappresentanza di enti e soggetti eventualmente non presenti nella Conferenza dovrà essere assunta da soggetti istituzionali che compongono la Conferenza (le regioni potranno ad esempio assumere la rappresentanza degli interessi di enti regionali vigilati). Dovranno in ogni caso essere assicurate - prosegue il Consiglio di Stato - adeguate forme di pubblicità, da parte della Segreteria delle due Conferenze, volte a garantire l’informazione degli eventuali soggetti, promotori del dissenso, diversi da quelli che compongono la conferenza medesima. A tale ultimo riguardo, si segnala un recente atto della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Segreteria della Conferenza Unificata, concernente la “costituzione di gruppi tecnici per l’espletamento dell’attività istruttoria delle conferenze”. Fanno parte di tali organismi un rappresentante della segreteria della Conferenza stessa, un rappresentante del Ministero dotato della competenza primaria sull’oggetto del dissenso, un rappresentante della/e regioni territorialmente competenti, un rappresentante ciascuno per Anci, Upi, Uncem, nonché i rappresentanti dell’amministrazione procedente e di quelle dissenzienti. In questo modo vengono create apposite sedi tecniche con il compito di istruire le relative questioni e fornire indicazioni a supporto della decisione spettante alle conferenze. Non va sottaciuto come la valenza lato sensu politica, che assume la decisione collegiale (oppure interistituzionale, secondo le nuove linee adottate dal disegno di riforma sul dissenso regionale) di disattendere il responso dell’organo espressosi in senso negativo, in base ai principi di cui al D.L. n. 29/1993, delinei in realtà una significativa deroga al riparto di competenze tra organo di governo e ceto dirigente, che si concretizza nell’attribuzione al primo di una competenza relativa ad una determinazione puntuale esulante dalla sfera di indirizzo e di programmazione. Come si avrà modo di approfondire più avanti, parte della dottrina ritiene tale procedimento macchinoso ma inevitabile, e comunque reso indispensabile sulla base del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione (con il conforto della Consulta su questo punto), mentre altra parte degli studiosi lo hanno considerato inefficace e, peraltro, poco rispettoso del principio di separazione tra politica ed amministrazione. Nel corso del successivo paragrafo si svolgeranno alcune considerazioni di approfondimento sul tema dei rapporti con il nuovo Titolo V della Costituzione. 183 3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V della parte seconda della Costituzione A seguito della entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001, ci si é a lungo soffermati sulla persistente compatibilità costituzionale di una disciplina statale in tema di conferenza di servizi (e ovviamente, più a monte, di procedimento amministrativo), laddove siano concretamente coinvolti interessi regionali e locali166. A tale riguardo, si rammenta che l’impianto normativo della conferenza di servizi si articola su due livelli di valutazione: il primo necessario il secondo eventuale. Il primo livello di valutazione è ovviamente quello rimesso all’esame della conferenza di servizi in senso proprio, che deve concludere i propri lavori nel termine, legalmente fissato, di novanta giorni. Il secondo livello di valutazione è invece meramente eventuale, ricorrendo nelle ipotesi di dissensi espressi su interessi c.d. sensibili (paesaggio, ambiente, salute), ed è rimesso all’esame del Consiglio dei ministri, oppure degli altri organi collegiali di governo degli enti locali o territoriali (giunte regionali, provinciali o comunali) individuati secondo i parametri di cui all’art. 14-quater, comma 3, della L. n. 241/1990. Con la nuova legge di riforma, le valutazioni di secondo livello ricomprendono altresì, secondo particolari forme, i dissensi regionali. Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato affermato - in sede di relazione davanti all’assemblea del Senato della Repubblica167 - che “la competenza statale in materia potrebbe utilmente essere ricavabile da una serie di elementi contenuti nel secondo comma dell’art. 117 Cost. In linea generale è noto che, prima della riforma costituzionale del 2001, le norme sancite dalla L. n. 241 si applicavano a tutte le amministrazioni pubbliche, sulla base della qualificazione dei princìpi da essa desumibili come princìpi generali dell’ordinamento o princìpi di grande riforma, in quanto tali vincolanti anche per la legislazione regionale. Tuttavia, dopo la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, appare assai arduo sostenere che l’esercizio della competenza legislativa regionale incontri ancora il limite dei princìpi generali dell’ordinamento o dei princìpi di grande riforma. Secondo il nuovo articolo 117 Cost., infatti, i soli limiti che il legislatore regionale incontra sono rappresentati dalla Costituzione, dal vincolo comunitario e da quello internazionale. 166 M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V della Costituzione: analisi del quadro normativo attuale e di quello di imminente introduzione, in “Urb. App.”, n. 9/2004. 167 Depositata in data 20 marzo 2003 dal senatore Franco Bassanini. 184 Si deve inoltre aggiungere che, per come risulta oggi formulato l’articolo 117 Cost., la potestà legislativa della regione si estende non solo alla disciplina generale dell’attività amministrativa svolta dall’amministrazione regionale e dagli enti da essa dipendenti, ma anche a quella svolta da qualsiasi altra amministrazione pubblica, a meno che la potestà legislativa relativa non sia riservata allo Stato. Appare peraltro di particolare rilievo - al fine di radicare una persistente competenza statale in questa direzione - la riserva al legislatore statale, ai sensi della lettera m) dell’articolo 117, della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Mediante l’esercizio di tale potestà si possono imporre a tutte le amministrazioni obblighi attinenti ai servizi pubblici e alle prestazioni pubbliche volti a rendere effettivi i diritti civili e sociali riconosciuti ai cittadini. Ma anche l’amministrazione è un servizio, e così molte delle disposizioni generali sull’azione amministrativa sembrano rientrare nell’ambito di applicazione della lettera m) dell’articolo 117. Si pensi, ad esempio, ai termini massimi entro cui il provvedimento deve essere portato a conoscenza dell’interessato o ai princìpi della cosiddetta semplificazione amministrativa, ovvero all’imposizione di obblighi diretti a garantire a tutti la conoscibilità delle attività delle amministrazioni mediante la pubblicità dei provvedimenti e delle relative motivazioni. La previsione che la disciplina statale non possa andare oltre la determinazione dei livelli essenziali trova fondamento nel fatto che la configurazione concreta dell’attività da svolgere deve procedere di pari passo con quella degli assetti organizzativi degli apparati che esercitano l’attività amministrativa”. Si tratta, in sostanza, di un principio che si sta vieppiù affermando, soprattutto in sede di politica legislativa (si veda anche la legge annuale di semplificazione per il 2005), ossia quello dei “livelli minimi di semplificazione”. È, questa, una tesi che trova il suo principale fulcro nella definizione, legislativamente data ed introdotta con la legge n. 15 del 2005, del diritto di accesso quale livello essenziale di prestazione ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. Occorre tuttavia sottolineare come tale qualificazione non abbia indotto il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 6 del 2006 dell’Adunanza Plenaria, a considerare tale istituto alla stregua di diritto soggettivo [suggerita dalla stessa impostazione della citata lettera m)] piuttosto che di interesse legittimo. Si tratta in sostanza di etichette che il legislatore (statale) attribuisce ai vari istituti del procedimento amministrativo (si veda in tal senso il recente d.d.l. Nicolais, AS 1859, sfociato, poi, nel nuovo art. 29, l. 241/90, art. 8, con il quale si estende il concetto di livelli essenziali anche alla conclusione del procedimento, alla partecipazione, alla d.i.a./scia ed al silenzio-assenso, praticamente tutta la 185 241 (!) con il solo fine di sottrarre ampi spazi di intervento al legislatore regionale, ma senza che si riscontrino in tal senso adeguati supporti logici e sistematici per giustificare una simile scelta. Nella direzione appena illustrata, il richiamato disegno di legge, poi, in buona sostanza, recepito con le modifiche all’istituto conferenziale apportate nel successivo biennio di riforme 2009/2010, contiene alcune norme generali che regolano il rapporto tra fonti statali e regionali. In particolare: a) all’art. 19, comma 2, si prevede che “le regioni e gli enti locali, nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa, così come definite dai princìpi stabiliti dalla presente legge”. Dalla lettura della norma emerge come lo Stato abbia voluto fissare i c.d. “livelli minimi di semplificazione” dell’attività amministrativa, cui si dovranno attenere gli enti locali e regionali nell’ambito delle rispettive competenze. Livelli minimi che dovranno comunque essere desunti dai principi della L. n. 241 del 1990, come risulterà anche a seguito delle richiamate modifiche. Nel rispetto di tali “livelli minimi”, le regioni potranno quindi apportare, successivamente, modifiche nella parte di diretta e specifica regolazione della materia; b) all’art. 22, si prevede che “fino alla data di entrata in vigore della disciplina regionale di cui all’articolo 29, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, come sostituito dall’articolo 15 della presente legge, i procedimenti amministrativi sono regolati dalle leggi regionali vigenti. In mancanza, si applicano le disposizioni della L. n. 241/1990 come modificata dalla presente legge”. Si tratta in sostanza di una tipica clausola di cedevolezza, volta ossia ad affermare la validità delle prescrizioni statali anche di dettaglio, nell’ipotesi in cui non vi abbia ancora provveduto il legislatore regionale (nel limite dei “livelli minimi di semplificazione” fissati dalla L. n. 241). Si tratta, dunque, di salvaguardare esigenze pratiche di funzionamento del sistema, nonché il rispetto dei diritti civili, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, almeno sino a quando il legislatore regionale non avrà provveduto concretamente ad attivare l’esercizio delle proprie competenze168. 168 Per la verità, sono sorti diversi dubbi circa la legittimità costituzionale di tale istituto all’indomani della riforma costituzionale del 2001, che fissa un criterio di riparto molto più marcato rispetto al precedente sistema; Tuttavia, dottrina (Caravita) e giurisprudenza (cfr. Corte Costituzionale, sent n. 13 del 2004, in materia di istruzione e individuazione delle dotazioni organiche), hanno cominciato ad ammettere qualche residuale spazio in questo senso, proprio per la salvaguardia dei livelli minimi di funzionamento del sistema istituzionale. 186 Qualche considerazione critica al riguardo. Già la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 465 del 1991, aveva avuto modo di sottolineare come il procedimento amministrativo non coincida con uno specifico ambito materiale di competenza, in quanto modo di esercizio delle diverse competenze; ne consegue che la disciplina dei vari procedimenti dovrà essere affidata a fonti statali o a fonti regionali, a seconda che gli stessi attengano all’esercizio di competenze materiali proprie dello Stato o delle regioni. E questo tanto più ove si consideri la connessione naturale esistente tra la disciplina del procedimento e la materia dell’organizzazione, connessione che conduce a individuare nella regolamentazione ad opera della regione dei procedimenti amministrativi di propria spettanza un corollario della competenza regionale, richiamata nell’art. 117 della Costituzione (nel testo allora vigente), concernente l’ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalle regioni. Se si vuole, la Corte adotta un ragionamento analogo a quello sostenuto, nella sentenza n. 303 del 2003 (e poi sostanzialmente ribadito nella decisione n. 401 del 2007, riguardante il codice dei contratti), in tema di appalti pubblici, i quali a loro volta non costituiscono una materia a sé stante, quanto piuttosto un settore che accede alla materie che, di volta in volta, si intende regolare: così per gli appalti in materia di difesa e beni culturali (entrambi di competenza statale), porti ed aeroporti, nonché governo del territorio (entrambi di competenza concorrente), etc. Con l’unica differenza che, mentre in tema di appalti il Codice dei contratti, all’art. 4, ha integralmente recepito le indicazioni della Consulta, non altrettanto pare avere fatto il legislatore del 2005 sul procedimento amministrativo. Si osserva infatti come nel codice appalti si distinguano aspetti riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato (es. tutti gli aspetti relativi alla concorrenza, tra cui il sistema di qualificazione oppure di aggiudicazione), alla competenza concorrente (es. sicurezza del lavoro) ed a quella residuale regionale (es. organizzazione amministrativa): nel primo caso, le disposizioni del codice valgono tout court nei confronti delle regioni; nel secondo caso, come norme di principio; nel terzo, come norme cedevoli. È agevole osservare come una strutturazione di questo genere sarebbe stata salutata con maggior favore per quanto riguarda la legge generale sul procedimento amministrativo, caratterizzata invece (art. 29, come modificato) da una formulazione ambigua e, a tratti, poco comprensibile. In altre parole, si poteva articolare l’efficacia della legge 241 a seconda che il procedimento amministrativo riguardasse: a) ambiti di competenza legislativa esclusiva statale (es. ambiente e beni culturali): in questo caso, le competenze amministrative eventualmente attribuite, in tali materie, a regioni ed enti locali, 187 sarebbero state esercitate nel rispetto integrale (principi e dettaglio) della legge 241; b) ambiti di competenza legislativa concorrente (es. governo del territorio): in tal caso, la legge 241 sarebbe risultata applicabile in quanto legge recante principi fondamentali (es. sui termini massimi o minimi), come del resto secondo l’originaria formulazione dell’art. 29, adottata in costanza del vecchio titolo V. Di conseguenza, le norme di dettaglio della 241, in tali materie, sarebbero risultate cedevoli rispetto alla sopravvenuta legislazione regionale; c) ambiti di competenza legislativa residuale regionale (es. commercio): in questa ipotesi, la legge 241 sarebbe stata applicabile come normativa integralmente cedevole. Venendo alla Conferenza di servizi, è chiaro che lo schema sopra illustrato avrebbe conservato validità sino a quando si fosse trattato di procedimenti interamente regionali o locali. Qualora fossero entrati in gioco interessi statali (per la verità, la maggioranza delle ipotesi), probabilmente lo schema delineato dal legislatore statale, come vedremo in applicazione del criterio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., avrebbe in ogni caso prevalso, anche in considerazione della particolare disciplina sul secondo livello di valutazioni. Come già anticipato, diversa è stata la scelta di politica legislativa, adottata anche nel d.d.l. Nicolais (AS 1859), in cui si giustifica l’intervento statale a tutto campo sulla base di una certa lettura - per la verità assai generosa - del concetto di livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art. 117 Cost., secondo comma, lettera p). In ordine al secondo aspetto, concernente le valutazioni di secondo livello per la relativa gestione dei dissensi qualificati, assume particolare significato il D.P.R. n. 383/1994 (relativo alla localizzazione di opere pubbliche, e sulla cui disciplina si rinvia al paragrafo 12), laddove è stabilito - in deroga alla disciplina generale che ormai prevede l’applicazione del criterio della maggioranza ai fini della adozione del provvedimento conclusivo - che la conferenza di servizi debba concludersi, nel primo stadio di valutazione, con l’assenso di tutti gli enti partecipanti, e dunque anche delle regioni (con le quali, anzi, si dovrebbe prima di tutto raggiungere l’intesa) e degli enti locali. Si tratta di una previsione antesignana, concepita in un momento precedente all’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, che si muove nel pieno rispetto delle autonomie locali ed alla quale si è accompagnata l’introduzione, di carattere pretorio, di un meccanismo analogo anche in tema di Sportello Unico per le attività produttive (D.P.R. n. 447/1998 e 106/2010), laddove è previsto - per espressa statuizione della Corte Costituzionale con la sentenza n. 206 del 200l - il necessario assenso della regione (o meglio, l’impossibilità di superare il suo dissenso con il 188 mero criterio della maggioranza) in ordine alle varianti agli strumenti urbanistici. Tale meccanismo (necessaria intesa con le regioni nell’ambito delle valutazioni di primo livello) ha pressoché trovato generale applicazione (fatta eccezione per alcuni casi particolari, come le comunicazioni) con l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 200l: è il caso, ad esempio, del D.L. n. 7/2002 (c.d. “sbloccacentrali”). Si tratta altresì di un meccanismo - quello volto all’acquisizione del necessario assenso regionale - che era tuttavia limitato, nel quadro normativo anteriore all’entrata in vigore della L. n. 15/2005, alle sole valutazioni di primo livello, e non anche a quelle di secondo livello. Ci si è allora domandato se il meccanismo dell’intesa dovesse essere o meno esteso anche a tale ultima fase. Una prima risposta positiva in questa direzione poteva agevolmente ricavarsi da alcune sentenze della Corte Costituzionale (rispettivamente n. 303 del 2003, n. 6 e n. 27 del 2004), dal cui complessivo esame si ricava che tali intese, vertendo anche su materie di interesse regionale (opere pubbliche, energia, etc.), debbano essere considerate “in senso forte” (cfr. sentt. n. 303 e n. 6), ossia non altrimenti superabili se non dopo avere esperito ogni “sforzo” utile e necessario per la loro acquisizione da parte dello Stato (cfr. sent. n. 27 del 2004): di qui, l’esigenza che il principio di leale collaborazione tra Stato e regioni trovasse spazio non solo all’interno delle valutazioni di primo livello (intesa Stato-Regioni per il rilascio del provvedimento costitutivo di effetti, come nel decreto “sbloccacentrali”), ma anche all’interno delle valutazioni (eventuali) di secondo grado169. In particolare, la Corte Costituzionale ha rilevato che: a) ogni ordinamento federale, ispirato a rigidi criteri di separazione delle competenze, conosce clausole di flessibilità, in deroga ai principi di riparto, utilizzabili per imprescindibili istanze di unificazione; b) nella nostra Costituzione, tale elemento di, flessibilità è rinvenibile nell’art. 118 Cost., il quale consentirebbe allo Stato di assumere, in base ai principi di sussidiarietà ed adeguatezza, funzioni amministrative per esigenze di carattere unitario, anche in materia riservate alla legislazione regionale (sia concorrente, sia residuale); c) sulla base del principio di legalità cui è sottoposto l’esercizio di ogni attività amministrativa - e dunque anche di quelle “assunte in sussidiarietà” - le funzioni ricondotte allo Stato debbono essere disciplinate con norme di legge, che solo lo Stato, per ragioni di uniformità, può porre in essere; d) l’assunzione in sussidiarietà, quale deroga al sistema di competenze, deve sottostare a due specifiche condizioni: in primo luogo, la 169 M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 1003. 189 riconducibilità allo Stato della funzione amministrativa (e di conseguenza di quella legislativa) deve rispondere a criteri di proporzionalità e ragionevolezza; in secondo luogo, la funzione in esame deve essere amministrata secondo il principio di leale collaborazione, e dunque attraverso intese ed accordi con le regioni “espropriate”. In particolare, il principio della leale collaborazione opera in senso assoluto, in quanto il corretto esercizio della funzione amministrativa non può prescindere dal mancato raggiungimento dell’intesa. Di qui, la necessità che la mancanza di una intesa di primo livello non potesse essere superata sic et simpliciter da una determinazione unilaterale del Consiglio dei ministri, se non dopo avere esperito ogni tentativo utile, e dunque anche in sede di valutazione di secondo grado, per superare detto impasse. Pertanto, anche in caso di decisione rimessa al Consiglio dei ministri, vuoi per la valutazione di dissensi concernenti interessi sensibili, vuoi per la presenza di dissensi regionali su materie di loro competenza, si è ritenuto che la relativa decisione avrebbe dovuto essere adottata, secondo lo schema avallato dalla Corte Costituzionale, mediante intesa (o comunque mediante forme “rafforzate” di leale collaborazione) con la regione interessata; e ciò sia per i procedimenti ordinari ascrivibili tout court alla L. n. 241 del 1990, sia per quelli speciali, previsti da determinate normative di settore (cfr. D.P.R. n. 383/1994 e D.P.R. n. 447/1998). In tale ottica si è mossa pienamente la L. n. 15/2005: il nuovo art. 14quater prevede infatti - come già evidenziato in precedenza - due ipotesi di “dissenso qualificato”: a) il dissenso in materia di interessi sensibili (ora esteso anche alla pubblica incolumità), che viene “gestito” dal Consiglio di ministri in caso di conflitto tra amministrazioni statali; dalla Conferenza StatoRegioni in caso di conflitto tra amministrazioni statali e regionali oppure tra più amministrazioni regionali; dalla Conferenza Unificata in caso di contrasto tra amministrazioni statali (o regionali) e locali, o tra più amministrazioni locali; b) il dissenso di una regione in materia di competenza regionale, che viene “gestito” nelle stesse forme indicate al punto precedente, ossia davanti ad una delle due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata). Viene dunque inserita una specifica ipotesi di dissenso regionale la quale, nel complesso, costituisce una eccezione alla regola della maggioranza diversa ed ulteriore rispetto a quella prevista dal comma 3 dell’art. 14-quater, in quanto, prescindendo dalla presenza o meno di interessi sensibili, si estende all’intera area di materie costituzionalmente attribuite alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle regioni. 190 Appare ovvio che le due ipotesi ben possono simultaneamente verificarsi: la formulazione della norma è comunque tale da evitare notevoli problemi applicativi di coordinamento testuale. Sembrerebbe altrettanto pacifico che, laddove si parli di conflitti tra più amministrazioni regionali, il riferimento è ad amministrazioni che fanno parte di due diversi enti regionali, e non ad articolazioni della stessa Regione. A conferma di tale interpretazione sta il successivo comma 3-quater dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990, introdotto dall’art. 11 del d.d.l., che prevede proprio la deroga al ricorso alla Conferenza Stato-Regioni, nelle ipotesi in cui le due regioni di riferimento abbiano stipulato intese di coordinamento ai sensi dell’art. 117, ottavo comma, Cost. Se ne deduce, da tale lettura, che la norma statale di nuovo conio si riferisce ai soli conflitti “esterni”, e non anche a quelli “interni” (ossia tra più amministrazioni della stessa regione o dello stesso ente locale), che saranno di conseguenza disciplinati dalle rispettive norme regionali e dai regolamenti locali. Occorre evidenziare come il contrasto tra amministrazioni statali (oppure regionali) ed enti locali, debba essere circoscritto alle sole ipotesi in cui: 1. L’ente locale sia amministrazione procedente; 2. L’ente locale sia dissenziente, ma unicamente in relazione alla tutela di interessi sensibili, e non anche di interesse regionale (di qui, la persistente “specialità” della disciplina di cui al D.P.R. n. 883, che invece prevede il ricorso alla valutazione di secondo livello anche nelle ipotesi di dissenso dell’ente locale non necessariamente concernente un interesse sensibile, tanto più che la maggior parte delle volte - come nel caso prospettato dalla sentenza in epigrafe - la posizione negativa dei comuni riguarda più propriamente l’assetto dei parametri urbanistici). Lo Stato si è qui preoccupato di disciplinare situazioni in cui l’ente locale eserciti funzioni di amministrazione procedente, oppure risulti comunque titolare di interessi sensibili, di competenza esclusiva statale. In sostanza, le disposizioni di cui ai commi 3, 3-bis e 3-quater dell’art. 14-quater; come introdotti dall’art. 11 della legge di riforma, sembrerebbero costituzionalmente conformi al quadro di riparto delle competenze, nonché ai recenti dettami della Corte Costituzionale in tema di sussidiarietà e di leale collaborazione, che consentono allo Stato di intervenire anche in settori di competenza concorrente (sentenza n. 808 del 2003) o addirittura residuale (sentenza n. 6 del 2004) delle regioni: infatti, in questi casi la decisione sostitutiva viene assunta in sede di Conferenza Stato-Regioni oppure Unificata, ossia all’interno dei due organi che 191 costituiscono, al momento, la massima espressione istituzionale del canone di leale collaborazione170. Al riguardo, appare quanto meno doverosa una puntualizzazione: infatti, la Conferenza Stato-Regioni (oppure quella Unificata) non è precisamente qualificabile come un organo propriamente statale (in termini, Corte Costituzionale, sentenza n. 116 del 1994), né ovviamente appartenente all’ordinamento regionale, quanto piuttosto quale “sede privilegiata del confronto e della negoziazione politica tra lo Stato e le regioni”, ossia come “istituzione operante nell’ambito della comunità nazionale”, in funzione di “strumento per l’attuazione della cooperazione tra lo Stato, le regioni e le province autonome”. Ne deriva che, pur non essendo direttamente qualificabile come “organo statale”, si potrebbe comunque definire, la stessa istituzione, come “organismo di coordinamento interistituzionale di derivazione statale’’, In estrema sintesi si confermerebbe, anche sul piano del procedimento amministrativo di generale applicazione. (e non solo in quello di settore, come attualmente riscontrabile), la necessità dell’assenso regionale, su materie di stretta competenza costituzionale, nelle valutazioni di primo livello; inoltre, anche nelle successive (ed eventuali) valutazioni di secondo livello, dovrà essere raggiunta l’intesa tra Stato ed autonomie locali o territoriali, ai fini della adozione della determinazione sostitutiva. Dunque, sembra trovare rispondenza il quadro che ha di recente “ricostruito” la Corte Costituzionale con le sentenze prima richiamate (n. 803 del 2008 e n. 6 del 2004), giacché la decisione in capo alla Conferenza Stato-Regioni, secondo il sistema di recente introduzione, viene nel complesso giustificata da esigenze unitarie oppure dal rispetto dei livelli minimi di semplificazione (garantire al cittadino una decisione, possibilmente in tempi sicuri e celeri), nonché sempre adottata nel rispetto del canone di leale collaborazione, e dal quale non è possibile prescindere (di qui, l’intesa anche nel secondo livello di valutazione). Alcuni studiosi (Gardini) hanno avuto modo di sottolineare che, di fronte a interessi così rilevanti per l’ordinamento e dinanzi alla pari dignità dei soggetti che costituiscono la Repubblica, si ritiene opportuno affiancare - nei procedimenti di secondo livello, si intende - alla tecnica della prevalenza quella della mediazione, per quanto limitatamente a materie specifiche e a interessi qualificati. Nel nuovo quadro costituzionale il metodo concertativo viene quindi a sostituirsi a quello maggioritario. Come sarà più avanti evidenziato, al di là delle critiche che parte della dottrina (Bin) ha riservato, sul piano della compatibilità costituzionale, a tale scelta del legislatore, si deve osservare che la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 886 del 2005 sul Codice delle comunicazioni elettroniche, 170 Ivi, 1017. 192 ha invece considerato, in un importante obiter dictum, che la salvaguardia delle attribuzioni regionali, dopo le modifiche apportate all’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990 dall’art. 1l della legge 11 febbraio 2005, n. 15, “passa - nel caso in cui il dissenso verta tra una amministrazione statale ed una amministrazione regionale - attraverso il coinvolgimento diretto della Conferenza Stato-Regioni”. Cosa succede se non viene raggiunta l’intesa con la Regione, nemmeno nella seconda fase? La risposta potrebbe essere ricavata da una pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 27 del 2004), ove si afferma, in sintesi, che nell’ipotesi in cui l’ordinamento preveda il raggiungimento dell’intesa per l’adozione di determinati atti (si trattava, nel caso di specie, di nomina del direttore di un ente parco ai sensi della L. n. 894/1991), lo Stato deve attivare tutte le risorse necessarie per addivenire a tale forma di accordo, e soltanto dopo avere esperito ogni tentativo di intesa con la Regione, allora, può emettere atti motu proprio, prescindendo eccezionalmente dall’intervento regionale (sempre nel caso di specie, si trattava di nomina governativa di un commissario straordinario, nell’attesa della definizione dell’ordinaria procedura di nomina). Nell’ottica appena delineata si colloca altresì la previsione di cui al comma 3-ter introdotto dalla L. n. 15/2005, che prevede un intervento finale del Consiglio dei ministri, pure definibile “di ultima istanza” (per la precisione, la quarta), dato che esso sopravviene soltanto all’esito di una serie di tentativi diretti a risolvere la questione davanti agli organi costituzionalmente competenti (Conferenza Stato-Regioni e “competente” giunta regionale). Potere finale di intervento che trova altresì conferma in un’altra fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale, la n. 274 del 2003, in cui si è affermato, con riferimento alla delimitazione dei poteri di impugnativa delle leggi regionali ai sensi dell’art. 127 Cost., che lo Stato, pur in considerazione del nuovo assetto costituzionale delineato dall’art. 114 Cost. (che ha introdotto il concetto di “equiordinazione” o di “pari dignità istituzionale”), si trova comunque in una “peculiare posizione istituzionale” nei confronti degli altri soggetti dell’ordinamento. Notevoli dubbi di compatibilità costituzionale e di pratica applicabilità suscita invece il successivo comma 3-ter, il quale prevede, in sintesi, che: a) in caso di inosservanza dei termini previsti per la determinazione sostitutiva di una delle due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata), la decisione viene ulteriormente assunta (in sussidiarietà) da parte dello Stato, nelle sole materie, tuttavia, di competenza statale (o meglio, ove si riscontra “anche” una competenza statale); b) nelle materie che non sono di competenza statale (e dunque, in caso di contrasto tra regioni oppure tra regioni ed enti locali), la decisione viene rimessa alla competente giunta regionale; 193 c) in quest’ultima ipotesi, qualora anche la giunta regionale non provveda nei termini stabiliti per legge, interviene (questa volta in quarta battuta) il Consiglio dei ministri, con la partecipazione del Presidente della giunta interessata. In primo luogo, si nutre qualche dubbio sulla avocazione in sussidiarietà in capo allo Stato (sub lettera c), in via generale ed astratta (seppure in quarta istanza), di una funzione suppletiva ricadente in materie di competenza regionale, atteso che, secondo i principi stabiliti dalla Consulta, questo può sì avvenire, ma in via eccezionale, ossia in relazione a singole ipotesi in cui si ravvisino insuperabili esigenze di carattere unitario (grandi opere, impianti energetici, etc.). Piuttosto, sarebbe stato più opportuno in questa ipotesi (sub lettera c), l’attivazione delle forme sostitutive previste dall’art. 8 della L. n. 131/2003, di diretta attuazione dell’art. 120 Cost., che da un lato presenta forti analogie con il sistema indicato dal citato comma 3-ter (tanto che si potrebbe anche parlare, in relazione al comma 3-ter di prossima introduzione, di attuazione “in forma atipica” dell’art. 120 Cost.), e dall’altro lato è comunque connotato da maggiori garanzie procedimentali, in quanto prevede, in linea generale, l’invio di una diffida alla regione interessata, nonché, nei casi più gravi (non disciplinati invece dal disegno di legge), la possibilità di attivare procedure di urgenza (comma 4 del citato art. 8). In secondo luogo, la discrasia più evidente - tale da arrecare seri problemi di funzionalità al sistema e dubbi di legittimità costituzionale sul piano della ragionevolezza - è quella di cui alla lettera b) dello schema, in quanto non si comprende, in caso di conflitto tra più regioni (da risolvere dunque in seno alla Conferenza Stato-Regioni ai sensi del comma 3-bis, lettera b), quale debba essere la “competente giunta regionale” con funzione dirimente, qualora la stessa Conferenza Stato-Regioni non si sia pronunziata nei termini. 4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del 2005: spunti per una soluzione percorribile In disparte queste ultime notazioni, la dottrina - pur con qualche distinzione - si è in ogni caso quasi unanimemente espressa nel senso della compatibilità (o inevitabilità) costituzionale di tale disciplina. Secondo Cerulli Irelli171, “si tratta di una disciplina del tutto innovativa (art. 14-quater, commi 3, 3-bis, 3-ter, 3-quater, 3-quinquies) intesa, tra l’altro, a dare ordine alla disciplina alla conferenza di servizi, 171 V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/90 - III parte, p. 6. 194 laddove questo strumento venga utilizzato per la composizione di pluralità di interessi pubblici facenti capo a diversi livelli di governo, le cui attribuzioni sono costituzionalmente garantite. Appare, invero, un pò macchinosa; ma non è facilmente immaginabile una disciplina alternativa più semplice, tenuto conto delle rigidità derivanti dalla Costituzione, nei rapporti tra le attribuzioni spettanti ai diversi livelli di governo”. Per alcuni, infatti, una maggiore complessità può essere la naturale conseguenza della più complessa articolazione dell’assetto istituzionale che è tipica dei contesti di multilevel governance, con conseguente maggiore complicazione dei meccanismi decisionali172. Sempre su tale tematica, qualche dubbio è stato invece avanzato come già anticipato al paragrafo 2 - da coloro (Picozza) che ritengono leso in questo modo il principio di separazione tra politica e amministrazione, dal momento che, mentre in sede di primo livello di valutazione sono i dirigenti competenti ad assumere posizioni vincolanti per l’amministrazione, nel secondo livello di valutazione tale scelta è rimessa ad organi politici (Consiglio dei ministri oppure Conferenze ex D.L. n. 281/97). Si tratterebbe dunque di disattendere il responso dell’organo espressosi in senso negativo nel primo livello della conferenza di servizi, in base ai principi di cui al D.L. n. 29/1993, che giustificherebbe una significativa deroga al riparto di competenze tra organo di governo e ceto dirigente e che si concretizza nell’attribuzione al primo di una competenza relativa ad una determinazione puntuale esulante dalla sfera di indirizzo e di programmazione. In questa medesima direzione critica, è stato altresì affermato che “questa soluzione, certamente ispirata a garantire una tutela differenziata a interessi costituzionalmente rilevanti come quello della tutela ambientale o della salute pubblica, suscita qualche perplessità di natura sistematica, in quanto di fatto tende a sostituire valutazioni eminentemente tecniche con valutazioni politiche o comunque di “alta amministrazione” in deroga ai principi generali di separazione di funzioni previste dal D.L: n. 165/2001”173. Come già anticipato, detta conformità rispetto alla novella costituzionale del 2001 è stata in ogni caso sottolineata non solo dalla dottrina174 ma anche dalla Consulta, nella sentenza n. 336 del 2005, con riferimento alle procedure per l’installazione di infrastrutture di telecomunicazione, adottate ai sensi del D.L. n. 215 del 2003 (artt. 87 e 88): nell’occasione la Corte ha infatti considerato, in un importante obiter dictum; che la salvaguardia delle attribuzioni regionali, dopo le modifiche 172 Ivi, p. 6. G. CUGURRA, G. FANTINI, Conferenza di Servizi: profili generali e aspetti applicativi nel settore ambientale, in “RPA Rivista” n. 5, settembre-ottobre 2004. 174 F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 29. 173 195 apportate, all’art. 14-quater della L. n. 241 del 1990, dall’art. 11 della L. n. 15 del 2005, “passa - nel caso in cui il dissenso verta tra una amministrazione statale ed una amministrazione regionale - attraverso il coinvolgimento diretto della Conferenza Stato-Regioni”. La difficoltà del meccanismo descritto risiede tuttavia nel momento della sua pratica attuazione. Infatti: - la Conferenza Unificata decide di regola all’unanimità, mentre il criterio maggioritario scatta in via residuale e soltanto per gli enti territoriali (art. 9, comma 4, del D.L. n. 281 del 1997); - la stessa Conferenza decide inoltre “per corpi”, e non “per teste”, il che rende ancora più complesso il meccanismo decisionale. Allo stesso modo, si è sostenuto che l’introduzione delle Conferenze (Stato-Regioni e Unificata) nel modello della conferenza (di servizi) genera incertezza sulla tenuta dell’assetto complessivo del sistema, poiché in tal modo vengono chiamati ad esprimersi su decisioni tecniche e strettamente connesse al territorio (come quelle che tipicamente sono oggetto delle conferenze di servizi) organi titolari di una rappresentanza non territoriale ma di “corpo” (il Governo, il sistema regionale nel suo complesso, l’insieme delle autonomie locali); - la composizione della Conferenza Unificata riflette quella già prevista dal D.L. n. 281 del 1997. Dunque, in numerosi casi non vi sarebbe perfetta coincidenza tra i soggetti istituzionali, preposti alla cura di determinati interessi (es. sovrintendenze, ARPA e USL, nonché i singoli comuni e province), che hanno espresso il dissenso, e quelli presenti in conferenza, i quali possono essere sì rappresentativi dei primi, ma soltanto in senso lato ed esponenziale. Questo meccanismo di superamento del dissenso pone le conferenze intergovernative nella condizione di dovere rappresentare amministrazioni tecniche volutamente collocate al di fuori del circuito politico (si pensi ad esempio alle ASL, alle sovrintendenze). La particolare posizione degli enti locali, i cui rappresentanti in Conferenza Unificata sono individuati dalle associazioni delle autonomie, secondo un sistema di rappresentanza indiretta, rende inoltre oltremodo difficile una reale tutela degli interessi localizzati su di un determinato territorio). Il meccanismo opererebbe perciò nella direzione di abbassare la soglia di protezione di quegli interessi “sensibili” (“privilegiati” in quanto costituzionalmente protetti), subordinandoli agli interessi politici contingenti. Il Consiglio di Stato, nel parere n. 2140 del 2005, ha sottolineato non a caso l’esigenza di invitare i soggetti procedenti e dissenzienti (spesso non direttamente rappresentati in seno alla Conferenza Unificata) almeno all’interno dei tavoli tecnici preparatori. 196 Come evidenziato da autorevole dottrina175, la Conferenza non sarebbe inoltre dotata di strumenti adeguati per affrontare e risolvere decisioni così specifiche e “localizzate”, tanto che la stessa legge Obiettivo ha a sua volta distinto gli atti ad essa sottoposti, di carattere generale e programmatico (elencazione delle grandi opere), da quelli, di contenuto più specifico (ossia la localizzazione delle singole opere pubbliche), da riservare invece alle intese bilaterali Stato-Regione. Nell’ultima direzione appena illustrata si colloca anche chi ritiene che la conferenza di servizi è diretta ad adottare decisioni efficaci ed efficienti. Tuttavia, «decidere vuol dire tagliare, e per tagliare bisogna avere strumenti adeguati: la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza Unificata non saranno mai strumenti adeguati a “tagliare” i conflitti che demanda loro la legge 15. Essi sono organi di rappresentanza - mediazione generale degli interessi territoriali, di per sé impossibilitati ad affrontare conflitti di interesse che sorgano su questioni localizzate». In ulteriore analisi, è stata stigmatizzata la singolarità di un modello in cui le Conferenze sarebbero chiamate a decidere - con la necessaria partecipazione dei rappresentanti dello Stato - anche nel caso in cui il dissenso non coinvolga amministrazioni statali, ma solo amministrazioni regionali tra loro, o solo amministrazioni locali, o addirittura solo una amministrazione regionale ed un ente locale della medesima Regione, con l’effetto di ricondurre a livello nazionale una decisione che potrebbe, invece, essere adottata nelle sedi di concertazione regionale presenti ormai in tutti gli ordinamenti regionali e previsti dalla stessa Costituzione. Si è posta, a vari livelli, l’esigenza di una soluzione normativa che definisca le problematiche sopra evidenziate. A tal fine, occorre in ogni caso premettere che: - recuperare tout court il vecchio modello, ove la decisione di secondo livello era da riservare al Consiglio dei Ministri qualora sorgesse un contrasto tra Stato e regioni oppure tra Stato ed enti locali, potrebbe far emergere questioni di legittimità costituzionale, anche alla luce della richiamata sentenza n. 886 del 2005 della Corte Costituzionale. Motivo, questo, che se da un lato induce a confermare in linea di massima il disegno riformatore del 2005, dall’altro lato spinge in ogni caso a prevedere forti correttivi all’attuale meccanismo, soprattutto sul piano della consistenza qualitativa e quantitativa dell’organo chiamato a decidere in via suppletiva (opinabile in questo senso è invece il d.d.l. AS 1532, che torna invece al vecchio modello, senza nemmeno contemplare la partecipazione dei Presidenti di regione all’interno del Consiglio dei ministri); 175 R. BIN, Dissensi in Conferenza di servizi e incauto deferimento della decisione alle “Conferenze” intergovernative: le incongruenze della L. 15/2005, in www.forumcostituzionale.it, p. 3. 197 - non vi sono preclusioni nel rimettere la decisione di secondo livello ad un organo di matrice spiccatamente politica, dato che una previsione di questo genere era già contemplata prima del varo della L. n. 15/2005, ossia quando la decisione sostitutiva era riservata al Consiglio dei Ministri; - è bene in ogni caso che nelle decisioni di secondo livello i soggetti procedenti e dissenzienti siano adeguatamente (e non solo latamente ed esponenzialmente) rappresentati; - occorre poi garantire una decisione, di natura sostitutiva, che al tempo stesso risulti certa, raggiungibile in termini ragionevolmente brevi e rispettosa delle diverse istanze territoriali: in altre parole, una sede dove si possano conciliare i valori dell’efficienza e della semplificazione con le garanzie delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda la conferenza di servizi, in particolare, l’auspicio è che i diversi livelli di governo interessati da questa tecnica decisionale siano in grado di dare vita ad un nuovo modello di azione amministrativa, fondato sul metodo collaborativo e sul rispetto dell’interesse pubblico come sintesi dei diversi interessi istituzionali. Nella fase di secondo livello - che scatta in presenza di dissensi qualificati - si dovrebbe allora sostituire il metodo della prevalenza con quello della concertazione e della mediazione, attraverso l’utilizzo delle più efficaci tecniche conciliative cui assai di rado si ricorre, ad oggi, nell’ambito dell’azione amministrativa. Strategica, sul punto, appare l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118 Cost., temperato - come più volte messo in evidenza dalla Consulta - dal metodo della leale collaborazione. Come evidenziato da autorevole dottrina (Bin), la ricerca dell’unanimità è dunque la via maestra. - in relazione alla dimensione dell’affare, sarebbe comunque necessario riservare all’ambito regionale la cura degli interessi non direttamente tutelati da amministrazioni statali. Alla luce delle considerazioni svolte, quale opzione percorribile si potrebbe introdurre un diverso livello decisionale tale da garantire rappresentanza multilivello piena e, allo stesso tempo, certezza e snellimento decisionale. In altre parole, dalla Conferenza Unificata si passerebbe ad un organismo più ristretto, a composizione mista (Stato, regioni ed enti locali), per le procedure in cui si ravvisi - per l’appunto - un contrasto tra Stato ed enti territoriali. Il modello, almeno in parte, è quello già previsto dal D.L. n. 330 del 2004, in materia di infrastrutture lineari energetiche. La disposizione (che introduce un art. 52-quinquies al codice delle espropriazioni) prevede infatti che, per le infrastrutture lineari energetiche, l’accertamento della conformità urbanistica delle opere, l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità, sono effettuate 198 nell’ambito di un procedimento unico, mediante convocazione di una conferenza dei servizi ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241. L’atto conclusivo del procedimento è poi adottato d’intesa con le regioni interessate. In caso di mancata definizione dell’intesa con la regione o le regioni interessate nel termine prescritto per il rilascio dell’autorizzazione, nel rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione, si provvede, entro i successivi sei mesi, a mezzo di un collegio tecnico costituito d’intesa tra il Ministro delle Attività produttive e la regione interessata, ad una nuova valutazione dell’opera e dell’eventuale proposta alternativa formulata dalla regione dissenziente. Ove permanga il dissenso, l’opera è autorizzata nei successivi novanta giorni, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, integrato con il Presidente della regione interessata, su proposta del Ministro delle Attività Produttive, di concerto con il Ministro competente, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Nell’ipotesi qui in considerazione, si dovrebbe così pensare ad un organismo ad hoc, di dimensioni inferiori rispetto a quello della Conferenza Unificata, ma comunque rappresentativo di tutti i livelli di governo (Presidenza del Consiglio, Conferenza dei Presidenti di Regione, Anci, Upi, etc.), nonché delle amministrazioni procedenti, concertanti e dissenzienti. Si tratterebbe dunque di due tipi di componenti, fissi e variabili. Rispetto al modello delineato dal citato decreto legislativo n. 830, è chiaro che non si tratterebbe di un organismo eminentemente tecnico, ma anche politico, o comunque di alta amministrazione. All’istruttoria delle questioni di competenza del comitato provvederebbe, anche alla stregua di quanto già ipotizzato dalla Conferenza delle regioni nella nota del 26 gennaio 2006, un gruppo tecnico di lavoro. Si tratterebbe in altre parole di formalizzare ed anzi elevare la proposta contenuta nella citata nota, in cui si riteneva necessario costituire, per ciascuna questione oggetto di esame, un Gruppo di lavoro che veda, accanto al rappresentante della Segreteria della Conferenza, da una parte la presenza di un rappresentante del Ministero che abbia la competenza primaria o prevalente sull’oggetto del dissenso e di un rappresentante della o delle regioni territorialmente competenti, nonché, per quanto di competenza della Conferenza Unificata, di un rappresentante ciascuno dell’ANCI, UPI ed UNCEM, e dall’altra i rappresentanti dell’Amministrazione procedente e dell’Amministrazione dissenziente. In questo modo vengono create apposite sedi tecniche con il compito di istruire le questioni tecniche e fornire indicazioni a supporto della decisione spettante alle conferenze. Una normativa statale di principio di questo genere si giustificherebbe senz’altro nei procedimenti riguardanti materie di competenza legislativa 199 esclusiva statale (es. rifiuti) oppure concorrente (es. porti, governo del territorio, etc.), mentre maggiori dubbi si addenserebbero nelle materie residuali (es. commercio, con particolare riferimento al D.L. n. 114 del 1998, il quale prevede proprio una conferenza di servizi per l’apertura di grandi centri commerciali). In tale ultimo contesto si potrebbe in ogni caso invocare il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost, oppure introdurre una clausola di cedevolezza, sulla falsariga di quella già contenuta nell’art. 19 della L. n. 15 del 2005. Come già anticipato, il d.d.l. AS 1532 della XV, poi confluito, tra l’altro, nelle leggi 69/09 e 122/10, legislatura va in una direzione opposta, recuperando ossia il vecchio modello in cui decide soltanto il Consiglio dei ministri, anche in caso di dissenso regionale o locale, senza nemmeno contemplare la partecipazione - pur senza diritto di voto - del Presidente della regione di volta in volta interessata, prevista al contrario nel sistema introdotto dalla legge n. 840 del 2000, dunque in tempi antecedenti alla riforma in senso federale dello Stato176. Sviluppo, questo, discutibile, avendo portato al varo di una normativa di accentramento, per così dire indifferente alla necessaria multilevel governance, che pure dovrebbe informare i rapporti tra i diversi enti dello Stato. 176 Si pensi al riguardo che, nel corso dei lavoro preparatori della legge n. 15 del 2005, nel corso di alcune riunioni della Conferenza Unificata di cui al D.L. n. 281/1997 era emerso l’orientamento - espresso da taluni rappresentanti delle regioni - diretto a vedere riconosciuta al Presidente dell’amministrazione regionale una partecipazione al Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 4, con diritto di voto. In quell’occasione tale facoltà era stata poi accantonata dal momento che sarebbe stata necessaria, al riguardo, una modifica costituzionale della disposizione che disciplina l’organizzazione d ed il funzionamento dell’Esecutivo. 200 CAPITOLO 3 PROFILI INTERPRETATIVI E PRINCIPALI PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELL’ISTITUTO E ASPETTI PROCESSUALI 1. Premessa. - 2. La partecipazione dei privati. - 3. La conferenza di servizi quale sede di mediazione delle discrezionalità amministrative. - 4. Il ruolo delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi. Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali. 5. La legittimazione attiva della P.A. - 6. L’instaurazione del contraddittorio. - 7. Gli atti impugnabili. - 8. le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010. l. Premessa Si affronteranno in questo capitolo alcune delle principali problematiche di carattere applicativo ed interpretativo che hanno coinvolto dottrina e giurisprudenza nell’analisi e nello studio della conferenza di servizi. Esse riguardano aspetti già affrontati, seppur brevemente, nei capitoli che precedono, ma che per la loro complessità si è ritenuto di concentrare in una sezione appositamente dedicata ad una loro trattazione specifica. In particolare, si affronterà il tema della partecipazione dei privati e quello, più settoriale, del ruolo che la soprintendenza ai beni paesaggisti. ci riveste all’interno del modulo procedimentale in considerazione. Rilievo assoluto svolge invece l’argomento del “confronto in conferenza”, che rappresenta un po’il leitmotiv dell’intera parte dell’opera. 2. La partecipazione dei privati Ulteriore problema è individuare i soggetti che possono partecipare alla conferenza177. Possono parteciparvi i privati? La terminologia utilizzata dal legislatore sembra preclusiva di tale possibilità: «qualora sia opportuno effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici». La tesi che sembra escludere tale possibilità (SCOCA) poggia sulla considerazione che, dovendosi escludere che la conferenza sostituisca globalmente il procedimento, essa si collochi nel procedimento stesso dopo l’esaurimento della fase partecipativa. 177 Problema analogo si pone per la partecipazione agli accordi di programma di cui all’art. 27 della L. n. 142/1990:sugli accordi di programma, per tutti, E. STICCHI DAMIANI, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992. 201 Secondo alcuni, in linea di principio, sulla base di una verifica caso per caso, il privato che risulti portatore di un interesse pubblico potrà partecipare alla conferenza istruttoria, dal momento che il vincolo non concerne la necessaria rappresentazione dell’interesse da parte di un soggetto formalmente pubblico178. V’è da aggiungere che il modulo della conferenza di servizi istruttoria non è rigido ed è rappresentato dal legislatore nel suo contenuto minimo. Pertanto, sarebbe auspicabile la partecipazione in tale sede anche dei privati, vista la ratio di acquisizione degli interessi pubblici rilevanti ai fini dell’ottimizzazione del contenuto del provvedimento finale179. Più problematica, senz’altro, appare la questione, se riferita poi alla conferenza decisoria. Una apertura di questo genere - peraltro già riconosciuta a livello normativo in materia di Sportello Unico per le attività produttive - si collocherebbe senza dubbio nella prospettiva della «democratizzazione» della amministrazione pubblica180. Lo stesso giudice amministrativo - ma si tratta ancora di alcune isolate decisioni - ha del resto affermato che in sede di conferenza, ancorché convocata ai sensi dell’art. 27 della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del D.L. n. 267/2000), «è ammissibile l’intervento chiarificatore o collaborativo di una molteplicità di soggetti pubblici o privati il cui apporto non acquista rilevanza formale ai fini del perfezionamento del consenso, pur contribuendo alla più consapevole formazione di quest’ultimo»181. 178 Si pensi alle associazioni di protezione ambientale riconosciute dall’art. 18 della L. n. 349/1986, queste pur non essendo enti pubblici sono portatrici sulla base di un riconoscimento legislativo di un interesse pubblico, quindi nessuna preclusione dovrebbe poterei essere. 179 Le suddette riflessioni vanno anche coordinate con quel processo di avvicinamento tra soggettività pubblica e privata che trova il punto di maggiore emersione nella categoria dei « gestori di pubblici servizi », che il D.L. n. 80/1998 indica genericamente in modo indipendente dalla loro veste giuridica pubblica privata. 180 I.M.G. IMPASTATO, La conferenza di servizi «aperta» nel D.P.R. n. 447 del 1998 ovvero della «semplificazione partecipata», in “Dir. amm.”, 2001, 487. L’autore evidenzia inoltre come alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa abbiano, per un verso, negato l’accesso del privato alla conferenza di servizi (cfr. Tar Veneto, l0 luglio 1997, n. 1083), e, per altro verso, riconosciuto la possibilità di un apporto chiarificatore o collaborativo di soggetti portatori di interessi privati nella fase di elaborazione e definizione delle scelte spettanti alle amministrazioni ex legge competenti. 181 Cfr. Tar Lazio, sez. I, 20 gennaio 1995, n. 62. Di contrario avviso rispetto alla partecipazione dei privati, o meglio all’obbligatorietà di tale previsione, si segnala Tar Puglia, n. 2100/2002, in cui si afferma che il D.P.R. n. 509/1997 (che prevede appunto l’indizione di una conferenza di servizi ai fini del rilascio della concessione demaniale, marittima) non prevede i privati (concessionari) tra i soggetti tassativamente indicati tra quelli chiamati a partecipare, e che la loro partecipazione al procedimento si realizza 202 Sulla partecipazione dei privati alla conferenza di servizi si è in particolare espresso il TAR Veneto, con decisione n. 3587 del 2006: i ricorrenti lamentavano che la partecipazione di un soggetto imprenditoriale, proprio in quanto direttamente coinvolto dall’esito dell’azione amministrativa da esso stesso richiesta, potesse determinare una lesione del fondamentale principio dell’imparzialità dell’azione amministrativa medesima. Il Tar adito ha invece ritenuto che la partecipazione del proponente 1’iniziativa, in disparte la sua previsione da una specifica legge regionale, riguardasse un soggetto che, già per la sola e quanto mai significativa circostanza di essere titolare di un progetto assistito dalla dichiarazione di pubblica utilità, si collocava per certo in una posizione differenziata rispetto agli altri consociati. Sussistono, al riguardo, una serie di motivazioni che militano a favore della partecipazione dei privati alla conferenza, naturalmente senza diritto di voto, anche nell’ambito della conferenze c.d. decisorie: a) la fungibilità della conferenza al procedimento, del quale sostituisce la sequenza degli atti e delle fasi ma rispetta principi sostanziali e regole di conduzione182. Se dunque il procedimento ammette la partecipazione e la conferenza sostituisce il procedimento, ne deriva che, per la proprietà transitiva, anche la conferenza deve ammettere l’intervento dei privati, salvo previsioni normative di segno contrario che, tuttavia, non è dato riscontrare. Aderendo alla tesi che vede la conferenza come modulo procedimentale, non può che ritenersi la potenziale (ed implicita) estendibilità ad essa di tutti gli istituti fondamentali del procedimento amministrativo183; b) la partecipazione sarebbe coerente con il principio di semplificazione e di contestualità, atteso che in questo modo l’amministrazione non si vedrebbe costretta ad acquisire « fuori conferenza », a mente dell’art. l0 della legge sul procedimento (con inevitabile appesantimento della procedura), le posizioni assunte dai privati direttamente coinvolti. L’omogeneità del «linguaggio» costituisce infatti condizione indispensabile affinché le parti possano confrontarsi efficacemente, seppure con ruoli differenti ed infungibili184; c) come efficacemente rilevato, «l’effettività delle istanze dialogiche di partecipazione trova massima attuazione, con riferimento al solo a mezzo delle osservazioni da formulare sull’istanza di concessione e che, una volta presentate, devono formare oggetto di valutazione da parte della conferenza di servizi. 182 P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 330. 183 Sul punto si vedano le considerazioni svolte da M. SGROI, Lo Sportello Unico per le attività produttive: prospettive e problemi di un nuovo modello di amministrazione, in “Dir. amm.”, 2001, 223. 184 P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 335. 203 procedimento mediante conferenza, nella audizione dell’interessato, attraverso la quale si esalta la qualità dell’intervento del privato, che viene messo in condizione di “interagire” con il potere pubblico in modo pieno (non limitato all’apporto “cartaceo”). A ben vedere, infatti, tra gli strumenti necessari a rendere effettivo il contraddittorio amministrativo non può non annoverarsi l’intervento orale dell’interessato, specie nell’ipotesi in cui il procedimento trovi attuazione tramite lo strumento della conferenza, la cui operatività è essenzialmente fondata sulla discussione orale del problema amministrativo»185; d) argomentando a contrario, la circostanza che in alcuni casi - si veda ad esempio la normativa sullo Sportello Unico sulle attività produttive (D.P.R. n. 447/1998) - il legislatore, trattandosi di materia di pianificazione e quindi esclusa dall’applicazione degli istituti partecipativi ai sensi dell’art. 13 della L. n. 241/1990, ha dovuto prevedere espressamente (e quindi in deroga al predetto criterio di esclusione) la presenza del privato nell’ambito della conferenza: di qui la conseguenza che, non vertendo la conferenza ordinaria su atti di pianificazione, non sarebbe stato necessario prevedere espressamente detta partecipazione, desumendosi implicitamente essa da una lettura coordinata e sistematica della legge fondamentale sul procedimento186. Nel complesso, la posizione della giurisprudenza amministrativa si mostra ancora timida su una apertura di questo genere. In proposito si rammenta, da un lato, la pronuncia n. 8080 del 2003 della quinta sezione del Consiglio di Stato, che indirettamente nega la partecipazione dei privati all’interno della conferenza di servizi; dall’altro lato, la decisione n. 3684 del 2003, nella parte in cui si sostiene che l’amministrazione procedente non ha alcun obbligo di invitare alla conferenza di servizi, che costituisce una riunione di pubbliche amministrazioni, il privato interessato. A ben vedere, le posizioni di giurisprudenza e di dottrina non sono poi così inconciliabili, se solo si pensa che dall’analisi delle decisioni dei giudici amministrativi emerge tutto sommato soltanto un mancato obbligo generalizzato da parte della P.A. di convocare il privato di sua iniziativa; il che non esclude, ovviamente, che qualora sia il privato a chiedere formalmente la propria presenza in seno alla conferenza, in questo caso scatterebbe allora un dovere da parte della P.A. a consentire siffatta 185 I.M.G. IMPASTATO, La conferenza di servizi «aperta», cit., 535 ss., in cui l’autore contrappone la c.d conferenza di servizi “ aperta” all’apporto collaborativo dei privati alla conferenza ad “accesso libero”, prevista in apposite leggi speciali. 186 A tale riguardo, nella decisione n. 8080 del 2003 della quinta sezione del Consiglio di Stato si afferma che, qualora leggi di settore prescrivano la pubblicità delle riunioni della conferenza di servizi, ciò non significa peraltro che detta partecipazione sia da intendersi come limitata alla sola fase istruttoria del procedimento. 204 partecipazione, in applicazione dei principi che presiedono al rispetto delle garanzie procedimentali187. Il d.d.l. AC 1532, di iniziativa dell’on. Capezzone ed altri, ma che sostanzialmente recepisce un emendamento governativo proveniente dalla c.d. “Lenzuolata” del Ministro Bersani, all’art. 3, comma 5, lettera b), nell’introdurre un comma 2-bis all’interno dell’art. 14-ter della legge n. 241 del 1990, reca una specifica previsione di apertura in tal senso, stabilendo ossia che la conferenza di servizi “è pubblica e ad essa possono partecipare, senza diritto di voto, i soggetti portatori di interessi pubblici o privati, individuali o collettivi, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o in comitati che vi abbiano interesse”. Sempre a proposito dei soggetti privati ammessi a partecipare alla conferenza, assume peculiare rilievo l’art. 12 della L.n. 15/2005: esso introduce un nuovo articolo, nell’ambito della disciplina della conferenza di servizi finalizzata all’approvazione del progetto definitivo, in ordine ai soggetti aggiudicatari di concessione individuati all’esito della procedura di cui all’art. 37-quater della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (c.d. “project financing”). Ad essi non è tuttavia riconosciuto diritto di voto. Parimenti, sulla base del combinato disposto dell’art. 14, comma 5, della legge n. 241, e dell’art. 143, comma 1, del Codice dei contratti, il concessionario di opere pubbliche può partecipare (o addirittura convocare, dietro autorizzazione del concedente) alla conferenza di servizi avente ad oggetto l’approvazione dei progetti di sua competenza, senza diritto di voto. Anche le disposizioni sulla legge obiettivo (ora, art. 168 del codice) prevedono la partecipazione alla conferenza istruttoria sul progetto definitivo, con funzioni di supporto (dunque sempre senza diritto di voto), del concessionario e del contraente generale (figura ad esso assimilabile, per certi versi). La tendenza che si registra, dunque, è quella di una crescente importanza attribuita al concessionario di lavori pubblici (ma anche a quello di servizi), che in effetti svolge un ruolo essenziale nell’economia dell’appalto. Ciò è, peraltro, confermato dal nuovo disposto dall’art. 14, l. 241/90, come integrato e modificato dalle leggi 69/09 e 122/10. Argomento connesso con quello appena trattato è infine costituito dagli obblighi di comunicazione cui l’amministrazione procedente sarebbe tenuta in relazione ai soggetti privati interessati al procedimento che si svolge in conferenza, e che dunque potrebbero avanzare, in merito, specifiche istanze di partecipazione: soccorre al riguardo la nota pronuncia dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 14 del 1999, che impone 187 Si veda M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di conferenza di servizi, in “Urb. e app.”, n. 5/2004, 521. 205 all’amministrazione titolare del procedimento di adempiere agli obblighi di comunicazione nei confronti dei proprietari di aree coinvolte nelle procedure espropriative. Più problematica appare la prospettata questione nel caso in cui si riscontrino numerosi interessati, dovendo eventualmente trovare applicazione, in tal caso, l’istituto delle cosiddette “comunicazioni di massa”, espressamente contemplato dall’art. 8, comma 3, della legge generale sul procedimento amministrativo, a norma del quale “qualora per il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione provvede a rendere noti gli elementi di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di volta in volta stabilite dall’amministrazione medesima’’. In diverse occasioni è stato contestato l’utilizzo di tale strumento con riferimento ai procedimenti istruiti mediante conferenza di servizi. Il Consiglio di Stato, con decisione n. 8219 del 2002 della sesta sezione, ha tuttavia ritenuto idonea e dunque legittima tale forma di comunicazione. Trattasi di una importante pronuncia, anche se non decisiva al fine di sgomberare il campo da ogni possibile dubbio applicativo. Dubbi che nascono certamente dalla sostanziale genericità e indeterminatezza del quadro normativo di riferimento, e che dovrebbe indurre l’amministrazione, secondo i parametri indicati dal Consiglio di Stato, ad operare una valutazione caso per caso, e dunque in concreto, avendo come punti di riferimento un fatto (la presenza di numerosi potenziali destinatari dell’intervento), uno strumento idoneo (le forme di pubblicità più varie ma rispondenti all’obiettivo) e due principi fondamentali da ponderare tra loro, in quanto a volte configgenti: l’economicità e la trasparenza dell’azione amministrativa. 3. La conferenza di servizi quale sede di mediazione delle discrezionalità amministrative Prendendo spunto dal carattere obbligatorio o meno della conferenza, si tratterà in questa sede la posizione delle amministrazioni che, senza partecipare alla conferenza, non esprimano la propria volontà, oppure la manifestino con semplici riscontri esterni alla conferenza (e dunque fuori dal confronto che in essa inevitabilmente avviene tra amministrazioni). Con riferimento all’obbligatorietà del ricorso alla conferenza, oltre alla già citata decisione n. 5249 del 2004 (commentata nel capitolo secondo, par. 1, cui si rinvia per una più ampia trattazione), si segnala altresì un’altra decisione del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 34 del 2002), il quale, nel rammentare che scopo della conferenza è la massima semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo, ha affermato 206 che le forme della conferenza stessa «vanno osservate nei limiti in cui siano strumentali all’obiettivo perseguito», non potendo far discendere automaticamente dalla inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato della conferenza, «se lo scopo è comunque raggiunto»188. Nella stessa direzione si colloca l’indirizzo pretorio secondo cui l’indizione della conferenza di servizi, pur essendo normativamente configurata quale ordinario modus procedendi per la frequente eventualità di necessaria acquisizione di pareri preventivi, non risulta evidentemente necessaria nel caso in cui siffatti pareri siano stati acquisiti comunque aliunde; e ciò sia nel caso in cui si ritenga la attuale necessità di acquisire pareri e atti di assenso (onde la previa acquisizione degli stessi ne prospetterebbe la automatica inutilità), sia che si reputi che la riscontrata alterazione dell’ordinaria ed ordinata scansione procedimentale si atteggi comunque a mera irregolarità, «dovendosi a tal fine valorizzare il generale principio di conservazione degli effetti giuridici e di raggiungimento dello scopo» (sul punto, si veda anche Consiglio di Stato, sez. V, 3917 del 2002). L’indirizzo in esame si caratterizza per il ragionamento in termini sostanzialistici, basato sul principio dello “scopo comunque raggiungibile”. Si tratta peraltro di fattispecie regolate in base alla vecchia disciplina sulla conferenza di servizi, ed alle quali, ad oggi, andrebbe probabilmente applicato l’istituto del silenzio-assenso, contenuto nel comma 7 dell’art. 14-ter. Si tratta inoltre di fattispecie in cui si è raggiunto un parere favorevole, conforme alla decisione temporaneamente assunta, in modo altrettanto favorevole, dalla conferenza stessa. Diversa sarebbe stata invece l’ipotesi in cui le amministrazioni “incerte” si fossero espresse in termini negativi, con eventuali effetti sulla decisione finale: in questo caso sarebbe probabilmente riemerso il problema della valutazione necessariamente contestuale - e dunque del confronto diretto “in conferenza” - delle diverse posizioni tra loro in conflitto. A tale ultimo riguardo si richiama un’altra decisione del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 5917 del 2003), in cui l’appellante intravedeva uno specifico errore di diritto in cui sarebbe incorso il primo giudice, giacché una delle amministrazioni invitate a partecipare alla conferenza di servizi aveva comunque riscontrato l’invito via fax, esprimendo un orientamento negativo all’approvazione dell’istanza di autorizzazione presentata: non 188 Nel caso di specie, da un lato, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva già espresso il suo avviso sul progetto con atto di concerto del 5 febbraio 1999, sicché la sua partecipazione alla successiva conferenza di servizi del giugno 1999, appariva un adempimento non indispensabile; dall’altro lato, il Ministero medesimo, anziché duolersi delle irregolare convocazione, ha ritenuto di poter comunque collaborare ex post ai lavori della conferenza, esprimendo un parere successivo che, ponendosi in linea, e non in conflitto, con la determinazione della conferenza, fa corpo con la stessa. 207 avendo, quindi, la suddetta amministrazione manifestato la propria volontà in via definitiva all’interno della conferenza di servizi, il primo giudice avrebbe dovuto applicare nella specie l’art. 14-ter, comma 7, della L. n. 241/1990, e considerare perfezionato l’assenso della amministrazione stessa. Siffatta censura è stata tuttavia ritenuta infondata dal giudice di appello, “in quanto muove da un presupposto che non risponde alla realtà”, vale a dire che l’amministrazione, con specifica nota, “abbia espresso un orientamento negativo all’istanza”. A parere di chi scrive si rileva tuttavia, al riguardo, che il dissenso scritto era comunque pervenuto a seguito della convocazione alla conferenza di servizi: quindi, a maggior ragione tale posizione doveva essere “riscontrata” in conferenza, e non fuori di essa, poiché la stessa era stata indetta e dunque, da tale momento, trovavano unicamente applicazione le speciali regole che la governano, in particolare quella di cui al comma 1 dell’art. 14-quater, recante il principio dell’acquisizione del “dissenso in conferenza”. Si tratta dunque della violazione del principio della contestuale valutazione di tutti gli interessi in gioco e del confronto reciproco, in dispregio allo spirito che anima la conferenza stessa soprattutto a seguito della L. n. 340/2000, considerato inoltre che, accanto al principio dell’internalizzazione del dissenso, trova altresì applicazione, sempre a norma dell’art. 14-ter, comma 1, il principio del dissenso costruttivo. Pertanto, più correttamente gli atti della conferenza dovevano dichiararsi illegittimi, a causa dell’inammissibilità del dissenso, non avendo peraltro la conferenza raggiunto lo scopo che gli è proprio, secondo i parametri indicati dalla giurisprudenza. Ma su questo tema ha avuto modo di tornare la più recente giurisprudenza di primo grado. Notevole interesse suscita infatti quel filone giurisprudenziale189 che si è ampiamente soffermato sul ruolo che la regione riveste, all’interno della conferenza di servizi di cui alla procedura dello Sportello Unico per le attività produttive (D.P.R. n. 447 del 1998) e diretta essenzialmente alla variazione dello strumento urbanistico, in almeno quattro situazioni: a) assenza della regione alla conferenza e mancanza di un qualsivoglia riscontro, anche soltanto per iscritto, rispetto ai lavori della conferenza; b) partecipazione della regione ai lavori e mancanza di una sua espressa posizione; 189 TAR Puglia, sez. staccata di Lecce, n. 1003 del 2007, n. 2577 del 2006 e n. 1976 del 2007. 208 c) parere tardivo, ossia espresso fuori conferenza e in ogni caso dopo lo spirare dei termini massimi previsti per la chiusura del procedimento; d) parere negativo espresso in conferenza. Sulle questioni sopra evidenziate si confrontano due principali orientamenti. Per quanto attiene alla tematica di cui alla lettera a), le pronunzie riconducibili al primo degli indirizzi sembrano richiedere che senza partecipazione ai lavori della conferenza non possa maturare il silenzioassenso, soprattutto in una materia (id est urbanistica) ove la regione esercita penetranti poteri. La disposizione di cui all’art. 14-ter, comma 7, della legge n. 241 del 1990, infatti, così recita: “Si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la volontà dell’amministrazione rappresentata”. Di qui la conclusione secondo la quale, per radicarsi una situazione di silenzio-assenso, sarebbe preventivamente necessaria la presenza di un rappresentante legittimato dell’amministrazione in seno alla conferenza di servizi. Occorre tuttavia premettere che l’attuale formulazione del comma 7 è la risultante dell’intervento demolitore operato dal legislatore del 2005 che, per evitare eccessive lungaggini procedimentali, ha abrogato il seguente periodo (che costituiva un tutt’uno con quello prima evidenziato e che era stato introdotto dalla legge n. 340 del 2000): “e non abbia notificato all’amministrazione procedente, entro il termine di trenta giorni dalla data di ricezione della determinazione di conclusione del procedimento, il proprio motivato dissenso, ovvero nello stesso termine non abbia impugnato la determinazione conclusiva della conferenza di servizi”. Nel sistema anteriore alla riforma del 2005, dunque, mentre per l’amministrazione partecipante il silenzio-assenso maturava allo scadere dei termini previsti per la conclusione del procedimento, per le amministrazioni non partecipanti tale meccanismo scattava sì, ma soltanto a seguito del decorso di un ulteriore spazio temporale (una sorta di termine di comporto) pari a trenta giorni, decorrenti dalla comunicazione della determinazione (provvisoriamente) conclusiva. Venendo meno tale periodo, sembrerebbe che il legislatore abbia inteso escludere dall’applicazione del meccanismo in questione le amministrazioni che non abbiano preso parte al procedimento: come affermato da alcune delle pronunzie in commento, infatti, “la possibilità che il consenso intervenga in forma tacita presuppone quindi la presenza del rappresentante ai lavori della conferenza”. È evidente che tale impostazione, almeno per quanto riguarda il meccanismo del silenzio-assenso, ben potrebbe essere sostenuta non solo per le regioni all’interno di tale peculiare procedura speciale, ma anche per 209 qualsivoglia amministrazione nell’ambito del procedimento di generale applicazione. Condivisibile sul piano dell’interpretazione letterale, tale orientamento potrebbe tuttavia risultare in qualche misura estraneo rispetto alla ratio che ha costantemente accompagnato tutti gli interventi legislativi di semplificazione ed accelerazione del procedimento amministrativo di questi ultimi anni. Pur nella consapevolezza della centralità del ruolo rivestito in subiecta materia (id est urbanistica) dalla regione (cfr., sul punto, Corte Cost., sento n. 206 del 2001), nonché - si ribadisce - del dato letterale attualmente offerto dal citato art. 14-ter, comma 7, il quale non sembrerebbe dare adito a posizioni che possano maturarsi al di fuori della conferenza stessa, si deve in ogni caso prendere spunto dai principi che animano detto istituto, ossia: semplificazione procedimentale e individua zio ne dell’interesse prevalente. Appare evidente come entrambi i capisaldi verrebbero in questo modo contraddetti, da un lato in quanto il procedimento risulterebbe di conseguenza aperto sine die, ossia fino a quando la regione (o qualsiasi altra amministrazione, a questo punto) non decida di esprimersi, con conseguente frustrazione delle esigenze di certezza e celerità dell’azione amministrativa; dall’altro lato, atteso che in assenza di confronto diretto e contestuale non sarebbe consentita la giusta ponderazione di tutti gli interessi, pubblici e privati, coinvolti nel procedimento stesso. Ad analoghe conclusioni si perverrebbe per le soluzioni proposte sempre da parte del primo indirizzo giurisprudenziale - in merito alle questioni sub b) e sub c), che pure vengono risolte nel senso di ammettere in ogni caso un intervento regionale, benché tardivo, e di conseguenza l’impossibilità che in capo alla regione stessa possa formarsi una fattispecie di silenzio-assenso. Per quanto attiene al parere negativo esso, oltre a poter essere espresso fuori conferenza e in dispregio dei termini previsti, può arrivare a sortire secondo la medesima linea giurisprudenziale - effetti in via assoluta preclusi vi, ossia senza che vi sia la possibilità di attivare, presso gli organismi competenti (Consiglio dei ministri oppure Conferenza Unificata), le valutazioni di secondo livello contemplate dall’art. 14-quater, comma 3. E ciò sempre secondo una certa lettura della richiamata sentenza n. 206 del 2001 della Corte Costituzionale, che avrebbe sancito la centralità del ruolo regionale e, dunque, l’insuperabilità delle relative posizioni. Ma veniamo ora ad analizzare il secondo indirizzo giurisprudenziale, che si contrappone al primo sulla base di un approccio tutto sommato più vicino - ad avviso di chi scrive - alla ratio che complessivamente ispira l’istituto in commento. 210 Ebbene, in base a questa giurisprudenza190 il dissenso regionale in materia urbanistica, oltre ad essere manifestato entro certe forme a pena di inammissibilità (cfr. art. 14-quater, comma l), deve poter essere sottoposto a valutazioni di secondo livello, al pari degli altri interessi regionali costituzionalmente tutelati e degli altri interessi sensibili garantiti, in via generale, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 3. In altre parole, secondo questa diversa tesi la posizione della Regione, per quanto centrale nella procedura sullo Sportello Unico, può comunque essere soggetta: 1) a declaratorie di inammissibilità, qualora il dissenso sia espresso fuori conferenza, oppure in ritardo191, oppure ancora senza indicazione delle soluzioni alternative; 2) al formarsi del silenzio-assenso, in caso di perdurante inerzia manifestatasi in seno ai lavori della conferenza; 3) a valutazioni di secondo livello (Consiglio dei ministri o Conferenza Unificata), in caso di parere negativo. La posizione appena esposta sottolinea così l’importanza del c.d. contraddittorio procedimentale, nonché l’esigenza di pervenire, ove possibile, a soluzioni effettivamente concordate. In altre parole, tutti gli enti - anche quelli a tutela costituzionalmente rafforzata, per lo meno in merito ad alcune competenze - non solo debbono soggiacere alle comuni regole acceleratori e - e non di rado ad effetti preclusivi - della conferenza di servizi, ma sono altresì tenute a confrontarsi apertamente, in conferenza, con le altre amministrazioni partecipanti, senza potersi sottrarre al modello di ponderazione delle diverse discrezionalità, così come previsto dalla legislazione più recente. In questa direzione si collocano, a titolo esemplificativo, due decisioni, rispettivamente del TAR Toscana (dec, n. 978 del 2005) e del TAR Umbria (dec. n. 679 del 2006). Nella prima decisione si afferma che, sulla scorta delle ultime disposizioni in tema di conferenza di servizi, «occorre convenire che è stato sancito l’obbligo della partecipazione alla conferenza delle amministrazioni convocate nonché l’impossibilità di esprimere al di fuori di tale sede il proprio consenso o dissenso, di talché l’unica maggioranza utile ai fini della validità delle decisioni che si vanno ad assumere è quella che risulta “fisicamente” presente alla adunanza». Il TAR Umbria, a sua volta, a proposito di una questione ricadente proprio in materia di Sportello Unico per le attività produttive, ha rilevato come dalla lettura dei relativi atti della conferenza di servizi emergesse la totale mancanza di un minimo di discussione e di approfondimento circa il 190 191 Cfr. ancora TAR Puglia, sez. staccata Lecce, dec. n. 2909 del 2007. TAR Bari, dec. n. 537 del 2006. 211 progetto in questione. Siffatta carenza di istruttoria (e di conseguente inadeguata motivazione), particolarmente rimarchevole se riferita ad enti (come regione e provincia) con specifica competenza istituzionale in chiave di valutazioni urbanistiche, non poteva che determinare l’illegittimità degli atti della conferenza per eccesso di potere. In altre parole, il giudice amministrativo di primo grado ha evidenziato l’esigenza che in sede di conferenza si proceda ad un serio ed approfondito esame e confronto delle diverse posizioni e discrezionalità, senza che la volontà di sottrarsi a tale obbligo possa di fatto impedire la positiva conclusione dei lavori. Questa seconda impostazione sembrerebbe da preferire - a sommesso parere di chi scrive - anche perché, pur riconoscendo la delicatezza del ruolo regionale in tal une materie: - ammettere, alla stregua del primo indirizzo, un simile potere di interdizione alla regione potrebbe portare a cronicizzare la sua assenza all’interno della conferenza di servizi, ossia a rendere la mancanza di partecipazione di tale ente (ma il principio potrebbe estendersi anche ad altre amministrazioni) un fatto ordinario. In altre parole, se la regione (o altra amministrazione) fosse contraria ad un tipo di intervento sul piano urbanistico (ma non solo), le sarebbe sufficiente non presentarsi per far respingere il progetto, o quanto meno per lasciarlo pendente sine die; - evitare in questo modo ogni confronto con amministrazioni portatrici di diversi interessi e posizioni determinerebbe la completa frustrazione della ratio dell’istituto, che è anche quella di mediare e contemperare le diverse discrezionalità amministrative; - considerare insuperabile in via assoluta, sempre secondo la giurisprudenza per prima rassegnata, il parere negativo regionale, finanche attraverso il ricorso alle procedure di secondo livello (Consiglio dei ministri o Conferenza Unificata), significherebbe attribuire a tale posizione un peso superiore non solo rispetto ad altri interessi regionali (comunque) costituzionalmente tutelati, ai sensi dell’art. 117 Cost., ma anche nei confronti di tutti quegli interessi C.d. “sensibili” (es. paesaggio e salute), che trovano in ogni caso la loro matrice in ambito costituzionale (rispettivamente artt. 9 e 32 Cost.) se non addirittura comunitario (si pensi all’ambiente), che restano invece sottoposti alla procedura sostitutiva di cui al comma 3 dell’art. 14-quater. Si riscontrerebbe in altri termini una ipotesi di eccesso di tutela dell’interesse urbanistico di livello regionale. A tale riguardo, si consideri che la Corte Costituzionale, nella più volte citata sentenza n. 206 del 200 l, ha ritenuto illegittima la disposizione di cui all’art. 25 del decreto legislativo n. 112 del 1998 non per l’inidoneità della procedura davanti al Consiglio dei ministri, quanto piuttosto perché l’interesse urbanistico, non rientrando tra gli interessi sensibili, sarebbe stato inevitabilmente assorbito dal principio maggioritario, a seguito delle 212 modifiche apportate dalla legge n. 340 del 2000, senza che residuasse spazio alcuno per valutazioni di secondo grado. Al contrario il legislatore del 2005, nel tenere in debita considerazione le note evoluzioni di carattere costituzionale, ha invece stabilito il ricorso alle procedure di secondo livello non solo per gli interessi sensibili ma anche per quelli costituzionalmente assegnati alle regioni, ivi comprese le competenze in materia di governo del territorio: e ciò anche in applicazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. l18, primo comma, Cost., secondo gli schemi applicativi enunciati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003 (cfr., sul punto, ancora una volta TAR Lecce, dec. n. 1953 del 2006, che ha ritenuto illegittima la determinazione conclusiva della conferenza di servizi con la quale, prendendosi atto del motivato parere contrario espresso dalla autorità preposta alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, ossia la soprintendenza statale, in ordine alla realizzazione di un impianto eolico, l’amministrazione procedente aveva concluso i lavori in senso contrario alla realizzazione del predetto impianto, invece di rimettere la decisione finale ai livelli superiori di amministrazione indicati dall’art 14-quater della legge 241/90, in applicazione del predetto principio di sussidiarietà verticale). Certamente, sono ben note le difficoltà pratiche connesse ad una presenza costante della regione ad ogni singola conferenza di servizi, che in merito alla procedura in materia di Sportello Unico assume carattere prettamente localistico (per quanto lo stesso discorso potrebbe valere anche per le soprintendenze statali deputate alla tutela del paesaggio). In disparte ogni considerazione circa la conferenza telematica, introdotta non a caso dalla legge n. 15 del 2005 e che proprio in questa direzione potrebbe risolvere evidenti problematiche legate a tale presenza “fisica” (prima fra tutte “il costo della benzina”), si potrebbero studiare, proprio su iniziativa di organismi statali e regionali coinvolti in tali procedure, apposite sessioni territoriali a carattere pluricomunale, all’interno delle quali concentrare, per l’appunto, più conferenze di servizi, pur se riferite a differenti autorità procedenti. Conclusivamente, appare opinabile quella giurisprudenza che ammette la possibilità, in via generale, di ammettere posizioni espresse per iscritto fuori conferenza, ricorrendo al noto principio dello scopo comunque raggiungibile. Considerando invece il canone fondamentale su cui poggia l’istituto in esame (ossia il confronto e la mediazione delle diverse discrezionalità), più congrua appare la tesi che ritiene inammissibile l’intervento espresso fuori conferenza e, comunque, applicabile l’istituto del silenzio-assenso, qualora non sia riscontrabile nemmeno una posizione aliunde manifestatasi (principio, questo, cui dovrebbe sottostare non solo le regioni nelle materie 213 di specifica competenza, ma qualsiasi altra amministrazione a vario titolo partecipante ai lavori della conferenza). 4. Il ruolo delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi. Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali Di notevole interesse è l’analisi del ruolo della soprintendenza statale al paesaggio, con particolare riguardo al meccanismo dell’autorizzazione emessa dall’amministrazione delegata o subdelegata e della sua annullabilità da parte dell’amministrazione delegante (sistema, questo, che varrà soltanto sino al l0 maggio 2008, secondo quanto stabilito dal codice dei beni culturali dì cui al decreto legislativo n. 42 del 2004). Sull’argomento si segnala - in primo luogo - una importante decisione del Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2001, con la quale è stata esaminata la questione se il Ministero per i Beni e le Attività Culturali (nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 82, nono comma, del D.L. n. 616/1977) possa solo valutare gli aspetti della legittimità dell’autorizzazione ovvero se possa anche esercitare un “sindacato esteso al merito delle scelte paesistico-ambientali”. In tale occasione l’Adunanza Plenaria, nel ritenere che fosse ribadita la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla sussistenza del potere del Ministero di annullare l’autorizzazione regionale affetta da qualsiasi vizio di legittimità (e non anche “per ragioni di merito”), ha inoltre precisato che: - attraverso il richiamo a ogni «atto di assenso comunque denominato» la normativa generale sulla conferenza di servizi si riferisce anche ai casi di modifica di un bene sottoposto al vincolo paesistico e al potere autorizzativo regionale ed a quello statale di riesame dell’autorizzazione, che possono manifestarsi mediante posizioni di consenso o di dissenso, con le conseguenze previste dall’art. 14-quater, commi 3 e 4, della L. n. 241/1990; - rispetto al potere esercitabile prima della conclusione del procedimento ai sensi del nono comma dell’art. 82 del D.L. n. 616/1977 (e dell’art. 151, comma 4, del Testo Unico n. 490/1999, ora art. 146 del D.L. n. 42/2004), nell’ambito del procedimento riguardante la conferenza di servizi il Ministero è titolare del più ampio potere di veto, che può basarsi su valutazioni di salvaguardia diverse e opposte da quelle formulate dalla regione o dall’ente titolare del potere di rilasciare l’autorizzazione; - il dissenso manifestato in sede di conferenza dal Ministero non si sovrappone ex se e definitivamente alle valutazioni eventualmente difformi dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione 214 paesistica, poiché (similmente a quanto avviene nell’ipotesi inversa, di consenso statale ad un progetto non condiviso da tale autorità) attiva l’ulteriore competenza del Consiglio dei Ministri, la cui motivata determinazione finale comporta la conclusione del procedimento, in sede di alta amministrazione. Con quesito inoltrato al Consiglio di Stato il 16 novembre 2001 (e quindi prima che si pronunciasse l’Adunanza Plenaria con la citata decisione in data 14 dicembre 200l), l’Ufficio Legislativo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva invece ritenuto che, in considerazione della natura del predetto potere di annullamento per ragioni soltanto di legittimità, la partecipazione delle soprintendenze alla conferenza non trovasse spazio, se non nelle forme di una partecipazione meramente informativo-consultiva, cioè senza diritto di voto. Ciò avrebbe configurato una conferenza decisoria, preceduta da una conferenza istruttoria, quest’ultima consistente nella fase in cui la soprintendenza, pur non potendo partecipare alla decisione finale comune, rappresenta elementi di valutazione di cui gli altri soggetti intervenuti con diritto di voto potranno (anzi dovranno, pena la configurabilità di un eccesso di potere) tener conto. Secondo la prospettazione del Ministero, detto potere doveva restare in ogni caso esercitabile al di fuori della conferenza di servizi, secondo il modulo procedimentale di cui all’art. 151 del previgente Testo Unico del 1999, assumendo dunque le caratteristiche di un controllo successivo192. Ed infatti, ad avviso del medesimo ufficio legislativo, il potere di annullamento delle soprintendenze ha un inserimento procedimentale necessariamente successivo all’adozione del nullaosta paesaggistico, dovendo quindi sottostare ad un termine normativamente previsto e non riducibile (anche in applicazione del principio di legalità), quale espressione della necessità che consegua ad una valutazione approfondita delle implicazioni dell’atto. Nel parere reso dalla prima sezione (n. 2457/200l del 6 febbraio 2002) il Consiglio di Stato ha tuttavia disatteso la posizione assunta in merito dal Ministero, aderendo (o dovendo aderire) a quanto affermato sul punto dalla citata decisione dell’Adunanza Plenaria; con la precisazione che, in ogni caso, nella relativa procedura resta assorbito l’esercizio del potere di riesame e di annullamento ex art. 151 T. U. n. 490/1999. Infatti, in caso di dissenso, la determinazione finale e conclusiva, a componimento dei contrastanti interessi in gioco, non importa se adesiva o meno al dissenso manifestato, viene assunta dal Consiglio dei Ministri, in sede di alta amministrazione (art. 14-quater, comma 3). 192 S. CIVITARESE MATTEUCCI, Porti turistici. La metamorfosi del potere ministeriale di annullamento delle autorizzazioni paesistiche in seno alla conferenza di servizi; in “Riv. giur. amb.”, 2002, 757. 215 In altre parole, la determinazione sostitutiva (o di secondo grado) assunta dal Consiglio dei ministri, va ad assorbire, o meglio a sostituire, il potere di annullamento ministeriale (almeno sino alla completa attuazione, come si è detto, del nuovo codice dei beni culturali). Nel caso invece che il Ministero o la soprintendenza esprimano il loro assenso al progetto, opera il meccanismo già visto in base al quale il provvedimento finale sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione, concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato (art. 14-ter, comma 9). In altre parole, la procedura della conferenza di servizi - ad avviso del Supremo Consesso Amministrativo - si pone come alternativa a quella di cui all’art. 151 T.U, n. 490/1999 (ora, art. 146 del predetto Codice). Considerare la conferenza di servizi quale strumento procedurale totalmente ed integralmente alternativo rispetto alla procedura ordinaria (consistente in altre parole nell’anticipazione della verifica di legittimità assegnata al Ministero) accelera senz’altro i tempi del procedimento e conferisce miglior certezza e più salda stabilità all’atto finale193. Tale assunto sembra infine trovare una conferma testuale e sistematica nel Testo Unico delle disposizioni in materia di edilizia (D.P.R. n. 380/2001), ove si prevede espressamente, all’art. 5, che lo Sportello Unico per l’edilizia possa acquisire in sede di conferenza di servizi, da convocarsi ai sensi degli articoli 14 e seguenti della L. n. 241/1990, anche «gli atti di assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su immobili vincolati ai sensi degli articoli 21, 23, 24 e 151 del D.L. n. 490/1999». Un ruolo esterno (tutto sommato analogo a quello prospettato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il quesito sopra richiamato) è invece esercitato dalla soprintendenza - ma per espressa previsione normativa, come si vedrà - in materia di porti turistici (D.P.R. n. 509/1997). In seguito a tali interventi del Consiglio di Stato, la giurisprudenza amministrativa di primo grado si è ulteriormente interrogata sul rapporto tra i poteri esercitati da amministrazioni centrali e locali, a vario titolo deputate alla tutela del paesaggio, all’interno della conferenza di servizi (si tratta pur sempre di descrivere il sistema antecedente alla entrata in vigore del codice dei beni culturali). Sul punto si affacciano due tesi, a prima vista inconciliabili ma, a ben vedere, perfettamente compatibili. Secondo la prima di esse (sostenuta dal TAR Veneto nella decisione n. 3587 del 2006), il predetto schema comporterebbe che nella conferenza 193 M. SGROI, La conferenza di servizi tra semplificazione procedimentale e amplificazione delle competenze, in “Urb. e app.”, 2002, 1075. Lo stesso autore manifesta tuttavia la perplessità in merito all’eccessiva amplificazione delle competenze ministeriali in detta materia. 216 decisoria deve intervenire non già l’Amministrazione delegata o subdelegata, ma (soltanto) l’Amministrazione competente ad esprimersi in via definitiva in ordine alla funzione autorizzatoria qui considerata, ossia l’Amministrazione delegante. Dunque la partecipazione dell’amministrazione subdelegata (per lo più quella comunale) alla conferenza sarebbe da considerarsi inutiliter data, essendo quest’ultima a sua volta sostituita dalla Soprintendenza relativamente all’autorizzazione paesaggistica: la sua chiamata in sede di conferenza di servizi comporterebbe la conseguente estromissione dalla conferenza medesima. Condivisibile sul piano dell’efficacia dell’azione amministrativa, si evita tuttavia, in questo modo, il “confronto” tra amministrazioni - statali e locali - portatrici di interessi anche contrapposti, che dovrebbe essere proprio la funzione tipica (accanto a quella ovviamente legata alla semplificazione procedimentale) della conferenza di servizi, ossia la mediazione e il contemperamento delle varie discrezionalità. Tema, questo, già ripercorso in più parti di questo lavoro. Ma la cultura della mediazione, come più volte messo in evidenza, risulta ancora estraneo al modo di agire dei pubblici poteri. Senza dimenticare, peraltro, il principio di (tendenziale) equiordinazione istituzionale introdotto, all’art. 114 Cost., dalla riforma costituzionale del 2001, che risulterebbe seriamente compromesso nel momento in cui la funzione comunale (nella specie subdelegata) sia considerato ad ogni buon conto “oscurato” da quella statale, ossia dall’autorità delegante. Sulla stessa tematica si è espresso il TAR Lombardia, sez. staccata di Brescia, con la decisione n. 13 del 2007. Ci si chiedeva, al riguardo, se la mancata partecipazione della Soprintendenza alla conferenza di servizi non avesse definitivamente consumato il potere dell’amministrazione statale di annullare il provvedimento di autorizzazione paesaggistica. La tesi si fondava sull’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nella procedura della conferenza di servizi resta assorbito - come affermato dal Consiglio di Stato nella pronunzia testè riportata - l’esercizio del potere di riesame e di annullamento della Soprintendenza ex art. 151 del D.L. n. 490/1999 (ora art. 159 del D.L. n. 42 del 2004). Il TAR ha invece ritenuto che, nel caso di specie, la conferenza di servizi aveva autolimitato gli effetti del proprio operato al solo piano istruttorio, senza coinvolgere le funzioni di amministrazione attiva (nella specie di carattere annullatorio) spettanti alla soprintendenza. Il verbale faceva infatti espressamente riferimento all’invio della determinazione conclusiva della conferenza alla soprintendenza, affinché quest’ultima potesse esercitare i poteri (con eventuale annullamento) previsti dalla legge. Alla luce delle pronunzie sin qui commentate, si profilerebbe dunque un modo di partecipazione della soprintendenza, all’interno della 217 conferenza, che si potrebbe definire “a geometria variabile”: qualora la stessa sia invitata alla conferenza, la sua presenza arriverebbe addirittura ad assorbire quella dell’ente (sub)delegato al paesaggio (di solito il comune); qualora invece la soprintendenza sia tenuta fuori dalla conferenza, quest’ultima assumerebbe non più carattere decisorio bensì istruttorio (o meglio “decisorio ma claudicante”), in quanto la sua determinazione finale resterebbe in ogni caso condizionata alla valutazione (esterna) favorevole della soprintendenza medesima. Questa soluzione, a differenza di quanto sostenuto nel paragrafo 2 del presente capitolo (ossia sul necessario confronto tra amministrazioni “in conferenza”), potrebbe tutt’al più essere sostenuta se non altro perché è la legge (e, in particolare, prima la legge n. 431 del 1985 e poi il decreto legislativo n. 490 del 1999, nonché il richiamato codice, seppure con alcune differenze sostanziali) a stabilire un doppio step procedimentale. Nell’uno come nell’altro caso, tuttavia, si rischierebbe di svilire quello che è tra i principali fondamenti dell’istituto della conferenza di servizi, ossia la mediazione ed il confronto delle diverse discrezionalità amministrative o, se si preferisce, l’individuazione dell’interesse prevalente. Come già anticipato, il l0 maggio 2004 è entrato in vigore il nuovo Codice dei beni culturali, emanato con D.L. n. 42 del 2004. Tra le novità più rilevanti la modifica, in tema di tutela del paesaggio, della posizione dello Stato, che non eserciterà più un potere di annullamento sulle autorizzazioni rilasciate dalle amministrazioni competenti (regioni oppure comuni sub-delegati), ma assumerà diversamente un ruolo meramente consultivo, attraverso pareri obbligatori ma non vincolanti (art. 146 del Codice). Tale sistema, si evidenzia, varrà in ogni caso soltanto per quelle regioni in cui è stato approvato il piano paesaggistico; altrimenti si applicherà la disciplina previdente (art. 151 del TU n. 490 del 1999), secondo lo schema classico autorizzazione-annullamento (o, meglio, il parere sarà in questo caso vincolante). Di conseguenza, sembra mutare la posizione della soprintendenza all’interno della conferenza, acquistando il suo ruolo rilievo collaborativo e non più volitivo, e dunque senza effetti sulla deliberazione finale. La partecipazione sarebbe comunque giustificata in base all’assunto, più sopra dimostrato, secondo cui le amministrazioni che esercitano poteri consultivi sono senz’altro ammesse a partecipare ai lavori della conferenza. Ci si chiede, a questo punto, quale conseguenza possa determinare un eventuale avviso negativo (della soprintendenza) espresso in seno alla conferenza, e sempre ammesso che l’amministrazione procedente decida di invitarla (si tratterebbe, è bene chiarirlo, di una ipotesi ai sensi delle nuove disposizioni del Codice, e non ricollegabile a quella affrontata dal TAR 218 Lombardia nella richiamata decisione n. 13 del 2007, in cui si regolava un caso disciplinato dal vecchio sistema normativo). In altre parole, se tale posizione di dissenso potrà o meno innescare una valutazione di secondo grado davanti al Consiglio dei ministri (o meglio, davanti ad una delle due Conferenze, Stato-Regioni oppure Unificata, secondo il nuovo disegno di riforma), come attualmente si verifica sulla base dello schema di cui all’art. 151 del TU n. 490 (in via di totale o meglio parziale estinzione, in quanto dipendente dalla celerità o meno delle singole regioni). A differenza di quanto sostenuto da alcuni194, si ritiene che a tale quesito debba comunque darsi risposta negativa, a prescindere dalla decisione, da parte della amministrazioni procedente, di invitare o meno la soprintendenza. E ciò sulla base del fatto che, in virtù di una lettura combinata degli artt. 14-quater, commi 1 e 2, e 14, comma 2, della legge n. 241 del 1990, il meccanismo sostitutivo deve essere applicato - a parere di chi scrive - soltanto in presenza di atti volitivi (di assenso o dissenso) e non anche - per quanto di particolare rilievo - collaborativi. In ogni caso, internalizzando (attraverso la convocazione della soprintendenza alla conferenza) o non internalizzando (mediante la richiesta di parere esternamente alla conferenza stessa) il dissenso in conferenza, l’amministrazione procedente potrà ovviare a tale impasse soltanto facendo ricorso ad una dettagliata e puntuale motivazione delle ragioni che sono alla base del superamento del parere della soprintendenza. Resta ferma in ogni caso - si rammenta ancora una volta - la disciplina transitoria prevista dall’art. 159 del Codice, a norma del quale per i primi quattro anni dall’entrata in vigore della nuova normativa continuerà ad applicarsi il sistema previsto dall’art. 151 del Testo Unico del 1999, ossia il potere di annullamento statale. Di conseguenza resteranno validi, per tale limitato arco temporale, i principi sino ad ora fissati dalla giurisprudenza amministrativa in merito al ruolo svolto delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi. Tale disciplina troverà poi ulteriore applicazione, come già detto, qualora le regioni non abbiano provveduto ad approvare i piani paesaggistici, secondo lo schema delineato dal codice. Da segnalare, infine, come le problematiche sopra evidenziate afferiscano esclusivamente al ruolo svolto dalle soprintendenze preposte alla tutela dei beni paesaggistici (che incidono non a caso su materie di competenza regionale, come il “governo del territorio”). Diverso è il caso delle soprintendenze preposte alla tutela dei beni culturali in senso stretto, in particolare dei beni immobili e mobili che presentano notevole interesse artistico, storico ed archeologico. In tale contesto, il codice dei beni 194 F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, in AA.VV. 219 culturali prevede, all’art. 25, che “nei procedimenti relativi ad opere o lavori incidenti su beni culturali, ove si ricorra alla conferenza di servizi, l’autorizzazione necessaria ai sensi dell’articolo 21 (demolizione, spostamento, smembramento, etc.) è rilasciata in quella sede dal competente organo del Ministero con dichiarazione motivata, acquisita al verbale della conferenza e contenente le eventuali prescrizioni impartite per la realizzazione del progetto. Qualora l’organo ministeriale esprima motivato dissenso, l’amministrazione procedente può richiedere la determinazione di conclusione del procedimento al Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”. Si tratta, come evidente, di una fattispecie nettamente derogatoria rispetto a quella ora introdotta dalla L. n. 15/2005, che prevede particolari meccanismi di componimento dei contrasti tra amministrazioni statali e amministrazioni regionali o locali (come si vedrà nel successivo paragrafo): in caso di dissenso espresso dalla amministrazione centrale dei beni culturali, infatti, la valutazione di secondo grado sarà sempre svolta dal Consiglio dei ministri, e non dalla Conferenza Stato-Regioni, oppure Unificata, qualora l’interesse statale sia contrastante con quello di altri enti locali o territoriali. L’eccezionalità di tale norma è senz’altro giustificata dalla conclamata competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dei beni culturali”. 5. La legittimazione attiva della P.A. In ordine ai profili processuali, uno dei problemi più rilevanti, affrontato dalla giurisprudenza prima della L. n. 340/2000, è quello relativo alla legittimazione delle singole amministrazioni all’impugnazione dei provvedimenti che maturano nell’ambito della conferenza. Il provvedimento non può essere impugnato dalla conferenza non avendo questa dignità di organo autonomo. Secondo l’originaria previsione della L. n. 241 non poteva esistere la figura della P.A. dissenziente dal momento che la conferenza doveva concludersi all’unanimità; la L. n. 537/1993, confermata in tal senso, dalla L. n. 127/1997 e dalla L. n. 340/2000 ha, invece, previsto che non tutte le PP.AA. debbano assentire o partecipare; di qui il problema della legittimazione dell’amministrazione dissenziente (interna od esterna), ad impugnare il provvedimento finale. Parte della dottrina ritiene che, indipendentemente dal consenso, tutte le P.A. partecipano alla formazione della volontà provvedimentale, quindi nessuna può, pur dissenziente, impugnare il provvedimento finale. Diversamente, la tesi dominante è per la non estinzione del potere di cura degli interessi dei quali sono affidatarie le singole amministrazioni e, 220 quindi, per l’assenza di qualsivoglia preclusione, a far valere sia violazioni formali che violazioni relative ad interessi sostanziali. La tesi era in parte confermata dalla previsione legislativa (art. 14-ter) della legittimazione ad impugnare (in alternativa alla manifestazione del dissenso esterno) da parte dell’amministrazione che non abbia espresso il suo consenso nella conferenza (perché non invitata o non adeguatamente rappresentata), previsione estensibile secondo i più al caso di manifestazione del dissenso all’interno della conferenza. Tale previsione è stata ormai soppressa dalla L. n. 15/2005: ciò non implica, tuttavia, che si possa dire venuta meno la predetta legittimazione ad impugnare. Al contrario la P.A. emanante non può impugnare l’atto, vuoi per il rilievo secondo il quale l’imputazione formale dell’atto le preclude tale via, vuoi per una ragione sostanziale che poggia sul principio di non contraddizione (salvo valutare il potere di autotutela)195. Le soluzioni anzidette sono state elaborate dalla giurisprudenza in epoca nella quale era pacifica la natura della conferenza come strumento di raccordo procedimentale tra le amministrazioni che rimangono autonome e distinte. In questo contesto non si è visto per quale motivo le amministrazioni che abbiano espresso il loro dissenso nell’ambito della conferenza, non possano continuare ad esprimere il loro dissenso in sede giurisdizionale, o per far valere l’impossibilità di decidere senza il loro consenso o per far valere le proprie ragioni. 6. L’instaurazione del contraddittorio Altra questione è quella - già esaminata, per la verità - relativa alla notificazione del ricorso. Il problema è stato affrontato dalla decisione del Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 1999, n. 1193, che si occupava di un decreto di occupazione d’urgenza, adottato nell’ambito di una conferenza, che aveva l’effetto di derogare ad un piano regolatore generale. Nel corso del giudizio veniva eccepita l’inammissibilità del ricorso per l’omessa notifica alla conferenza di servizi, ma i giudici di Palazzo Spada hanno respinto l’assunto in questione sulla scorta della considerazione che la conferenza non è organo autonomo dotato di una propria competenza, per cui non vi sono atti della conferenza annullabili con ricorso e non vi è interesse della stessa a resistere in giudizio. Il problema va risolto secondo le regole di carattere generale e chiedendosi che tipo di atto viene impugnato e a quale 195 Tesi minoritaria fa notare come possano venire in rilievo interessi sopravvenuti grazie ad indagini più approfondite, o nuovi fatti che legittimerebbero anche la P.A. procedente ad adire il G.A. 221 amministrazione bisogna notificare il ricorso se l’atto fosse stato emanato al di fuori della conferenza196. Il Consiglio di Stato, correggendo la motivazione della pronuncia di primo grado, ha escluso, ritenendola non necessaria, la necessità della notifica a tutte le amministrazioni, e conclude per la sufficienza della notifica in capo a quelle amministrazioni che attraverso la conferenza abbiano adottato un atto esoprocedimentale in qualche modo lesivo della sfera giuridica del ricorrente. Se vengono emanati una pluralità di provvedimenti esterni, bisogna verificare quale di essi sia messo in discussione. Nel caso in questione l’atto veniva impugnato nella parte in cui modificava il piano regolatore; quindi il ricorso andava notificato solo a quelle amministrazioni (comune e regione) che avrebbero con variante dovuto procedere ad adeguare il piano stesso197. Tale indirizzo ha poi ottenuto, come visto in precedenza, diverse e recentissime conferme. Si richiamano al riguardo due decisioni, rispettivamente del Tar Calabria e del Tar Toscana. In particolare, nella decisione n. 200 del 2006 il Tar Calabria rammenta come la conferenza dei servizi costituisca un modulo organizzativo volto all’acquisizione dell’avviso di tutte le amministrazioni preposte alla cura dei diversi interessi rilevanti, finalizzato all’accelerazione dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di tutti gli interessi pubblici coinvolti. Secondo l’orientamento pacifico, la conferenza non si identifica con un nuovo organo separato dai singoli partecipanti. Come già visto in precedenza, la conferenza di servizi non è dunque un organo collegiale, ma un modulo procedimentale: ne consegue che l’avviso espresso in conferenza dei servizi dai rappresentanti delle varie amministrazioni partecipanti è pur sempre imputabile alle stesse. “Ciò non implica, tuttavia, che gli atti posti in essere in sede di conferenza in relazione ad essa e, in particolare, quelli con i quali sia espresso l’avviso delle singole 196 Nel senso che la conferenza di servizi non ha legittimazione processuale passiva, cfr. Tar Puglia, sez. II, 19 aprile 1994, n. 570, in I Tar, 1994, I, 2806; Tar Puglia, sez. II, 14 marzo 1994, n. 277, in Foro it., 1995, III, c. 163. Contra, Tar Veneto, sez. 1, 9 dicembre 1992, n. 565, in I Tar, 1993, I, 510. 197 L’assunto in parola sembra trovare conferma nella decisione del Tar Lombardia n. 888 del 2002, nella quale si afferma, nel ribadire la natura di modulo procedimentale e non di organo della conferenza (anche a seguito delle novità apportate dalla L. n. 340/2000), che il provvedimento finale va imputato all’amministrazione che lo adotta e, nel caso di conferenza decisoria, alle amministrazioni che attraverso la conferenza esprimono la loro volontà provvedimentale, sicché la legittimazione passiva in sede processuale spetta solo alle amministrazioni che abbiano adottato il provvedimento rilevante all’esterno. Sulla richiamata decisione, si veda il commento di G. TACCOGNA, Questioni in tema di conferenza di servizi, in “Foro amm.”, 2002, 840 ss. 222 amministrazione, siano idonei a ledere in modo diretto ed immediato la sfera del cittadino inciso dal provvedimento emanato a seguito della conferenza di servizi, perlomeno tutte le volte in cui, come nel caso di specie, l’esito della conferenza dei servizi rappresenti il necessario atto di impulso di un’autonoma fase, volta all’emanazione di un nuovo provvedimento amministrativo dell’amministrazione che ha indetto la conferenza dei servizi. È solo quest’ultimo atto che è direttamente ed immediatamente lesivo ed è contro esso, pertanto, che deve dirigersi l’impugnazione, in quanto gli altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale ovvero non risultano impugnabili se non unitamente al provvedimento conclusivo, in quanto non immediatamente lesivi”. Come anticipato, sul punto si è ulteriormente e diffusamente soffermato il TAR Toscana, nella decisione n. 804 del 2007, in cui si aderisce senza remore al richiamato orientamento giurisprudenziale, ormai dominante: in questa direzione, tra i criteri per la necessaria notificazione alle Amministrazioni coinvolte nella conferenza dei servizi vi è innanzitutto quello per cui tale conferenza deve esercitare poteri decisori e non meramente istruttori. Il secondo requisito è che non debba essere notificato gravame né esclusivamente contro la sola Amministrazione procedente né, al contrario, contro tutte le Amministrazioni coinvolte nella conferenza. Il ricorso, a pena di inammissibilità, deve essere notificato a tutte e sole le Amministrazioni interessate che hanno una competenza esoprocedimentale. Più precisamente: se un’Amministrazione partecipa alla conferenza esercitando una competenza che le avrebbe dato titolo - in caso di esperimento del procedimento normale e non di quello mediante conferenza dei servizi - ad adottare un atto autonomamente lesivo perché conclusivo di un procedimento o subprocedimento, e quindi doverosamente impugnabile nei termini di decadenza, allora il ricorso le deve essere notificato quale parte necessaria del giudizio avverso le determinazioni della conferenza. La ragione - delucidata dalla citata giurisprudenza e decisamente condivisibile - è che le Amministrazioni pubbliche non dissolvono nella conferenza le loro competenze, come se questa costituisse un mero organo amministrativo sostitutivo delle medesime, ma conservano le loro funzioni autonome, variando solo il modo del loro utilizzo. Diversamente, invece, se le Amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi avessero avuto titolo ad esprimere solo un parere o altro atto meramente endoprocedimentale, esse non possono acquisire, grazie all’esperimento del mezzo della conferenza, la natura di parte necessaria di un processo. 223 Un’altra questione particolare è stata affrontata dal Tar Liguria, sez. I, 23 novembre 1999, n. 485. Nella fattispecie un comune impugnava il parere negativo espresso dalla regione in sede di conferenza. Si è posto al riguardo il problema se sia possibile impugnare il parere. Normalmente il parere è ritenuto lesivo quando determina un arresto del procedimento ovvero quando preclude la possibilità dell’amministrazione chiamata a provvedere di rilasciare il provvedimento favorevole al privato. Nel caso di specie ci si chiedeva se si trattasse di un parere preclusivo ovvero di un atto endoprocedimentale non autonomamente lesivo. Questo interrogativo ne porta con sé un altro: la procedura aggravata utilizzabile per superare il dissenso espresso in conferenza da un’amministrazione è alternativa al ricorso giurisdizionale o è obbligatoria? Il Tar Liguria conclude nel senso che questi atti endoprocedimentali sono impugnabili solo laddove dalla loro adozione discenda con carattere di certezza l’impossibilità di ottenere il bene della vita o un ritardo nel loro ottenimento. Nell’ipotesi in considerazione, il parere della regione poteva dirsi aggravatore del procedimento e, quindi, non autonomamente impugnabile. Il comune avrebbe potuto così contestare il dissenso in sede giurisdizionale solo qualora il Consiglio dei Ministri (ora la Conferenza Unificata, secondo le nuove linee introdotte dalla L. n. 15/2005) avesse confermato il dissenso, ossia la posizione contraria della Regione, frustrando la possibilità di avere il bene della vita. In queste ipotesi, però, l’impugnazione andrà proposta, piuttosto che contro il dissenso, avverso il provvedimento della Conferenza Unificata che abbia rifiutato l’adozione del provvedimento. 7. Gli atti impugnabili Nel quadro dei principali aspetti di natura processuale occorre segnalare la problematica degli atti, adottati dalla conferenza di servizi, suscettibili di impugnazione. Una precisazione: sin qui si è parlato degli atti (pareri) emessi dalle singole amministrazioni partecipanti alla conferenza, e dunque prima della decisione finale; ora, in questo paragrafo, si tratterà invece degli atti finali adottati dalla conferenza a conclusione del proprio iter. Il discrimen è ovviamente segnato dalla immediata lesività che tali atti - della conferenza, si ripete, e non delle singole amministrazioni partecipanti - possano o no determinare nei confronti delle posizioni a vario titolo coinvolte nel procedimento; indagine che - come più avanti si cercherà di dimostrare - dipende il più delle volte dal contenuto e dalla volontà che l’amministrazione procedente cercherà di imprimere, in concreto, all’interno del singolo atto. 224 Si riportano, di seguito, alcuni dei casi affrontati, sul tema, dalla giurisprudenza. Il primo di essi riguarda l’art. 14-ter, comma 10, della legge 241/1990 (nel testo introdotto dall’art. 11 della legge 24 novembre 2000 n. 340), il quale prevede, come noto, che “il provvedimento finale concernente opere sottoposte a VIA è pubblicato, a cura del proponente, unitamente all’estratto della predetta VIA, nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino Regionale in caso di VIA regionale ed in un quotidiano a diffusione nazionale. Dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale decorrono i termini per eventuali impugnazioni in sede giurisdizionale da parte dei soggetti interessati”. Il presupposto perché si verifichi la presunzione di conoscenza è quindi la contestuale pubblicazione del provvedimento finale e di un estratto della pronuncia di compatibilità ambientale, intesi quali elementi costitutivi di una fattispecie complessa, che può dirsi realizzata solo in presenza di un compiuto assolvimento degli obblighi di legge. Nella circostanza - rilevava il giudice di primo grado - il decreto dirigenziale di autorizzazione alla costruzione ed esercizio dell’impianto era stato pubblicato senza l’estratto della VIA, con ciò impedendo la produzione degli effetti che l’ordinamento riconduce a ben specifiche formalità: in altre parole, poiché era stato pubblicato il solo decreto dirigenziale di approvazione senza l’estratto della VIA, non sarebbero scattati i termini per l’utile impugnazione del provvedimento. In sostanza, a giudizio del Tar, i ricorrenti non potevano evincere tutti gli elementi essenziali a tal fine prescritti dalla legge, e che “tanto avesse impedito l’automatico decorso del termine decadenziale di impugnativa”. Il Consiglio di Stato, con decisione n. 316 del 2004 della sesta sezione, ha invece optato per una diversa soluzione, affermando principalmente che: a) innanzi tutto, le regole che presiedono alla pubblicazione degli atti amministrativi debbono essere lette con minore rigore e tassatività rispetto a quelle che disciplinano invece la pubblicazione degli atti normativi, nel senso ossia di non tenere conto delle “mere irregolarità”; b) in altre parole, può ammettersi che limitate irregolarità delle operazioni siano valutate come “non incidenti sul perfezionamento della fattispecie, ove, nel complesso, si siano realizzati gli elementi di fatto voluti dalla legge a fini di garanzia della conoscibilità dell’atto”; c) pur essendo mancata, nella specie, la contestuale pubblicazione di provvedimento conclusivo ed estratto Via, è altrettanto indubbio che il tenore del provvedimento dirigenziale ricalcasse gli elementi essenziali della valutazione di compatibilità ambientale: pertanto, “in 225 tal caso la pubblicazione dell’estratto dell’atto presupposto nulla avrebbe potuto aggiungere alla pubblicazione dell’atto finale”; d) si può ritenere, quindi, che i ricorrenti potevano desumere dalla pubblicazione dell’autorizzazione tutti gli elementi essenziali prescritti dalla legge, “essendo onerati, i soggetti interessati, a partire da quel momento, dal decorso del termine di impugnativa”. Il secondo caso riguarda la decisione n. 1060 del 2004 della sesta sezione del Consiglio di Stato. Per la realizzazione di un viadotto, veniva convocata una conferenza cui partecipavano una serie di comuni, per ivi esprimersi sugli aspetti paesaggistici. In seguito, le predette amministrazioni comunali adottavano, separatamente, i relativi atti di assenso. Una associazione ambientalista impugnava ciascuna delle autorizzazioni paesistiche rilasciate. Le amministrazioni comunali eccepivano la mancata impugnazione del verbale della conferenza di servizi, in cui si era discusso proprio delle modalità del rilascio delle predette autorizzazioni. Il Consiglio di Stato ha respinto tale eccezione: la richiamata conferenza di servizi assumeva infatti valore meramente istruttorio e non decisorio, atteso che nel suo svolgimento “non vi è stata alcuna specifica valutazione sugli interessi in conflitto”. Il terzo caso concerne la decisione n. 10641 del 2005 del Tar Campania, ove si rileva l’inammissibilità dell’impugnativa della determinazione con cui si approva il progetto preliminare di lavori pubblici, stante la natura non provvedimentale di tale atto: ciò in quanto gli atti collegati all’esame del progetto preliminare sono privi di autonoma efficacia decisoria e quindi non impugnabili. Secondo il giudice campano, infatti, come chiarito dalla giurisprudenza formatasi sul punto, “il progetto preliminare è strumento di studio e di predisposizione di interventi, ma non individua, come invece fa il progetto esecutivo, le singole aree e l’oggetto definitivo delle statuizioni amministrative. Pertanto il progetto preliminare non è direttamente impugnabile, per carenza di quegli effetti lesivi che derivano esclusivamente dal successivo progetto esecutivo”. Qualche perplessità suscita tale decisione nel momento in cui sia stata avanzata l’opzione zero in sede di conferenza, che rappresenta un vero e proprio arresto procedimentale rispetto alla prosecuzione dei lavori e, dunque, alla giustiziabilità della varie posizioni che risulterebbero eventualmente lese da tale, drastica, posizione delle amministrazioni partecipanti. In particolare, i singoli interessati, pubblici o privati, potrebbero lamentare il fatto che le amministrazioni competenti non abbiano correttamente esercitato il relativo potere, ossia indicando le 226 eventuali alternative progettuali in presenza delle quali manifestare il proprio assenso all’opera. Il quarto caso, sempre in tema di atti impugnabili, è del TAR Lecce, che nella decisione n. 609 del 2007 ha avuto il merito di evidenziare il giusto rapporto che intercorre tra conferenza di servizi ed accordo di programma di cui all’art. 34 del TUEL. Al riguardo, il giudice di prime cure ha ritenuto che il termine a quo per l’impugnativa deve essere fatto decorrere dal giorno della pubblicazione degli atti assunti in sede di Accordo i quali abbiano valenza di variazione degli strumenti urbanistici. Tuttavia, una siffatta valenza non può essere riconosciuta agli atti conclusivi della Conferenza di servizi di cui al comma 3 dell’art. 34 citato. Ciò in quanto l’evidente carattere meramente istruttorio della conferenza di servizi in parola comporta che la valenza lesiva non possa essere connessa alla mera conclusione dei suoi lavori, bensì vada ricondotta alla conclusione dell’Accordo cui essa è prodromica (rectius: al perfezionamento della complessiva fattispecie che consegue alla ratifica, da parte del Consiglio comunale, dell’adesione prestata dal Sindaco). Tanto emerge dal tenore stesso del comma 3 dell’art. 34 in commento, secondo cui scopo della Conferenza di servizi non è quello di adottare determinazioni immediatamente prescrittive in merito alle varianti allo strumento urbanistico, bensì - e più limitatamente - quello di verificare la sola possibilità di concordare l’accordo di programma. Di sicuro rilievo è infine quel filone giurisprudenziale, cui si è già fatto cenno, che pone una distinzione tra verbale e provvedimento finale (si veda sul punto il capitolo III, paragrafo 4): il primo volto a racchiudere (quasi) acriticamente tutti gli orientamenti emersi all’esito dei lavori della conferenza, il secondo teso invece a farne la sintesi e, conclusivamente, a trarne la volontà definitiva in termini di posizioni (risultate) prevalenti. Di qui la conseguenza secondo cui il verbale non sarebbe mai autonomamente impugnabile, se non unitamente al provvedimento finale che ne costituisce organica sintesi. Si contrappone a questa tesi quell’affermazione giurisprudenziale secondo cui la questione viene affrontata in termini più sostanziali (e comunque facoltativi), ossia nel senso di interpretare, di volta in volta ed in concreto, contenuto e volontà del verbale medesimo. Qualora esso contenga ordini autoesecutivi e immediatamente applicabili, il soggetto che si sente leso avrà due strade: impugnare subito il verbale oppure attendere l’emanazione del provvedimento, senza incorrere in rischi di inammissibilità del ricorso. Qualora invece tali ordini non abbiano tale natura, dovrà in ogni caso attendere il provvedimento finale. Come già detto, queste incertezze derivano - con ogni probabilità - dal mutato contesto normativo: mentre prima, infatti, aveva senso distinguere determinazione conclusiva e provvedimento finale (potendo essere acquisite, medio tempore, nuove e diverse posizioni), ora tale distinzione ha 227 perso il significato che gli è proprio, essendo stato eliminato l’istituto del parere postumo. 8. Le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010 Esemplificative della metafora che vede la conferenza di servizi come “cantiere aperto” sono gli interventi modificativi avutisi con l’adozione delle leggi 69/2009, nonché, soprattutto, 122/2010. Il legislatore del 2009, sulla scorta della previsione di cui all’art. 143 del Codice dei contratti pubblici, ai commi 2-bis e 2-ter dell’art. 14-ter, l.241/90, ha finalmente aperto alla possibilità di partecipazione dei privati. In particolare, oltre a prevedere modalità procedurali telematiche, anche mediante webcam, della partecipazione alla prima riunione, ha introdotto la presenza in conferenza, senza diritto di voto, dei soggetti proponenti il progetto dedotto nonché dei concessionari e dei gestori di pubblici servizi, nel caso in cui il procedimento amministrativo o il progetto dedotto richiedano loro adempimenti ovvero incidano direttamente sulla loro attività. La semplice partecipazione si limita, tuttavia, a fornire un contributo collaborativo e chiarificatore, risolvendosi in una mera audizione in cui i soggetti coinvolti, al più, potranno esprimere gli interessi di cui sono portatori. Si segnala, altresì, a livello giurisprudenziale, una recente opzione ermeneutica volta ad ammettere la partecipazione dei privati toccati dagli effetti dell’azione amministrativa, delegando alle amministrazioni procedenti l’onere di individuare i relativi tempi e modi.198 L’art. 49 del d. l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, poi, oltre ad incidere profondamente sulla generale legge sul procedimento amministrativo (si pensi alla SCIA, ad esempio) accoglie in gran parte, e, sia consentito, inopinatamente, le richieste dell’ANCE, finalizzate, soprattutto, ad accelerare le procedure per le aree e gli immobili soggetti a tutela. Nel dettaglio, è stata modificata l’attivazione della conferenza di servizi, i lavori, la disciplina del dissenso, nonché il suo ambito di applicazione (art. 14-ter, quater e 29). Con riguardo alla conferenza istruttoria, le modifiche intervengono sull’art. 14, c.1, il quale, nella versione novellata, prevede che l’amministrazione procedente possa indire, e non più indice “di regola”, la conferenza medesima. La locuzione “può indire” ha, sostanzialmente, decretato la fine del dibattito circa il carattere obbligatorio o meno da annettere alla indizione della conferenza di servizi istruttoria. In particolare, la dottrina prevalente predicava, come già illustrato, il carattere facoltativo dell’indizione della conferenza, rimettendone alla discrezionalità della pubblica amministrazione la relativa decisione, di contro ad altre tipologie 198 Cons. Stato, sez. VI, 6183/2007. 228 di conferenza di servizi, in cui la legge riconoscerebbe all’indizione la qualifica di atto dovuto.Una simile impostazione sembrerebbe coerente con la previsione della novella. L’obbligatorietà è, invece, mantenuta, per la conferenza di servizi decisoria. In particolare, il novellato comma 2 dispone che la conferenza di servizi decisoria possa essere indetta quando nel termine di trenta giorni sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate ovvero, e in ciò si coglie la novità, nei casi in cui sia consentito all’amministrazione procedente di provvedere direttamente in assenza delle determine delle PPAA competenti. La novella in esame interviene, poi, in maniera incisiva sull’art. 14-ter. Nello specifico, viene previsto, riguardo alla convocazione della conferenza, un rinvio, al massimo di quindici giorni, della data della nuova riunione, nel caso in cui la richiesta provenga da un’autorità preposta alla tutela del patrimonio culturale. Viene, poi, introdotto un nuovo comma 3bis, a norma del quale il Soprintendente, in caso di opera o attività sottoposta anche ad autorizzazione paesaggistica si esprime, in via definitiva, in sede di conferenza, ove convocata, in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza, ai sensi del d.lgs.42/2004. Per quanto riguarda il procedimento in materia di VIA, VAS, e AIA molteplici sono state le novità, anche se, in realtà, in questi casi, già era prevista una disciplina speciale. La novella del 2010 ha introdotto un nuovo comma 4-bis il quale prevede che, al fine di accelerare il rilascio degli assensi da parte delle amministrazioni coinvolte, evitando la duplicazione di valutazioni già effettuate in sede di VAS, i risultati e le prescrizioni ivi conseguiti debbano essere utilizzati, senza modificazioni, ai fini della VIA, qualora realizzata dalla medesima autorità competente ad effettuare la VAS. Peraltro, vengono integralmente sostituiti i commi 6-bis e 7. In particolare, il primo dispone che l’amministrazione procedente, in caso di VIA statale, può adire recta via il Consiglio dei Ministri, ai sensi del d.lgs. 152/2006. Per converso, in tutti gli altri casi, valutate le risultanze della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti che sono state espresse, adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, sostitutiva di tutte le autorizzazioni necessarie per il progetto. Inoltre, la versione novellata del comma 7 della norma in esame, con riferimento al silenzio assenso, prevede che è considerato acquisito l’assenso delle amministrazioni, ivi preposte quelle preposte alla tutela della salute e della pubblica incolumità e alla tutela ambientale, il cui rappresentante, all’esito dei lavori della conferenza non abbia definitivamente espresso la volontà dell’amministrazione rappresentata. Tuttavia, ai sensi della norma de qua, tale meccanismo del silenzio-assenso non opererebbe per i provvedimenti in materia di VIA, VAS, AIA, paesaggistico-territoriale. 229 Quanto alla disciplina sul rilievo dei dissensi, si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante, all’esito dei lavori della conferenza, non abbia definitivamente espresso la volontà dell’amministrazione rappresentata, qualora, come ovvio, manchi l’unanimità. Inoltre, a tenore del novellato art. 14-ter, conclusi i lavori della conferenza ovvero scaduto il termine entro il quale avrebbero dovuto concludersi, la Pa procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento, alla quale si uniformerà l’atto finale, previa valutazione delle risultanze della conferenza e considerate le posizioni prevalenti ivi espresse. Ciò posto, è evidente che dei dissensi si dovrà tenere conto come risultanze della conferenza, ma gli stessi non potranno negare l’eventuale assunzione di una decisione conforme alle posizioni prevalenti. Sembra, in tal modo, che ai pareri, ai nulla osta, nonché agli assensi delle amministrazioni, diverse da quella competente a prendere la decisione finale sia attribuita, in sostanza, la diversa natura di atti consultivi.199 Infine, l’intervento di modifica operato dal legislatore del 2010 ha inciso anche sulla disposizione contenuta nell’art. 14-quater, l. 241, relativamente agli effetti del dissenso espresso in sede di conferenza di servizi. Più in particolare, viene introdotto un unico comma 3, in sostituzione dei commi 3, 3-bis, 3-ter e 3-quater, a tenore del quale è rimessa all’esame del Consiglio dei Ministri la maggior dei casi di motivato dissenso, escluse le ipotesi di cui all’art 117 c. 4 Cost. (la norma si riferisce, in particolare, alle intese tra le regioni), di specifici procedimenti disciplinati nel Codice dei contratti pubblici (D.Lgs.163/2006 e s.m.i.), nonché di localizzazione di opere di interesse statale. Da ultimo, va evidenziato come, in virtù della modifica della norma di cui all’art. 29, l 241, relativa all’ambito di applicazione della stessa legge, le norme che disciplinano la conferenza di servizi vengono inserite tra i livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantiti in tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, l.m) della Costituzione (una materia di legislazione esclusiva dello Stato)200. 199 Adesiva la tesi di Sorace, “Diritto delle amministrazioni pubbliche: una introduzione”, Bologna, 2010, 394-395. 200 Un cenno, pur minimo, meritano il Dl 70/2011, che è intervenuto sul termine di conclusione dei lavori in sede di Consiglio dei Ministri (entro 30 giorni), nella stessa logica acceleratorio-centralistica animatrice delle altre novità legislative sull’ istituto della conferenza e la attualissima discussione parlamentare, finora non approdata ad esiti definitivi in termini di effettiva e vigente normazione, circa la possibilità, per quanto qui interessa, di estendere ad eventuali rappresentanti di enti ausiliari delle amministrazioni coinvolte, di partecipare ai lavori conferenziali (il riferimento è al c.d Codice della P.a., attualmente vaglio delle Camere). 230 CAPITOLO 4 LE C.D. CONFERENZE DI SERVIZI SPECIALI, O DEROGATORIE l. Premessa. - 2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994). - 3. Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici (c.d. Legge Obiettivo). 4. La realizzazione dei/porti turistici (D.P.R. n. 50911997). - 5. Interventi in materia di energia. - 6. Lo Sportello Unico per le attività produttive. - 7. Altre procedure. - 8. Post scriptum. l. Premessa Le disposizioni di cui alla citata L. n. 241/1990, relative alla disciplina generale della conferenza di servizi, vengono spesso richiamate da specifiche norme di settore per l’applicazione di detto istituto in occasione di determinati procedimenti autorizzatori quali, ad esempio, la localizzazione di opere pubbliche o di interesse statale (D.P.R. n. 383/1994), la concessione di beni del demanio marittimo (D.P.R. n. 509/1997), l’autorizzazione per l’insediamento di attività produttive (D.P.R. n. 447/1998), la realizzazione delle grandi infrastrutture di carattere strategico (D.L. n. 190/2002), in particolare nel settore dell’energia (decreto L. n. 7/2002, c.d. “sbloccacentrali”, e D.L. n. 330 del 2004, recante integrazioni al D.P.R.8 giugno 2001, n. 327, in materia di espropriazione per la realizzazione di infrastrutture lineari energetiche) e delle telecomunicazioni (D.L. n. 198/2002). Lo specifico richiamo si giustifica soprattutto per la possibilità di introdurre deroghe rispetto all’applicazione ordinaria dell’istituto della conferenza, sia nel senso di una amplificazione dei relativi poteri (es. procedimenti ove è possibile introdurre modifiche sostanziali agli strumenti urbanistici), sia nell’opposto senso di una loro compressione (es. procedure ove la conferenza ha solo natura istruttoria, oppure dove non trova pienamente applicazione il criterio della maggioranza). Per vero si assiste, da ultimo, ad un massiccio utilizzo di tali conferenze di settore, ognuna dotata di una peculiare disciplina, in parte o del tutto diversa da quella prevista dalla legge generale sul procedimento. Tanto che si potrebbe arrivare a parlare di una vera e propria “fuga dal procedimento”, con ogni conseguenza in ordine alle politiche di semplificazione normativa ed amministrativa, che di questo passo potrebbero risultare seriamente compromesse. 231 Nel corso del presente capitolo si tenterà dunque di delineare, seppure approssimativamente, alcune delle principali procedure di intervento recanti una disciplina derogatoria della normativa generale sulla conferenza di servizi. 2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994) Come già anticipato all’inizio di questo lavoro, nell’ambito dei contratti pubblici (e specificamente nel campo dei lavori pubblici), di particolare importanza è il ruolo assunto dalla conferenza di servizi. L’art. 97 del Codice dei contratti stabilisce infatti che l’approvazione dei progetti avviene in conformità alla legge n. 241 del 1990 e, in particolare, degli articoli 14-bis e seguenti della legge generale sul procedimento. Anche l’art. l0 del codice, riprendendo quanto contenuto nella Legge Merloni (legge n. 109 del 1994), attribuisce al responsabile del procedimento il compito di indire la conferenza di servizi, per l’acquisizione dei necessari atti di assenso delle altre amministrazioni a vario titolo coinvolte nella procedura di approvazione del progetto. L’istituto in esame trova dunque applicazione nella fase di progettazione, sia essa preliminare (si veda l’art. 14-bis della legge n. 241) sia essa definitiva (cfr, il successivo art. 14-ter della stessa legge 241), dell’opera pubblica, ossia laddove è necessario acquisire atti di assenso delle pubbliche amministrazioni portatrici dei vari interessi di settore (es. beni culturali o dissesto idrogeologico) ai fini della approvazione dei richiamati documenti progettuali (disciplinati dall’art. 93 del codice dei contratti). Per la verità, già una precedente versione della Legge Merloni (ossia quella modificata dalla legge n. 415 del 1998) prevedeva un procedimento speciale di conferenza di servizi per l’approvazione dei progetti, preliminari e definitivi, relativi alla realizzazione di opere pubbliche. Tale procedura speciale venne poi abrogata dalla legge n. 340 del 2000, dal momento che la stessa aveva introdotto - per ogni tipologia di procedimento amministrativo, ossia non solo in tema di lavori pubblici l’istituto della conferenza preliminare: dunque, non vi era più motivo di mantenere in piedi due sistemi normativi (legge 241 e legge Merloni) di analogo contenuto, dato che in entrambi era rinvenibile una disciplina della conferenza di servizi concernente sia la fase preliminare (art. 14-bis della legge 241 e art. 7 della legge Merloni) sia la fase definitiva (art. 14-ter della legge 241 e, ancora, art. 7 della legge Merloni). Restava per la verità qualche incongruenza normativa, dal momento che non veniva allo stesso tempo abrogato il rinvio allo stesso art. 7 della 232 Legge Merloni, contenuto nell’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del 1990. Tale difetto di coordinamento legislativo è stato poi definitivamente risolto dalla legge n. 15 del 2005 (art. 8, comma l, lettera b), che ha eliminato il terzo periodo del comma 3 dell’art. 14, nella formulazione previgente alla stessa novella del 2005). La valutazione progettuale, da operare in sede di conferenza di servizi, è altresì prevista per gli appalti di servizi e forniture, e ciò in base al combinato disposto degli articoli 94 e 97 del Codice. Al di là della approvazione dei progetti, l’istituto della conferenza di servizi trova peculiare applicazione - per quanto concerne i lavori - ai fini della localizzazione delle opere pubbliche, qualora gli strumenti urbanistici vigenti non contemplino la possibilità di realizzare dette opere: in questo caso si tiene una conferenza di servizi “speciale”, ai sensi del D.P.R. n. 383 del 1994, per apportare le necessarie modifiche alla normativa di piano e, dunque, in funzione della allocazione oppure della tracciatura dell’opera. Si tratta allora di una conferenza che si svolge non sull’approvazione del progetto, ma che si attesta in una fase precedente, relativa ossia alla contestualizzazione urbanistica dell’opera. Al riguardo si confrontano due tesi. Secondo la prima, di matrice ministeriale, le due fasi della localizzazione e della progettazione debbono essere intese in senso dicotomico. Ed infatti, mentre la conferenza di servizi sulla localizzazione, indetta soltanto dal Ministero delle Infrastrutture (che non è di solito anche l’ente aggiudicatore), è strettamente intesa ai soli fini urbanistici, e dunque alla definizione del tracciato, la seconda conferenza di servizi, tenuta non a caso da un ente che il più delle volte è diverso dal Ministero delle Infrastrutture, trattandosi dell’ente che poi aggiudica l’appalto, è relativa soltanto agli aspetti progettuali dell’opera. La seconda tesi è invece diretta ad assimilare le due fasi (localizzazione e progettazione): e ciò in base ad alcuni indici normativi (per la verità abbastanza inconfutabili) contenuti nel D.P.R. n. 383 del 1994, in base ai quali la conferenza di servizi valuta e si esprime sui progetti definitivi (art. 3, commi 2, 3 e 4). Tale orientamento è stato fatto proprio dal Consiglio di Stato (sez. IV), nella sentenza n. 2773 del 2006. La connotazione in senso dicotomico (prima tesi) ovvero unitario (seconda tesi) non è di poco conto, se solo si tiene conto che i concessionari di opere pubbliche (es. ANAS, RTI, etc.) potrebbero partecipare (e addirittura sollecitare la convocazione della conferenza di servizi), secondo la prima tesi, soltanto alla seconda conferenza, ossia quella sulla approvazione del progetto. Diversamente, per i fautori della seconda tesi i concessionari in parola sarebbero legittimati a partecipare alla conferenza (e a sollecitarne la convocazione) già a partire dalla fase di 233 localizzazione (per quanto si parla in questo caso di sole amministrazioni pubbliche), che comprende anche quella di approvazione progettuale. La tematica si riflette anche sulla comunicazione di avvio del procedimento, che nella prassi (ministeriale) viene spostata nella seconda conferenza (prima tesi), in cui si svolgono le valutazioni sul progetto definitivo (in questo senso depone anche quanto previsto dall’art. 166, comma 2, del Codice, in tema di grandi opere). Sul tema si tornerà più ampiamente in occasione dei progetti ferroviari. Onde risolvere i richiamati problemi di partecipazione dei concessionari e di comunicazione ai privati, il d.d.l. Capezzone della XV Legislatura (AS 1532) contiene un importante riferimento alla possibilità, per i concessionari di servizi di pubblica utilità (anche se solo gestori), di poter partecipare, senza diritto di voto, a tutte le conferenze di servizi da cui traggono adempimenti di loro stretta competenza. Dunque, anche in quelle conferenze che vertono sulla localizzazione delle opere (v. nuovo art. 14 l. 241/90, come modificato dalla l. 122/2010, ultimo paragrafo del capitolo precedente)/ Si rammenta peraltro, a tale riguardo, il ruolo che i concessionari di opere pubbliche stanno vieppiù assumendo all’interno della conferenza di servizi. Fatte queste premesse di ordine sistematico, si illustrano di seguito i principali passaggi procedimentali riguardanti il D.P.R. n. 383 del 1994, sulla localizzazione di opere pubbliche. Al riguardo, l’art. 55 disciplina la fase prodromica al procedimento di localizzazione ex D.P.R. n. 383/1994, e pertanto la realizzazione del progetto dovrà necessariamente essere preceduta dalla presentazione alla Regione, da parte della competente amministrazione, di un quadro complessivo delle opere che si intendono realizzare nel territorio regionale (tratto, questo, rinvenibile anche nella “Legge Obiettivo”). Più specificamente, il procedimento di localizzazione si apre con l’accertamento di conformità dell’opera alle prescrizioni delle norme e dei piani urbanistici ed edilizi, effettuato dallo Stato, e cioè dal provveditore alle opere pubbliche competente per territorio, d’intesa con la regione interessata. Qualora tale accertamento sortisca un esito negativo (l’intesa, cioè, evidenzi la difformità dell’opera rispetto agli strumenti urbanistici), l’autorità interessata indice una conferenza di servizi cui partecipano le altre amministrazioni coinvolte (la Regione, il comune previa deliberazione del Consiglio comunale, le amministrazioni competenti in relazione ai vincoli esistenti sull’area; nonché tutti gli altri enti comunque tenuti ad adottare atti d’intesa, oca rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni, nulla osta, ecc.). 234 La conferenza valuta il progetto e si esprime sui progetti definitivi entro 60 gg. dalla convocazione, apportando direttamente ad essi le modifiche eventualmente necessarie. L’approvazione unanime dei progetti intervenuta in sede di conferenza importa la deroga automatica degli strumenti urbanistici, e sostituisce non solo gli atti endoprocedimentali, come i pareri, i nulla osta, ecc., ma anche ì provvedimenti conclusivi, come le concessioni, le autorizzazioni e le approvazioni eventualmente richiesti dalle norme vigenti. La mancanza di unanimità in sede di conferenza di servizi determina l’applicabilità dell’art. 81, comma 4, del D.P.R. n. 616/1977: l’autorità procedente rimette gli atti alla Presidenza del Consiglio dei ministri, e la questione, sentita la commissione interparlamentare per le questioni regionali, viene decisa con decreto del presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente per materia. Ciò in quanto al caso della mancanza di unanimità non sembrano applicabili le disposizioni dell’art. 14-quater, comma 3 della L. n. 241/1990. Come evidenziato dal Consiglio di Stato (parere n. 1622 del 1997), queste si riferiscono infatti alla conferenza di servizi in generale, che costituisce uno strumento di semplificazione amministrativa e di snellimento dei procedimenti, ma che deve sempre muoversi nel rispetto della normativa vigente. In altre parole, lo spazio all’interno del quale si muove la conferenza di servizi non è quello della deroga, ma quello della composizione delle discrezionalità amministrative e dei poteri spettanti alle amministrazioni partecipanti. Se si ritenesse altrimenti, si dovrebbe giungere alla conclusione, contrastante con i principi generali dell’ordinamento, che la conferenza di servizi possa diventare uno strumento di costante disapplicazione della normativa (secondaria) o degli atti amministrativi generali (come i piani regolatori generali)201. La natura della conferenza di servizi disciplinata dall’art. 3 del D.P.R. 383/1994, invece, avendo ad oggetto la localizzazione di opere di interesse statale difformi dagli strumenti urbanistici, assume un carattere speciale, di tipo derogatorio. Essa, infatti, mira al raggiungimento di un accordo concernente una deroga ad un atto amministrativo generale efficace202. 201 Si veda, sul punto, quanto affermato nel citato parere del Consiglio di Stato, n.1622/1997. 202 “La L. n. 241 del 1990, nell’introdurre una disciplina di carattere generale relativa all’istituto della conferenza di servizi, non ha disposto l’abrogazione delle discipline previgenti da essa difformi, contenute in leggi speciali, e ciò perché le disposizioni contenute in queste ultime leggi non possono essere tacitamente abrogate da successive disposizioni contenute in leggi a carattere generale; pertanto, restano ancora pienamente operanti le disposizioni speciali che, in materia di approvazione dei progetti di trattamento e smaltimento dei rifiuti, indeterminati casi, prevedono che le relative 235 In altre parole, poiché si tratta di modificare atti amministrativi generali, si applica (o meglio si torna ad applicare) in questi casi il criterio dell’unanimità e non della maggioranza, anzi della “prevalenza” (come prevede l’attuale disciplina di carattere generale); per il resto, si applica il procedimento ordinario. Se la conferenza di servizi «speciale» disciplinata dall’art. 3 del D.P.R. 383/1994 consente, in caso di accordo, di derogare al piano regolatore generale, essa invece non sembra in grado di superare il motivato dissenso espresso dalle amministrazioni preposte alla tutela paesaggisticoterritoriale, nonché del patrimonio storico-artistico. Il comma 2 dell’art. 3 in esame specifica infatti che la conferenza stessa valuta i progetti «nel rispetto delle disposizioni relativa ai vincoli archeologici, storici, artistici ed ambientali». In tale prospettiva, la rimessione degli atti al Consiglio dei ministri consente di oltrepassare anche questo ostacolo. La deliberazione del Consiglio, infatti, deve ritenersi capace di superare l’eventuale dissenso delle amministrazioni menzionate, a causa della partecipazione alla deliberazione stessa degli organi di vertice di tali amministrazioni203. In altre parole, con la procedura fissata dall’art. 81, comma 4, del D.P.R. n. 616/1977, la composizione dei contrapposti interessi delle amministrazioni statali e locali coinvolte in un procedimento si realizza garantendo da un lato che l’opera di interesse statale ritenuta irrinunciabile sia portata comunque a compimento, e dall’altro che alla sua localizzazione e progettazione partecipino le regioni e gli altri enti locali (in sede di conferenza di servizi «speciale», di natura decisoria, ma anche derogatoria), ed altresì le amministrazioni statali portatrici di interessi contrapposti (in sede di conferenza, ma anche di Consiglio dei ministri): dunque, si prevede la rimessione al Consiglio dei ministri non solo dei dissensi concernenti interessi sensibili, ma di ogni tipo di dissenso, e dunque anche locale o regionale. Si segnala, in questo senso, la sentenza n. 540 del 2002 del TAR Abruzzo sul noto caso del traforo del Gran Sasso. Decisione, questa, che convince per il risultato (illegittimità delle determinazione finale in presenza del dissenso di una amministrazione, l’Ente Parco), ma non per le argomentazioni addotte a sostegno del risultato stesso. Il giudice amministrativo abruzzese parte infatti dal presupposto che la conferenza prevista dal D.P.R. n. 383 abbia ad oggetto soltanto profili urbanistici, e che dunque gli altri interessi, tra cui quello ambientale (cui è preposto l’Ente Parco), siano da vagliare ai sensi degli artt. 14 ss. della L. n. 241: deliberazioni vengano adottate a maggioranza” (T.A.R. Veneto, sez. I, 11 novembre 1999, n. 1985). 203 Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 183-184. 236 pertanto, il dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela dell’ambiente deve essere rimesso al Consiglio dei ministri ai sensi dell’art. 14-quater della L. n. 241, senza che lo stesso possa essere superato con il criterio della maggioranza. A parte ogni altra considerazione, relativa alla constatazione che l’applicazione integrale del D.P.R. n. 383, contemplante la necessaria unanimità dei consensi, comporta l’innesco della procedura dinanzi al Consiglio dei ministri in ogni caso, a prescindere dalla natura o meno sensibile dell’interesse tutelato dall’amministrazione dissenziente, deve peraltro rilevarsi come la asserita applicazione “a geometria variabile” dell’istituto della conferenza di servizi (D.P.R. n. 383 per i profili urbanistici, 241 per gli altri interessi), nell’ipotesi delineata dal TAR Abruzzo, contrasti: a) con la previsione di cui all’art. 3, commi l, 2 e 4, del D.P.R. n. 383/1994, secondo cui debbono trovare adeguata valutazione e ponderazione, nelle relativa conferenza di servizi, tutti gli interessi a vario titolo coinvolti, compresi quelli ambientali e paesaggistici, e non solo quelli legati all’assetto urbanistico (è naturalmente fatta salva l’ipotesi in cui si debba innestare un procedimento VIA, la quale precede ed assorbe, per i profili ambientali e paesaggistici, le conclusioni della conferenza stessa); b) con i principi di unicità, semplificazione e concentrazione, che trovano espressione nel più generale divieto di aggravio procedimentale di cui alla stessa L. n. 241 del 1990. Sicuramente degna di nota è altresì la decisione del TAR Veneto n. 2234 del 2005. Qui la conferenza sulla localizzazione di un’opera autostradale, cui partecipava un rappresentante della soprintendenza ai beni culturali e paesaggistici, era stata preceduta dalla VIA. Quest’ultima, non avendo trovato soluzione risolta nella sede ordinaria per contrasto tra amministrazioni statali, era stata portata alle valutazioni del Consiglio dei ministri, che si esprimeva poi positivamente sulla predetta compatibilità ambientale. Nonostante tale posizione del Consiglio dei ministri, cui aveva peraltro partecipato il Ministro dei Beni Culturali, il dirigente della soprintendenza, nella successiva conferenza sulla localizzazione (qui si eminentemente ai fini urbanistici, dal momento che i profili ambientali e paesaggistici erano stati affrontati e risolti con la procedura VIA) si esprimeva tuttavia negativamente. Il Ministero delle Infrastrutture - non potendo fare applicazione del principio maggioritario - considerava in ogni caso tamquam non esset tale parere, in quanto la relativa posizione dei beni culturali doveva ritenersi “assorbita” dalla decisione del Consiglio dei ministri. Il TAR Veneto riteneva invece illegittimo l’operato del Ministero, in quanto la conferenza di servizi sulla localizzazione di opere statali (D.P.R. 237 n. 383 del 1994) richiede l’unanimità, in luogo della maggioranza: pertanto, in presenza di un parere negativo, doveva trovare applicazione la procedura di cui all’art. 81 del D.P.R. n. 616 del 1977. Tale posizione non appare del tutto convincente. Ed infatti, il D.P.R. n. 383 del 1994, fatta eccezione per alcuni aspetti come l’unanimità dei consensi, rinvia, per la parte residuale della disciplina della conferenza di servizi in esso contemplata, alla legge n. 241 del 1990. Ebbene tale legge prevede, all’art. 14-ter, comma 5, che nei casi in cui sia intervenuta la VIA (positiva), le disposizioni sul dissenso si applicano solo alle amministrazioni preposte alla cura della salute, del patrimonio artistico e della pubblica incolumità: dunque, non anche a quelle che tutelano il paesaggio, e ciò in quanto la loro posizione viene assunta (ed assorbita) in seno alla VIA. Nel caso di specie, dunque, la VIA (anche con riferimento agli aspetti relativi al paesaggio) doveva essere ritenuta favorevolmente acquisita, in seno alla conferenza stessa, tramite l’assunzione della relativa decisione da parte del Consiglio dei ministri; di conseguenza, anche il parere paesaggistico doveva essere ritenuto assorbito dalla predetta valutazione di impatto ambientale, e ciò soprattutto ai fine del computo dei necessari (ed unanimi) consensi in sede di conferenza stessa. Ben aveva fatto, allora, il Ministero delle Infrastrutture, a non considerare il parere successivo (e contrario) del dirigente della soprintendenza, atteso che la posizione di quest’ultimo doveva ritenersi assorbita - come detto - dal provvedimento adottato in sede di Consiglio dei ministri: in altre parole, la questione andava dunque risolta in termini di mera ammissibilità del parere (come effettivamente deciso dal Ministero procedente), e non di suo computo ai fini del raggiungimento della necessaria unanimità dei consensi (aspetto questo indiscusso, per effetto della richiamata specialità del D.P.R. n. 383). Sempre con riferimento all’applicazione del D.P.R. n. 383/1994, il Tar Liguria (n. 1652 del 2003) ha ritenuto - confermando il suddetto indirizzo che debba qui trovare eccezionalmente applicazione il criterio dell’unanimità, in luogo di quello maggioritario (ora, delle “posizioni prevalenti”), per le seguenti ragioni: a) la ratio legis richiede che sull’intervento da realizzare sia acquisita l’intesa di tutti i soggetti istituzionalmente preposti alla tutela dei diversi interessi pubblici coinvolti. E ciò soprattutto in linea con il nuovo quadro costituzionale che si è venuto a formare a seguito dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001. Sul punto, il TAR richiama altresì la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 303 del 2003), che ha sancito la necessaria presenza di un sistema di intese tra Stato e regioni, qualora per insopprimibili esigenze di carattere unitario lo Stato intervenga su materie di 238 competenza regionale, quale è quella relativa al “governo del territorio”; b) la disciplina che il D.P.R. n. 383/1994 detta in tema di conferenza di servizi si caratterizza per la sua “specialità” rispetto alla normativa generale di cui alla L. n. 241/1990: ciò soprattutto a causa della previsione di cui all’art. 3, comma 5, del regolamento stesso, che esclude la disciplina generale per la parte in cui prevede (va) la non applicabilità della “unanimità temperata” (ossia, la rimessione della determinazione finale al Presidente del Consiglio dei ministri, nelle ipotesi di dissenso da parte di una o più delle amministrazioni partecipanti, come prevista dalla L. n. 537/1993, e che ora risulta sostituita dal diverso criterio maggioritario, ora delle “posizioni prevalenti”). In altre parole, la ratio che ha ispirato il legislatore è che in ogni caso, qualora si ravvisi un qualsiasi dissenso all’interno della conferenza di servizi, non si proceda attraverso una semplice determinazione sostitutiva del Presidente del Consiglio, ma si inneschi una procedura aggravata, più complessa, che garantisca in via ottimale anche gli interessi regionali attraverso il coinvolgimento del Consiglio dei ministri nella sua collegialità, il Presidente della Repubblica e, soprattutto, la commissione parlamentare per le questioni regionali. Tale esigenza si manifesta con maggior rilievo allo stato della vigente legislazione, considerato, da un lato, la novella costituzionale del 2001, e, dall’altro lato, l’introduzione, in luogo del meccanismo della “unanimità temperata”, del criterio maggioritario (rectius, della “posizioni prevalenti”) per la composizione degli interessi, che evitando, in assenza di interessi sensibili, una valutazione di secondo grado, potrebbe porre vieppiù in pericolo le prerogative costituzionali di regioni ed enti locali. In sintesi, se il D.P.R. n. 383/1994 ha dato preferenza, in caso di dissenso espresso in conferenza, al sistema aggravato di cui all’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977, in luogo della semplice determinazione presidenziale, a maggior ragione si deve ritenere che la procedura stessa debba continuare ad applicarsi, adesso che è stato introdotto il criterio della maggioranza che evita (fatta eccezione per la presenza di interessi sensibili, tra i quali non rientra tuttavia l’urbanistica) la rimessione degli atti al Presidente del Consiglio, e dunque non trovando più applicazione nemmeno il meccanismo della “unanimità temperata”. Sennonché, tali argomentazioni potevano ritenersi valide sino alla introduzione dei nuovi meccanismi di gestione del dissenso previsti dalla L. n. 15/2005, sui quali ci si è già ampiamente soffermati. Ed infatti, mentre per gli enti locali (che potranno invocare valutazioni di secondo grado, secondo il nuovo sistema, solo in presenza di interessi sensibili da loro espressi) continuerà a ritenersi preferibile il regime di cui all’art. 81 239 del D.P.R. n. 616/77, per le regioni, sia in relazione ad interessi sensibili, sia ad altri interessi comunque costituzionalmente riservati, risulterà più garantista il sistema di gestione del dissenso delineato dalla nuova legge di riforma del procedimento amministrativo (che in tal caso devolverà le valutazioni di secondo livello alla Conferenza Stato-Regioni). Per l’onnicomprensività del procedimento di cui al D.P.R. n. 383/1994 si è espresso il Consiglio di Stato, ossia nel senso che le conclusioni della conferenza di servizi assorbono ogni valutazione non solo con riferimento alla localizzazione dell’opera, ma anche relativamente all’approvazione del progetto di opera pubblica. Al riguardo, il Consiglio di Stato, sez. IV, nella pronunzia n. 2773 del 2006 ha ritenuto che le disposizioni dell’ormai abrogato terzo comma dell’art. 81 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (secondo cui “la progettazione di massima ed esecutiva delle opere pubbliche di interesse statale, da realizzare dagli enti istituzionalmente competenti, per quanto concerne la loro localizzazione e le scelte del tracciato se difforme dalle prescrizioni e dai vincoli delle norme o dei piani urbanistici ed edilizi, è fatta dall’amministrazione statale competente d’intesa con le regioni interessate [...]”) e quelle corrispondenti del “nuovo” procedimento disegnato, per le opere di interesse statale difformi dagli strumenti urbanistici, dall’art. 3 del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 383 (“la conferenza si esprime sui progetti definitivi entro sessanta giorni dalla convocazione, apportando ad essi, ove occorra, le opportune modifiche, senza che ciò comporti la necessità di ulteriori deliberazioni del soggetto proponente: comma 3) vanno interpretate nel senso di attribuire all’atto di approvazione del progetto da parte della conferenza, cui fa cenno il successivo comma 4 (“l’approvazione dei progetti [...] sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le concessioni, anche edilizie, le autorizzazioni, le approvazioni, i nulla osta, previsti da leggi statali e regionali”: primo periodo), nei casi in cui la decisione sia adottata dalla conferenza di servizi all’unanimità, non il mero valore di deroga agli strumenti urbanistici generali dei comuni interessati dalla esecuzione dell’opera pubblica, ma anche il valore di approvazione definitiva del “progetto definitivo”. Tanto, si badi, non certo in virtù della generica applicabilità alla particolare conferenza di servizi prevista dal citato decreto presidenziale delle disposizioni degli articoli 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990 nel testo successivamente innovato dall’articolo 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, quanto piuttosto in forza dello stesso schema legalmente tipizzato del procedimento de quo, che, come s’è visto, prevede che tale approvazione avvenga senza che ciò comporti la necessità di ulteriori deliberazioni del soggetto proponente (art. 3, comma 3, del D.P.R. n. 383/1994) e contiene un preciso riferimento all’approvazione dei progetti una volta che l’accertamento di conformità urbanistica abbia dato esito positivo (art. 14-ter della legge n. 241/90, nella versione rado ne temporis applicabile alla fattispecie, specificamente riferito alla conferenza di servizi di cui all’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383). 240 Secondo detto schema legale, dunque, l’atto finale della conferenza ha rilevanza tanto ai fini della verifica di conformità urbanistica, quanto ai fini della approvazione del progetto definitivo e, pertanto, ai sensi dell’art. 14, comma 13, della legge n. 109/1994, della dichiarazione di pubblica utilità dell’opera. 3. Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici (c.d. Legge Obiettivo) Con il D.L. n. 190/2002, in attuazione della delega al governo prevista con la L. n. 443/2001, sono state introdotte una serie di deroghe ad importanti istituti quali la VIA, la conferenza di servizi e, in generale, l’appalto di lavori pubblici, al fine di accelerare le procedure di progettazione, affidamento ed esecuzione delle grandi opere infrastrutturali di preminente interesse nazionale, pubbliche e private, da realizzare per la modernizzazione e lo sviluppo del Paese. Tale normativa è stata poi integralmente trasfusa nel Codice dei contratti. Per quanto attiene in particolare alla fase della progettazione, il decreto legislativo di attuazione prevede espressamente, ai fini dell’approvazione del progetto preliminare (art. 165 del Codice), la non applicabilità dell’istituto della conferenza di servizi, cui si dovrebbe generalmente ed ordinariamente ricorrere ai sensi dell’art. 14-bis della L. n. 241/1990. In alternativa, si assiste ad un ritorno al procedimento di stampo classico, caratterizzato dalla sequenzialità degli atti e dei relativi passaggi, al termine dei quali il CIPE (che decide con l’intervento dei Presidenti di Regione), dietro proposta del Ministero delle Infrastrutture, decide a maggioranza sull’approvazione del progetto (preliminare). Tale approvazione ha effetto anche ai fini della localizzazione dell’opera, qualora gli strumenti urbanistici necessitino di apposita modifica in tal senso. Le relazioni istruttorie di competenza delle diverse amministrazioni chiamate ad esprimersi sul progetto preliminare, non vengono dunque acquisite attraverso una conferenza di servizi, bensì mediante un tipico procedimento di natura «diacronica» (e non «sincronica», opportunità ineludibilmente offerta dalla conferenza di servizi), ossia mediante il riproporsi di un modello rigidamente sequenziale che, proprio per l’appesantimento procedurale che ne derivava, gli interventi di riforma amministrativa degli ultimi anni avevano cercato di eliminare. A differenza delle valutazioni espresse dalle amministrazioni centrali che - anche in presenza di interessi sensibili - rivestono prevalentemente carattere istruttorio e non vincolante, l’eventuale dissenso delle regioni 241 viene diversamente gestito, sia per i progetti interregionali ed internazionali, sia per quelli infraregionali (seppure con diversi livelli di intervento), mediante l’applicazione - in ultima istanza - del procedimento indirettamente rinvenibile nell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977 (ossia, D.P.R. dietro deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentita la Commissione parlamentare per le questioni regionali). Sistema, quello appena delineato, che la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 303 del 2003, ha peraltro ritenuto compatibile con il nuovo quadro delle competenze costituzionali, sorto a seguito della legge costituzionale n. 3/2001; e ciò in quanto lo Stato ben può assumere in sussidiarietà funzioni amministrative per poi regolarle in ossequio al principio di legalità, a patto che sia adeguatamente rispettato il principio di leale collaborazione. Resta un dubbio: il superamento del dissenso regionale nelle forme dell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977, è in grado di superare “la prova del nuovo Titolo V”, soprattutto tenuto conto che si deve trattare di intese in senso forte, ossia superabili solo dopo avere esperito “ogni utile sforzo”? Il passaggio obbligatorio al parere della commissione per le questioni regionali (forma primigenia del possibile, futuro, Senato federale), costituisce di sicuro un elemento di garanzia - almeno sulla carta - per le autonomie territoriali, ma non al pari del confronto (effettivamente) paritario e del livello di ponderazione che si possa ottenere in una sede come quella della Conferenza Stato-Regioni, come previsto dalla nuova riforma della disciplina della conferenza di servizi (peraltro esclusa dalla “Legge Obiettivo”). Ancora sul tema dell’art. 81 del D.P.R. n. 616, si rinvia a quanto riportato nel paragrafo 2 di questo capitolo). All’interno della procedura di approvazione è da ritenersi molto probabile l’innesto del procedimento di valutazione di impatto ambientale, come disciplinato dall’art. 185 del Codice, che prevede il rispetto di tale adempimento soltanto nella fase preliminare e non anche in quella definitiva, all’interno della quale si esercita un (diverso) potere di verifica ambientale. In via generale, l’approvazione della compatibilità ambientale avviene contestualmente, ad opera dello stesso CIPE, a quella relativa al progetto preliminare, con la sola eccezione dovuta ad un eventuale motivato dissenso dei ministeri dell’ambiente e dei beni culturali. In questo caso la decisione sulla Via è rimessa al Consiglio dei Ministri. Nel silenzio del legislatore deve reputarsi che, in tale ultima ipotesi, la determinazione sostitutiva del Consiglio dei Ministri (si osservi, sulla sola compatibilità ambientale e non anche sul progetto preliminare) si attesti in una fase (ovviamente e) cronologicamente anteriore rispetto alla delibera del CIPE in merito all’approvazione del progetto preliminare (che naturalmente dipenderà dall’esito positivo della Via). 242 Per quanto riguarda invece l’approvazione del progetto definitivo, l’art. 166 del Codice prevede la convocazione, da parte del Ministero delle Infrastrutture, di una conferenza di servizi di natura esclusivamente istruttoria ed alla quale non si applicano, quindi, le disposizioni relative al principio della maggioranza (o meglio delle posizioni prevalenti) e alla tutela degli interessi sensibili. Le posizioni assunte dalle amministrazioni debbono soltanto essere prese in considerazione dal Ministero in termini di compatibilità con le indicazioni emerse nel progetto preliminare, ai fini della successiva proposta al CIPE, che anche in questo caso decide a maggioranza, salva l’ipotesi di dissenso regionale, nel qual caso troveranno applicazione le procedure descritte in tema di progetti preliminari. Da una lettura sistematica della disposizione si evince che, pur essendo prevista in tale ipotesi una conferenza di servizi (di natura tuttavia esclusivamente istruttoria, e quindi non vincolante per la proposta definitiva che l’amministrazione deve adottare al termine del procedimento), il criterio della decisione «a maggioranza» da parte del CIPE trova applicazione anche nei confronti della amministrazioni portatrici di determinati interessi C.d. sensibili (beni culturali, ambiente, salute). Si osserva, a tale particolare riguardo, che con il criterio della maggioranza vengono superati gli interessi sensibili (beni culturali, ambiente, salute) ma non quelli regionali (presumibilmente espressi anche in materie diverse da quelle «sensibili», come ad esempio l’urbanistica), che in caso di dissenso vengono «gestiti» dinanzi al Consiglio dei Ministri, secondo lo schema tipico dell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977. Con il risultato che gli «interessi sensibili» dello Stato si collocherebbero in una posizione deteriore rispetto a quelli (eventualmente anche «non sensibili») tutelati dalle regioni. L’art. 168 del Codice, il quale riporta quanto previsto dal decreto legislativo n. 189 del 2005 che, a sua volta, aveva introdotto uno specifico art. 4-ter all’interno del decreto legislativo n. 190 del 2002, reca una disciplina speciale della conferenza istruttoria che si esprime sul progetto definitivo. In particolare, vengono definite modalità e termini per la formulazione di osservazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (che possono far pervenire contributi scritti anche al di fuori della conferenza), nonché il coinvolgimento di terzi (privati) e dei concessionari (oppure dei contraenti generali) all’interno della conferenza medesima. Dunque, se da un lato si deroga rispetto alla disciplina ordinaria dell’istituto, dall’altro lato si introducono importanti strumenti di democrazia partecipativa che, allo stato, fanno ancora fatica ad essere introdotti nel procedimento de quo. 243 Per quanto attiene alla natura meramente istruttoria della conferenza di servizi contemplata dall’art. 4 del decreto n. 190 (ora trasfusa nel Codice dei contratti), è intervenuta una sentenza del TAR Lazio (n. 3312 del 2004). Veniva qui proposta eccezione di inammissibilità del gravame per carenza di interesse, sollevata dalle amministrazioni resistenti, in considerazione della natura istruttoria della conferenza di servizi concernente un’opera ferroviaria inclusa nel primo programma delle infrastrutture strategiche. Il Tar ha accolto tale eccezione, ritenendo dirimente, ai fini del decidere, l’enucleazione della esatta collocazione giuridico-sistematica della conferenza di servizi in questione. Si rammenta, ad ogni buon conto, che la conferenza istruttoria si esprime sul progetto. Successivamente, il Ministero delle Infrastrutture, anche sulla base dei pareri espressi in conferenza (ma senza essere ad essi vincolato) presenta una proposta204 di approvazione al CIPE, integrato anche dai Presidenti di Regione, il quale decide a maggioranza dei componenti. Ciò significa che il progetto cui fa riferimento il verbale della conferenza di servizi non è ancora stato approvato, e dunque che tali conclusioni possiedono comunque carattere inautonomo, risultando prive - in quanto non dotate di effettualità esterna - del requisito della lesività nei confronti dei soggetti destinatari dell’attività amministrativa. In definitiva, l’impugnativa del verbale della conferenza di servizi è da ritenersi inammissibile per carenza di interesse a ricorrere, concernendo un atto meramente istruttorio, preparatorio ed endoprocedimentale, e non approvativo del progetto dell’opera ferroviaria in questione. 4. La realizzazione dei porti turistici (D.P.R. n. 509/1997) All’interno delle principali discipline speciali che debbono trovare un coordinamento sistematico con l’istituto della conferenza di servizi occorre ricordare il D.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509, recante disciplina del procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a norma dell’art. 20, comma 8, della L. n. 59/1997. Tale normativa, che si riferisce in concreto alla realizzazione e alla modernizzazione di porti turistici, si caratterizza per la presenza di tre fasi essenziali: la prima consiste nella presentazione, da parte di un soggetto privato (spesso una società mista pubblico-privato), di un progetto che viene sottoposto ad esame preliminare all’interno di una conferenza di servizi all’uopo indetta; in caso di valutazione di ammissibilità dello stesso, la seconda fase si concentra nella convocazione di una ulteriore conferenza 204 Detta proposta non si limita a recepire le indicazioni provenienti dalla singole Amministrazioni, ma si configura come proposta autonoma, frutto di una ponderazione comparativa di quanto sostenuto dalle altre Amministrazioni. 244 di servizi, da svolgersi ai sensi della L. n. 241/1990, ed avente ad oggetto l’approvazione del progetto definitivo; nella terza fase, in caso di ulteriore esito favorevole della conferenza di servizi definitiva, il Ministero delle Infrastrutture rilascerà il provvedimento di concessione demaniale205. Alla luce di tale procedimento speciale - che comprende due conferenze, l’una preliminare e l’altra definitiva - la L. n. 241/1990, almeno sino alle modifiche ad essa apportate dalla L. n. 340/2000, si inseriva soltanto nell’ambito della seconda fase (quella relativa all’approvazione del progetto definitivo), dal momento che la sua disciplina non si riferiva a conferenze di tipo preliminare. Con l’introduzione, ad opera dell’art. 10 della L. n. 340/2000, di quest’ultimo tipo di conferenza, ci si è allora chiesti se tale procedimento non assorba integralmente quanto disposto dal D.P.R. n. 509/1997, con ciò abrogandolo implicitamente; il problema risiede, in altre parole, nello stabilire se, anche a fronte di tale nuovo intervento normativo, il regolamento in oggetto continui a preservare il suo carattere di norma speciale ovvero se lo stesso debba intendersi ormai abrogato e quindi riassunto nella normativa più generale della L. n. 241/1990, che contiene anch’essa la possibilità di ricorrere alla conferenza preliminare. A quest’ultima domanda sembrerebbe tuttavia di doversi dare risposta negativa: a ben vedere, nell’impianto delineato dal D.P.R. n. 509/1997 il passaggio dalla conferenza preliminare a quella definitiva non appare così automatico ed esclusivo. In caso di approvazione del progetto preliminare, infatti, si aprono due strade per la successiva approvazione del progetto definitivo: nell’ipotesi in cui detto progetto risulti conforme ai vigenti strumenti urbanistici, si procederà alla convocazione di una conferenza di servizi; nel caso in cui non si riscontri invece tale conformità, si dovrà ricorrere, al fine di apportare le necessarie varianti, ad un accordo di programma ex art. 27 della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del TUEL). Così ragionando, ciò che non sarebbe possibile realizzare attraverso l’applicazione della L. n. 241/1990, la quale, non avendo natura sostanziale e quindi derogatoria, non consente di apportare varianti agli strumenti urbanistici, lo sarebbe mediante l’applicazione del D.P.R. n. 509/1997, il quale contempla invece tale possibilità. In altre parole, se si accettasse la tesi secondo la quale la L. n. 241/1990, prevedendo ora la possibilità di ricorrere alla conferenza preliminare, renderebbe inutile l’applicazione del D.P.R. n. 509/1997206, ci si priverebbe inevitabilmente dell’opportunità (offerta dal legislatore stesso) di avvalersi di uno strumento derogatorio, quello dell’accordo di programma, al fine di 205 Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 183-184. 206 Dato che tale ultima norma di legge riprende lo stesso percorso procedurale, ossia conferenza preliminare-conferenza definitiva, già prevista dal D.P.R. n. 509/1997. 245 apportare varianti al PRG in caso di difformità del progetto rispetto ai piani urbanistici; varianti che l’applicazione del D.p.R. n. 509/1997 consentirebbe, al contrario, di introdurre concretamente in virtù di quanto disposto dal richiamato art. 6. In conclusione, si ritiene che.il D.P.R. n. 509/1997, anche a fronte delle rilevanti novità introdotte dall’ultimo intervento di riforma in tema di conferenza di servizi, mantenga ancora inalterata la natura di procedimento speciale. Un discorso a parte merita il ruolo esercitato dalle soprintendenze, preposte alla tutela dei beni paesaggistici, all’interno di tale speciale procedura, su cui ci si è già soffermati. Al riguardo, è intervenuto un importante parere del Consiglio di Stato (n. 2457 del 2001), che si è occupato dell’interpretazione da darsi agli art. 5 e 6 del D.P.R. n. 509/1997. Il problema che si è posto il Supremo Consesso Amministrativo consiste nel fatto che i predetti artt. 5 e 6 prevedono il modulo della conferenza di servizi per l’approvazione dei progetti, escludendo espressamente dalla conferenza la partecipazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e affidando la tutela dei beni paesistico-ambientali esclusivamente alla regione o ai comuni interessati eventualmente delegati. Per di più, mentre l’art. 5, concernente i progetti preliminari, prevede espressamente, nel comma 9, l’invio immediato al Ministero delle determinazioni assunte ex art. 7 L. n. 1497/39 (ora art. 146 del codice dei beni culturali), affinché questi possa esercitare i poteri di riesame e annullamento previsti, una disposizione analoga non è contemplata nell’art. 6, che riguarda l’approvazione dei progetti definitivi e che, pur affidando tale approvazione a una conferenza di servizi o a un accordo di programma (a seconda che il progetto sia conforme o meno alle previsioni urbanistiche) tiene ferma l’esclusione dalla conferenza di servizi e dall’accordo di programma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ribadendo la previsione già operata nell’art. 5. Di qui l’interrogativo (posto dall’ufficio legislativo del Ministero dei Beni Culturali) se possa ritenersi in via interpretativa che anche il progetto definitivo vada sottoposto al vaglio ministeriale, ovvero se il silenzio del legislatore sul punto richieda un’integrazione normativa. Al riguardo il Consiglio di Stato ha ritenuto che non sia necessaria un’integrazione normativa, potendosi in via intepretativa pervenire alla conclusione che anche nel caso di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 509/1997 sia dovuto l’invio al Ministero, per i fini di cui all’art. 151 T.U. n. 490/1999 (ora art. 146 del codice, che tra l’altro non prevede più l’annullamento ministeriale), delle determinazioni assunte in sede di conferenza di servizi o di accordo di programma. 246 Ciò anche alla stregua di un preciso orientamento della giurisprudenza costituzionale, che ha più volte avuto occasione di sottolineare come il paesaggio costituisca un valore etico-culturale che trascende le competenze della regione e che coinvolge tutte le amministrazioni, ed in primo luogo lo Stato e le regioni, in un vincolo reciproco di leale cooperazione. Da ciò deriva che il potere di riesame e di annullamento, previsto dall’art. 151 T.U, n. 490/1999, si poneva come regola generale dell’ordinamento di settore, e quindi sempre operante, anche se non espressamente previsto da norme specifiche (questo sempre secondo il sistema pre-codicistico). Il Consiglio di Stato conclude quindi ritenendo che, analogicamente a quanto previsto dall’art. 5, anche l’art. 6 del D.P.R. n. 509/1997 vada interpretato nel senso che le determinazioni finali assunte in sede di conferenza di servizi o di accordo di programma debbono essere inviate al Ministero per i Beni e le Attività Culturali: diversamente opinando, infatti, poiché il Ministero è espressamente escluso dalla procedura per volontà normativa, si dovrebbe ammettere che nella fattispecie verrebbero meno sia il vincolo di leale cooperazione che deve caratterizzare il rapporto StatoRegione, sia i poteri di “estrema difesa del vincolo” che sono (o meglio, erano) affidati allo Stato. Tale sistema ha conservato la sua validità, ovviamente, sino alla piena attuazione del codice dei beni culturali su questo specifico tema (I° maggio 2008). 5. Interventi in materia di energia In materia di energia si sono succeduti almeno tre fondamentali provvedimenti normativi: il decreto L. n. 7/2002, in materia di “sbloccacentrali”; la L. n. 239/2004 (c.d. “Legge Marzano”), in materia di “sbloccalinee”; il D.L. n. 330/2004, che introduce importanti disposizioni per la fase espropriati va, nonché, con particolare riferimento ai metanodotti, per la fase autorizzativa. A) Il decreto L. n. 7/2002 (c.d. “sbloccacentrali”), prevede un procedimento unico che si svolge davanti al Ministero per le Attività Produttive, il quale indice una conferenza di servizi le cui risultanze sfociano in un provvedimento che, in seconda istanza, deve essere adottato “di intesa” con la regione interessata (tale modello, conosciuto anche come “avocazione in sussidiarietà di funzioni regionali”, è stato peraltro avallato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 2004). Come sottolineato nel capitolo IV, da una analisi della legislazione di settore adottata a seguito del nuovo Titolo V, emerge un sostanziale 247 rispetto (ma soltanto all’interno della prima fase della conferenza di servizi) del principio della necessaria e ineludibile leale collaborazione. È quanto si riscontra con riferimento al decreto L. n; 7 del 2002, la cui procedura, prima assunta in via temporanea, è stata ora “stabilizzata” mediante il D.L. n. 290/2003. Al riguardo, sia la fase della programmazione, sia quella relativa alla realizzazione delle centrali elettriche (che si svolge attraverso il rilascio di una autorizzazione unica a cura del Ministero per le Attività Produttive), deve avvenire - come già anticipato con il sistema delle intese Stato-Regioni. In particolare, l’intesa per la realizzazione dell’opera si verifica “fuori” dalla conferenza, ossia dopo la sua chiusura, e non prima, ossia all’interno della conferenza (cui la regione sarà comunque chiamata il partecipare, anche se non con un ruolo necessariamente deliberante). La sesta sezione del Consiglio di Stato, con decisione n. 3502 del 2004, si è preoccupata di configurare la natura giuridica di tale intesa tra lo Stato e la Regione. Nel caso di specie, a seguito del rilascio dell’autorizzazione la regione revocava, con delibera consiliare, il relativo atto di intesa: gli appellanti (una associazione ambientalista contraria alla installazione della centrale) ritenevano dunque che l’autorizzazione rilasciata dal Ministero sarebbe divenuta inefficace, a seguito del predetto atto di ritiro. Il Consiglio di Stato ha invece rigettato tale impostazione, ritenendo che l’atto di intesa della regione sia qualificabile come atto endoprocedimentale, sulla cui base è stato adottato il provvedimento finale di autorizzazione. “Dopo la conclusione del procedimento la revoca di un atto endoprocedimentale non può in alcun modo essere idonea a travolgere il provvedimento finale, che quindi resta valido e pienamente efficace. La regione poteva al più chiedere al Ministero delle Attività Produttive di esercitare i propri poteri di autotutela in ordine all’autorizzazione rilasciata, rappresentando non semplici valutazioni di ordine politico, ma la sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse giustificative dell’annullamento dell’autorizzazione”. Le conclusioni del Consiglio di Stato sembrano condivisibili, tenuto conto che il modello della leale collaborazione interistituzionale trova applicazione in ogni momento dello svolgersi dell’azione amministrativa, e dunque anche nella fase dell’esercizio dello ius poenitendi, che deve sempre rispettare il principio del contrarius actus: in altre parole, se per il rilascio dell’autorizzazione è necessario un atto di intesa tra Stato e Regione, parimenti deve avvenire, sul piano procedimentale, per il ritiro del medesimo atto. Piuttosto, ci si chiede quali possano essere gli strumenti per superare un eventuale contrasto sorto ab origine tra Stato e Regione, tale ossia da non consentire il raggiungimento dell’intesa. 248 Secondo alcuni, il mancato raggiungimento dell’intesa, in assenza di una disposizione normativa (presente invece, come si vedrà, in altre provvedimenti concernenti sempre la materia energetica) che individui specifici meccanismi di risoluzione dell’impasse, risulterebbe preclusi va, in termini assoluti, al rilascio dell’autorizzazione: in altre parole, la mancanza dell’intesa equivarrebbe a rigetto dell’istanza di autorizzazione. Secondo altri, occorrerebbe comunque ispirarsi, pur in assenza di una previsione legale tipizzata, a quell’orientamento della giurisprudenza costituzionale (cfr. sent. n. 27 del 2004) secondo cui, in presenza di “intese forti”, occorre compiere “ogni sforzo utile” per il raggiungimento delle intese stesse. Di qui, la possibilità di attivare forme di superamento del contrasto riconducibili - almeno lato sensu - a quelle di recente introdotte dalla L. n. 15/2005, che prevede in tal caso il ricorso alle valutazioni ulteriori della Conferenza Stato- Regioni. La tesi da ultimo esposta troverebbe una conferma di tipo letterale nell’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990, che prescrive l’applicazione della conferenza di servizi, quale modello generale, anche nelle ipotesi in cui è necessario acquisire “intese”. Di qui, l’applicazione dello stesso modello generale anche ai fini del superamento di eventuali dissensi. Parte della giurisprudenza non ha tuttavia abbracciato tale tesi. Ed infatti il TAR Calabria, con la decisione n. 200 del 2006, ha affermato che, anche in caso di mancata intesa (dunque dopo la conferenza, ritenuta di natura eminentemente istruttoria) tra Stato e regione interessata, non trovano applicazione i meccanismi sostitutivi di cui al comma 3 dell’art. 14-quater della legge generale sul procedimento. Nel quadro delineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 6 del 2004, infatti, non è dato comprendere che rilievo possano avere le nuove norme in materia di conferenza di servizi, atteso che una cosa è l’esito della conferenza, ben altra l’acquisizione dell’intesa. L’esito della conferenza attiene alla definizione del modulo procedimentale previsto dagli articoli 14 e seguenti della legge n. 241/90. L’intesa della regione tende invece ad attuare quelle modalità di collaborazione nello svolgimento delle funzioni che, secondo l’impostazione della Corte Costituzionale (cfr. sentenze nn. 303 del 2003 e 6 del 2004), rende aderente al dato normativo costituzionale l’assetto delle attribuzioni in materia, quale definito dalle norme di legge statale. Nella pronuncia sopra richiamata del Consiglio di Stato (n. 3502 del 2004) si affronta altresì il tema relativo alla natura giuridica della conferenza di servizi, ossia quella svolta prima del rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministero. Secondo il Consiglio di Stato, “si tratta di una conferenza di servizi istruttoria, che ha il fine di consentire la partecipazione al procedimento delle amministrazioni e le cui conclusioni assumono solo valenza 249 istruttoria, di cui dovrà ovviamente tenere conto l’organo competente ad assumere la determinazione finale (nel senso che potrà discostarsi da tali conclusioni solo con adeguata e ragionevole motivazione). Il legislatore ha quindi previsto non una decisione pluristrutturata, tipica della conferenza di servizi decisoria, in cui il provvedimento finale concordato sostituisce i necessari assensi delle amministrazioni partecipanti, ma una decisione monostrutturata, in cui vi è un’unica amministrazione competente che deve acquisire l’avviso di altre amministrazioni, oltre all’intesa con la regione di cui si è detto in precedenza”. Vi sono dunque due livelli decisionali. Il primo ha carattere istruttorio e si svolge in conferenza di servizi (l’intesa in questi termini è definita per l’appunto “debole”). Il secondo ha carattere definitivo e si svolge in sede bilaterale - e soprattutto fuori conferenza - tra Stato regione (l’intesa è in questo caso “forte”). Del resto, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2004, ha evidenziato come, oltre alla previsione dell’intesa “forte” con la regione interessata, il D.L. n. 7 del 2002 ha prescritto l’obbligo di richiedere il parere motivato del comune e della provincia nel cui territorio ricadono le opere in modo da assicurare un sufficiente coinvolgimento degli enti locali, in relazione agli interessi di cui siano portatori ed alle funzioni loro affidate. Il principio di leale collaborazione si attua quindi in maniera “forte” nei rapporti con la Regione, con cui deve necessariamente essere raggiunta un’intesa, e in maniera “debole” con le altre amministrazioni interessate, cui deve essere consentito di partecipare al procedimento e di esprimere il proprio parere. L’acquisizione di tale parere in sede di conferenza di servizi ha una valenza meramente istruttoria. La conseguenza più immediata è che per la giurisprudenza, anche alla conferenza di servizi (in quanto istruttoria) non si applicano tutte le disposizioni volte a rimediare alla non unanimità, ossia l’art. 14-quater, comma 3, della L. n. 241/1990: “in sede di conferenza istruttoria, infatti, non è richiesta l’unanimità, poiché tale conferenza non è un mezzo di manifestazione del consenso”. Dunque, secondo tale indirizzo la disciplina del dissenso di cui all’art. 14-quater non si applica né alle intese deboli (conferenza istruttoria), né a quelle forti (intesa Stato-Regione). Tale impostazione, che ha trovato conferma in alcune decisioni di primo grado (cfr. TAR Lazio, 14 aprile 2005, e TAR Salerno, n. 2233 del 2006), suscita per la verità alcuni dubbi, come di seguito meglio specificato: l. Il procedimento dello “sbloccacentrali” prevede l’acquisizione, al suo interno, della VIA, la quale a sua volta trova la relativa disciplina di 250 2. 3. 4. riferimento, per quanto riguarda il suo rapporto con la conferenza di servizi, all’interno del solo modulo decisorio, e non di quello istruttorio (cfr. artt, 14-bis e 14-ter della L. n. 241/1990); La presenza di amministrazioni portatrici di interessi sensibili all’interno della conferenza (es. salute, paesaggio) ed il conseguente (ed eventuale) superamento dei possibili dissensi, da loro espressi, in applicazione dei meccanismi che presiedono alla conferenza istruttoria (dunque, decisione unilaterale dell’amministrazione procedente, ossia il Ministero per le Attività Produttive, pur se dietro ampia e adeguata motivazione), determinerebbe con tutta probabilità la lesione di interessi costituzionalmente protetti, con particolare riferimento agli articoli 9 e 32 Cost.; Sulla base delle più recenti scelte di politica legislativa, quando si vuole evidenziare che una conferenza di servizi, soprattutto se prevista in materie di strategica importanza (es. grandi infrastrutture), debba avere natura meramente istruttoria, è il legislatore che, direttamente, provvede a qualificarla come tale (cfr. D.L. n. 190/2002). Caratteristica, questa, non altrimenti rinvenibile nel caso di specie; Il recente D.L. n. 330/2004, che riguarda le infrastrutture lineari energetiche e che prevede, in parte qua, l’applicazione delle disposizioni sullo “sbloccacentrali’’qualifica (quasi) espressamente tale conferenza come “decisoria”. B) La Legge Marzano (n. 239/2004) è invece diretta a snellire, all’art. l, comma 26 (che riscrive l’art. l-sexies del decreto L.n. 239/2003) le procedure di realizzazione degli elettrodotti, nell’obiettivò di provvedere al potenziamento della rete di trasporto nazionale (RTN). Si prevede una procedura sostanzialmente simile a quella dello “sbloccacentrali”, ossia un procedimento unico da adottarsi ai sensi dei principi di cui alla L. n. 241/1990 (dunque, la conferenza di servizi), la cui durata è stabilita in 180 giorni ed all’interno del quale viene altresì acquisita (con allungamento dei relativi termini) la valutazione di impatto ambientale. Infine, l’atto conclusivo della conferenza, ossia l’autorizzazione, è adottata di intesa con la regione interessata. In caso di mancata definizione dell’intesa, sono attivati (ed in questo sì differenzia dallo “sbloccacentrali”) i poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost. Si evidenzia come la previsione di un potere sostitutivo di questo tipo sia probabilmente in contrasto con le finalità ed i presupposti che sono alla base della disposizione costituzionale stessa (art. 120 Cost.). Conformemente all’indirizzo della Corte Costituzionale che, in materia di “intese forti”, pone l’esigenza di compiere “ogni sforzo utile” per il raggiungimento delle medesime intese, si riterrebbe preferibile un 251 sistema di superamento del contrasto più vicino a quello delineato dalla recente legge di riforma del procedimento amministrativo (L. n. 15/2005). C) Dal canto suo, il D.L. n. 330/2004 interviene, da un lato, in senso trasversale su tutti i procedimenti in materia di energia, recando la disciplina in tema di espropriazione per pubblica utilità; dall’altro lato, pone in essere anche alcune norme riguardanti i procedimenti autorizzativi connessi, in particolare relativi ai metanodotti. A tale ultimo riguardo viene previsto un procedimento unico, all’esito del quale il Ministero per le Attività Produttive rilascia l’autorizzazione, di intesa con la regione interessata. In caso di mancata definizione dell’intesa - e qui sta il carattere peculiare della previsione - si costituisce un collegio tecnico a composizione paritaria per la formulazione di una nuova proposta. In caso di ulteriore esito negativo, si provvede con D.P.R., previa delibera del Consiglio dei ministri, integrato dal Presidente della regione interessata (che partecipa presumibilmente, per le ragioni in precedenza esposte, senza diritto di voto), e sentita la Conferenza Stato-Regioni. Si tratta senz’altro di una procedura complessa, ma comunque in grado di rispettare i parametri imposti dal nuovo ordinamento costituzionale e, tutto sommato, anche di consentire l’adozione di un provvedimento efficace e condiviso da tutti gli attori del processo. Prova ne sia che in questo lavoro si è fatto riferimento anche a tale ipotesi, al fine di migliorare l’attuale meccanismo generale di soluzione dei conflitti. 6. Lo Sportello Unico per le attività produttive Lo Sportello Unico per le attività produttive trova due fonti essenziali, ossia il D.L. n. 112/1998 (artt. 23, 24 e 25) e il D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, come modificato dal D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440. Lo spirito cui si richiama l’istituto in oggetto è quello della semplificazione amministrativa, in particolare attraverso la riduzione del numero dei procedimenti amministrativi, anche mediante la loro unificazione207. Il fine ultimo dell’istituto in questione, pertanto, è quello di ridurre fortemente i costi amministrativi per le imprese, con un impatto significativo sullo sviluppo economico territoriale. 207 Al riguardo, giova osservare che la legge quadro sul turismo, 29 marzo 2001, n. 135, prevede che i procedimenti amministrativi per il rilascio di ogni tipo di autorizzazione per l’apertura di esercizi turistici si informino a principi di unicità e speditezza, utilizzando a tal fine la disciplina dello Sportello Unico. 252 Lo strumento attraverso il quale concretizzare l’accelerazione dei tempi è, per l’appunto, la conferenza di servizi di cui alla legge n. 241 del 1990. De iure condendo, il più volte citato d.d.l. Capezzone della XV Legislatura (AS 1532) imprime una particolare accelerazione alla suddetta procedura, prevedendo persino alcuni interventi in deroga rispetto alla disciplina generale, con particolare riferimento alla durata della conferenza ed alla applicazione del silenzio-assenso in caso di inerzia delle amministrazioni competenti. In merito alle principali disposizioni del D.L. n. 112/1998, l’art. 23 si preoccupa di attribuire ai comuni le funzioni amministrative concernenti la realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie. In sintesi, compito dello Sportello Unico è quello di acquisire la pluralità di assensi che debbono essere resi dalle amministrazioni, rimanendo l’unico interlocutore del cittadino, sulla scorta di un principio di unificazione funzionale. Lo Sportello Unico si traduce non semplicemente in un’unità procedimentale, quanto piuttosto nell’articolazione, sotto forma di subprocedimenti, di quelli che prima erano realtà procedimentali autonome, senza però che ciò comporti un azzeramento degli interessi pubblici confluiti nel procedimento unitario, della cui soddisfazione dovrà essere dato conto in sede motivazionale. Il principio di unicità che ispira il procedimento in questione si evidenzia nella unicità di domanda che il privato deve presentare e nella unicità di struttura con cui deve interagire208. Giova rammentare, in proposito, che la disciplina ricavabile del D.P.R. n. 447/1998, emanato in attuazione dell’art. 25 del D.L. n. 112/1998, prevede il ricorso all’istituto della conferenza di servizi in tre distinte occasioni: a) all’art. 2, laddove è ammessa la possibilità per il comune di individuare le aree da destinare all’insediamento di impianti produttivi, anche eventualmente adottando varianti rispetto agli strumenti urbanistici; 208 Ancora problemi di coordinamento devono essere denunciati a causa della non cristallina formulazione dell’art. 1 del D.P.R. n. 447/1998. Tra le zone d’ombra che concernono l’ambito d’applicazione del regolamento occorre denunciare la circostanza che rimangono salve le previsioni del D.L. n. 114/1998 in materia di commercio, con ciò non chiarendosi, se si sia voluto escludere dall’ambito di efficacia dello sportello gli esercizi commerciali. Sul punto cfr., F.F. TUCCARI, L’ambito d’applicazione del regolamento sullo Sportello Unico, in Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa, Milano, 1999, 71 ss. 253 b) all’art. 4, in presenza di autorizzazioni per l’insediamento di impianti e depositi nucleari, di armamento, di olii minerali e di rifiuti, ovvero, quando sia richiesta una valutazione di impatto ambientale, ovvero ancora quando il privato non intenda avvalersi del procedimento mediante autocertificazione, allo scadere di termini prestabiliti dalla stessa norma; c) all’art. 5, laddove è prevista la possibilità di addivenire all’adozione della variante al piano urbanistico, su progetto presentato dal privato, subordinatamente al ricorrere di una duplice condizione: che il progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale, sanitaria e di sicurezza del lavoro; che «lo strumento urbanistico comunale non individui aree da destinare agli insediamenti produttivi ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto presentato»209. È questa l’ipotesi di maggiore applicazione nella prassi amministrativa. È stato affermato (TAR Pescara, n. 56 del 2005, nonché TAR Lecce, n. 965 del 2007) che l’esito della Conferenza dei Servizi consistente - ai sensi del comma 2 dell’art. 5 del D.P.R. 20 ottobre 1998 n. 447 - in una proposta di variante dello strumento urbanistico su cui è chiamato a pronunciarsi definitivamente il Consiglio comunale, non è certamente vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente valutare se aderire o meno a tale proposta (TAR Marche, l0 aprile 2004, n. 145). In questi termini, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, decc. nn. 3593 del 2007 e 1644 del 2007; in tale ultimo caso il Supremo Consesso ha infatti ritenuto che la determinazione della conferenza dei servizi, nell’ambito del particolare procedimento di cui al ricordato articolo 5, non ha un immediato e diretto contenuto provvedimentale, ma rappresenta, a sua volta, un semplice atto di impulso (proposta) dell’autonomo procedimento (di natura esclusivamente urbanistica) volto alla variazione del vigente piano regolatore, rientrante nelle attribuzioni esclusive dell’ente locale. È altresì prevista la partecipazione dei privati alla conferenza. Tale specificazione, da taluni vista come eccezione alla regola generale del mancato coinvolgimento dei privati, è in realtà una disposizione necessaria, posto che, trattandosi di conferenza in materia di pianificazione urbanistica, 209 Deve segnalarsi, al riguardo, l’indirizzo giurisprudenziale ad avviso del quale l’istanza del privato, susseguente al diniego opposto per dichiarata incompatibilità del proposto intervento con l’attuale assetto urbanistico, risulta idonea ad imporre, in chiave sollecitatoria e alternativa: a) l’automatica indizione di apposita conferenza di servizi preordinata alla verifica delle condizioni per l’eventuale superamento del diniego; b) oppure far scattare comunque l’obbligo di adeguato e compiuto riscontro motivazionale del rifiuto di indizione. 254 la formulazione dell’art. 13 della L. n. 241/1990 ne escluderebbe la presenza. Non era chiaro - almeno sino all’intervento chiarificatore della Corte Costituzionale di cui si dirà subito appresso - se il modello dello Sportello Unico, al pari di quanto accade per la conferenza di servizi nella sua ordinaria configurazione, si atteggiasse a mero modulo di semplificazione procedimentale ovvero se si trattasse di un istituto modificativo dell’ordine sostanziale delle competenze. Parte della dottrina opinava nel senso che la normativa in parola avesse innescato una alterazione sostanziale del quadro delle competenze, facendo degradare gli assensi delle altre amministrazioni a mere manifestazioni consultive non vincolanti, concentrando il potere e la competenza in capo all’amministrazione comunale. E ciò in quanto la normativa parla di “atti istruttori” che il comune deve acquisire dalle altre amministrazioni competenti. Per converso, alcuni autori ritenevano che la definitiva allocazione in capo al comune di tutti i poteri autorizzatori sarebbe comunque risultata difficilmente compatibile con le ulteriori disposizioni dell’art. 4; che prevede la conclusione negativa del procedimento se «entro i termini di cui al comma l, una delle amministrazioni di cui al medesimo comma si pronuncia negativamente»; di qui, la volontà del legislatore di ritenere così decisivo l’intervento delle varie amministrazioni da condizionare l’esito del procedimento210. Ulteriore argomento a sostegno della tesi che non vedeva una alterazione delle competenze era da rinvenirsi - ad avviso della stessa dottrina - nell’art. 6 del D.P.R. n. 447/1998, poiché anche in tale ipotesi «lo sportello esercita poteri di controllo circa la regolarità, sufficienza ed esaurienza del corredo autocertificatorio e autorizzatorio prodotto dal richiedente, senza esprimersi sui singoli profili che costituiscono la legittima fattibilità sostanziale dell’intervento progettato»211. Circa la rilevanza degli apporti delle altre amministrazioni in sede di Sportello Unico, si sono così da subito addensate nubi minacciose, soprattutto sotto il profilo della compatibilità con il tessuto costituzionale: ciò in quanto si qualificavano espressamente come «atti istruttori» gli atti ed i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti (Stato, regioni, province, e così via), al fine di attribuire al comune la competenza sostanziale all’esercizio di tali funzioni: in altre parole, la «degradazione» ad atti istruttori di cui si è detto sopra, si sarebbe concentrata in capo ad un unico ente l’intera potestà autorizzativa, mentre ai soggetti coinvolti prima 210 211 M. SGROI, Lo Sportello Unico, cit., 194. Ivi, 198. 255 richiamati (Stato, regioni, province e così via) sarebbe stato conservato un potere istruttorio «non riservato» ed «eventuale». Il conferimento ai comuni si deve invece sostanziare, ad avviso di alcune regioni che avevano presentato ricorso davanti alla Corte Costituzionale, «non in un effettivo spostamento della titolarità delle funzioni quando esse attengono ad impianti produttivi, ma nella unitaria convergenza procedimentale (e formalizzazione provvedi mentale conclusiva) nel comune di tutte le funzioni coinvolte, ferma restandone la titolarità in capo ai soggetti cui ordinariamente è demandata la cura dei relativi interessi». Con sentenza n. 376 del 2002, la Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto non fondata la questione relativa alla ipotizzata alterazione di competenze (anche in merito ai criteri di riparto costituzionale), sulla base dei seguenti motivi: - la disciplina sullo Sportello Unico configura una sorta di «procedimento di procedimenti», cioè un iter procedimentale unico in cui confluiscono e si coordinano gli atti e gli adempimenti facenti capo a diverse competenze, richiesti dalle norme in vigore affinché l’insediamento produttivo possa legittimamente essere realizzato; - a seguito del D.P.R. n. 440/2000, quelli che erano, in precedenza, autonomi provvedimenti, ciascuno dei quali adottato sulla base di un procedimento a sé stante, diventano «atti istruttori» al fine dell’adozione dell’unico provvedimento-conclusivo. Ciò non significa, tuttavia, che vengano meno le distinte competenze e responsabilità delle amministrazioni deputate alla cura degli interessi pubblici coinvolti: tanto più che - come peraltro già evidenziato in precedenza - nel c.d. «procedimento semplificato», ove una delle amministrazioni chiamate a decidere si pronunci negativamente, «il procedimento si intende concluso» (salva la possibilità per l’interessato di chiedere la convocazione di una conferenza di servizi, modulo, questo, che si svolge secondo le-attuali regole previste dalla L. n. 241/1990); - la disposizione impugnata ha dunque lo scopo e la portata, assai più modesti, di prevedere che ciascuna delle diverse amministrazioni competenti adotti, nella propria autonomia, le misure organizzative necessarie affinché le attività ad essa demandate siano svolte nel modo più rapido, così da coordinare i termini stabiliti per ciascuna di tali attività con i termini previsti per il compimento del procedimento unico di cui all’art. 25 del D.L. n. 112/1998: un’esigenza di coordinamento, questa, che si correla naturalmente con l’intento unificante e semplificante che sta alla base della scelta legislativa. Ulteriore argomento che ha occupato i giudici della Consulta è stato poi quello relativo alle competenze costituzionalmente riservate alle regioni; si segnala al riguardo la sentenza 26 giugno 2001, n.206, con cui la 256 Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g, del decreto legislativo n. 112/1998, nella parte in cui prevede che, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il Consiglio comunale, anche quando vi sia il dissenso della Regione212. In particolare, il Giudice delle leggi ha osservato che in applicazione delle regole generali fissate dall’art. 14-quater della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nella versione modificata dalla L. n. 340/2000, si evidenzia), «la conferenza di servizi può adottare una determinazione positiva sul progetto, non conforme allo strumento urbanistico generale, anche quando vi sia dissenso di taluna delle amministrazioni partecipanti, e dunque anche, in particolare, della Regione» (la legge n. 340, si rammenta, aveva introdotto il criterio maggioritario, temperato dalla presenza di interessi sensibili tra cui non rientrava, come noto, quello urbanistico). In tale ipotesi, Ia previsione secondo cui la proposta di variante può essere approvata definitivamente dal Consiglio comunale, senza l’ulteriore approvazione regionale, equivale a consentire che lo strumento urbanistico sia modificato senza il consenso della Regione, con conseguente lesione della competenza regionale in materia urbanistica. Prima dell’entrata in vigore della L. n. 340/2000, è noto che l’istituto della conferenza di servizi prevedeva, in caso di dissenso, due meccanismi di intervento da parte del Consiglio dei Ministri: il primo, relativo alla c.d. determinazione sospensiva, veniva applicato in caso di dissenso «non sensibile»; il secondo, relativo alla c.d. determinazione sostitutiva, in caso di dissenso in materia di «interessi sensibili». Il dissenso espresso (dalla Regione) sotto il profilo dell’impatto urbanistico (in quanto “non sensibile” al pari di altri come il paesaggio e l’ambiente) veniva dunque «gestito» attraverso la richiesta di «determinazione sospensiva» al Consiglio dei Ministri (rectius, Presidente del Consiglio dei Ministri). Con l’approvazione della L. n. 340/2000. mentre è rimasto inalterato il principio del «dissenso qualificato» in materia di interessi sensibili, l’istituto della «determinazione sostitutiva» è stato invece soppresso. Il parere non favorevole espresso in materia urbanistica sarebbe dunque stato soggetto a superamento mediante l’applicazione del principio di maggioranza, introdotto proprio dalla predetta legge di semplificazione del 1999. La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 206/2001, ha invece dichiarato l’incostituzionalità di tale sistema - come venutosi a creare a 212 Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 170 ss. 257 seguito della L. n. 340/2000 - in quanto lesivo delle prerogative costituzionali delle regioni in materia urbanistica. L’elemento da cui la Corte ha tratto le ragioni di illegittimità costituzionale risiede nella mancata (e sopravvenuta) previsione di un qualsivoglia meccanismo di valutazione di secondo grado, quale la richiamata determinazione sostitutiva del Consiglio dei Ministri, dei motivi del dissenso espresso dalla Regione. In altre parole, la Corte Costituzionale - con ciò peraltro avallando l’orientamento che il Consiglio di Stato aveva già espresso in sede consultiva (sez. I, parere n. 1622 del 1997) - avrebbe sancito l’illegittimità costituzionale della normativa in parola nella misura in cui non si prevedeva, . in caso di dissenso della regione in materia urbanistica, un intervento sostitutivo ed eccezionale da riservare ad un organo di alta amministrazione (c.d. «salvagente».), ossia una valutazione. di secondo grado (ora disciplinata secondo i nuovi parametri della L. n. 15/2005). Pertanto, si deve ritenere che il dissenso della regione in tema di Sportello Unico (espresso su qualsivoglia materia di interesse regionale, oppure concernente interessi sensibili) sia in ogni caso da sottoporre a valutazioni di secondo livello. La L. n. 15/2005 ha poi “ratificato” tale impostazione attraverso la nuova disciplina del dissenso. Essa prevede infatti che il dissenso regionale espresso in materie costituzionalmente riservate (alle regioni stesse, si intende), e dunque anche - ma non solo quelli in tema di pianificazione urbanistica - siano anch’essi rimessi, in aggiunta agli interessi sensibili, alle valutazioni di secondo grado della Conferenza Stato-Regioni o di quella Unificata. Sulla mancata partecipazione della regione ai lavori della conferenza, oppure sulla mancanza di riscontri circa la sua posizione, ci si è già ampiamente soffermati nel capitolo V, paragrafo 2, cui peraltro si rinvia. Si richiamano qui, sinteticamente, le principali posizioni di coloro che, da un lato, ne prospettano l’assoluta insuperabilità, anche in presenza della citata decisione della Consulta (n. 206 del 2001); dall’altro lato, la tesi di chi invece, secondo una lettura coordinata tra la sentenza n. 206 e la legge n. 15 del 2005, ne ravvisa sì l’importanza ma non l’assolutezza, ritenendo di applicare anche alle regioni i meccanismi del silenzio-assenso, nonché quelli sostitutivi di cui all’art. 14-quater. 258 6.1. Il Consiglio di Stato tra patologie applicative della disciplina sullo Sportello Unico e riforma del Titolo V della Costituzione. Il Consiglio di Stato, con parere n. 1357 del 2002 della prima sezione213, ha avuto modo di affrontare - in parte - la tematica del coordinamento alla luce del nuovo Titolo V, proprio con riferimento alla conferenza di servizi che si svolge nell’ambito della procedura dello Sportello Unico per le attività produttive. Va rimarcato che il D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, prevede, nell’ambito della disciplina istitutiva del c.d. ‘‘Sportello Unico”, due distinte procedure per l’individuazione delle aree da destinare all’insediamento di nuovi impianti produttivi. La procedura di cui all’art. 2, comma l, prende avvio su iniziativa dei comuni e si concreta in un atto avente natura pianificatori. La procedura di cui all’art. 5, comma l, muove dall’istanza di un privato. La Presidenza del Consiglio dei ministri - con proprio quesito rilevava in proposito “l’utilizzo massiccio” da parte di alcuni enti locali della procedura di cui al citato art. 5, con il risultato che l’individuazione delle aree di ubicazione degli impianti sarebbe avvenuta mediante numerose “microvarianti” al piano regolatore. Osservava che siffatta ripetuta applicazione dell’art. 5 è anomala e irragionevole rispetto alla finalità della norma, e che a fronte del ricorso a singole e innumerevoli conferenze dei servizi, la procedura prevista dall’art. 2 dello stesso D.P.R. n. 477/1998 (oppure un accordo di programma) sarebbe stata preferibile sia per ragioni di economia procedimentale sia, e soprattutto, perché avrebbe consentito una più consapevole ponderazione degli interessi pubblici coinvolti, con particolare riferimento agli aspetti relativi alla protezione dell’ambiente e del paesaggio. Nel formulare il quesito la Presidenza del Consiglio riteneva infatti che: 1. Sotto il profilo funzionale, attraverso l’uso abnorme dello strumento eccezionale di cui all’articolo 5 del D.P.R. n. 447/1998, in luogo di quello ordinario previsto dall’articolo 2 per l’adozione di varianti urbanistiche, l’autorità amministrativa sembrerebbe avvalersi del potere di incidere sulla situazione giuridica esistente, attraverso l’emanazione di distinti e numerosi microprovvedimenti, perseguendo sì interessi pubblici, ma con un potere diverso da quello previsto a tal fine dalla legge; in altre parole potrebbe ravvisarsi, dal complesso degli atti rilevabili in concreto, una non coincidenza tra funzione istituzionale (adozione della variante su istanza di privato ex art. 5 del D.P.R. n. 447/1998) e finalità concreta (individuazione di aree produttive quale espressione della funzione programmatoria dell’ente e riqualificazione di aree urbane. 213 M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 21-23. 259 2. Sotto il profilo dell’economia procedimentale, a fronte del ricorso a singole ed innumerevoli conferenze di servizi (necessarie per ogni istanza di cui all’art. 5 in parola), l’applicazione di altri strumenti normativi (art. 2 oppure accordi di programma) sembrerebbe invece consentire di riportare ad unità attraverso l’applicazione dell’istituto in esame per una sola volta - tutte le fattispecie particolari che possono presentarsi in una circoscritta realtà locale per determinate situazioni contingenti (sviluppo turistico, produttivo, occupazionale, etc.). 3. Di conseguenza, sotto il profilo del principio di buona amministrazione, il fatto di consentire alle singole amministrazioni di poter vagliare complessivamente ed organicamente - e non secondo una visione della realtà ineludibilmente “parcellizzata” - tutti gli interventi che si intende realizzare in un dato contesto territoriale, sembrerebbe poter consentire una consapevole valutazione delle scelte urbanistiche e quindi degli aspetti relativi all’uso del territorio, con riferimento particolare alla protezione dell’ambiente e del paesaggio, garantire una contestuale ponderazione dei vari interessi pubblici in giuoco, nonché assicurare un più ampio rispetto del principio di trasparenza dell’azione amministrativa, attraverso una adeguata informazione ai cittadini in merito alla definizione delle predette scelte di piano. Ciò premesso, la Presidenza chiedeva di conoscere se, in presenza di un procedimento avviato ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n. 477/1998, potesse “in primo luogo” chiedere all’amministrazione locale procedente “l’esistenza o meno - e la relativa quantificazione - di altri procedimenti analoghi” e se, “nel caso in cui si rilevi un utilizzo abnorme di questo tipo particolare di conferenze”, potesse “rimettere l’istanza e tutti gli atti connessi alla medesima amministrazione, indicando a tal fine la corretta procedura (ordinaria) da utilizzare”. Nel rilevare che al Dipartimento per il coordinamento amministrativo della Presidenza del Consiglio, in quanto preposto all’attività istruttoria, spetta, per regola generale, di acquisire tutti gli elementi utili per l’adozione del provvedimento conclusivo da parte del Consiglio dei ministri, il Consiglio dì Stato ha affermato che, in questa prospettiva, nulla impedisce che il Dipartimento medesimo accerti, nell’ambito del procedimento di cui al citato art. 5 del D.P.R. n. 477/1998, il numero e la distribuzione nel territorio comunale degli impianti produttivi esistenti e di quelli previsti da altri progetti presentati da privati, trattandosi di dati e circostanze suscettibili, in linea astratta, di assumere rilievo ai fini della composizione degli interessi risultati configgenti in sede di conferenza di servizi. Qualora dall’istruttoria emerga l’inadeguatezza della singola microvariante in considerazione della pluralità e della tipologia dei progetti in corso di esame o per altre ragioni, egualmente nulla impedisce che il Dipartimento inviti in primo luogo l’amministrazione locale a valutare l’opportunità di avviare un procedimento di revisione dello strumento 260 urbanistico più ampio ed incisivo di quello realizzabile in sede di applicazione del citato art. 5. Tuttavia - prosegue il Consiglio di Stato - al Dipartimento non competono, né potrebbero competere a pena di illegittimità costituzionale della fonte normativa, poteri di controllo o di indirizzo nei confronti degli enti locali. Sicché l’invito può assumere soltanto i caratteri di un apporto collaborativo fra amministrazioni pubbliche, che è sempre possibile anche in mancanza di una espressa previsione legislativa. In quanto tale, l’iniziativa del Dipartimento non è idonea a porre vincoli all’amministrazione destinataria, alla quale l’ordinamento riconosce un ampio potere discrezionale circa gli strumenti urbanistici da adottare e le scelte sostanziali da effettuare in tema di pianificazione del territorio. Per compiutezza di esame - aggiunge il Consiglio di Stato - nel caso in cui emerga, dai dati acquisiti in sede istruttoria, un “uso abnorme dello strumento eccezionale di cui all’art. 5 del D.P.R. n. 447/1998”, ciò dovrà trovare specifica considerazione da parte del Consiglio dei ministri (ora la Conferenza Unificata, secondo la L. n. 15/2005) il quale, essendo preposto a risolvere il dissenso manifestatosi nella conferenza dei servizi, è tenuto ad effettuare una valutazione comparativa di tutti gli interessi coinvolti. Ove, poi, l’incongruità della “micro-variante” assumesse tale consistenza da far emergere una divergenza fra la funzione istituzionale dell’atto e il risultato concreto che ne conseguirebbe a causa della moltitudine delle “microvarianti” e del conseguente pregiudizio in termini di corretta utilizzazione del territorio comunale, non resterebbe che rigettare l’istanza, per non incorrere nel vizio di eccesso di potere. In tal caso, dalla motivazione del provvedimento l’amministrazione comunale potrà trarre spunto per avviare quei procedimenti di natura pianificatoria che consentirebbero di affrontare il problema dell’ubicazione del nuovo impianto, nel quadro di una valutazione complessiva degli aspetti relativi all’uso del territorio. Dunque, secondo il Consiglio di Stato l’amministrazione centrale ben può escogitare forme di leale collaborazione anche non espressamente contemplate dalla legge, purché questo non si traduca, surrettiziamente, in un potere di indirizzo e coordinamento di tipo gerarchico-sovraordinato, che non sarebbe altrimenti ammesso sulla base del nuovo assetto dei poteri costituzionali. Ribadisce, infine, che in caso di accertata e conclamata, illegittimità dell’operato dell’ente locale (surrettizie micro-varianti che in realtà celano macrovarianti), il Consiglio dei ministri (ora la Conferenza Unificata), sul fondamento dei poteri che ad esso sono conferiti dalla (attuale) legge sul procedimento amministrativo, ben può adottare una determinazione sostitutiva di segno negativo, ossia respingere - in buona sostanza - le istanze presentate in conferenza di servizi ed avallate dall’amministrazione comunale. 261 7. Altre procedure 7.1. Interventi in materia di telecomunicazioni In materia di comunicazioni, con particolare riguardo alla installazione di impianti ed alla realizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, sia il D.L. n. 198/2002 (dichiarato incostituzionale dalla citata sentenza n. 303 del 2003), sia il D.L. n. 259/2003 (c.d. “Codice delle comunicazioni elettroniche”), che recepisce integralmente l’impostazione del decreto dichiarato incostituzionale, prevedono semplicemente, ai fini del rilascio delle prescritte autorizzazioni ed in caso di dissenso preventivo, il rinvio alla normativa generale sulla conferenza di servizi, fissando - quale caratteristica peculiare - il termine di conclusione del procedimento a trenta giorni (in luogo di novanta). Si rileva uno sfasamento nella formulazione del comma 6 del richiamato art. 87, dal momento che si prevede, quale presupposto per la convocazione della conferenza di servizi, l’eventualità che “una amministrazione interessata abbia espresso motivato dissenso”; in tal caso, l’amministrazione procedente “convoca, entro trenta giorni dalla ricezione della domanda, una conferenza di servizi”. A parte ogni considerazione circa la mancata fissazione di un termine entro il quale deve essere manifestato (per iscritto) il dissenso delle amministrazioni, non si comprende, sul piano temporale, il collegamento tra la presentazione dell’istanza di autorizzazione da parte dell’interessato e l’eventuale diniego di una delle amministrazioni interessate. In questa occasione sarebbe stato ancor più necessario evitare, con tutta probabilità, la c.d. “fuga dal procedimento”, atteso che la normativa generale pone in essere dei termini e delle modalità di intervento sicuramente più chiare di quelle appena delineate. Nella normativa anzidetta non vi è tra l’altro alcun riferimento, al contrario del decreto “sbloccacentrali”, alla necessità di acquisire in ogni caso l’assenso regionale (si rammenta che la materia delle comunicazioni, al pari dell’energia e del governo del territorio, è di competenza concorrente): il comma 8 dell’art. 87 del “Codice” prevede infatti la rimessione degli atti al Consiglio dei ministri nelle sole ipotesi di dissensi espressi in materia di interessi sensibili (salute, ambiente, patrimonio storico-artistico), peraltro senza distinguere tra amministrazioni statali o regionali, e senza nemmeno inserire tra gli interessi sensibili il paesaggio. In altre parole, sarebbe prevista la rimessione delle decisione al Consiglio dei ministri (e non ai competenti organi collegiali di riferimento territoriale) praticamente in ogni caso, ossia anche in ipotesi di interessi esclusivamente locali o regionali: infatti, ove l’amministrazione procedente sia comunque un ente locale, ai sensi dell’art. 87, comma 2, l’amministra262 zione dissenziente in tema di interessi sensibili potrebbe essere non solo una amministrazione statale, ma una qualsiasi amministrazione, dunque anche regionale214. Alla luce di quanto appena considerato, le discrasie sopra evidenziate potrebbero presentare profili di dubbia costituzionalità, costituendo esse stesse ipotesi addirittura contrarie rispetto al quadro normativo antecedente alla riforma costituzionale del 2001215. 7.2. Norme in materia di rifiuti Come noto, il D.L. n. 22/1997, detto anche “decreto Ronchi”, prevede l’attuazione della normativa comunitaria in tema di smaltimento di rifiuti. In particolare l’art. 27.prevede, ai fini della autorizzazione alla realizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero, la presentazione di una domanda alla Regione; la quale convoca una apposita conferenza cui partecipano i responsabili degli uffici regionali competenti, i rappresentanti degli enti locali interessati ed il richiedente medesimo. Entro novanta giorni dalla sua convocazione, la conferenza procede alla valutazione dei progetti, acquisisce tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con le esigenze ambientali e territoriali, ivi compresa, qualora prevista dalla normativa vigente, la valutazione di impatto ambientale; infine, trasmette le proprie conclusioni con i relativi atti alla giunta regionale. Entro trenta giorni dal ricevimento delle conclusioni della conferenza, e sulla base delle risultanze della stessa, la Giunta regionale approva il progetto e autorizza la realizzazione dell’impianto. L’approvazione sostituisce ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali, 214 Si rammenta, in proposito, che l’art. 146 del D.L. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali), ha eliminato l’annullamento ministeriale del nulla osta paesaggistico (che nel precedente regime, pur con qualche fondato dubbio interpretativo, legittimava la presenza in conferenza della soprintendenza con poteri di voto, e dunque con eventuale rimessione al Consiglio dei ministri in caso di dissenso espresso in posizione di minoranza), trasformandolo in un parere obbligatorio ma non vincolante. Si discute allora se la Soprintendenza, pur potendo partecipare alla conferenza di servizi, possa continuare ad esercitare il diritto di voto (altrimenti il suo dissenso potrebbe innescare il ricorso al Consiglio dei ministri, e dunque surrettiziamente traducendosi in un neopotere sostanzialmente di annullamento). Dunque, solo l’amministrazione regionale potrebbe esprimere dissenso sui profili paesaggistici. Ma se amministrazione procedente è un ente locale, e amministrazione dissenziente un ente regionale (ipotesi ricavabile dalla lettura dell’art. 87 del codice delle comunicazioni), come è possibile che sulla decisione definitiva intervenga il Consiglio dei ministri (contrariamente. alla L. n. 15/2005, che in questi casi prevede l’intervento della Conferenza Unificata), senza nemmeno, acquisire l’intesa con la regione interessata? 215 Cfr. M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 1014. 263 provinciali e comunali, costituendo altresì, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, e comportando, al tempo stesso, dichiarazione di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori. Si tratta dunque di una conferenza istruttoria. Ciò trova conferma nella giurisprudenza del Consiglio di Stato, ove si afferma (sez. V, n. 3917 del 2002) che “la conferenza dei servizi prevista dall’art. 27 del Decreto legislativo 22/1997 ha natura istruttoria, come si evince con chiarezza dal testo della norma che prevede la presentazione delle conclusioni della Conferenza alla regione perché provveda su tale base ma in modo evidentemente autonomo”. Come anche evidenziato dal TAR Piemonte nella decisione n. 2953 del 2006, la determinazione conclusiva di volontà, nell’ambito del potere discrezionale riconosciuto, è infatti riconducibile unicamente alla Regione, senza che le conclusioni della conferenza di servizi possano ritenersi in qualche modo vincolanti. Se l’organo decidente motiva in maniera congrua rispetto alla decisione assunta, pur in presenza di una conclusione opposta della conferenza di servizi, il relativo provvedimento non può essere considerato illegittimo, atteso che l’organo istruttorio, come ribadito dall’art. 27 citato, si limita a valutare il progetto e ad acquisire elementi legati alla compatibilità territoriale e ambientale, trasmettendo le proprie conclusioni, appunto per la autonoma valutazione finale, all’organo competente ad assumere la decisione. 7.3. Disposizioni in materia di ferrovie. L’art. 19, comma l-ter, del decreto L. n. 457/1997, convertito in L. n. 30/1998, prevede che per la approvazione dei progetti di opere concernenti reti ferroviarie sia appositamente indetta una conferenza di servizi, ai sensi della L. n. 241/1990. Tale disposizione deve essere letta contestualmente alla L. n. 210/1985, la quale prevede che la adozione dei progetti di opere ferroviarie, se previste nel piano generale dei trasporti, produce gli effetti di cui al primo comma dell’articolo l della legge 3 gennaio 1978, n.1216, ossia la dichiarazione (implicita) di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori. I progetti sono inoltre comunicati alle regioni e agli enti locali interessati per la verifica di conformità urbanistica. In caso di non conformità, si promuove l’intesa tra Stato, regioni ed enti locali, per apportare la relativa variante (prima era prevista un accordo di programma, ora, dopo la L. n.30/1998, la conferenza di servizi). Se l’intesa non si 216 Si vedano sul punto le ampie considerazioni di A. RANCI, Grandi strutture di vendita: novità in tema di conferenza dei servizi (nota a sentenza tar marche n. 976/2004), in “www.diritto.it”, dicembre 2004. 264 realizza entro novanta giorni, si provvede, sentite le regioni interessate e la commissione parlamentare per le questioni regionali, con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dei Trasporti (dunque, la procedura prevista dall’art. 81, quarto comma, del D.P.R. n. 616/1977). Raccordando le citate fonti normative, si deve concludere, in sintesi, che la conferenza di servizi convocata in materia di opere ferroviarie è diretta sia alla localizzazione del tracciato, sia alla approvazione del progetto (dunque, è una conferenza “complessa”). È quanto emerge, peraltro, nella decisione n. 1443 del 2004 della sesta sezione del Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi, in particolare, sulla corretta scansione delle diverse fasi in cui si articola la conferenza stessa. Nel caso di specie, la conferenza era stata convocata in due distinti momenti: prima per la localizzazione dell’opera, poi per la relativa progettazione (e conseguente dichiarazione di pubblica utilità, con indicazione dei termini di inizio ed ultimazione lavori). Alcuni ricorrenti (le cui proprietà ricadevano all’interno del tracciato ferroviario, e dunque soggette ad atti ablativi) lamentavano il fatto di non essere stati destinatari di comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell’art. 7 della L. n. 241/1990 (cfr. Ad. Plen., n. 14 del 1999). Tale comunicazione non si era effettivamente riscontrata in occasione della prima conferenza (localizzazione); diversamente, in vista della seconda conferenza (progettazione) si era invece provveduto in tal senso. Secondo il Consiglio di Stato, occorre stabilire quale sia la fase di effettiva approvazione del progetto, onde stabilire il momento in cui occorreva procedere alla predetta comunicazione: rileva, dunque, l’incertezza circa il valore di dichiarazione di pubblica utilità da riconoscersi a determinati atti approvati del progetto esecutivo intervenuti nel corso del procedimento; incertezza che “può essere risolta solo utilizzando canoni ermeneutici; strutturali e funzionali; che, analizzando la struttura e lo scopo di ogni atto, e poi il nesso di presupposizione e teleologico fra gli atti, consentano di interpretare lo svolgersi, nel procedimento, della complessa attività amministrativa in esame, secondo i parametri legalmente stabiliti, complessivamente intesi, ed assegnando a ciascun atto il valore conforme all’intento voluto realizzare dalla p.a. e reso palese dalla successione degli atti medesimi’’. Dal combinato disposto delle richiamate norme (L. n. 30/1998 e L. n. 210/1985, nonché altre disposizioni di settore, tra cui il D.P.R. n. 383/1994), si evince come i due momenti approvativi (localizzazione e progetto definitivo) debbano avvenire - almeno in teoria - in un unico contesto procedimentale. Tale condizione (concentrazione dei due momenti approvativi: localizzazione e progettazione) si verifica, tuttavia, a condizione che alla 265 procedura di localizzazione partecipi altresì l’ente titolare ad emanare il provvedimento finale di approvazione progettuale, ossia Ferrovie s.p.a.: ciò in quanto la conferenza di servizi non può in alcun modo alterare l’assetto delle rispettive competenze amministrative. Pertanto, poiché Ferrovie era assente alla prima conferenza di servizi, si deve ritenere che questa abbia avuto esclusivamente ad oggetto la localizzazione dell’opera. La seconda conferenza, convocata da Ferrovie s.p.a., aveva invece ad oggetto - di conseguenza - la successiva fase di (definitiva) approvazione progettuale, nonché la relativa dichiarazione di pubblica utilità dell’opera: per questi motivi, si doveva dunque ritenere correttamente adempiuto l’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento, che aveva preceduto la convocazione della conferenza stessa, proprio perché era a quel momento che erano riferibili le decisioni destinate ad incidere sugli assetti proprietari degli interessati. Si ritiene che, in questo caso, il Consiglio di Stato abbia fatto un corretto, quanto opportuno, utilizzo di alcuni principi dell’ordinamento giuridico, quali la conservazione degli atti giuridici, nonché l’efficienza causale degli atti e degli apporti dei privati nel procedimento. 7.4. Disposizioni in materia di commercio Il D.L. n. 114/1998, recante come noto disposizioni di riforma nel settore del commercio, prevede, all’art. 9 (grandi strutture di vendita), che l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una grande struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata dal’comune competente per territorio. La domanda di rilascio dell’autorizzazione è esaminata da una conferenza di servizi indetta dal comune, composta da tre membri, in rappresentanza, rispettivamente, della Regione, della provincia e del comune medesimo. Le deliberazioni della conferenza sono adottate a maggioranza dei componenti, entro novanta giorni dalla convocazione; il rilascio dell’autorizzazione è inoltre subordinato al parere favorevole del rappresentante della Regione. Peraltro; alle riunioni della conferenza di servizi partecipano, a titolo consultivo; i rappresentanti dei comuni contermini, delle organizzazioni dei consumatori e delle imprese del commercio più rappresentative del relativo bacino d’utenza. Circa la natura giuridica, in senso procedimentale o sostanziale, di tale conferenza e dei connessi effetti, anche processuali, delle sue decisioni, si è 266 occupato il TAR Marche, con la sentenza n. 976 del 2004217. Nel ribadire in sostanza l’orientamento tradizionale (diretto a configurare la conferenza quale mero modulo procedimentale di semplificazione), il TAR afferma che, al contrario, la conferenza di servizi disciplinata dall’art. 9 del D.L. n. 114/1998 e dall’art. 13 della Legge Regione Marche n. 26/1999, in materia di distribuzione commerciale, configura una sorta di attribuzione, ai tre membri che la compongono (regione, provincia e comune), di una vera e propria competenza collegiale di carattere decisorio. La conferenza assume, in tali ipotesi, i connotati di un vero e proprio “organo straordinario”, e dunque sostanziale, “con il compito di valutare le domande e con poteri autonomi ed ulteriori rispetto a quelli propri di ciascuna Amministrazione partecipante”: essa, pertanto, diventa legittimata passiva in sede giurisdizionale. Il Tar conclude in sostanza per l’inammissibilità dei ricorsi, non solo per mancata impugnazione della delibera della Conferenza, ma anche per la mancata loro notifica alla Conferenza medesima, quale appunto “organo straordinario”. Numerosi sono gli indici sintomatici che depongono per la soggettività di tale organismo peculiare, tra cui: a) la funzione decisoria nettamente riconosciuta ai tre membri componenti della Conferenza, rispetto alla funzione meramente consultiva di altri soggetti eventualmente convocati; b) la possibilità per la Conferenza di decidere a “maggioranza” dei componenti; c) il ruolo ancillare del Comune, il quale, ottenuto il parere favorevole della Conferenza, “deve” rilasciare l’autorizzazione. Afferma a tale proposito il TAR. Marche che il funzionario responsabile del procedimento è privo di un proprio potere valutativo - egli può solo rilasciare l’autorizzazione, oppure negarla, se il parere della conferenza è negativo (si veda invece la conferenza indetta ai sensi della legge generale, che impone di “tenere conto”, ma non di ‘‘ratificare” supinamente, le posizioni prevalentemente espresse in quella stessa sede); d) la predeterminazione normativa delle amministrazioni tenute a partecipare alla conferenza, mentre la legge generale sul procedimento non dispone che singole amministrazioni compongano, ossia costituiscano, la Conferenza. Pur se apparentemente in controtendenza rispetto all’orientamento maggioritario, in realtà ne conferma indirettamente la validità: si afferma infatti, da parte dei, giudici marchigiani, come la tesi dell’organo collegiale sia validamente sostenibile sì, ma limitatamente alla ipotesi della 217 In Diritto & Diritti, dicembre 2004, con nota di A. RANCI. 267 conferenza prevista dalle disposizioni di cui al D.L. n. 114 del 1998 (e relative norme regionali di attuazione), che delinea un modello procedimentale speciale e caratterizzato da tratti di assoluta peculiarità rispetto ai meccanismi contemplati nella legge generale sul procedimento. 7.5. Interventi per i Giochi olimpici invernali «Torino 2006» La legge 9 ottobre 2000, n. 285, reca disposizioni per la realizzazione di impianti sportivi, infrastrutture olimpiche e viarie, necessari allo svolgimento dei XX Giochi olimpici invernali «Torino 2006». Ai fini della approvazione dei relativi progetti definitivi, la giunta della Regione Piemonte convoca, ai sensi dell’art. 9 della legge, una conferenza di servizi, senza tuttavia fare riferimento alcuno alla disciplina contemplata dalla L. n. 241/1990. Ed infatti, tale disposizione prevede anche la possibilità di apportare variazione agli strumenti urbanistici: la conferenza ha dunque carattere sostanziale, e non meramente procedimentale. Si conserva inoltre l’istituto della determinazione sospensiva, in caso di dissenso espresso in tutte le materie diverse dagli interessi sensibili. Non viene previsto, in altre parole, il principio di maggioranza, temperato dalla presenza di determinati interessi, come sarà previsto - di lì a poco - dalla L. n. 340/2000. Ci si chiede, in proposito, se la L. n. 241/1990, come successivamente modificata, non debba prevalere ed essere applicata in luogo della legge in commento. Deve tuttavia rilevarsi, in proposito, che la sentenza della Corte Costituzionale n. 206/2001 ha in sostanza censurato la possibilità per l’amministrazione procedente di mettere nel nulla - mediante l’applicazione del criterio di maggioranza - l’eventuale dissenso proposto da enti territoriali in materia urbanistica, in assenza di una norma che garantisca la possibilità di ricorrere ad una valutazione di secondo grado. Per quanto, in tale ipotesi, gli interessi urbanistici vengano prevalentemente tutelati dalla regione che, nel caso di specie, è pure amministrazione procedente, e dunque in grado di influenzare in modo determinante, a monte del processo, le sorti di un progetto infrastrutturale considerato non conforme ai parametri ed agli obiettivi di piano perseguiti. 7.6. Lo Sportello Unico per l’edilizia L’art. 5 del D.p.R. 6 giugno 200 l, n. 380 (Testo Unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, ai fini del rilascio del permesso di costruire, lo Sportello Unico per l’edilizia, ufficio comunale deputato a gestire tutti i rapporti tra il privato e le 268 amministrazioni coinvolte, da un lato acquisisce direttamente i pareri dell’ASL e dei vigili del fuoco (comma 3); dall’altro si preoccupa (comma 4) di acquisire, anche mediante conferenza di servizi di cui alla L. n. 241/1990, tutti gli altri assensi necessari (dissesto idrogeologico, autorizzazione paesistica, aree protette, servitù militari, marittima, doganale, zona sismica, ecc.). Da una lettura integrata dei due commi, sembra evincersi che i due pareri dell’ASL e dei vigili del fuoco - probabilmente a causa della loro particolare delicatezza ed importanza - non possono essere acquisiti in conferenza di servizi, ma fuori di essa, soprattutto per evitare che i meccanismi introdotti all’uopo dalla L. n. 340/2000 (criterio della maggioranza e comunque superamento, seppure in seconda battuta, degli interessi sensibili), possano seriamente mettere a rischio valori costituzionalmente tutelati come la salute e la pubblica incolumità. Dubbi, per vero, fugati anche dal recente intervento normativo che ha posto al primo piano la tutela della stessa pubblica incolumità. 8. Post scriptum Va rilevato, infine, come su molti profili sin qui scrutinati siano, ancora di recente intervenute interessanti novità di derivazione comunitaria. Fra queste, merita certamente segnalazione il già cennato d.p.r. 106/2010, in tema di S.U.A.P. (il quale ha irrobustito e rivitalizzato l’istituto dello “ sportello unico” introdotto nel 1998), la nuova normativa in tema di pianificazione strategica, nonché, più in generale, i recentissimi decreti “Salva ,cresci e semplifica Italia” , che il Governo Monti, in uno con le riforme delle pensioni, del mercato del lavoro e del fisco, ha varato con l’obiettivo di rendere il Paese più aperto alla concorrenza, eliminando, quanto più possibile, lacci e lacciuoli della pesante macchina burocratica dello Stato (sotto questo profilo, si staglia la sperimentazione in molte aree del Paese, non solo a Sud, di zone a c.d. “burocrazia zero”, varata con la legge di stabilità 2012) e, dall’altro, di contenere, in un contesto di drammatica oscillazione economico-finanziaria, frutto avvelenato della perdurante crisi internazionale, le uscite pubbliche, razionalizzandole a seguito anche di processi di spending review (revisione delle spese). Come a dire, in un ideale chiusura del discorso avviato nel I capitolo della I parte, che se il mondo dell’economia corre, seppure verso l’ignoto, quello del diritto cerca, per lo meno,e ora più che mai, di non starsene a guardare. 269 270 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Aa.Vv. (a cura di M.A. Sandulli), Codice dell’azione amministrativa, Milano, 2011. Aa.Vv., Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Atti del Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 17-20 settembre 1959, Milano, 1961. Aa.Vv., Relazione, in G. Palma, Conferenza di servizi e accordo di programma , Napoli, 1994, p. 13 ss. Adinolfi A., Il principio di legalità nel diritto comunitario, in Aa.Vv., Il principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Atti del LIII Convegno di studi di scienza dell’amministrazione, Varenna 20-22 settembre 2007, Giuffrè, Milano, 2008, pp. 87-123. Agnes S., Commento all’art. 14 legge 241/1990, in Leggi civili commentate, Padova, 1985, 80 ss. Albanese G., Il procedimento amministrativo e la riforma delle autonomie locali, Padova, 1993. Albanese-Torricelli, La dirigenza pubblica, in “Giorn. dir. lav. rel. ind.”, 1993, 521 ss. Amarelli F., Conferenza di servizi e accordo di programma. Possibili connessioni funzionali, in G. Palma (a cura di), Conferenza di servizi e accordo di programma, Napoli, 1994, 101 ss. Amato G., Il dilemma del principio maggioritario, in “Quad. Cost.”, 1994, 171 ss. Amorosino S., La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.-Tar”, 2005, 2635 ss. Angiello, La valutazione dei dirigenti pubblici; in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 1070 ss. Astone, Prime note sul riordino della dirigenza statale, in “Funz. pubbl.”, 2002, 1, 31 ss. Bachelet V., voce: Coordinamento, in “Enc. Dir.”, vol. X, Milano, 1962, 634 ss. Bacosi G., Lemetre F., Le nuove sembianze del procedimento amministrativo: ecco la l. 15 del 2005, in “Foro Amm. CDS”, 2005, 2401 ss. Balestra, Localizzazione degli impianti per lo smaltimento dei rifiuti, conferenza di servizi e piani regolatori, in “Riv. giur. urb.”, 1994, 71 ss. Barassi L., Il principio maggioritario nel diritto privato in Studi in onore di A. Ascoli, Messina, 1931. Barbati C., Inerzia e pluralismo amministrativo. Caratteri – sanzioni - rimedi, Milano, 1992. Barbensi F., Note sul procedimento amministrativo e la conferenza di servizi, in “Comuni d’Italia”, 1995, 1879 ss. 271 Basile F., Decisionalità politica e snellimento procedurale nel nuovo modello di conferenza di servizi, in “Riv. giur. edil.”, 1998, 438 ss. Bassanini F., Carbone L., La conferenza di servizi. Il modello e i principi; in www.astridonline.it, 2006. Bassi N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Giuffrè, Milano, 2001. Battini S., La legge di semplificazione 1999, in “Giornale di diritto amministrativo”, 2001, n. 5, 451 ss. Battini S., In morte del principio di distinzione tra politica e amministrazione: la Corte preferisce lo spoils system, in “Giornale di diritto amministrativo”, 2006, n. 6, 912-913. Battini S., Il personale e la dirigenza, in “Giornale di diritto amministrativo”, 1997, 425 ss. Bachelet V., L’attività di coordinamento nell’amministrazione pubblica dell’economia, Milano, 1957. Benvenuti F., Funzione amministrativa, procedimento e processo, in “Riv. trim. dir. pubbl.”, 1952, 119 ss. Benvenuti F., Il nuovo cittadino, Venezia, 1994. Bertini P., La conferenza di servizi, in Dir. amm., 1997, I, 271 ss. Bin R., Dissensi in Conferenza di servizi e incauto deferimento della decisione alle “Conferenze”intergovernative: le incongruenze della L. 15/2005, in www.forumcostituxionale.it, p. 3. Bobbio N., Legalità, in N. Bobbio, N. Matteucci (a cura di), Dizionario di politica, UTET, Torino, 1976, pp. 518-520. Borgonovo R.D., De Cesaris A.L., Lettera F., Macrory R., Nespor S., Rehibinder E. (a cura di), La valutazione di impatto ambientale, Milano, 1991. Brambilla P., Il regime di autorizzazione delle attività di autodemolizione tra normativa statale e regionale, rifiuti e residui, in “Riv. giur. amb.”, 1996, 396 ss. Brunnson N., Jacobbson B., A World of Standards, Oxford University Press, Oxford, 2000. Buccisano J., Intesa e concerto: analogie e differenze, in “Riv. trim. dir. pubbl.”, 1982, 139 ss. Cacciavillani I., Brevi note in tema di conferenze di servizio e di accordo di programma, in “Riv. amm.”, 1997, 287 ss. Cacciavillani I., Manzi L., La collegialità amministrativa, Roma, 2000. Cammelli M., L’amministrazione per collegi, Bologna, 1980. Cammelli M., Le autonomie tra sistemi locali e reti: profili istituzionali, in L’innovazione tra centro e periferia. Il caso di Bologna, Il Mulino, Bologna, 2004, 15 Capobianchi, D’Alessio, Girardi, Preziosi, Zelefilippo, La riforma della dirigenza pubblica, in Nuova rassegna, 1994, n. 13-14, 1665 ss. Carinci M.T., Giurisprudenza costituzionale e c.d. privatizzazione del pubblico impiego, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2006. Carinci M.T., Il lento tramonto del modello unico ministeriale: dalla “dirigenza” alle “dirigenze’’: in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2004, 5, 833 ss. 272 Carinci M.T., Sisifo riformatore: la dirigenza, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2001, 959 ss. Caringella F., Crisafulli A., De Marzo G., Romano F., Il nuovo volto della pubblica amministrazione tra federalismo e semplificazione, Napoli, 1999. Caringella F., Il procedimento amministrativo, Napoli, 1998. Caringella F., Il processo amministrativo, Napoli, 2002. Caringella F., Nuovi percorsi monografici di diritto amministrativo, Napoli, 1998. Caringella F., L. Tarantino, Il nuovo volto della conferenza di servizi, in “Urbanistica e appalti”, n. 4/200l Caringella F., Tarantino L., Il nuovo volto della conferenza di servizi dopo la legge 340/2000, in “Urbanistica e appalti”, 2001, n. 4, 367 ss. Caringella F., Tarantino L., Il nuovo volto del procedimento amministrativo dopo la legge 69 del 2009, Roma, 2009. Carosi, Riflessioni su localizzazione di discariche e tutela giurisdizionale, in “Foro amm. TAR”, 2003, 1999 (nota a T.A.R. Abruzzo, 26 novembre 2002, n. 712). Carrozza P., Commento all’art. 27 della legge 8 giugno 1990 n. 142, in “Commentario alla Costituzione”, Bologna, 1997, 386 ss. Cartei G.P., Conferenza di servizi, in “Digesto Disc. Pubbl.”, vol. XIV, Torino, 1999, 65 ss. Caruso, La storia interna della riforma del P.I.: dall’illuminismo del progetto alla contaminazione della prassi, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2001, 991 ss. Casetta E., La difficoltà di semplificare, in “Dir. amm.”, 1998, n.3/4, 335 ss. Casetta E., Manuale di diritto amministrativo, Milano, 1999. Caso L., Prime riflessioni sulla conferenza di servizi, in “Giur. it.”, 1993, 52 ss. Casserino S., Manuale di diritto processuale amministrativo, Milano, 1990. Cassese S., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Einaudi, Torino, 2009. Cassese S., Diritto amministrativo generale, I, Milano, 2000, 89 ss. Cassese S., Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza, in “Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni”, 2003, n. 2, 231 ss. Cattaneo S. (a cura di), Valutazione di impatto ambientale e pianificazione (Seminario di studi, Napoli), Milano, 1992. Caturani C., La conferenza di servizi: profili costituzionali, in “Riv. trim. appalti”, 1989, 1155 ss. Cavallo B., Provvedimenti e atti amministrativi, in G. Santaniello, Trattato di diritto amministrativo, vol. III, Padova, 1993. Cerulli Irelli V., Corso di diritto amministrativo, Torino, 1997. Cerulli Irelli V., Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. 241/90, in “Giust. amm.”, 2005, n.1, 9 ss. Cerulli Irelli V., Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n. 241/90 - III parte, p. 6. Ceruti M., Approvazione per gli impianti dello smaltimento di rifiuti ed enti locali: la Corte Costituzionale dichiara necessaria la partecipazione dei comuni alla conferenza istruttoria, in “Riv. giur. amb.”, 1996, 653 ss. 273 Chieppa, Il nuovo regime dell’invalidità del provvedimento amministrativo, in www.giustizia-amministrativa.it Ciaglia G., La nuova disciplina della conferenza di servizi, in “www.giust.it Giustizia amministrativa”, 2001, n.7-8. Ciaglia G., La semplificazione dell’attività amministrativa. La semplificazione normativa, in “www.Giust.it Giustizia amministrativa”, 2001, n.1 Cimellaro A., Ferruti A., La conferenza di servizi e l’accordo di programma, Rimini, 1998. Cimini S., La concertazione amministrativa: note sugli accordi di programma, in “www.giust.it Giustizia amministrativa”, 2002. Civitarese Matteucci S., Porti turistici. La metamorfosi del potere ministeriale di annullamento delle autorizzazioni paesistiche in seno alla conferenza di servizi; in “Riv. giur. amb.”, 2002, 757. Civitavese Matteucci S., voce: Accordo di programma (dir. amm.) in “Enc. dir.”, Agg. III, Milano, 1999, 9 ss. Civitavese Matteucci S., Semplificazione ed auto coordinamento nei procedimenti di localizzazione delle opere statali, in “Le Regioni”, 1995, 99 ss. Clarich, Gli strumenti di semplificazione della burocrazia: deregolamentazione, decentramento, sportello unico, nuove forme di organizzazione amministrativa e nuovi modelli procedimentali, 2000, in “www.giustiziamministrativa.it” Clarich M., La “cura Brunetta” punta su formazione e premi ma il giudizio è rinviato ai decreti legislativi, in “Guida dir.”, 2009, n. 13, 38 ss. Clarich M., Tipicità delle azioni e azioni di adempimento nel processo amministrativo, in “www.giustizia-amministrativa.it” Clarich M., Una rivincita della dirigenza pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia dell’imparzialità della pubblica amministrazione, in “www.neldiritto.it” (2007). Clarich M., Sanchini M., Verso il tramonto della tipicità delle azioni nel processo amministrativo, in “Rivista Nel diritto”, 2009, n. 3, 446 ss. Coccia S., La conferenza di servizi nella realizzazione di opere pubbliche, in “Appalti urb. edil”., 2001, n. 1, 3 ss. Collevecchio M., La conferenza di servizi, il suo riconoscimento e meccanismi di partecipazione e di tutela degli enti locali, in “Riv. giur. amb.”, 1994, 651 ss. Comport G.D., Conferenze di servizi e ordinamento delle autonomie, in “Dir. amm.”, 1998, 203 ss. Comporti G.D., Il coordinamento infrastrutturale. Tecniche e garanzie, Milano, 1996. Conti G., La conferenza di servizi dopo le modifiche introdotte dalla legge n.127 del 15 maggio 1997, in “Il diritto dell’economia”, 1997, n. 3, 547 ss. Conti G., La valutazione di impatto ambientale, Padova, 1990. Correale G., Contributo allo studio del concerto, Padova, 1974. Correale G., voce: Parere (dir amm.) in “Enc. dir.”, vol. XXXI, Milano, 1981, 676 ss. Corso G., Fares G., Il nuovo procedimento amministrativo dopo la legge 11 febbraio 2005, n. 15: i punti salienti della riforma, in “Studium iuris”, 2005, fasc. 6, 675 ss. 274 Corso G., L’attività amministrativa, Torino, 1999. Corso G., Teresi F., Procedimento amministrativo e accesso ai documenti, Rimini, 1991. Cosentino C., Frasca F., La conferenza di servizi e sportello unico per le attività produttive, Milano, 1999. Crisafulli A., Conseguenze giuridiche dell’atto di dissenso espresso in seno alla conferenza di servizi, in “Urbanistica e appalti”, 2000, 1007 ss. Crisafulli A., La conferenza di servizi non è un organo collegiale perfetto, in “Urbanistica e appalti”, 1998, 13 ss. Crisafulli A., La notificazione dei ricorsi agli atti della conferenza di servizi, in “Urbanistica e appalti”, 2000, 61 ss. Cuccia F., Accelerare i piani urbanistici, in “Rass. lav. pubbl.”, 1954, 21 ss. Cuccuru, Il ruolo della dirigenza alla luce del principio di separazione fra politica e amministrazione, in “Foro amm. TAR”, 2003, 4, 1409 ss. Cugurra G., Fantini G., Conferenza di Servizi: profili generali e aspetti applicativi nel settore ambientale, in “ARPA” Rivista n. 5, settembre-ottobre 2004. Cugurra G., La concentrazione dei procedimenti, relazione al Convegno “Procedimenti e accordi nell’amministrazione locale”, 42.mo Convegno di studi amministrativi tenutosi a Tremezzo il 19-21 settembre 1996, Milano, 1997, 85 ss. Cugurra G., La semplificazione del procedimento amministrativo nell’art. 17 della legge 15 maggio 1997, n.127, in “Dir. amm.”, 1998, 479 ss. Cuocolo F., Concerto (atto di) in “Enc. giur. Treccani”, vol. VII, Roma, 1988. D’Alberti (a cura di), La dirigenza pubblica, Bologna, 1990; D’Alessio, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici ed ipotesi di revisione del quadro normativo, in “Lav. nelle p.a.”, 2006, 3-4, 549 ss. D’alessio, Convergenze e divergenze dei sistemi amministrativi europei, in Di Benedetto (a cura di), Istituzioni, politica e amministrazione. Otto paesi a confronto, Giappichelli, Torino, 2005, 176 ss. D’Orsogna D., Conferenza di servizi e amministrazione della complessità, Torino, 2002, 63-64. D’Orsogna D., Spunti di riflessione sulla nuova conferenza di servizi, in “Cons. Stato”, 2001, II, 651 ss. D’Orta C., Meoli E., La riforma della dirigenza pubblica, Padova, 1994. Dainese G., La disciplina del procedimento amministrativo alla luce della riforma introdotta dalla legge 15/2005, in “Nuova Rassegna”, 2005, n. 8, 938 ss. Dapas A., Giadrossi A., Viola L., Snellimento dell’attività amministrativa e riforma dell’ente locale, Torino, 1998. Davalli P.P., La conferenza di servizi, in B. Cavallo (a cura di), Il procedimento amministrativo tra semplificazione partecipata e pubblica trasparenza, Torino, 2000, 179 ss. De Bellis C., Competenza amministrativa ed inerzia, Bari, 1993. De Fanti F., La conferenza di servizi, in “L’amministrazione italiana”, 1999, n. 2 e 3, 207 ss. 275 De Lise P., Lo statuto del provvedimento amministrativo, in “www.giustiziaamministrativa.it” De Lucia L., Luciani F., Contributo alla storia della conferenza di servizi decisoria, in Scritti in onore di G. Guarino, vol. II, Padova, 1998, 1 ss. Del Re A., La conferenza di servizi: nuovi profili, in “Nuova Rassegna”, 2006, n. 8, 1075 ss. Dell’Acqua C., Il tavolo unico delle decisioni “La conferenza di servizi”, in “Rivista del personale dell’ente locale”, 1995, n. 6, 997 ss. Dell’Anno P. (a cura di), La valutazione di impatto ambientale: problemi di inserimento nell’ordinamento italiano, Rimini, 1987. Dell’Anno P., Manuale di diritto ambientale, Padova, 1995. Della Rocca G.A., Prosperetti W. (a cura di), La valutazione di impatto ambientale (Via) dei progetti pubblici e privati, Milano, 1992. Dettori S., La conferenza di servizi come regola di coordinamento dell’azione amministrativa, in “i Tar”, 2002, n.2, 107 ss. Duni G., Il procedimento amministrativo tra conferenza di servizi, multimedialità e tele amministrazione, in Scritti in onore di G. Guarino, vol. II, Padova, 1998, 165 ss. Durval, La riforma della pubblica amministrazione ed il sistema di valutazione dei dirigenti, in “Lav. e prev. oggi”, 2009, 3, 321 ss Fabrizio M., Conferenza di servizi e diritto di accesso tra le novità “verdi” della legge 15/2005, in “Ambiente e sicurezza”, 2005, n.14, 91 ss. Falcon G., Convenzioni e accordi amministrativi, in “Enc. giur. Treccani”, IX, Roma, 1988. Falcon, Gli accordi tra amministrazioni e tra amministrazioni e privato, in “La semplificazione amministrativa”, Vandelli e Gardini (a cura di), Quaderni della Spisa, Rimini, Maggioli, 1999, p. 1. Fares G., La conferenza di servizi dopo la legge 24 novembre 2000, n. 340, in “Studium iuris”, 2001, n.7-8, 807 ss. Ferrara R. (a cura di), La valutazione di impatto ambientale, Padova, 2000. Ferrara R., voce: Intese, convenzioni e accordi amministrativi, in “Digesto Disc. Pubbl.”, vol. VIII, Torino, 1993, 543 ss. Ferrari C., Nullaosta amministrativo, in “Nss. Dig. it.”, vol. XI, Torino, 1965, 450 ss. Ferruti A., La conferenza di servizi- Prime osservazioni sul progetto di riforma, in “www.lexitalia.it, Articoli e note”, 2003, n.12. Forlenza O., “Interessi prevalenti” con la conferenza di servizi, in “Guida al diritto”, n. 46, 2000, 117 ss. Forlenza O., La conferenza di servizi fissa la tabella di marcia, in Aa. Vv., Guida alle leggi Bassanini, Milano, 1997, 289 ss. Forte P., Il contributo della giurisprudenza sulla conferenza di servizi, in “Enti Pubblici”, 1995, 129 ss. Forte P., La conferenza di servizi, Padova, 2000. Forte P., Primi orientamenti giurisprudenziali in tema di conferenza di servizi, in “Foro amm.”, 1993, 1777 ss. Francescon G., La valutazione di impatto ambientale, Padova, 1996. 276 Galgano F., Principio di maggioranza, in “Enc. dir.”, vol. XXXV, Milano, 1996, 547 ss. Galli R., Corso di diritto amministrativo, vol. II, Padova, 2005. Gardini G., La conferenza di servizi, in “Giornale dir. amm.”, 2005, n. 5, 488 ss. Gardini G., La conferenza di servizi: la complicata esistenza di un istituto di semplificazione. Relazione presentata al convegno “Le riforme della legge 7 agosto 1990, n. 241, tra garanzia della Iegalità ed amministrazione di risultato”, Urbino, 18-19 maggio 2006. Gardini G., La conferenza di servizi: natura e scopi. L’evoluzione dell’istituto della legge n. 241/90 al regolamento sullo sportello unico, in “Le Istituzioni del federalismo. Regione e governo locale”, n. 6, 1999, 1275 ss. Gargiulo U., I collegi amministrativi, Napoli, 1962. Garofalo , La dirigenza pubblica rivisitata, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 873 ss. Garofoli, La nuova disciplina del procedimento e del processo amministrativo, Nel diritto editore, 2009. Gherghi V., La conferenza di servizi come strumento di collaborazione e di semplificazione dei procedimenti amministrativi, in “Nuova Rassegna”, 1997, 157 ss. Giaccari A., Brevi spunti di riflessione sulla conferenza di servizi, in “Quaderni Dip. Scienze giuridiche”, 1999, n.8, 39 ss. Giampietro F., La conferenza di servizi nella legge 441/1987 sullo smaltimento dei rifiuti, in “Foro amm.”, 1988, 2308 ss. Giannini M.S. Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 81-83, 525541, 1259-1262. Giannini M.S., Accertamenti amministrativi e decisioni amministrative, in “Foro it”, 1952, IV, c. 169 ss. Glinianski S., La legittimazione a partecipare alla conferenza di servizi e la competenza all’adozione della decisione conclusiva, in “www.giust.it.” Glinianski S., Riforma e innovazione della dirigenza nello schema di DDL del Governo contenente misure di razionalizzazione delle norme generali sul lavoro alle dipendenze delle PP.AA., in www.Jexitalia.it., n. 9/2007. Greco G., Accordi di programma e procedimento amministrativo, in Aa.Vv., I rapporti tra cittadini ed istituzioni nelle recenti leggi di riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, Milano, 1992, 47 ss. Greco G., Commento all’art. 14 legge n.241/90, in Aa.Vv. Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti, Milano, 1991, 273 ss. Greco G., I nuovi profili della responsabilità dirigenziale nella legge 18 luglio 2009, n. 69 Guarnaccia E., La nuova conferenza di servizi, in Giurdanella C., Guida alla riforma del procedimento amministrativo, Napoli, 2005, 51 ss. Gustapane A., Sartor G., Verardi C.M., La valutazione di impatto ambientale, Milano, 1992. Impastato I.M.G., La conferenza di servizi« aperta» nel D.P.R. n. 447 del 1998 ovvero della «semplificazione partecipata », in “Dir. amm.”, 2001, 487. Irti N., L’età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979. 277 Iuvone C., Le prospettive della conferenza di servizi nell’elaborazione dell’Osservatorio nazionale delle semplificazioni, in “Le Istituzioni del federalismo. Regione e Governo locale”, n.6, 1999, 1229 ss. La Camera F., Valutazione di impatto ambientale, Milano, 1998. Lanotte M., Lavoro e P A. - La dirigenza pubblica, in “Dir. prat. lav.”, 2003, 10, 682 ss. Leondini G., La disciplina degli interventi per i campionati mondiali di calcio del 1990 nel quadro della problematica del coordinamento amministrativo, in “Riv. giur. urbanistica”, 1990, 119 ss. Lipari M., Il procedimento di autorizzazione delle di cariche di rifiuti: competenze regionale e partecipazione necessaria dei comuni attraverso la conferenza di servizi, in “Dir. e giur. agr.”, 1996, 309 ss. Maggiora E., La conferenza di servizi, in “Comuni d’ Italia”, 1995, 589 ss. Mainardi S., La responsabilità dirigenziale e il ruolo del comitato dei garanti, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 1078 ss. Mangani R., Confronto anticipato al preliminare. Così si spiana la strada al via libera, in “Edilizia e territorio”, n.46-47, 2000, 11 ss. Marini F.S., La regola maggioritaria nella conferenza di servizi, in “Quaderni costituzionali”, 2003, n.3, 639 ss. Martinelli F., Santini M., Sportello unico e conferenza di servizi “derogatoria” al vaglio del giudice costituzionale, in “Urbanistica e appalti”, n. 2, 2002, 169 ss. Martorano V., Nuovo look per la conferenza di servizi, in “Guida agli enti locali”, 2000, n.46, 117 ss. Marzari F., Ammesse le decisioni a maggioranza. Il veto resta solo per gli enti di tutela, in “Edilizia e territorio”, n.46-47, 2000, 10. Marzari F., Con la riforma si riducono i tempi. La conclusione prevista in 90 giorni, in “Edilizia e territorio”, n. 46-47, 2000, 6 ss. Marzuoli C., Principio di legalità e attività di diritto privato della pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1982. Matarazzo A., Le finalità della legge n.241/1990: gli accordi previsti dall’art. 11 e la conferenza di servizi, in “Nuova Rassegna”, 1995, 1995, 687 ss. Mazzarolli L., Pericu G., Romano A., Roversi Monaco F.A., Scoca F.G. (a cura di), Diritto amministrativo, 2 voll., Bologna, 2005. Mazzei B.L., Conferenza di servizi dimezzata. Bassanini inapplicabile alle opere statali, in “Edilizia e territorio”, 1997, 50 e 23. Melis E., La storia del diritto amministrativo, in Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo. Diritto amministrativo generale, I, Milano, 2000, 89 ss. Meoli C., Il nuovo ruolo della dirigenza, in “Foro amm.”, 1997, II, 2197 ss. Merloni A., Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Il modello italiano in Europa, Il Mulino, Bologna, 2006. Merusi F., Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo le recenti riforme, in “Dir. amm.”, 1993, 21 ss. Merusi F., Il coordinamento e la collaborazione degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, in Gerarchia e coordinamento degli interessi pubblici e privati dopo la riforma delle autonomie locali e del procedimento amministrativo, Atti del XXXVII 278 Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 19-21 settembre 1991, Milano, 1994, 39 ss. Miele G., Stancanelli G., Consorzi amministrativi, in “Enc. dir.”, vol. VIII, Milano 1961, IX, 408 ss. Migliarese F., voce: Nullaosta amministrativo, in “Enc. Giur. Trecc.”, vol. XXI, Roma, 1990. Migliarese Tamburino F., Il coordinamento nella evoluzione dell’attività amministrativa, Padova, 1979. Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione, Bologna, 1881, 102 Monaco A., voce Concerto (atti di), in “Enc. dir.”, VIII, Milano, 1961, 361 ss. Montemurro F., Il nuovo procedimento amministrativo e il rapporto tra P.A. e imprese, in Comuni d’Italia, 2005, n.3, 12 ss. Morbidelli G., Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in “Diritto amministrativo”, 4, 2007, pp. 703-777. Morbidelli G., Il procedimento amministrativo, in Aa.Vv., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 1369. Napolitano G., L’attività normativa del Governo nel periodo dicembre 2001febbraio 2002, in “Riv. Trim. dir. pubbl.”, 2002, n. 2, 406 - L’attività normativa del Governo nel periodo marzo 2002-giugno 2002, ivi, 2003, n. 2, 610. - L’attività normativa del Governo nel periodo marzo 2002-giugno 2002, ivi, 2002, n. 4, 986. Napolitano G., Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti istituzionali, in “Giornale di diritto amministrativo”, 11, 2008, pp. 1083-1094. Natalini, Il tempo delle riforme amministrative, Bologna, 2006 nelle pianificazioni di sviluppo, in Aa Vv., I modelli di organizzazione regionale e le amministrazioni per lo sviluppo economico (a cura di M. Bagella, L. Idda, F.P. Pugliese), Milano, 1985, 575 ss. Nigro M., Studi sulla funzione organizzatrice della pubblica amministrazione, Milano, 1966. Noviello G., Tenore V., La responsabilità e il procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Giuffrè, Milano, 2002, 62 ss., 136. Nunziata G., Colpo di acceleratore alla conferenza di servizi, in “Guida al Diritto”, 2005, n.10, 70 ss. Oliveri L., La conferenza di servizi nel progetto di legge di semplificazione, in www.giust.it giustizia amministrativa. Oliveri L., Principali riflessi della legge 340/2000 (legge di semplificazione amministrativa 1999), sull’attività delle amministrazioni pubbliche, in Giustizia amministrativa, 2001, n.1, 23 ss. Oliveri L., Brevi annotazioni sulla riforma della dirigenza, ivi. Onado M., Crisi dei mercati finanziari e intervento statale, in “Corriere giuridico”, 2008, pp. 1633-1634. Orlando L., Contributo allo studio del coordinamento amministrativo, Milano, 1974. Orsi Battaglini A., voce Nullaosta, in “Digesto disc. pubbl.”, vol. X, Torino, 1995, 183 ss. 279 Papadia P., La nuova conferenza di servizi, introdotta dall’art. 17, commi da 1 ad 11, della legge 15 marzo 1997, n.127, in “Comuni d’Italia”, n.11, 1997, 1487 ss. Parisio V., Tutela dei valori ambientali, paesaggistico-territoriali e semplificazione dell’azione amministrativa alla luce della legge 7 agosto 1990, n. 241, in “Riv. amm. Repubblica Italiana”, 1991, 1487 ss. Pastori G., Conferenza di servizi e pluralismo amministrativo, in “Le Regioni”, 1993, 1564 ss. Patroni Griffi F., La semplificazione amministrativa, 2008, in “www.giustiziaamministrativa.it” Pedaci V., Delegificazione e semplificazione, con particolare riferimento agli strumenti della programma negoziata ad alla conferenza di servizi, in “Nuova Rassegna”, 2001, n. 4, 393 ss. Peters, La pubblica amministrazione. Un’analisi comparata, Bologna, 1991, 18. Pezzullo M., Conferenza di servizi ed atti equipollenti agli effetti urbanistici, in “Nuova Rassegna”, 2001, n. 4, 393 ss. Piacentini P.M., La conferenza di servizi: considerazioni generali, in “Riv. trim. appalti”, 1989, 1131 ss. Picozza E., Note minime sull’istituto della conferenza di servizi e l’evoluzione della realtà, in Cons. Stato, 2001, II, 699 ss. Piga F., Coordinamento (principio del), in “Enc. giur. Treccani”, vol. IX, Roma, 1988. Piga F., Premessa ad uno studio sul coordinamento amministrativo, in “Foro amm.”, 1981, I, 716 ss. Pizzorusso A., Il principio maggioritario: vecchi e nuovi problemi, in “Questione giustizia”, 199, 3 ss. Police A., La predeterminazione delle decisioni amministrative: Gradualità e trasparenza nell’esercizio del potere discrezionale, Napoli, 1997. Potenza G., Spunti innovatiti attuali nella disciplina della responsabilità gestionale dei dirigenti degli enti locali, in “Foro amm.”, 1998, 2, 619 55. Predieri A., Strade e paesaggio, nella raccolta di saggi Urbanistica, tutela del paesaggio, espropriazione, Milano, 1969, 157 ss. Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per la Funzione Pubblica, L’attuazione della legge 7 agosto 1990, n.241 e la semplificazione dei procedimenti amministrativi, Roma, 1994. Proietti D., La dirigenza, in “Quad. dir. lav. rel. ind.”, 1995, n. 16, 72 ss. Proverbio V., La legge speciale per Roma Capitale n. 396 del 1990: accordo di programma e conferenza di servizi, in “Legalità e giustizia”, 1996, 552 ss. Quaglia M.A., La conferenza di servizi: profili procedimentali, in “Quaderni regionali”, 1991, n. 1-2, 105 ss. Quaglia M.A., La semplificazione del procedimento amministrativo:la conferenza di servizi, Torino, 1995, 107 ss. Racca E., Conferenza di servizi, la decisione si fa snella, in “Guida agli Enti locali”, 2005, n. 12, 29 ss. 280 Ranci A., Grandi strutture di vendita: novità in tema di conferenza dei servizi (nota a sentenza: tar marche n. 976/2004), in “www.diritto.it”, dicembre 2004. Rescigno G.U., Democrazia e principio maggioritario, in “Quaderni Cost.”, 1994, 187 ss. Rizza G., Intese, diritto pubblico, in “Enc. giur. Treccani”, vol. XVII, Roma, 1989. Rodotà S., Il tema: principio maggioritario e nuovi interessi, in “Politica del diritto”, 1981 ss. Roffi R., Concerto e intesa nell’attività amministrativa: spunti ricostruttivi, in “Giur. it.”, 1988, IV, c. 414 ss. Ruffini A., Il principio maggioritario nella storia del diritto canonico, in “Arch. giur.”, 1925, 15 ss. Ruffini A., Il profilo maggioritario-Profilo storico, Torino, 1927. Ruffini E., Il principio maggioritario in un inedito di A. Ruffini, in “Riv. trim. dir. e proc. civ.”, 1984, 508 ss. Ruffini E., Il profilo maggioritario-Profilo storico, Milano 1976. Ruffini E., La ragione dei più, Bologna, 1977. Russo A., La disciplina statale della conferenza di servizi in tema di localizzazione degli impianti di smaltimento, in “Riv. giur.urb.”, 1996, 146 ss. Salemi G., La teoria dei consorzi amministrativi, Roma, 1920. Sandulli A., Il procedimento, in A. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, tomo II, Milano, 2000, 927 ss. Sandulli A.M., Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989. Sandulli M.A., Commento agli artt. 4, 5, 6, in Aa. Vv. Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti (a cura di V. Italia, M. Bassani), Milano, 1991, 73 ss. Sandulli M.A., Il concetto di opera pubblica e di lavoro pubblico, in Aa.Vv., I lavori pubblici, in G. Santaniello, Trattato di diritto amministrativo, vol. X., Padova, 1990, 3 ss. Sanino M., voce: Nullaosta, in “Enc. dir.”, vol. XXVIII, Milano, 1978, 852 ss. Santini M., Analisi della recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in tema di conferenza di servizi, in “Urbanistica e appalti”, 2004, n. 5, 512 ss. Santini M., Conferenza di servizi e Titolo V della Costituzione: analisi del quadro normativo attuale e di quello di imminente introduzione, in “Urb. App.”, n. 9/2004. Savino, Le riforme amministrative, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di Cassese, Diritto amministrativo generale, I, II ed., Milano, 2234. Scala A., La conferenza di servizi nel quadro delle misure volte alla semplificazione dell’azione amministrativa, in “Nuova Rassegna”, 1994, 1286 ss. Scaletta D., Problematiche connesse ai poteri della provincia di formazione del piano regolatore generale, in “Foro amm. TAR”, 2002, 3195 Scoca F.G., Analisi giuridica della conferenza di servizi, in “Dir. amm.”, 1999, n. 1, 255 ss. 281 Scoca F.G., Il coordinamento e la comparazione degli interessi nel procedimento amministrativo, in Convivenza nella libertà, Scritti in onore di G. Abbamonte, Napoli, 1999, 1261 ss. Sgroi M., La conferenza di servizi tra semplificazione procedimentale e amplificazione delle competenze, in “Urb. e app.”, 2002, 1075 Sgroi, Dalla contrattualizzazione dell’impiego all’organizzazione privatistica dei pubblici uffici, Giappichelli, Torino, 2006. Siniscalco M., Governi alle porte: Crisi del credito e fondi sovrani, in “Mercato concorrenza regole”, 1, 2008, pp. 75-86. Sirianni G., Inerzia amministrativa e poteri sostitutivi, Milano, 1991. Sorace, Diritto delle amministrazioni pubbliche: una introduzione, Bologna, 2010, 394-395 Soricelli G., Ancora in tema di esercizio del potere di accesso agli atti preparati, procedimenti collegati e atti amministrativi generali, in “Riv. amm. della Repubblica Italiana”, 1998, 303 ss. Soricelli G., Contributo in tema di conferenza di servizi, Napoli, 2000. Spaventa, La politica della Destra, Bari, 1910, 25 Staffini P., La conferenza di servizi nell’ordinamento amministrativo: spunti ricostruttivi, in “Cons. Stato”, 1992, 159 ss. Staiano S., Sanità, indirizzo e coordinamento, poteri sostitutivi, in “Le Regioni”, 1992, 159 ss. Stancanelli G., I consorzi nel diritto amministrativo, Milano, 1963. Sticchi Damiani E., Attività amministrativa consensuale e accordo di programma, Milano, 1992. Sticchi Damiani E., La conferenza di servizi, in Scritti in onore di Pietro Virga, Milano, 1994, 1755 ss. Sticchi Damiani E., De Giorgi Cezzi G., Portaluri P.L., Tuccari F.F., Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa, Milano, 1999. Stiglitz J., Il ruolo economico dello Stato, Il Mulino, Bologna, 1992. Stoppani A., Forme di collaborazione non organica, in Coordinamento e collaborazione nella vita degli enti locali, Atti del Convegno di Studi di scienza dell’amministrazione, Varenna, 17-20 settembre 1959, Milano, 1961, 317 ss. Taccogna G., Questioni in tema di conferenza di servizi, in “Foro amm.”, 2002, 840 ss. Taccogna G., Questioni in tema di conferenza di servizi, in “nota a T.A.R. Lombardia”, sez. III, 28 febbraio 2002, n.888, in Foro amministrativo. Tomei R., Conferenza di servizi e accordo di programma, in Aa.Vv. Commento alla legge 127/97 “Bassanini due”, Rimini, 1998, 252 ss. Torchia L., Il controllo pubblico della finanza privata, CEDAM, Padova, 1992. Torchia L., La conferenza di servizi e l’accordo di programma, ovvero della difficile semplificazione, in “Gior. dir. amm.”, n.7, 1997, 675 ss. Torchia L., Lo Sportello Unico per le attività produttive, in “Giorn. dir. amm.”, 1999, 109 ss. 282 Traina D.M., Ancora un contributo circa i caratteri costituzionali della conferenza di servizi, in “Giur. cost.”, 1996, 734 ss. Travi A., La legge 15/2005: verso un nuovo diritto amministrativo?, in “Il Corriere giuridico”, 2005, n.4, 449 ss. Travi A., La riforma del procedimento amministrativo nella legge n. 537/1993, in “Le Regioni”, 1994, 1295 ss. Truini P., Conferenza di servizi e tutela giurisdizionale dei partecipanti, in “Riv. amm. della Repubblica Italiana”, 1295 ss. Tubertini C., La conferenza di servizi di fronte alla riforma del titolo V della Costituzione, in Dal procedimento amministrativo all’azione amministrativa, a cura di S. Civitarese, G. Gardini, Bologna, 2004 (Atti dell’incontro di studio “L’azione amministrativa nel progetto di revisione della legge n. 241/1990”, tenutosi in Pescara il 30 maggio 2003 presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara). Tuccari F.F., L’ambito d’applicazione del regolamento sullo Sportello Unico, in Localizzazione di insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa, Milano, 1999, 71 ss. Tulumello G., La semplificazione procedimentale applicata all’urbanistica: profili problematici delle recenti riforme legislative, in “Giur. it.”, 2002, 453. Urbani P., Semplificazione del procedimento amministrativo e conferenza di servizi nella disciplina delle opere pubbliche, in “Riv. giur. edilizia”, 1996, 129 ss. Vacca A., Ontologia della situazione giuridica soggettiva sottesa all’azione di risarcimento del danno conseguente all’inadempimento da parte della pubblica amministrazione dell’obbligo di esercitare il potere amministrativo (alla luce della legge 18 giugno 2009 n. 69), in “www.lexitalia.it” (luglio 2009) Valensise B., La dirigenza amministrativa tra fiduciarietà della nomina ed il rispetto dei principi costituzionali del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione, in “Giur. cost.”, 2002, 1211 ss. Valentini S., La collegialità nella teoria dell’organizzazione, Milano, 1966. Verbari G.B., Organi collegiali, in “Enc. dir.”, vol. XXXI, Roma, 1981, 60 ss. Vesperlini, Semplificazione amministrativa, in Cassese (a cura di); Dizionario di diritto pubblico, Milano, 2006, 5479 Villata R., Collegi amministrativi”, in “Enc. giur. Treccani”, vol. VI, Roma, 1988. Virga P., Relazione di sintesi, in La disciplina generale del procedimento amministrativo, XXXII Convegno di scienza dell’amministrazione di Varenna, Milano, 1989, 253 ss. Vitocolonna C., La conferenza di servizi, in La legge sul procedimento amministrativo, Legge sul procedimento amministrativo, Legge 7 agosto 1990 n. 241 (a cura di F.P. Pugliese), Milano, 1999, 121 ss. Wilson, The study of administration, in “Political science quarterly”, 1887, 2, 209 ss. 283