Crisi economica e risposte giuridiche di regolazione

UNIVERSITÀ DEL SALENTO
ISUFI
ISTITUTO SUPERIORE UNIVERSITARIO DI FORMAZIONE INTERDISCIPLINARE
Dottorato di ricerca
in Diritto dell’Economia e del Mercato
CICLO XXI
TESI DI DOTTORATO
CRISI ECONOMICA E RISPOSTE
GIURIDICHE
DI SEMPLIFICAZIONE
Il banco di prova della conferenza di servizi
COORDINATORE
Prof. Antonio Cetra
TUTOR
Prof. F. FRANCESCO TUCCARI
Anno Accademico
2011-2012
DOTTORANDO
Dott. DAVIDE PRINARI
2
INDICE
PREFAZIONE
7
PARTE I
CRISI ECONOMICA E MODELLI
DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA
9
Capitolo 1
CRISI ECONOMICA E INTERVENTO PUBBLICO
11
1. Introduzione
1.1. Crisi globale e risposte degli Stati
1.2. Dallo Stato “regolatore” allo Stato garante di ultima istanza
1.3. Questioni controverse
2. I tempi della crisi
3. Un nuovo assetto dello Stato?
3.1. Provvedimenti di sistema:
gli aumenti di liquidità e l’erogazione di garanzie pubbliche
3.2. Le nazionalizzazioni
3.3. Gli Hedge found
3.4. Interventi sull'economia reale
3.5. Il nuovo «Stato salvatore»
4. Il difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali
4.1. Tipi e caratteri degli organismi internazionali di regolazione
4.2. Le regole globali
4.3. Il nuovo rapporto tra Stato e organismi internazionali
5. Novità tra demo e tecnocrazia
6. Le proposte di riforma
7. Post scriptum
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Capitolo 2
AMMINISTRAZIONE PUBBLICA,
PRINCIPICIO DI LEGALITÀ E REGOLE DI DIRITTO
39
1. Introduzione
1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo
1.2. I fattori di cambiamento
1.3. Problemi e questioni
2. Principio di legalità e poteri impliciti
39
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43
3
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3. La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale
4. La legalità comunitaria
5. La «rule of law» globale
6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola della legalità
7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato
8. Legalità e legittimità: vizi formali e vizi sostanziali
9. I pericoli di una «caduta» della legalità amministrativa
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61
64
Capitolo 3
LA SEMPLIFICAZIONE PROCEDIMENTALE
NEL CONTESTO DEL RIFORMISMO AMMINISTRATIVO ITALIANO
DEGLI ULTIMI DECENNI:
ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI
67
1. Premessa
67
2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo amministrati
italiano degli ultimi decenni
68
2.1. La regionalizzazione
71
2.2. La privatizzazione del lavoro pubblico
72
2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della disciplina riguardante
gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale
72
2.4. Il destino del principio di separazione tra politica e amministrazione.
Il rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco
ai principi di merit system e tenure
78
3. Semplificazione amministrativa e competitività del Paese
80
4. Cause della complicazione amministrativa e tecniche di intervento
81
5. Gli interrogativi
83
6. La d.i.a./scia
85
6.1. La dibattuta questione della natura della d.i.a/scia e delle forme
di tutela del terzo
88
6.2. La d.i.a/scia e le politiche di semplificazione: conclusioni
92
7. Il silenzio-assenso. La disciplina
92
7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione
95
8. Il silenzio inadempimento
95
8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69
96
8.1.2.
La ristorabilità del danno da ritardo
98
8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il dibattito
svoltosi prima della riforma
100
8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, 1. n. 241/1990:
persa un’occasione per la soluzione del problema?
102
8.1.3.
La nuova ipotesi di responsabilità dirigenziale: i rapporti
con la responsabilità dirigenziale prevista dall’art. 21,
D.lgs. n. 165 del 2001
104
8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del
procedimento
106
4
9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1. 241/1990
l0. Riforma dell’amministrazione ed evoluzione
del processo amministrativo: è possibile una sinergia? La delega
per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge
n. 69 del 2009 e il varo del codice del processo amministrativo
110
PARTE II
UNA DECLINAZIONE DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA:
LA CONFERENZA DI SERVIZI
113
Capitolo 1
LA CONFERENZA DI SERV1ZI COME NUOVO MODELLO
DI AZIONE AMMINISTRATIVA: LE DIVERSE TIPOLOGIE
E IL PROCEDIMENTO
115
1. Introduzione
2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi
3. L'utilità dell'istituto
4. Il problema della natura giuridica
5. La conferenza istruttoria
6. La conferenza di servizi decisoria
7. La conferenza trasversale a procedimenti connessi
8. La conferenza preliminare
9. Il procedimento: Premessa
10. Organizzazione, funzionamento e tempi
11. Il soggetto legittimato a partecipare
12. L’acquisizione tacita dell’assenso
13. Il provvedimento finale
14. Ulteriori snodi procedimentali
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165
Capitolo 2
LA DISCIPLINA DEI DISSENSI ESPRESSI IN CONFERENZA DI
SERVIZI. RIFLESSI SUL TITOLO V DELLA PARTE SECONDA
DELLA COSTITUZIONE
169
1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso
2. La disciplina del dissenso nella L. n.340/2000 e nella L. n. 15/2005:
dal principio maggioritario a quello di prevalenza
3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V
della parte seconda della Costituzione
4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del 2005:
spunti per una soluzione percorribile
5
107
169
172
184
194
Capitolo terzo
PROFILI INTERPRETATIVI E PRINCIPALI PROBLEMATICHE
APPLICATIVE DELL’ISTITUTO E ASPETTI PROCESSUALI
1. Premessa
2. La partecipazione dei privati
3. La conferenza di servizi quale sede di mediazione delle discrezionalità
amministrative
4. Il ruolo delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi.
Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali
5. La legittimazione attiva della P.A.
6. L’instaurazione del contraddittorio
7. Gli atti impugnabili
8. le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010
Capitolo quattro
LE C.D. CONFERENZE DI SERVIZI SPECIALI, O DEROGATORIE
l. Premessa
2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994)
3. Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici
(c.d. Legge Obiettivo)
4. La realizzazione dei/porti turistici (D.P.R. n. 50911997)
5. Interventi in materia di energia
6. Lo Sportello Unico per le attività produttive
6.1. Il Consiglio di Stato tra patologie applicative della disciplina
sullo Sportello Unico e riforma del Titolo V della Costituzione
7. Altre procedure
7.1. Interventi in materia di telecomunicazioni
7.2. Norme in materia di rifiuti
7.3. Disposizioni in materia di ferrovie
7.4. Disposizioni in materia di commercio
7.5. Interventi per i Giochi olimpici invernali «Torino 2006»
7.6. Lo Sportello Unico per l’edilizia
8. Post scritum
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
201
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PREFAZIONE
La grande crisi economico-finanziaria, scoppiata nel 2007 in America
e propagatasi fino ad oggi in tutto il mondo, con picchi di maggiore o
minore gravità pone un interrogativo inquietante a chi la voglia leggere
con gli occhi del Diritto: c’è un rimedio efficace? Possono gli stati
dispiegare politiche che arginino il panico diffuso nei mercati?
La realtà è che, mai come in questo “ tornante della storia”, il Diritto
sembra avere il “fiato corto” nel rincorrere un fenomeno in costante
cambiamento. Il valore della certezza giuridica, pur da tutti a parole esaltato,
non può che risentire dell’esigenza di un necessario e continuo adeguamento
ai sempre nuovi drammatici assetti economici dettati dalla crisi in atto.
Ecco, in sintesi, la ragione di questo contributo: “tastare il polso”
della realtà economica generale, giustapponendola al riformismo amministrativo negli ultimi anni, tra esigenze di regolazione e liberalizzazione,
senza trascurare la profonda trasformazione del principio cardine di legalità
e ponendo attenzione particolare all’istituto della conferenza di servizi,
laboratorio da sempre di esperimenti più o meno riusciti in materia di
semplificazione, che si è qui ritenuto “termometro” utile al fine di meglio
comprendere le risposte dell’ordinamemento italiano alle pressanti esigenze
provenienti dal mondo della economia.
Si spera con qualche possibiltà di successo, avendo fatto tesoro della
multidisciplinarità delle lezioni ISUFI e di quello che il Professor E.
Sticchi Damiani ama chiamare “pensiero largo”.
A lui dedico di cuore questo modesto lavoro.
Lecce, giorno dell’Immacolata 2011
D.P.
7
8
PARTE I
CRISI ECONOMICA E MODELLI
DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA
9
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CAPITOLO 1
CRISI ECONOMICA
E INTERVENTO PUBBLICO
1. Introduzione. - 1.1. Crisi globale e risposte degli Stati. - 1.2. Dallo Stato “regolatore”
allo Stato garante di ultima istanza. - 1.3. Questioni controverse. - 2. I tempi della crisi.
3. Un nuovo assetto dello Stato? - 3.1. Provvedimenti di sistema: gli aumenti di liquidità
e l’erogazione di garanzie pubbliche. - 3.2. Le nazionalizzazioni. - 3.3. Gli Hedge
found. - 3.4. Interventi sull'economia reale. - 3.5. Il nuovo «Stato salvatore». - 4. Il
difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali. - 4.1. Tipi e caratteri degli
organismi internazionali di regolazione. - 4.2. Le regole globali. - 4.3. Il nuovo rapporto
tra Stato e organismi internazionali. - 5. Novità tra demo e tecnocrazia. - 6. Le proposte
di riforma. - 7. Post scriptum.
1. Introduzione
1.1. Crisi globale e risposta degli Stati.
Il tema dei rapporti tra Stato ed economia è da tempo focale
nell’ambito di un dibattito risalente. Già a metà '800, taluni avevano
teorizzato la separazione fra politica ed economia. In questa diatriba, è
ricorrente la tesi che sostiene la difformità totale e originaria fra disciplina
pubblica e libertà economica privata. Altrettanto risalente è, peraltro, la
consapevolezza che, ove si consideri che la disciplina pubblica dell'economia sia in grado di correggere o sostituire o assicurare il mercato,
deve, in ogni caso, necessariamente sussistere un certo grado di fungibilità
fra Stato e mercato e che è, quindi, più importante studiare le loro
interazioni che non la loro contrapposizione.
Ciò rappresenta uno snodo fondamentale per la scienza del diritto pubblico,
innanzitutto per una ragione di metodo e, poi, per una ragione di merito.
Sul primo versante, si tratta di un tema che permette di colorare in
termini critici la tradizionale contrapposizione che concepisce lo Stato e il
mercato come universi di credenza in antitesi, il primo caratterizzato dai
valori dell'uguaglianza, dell'uniformità e del collettivismo, il secondo
caratterizzato dai canoni della libertà, della differenza e dell'individualismo. In virtù di tale semplificazione, l'economia di mercato si appaleserebbe tendenzialmente autosufficiente ed autoequilibrata e il ruolo dei
poteri pubblici andrebbe configurato, quindi, in termini di «ingerenza» di
un elemento estraneo e diverso rispetto alle ordinarie forze, relazioni e
“spiriti”di mercato.
11
L’approccio critico a questo approccio, insieme con il richiamo alla
necessità di basare le ricostruzioni su approfondite analisi delle concrete
esperienze ordinamentali di ciascun paese sono stati chiaramente
tratteggiati già da M.S. Giannini sin dagli anni '70 ispirando, per il vero,
studi più attenti a mettere in luce la ricchezza e l'articolazione dei rapporti
tra Stato ed il mercato.
La consapevolezza che tanto lo Stato quanto l’economia abbiano
natura istituzionale e siano prodotti dell'azione umana e non, al contrario,
fenomeni naturali, ha portato a sottolineare il ripetersi in forma ciclica di
«fallimenti del mercato» e «fallimenti dello Stato» e a evidenziare, su
questa base, i vantaggi di una posizione eclettica, volta a valutare, caso per
caso, i pregi dello strumento Stato e dello strumento mercato al fine di
rispondere ai bisogni sociali in un dato momento storico.
Di questa ispirazione, del resto, è debitrice la maggior parte delle carte
costituzionali degli odierni ordinamenti democratici, essendo sono tutte
qualificabili, sotto questo profilo, come costituzioni miste che prevedono
un ampio strumentario, mediante il quale i pubblici poteri possono sempre
assumere un ruolo nell'economia dello Stato. Per l'Italia, basti por mente,
ad esempio, all'interazione fra le disposizioni dell'art. 41 Cost., che
enunciano la libertà dell'iniziativa economica privata, sia pure prevedendo
limitazioni derivanti dall'interesse pubblico, e le disposizioni dell'art. 43
Cost., che prevedono, tollerandoli, regimi di riserva e monopolio pubblico.
La stessa visione si rinviene anche nel diritto europeo che, oltre a
contemplare normative settoriali molto incisive, a volte (si pensi alla
politica agricola, che di per sé esaurisce il 40% delle risorse europee),
enuncia, già nei trattati, il principio di indifferenza alla natura pubblica o
privata dei soggetti che operano su di un mercato, purché sia resa effettiva
la pluralità degli operatori e siano escluse norme volte alla discriminazione
per l’accesso al mercato.
In quanto al merito, lo studio dei rapporti tra Stato ed economia
permette, se si adotta un approccio metodologico pragmatico e non
ideologicamente orientato, non tanto di misurare le (asserite) riduzioni
della sfera dello Stato o del mercato, quanto a riscontrare gli sviluppi del
diritto pubblico dell'economia in quanto a fini perseguiti, strumentazione
disponibile, obiettivi raggiunti nei diversi momenti storici, procedendo pure
a confrontare l'esperienza dei diversi ordinamenti.
1.2. Dallo Stato regolatore allo Stato assicuratore di ultima istanza
Il trend, ancora dominante al momento della crisi finanziaria ed
economica scoppiata nel 2007, registrava, accanto al ridimensionamento
dello Stato imprenditore, la vis espansiva del c.d. “Stato regolatore”.
12
La funzione dei pubblici poteri era venuta progressivamente mutando
quanto a natura e moduli di azione, ma i processi di privatizzazione e di
liberalizzazione, che hanno caratterizzato l'ultimo ventennio del secolo
scorso, non avevano portato ad una sua scomparsa. In effetti, gli stessi
processi di privatizzazione e di liberalizzazione hanno, di frequente, portato
alla riconfigurazione in impresa di preesistenti strutture pubbliche: così, a
titolo meramente esemplificativo, si può rammentare la distinzione, dovuta
al diritto europeo, fra gestione della rete e gestione del servizi.
Per altro verso, la disciplina pubblica dell'economia è andata
pesantemente perdendo il suo tradizionale carattere conformativo, per
assumere un carattere sempre più marcatamente condizionale.
Il primo tipo di regolazione ha, come noto, 1'effetto di conformare, sin
dal momento genetico l'attività economica privata, imponendo comandi e
indirizzi cui essa non può sottrarsi: in origine attività economiche, oggi
interamente private, come I'attività creditizia o di assicurazione,
soggiacevano a controlli amministrativi assai penetranti sia al momento di
costituzione dell'impresa, sia nello svolgimento dell'attività, con una
puntuale prescrizione delle attività consentite e di quelle vietate nonché
delle condizioni da adempiere per il loro espletamento.
Mediante la regolazione condizionale, invece, lo svolgimento
dell'attività economica viene sottoposto a condizioni, al cui rispetto è legato
il compimento di determinate operazioni, mentre l'attività resta in larga
misura libera di indirizzarsi secondo le convenienze dell'imprenditore
privato. Così, ad esempio, se un intermediario finanziario vuole sollecitare
il pubblico risparmio, deve compilare e rendere noto al cliente un prospetto
informativo, ma 1'autorità di vigilanza - nel caso specifico, la CONSOB - si
limita a determinare lo schema di prospetto e non può effettuare controlli di
merito ex ante sulle indicazioni fornite.
Il suddetto fenomeno ha trovato un potente fattore di promozione anche
nella dimensione sempre più transnazionale delle attività economiche e di
quelle finanziarie in primis. È del tutto evidente, infatti, che regole
condizionali meglio si prestano ad essere adottate anche da parte di autorità
di regolazione sovranazionali con riferimento al mercato internazionale, ove,
per converso, regole di tipo conformativo richiedono necessariamente
l'esercizio di poteri di indirizzo politico e un ambito di vigenza e di
applicazione più propriamente nazionale, dimensione nella quale può più
facilmente svolgersi l'attività di vigilanza, se non proprio di sanzione.
Il carattere transnazionale delle attività economiche avrebbe richiesto
un corrispondente assetto regolatorio e di vigilanza altrettanto esteso, la cui
costruzione ha scontato, però, non poche esitazioni, sia da parte dei
13
potenziali destinatari della regolazione, sia da parte delle autorità nazionali,
da sempre restie alle cessioni di sovranità.1
Si è consolidata, così, la tendenza ad attribuire all'autoregolazione i
compiti che le autorità nazionali non erano più in grado di svolgere
nell'arena globale e che non intendevano però delegare ai regolatori
internazionali, mentre questi ultimi, dal canto loro, si limitavano ad
adottare raccomandazioni e orientamenti privi di effettiva cogenza.
Fra le molteplici cause che hanno portato alla crisi finanziaria ed
economica è dato verificare, in sostanza, un doppio e contestuale
fallimento, da un lato del mercato, che non è riuscito ad autoregolarsi ed
autocorreggersi, e, dall’altro, della regolazione, che non è stata in grado di
evitare per poi, eventualmente, sanzionare l'assunzione di rischi sempre
maggiori. Nello stesso momento in cui i rischi hanno assunto una
dimensione di sistema, è apparso necessario che i pubblici poteri, e gli Stati
in primo luogo, assumessero un ruolo centrale nell'economia.
Ma il ruolo economico dello Stato, per richiamare il titolo di un
celebre libro di J. Stiglitz, è ancora cambiato secondo forme almeno
parzialmente nuove ed inedite. Se pure molte misure di emergenza, adottate
per far fronte alla crisi nei suoi momenti più drammatici presentano forti
somiglianze con l'intervento pubblico tradizionale- nazionalizzazioni,
incentivi alle imprese, sostegno diretto ad alcuni settori produttivi –le
misure adottate, nel loro complesso, non sembrano né orientate ad un
ritorno allo Stato imprenditore, né ad un abbandono dello Stato regolatore
ma, più verosimilmente, ed in sintesi, alla emersione di uno Stato
assicuratore di ultima istanza.
Gli Stati hanno, infatti predisposto, più o meno efficacemente a
seconda dei casi, una rete di garanzie che stempera decisamente i rischi ai
quali il sistema economico era esposto e che non riusciva, con le sole del
libero mercato, ad assorbire. La erogazione di queste garanzie ha richiesto
una mobilitazione di risorse che solo gli Stati nazionali potevano
permettersi, perché solo il potere pubblico può in larga misura
autodeterminare 1'orizzonte temporale dei suoi impegni e può, quindi,
assorbire, nel medio-lungo periodo, rischi che sul breve periodo sarebbero
insostenibili per un soggetto privato.
Lo strumentario connesso a questo nuovo ed inedito ruolo dello Stato
nell'economia è ancora in fase di definizione e consolidamento e non si
presta, quindi, a bilanci o valutazioni definitive, ma merita una sia pur
approssimata analisi al fine di individuare le tendenze emergenti e
preponderanti. Si appalesa, comunque, l'innegabile asimmetria fra il
contesto mondiale della crisi e la risposta locale dei singoli ordinamenti
1
Cfr. STIGLITZ J., Il ruolo economico dello Stato, Il Mulino, Bologna, 1992.
14
nazionali, che richiederà quasi inesorabilmente un maggiore sviluppo del
ruolo delle sedi sovranazionali preposte alla regolazione e alla vigilanza.
1.3. Questioni controverse
La crisi ha dimostrato che l'autonomia privata è multiforme. Essa si
presenta come libertà nei confronti del potere pubblico, ma può anche
atteggiarsi come potere nei confronti di altre situazioni soggettive private. I
clienti delle banche che sono fallite o hanno rischiato il fallimento, o i
risparmiatori che hanno inconsapevolmente comprato i c.d. titoli tossici,
non hanno trovato alcuna garanzia o salvaguardia nell'ambito delle regole
di mercato e hanno dovuto cercare necessariamente tutela nell'intervento
pubblico.
La disciplina pubblica dell'economia non può, allora, non considerare
l'asimmetria fra i diversi interessi in gioco erogando misure di tutela e
garanzia per gli interessi e i diritti che rischino di essere travolti nel caso in
cui l'equilibrio di mercato cessi di funzionare. Il ruolo economico dello
Stato si va vieppiù traformando, a seguito della crisi, verso la prestazione di
garanzie di ultima istanza, che non necessariamente comportano, a
differenza di quanto avvenne dopo la crisi del 1929, la costruzione di nuovi
apparati e l'elaborazione di nuovi complessi assetti regolatori.
L'applicazione e l'attuazione della regolazione non possono essere
appaltate, peraltro, interamente all'autoregolazione, né possono basarsi
unicamente su regole prive di cogenza e non accompagnate da sanzioni
efficaci. La necessità implementare delle regole con efficacia cogente nella
nuovo contesto globale dei fenomeni economici sta conducendo ad una
riperimetrazione dell’attuale assetto attuale e, in ispecie, della funzione dei
regolatori internazionali.
2. La cronologia della crisi
Il 2007 passerà alla storia come l'anno di inizio della prima grande
crisi economica globale, dapprima manifestatasi negli Stati Uniti e
successivamente estesasi, con effetti esplosivi, nei mercati internazionali.
Dal 2000 il mercato finanziario americano aveva mostrato una crescita
esponenziale, dando luogo al fenomeno della c.d. finanziarizzazione: il
valore aggiunto del settore finanziario si era incrementato più del reddito
nazionale; la quota degli utili delle società di questo settore si era
quadruplicata rispetto ai profitti totali di tutte le società quotate; la quota
del valore delle società finanziarie era triplicata rispetto al valore totale
della Borsa.
15
Già dalla primavera del 2006, tuttavia, sebbene l'economia mondiale
fosse ancora caratterizzata da una stabile ed intensa liquidità, oltre che da
una politica monetaria molto espansiva, iniziava a prendere piede un clima
di instabilità che, improvvisamente, avrebbe portato ad una contrazione
tanto violenta quanto repentina del debito del sistema, il c.d. deleveraging.
Nel mercato degli immobili americano erano, così, iniziate ad
emergere le c.d. bolle speculative, originate dalla grande liquidità a
disposizione dei privati e dall'assenza di controlli sulla inflazione dei prezzi
degli asset, cioè dei titoli di investimento. Molti strumenti finanziari emessi
dalle banche erano divenuti «titoli tossici»: i prestiti concessi erano stati
convertiti, mediante cartolarizzazioni, in obbligazioni destinate al mercato
finanziario, non trovando, quindi, più debita indicazione nel bilancio
dell'istituto di credito. In tal modo, gli investitori non erano in condizione
di conoscere la situazione economica delle banche; di conseguenza, la
minore informazione sui rischi legati alle operazioni economiche,
accompagnata dal graduale indebolimento delle regole giuridiche del
settore finanziario (in particolare con riguardo alla vigilanza prudenziale)
hanno accentuato i fenomeni di moral hazard.
Nel febbraio 2007 i primi sintomi della crisi incombente si sono
manifestati con l'annuncio, da parte degli istituti di credito HSBC e New
Century Financial Corp., di forti perdite nel proprio portafoglio di mutui
sub prime, concessi ed erogati ad una clientela difficilmente solvibile.
La deflagrazione della crisi è avvenuta in uno con la reazione della
politica monetaria americana volta dell'inasprimento dei saggi di interesse
per aggredire la bolla speculativa immobiliare, il dollaro costantemente in
flessione e l'inflazione: tali fattori hanno prodotto la vertiginosa caduta dei
prezzi degli immobili, la perdita di valore delle garanzie immobiliari e
l'impossibilità dei soggetti che hanno acceso mutui ipotecari, soprattutto i
sub prime, onorare gli impegni assunti con le banche.
Nell'estate 2007, la finanziaria Bear Stearns ha annunciato difficoltà di
due suoi hedge funds i quali avevano investito in titoli garantiti da mutui
sub prime, mentre le agenzie di rating, tra cui, in particolare, Moody's e
Standard & Poor's, hanno tagliato i rating dei titoli americani per 12
miliardi di dollari.
Con il blocco del mercato monetario, la BCE, in Europa, ha adottato la
politica delle aste di liquidità, mezzo funzionale all’iniezione di liquidità
nel capitale delle banche senza abbassare i tassi.
La crisi si è generalizzata: non si è limitata al settore immobiliare
americano, ma si è estesa ai settori finanziario, bancario, borsistico, anche
oltre i confini statunitensi.
Il fallimento dei mutui sub prime, avvenuto negli Stati Uniti, ha
iniziato a far sentire i suoi effetti in Europa: la banca tedesca IKB ha
dichiarato le proprie difficoltà, così come la Sachsen LB; la Northern Rock
16
e Barclays hanno chiesto un finanziamento straordinario alla Bank of
England.
Nel settembre 2007, i clienti della Northern Rock hanno chiesto di
estinguere i depositi, in una corsa agli sportelli che non si verificava da
oltre centoquarant'anni. Nel febbraio 2008, l'istituto di credito è stato
nazionalizzato.
I mercati sembravano tuttavia offrire segnali di ripresa, in seguito alla
decisione di tre grandi banche americane, Bank of America, JP Morgan e
Citigroup, di acquistare gli asset tossici delle banche.
Altri interventi di salvataggio sono stati condotti nella primavera del
2008, quando la società finanziaria JP Morgan Chase ha acquistato Bear
Stearns, e nell'estate 2008, quando gli Stati Uniti hanno nazionalizzato gli
istituti di concessione di prestiti Fannie MAE e Freddie Mac.
Il 15 settembre 2008 è stato il giorno peggiore per Wall Street dall'11
settembre 2001: è fallita Lehman Brothers, le cui attività sono state rilevate
in parte da Barclays e, per quanto riguarda Asia, Europa e Medio Oriente,
dalla giapponese Namura Holdings; Merill Linch è rilevata da Bank of
America; AIG è risultata fortemente compromessa nella crisi.
A fine settembre 2008, dopo il crollo delle proprie azioni, Goldman
Sachs e Morgan Stanley hanno rinunciato allo status di banche
d'investimento per divenire in banche commerciali.
Nel contempo, la crisi è tornata a manifestarsi incisivamente
nell'Europa continentale: il gruppo Fortis è stato salvato dai governi di
Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo. Di lì a poco, le attività di Fortis in
Belgio e Lussemburgo sono state acquisite da BNP.
Nell'ottobre 2008, il Senato americano ha approvato un piano di
risanamento da 850 miliardi di dollari. A livello internazionale, i ministri
economici dei paesi del G7 hanno concordato una comune strategia di
interventi.
I governi europei, invece, non hanno parlato con una sola voce,
limitandosi a proporre manovre secondo esigenze e interessi nazionali,
ma hanno trovato un accordo sulla ricapitalizzazione delle banche in
difficoltà, nonché sulla garanzia pubblica a tutti i prestiti interbancari per
sbloccare la liquidità e una revisione delle norme di contabilità a livello
europeo.
E indubbio che gli interventi di carattere nazionale si siano appalesati
non adeguati a risolvere un problema di portata internazionale, a causa
dello scarso coordinamento tra gli Stati; d'altra parte, i regolatori internazionali hanno dimostrato la propria debolezza nell'impossibilità di
delineare una strategia adeguata ed efficace.
In questo situazione, le conseguenze della crisi e dei successivi
provvedimenti adottati dai regolatori nazionali ed internazionali hanno
inciso su un triplice profilo: il rapporto tra Stato e mercato, il ruolo dei
17
regolatori internazionali e l'incidenza sull'economia del potere politico
rispetto a quello dei tecnici.
3. Un nuovo ruolo dello Stato?
L'improvvisa mancanza di liquidità, il fallimento delle banche e degli
altri istituti di credito e l’improvviso tracollo delle Borse hanno reso
indispensabile l'intervento dei poteri pubblici nell'economia, modificando il
rapporto preesistente tra Stato e mercato.
I provvedimenti adottati da ciascun ordinamento per aggredire tale
stato di cose sono stati, in un primo momento, condizionati da una politica
di intervento «caso per caso», mediante aumenti ricapitalizzazioni mirate e
sottoscritte in parte dal mercato, ma soprattutto, dai fondi governativi.
A dispetto dei tentativi di coordinamento operati dalle organismi
internazionali, le strategie poste in essere dagli Stati per fronteggiare la
crisi si sono rivelate piuttosto eterogenee tra loro, ma con un elemento di
fondo comune.
In controluce, si può notare che negli Stati Uniti, come in Europa, si è
assistito alla progressiva metamorfosi del modello dello Stato regolatore,
affermatosi sullo Stato interventista nell'ultimo quarto del XX secolo, per
cui il pubblico potere non indica i fini dell'attività economica, ma ne
stabilisce regole e procedure senza svolgere direttamente l'attività di
vigilanza, ma conferendola ad autorità istituite ad hoc. Esse, come noto,
sono istituzioni indipendenti dal circuito politico ed elettorale, dotate di
mandato specifico e di poteri incisivi previsti dalla legge, composte da
persone scelte per la loro elevata competenza tecnica e per la loro
imparzialità.
Diversamente dello Stato sociale, visto come un «dispensatore di
beni», lo Stato regolatore non si pone l’obiettivo di soddisfare tutti i
possibili bisogni sociali, ma mira, più che altro, a fornire risposta a
problemi circoscritti, rispettando, per quanto possibile, le logiche di azione
dei sistemi regolati.
All’indomani della crisi economica, gli Stati nazionali non si sono
limitati ad emanare regole destinate agli operatori del mercato, ma si sono
spinti sino al punto di porre in essere interventi destinati ad avere
un'incidenza immediata nell'economia. Le banche centrali dei vari paesi, ad
esempio, hanno attuato massicce immissioni di liquidità in cambio di asset
ormai privi di valore, mentre i governi hanno varato piani di
nazionalizzazione delle banche in difficoltà, hanno erogato risorse per
l'acquisizione di istituti di credito tecnicamente falliti e hanno previsto
incentivi e misure favorevoli ad alcuni contesti industriali (ad esempio, la
filiera automobilistica).
18
Con riguardo all'economia reale, gli Stati sono intervenuti a sostegno
delle famiglie e delle imprese, evocando il modello di Stato gestore,
ingegnere sociale e dispensatore di beni che caratterizzò il periodo
compreso tra gli anni '40 e gli anni '70, del secolo scorso.
Ci si può allora chiedere se questa modificazione degli assetti
istituzionali vada considerata come un ritorno al passato o non costituisca,
invece, un nuovo modello di intervento pubblico nell'economia, destinato a
durare e a non esaurirsi con l'emergenza della crisi.
3.1. Provvedimenti di carattere sistemico: gli incrementi di liquidità e la
concessione di garanzie pubbliche
Tra gli strumenti di sostegno del settore finanziario posti in essere
dagli ordinamenti statali per fronteggiare la crisi si pongono quelli
finalizzati ad aumentare la liquidità a disposizione degli intermediari e
delle banche e a garantire la loro esposizione debitoria.
Tali operazioni hanno consentito di supportare le banche mediante
tecniche che, in un mercato privato, avuto riguardo al particolare contesto
storico ed economico, non sarebbero possibili; per altro verso, hanno
aumentato la fiducia dei risparmiatori posto che incentivano le transazioni.
Gli strumenti più frequenti sono l'istituzione di fondi speciali, la
concessione di garanzie pubbliche e lo scambio di titoli di Stato, in
giustapposizione alle operazioni svolte dalle banche centrali.
Negli Stati Uniti, con 1Emergency Economic Stabilization Act of 2008
è stato conferito al segretario al Tesoro americano il potere di adottare il
Troubled Asset Relief Program, allo scopo di far fronte alla scarsa liquidità
degli intermediari finanziari.
Munito di tali poteri, il governo ha quindi acquistato prodotti finanziari
«problematici» o «tossici», costituiti in parte da titoli relativi a mutui
immobiliari, in parte da qualsiasi altro strumento al quale il segretario,
previa comunicazione al Congresso, ritenesse o ritenga opportuno
estendere l'intervento pubblico.
In tale contesto, il segretario al Tesoro è stato chiamato a esercitare
ogni diritto connesso ai titoli acquistati, ivi compreso quello di vendere,
concedere prestiti, riacquistare e concludere transazioni finanziarie sui
titoli, secondo termini e condizioni dal medesimo determinati, in
conformità ai vincoli di legge e alle linee di intervento previamente
pubblicate.
Le somme così incassate sono state destinate al trasferimento all'erario
e alla riduzione del debito pubblico.
Al fine di stemperare il carattere centralistici del provvedimento, si è
promosso il coinvolgimento del settore privato nell'attuazione del
19
programma, attraverso l'incentivo all'acquisto dei titoli «infetti» e
all'investimento nelle istituzioni finanziarie.
Si badi che l'intervento pubblico, inoltre, deve, per legge, comunque
svolgersi secondo i meccanismi di mercato, acquistando al prezzo più
basso e privilegiando il ricorso a procedure d'asta.
In Italia, è stato previsto, con la l. n. 185/2008, che il ministero
dell'Economia e delle Finanze possa fornire la garanzia statale sulle
passività delle banche, su operazioni bancarie di rifinanziamento e sui
finanziamenti erogati dalla Banca d'Italia per ovviare a gravi crisi di
liquidità; può, inoltre, procedere a operazioni temporanee di scambio tra
titoli di Stato e strumenti finanziari.
Nell'ordinamento tedesco, la Finanzmarktstabilisierungsgesetz, approvata il 17 ottobre 2008, ha istituito uno speciale Fondo per la stabilizzazione del
mercato finanziario gestito dalla Bundesbank, in conformità agli indirizzi del
ministero delle Finanze, con il quale sono stati messi a disposizione delle banche in difficoltà 500 milioni di euro, mentre allo Stato spetta una partecipazione azionaria per ciascun istituto di credito che benefici di tale liquidità.
Il piano tedesco prevede che le partecipazioni azionarie pubbliche
detenute presso i vari istituti di credito entrino nell'amministrazione
fiduciaria delle banche (Banken-Treuhand).
Anche in Francia il piano di risanamento dell'economia ha previsto la
creazione del Fonds stratégique d'investissement (FSI), che assume la
natura giuridica di società per azioni, ma di fatto è una filiale della Caisse
des dépots, con la funzione di sostenere le piccole e medie imprese
mediante l’erogazione diretta di liquidità.
Gli Interventi pubblici in ambito europeoper sostenere il settore
finanziario sono stati agevolati anche dalla decisione del Consiglio europeo
di modulare con meccanismi di flessibilità l’applicazione delle regole
comunitarie sugli aiuti di Stato e sul Patto interno di stabilità.
In ossequio a tali principi, il 26 novembre 2008 la Commissione è
pervenuta ad una comunicazione in cui è stato stabilito un piano di ripresa
fondato sia su misure a breve termine che su «investimenti intelligenti»
finalizzati a garantire una maggiore crescita e prosperità sostenibile a lungo
termine.
È stata ammessa, in particolare, la necessità, seppur in via del tutto
eccezionale e temporanea, di procedere a nuovi aiuti di Stato alle imprese
di interpretando estensivamente la relativa disciplina comunitaria.
Successivamente, il 22 gennaio 2009 è stato poi precisato che gli aiuti
dovrebbero interessare in particolare le banche, attraverso iniezioni di
liquidità dirette alla duplice finalità di sbloccare i prestiti bancari alle
imprese, garantendone così l'accesso ai finanziamenti, e allo stesso tempo
di indurre l’intrapresa privata ad investire nel futuro.
20
3.2. Provvedimenti di carattere sistemico: le nazionalizzazioni
La seconda tipologia di provvedimenti di carattere sistemico posti in
essere dagli ordinamenti internazionali per fare fronte alla crisi economica
consiste nella nazionalizzazione delle banche in difficoltà, vale a dire
l'acquisto di azioni o la sottoscrizione di aumenti di capitale da parte dello
Stato o di altri operatori pubblici in presenza di gravi situazioni di
inadeguatezza patrimoniale delle banche o di altri istituti di credito.
Nell'ordinamento statunitense, l'opzione della pubblicizzazione
proprietaria è stata resa possibile dalla latitudine dell'autorizzazione
legislativa a sottoscrivere qualsiasi strumento finanziario cui il segretario,
previa comunicazione al Congresso, ritenga opportuno estendere l'intervento pubblico, ivi compreso, appunto, l'acquisto di azioni di operatori
bancari e di altri intermediari finanziari.
In Europa, il Banking Bill britannico ha affidato al Tesoro il potere di
emanare ordini di trasferimento delle azioni, così configurando l'ipotesi di
una temporary public ownership, sebbene le azioni acquisite dallo Stato
siano privilegiate e non conferiscano, di conseguenza, alcun diritto di voto
in seno agli organi societari.
In tal modo, il Regno Unito ha deliberato di entrare nel capitale delle
otto banche più importanti, con un piano di ricapitalizzazione di 50 miliardi
di sterline, ponendo in essere una vera e propria pubblicizzazione
proprietaria.
Anche in Germania la concessione di finanziamenti pubblici,
attraverso il FSI, ha determinato l'acquisizione da parte dello Stato di azioni
delle banche salvate.
In Italia, il ministero dell'Economia e delle Finanze è stato autorizzato,
al ricorrere di determinati presupposti e anche in deroga alle norme sulla
contabilità di Stato, a sottoscrivere aumenti di capitale deliberati dalle
banche che presentino una situazione di inadeguatezza patrimoniale
accertata dalla Banca d'Italia.
A differenza delle operazioni poste in essere in passato, tuttavia, si è
mantenuta ben ferma la natura privatistico-commerciale e la struttura
societaria delle banche e degli intermediari finanziari: a mutare è stata
soltanto l'identità dell'azionista e, talora, il modo in cui egli esercita i suoi
diritti.
Si è infatti previsto, conformemente a quanto statuito dal Banking Bill
britannico, che le azioni detenute dal ministero sono privilegiate nella
distribuzione dei dividendi e conseguentemente non conferiscono al
medesimo alcun diritto di voto negli organi sociali.
Negli Stati Uniti, poi, il segretario al Tesoro può decidere di estendere
l'intervento pubblico, previa comunicazione al Congresso, a qualsiasi
21
operazione finanziaria, ivi compreso l'acquisto di azioni di operatori
bancari e finanziari.
3.3. Provvedimenti di carattere sistemico: i fondi sovrani
Mentre, dunque, in Germania e nel Regno Unito si è scelta la strada
della nazionalizzazione, le operazioni di ricapitalizzazione negli Stati Uniti
hanno coinvolto anche nuovi azionisti pubblici stranieri, ovvero i fondi
sovrani o sovereign wealth founds.
I fondi sovrani sono veicoli di investimento di proprietà pubblica,
originati dai surplus legati alle materie prime (commodity funds), ovvero
dalle esportazioni di prodotti (non-commodity funds) e destinati ad
investimenti con rendimenti più elevati rispetto alle riserve ufficiali.2
Nonostante sia sorta più di cinquant'anni fa, lo sviluppo di tale forma
di investimento pubblico si è avuto solo nell'ultimo decennio, soprattutto
nei paesi arabi, in Cina e in Giappone.
Sebbene gli Stati Uniti nel 2005 avessero fortemente osteggiato
l'ingresso del fondo sovrano del Dubai nell'economia americana, in
occasione dell'attuale crisi economica globale non sono state registrate
reazioni ostili.
Dal punto di vista economico, infatti, l'operazione risponde
pienamente alle logiche di mercato e al principio di efficienza.
Il riutilizzo del surplus accumulato nei fondi sovrani favorisce la
ripresa dell'economia, senza il rischio di dover rimborsare gli investitori e
di deviazioni dalle strategie di investimento.
Dal punto di vista politico, invece, l'impiego dei fondi sovrani suscita
qualche perplessità in ordine alle possibili implicazioni di una
«nazionalizzazione cross-border»; ciò nonostante gli investitori esteri sono
rimasti nella maggior parte dei casi azionisti di minoranza e, nelle ipotesi in
cui siano divenuti azionisti di maggioranza, non hanno comunque acquisito
diritti di governance.
Sicché, diverse sono state le risposte degli Stati: l'amministrazione
americana, ancora durante la presidenza Bush, ha incentivato gli
investimenti esteri diretti; la Francia ha impedito l'ingresso di stranieri nel
capitale delle banche; in Italia, invece, il problema non si è posto, non
essendosi verificato un coinvolgimento diretto nel fallimento degli istituti
di credito.
Al fine di ridurre i rischi connessi a questa forma di investimento e di
scongiurare soluzioni protezionistiche, il Fondo Monetario Internazionale
2
V. SINISCALCO M., Governi alle porte: Crisi del credito e fondi sovrani, in
«Mercato concorrenza regole», 1, 2008, pp. 75-86.
22
(FMI) ha elaborato una serie di best practices per i fondi sovrani, in
particolare sulla governante, sul risk management e sulla trasparenza.
3.4 Interventi sull’economia reale
La crisi, deflagrata nel settore finanziario, ha finito inevitabilmente
per incidere anche sull'economia reale, sui comparti industriali e sui servizi.
Anche in Europa e negli Stati Uniti sono stati approvati piani di stimolo
dell'economia, con l'obiettivo di incentivare i consumi e dare sostegno diretto
alle aziende operanti nei settori maggiormente esposti alla crisi.
Gli interventi dei governi in favore delle famiglie e dell'industria, piuttosto che concretizzare piani organici di rilancio, si sono configurati prevalentemente come aiuti «a pioggia», riferiti a determinati settori, in particolare quello automobilistico, ovvero mirati a contrastare criticità specifiche,
come la necessità di sollevare le famiglie dal peso delle rate dei mutui.
Con il d.l. n. 185/2008, convertito in l. n. 2/2009, il governo italiano
ha approvato un pacchetto di misure a sostegno di famiglie ed imprese.
Le misure consistono in un bonus famiglia one-off tra 200 e 1.000
euro distribuito in base al reddito; uno sconto sulle tariffe di gas ed energia
elettrica dallo gennaio 2009 per le famiglie economicamente svantaggiate;
il blocco delle tariffe autostradali per il primo semestre del 2009 e lo sconto
del 7% sui farmaci «equivalenti».
In relazione ai mutui «prima casa» il governo ha deciso che per quelli a
tasso variabile, sottoscritti o rinegoziati da persone fisiche fino al 31
ottobre 2008, l'importo della rata non superi, per il 2009, il tetto massimo
del 4% grazie all'accollo da parte dello Stato dell'eventuale eccedenza; i
mutui, sottoscritti a partire dallo gennaio 2009, sono stati invece indicizzati
al tasso di rifinanziamento principale della BCE.
In campo fiscale sono stati adottati provvedimenti prevalentemente
temporanei, tra i quali la riduzione dell'acconto IRPEF e IRES, la proroga
della detassazione di premi, incentivi e salario di produttività e la
contabilizzazione dell'IVA per cassa.
Gli interventi per incentivare la produzione industriale si basano
prevalentemente su politiche di investimenti pubblici, in particolare sulle
infrastrutture, che sono però di lunga e difficile realizzazione.
In Francia, il governo ha annunciato un piano di rilancio per 20
miliardi di euro: l'intervento si concentra, in particolare, su stimoli per far
fronte alle difficoltà del settore automobilistico e per sostenere il settore
delle costruzioni. Si destinano finanziamenti per le infrastrutture, ma anche
per la ricerca e le università.
In Germania, il governo ha previsto lo stanziamento di 23 miliardi per
favorire l'accesso al credito delle piccole e medie imprese combinato con
23
riduzione delle tasse e rilancio delle infrastrutture. Un aiuto che punta
dunque all'aumento della produttività e dell'occupazione, piuttosto che un
sostegno diretto alle famiglie. Il 12 gennaio 2009 la coalizione di governo
ha raggiunto l’accordo su un nuovo piano biennale di stimolo per
l'economia che prevede lo stanziamento di 50 miliardi di euro da investire
in scuole, strade, sgravi fiscali, bonus bebè e incentivi per l'acquisto di auto
meno inquinanti. È stata inoltre approvata una linea di credito di 100
miliardi di euro per le aziende in difficoltà.
Nel Regno Unito è stata adottata una manovra per ridurre l'IVA dal
17, 5 al 15% a partire dallo dicembre fino alla fine del 2009. Dal 2010 è
stato previsto un aumento del 5% della tassazione per tutti i contribuenti
con un reddito annuo superiore alle 150 mila sterline. Per l'industria è stato
deciso un finanziamento a garanzia di crediti a favore del settore
automobilistico.
Nel febbraio 2009 è stato emanato un piano di sostegno alle famiglie e
alle imprese con il quale viene garantito un ausilio alle famiglie a basso
reddito nel pagamento degli interessi ipotecari, e viene attuata una politica
a sostegno dell'occupazione e di abbattimento del debito.
Con riguardo agli incentivi sulla prima casa, si è stabilita la possibilità
di acquistare una parte della proprietà di un immobile in comunione con le
associazioni istituite ad hoc e di pagare un affitto agevolato per la porzione
restante di proprietà, oppure chiedere un prestito ad una cooperativa.
Negli Stati Uniti è stata stabilita una riduzione delle imposte sui redditi per
i meno abbienti.
Il 9 dicembre 2008, date le gravi difficoltà della divisione auto
statunitense, era stato predisposto un piano di salvataggio del settore che
avrebbe previsto l'erogazione di I5 miliardi di dollari di prestiti, a
condizione che le case automobilistiche dimostrassero capacità di ripresa
nel medio termine; in cambio, il governo avrebbe ricevuto una
partecipazione nelle imprese, sotto forma di equity warrant.
La supervisione del salvataggio sarebbe stata affidata ad una
commissione speciale, con il compito di vagliare i piani di ristrutturazione
ed eventualmente decretare il fallimento delle società.
Il 12 dicembre il Senato, però, non ha raggiunto l'intesa sul piano di
salvataggio, bloccandone di fatto l'iter.
Un nuovo piano, presentato dall'amministrazione Obama il 17
febbraio 2009, ha infine evitato il fallimento delle più importanti case
automobilistiche americane.
Nel settore degli appalti, il 12 febbraio 2010 gli Stati Uniti hanno
concluso con il Canada un accordo che consente alle aziende canadesi di
partecipare a progetti di infrastrutture negli Stati Uniti, secondo quanto
previsto dall'American Recovery and Reinvestment Act.
24
3.5. Il nuovo «Stato salvatore»
Tutti gli interventi pubblici posti in essere dagli Stati Uniti e dai
paesi europei si sono caratterizzati per essere finalizzati non già a
sostituire la sfera pubblica al mercato, quanto a ripristinarne il corretto
funzionamento.
L'Emergency Economie Stabilization Act è stato emanato in un
contesto di fallimento della regolazione, derivato dalla mancata osservanza
del principio di trasparenza nella predisposizione delle regole contabili, da
una vigilanza disattenta e da un'eccessiva fiducia riposta nella capacità di
autoregolazione del mercato.
Con tale programma di salvataggio si sono messi a carico del bilancio
pubblico perdite private, si sono statalizzati beni e titoli, si sono
nazionalizzate banche.
Si pensi, poi, all'acquisizione, da parte dei governi, di azioni proprie
degli istituti di credito: nessuna delle manovre emanate correla tale
acquisizione all'attribuzione del diritto di voto in seno agli organi sociali.
In tutti i paesi, inoltre, è stato posto un freno al potere discrezionale
dell'esecutivo: gli Stati Uniti hanno istituito un ufficio ad apposita, elevata
competenza tecnica con vari contrappesi in termini di controlli e di
obblighi di rendicontazione. Nel Regno Unito è stata costituita
un'istituzione trasparente e arm's lenght per gestire i pacchetti azionari ed
assicurare che vengano rispettati i diritti dei contribuenti.
Con la prima crisi economica globale emerge dunque un nuova tipo di
intervento pubblico: lo Stato non si limita alla semplice regolazione del
mercato, ma agisce con interventi diretti ad arginare la crisi della liquidità e
della fiducia nei confronti degli istituti di credito; d'altra parte, non si
spinge fino a dirigere l'economia, ma mette in opera interventi emergenziali
per tutelare la stabilità del sistema economico e del risparmio, senza
diventare di nuovo a pieno «Stato imprenditore».3
Questo nuovo tipo di intervento pubblico nell'economia si colloca a
metà strada tra la figura dello Stato gestore e quella dello Stato regolatore
ed è stato denominato «Stato salvatore».
La figura dello «Stato salvatore» sembra essere rimedio transitorio ed
eccezionale, sebbene i primi commentatori abbiano paventato il rischio di
un ritorno ad un nuovo statalismo 4 5qualora venissero disattese la natura
temporanea del provvedimento e la separatezza della gestione, nell'ambito
3
V. NAPOLITANO G., Il nuovo Stato salvatore: strumenti di intervento e assetti
istituzionali, in “Giornale di diritto amministrativo”, 11, 2008, pp. 1083-1094.
4
V. NAPOLITANO G., op. cit.
5
Cfr., altresì ONADO M., Crisi dei mercati finanziari e intervento statale, in
“Corriere giuridico”, 2008, pp. 1633-1634.
25
del soggetto pubblico, in relazione alle attività destinate al salvataggio dei
soggetti privati.
4. Un difficile dialogo tra Stato e regolatori internazionali
La globalizzazione economica ha posto in luce l'esigenza di creare un
sistema di produzione di regole a livello sovranazionale che informi il
comportamento degli operatori del mercato a principi uniformemente
condivisi, al fine di eliminare così i rischi connessi agli scambi
internazionali.
Le regole sinora emanate, peraltro, non si sono dimostrate ancora
idonee a costituire un utile sistema di riferimento, a causa della debolezza
dei regolatori internazionali.
Questi ultimi, invero, presentano una struttura organizzativa che si
discosta sensibilmente sia da quella generalmente utilizzata nell'ambito
degli Stati nazionali, sia anche dai modelli organizzativi elaborati in ambito
internazionale e che resta conseguentemente priva di concreti riferimenti
normativi.
I maggiori profili di incertezza riguardano i profili di accountability di
tali regolatori sovranazionali rispetto alla loro organizzazione e alla loro
attività, che non viene gestita da organi investiti di legittimazione
democratica, nominati in seguito ad un'elezione, ma dai rappresentanti
nazionali del settore da regolare.
Le regole emanate da tali soggetti si trovano tuttavia sempre più
spesso ad esplicare i propri effetti negli ordinamenti statali, sia
direttamente, talvolta anche senza l'interposizione del legislatore statale; sia
indirettamente, attraverso l'elaborazione di una normativa nazionale ispirata
ai principi elaborati a livello sovranazionale.
Al fine di delineare il nuovo ruolo assunto dagli organismi
internazionali di regolazione nel rapporto con gli Stati è anzitutto
opportuno descrivere brevemente cosa debba intendersi per organismi
internazionali di regolazione e successivamente cercare di ricostruire il
valore delle regole globali.
4.1. Tipologie e caratteristiche degli organismi internazionali di regolazione
Nel panorama dei regolatori internazionali, occorre anzitutto
distinguere almeno tre categorie di diversa natura: le organizzazioni
internazionali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
Internazionale; le reti transnazionali di regolatori finanziari; i soggetti
privati con funzioni di regolazione.
26
La Banca Mondiale e il FMI vennero istituiti in occasione degli
accordi di Bretton Woods, al fine di garantire la stabilità del sistema
finanziario internazionale che era stata pregiudicata dalla crisi economica
del 1929 e dal secondo conflitto mondiale.
Alla prima, costituita dall'International Bank for Reconstruction and
Development (IBRD) e dall'International Development Association (IDA),
per un totale di 186 paesi, venne inizialmente affidato il compito di
sostenere lo sviluppo dei paesi che erano usciti devastati dalla guerra,
mentre attualmente concede prestiti a basso interesse e sovvenzioni ai paesi
in via di sviluppo per operare in una vasta gamma di settori, come
istruzione, sanità e gestione delle risorse naturali.
Il FMI, al quale aderiscono 186 Stati, ha il compito di promuovere la
stabilizzazione delle relazioni monetarie e finanziarie a livello
internazionale.
Entrambe queste organizzazioni, oltre a prestare direttamente ai paesi
membri i mezzi finanziari necessari ad attuare piani di ricostruzione e
sviluppo, emanano standards e codici di good practices che dovrebbero
orientare il comportamento degli operatori del mercato, oltre che degli Stati
membri, al fine di raggiungere convergenti obiettivi di policy.
La seconda categoria di soggetti con funzioni di regolazione
nell'ambito del mercato finanziario mondiale è rappresentata dalle reti transnazionali, quali, ad esempio, la Basel Committee of Banking Supervision
(BCBS), l'International Organization of Securities Commission (IOSCO) e
l'International Organization of Insurance Supervisors (IAIS).
Tali organismi si caratterizzano per essere costituiti, oltre che da
rappresentanti del mercato, anche dai rappresentanti governativi degli Stati
che ne fanno parte: si tratta, quindi, di reti di amministrazioni nazionali che
agiscono a livello sovranazionale al fine di emanare standards e guidelines
destinati agli operatori del mercato.
Completano il panorama degli organismi internazionali di regolazione
alcuni organismi privati, come l'International Accounting Standards Board
(IASB) e l'International Auditing and Assurance Standards Board
(IAASB), alla membership dei quali appartengono i rappresentanti di
imprese che operano nel settore contabile, oltre alle autorità di regolazione
nazionali.
L'attività di produzione di standards e guidelines di tali organismi
privati si caratterizza per l'alta qualità delle regole e per l'ampia
condivisione delle stesse, essendo il frutto dell'elevata expertise tecnica
degli stessi destinatari della regolazione, che partecipano al procedimento
di elaborazione.
Tutti i soggetti menzionati, poi, fanno parte di organismi «ibridi»,
come il Financial Stability Forum (FSF), che ha emanato, nello
svolgimento della sua funzione di coordinamento delle varie regole
27
prodotte in ambito finanziario, un Compendium of Standards contenente i
dodici key standards da rispettare quali codici di buona pratica nell'ambito
del settore finanziario.
Tale organizzazione agisce, dunque, attraverso l'emanazione di
raccomandazioni indirizzate ad una vasta gamma di soggetti, pubblici e
privati, che operano nel mercato, tra cui banche, imprese di assicurazioni,
agenzie di rating, revisori di conti, società di vigilanza, banche centrali ed
organizzazioni internazionali.
Ma quale valore assumono gli standard, le raccomandazioni, le linee
guida? Quali effetti producono all'interno dei singoli Stati?
4.2. Le regole globali
Nell'ottobre 2008 il FSF ha pubblicato un documento denominato
Report of the Financial Stability Forum on Enhancing Market and
Institutional Resilience, con il quale l'organismo ha sottoposto ai ministri
delle Finanze del G20 e ai governatori delle banche centrali una serie di
raccomandazioni per rafforzare il sistema finanziario attuale.
I principi contenuti in tale documento sono ispirati alla creazione di un
sistema finanziario nel quale sia rafforzata la vigilanza prudenziale e dove
la trasparenza consenta una maggiore identificazione e gestione dei rischi.
Le raccomandazioni hanno sollecitato un intervento in cinque settori:
rafforzamento di capitale, liquidità e gestione del rischio nel sistema
finanziario; miglioramento della trasparenza; modifica del ruolo delle
agenzie di rating; rafforzamento delle risposte delle autorità ai rischi;
realizzazione di un piano di azione per affrontare la crisi del sistema
finanziario.
A tal fine, il FSF ha richiesto la cooperazione di altre istituzioni
internazionali che svolgono funzioni di regolazione.
Con riguardo al primo obiettivo, relativo al rafforzamento del capitale,
è stata sollecitata alla BCBS l'emanazione di standard sulla gestione della
liquidità e sull'incremento della vigilanza sulla liquidità su gruppi di banche
straniere. In risposta a tale raccomandazione, la BCBS ha pubblicato i
Principles for Sound Liquidit» Risk Management & Supervision.
Sulla base dei principi contenuti nelle raccomandazioni del FSF,
alcune grandi istituzioni finanziarie hanno incrementato gli obblighi di
trasparenza ed è stata, inoltre, richiesta all'IASB l'approvazione di un
documento nel quale siano evidenziati i relativi rischi in riferimento alle
attività finanziarie.
Quanto al cambiamento del ruolo delle agenzie di rating, la IOSCO,
su sollecitazione del FSF, ha modificato il Code of Conduct Fundamentals
for Credit Rating Agencies.
28
Al fine di rafforzare la risposta delle autorità di vigilanza ai rischi del
mercato, il FSF ha inoltre proposto la creazione di collegi di vigilanza per
ciascuna delle istituzioni finanziarie globali, intensificando così la
cooperazione e lo scambio di informazioni per questioni transfrontaliere.
Infine, per far fronte alla crisi finanziaria, è stata sollecitata l'adozione,
da parte delle banche centrali, di misure straordinarie per la fornitura di
liquidità ai mercati.
Come si è visto, tali misure si sono limitate ad orientare le decisioni
degli Stati, delle imprese e delle istituzioni internazionali verso un
comportamento comune, finalizzato ad arginare gli effetti della crisi
economica; le raccomandazioni del FSF, in assenza di una legittimazione
democratica dell'organizzazione, non hanno, infatti, alcuna forza cogente.
Allo stesso modo, gli standard emanati dalla BCBS, dalla IOSCO e
dalla IASB acquistano valore precettivo solo nel momento in cui i principi
in essi contenuti vengono recepiti nell'ambito di atti normativi, quali, ad
esempio, i regolamenti comunitari.
Viceversa, se ciò non dovesse avvenire, la mancata adesione a tali
regole non determinerebbe alcuna conseguenza giuridica; semmai, la
sanzione per l'autorità nazionale che non seguisse quei principi sarebbe
applicata dal mercato stesso, attraverso la manifestazione della sfiducia
degli investitori.
Gli standard, in definitiva, sono semplici regole di buona condotta che
assumono, di volta in volta, la forma dei principles, molto generali e
flessibili, ovvero delle methodologies o guidelines, più dettagliati e
specifici.
La particolare caratteristica di queste regole, che rientrano nella più
ampia categoria della c.d. soft law, è quella di essere destinate a
convincere, piuttosto che a costringere6 giacché, a differenza di quanto
accade per la legge, l'adesione ad esse ha carattere volontario.
La loro approvazione, inoltre, è il frutto di un procedimento al quale
sono ammessi a partecipare non solo i componenti dell'organismo di
regolazione, ma anche i soggetti che saranno successivamente tenuti ad
applicare le regole stesse.
A loro volta, i membri di tali organismi sono spesso costituiti dalle
autorità nazionali di regolazione del settore finanziario; in tal modo, le
istanze emerse a livello nazionale sono adeguatamente rappresentate sul
piano sovranazionale, così come 1'apporto dei destinatari delle regole
conferisce alle stesse un'elevata qualità tecnica, oltre che la massima
condivisione.
6
BRUNNSON N., JACOBBSON B., A World of Standards, Oxford University Press,
Oxford, 2000.
29
Un sistema di standard richiede, infatti, per essere efficace, una
diffusa adesione da parte dei destinatari, ma anche la predisposizione di un
meccanismo di enforcement che ne consenta di verificare expost 1'effettiva
applicazione e che preveda l'irrogazione di una sanzione nei confronti del
soggetto eventualmente inadempiente.
Sotto quest'ultimo profilo, con specifico riguardo al Report of the
Financial Stability Forum on Enhancing Market and Institutional
Resilience, è stato predisposto un processo ben definito per il follow-up,
con la fissazione di scadenze e di responsabilità correlate al mancato
rispetto delle prime.
Approvando la relazione del FSF, il G7 nell'aprile 2008 ha individuato
una serie di priorità da realizzare entro i primi cento giorni, tali
raccomandazioni sono state tutte affrontate per tempo, sebbene il lavoro
debba ancora essere completato da parte delle autorità sia nazionali che
internazionali, così come da alcuni soggetti privati.
4.3. Il nuovo rapporto tra Stato e organismi internazionali
L'azione degli organismi internazionali non sempre si è rivelata
efficace, proprio in considerazione della natura volontaria delle regole
prodotte.
Ad esempio, per quanto riguarda il libero commercio, nel § 13 della
Dichiarazione del 15 novembre 2008 resa nell'ambito del G20, è stata
sollecitata l'importanza di rejecting protetionism e un forte impegno ad
evitare di erigere nuove barriere agli investimenti o al commercio di beni e
servizi.
Analogamente, il FMI ha invitato i paesi del G20 ad adottare misure
più forti per combattere la corrosiva crisi economica e finanziaria globale,
scoraggiando soluzioni protezionistiche e sostenendo che l'aumento delle
barriere alle importazioni e alle esportazioni comprometterebbe le
prospettive di una ripresa globale.
Nonostante tali statuizioni di principio, gli interventi realizzati dagli
Stati si sono fondati proprio sul principio del protezionismo.
In ogni caso, l'impatto sistemico degli obiettivi fissati dal G20 e dal
FMI dipenderà dall'effettivo esito dei negoziati in corso nel settore
interessato tra gli Stati e gli organismi di regolamentazione.
Sotto il profilo della cooperazione tra Stati, nella valutazione del FMI
le azioni intraprese dai governi non sono state finora sufficienti ad arrestare
l'evoluzione della crisi: «More aggressive and concerted policy actions are
urgently needed to resolve the crisis and establish a durable turnaround in
global activity».
30
Per essere efficaci, le politiche dei singoli Stati devono quindi essere
coordinate a livello internazionale, in modo da limitare le difficoltà
derivanti dalla divergenza delle regole.
La cooperazione internazionale è necessaria, in particolare, al fine di
evitare distorsioni della concorrenza e il fenomeno del c.d. goldplating, che
consiste nella tendenza degli Stati a recepire la disciplina stabilita dagli
organismi sovranazionali di regolazione inserendo disposizioni aggiuntive
e pregiudicandone, dunque, l'armonizzazione.
A tale riguardo, si è rivelato decisivo l'intervento del FSF, che ha
costituito il veicolo di coordinamento di queste azioni.
La membership del FSF, composta da soggetti che: rispecchiano un
variegato equilibrio geografico, ha infatti consentito la circolazione di tutte
le informazioni necessarie ad apprestare idonei interventi anticrisi; anzi, è
stato sollecitato un ampliamento della stessa membership per consentire la
rapida diffusione di tali strumenti di intervento.
Sotto il profilo della cooperazione, quindi, gli organismi internazionali
svolgono un ruolo di mediazione tra i singoli Stati, creando, in particolare,
dei forum di discussione ed agevolando, così, la circolazione delle
informazioni.
Anche in questo caso, tuttavia, il dialogo tra le istituzioni è
semplicemente suggerito, ma non imposto, con la conseguenza che la
valutazione dell'opportunità di cooperare con gli altri ordinamenti per
fronteggiare la crisi economica resta, di fatto, una valutazione affidata ai
singoli Stati.
Nonostante quello appena descritto sia un processo appena iniziato, si
possono già tracciare delle possibili linee evolutive nell'ambito del rapporto
tra Stato e organismi internazionali di regolazione.
Attraverso la partecipazione agli organismi internazionali di
regolazione di singole amministrazioni statali o substatali, o di enti di
autoregolazione nel settore finanziario, la disciplina giuridica di interi
settori di importanza nevralgica per lo sviluppo economico dei singoli paesi
è trasferita dal tradizionale circuito politico-legislativo ad un differente
circuito istituzionale, in cui le amministrazioni svolgono, all'unisono;
funzioni informali di rappresentanza degli interessi dei singoli Stati in sede
trasnazionale, funzioni regolative generali mediante partecipazione alle
decisioni dell'organizzazione, funzioni regolative di dettaglio mediante
l'implementazione degli standard e principi «globali» a livello nazionale,
funzioni amministrative mediante l'applicazione delle regole così prodotte
ai singoli casi riscontrati nella prassi, in materie caratterizzate da
particolare tecnicismo.
Il ruolo del legislatore nazionale sembrerebbe quindi marginalizzato,
mentre può venir in maggior rilievo, alla luce di quanto evidenziato in
31
precedenza, il ruolo del legislatore comunitario, afferente ad un ulteriore
circuito istituzionale.
Si assisterebbe non tanto ad un'erosione, quanto ad una trasformazione
della sovranità dei singoli Stati, in forza della quale le agenzie indipendenti
dei singoli Stati dovrebbero internazionalizzarsi per creare un governo
globale dei mercati finanziari.
Può allora notarsi come, in questo nuovo contesto istituzionale, sia
necessario rimeditare la stessa disciplina dell'attività amministrativa interna
e lo stesso regime di responsabilità degli organi titolari di funzioni
decisorie in ordine alla partecipazione agli organismi internazionali di
regolazione e all'elaborazione e attuazione dei principi globali del mercato
finanziario, garantendo, anche a livello nazionale, la maggior trasparenza
ed accountability dell'operato delle singole amministrazioni (c.d. internal
accountability).
5. Il nuovo rapporto tra potere politico e tecnici
Dall'emergenza economica è derivato un rafforzamento delle
prerogative del potere esecutivo a scapito degli altri poteri dello Stato: tutte
le competenze decisionali, infatti, sono state attribuite direttamente
all'organo politico posto al vertice dell'amministrazione, mentre sono stati
abbandonati gli apporti dei tecnici.
L'Emergency Economie Stabilization Act americano, tra i vari poteri
affidati al segretario del Tesoro, ha previsto quello di nominare i funzionari
e gli impiegati preposti all'attuazione del Troubled Asset Relief Program, di
stipulare contratti e di designare istituzioni finanziarie quali agenti del
governo federale ai fini dello svolgimento dei compiti richiesti dal
Programma. Egli può, inoltre, avvalersi di tutti gli strumenti finanziari utili
ad acquistare, detenere e vendere i titoli e le relative obbligazioni, nonché
emanare regole, raccomandazioni e istruzioni.
La riserva della competenza in favore di organi politici e
amministrativi può essere giustificata dalla circostanza secondo cui
l'esercizio della funzione di salvataggio comporta la perdita di un elevato
ammontare di denaro pubblico, ma potrebbe anche fondarsi sul
comportamento opportunistico degli organi elettivi che cerchino di
massimizzare la propria sfera di influenza.
Altro elemento che porta a rafforzare il potere degli organi politici è
l'ampio margine di discrezionalità che necessariamente deve essere affidata
loro per fronteggiare un contesto, come quello economico-finanziario,
fortemente mutevole ed imprevedibile.
32
Nel testo di legge approvato dal Congresso degli Stati Uniti, tuttavia,
sono stati rigidamente definiti i vincoli procedurali cui è sottoposta
l'attuazione del programma.
Il segretario è tenuto a indicare le linee guida del suo intervento, che
comunque devono essere definite a priori; inoltre, devono essere adottate
regole e procedure volte a prevenire conflitti di interesse e ad assumere
tutte le azioni necessarie a impedire l'ingiusto arricchimento da parte delle
istituzioni finanziarie partecipanti al programma.
È stato previsto, infine, un articolato sistema di controlli, affidati ad
una pluralità di organi diversi, tra cui il Financial Stability Oversight
Board, che deve assicurare la conformità delle iniziative assunte dal
segretario agli obiettivi perseguiti dalla legge, agli interessi economici degli
Stati Uniti e a quelli dei contribuenti; il Congressional Oversight Panel,
organo temporaneo che ha il compito di monitorare l'andamento dei
mercati finanziarie la funzionalità del sistema regolatorio; il Comptroller
General degli Stati Uniti, chiamato a controllare tutte le attività e le
operazioni svolte nell'ambito del programma anche da parte dei soggetti
privati e dei veicoli finanziari in esso coinvolti; lo Special Inspector
General, nominato dal presidente, appositamente istituito per vigilare
sull'attuazione del programma.
Le decisioni assunte del segretario in attuazione della legge sono,
inoltre, sottoposte a sindacato giurisdizionale.
Allo stesso tempo, però, considerando la delicatezza delle scelte da
compiere, l'entità delle risorse pubbliche coinvolte, la profondità degli
effetti redistributivi generati, è parso necessario costruire un'adeguata
infrastruttura giuridico-istituzionale del governo dell'emergenza, che
coinvolge tutti i poteri dello Stato. Il sistema così costruito, nonostante
taluni limiti, è dunque destinato ad accrescere la legittimazione
democratica, la trasparenza e l'accountability dello «Stato salvatore».
6. Le proposte di riforma
Di fronte alla prima grande crisi economica globale gli Stati e gli
organismi internazionali di regolazione hanno emanato misure finalizzate a
perseguire due obiettivi, l'uno di medio e l'altro di lungo periodo: il rilancio
della crescita dell'economia mondiale e la realizzazione di un assetto
economico che impedisca il ripetersi di nuove crisi come questa.
Al riguardo, è opportuno verificare se tali misure siano state adottate
sulla base di strategie condivise o se, viceversa, ciascuno Stato abbia
seguito una propria politica di intervento.
Se è vero che gli effetti della crisi si sono rapidamente manifestati nei
vari paesi per via della globalizzazione, sarebbe infatti stato auspicabile,
33
considerata la vasta estensione del fenomeno, che le reazioni degli Stati
fossero state convergenti.
Una ulteriore problematica riguarda la strategia più idonea a scongiurare il
pericolo di una nuova crisi e se, in particolare, sia necessario adottare
strumenti di politica economica o rafforzare la modalità di produzione delle
regole.
Quanto al rilancio dell'economia mondiale, numerose sono state le
sollecitazioni all'adozione di politiche concertate a livello internazionale e
sovranazionale: 1'11 ottobre 2008 i ministri economici dei paesi del G7
hanno delineato una comune strategia di regole ed interventi.
Sempre nello stesso mese, il FSF ha emanato raccomandazioni con le
quali venivano sollecitati interventi finalizzati a rafforzare la trasparenza e
la vigilanza prudenziale, nonché la realizzazione di un piano di azione per
affrontare la crisi del sistema finanziario; tale piano avrebbe comportato
l'adozione, da parte delle banche centrali, di misure straordinarie per la
fornitura di liquidità ai mercati.
Sulla base di queste indicazioni, i paesi europei e gli Stati Uniti hanno
predisposto piani di risanamento dell'economia apparentemente diversi tra
loro: mentre i primi si sono ispirati ad una logica proprietaria, attraverso le
operazioni di acquisizione diretta delle banche fallite, l'amministrazione
Obama ha adottato una politica garantista, invocando l'ausilio di investitori
privati, anche esteri, pur sottoponendo ciascun intervento al rigido
controllo delle procedure statali.
Tali interventi, d'altra parte, sono stati tutti finalizzati all'immissione
di liquidità nel mercato finanziario, conformemente alle sollecitazioni degli
organismi internazionali.
Ma il merito di aver voluto privilegiare politiche condivise di reazione
alla crisi deve essere attribuito agli stessi Stati e non agli organismi
internazionali che nonostante la loro attiva partecipazione alla risoluzione
della problematica, non potevano che emanare semplici linee guida prive di
forza cogente.
La questione ancora aperta in riferimento al ruolo di tali
organizzazioni riguarda infatti non tanto la sfiducia delle istituzioni
nazionali nei confronti di quelle sovranazionali, quanto piuttosto l'assenza
di adeguata legittimazione di queste ultime e conseguentemente di poteri
incisivi.
Al riguardo, è stata più volte sollecitata una profonda riforma del FMI
e della Banca Mondiale, nonché una maggiore integrazione della vigilanza
finanziaria.
Con il documento Strengthening the Financial System, emanato al
termine del vertice tenutosi a Londra il 2 aprile 2009, i paesi del G20 hanno
deliberato l'istituzione di un nuovo organismo di stabilità finanziaria, il
Financial Stability Board (FSB), del quale facciano parte tutti i paesi del
34
G20, gli attuali membri del FSF, la Spagna e la Commissione europea, e
che erediti le competenze del FSF, al fine di predisporre le azioni
necessarie ad affrontare i rischi finanziari.
Nello stesso documento, si è auspicata una nuova configurazione dei
sistemi di regolamentazione in termini di tutela della trasparenza e,
conseguentemente, degli investitori, attraverso l'emanazione di standard
internazionali seguiti e condivisi; in particolare, è apparsa necessaria
l'estensione della regolamentazione e della vigilanza su tutte le istituzioni,
gli strumenti finanziari e i mercati.
Il rafforzamento delle istituzioni finanziarie globali deve inoltre essere
finalizzato al sostegno dei paesi in via di sviluppo, che hanno sensibilmente
contribuito allo sviluppo dell'economia mondiale recente.
È stata, infine, sollecitata la revisione della struttura organizzativa
delle istituzioni internazionali e, in particolare, la revisione della
governance, nonché l'individuazione di principi finalizzati al sostegno delle
attività economiche.
Se tali riforme incidessero sulla governance e sulla vigilanza, l'azione
degli organismi internazionali apparirebbe più efficace: sotto il primo
profilo, in quanto tali organismi ne trarrebbero la necessaria legittimazione;
sotto il secondo profilo, poiché il controllo sul corretto adempimento delle
regole emanate ne potenzierebbe la forza cogente.
Quanto all'obiettivo di lungo periodo, vale a dire la predisposizione di
strategie che impediscano il ripetersi di nuove crisi finanziarie globali,
l'azione degli Stati si è soprattutto concentrata sulla riforma della
regolazione.
Nel giugno 2009 l'amministrazione Obama ha presentato un piano di
riforma della regolamentazione finanziaria, la Financial Regulatory
Reform. A New Foundation: Rebuilding Financial Supervision and
Regulation, finalizzata ad impedire il ripetersi di tre errori che hanno
agevolato lo scoppio della crisi.
In primo luogo, per evitare di trascurare il rischio sistemico,
concentrandosi sulla stabilità di singole istituzioni finanziarie, il presidente
americano ha proposto l'istituzione di un organismo di coordinamento tra le
varie agenzie di regolamentazione e il conferimento alla Federal Reserve di
un ampio mandato di supervisione e regolamentazione su tutte le istituzioni
finanziarie sufficientemente grandi.
In secondo luogo, al fine di impedire che il fallimento di grandi
istituzioni finanziarie possa influenzare l'andamento dell'intera economia, si
sono attribuiti alle autorità poteri straordinari per difendere la stabilità
sistemica.
Infine, per ridurre i conflitti di interesse associati alle agenzie di
rating, si è stabilito che chi eroga un prestito sia costretto a tenerne in
35
portafoglio una quota e debba osservare più stringenti obblighi di
trasparenza.
Anche il Consiglio dei capi di Stato riuniti a Bruxelles il 18 e 19
giugno 2009 ha approvato il progetto di istituire un nuovo organo, lo
European Systemic Risk Board, con compiti analoghi a quelli del Consiglio
istituito negli Stati Uniti e di emanare raccomandazioni destinate alle
autorità nazionali di supervisione per contenere il rischio sistemico.
In America come in Europa, dunque, si avverte il bisogno
generalizzato di una riforma della regolamentazione.
A differenza di quanto previsto dal Piano Obama, che attribuisce ad
un'unica agenzia il compito di supervisione e di prevenzione del rischio
sistemico, in Europa vi sarebbero però ventisette agenzie con gli stessi
poteri e nessuna autorità con il compito di vigilare sul corretto
adempimento dei compiti loro affidati. Sarebbe, quindi, opportuno istituire
un'autorità europea centrale con le stesse funzioni di quella creata
dall'amministrazione americana.
Concludendo, provando a tracciare un primo e provvisorio bilancio
degli effetti prodotti dalla crisi economica globale, si può affermare che gli
Stati ne escono profondamente trasformati sotto un duplice profilo.
Cambia, da una parte, la modalità di intervento della sfera pubblica
nell'economia: lo Stato non rivendica il potere di governare il mercato e
adotta una politica di emergenza volta a ripristinarne il corretto
funzionamento.
Cambia anche la prospettiva degli Stati nell'adozione di misure a
sostegno dell'economia: non più limitata ai confini nazionali, ma
influenzata dalle linee guida dettate dagli organismi sovranazionali.
Per far fronte alle esigenze di un mercato globalizzato, emerge, infine,
l'esigenza di creare un sistema di regole a livello internazionale emanate da
organismi investiti di adeguata legittimazione.7
7. Post scriptum
Quanto alla situazione venutasi a determinare, specie in Europa, a
seguito dello scoppio violento di operazioni speculative sui mercati, dovute
all’insostenibilità di debiti pubblici oramai imbarazzanti e al corrispondente
crollo di fiducia degli operatori finanziari, gli stati membri dell’Eurozona e,
più in generale della UE, hanno, come noto, concordato, a fine 2011, una
politica di estremo rigore, prevedendo, non dopo pochi contrasti e con il
sostegno deterninante della BCE, una trattato intergovernativo volto ad
7
TORCHIA L., Il controllo pubblico della finanza privata, CEDAM, Padova, 1992.
36
accomunarne le politiche fiscali, ponendo, in prospettiva, le basi perché si
addivenga alla emissione dei c.d eurobond.
Pur senza potersi dilungare oltre sull’argomento, è il caso di rimarcare
che il rapporto tra politici e tecnici, di cui si è sopra detto, pare essersi
decisamente capovolto (si pensi ai casi della Grecia e della stessa Italia) e
che la legittimazione democratica “piena” ha ceduto il passo al principio di
competenza tecnica, per cui da uno “ Stato salvatore” si è rapidamente
passati, almeno in Europa, ad uno “Stato da salvare”dal default (e, con
esso, il sistema creditizio e l’intera economia dei paesi in difficoltà a causa
del pericolo del credit crunch).
Questo dato rappresenta indubbiamente una evidenza difficilmente
controvertibile circa la rapidità ed imprevedibilità della crisi in atto.
Quanto fin qui precisato, sia pure con ampi margini di approssimazione,
può rappresentare una base di partenza valida per aggredire il mondo del
diritto pubblico, nella prospettiva di tracciare un quadro generale, e, per
certi versi, complementare rispetto alla corsa frenetica dell’economia e
della finanza.
Nel capitolo, che segue, dunque, si procederà ad uno scrutinio attento
del concetto di legalità, inevitabilmente oggetto di parabole interpretative
nuove, e, per certi versi non al riparo da incognite, anche in considerazione
dell’innegabile interconnessione economia-diritto, posta ecletticamente alla
base della presente trattazione.
37
38
CAPITOLO 2
AMMINISTRAZIONE PUBBLICA,
PRINCIPICIO DI LEGALITÀ E REGOLE DI DIRITTO
1. Introduzione. - 1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo. - 1.2. I fattori di
cambiamento. - 1.3. Problemi e questioni. - 2. Principio di legalità e poteri impliciti. - 3.
La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale. - 4. La legalità comunitaria. 5. La «rule of law» globale. - 6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola
della legalità. - 7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato. - 8. Legalità e
legittimità: vizi formali e vizi sostanziali. - 9. I pericoli di una «caduta» della legalità
amministrativa.
1. Introduzione
1.1. Legalità e tipicità nel diritto amministrativo
Il principio di legalità è questione da sempre presente nella riflessione
del e sul diritto amministrativo, per la sua stretta connessione con due
caratteri essenziali degli ordinamenti moderni: la divisione dei poteri e la
garanzia delle libertà individuali.
Il principio di legalità è emerso, infatti, originariamente quale
strumento di limitazione della sovranità. Il potere-sovrano non può
considerarsi sciolto dalla legge e, anzi, può svolgere solo i compiti attribuiti
dalla legge e solo per i fini che la legge indica; la prima ed essenziale
limitazione del potere consiste, dunque, nel renderlo tipico e, quindi,
prevedibile ex ante e controllabile ex post.
La tipizzazione del potere investe sia le forme del suo conferimento,
in quanto occorre una norma primaria per attribuire un potere
amministrativo, sia i modi del suo esercizio, in quanto il provvedimento - e
oggi anche il procedimento - non possono essere innominati e non possono
essere liberamente configurati, tanto a struttura quanto ad effetti, dall’amministrazione.
Lo «spazio» amministrativo è, quindi, sempre eterodeterminato, a
differenza di quanto accade per 1’autonomia privata, che non può
travalicare i limiti di legge, ma entro quei limiti dispone di un significativo
margine di autodeterminazione (il negozio e l’illecito si caratterizzano per
l’atipicità, mentre il provvedimento e il procedimento amministrativi sono
tipici e nominati).
Il principio di legalità opera nei confronti dell’amministrazione allo
stesso tempo come limite e come indirizzo. Un potere privo di base
normativa o esercitato oltre i confini posti dalla norma sarà illegittimo e, di
39
converso, ogni esercizio di potere amministrativo potrà essere oggetto di un
controllo volto ad accertarne la conformità alla norma che regola il potere
stesso.
Emerge qui una prima aporia della configurazione del principio di
legalità quale ricostruita e tramandata dalla dottrina meno recente.
La necessità di ricondurre il potere amministrativo - a lungo
considerato parte della sovranità e, come questa, immune da limiti - sotto il
dominio di una regola ordinatrice ha fatto prevalere per un certo periodo
l’impostazione positivistica, secondo la quale la regola ordinatrice deve
essere identificata con la legge e la legge deve essere, a sua volta,
identificata con la legge dello Stato, ad esclusione di altre possibili fonti di
diritto o canoni di azione.
L’amministrazione deve, di conseguenza, obbedire al comando legislativo e il principio di legalità finisce per essere largamente sovrapposto
alla riserva di legge.
Di qui anche la diffusione di una concezione meccanicistica
dell’amministrazione, come mera esecuzione della legge, i cui limiti sono
stati, però, rapidamente individuati dalla dottrina più recente.
La riduzione dell’amministrazione ad esecuzione comportava, infatti,
per un verso la necessità di caricare la legge di un compito immenso ed
impossibile: prevedere e disciplinare tutto ciò che l’amministrazione
potrebbe e dovrebbe fare in ogni possibile circostanza. Si doveva, per altro
verso, ignorare la realtà dell’ordinamento vivente, nel quale il fenomeno
amministrativo è sempre stato ben più ricco e complesso di quanto la sola
analisi del dato normativo consentisse di vedere e riconoscere.
La fissità della ricostruzione in termini meramente positivistici è stata
corretta, così, mediante la riflessione su quelle che il maggior amministrativista del secolo scorso espressamente qualificò come valvole di
sicurezza: la discrezionalità e le ordinanze di necessità e di urgenza.8
In ambedue i casi la norma è necessaria, ma non sufficiente a
governare interamente ed esaurientemente l’attività amministrativa, perché
la tipizzazione di un potere può definirne il fondamento, il fine e, in certa
misura, le modalità di esercizio, ma non può invece predeterminare tutti i
possibili contesti entro i quali quel potere verrà attivato e, quindi, le
interazioni con quei contesti.
Si spiega così anche perché il sindacato giurisdizionale sull’amministrazione abbia riconosciuto obblighi e limiti - si pensi all’obbligo di
motivazione o al dovere di imparzialità - ben prima che di essi fosse data
enunciazione legislativa.
8
GIANNINI M.S., Diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 1970, pp. 81-83, 525-541,
1259-1262.
40
La legalità amministrativa si è, però, andata via via articolando e
complicando sempre di più negli ordinamenti contemporanei, tanto da
rendere il principio di legalità una formula insufficiente a dare conto delle
intricate relazioni fra amministrazione e regole ordinatrici della sua azione,
della sua organizzazione e del suo ruolo.
1.2. I fattori di cambiamento
I fattori di cambiamento sono molteplici e aprono nuovi temi e
problemi di studio e di analisi.
È significativamente mutato, innanzitutto, il ruolo della legge, tanto
sotto il profilo della funzione, quanto sotto il profilo della collocazione.
Sotto il primo profilo, è diventato evidente un processo di
trasformazione della legge da meccanismo di selezione degli interessi
meritevoli e di posizione di regole generali ed astratte in strumento di
riconoscimento di una serie potenzialmente indefinita di diritti ed interessi spesso enunciati direttamente dalle carte costituzionali o, al contrario,
concretamente configurati dalla giurisprudenza - e di posizione di regole
speciali, volte a disciplinare, nel migliore dei casi, microsistemi9. Se la
legge non seleziona un numero limitato di interessi meritevoli, ma
riconosce una pluralità di interessi, potenzialmente fra loro confliggenti l’occupazione e l’ambiente, lo sviluppo industriale e la salute, la
concorrenza e la tutela di produzioni tradizionali, la tutela e la valorizzazione dei beni culturali -, la scelta su quale interesse debba prevalere in
concreto si sposta in capo all’amministrazione, la quale dà sì attuazione alla
legge, ma con un margine di discrezionalità sempre più ampio e sempre più
difficile da controllare mediante il mero richiamo alla legge stessa.
Sotto il secondo profilo, la legge ha ormai da tempo perso il
monopolio di capacità ordinatrice e regolatrice dell’amministrazione e dei
diritti ed interessi coni quali quest’ultima interagisce. Accanto e sopra alla
legge ci sono le norme costituzionali, poste sia con le costituzioni nazionali
sia con le carte costituzionali sovranazionali, come ad esempio la CEDU,
ormai frequentemente richiamata anche dai giudici nazionali.
L’amministrazione deve quindi sì rispettare ed attuare la legge, ma prima
ancora deve rispettare la Costituzione: se la legge è di dubbia
costituzionalità, può essere essa stessa sottoposta al sindacato del giudice
delle leggi.
Alla legalità costituzionale si è poi aggiunta, nel nostro ordinamento,
la legalità comunitaria. Il processo di integrazione europea ha prodotto una
9
Cfr. IRTI N., L'età della decodificazione, Giuffrè, Milano, 1979.
41
soggezione - se pur non automatica, né integrale - degli ordinamenti
nazionali all’ordinamento comunitario, mediante un dialogo fitto fra le
diverse giurisdizioni e un grado sempre più stretto di interpenetrazione tra
fonti nazionali e fonti comunitarie, che ha assunto ormai carattere di
generalità.
Lo stesso fenomeno, sia pure con caratteristiche attenuate e con gradi
diversi di intensità a seconda dei settori, si va verificando nei rapporti fra
diritto nazionale e diritto globale, con una moltiplicazione di sedi di
decisione e di sedi di controllo che influiscono sulla determinazione della
regola alla quale di volta in volta l’amministrazione deve attenersi.
Alla legalità ordinaria si aggiungono, così, la legalità costituzionale, la
legalità comunitaria e la legalità globale, che possono anche entrare, a
volte, in contraddizione o contrasto fra loro e che richiedono
un’amministrazione capace di trarre la regola di diritto applicabile al caso
concreto da una pluralità di fonti e capace altresì di interagire con
amministrazioni e giudici di altri ordinamenti.
Il mutato ruolo della legge, come la sua diversa collocazione
nell’ordinamento, hanno l’effetto di ampliare il ruolo dell’amministrazione
ben oltre l’esecuzione della regola, in quanto la regola va prima di tutto
individuata e ricostruita e poi le va data attuazione tenendo conto del
contesto e delle circostanze di specie. Anche per questo motivo si sono
accentuate le esigenze di garanzia dei privati, che hanno trovato soluzione
con lo sviluppo delle garanzie procedimentali. I diritti di partecipazione, di
accesso, di contraddittorio, di essere uditi, sono ormai parte integrante del
procedimento amministrativo e costituiscono elementi imprescindibili della
legittimità dell’azione e della decisione amministrativa. A fronte di una
dequotazione della legalità intesa in senso tradizionale - cioè quella che può
desumersi dalla mera esistenza di una norma di legge -, si afferma una
legalità di tipo nuovo, che poggia le sue basi nelle garanzie procedimentali
e, quindi, nel dialogo diretto fra diritti ed interessi e amministrazione
pubblica.
Il riferimento al principio di legalità diviene allora insufficiente,
perché la legalità piena ed effettiva dell’amministrazione richiede il rispetto
di tanti e articolati principi e canoni di azione: l’imparzialità, la
ragionevolezza, il contraddittorio, la proporzionalità, la trasparenza. Se si
vogliono considerare questi principi e canoni nel loro complesso, si può
dire che l’amministrazione deve obbedire e dare attuazione a regole di
diritto - la formula esiste anche nell’ordinamento francese (règle de droit) e
nell’ordinamento inglese (rule of law), seppure con valenza diversa piuttosto che al solo principio di legalità.
Di qui l’emersione di nuovi profili problematici, o la nuova
considerazione di temi tradizionali, enunciati brevemente di seguito e poi
esaminati con l’illustrazione di casi concreti, in questo capitolo.
42
1.3. Problemi e questioni
Un primo problema è relativo alla corrispondenza fra ampiezza del
ruolo assunto dall’amministrazione e ampiezza dei poteri ad essa conferiti.
Si può ritenere che, anche ove la norma di legge non lo preveda
espressamente, l’amministrazione disponga di poteri strumentali al compito
assegnatole - ad esempio, poteri di vigilanza e di controllo, o poteri di
regolazione di dettaglio - necessari per il pieno ed effettivo adempimento di
quel compito? La questione dei poteri impliciti si ripropone, così,
nell’ordinamento vigente e ad essa si collega quella del rapporto fra legalità
procedurale e legalità sostanziale: l’articolazione del procedimento
«compensa» la mancata o solo parziale tipizzazione del potere da parte
della norma? La tendenza a qualificare la legalità mediante l’apposizione di
aggettivi emerge anche con riferimento al regime dei vizi amministrativi
che, dopo la novella del 2005 alla legge sul procedimento, è diversamente
configurato a seconda che si tratti, di una violazione alla legalità formale o
alla legalità sostanziale.
Si è visto in precedenza come la legalità dell’amministrazione abbia
ormai natura plurale: può accadere, allora, che vi sia contraddizione, ad
esempio, fra la legalità dell’ordinamento interno e la legalità comunitaria?
E quali gli strumenti per risolvere questo contrasto? E, ancora: la stessa
legalità vale sia per l’attività autoritativa, sia per l’attività consensuale
dell’amministrazione, o occorre distinguere il tipo e la natura delle regole
di diritto applicabili nei due casi ?
Cosa accade, infine, quando è la legge a travestirsi da amministrazione
e decisioni puntuali vengono prese non con provvedimenti, ma con norme
primarie?
2. Principio di legalità e poteri impliciti
L’amministrazione pubblica a volte si avvale di poteri che non
risultano in termini espressi da puntuali disposizioni normative, ma
vengono dedotti in modo implicito dalle norme che ne regolano l’attività. Il
ricorso a poteri impliciti è una pratica ben conosciuta dalla scienza del
diritto amministrativo: essa sembra mettere in crisi il principio di legalità,
ma sul punto non si registra uniformità di vedute.
Più si ritiene che la legge debba integralmente regolare i modi di
estrinsecazione del potere amministrativo, più ricorrere a poteri non
espressamente attribuiti dalle norme diviene un comportamento censurabile
perché chiaramente vietato. Viceversa, se si reputa che sia sufficiente una
base legislativa ampia all’operato dell’amministrazione, tale da consentire
al soggetto pubblico di agire per perseguire nel complesso gli interessi
43
indicati dagli organi legislativi, le manifestazioni implicite del potere sono
allora cautamente permesse.
Occorre subito precisare che la questione dei poteri impliciti rileva
principalmente nelle ipotesi in cui l’azione amministrativa consista
nell’esercizio di un potere, mentre rileva meno nei casi in cui la stessa sia
esercizio di autonomia privata, perché quando l’amministrazione decide di
far ricorso ad un contratto è una sua facoltà, come per qualunque privato,
utilizzare moduli negoziali innominati, non previsti dal codice né tipizzati
in un testo di legge, senza che ciò incida sulla legittimità del suo operato.
Non devono essere confusi, inoltre, i poteri impliciti con gli atti
impliciti, che non sono affatto ostacolati dall’ordinamento. Con quest’ultima espressione, infatti, si intendono quei provvedimenti amministrativi
che producono effetti ulteriori rispetto a quanto indicato nell’atto formale
dell’autorità, di solito per espressa scelta del legislatore. Per fare un
esempio, si pensi al decreto di finanziamento di un’amministrazione
regionale che reca con sé la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera da
realizzare; sebbene il contenuto tipizzato di tale decisione provvedimentale
consista nel mettere a disposizione risorse economiche per la costruzione di
un’opera pubblica, in essa è insita inoltre una misura aggiuntiva, la
dichiarazione di pubblica utilità, che è sottintesa a quanto statuito nell’atto.
Il tema delle competenze non scritte trova riscontri anche in altri
ordinamenti con lievi differenze: in Germania con l’espressione
ungeschriebene Kompetenzen si indicano i poteri previsti dall’ordinamento,
ma non rigorosamente assegnati ad un preciso organo amministrativo.
Negli Stati Uniti con l’espressione implied powers si fa riferimento ai
poteri impliciti in senso proprio, ossia poteri propriamente non previsti da
norme.
Di frequente nell’ordinamento comunitario si è fatto ricorso ad un
modello mobile di titolarità volto ad assegnare competenze amministrative
(ma anche legislative) in senso finalistico, secondo uno schema tipico del
sistema europeo, in ragione del principio dell’effetto utile. Il riferimento
normativo è offerto dall’art. 352 TFUE, in base al quale è autorizzata ogni
azione dell’Unione che risulti necessaria per raggiungere uno fra gli scopi
della stessa nel quadro delle politiche definite dai trattati, previa delibera
all’unanimità del Consiglio.
Dato un sistema in cui le competenze dell’autorità pubblica sono tutte
attribuite, i poteri impliciti si collocano nel mezzo di una tensione tra
l’esigenza della funzione, secondo la quale si tende ad attribuire
all’amministrazione i poteri necessari per perseguire l’interesse assegnato,
e l’esigenza di garanzia, per cui occorre proteggere il cittadino
dall’esercizio di poteri non legislativamente previsti. Se si fa prevalere la
prima sono legittimi tutti i poteri, interventi o mezzi adottati
dall’amministrazione che siano idonei a raggiungere lo scopo fissato dalla
44
legge, mentre, se si fa prevalere la seconda, la regola generale dovrebbe
impedire l’attribuzione di poteri autoritativi che non siano esplicitamente
assegnati.
Tale conflitto tra la funzione amministrativa e la garanzia del cittadino
potrebbe risolversi in una questione di interpretazione, poiché l’operazione
ermeneutica può trasformare da incerto a certo il titolo in forza del quale si
esercita un determinato potere. Può dipendere dalla tecnica ermeneutica, ad
esempio, decidere se l’Autorità per l’energia elettrica e il gas ha il potere di
limitare la concentrazione della capacità produttiva nel mercato
dell’energia elettrica, quando tale potere non è attribuito espressamente, ma
è dedotto dagli obiettivi fissati dalla direttiva CE n. 96/1992 di apertura del
mercato europeo.10 Eppure tale lettura del problema giuridico sottostante
non è in grado di garantire un livello sufficiente di certezza del diritto.
Più utile è allora ragionare sulle condizioni di emersione dei poteri
impliciti che sono rappresentate da un criterio di legittimazione per
obiettivi e non da una espressa disposizione di legge. Legittimazione per
obiettivi, però, all’interno della quale non tutto può trovare spazio:
innanzitutto, i poteri impliciti non possono non accompagnare poteri
espressamente conferiti, pena l’inutilità del loro impiego. È tuttavia
necessario definire il grado di vicinanza rispetto al potere assegnato,
proprio perché il potere implicito per definizione non può essere autonomo
ed autosufficiente.
La connessione è stretta quando le manifestazioni di poteri impliciti
rientrano tra i modi tradizionali di intervento dell’autorità amministrativa.
Si pensi ad alcuni strumenti istruttori: è chiaro che l’ente pubblico dispone
anche di poteri cautelari, di poteri di sospensione, di proroga o di
convalida, quando tali rimedi rientrino per deduzione nel potere
originariamente attribuito. Questi poteri - impliciti rispetto alla legge, ma
non rispetto all’ordinamento giuridico vivente - sono ammessi e oggi anche
codificati dalla 1. n. 15 del 2005, poiché operano con lo stesso meccanismo
della analogia juris: riempiono le lacune presenti nell’ordinamento,
mirando a completare la previsione di legge.
Minore è invece il grado di vicinanza per i poteri concomitanti o
consequenziali alle funzioni espressamente conferite. Ne sono esempi i casi
in cui la legge attribuisce all’amministrazione il solo potere di autorizzare
l’apertura di uno stabilimento industriale, e parallelamente il soggetto
pubblico predispone a tal proposito un sistema di sanzioni amministrative
nell’eventualità in cui si verifichino inadempimenti. Oppure allorquando la
legge permette unicamente di fissare un limite di accettabilità delle
emissioni sonore, mentre l’amministrazione articola una complessa
pianificazione mediante zonizzazioni. Oppure ancora quando la legge
10
TAR Lombardia, n. 1331/2002.
45
assegna ad un’autorità il compito di assicurare nell’erogazione del servizio
del gas la tutela della sicurezza degli impianti, a fronte della quale il
soggetto pubblico predispone un sistema di assicurazione obbligatoria a
livello nazionale per tutti i clienti finali del gas.
Il campo di elezione riguarda in particolare le ipotesi in cui
l’amministrazione, nell’esercizio della funzione, è tenuta a ricorrere a
competenze tecniche o specialistiche - spesso produttive di risultati incerti rispetto alle quali la rapida evoluzione scientifica impedisce di
predeterminare i modi di estrinsecazione del potere. Per questa ragione,
diverse pronunce giurisprudenziali sul tema esaminano in concreto
l’operato di autorità amministrative indipendenti.
Ad esempio, nel momento in cui un’autorità indipendente dispone di
una base di legittimazione legale aperta ad un «autoprogramma», secondo
la quale la stessa deve assicurare «il rispetto dell’ambiente, la sicurezza
degli impianti e la salute degli addetti nell’erogazione dei servizi di
pubblica utilità», il giudice amministrativo ha ritenuto che sia legittima la
delibera con cui l’Autorità per l’energia elettrica e il gas impone una
garanzia assicurativa a tutti gli utenti finali civili per gli infortuni derivanti
dall’uso del gas, affidando la gestione del relativo contratto ad un unico
soggetto individuato tramite gara, 11anche se l’obbligo assicurativo
rappresenta una prestazione patrimoniale imposta, che ha chiaramente
natura autoritativa.
Tale base di legittimazione costituisce «una legge di indirizzo che
poggia su prognosi incerte, rinvii in bianco all’esercizio futuro del potere,
inscritto in clausole generali o concetti indeterminati che spetta all’autorità
concretizzare»12. li programma legislativo aperto, la cui peculiarità è legata
alla materia nella quale si interviene, sembra dunque implicitamente
autorizzare quelle misure amministrative che si reputino necessarie al fine
di garantire la sicurezza a tutela degli utenti e dei consumatori.
Allorquando vi sia una minore incisione dello spazio di libertà
riconosciuto alla sfera giuridica privata, meno stringente sarà l’obbligo di
prescrittività del dettato normativo. Per questa ragione, tale tecnica di
espansione delle competenze si atteggia diversamente a seconda del tipo di
potere che viene esercitato. Distinguendo tra poteri di rule-making e poteri
di decision-making, laddove l’attività consista nell’apposizione di una
regola generale, suscettibile di applicazione ad una pluralità di soggetti,
l’enumerazione normativa delle funzioni è certamente meno dettagliata.
11
12
Cons. St., n. 5827/2005; contro TAR Lombardia, n. 6392/2004
Cons. St., n. 5827/2005
46
Per giunta, la legge si limita a dettare criteri rappresentati da obiettivi
e finalità, per cui il ricorso a poteri impliciti è «quasi fisiologico».13Con le
dovute differenze, tale situazione è raffrontabile a quanto avviene per i
poteri di urgenza, allorquando la legge fissa lo scopo per cui l’azione
amministrativa è prevista, ma non il contenuto che per necessità non può
che essere atipico.
Laddove, invece, la legge si limiti in modo generico ad indicare gli
obiettivi, gli implied powers di carattere provvedimentale richiedono fattori
di legittimazione maggiormente radicati nell’ordinamento. Non sono allora
sufficienti i parametri dell’efficienza e della funzionalità a legittimare
l’esercizio di nuovi poteri, non enumerati dalla norma. È necessaria,
innanzitutto, una copertura legislativa che sia adeguata ad un potere non
programmabile in via anticipata. In secondo luogo, la legittimazione
sembra rinviata «al procedimento e alle garanzie di partecipazione per far
emergere la regola, che dopo l’intervento degli interessati, appaia
tecnicamente la più idonea a regolare la fattispecie».14 Ma su questa tecnica
di legittimazione procedimentale si tornerà più ampiamente nel prossimo
paragrafo.
In sintesi, può dirsi che non sussiste una regola generale che vieta il
ricorso a poteri non specificamente previsti dalla legge. Il confine tra chi
difende la dimensione tradizionale del principio di legalità e chi tenta di
spiegare l’ammissibilità di poteri impliciti più ampi si trova nel diverso
grado di capacità espansiva attribuito alla norma regolatrice del potere. A
parere dei primi, lo spazio consentito è dato dai soli «poteri connotati da
minore incisività per la posizione giuridica dell’amministrato», definiti
«poteri impliciti in senso improprio»15, i quali non siano in grado di mettere
in pericolo gli interessi sostanziali di rilievo costituzionale. Mentre, per i
secondi, occorre muovere dall’ambito materiale, nel senso che il potere
implicito è ammesso nella misura in cui si trovi ad operare in uno spazio
nel quale la legge, in ragione dell’ambito regolato, poggi su prognosi
incerte, che impongono esigenze di funzionalità dell’agire pubblico.
Su un piano più generale è il ricorso ai poteri impliciti una
dimostrazione di come il ruolo che nel sistema democratico assolveva la
legge, quale diretta emanazione del parlamento, allo stato attuale sembra
assolto di più e meglio dal diritto, quale insieme delle disposizioni
normative che a vario titolo indirizzano l’amministrazione. Per questa
ragione, seppur con qualche cautela, come si vedrà più avanti, la disciplina
13
MORBIDELLI G., Il principio di legalità e i c.d. poteri impliciti, in “Diritto
amministrativo”, 4, 2007, pp.703-777.
14
Cons. St., n. 5827/2005
15
V. BASSI N., Principio di legalità e poteri amministrativi impliciti, Giuffrè,
Milano, 2001.
47
dei modi di estrinsecazione del potere andrebbe ricercata nel complesso
dell’ordinamento, tenendo altresì conto dei livelli sovranazionale e globale.
Sembra allora che, in particolari ipotesi, debba riconoscersi il potere di
integrare la base legale del potere secondo le esigenze dell’ordinamento
giuridico materiale, legittimando l’amministrazione ad alcuni interventi che
non trovano espresso fondamento nella legge. Riprendendo quanto scritto
nel famoso parere di Alexander Hamilton del 1791, rispetto agli implied
powers, ricavati in via di interpretazione da una norma che dispone un
titolo di competenza, sembrano essere conformi al sistema i resulting
powers, vale a dire i poteri che derivano «from the whole mass of the
powers of the government o from the nature of the political society».
3. La nozione di legalità sostanziale e la legalità procedurale
I poteri impliciti sopra analizzati suppliscono in sostanza all’assenza
di un potere di azione attribuito espressamente alla pubblica
amministrazione da una specifica disposizione di legge, allorquando
l’autorità sia necessaria per la realizzazione di uno scopo fissato in via
preventiva. Costituiscono insomma un modello di determinazione del
potere teleologico o per obiettivi, che consente un ampio spettro di
condotte, all’interno delle quali, una volta fissato il parametro che deve
essere perseguito, si consente all’amministrazione di individuare i poteri
necessari per raggiungerlo seguendo la regola dell’effetto utile.
È evidente come questo sistema di legittimazione soddisfi la regola
della legalità solo formalmente. Nel senso che, così ragionando, si tende a
collocare il principio di legalità in una logica bilaterale tra legislativo ed
esecutivo, secondo la quale la norma di legge è preposta ad investire di uno
o più poteri l’ente pubblico, fissando in tal modo materia e competenza e,
nei casi più importanti, organizzando l’attività in procedimenti, personale a
ciò assegnato e risorse finanziarie. Laddove però la relazione tra
amministrazione e legge si ferma all’aspetto formale o statico, un pezzo
importante dell’amministrazione rimane fuori, poiché non viene
chiaramente in rilievo il modo di esercizio del potere.
Ne consegue che una lettura solo bilaterale della regola della legalità
non può essere considerata soddisfacente, anche perché è facile constatare
come la disciplina del potere non sia fine a se stessa, ma sia disposta in
funzione della costituzione, modificazione o estinzione del rapporto
giuridico con l’amministrato. Da questa concezione soggettivistica
discende che la legalità rappresenta uno strumento di garanzia dei più
rilevanti diritti e della libertà dell’individuo, in particolare se si considera
che la «libertà amministrativa» è limitata dalla legge soprattutto nei casi di
conflitto con la libertà individuale.
48
Oltrepassata la soglia della legalità formale e tenendo a mente la
necessaria garanzia verso i cittadini, è necessario dunque che questo limite
all’azione amministrativa entri nella regolazione del potere, definendo i
presupposti, le condizioni e le modalità di esercizio dell’attività. In questo
senso, allora, occorrerebbe ragionare nei termini di un principio di legalità
sostanziale, in base al quale la norma è chiamata a definire alcuni limiti
contenutistici al potere, quasi a descrivere lo svolgimento del potere anche
nella prospettiva dei suoi destinatari. Solo così, infatti, si riescono a tutelare
in modo pieno le situazioni giuridiche soggettive coinvolte.
Come affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la legalità
deve prendere forma in una norma di diritto che sia sufficientemente
accessibile, precisa e prevedibile. Non basta che vi sia una base legale del
potere pubblico, occorre anche che l’intervento autoritativo si inserisca in
un quadro stabile e non contraddittorio teso ad assicurare ai privati una
effettiva protezione a fronte degli abusi pubblici sul diritto al rispetto dei
beni privati. Sotto questo profilo, viola ad esempio il principio di legalità
un’acquisizione di terreni alla mano pubblica in assenza del decreto di
espropriazione, benché essa sia legittimata da una disposizione di legge a
carattere transitorio che sembra condonare in via successiva una condotta
contraria alla legge16.
Eppure vi sono ipotesi in cui circostanze oggettive impediscono alla
legge di definire la prevedibilità e la calcolabilità dell'azione dei poteri
pubblici, indicando preventivamente come il provvedimento debba essere
elaborato (come sta a dimostrare anche la fattispecie dei poteri impliciti
sopra analizzata). Sono le esigenze del mercato, infatti, ad imporre la
necessità di adottare leggi d'indirizzo che rinviano in bianco all'esercizio
futuro del potere. Ad esempio, nella direttiva quadro sulle reti e servizi di
comunicazione elettronica si attribuisce, in base all'art. 8, alle autorità
nazionali di regolazione il compito di garantire che non abbiano luogo
distorsioni e restrizioni della concorrenza nel settore delle comunicazioni
elettroniche. All'interno di questi presupposti l'autorità pubblica sembra
legittimata a ricorrere a tutte le misure di regolazione adeguate a
raggiungere questo risultato finale.
I caratteri di prevedibilità e accessibilità non devono riferirsi soltanto
alla norma che attribuisce il potere, poiché l'attività amministrativa è
disciplinata e governata da un complesso di disposizioni fra le quali
rientrano, da un lato, i principi e le clausole generali, dall'altro, il
procedimento come luogo di costruzione dell'attività amministrativa. Se
allora in particolari fattispecie la complessità dell'attività amministrativa
impedisce di regolarne minutamente l'esercizio, non sembra però
giuridicamente corretto lasciare all'amministrazione un tale spazio di
16
CEDU, 29 marzo 2006, Scordino
49
arbitrio. La regola della legalità si adegua alle peculiarità del caso di specie.
Per cui,
nei settori regolati dalle Autorità, in assenza di un sistema completo e preciso di regole
di comportamento con obblighi e divieti fissati dal legislatore, la caduta del valore della
legalità sostanziale deve essere compensata, almeno in parte, con un rafforzamento della
legalità procedurale, sotto forma di garanzie del contraddittorio [Cons. St., n.
2007/2006].
La relazione tra legalità sostanziale e legalità procedurale è dunque in
questi termini:
quanto meno è garantita la prima, per effetto dell'attribuzione alle Autorità indipendenti
di poteri normativi e amministrativi non compiutamente definiti, tanto maggiore è
l'esigenza di potenziare le forme dì coinvolgimento di tutti i soggetti interessati nel
procedimento finalizzato all'assunzione di decisioni che hanno un impatto così rilevante
sull'assetto del mercato e sugli operatori [ibidem].
La forma che questo processo assume è quella di un rafforzamento del
principio del giusto procedimento, in base al quale tutti gli operatori
devono essere posti in grado di partecipare in modo effettivo al
procedimento. Ciò avviene soprattutto attraverso la consultazione
preventiva; mediante la quale si raccoglie il contributo informativo e
valutativo dei destinatari della regolazione amministrativa grazie al
meccanismo di notice and comment. L'operatore economico è così messo
in condizione di conoscere il progetto di atto e può far pervenire le proprie
osservazioni.
Il procedimento diventa uno strumento di garanzia e un luogo di
apporto conoscitivo per l'amministrazione a fronte di scelte che
coinvolgono più interessi pubblici e privati meritevoli di perseguimento,
che sono valorizzati con il principio del contraddittorio, in assenza di un
oro dine gerarchico. In questo quadro, occorrerebbe allora definire in modo
omogeneo per tutte le autorità che svolgono funzioni regolative simili uno
statuto unitario volto a definire - tra le altre cose - gli standard minimi di
garanzia del contraddittorio procedimentale, i quali consentono una forma
di legittimazione al potere esercitato dalle autorità. Legittimazione che
proviene, dal basso e non dall'alto, poiché non è il popolo sovrano che
opera secondo un sistema di rappresentanza a riconoscere l'autorità, ma
sono i privati coinvolti dall'azione amministrativa a farlo.
50
4. La legalità comunitaria
Così come avviene nella Costituzione italiana, il principio di legalità
non è espressamente enunciato in ambito europeo: né il trattato sull'Unione
europea né il trattato sul funzionamento dell'Unione europea - come
modificati dopo il Trattato di Lisbona - ne fanno menzione. Eppure la sua
applicazione è considerata pacifica, dato che all'art. 2 TUE si afferma che
l'Unione si fonda sui principi di democrazia e dello Stato di diritto, che
sono «comuni agli Stati membri». Si tratta di una menzione contenuta
anche nel preambolo del TUE, ma che non è di facile spiegazione. Basti
pensare che la versione inglese di questi testi indica, in luogo
dell'espressione «Stato. di diritto», rule of law, anche se non è pacifica la
fungibilità di questi due concetti.
In questa sede è sufficiente ricordare che con il richiamo allo «Stato di
diritto» si intende la soggezione di ogni atto di esercizio del potere alla
regola della conformità al trattato e ai principi generali del diritto, di cui
fanno parte i diritti fondamentali. La giurisprudenza comunitaria per dare
sostanza alla medesima nozione utilizza l'espressione «comunità di diritto».
Una dimostrazione dell'operatività di questa regola di soggezione si può
riscontrare nella disposizione tesa a sottomettere al controllo
giurisdizionale del Tribunale e della Corte di giustizia l'azione condotta
dalle istituzioni europee, ai sensi dell'art. 263 TFUE. D'altronde, la legalità
e l'azionabilità delle pretese vanno di pari passo in quanto conducono al
medesimo risultato; basti pensare al fatto che l'assenza di un controllo
giurisdizionale ad iniziativa privata nel secondo e nel terzo pilastro
dell'Unione precedentemente all'entrata in vigore del Trattato di Lisbona - a
cui ora proprio mediante tale trattato si è posto rimedio - rappresentava la
ragione per cui in questi settori la regola della legalità era assai meno
incisiva.
A fronte della sicura vigenza del principio di legalità anche
nell'ordinamento comunitario, la prima difficoltà che si riscontra è
comprendere se esso sia pienamente assimilabile alla medesima regola
elaborata nell'esperienza statuale, oppure se si, tratti di un istituto diverso,
tratto dalle esperienze giuridiche degli Stati membri, ma proprio originale e
dotato di valenza autonoma. Per rispondere a questo interrogativo, occorre
verificarne gli elementi essenziali, ossia l'oggetto, i destinatari e la
funzione.
In primo luogo, il contenuto del principio sembra mutare a seconda
del diverso contesto in cui è calato. Nell'ordinamento europeo, i trattati, i
regolamenti e le direttive che sono il parametro dell'obbligo di conformità,
non sono leggi di provenienza parlamentare, espressione del potere
rappresentativo e strumento per mettere in atto la separazione dei poteri. Ne
consegue che la portata democratica del principio di legalità è messa in
51
discussione poiché viene a cadere il dogma positivista della coincidenza tra
diritto e legge, essendo le.istituzioni tenute al rispetto di regole e principi,
di origine e natura diversa, che mirano principalmente a garantire la
ragionevolezza e la coerenza del sistema.
Non è replicabile dunque una dialettica tra parlamento e governo nello
spirito del principio di legalità, che è tipica dell'esperienza statuale, sulla
base della quale si fonda il circuito democratico. Ciò si spiega con il fatto
che, assumendo una prospettiva diversa da quella tradizionale, i poteri non
sono assegnati alle istituzioni in base alla natura del soggetto destinatario
secondo le categorie concettuali nazionali, ma sono ripartiti dal trattato in
modo originale. La legalità prende quindi forma nel necessario rispetto
dell'equilibrio istituzionale, secondo il quale deve essere salvaguardato il
ruolo che a ciascun organo è affidato nel sistema in base all'architettura
istituzionale europea. Nell'ordinamento europeo, infatti, il diritto non ha un
valore di volontà della maggioranza, ma è un potere di apposizione di una
regola legale-razionale.
In secondo luogo, con riferimento ai destinatari lo spazio di intervento
della regola della legalità presenta una doppia valenza. In una dimensione
interna, come accennato, essa si rivolge alle istituzioni europee garantendo
un corretto assetto dei poteri. All'interno dell'ordinamento europeo la
legalità funge da limite all'esercizio dei poteri sia normativi sia
amministrativi delle istituzioni politiche, assicurando che essi siano
conformi alle fonti superiori. In questa prospettiva, i trattati istitutivi e la
normativa derivata, alle quali devono aggiungersi le convenzioni
internazionali a cui l'Unione europea ha dato adesione, rappresentano un
parametro di legittimità degli atti, in quanto rappresentano fonti alle quali
l'attività dei singoli organi deve parametrarsi.
In una dimensione esterna, invece, il diritto comunitario costituisce un
vincolo ulteriore al quale le amministrazioni nazionali (e i legislatori
statali) sono tenute ad adeguarsi. I parametri di riferimento dell'azione
dell'amministrazione nazionale non sono allora solo nazionali, perché
l'amministrazione si deve attenere alle regole europee. Questo obbligo vale
sia per le attività che costituiscono, in via diretta, attuazione o applicazione
di disposizioni comunitarie - come avviene nei procedimenti composti, ai
quali partecipano in modo coordinato tanto autorità europee quanto autorità
nazionali - sia nell'esercizio delle funzioni tipicamente nazionali rispetto
alle quali si impone l'applicazione del diritto europeo. L'enforcement
dell'obbligo è per giunta assicurato dal fatto che è conferita ai privati la
legittimazione ad agire in giudizio per la tutela di diritti attribuiti da norme
comunitarie, tutela che consente di porre sotto controllo giurisdizionale la
condotta delle istituzioni tenute ad intervenire.
Questo tipo di vincolo integra quelli derivanti dai sistemi nazionali e
si sovrappone ad essi. Il pieno rispetto della legalità comunitaria può, di
52
conseguenza, incrinare la regola della legalità nazionale, in ragione
dell'obbligo della pubblica amministrazione di disapplicare la legge non
conforme ad una direttiva inattuata produttiva di effetti diretti17. L'esigenza
di assicurare il rispetto degli obblighi comunitari è così ritenuta preminente
sull'ossequio al principio di legalità previsto a livello nazionale e determina
inevitabilmente una compressione di quest'ultimo18.
L'obbligo di disapplicare la norma interna incompatibile con il diritto
comunitario non si è limitato ad incrinare la legalità, ma ha messo in crisi
anche principi riconducibili ad essa, come ad esempio l'autorità di cosa
giudicata. Anche la norma che sancisce il passaggio in giudicato di una
pronuncia giurisdizionale deve essere disapplicata, qualora ciò sia
necessario per il recupero di un aiuto statale corrisposto in violazione del
diritto comunitario, sempreché tale aiuto sia stato dichiarato incompatibile
con una pronuncia della Commissione divenuta definitiva19. Lo stesso è
accaduto laddove si è affermato che il passaggio in giudicato di una
sentenza non è un ostacolo al riconoscimento della responsabilità dello
Stato per i danni derivanti da una sentenza di ultimo grado che non abbia
applicato il diritto comunitario.20
Tale carattere di preminenza mette in luce come la legalità
comunitaria sia conformata dal principio del primato: in questo senso,
l'amministrazione europea e quelle domestiche sono tenute a concorrere
all'affermazione della primauté du droit nell'ordinamento integrato,
mediante tecniche giuridiche volte a garantire il rispetto di questa legalità
rafforzata. Non solo è, dunque, configurabile un principio di legalità
sovranazionale, ma si tratta di un principio che presenta tratti differenti da
quello nazionale.
L'amministrazione europea e quella nazionale non sono sottoposte
pertanto ad un complesso di leggi bensì alla regola di diritto, nella quale
rientra la normativa europea che a sua volta comprende anche le tradizioni
costituzionali comuni e i diritti fondamentali.
In terzo luogo, è chiaro come la regola della legalità nell'ordinamento
comunitario abbia una funzione diversa rispetto a quella svolta in-ambito
nazionale. Essa serve infatti a garantire l'equilibrio istituzionale tra gli
organi europei, a proteggere gli Stati dalle intrusioni delle strutture
sovranazionali, a definire i limiti esterni dell'azione amministrativa,
rendendo le relative condotte prevedibili.e conoscibili in particolare ai
titolari di diritti garantiti dalla normativa comunitaria. In questo quadro, il
principio di legalità comunitario risponde alle esigenze legate ai
meccanismi di cooperazione internazionale, dato che la coesione
17
CGUE, C-I03/88, Costanzo
CGUE, C-392/04; i-21 Germany
19
CGUE, C-119/05, Lucchini
20
CGUE, C-173/03, Traghetti del Mediterraneo
18
53
amministrativa tra operatori istituzionali passa attraverso il rispetto della
legalità. Essa costituisce allora una tappa fondamentale del processo di
integrazione.
Il principio di legalità comunitaria presenta, in conclusione,
caratteristiche peculiari, poiché consiste “in un insieme di regole e principi;
diversi nella loro specifica finalità e nella loro origine, che convergono tutti
nel garantire che l'ordinamento giuridico comunitario risponda a regole di
certezza e, in definitiva, dì ragionevolezza e dì non arbitrarietà,
nell'adozione e applicazione - sia a livello comunitario sia nazionale - delle
disposizioni del trattato e delle norme derivate”21.
Più che un unico principio di legalità con caratteri di univocità, risulta
esservi un insieme di regole con finalità diverse volte a garantire che
l'ordinamento comunitario risponda a regole di certezza, ragionevolezza e
non arbitrarietà. Il sistema di garanzie è inoltre completato dal principio di
giurisdizionalità, in base al quale il rapporto amministrativo può essere
sempre assoggettato al controllo giurisdizionale.
5. La «rule of law» globale
Come accennato, la regola della legalità non si limita ad un
ancoraggio, alla previsione normativa espressa, ma è legata ad una
molteplicità di fonti, per cui la pubblica amministrazione è sottoposta e
deve conformarsi ai trattati e alle regole del diritto internazionale. Ma non
si tratta di una novità, poiché da sempre tutti i soggetti dell'ordinamento
sono tenuti al rispetto di quelle disposizioni che, entrate nell'ordinamento
nazionale, hanno origine al di fuori dello Stato. A ben vedere, tuttavia, è il
diritto internazionale che si è venuto modificando e ciò ha mutato di
conseguenza anche il rapporto con i pubblici poteri interni.
Diverse sono le tendenze di mutamento in atto nel sistema globale. Se
ne citeranno sinteticamente alcune per dare conto almeno della dimensione
del problema. Innanzitutto, la globalizzazione economica richiede regole
generali, che si scontrano con le peculiarità giuridiche di ciascun paese,
imponendo un contemperamento di interessi tra la comunità internazionale
e gli Stati, che spesso si svolge a livello sovrastatale. I processi di
globalizzazione richiedono una risposta amministrativa particolarmente
21
ADINOLFI A., Il principio di legalità nel diritto comunitario, in AA.VV., Il
principio di legalità nel diritto amministrativo che cambia, Atti del LIII Convegno di
studi di scienza dell'amministrazione, Varenna 20-22 settembre 2007, Giuffrè, Milano,
2008, pp. 87-123.
54
rapida ed efficace e non consentono di ricercare solo nella fonte nazionale
la disciplina del modo di svolgimento dell'autorità.
La seconda mutazione riguarda l'ingresso delle norme internazionali
nel tessuto normativo che circonda l'attività dell'amministrazione. Sempre
più spesso queste norme non sono recepite in atti legislativi interni, ma
entrano automaticamente nell'ordinamento. Si pensi all'apparato di regole,
di origine diversa, che accompagna un trattato o una convenzione: ad
esempio, l'amministrazione dei beni culturali è tenuta a particolari obblighi
di protezione e cura, definiti a livello globale, dei beni nazionali rientranti
nella lista del patrimonio dell'umanità, non sulla scorta di una modifica del
Trattato internazionale Unesco, ma sulla base di una specifica risoluzione
del World Heritage Committee, che non abbisogna di procedure di
recepimento in ambito interno.
La terza modificazione dipende dal contenuto dei precetti di origine
internazionale. Questi, spesso tendono ad intestare diritti ai privati,
abilitando così i cittadini a rivolgersi agli organi sovrastatali per accertare
che uno Stato abbia adempiuto agli obblighi strumentali alla realizzazione
di finalità globali e stabiliti da fonti ultrastatali. In questo modo, le
amministrazioni nazionali sono tenute a rispondere del loro operato di
fronte alla comunità internazionale e l'ordinamento sovranazionale si
rafforza perché attribuisce nuovi diritti e garanzie a tutti gli individui, che
possono farli valere anche nei confronti dello Stato di appartenenza.
La quarta mutazione è relativa al ruolo delle organizzazioni
internazionali. Esse non sono solo i produttori di regole nel sistema, ma
spetta loro anche il compito di garantire il rispetto delle norme che hanno
concorso a produrre. Difatti, “le corti giudiziarie sono presenti anche nello
spazio ultra-statale: più di cento sono le vere e proprie corti; a queste
bisogna aggiungere organismi quasi giudiziari o semi-contenziosi,
variamente denominati, ormai presenti in molti dei circa duemila regimi
regolatori globali. Corti e organi quasi giudiziari, inoltre, operano caso per
caso, con una possibilità, quindi, di fare aggiustamenti, con strategie che
alternano o mescolano attivismo e deferenza, creazione del diritto e selfrestraint, dinamismo e tolleranza, rigidità e mutevolezza. Per questo
motivo, le corti stanno assumendo un ruolo importante nella definizione dei
rapporti tra ordinamenti giuridici”.22
Si tratta di un percorso che presenta significative somiglianze con
quello che ha interessato gli Stati nazionali a cavallo tra il XIX e il XX
secolo.
Le tendenze in atto illustrano come, grazie alla globalizzazione
giuridica, sia cambiato il rapporto dell'amministrazione con l'ordinamento
22
Tratto da CASSESE S., Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato,
Einaudi, Torino, 2009.
55
internazionale. Travalicando i confini statali, la regola della legalità si è
trasformata in rule of law, con la cooperazione di organismi sovrastali che,
nell'esercizio della loro attività, interferiscono in vicende nazionali.
6. Le leggi-provvedimento come infrazione alla regola della legalità
Alla legge spetta conferire e disciplinare l'esercizio di un potere, senza
esercitarlo direttamente. Vi sono, però, casi in cui la norma è essa stessa
strumento di esercizio del potere, in quanto, pur sotto la veste di legge
formale, presenta un contenuto provvedimentale: da qui la denominazione
di legge-provvedimento. I casi possono essere diversi: con legge è possibile
attribuire la personalità giuridica ad un ente ben determinato, pianificare sul
territorio regionale le strutture sanitarie, concedere una pensione o
approvare un bilancio. È chiaro che, in questi casi, la legge non è generale e
astratta, come in linea teorica dovrebbe sempre essere, ma è attuativa e
concreta e i destinatari sono predeterminati o predeterminabili.
Questo uso dello strumento legislativo non è peculiare degli ultimi
decenni, anzi sin dalla sua genesi il parlamento ha legiferato regolamentando nel concreto alcune fattispecie che interessavano soggetti ben
individuati, appropriandosi in questo modo di spazi propri
dell'amministrazione. Il fenomeno è andato però via via assumendo
dimensioni che presentano sempre maggiori criticità, anche a causa dell'uso
crescente delle leggi-provvedimento da parte dei consigli regionali. Per
giunta, nell'ipotesi in cui una legge-provvedimento regionale contravvenga
ad una norma nazionale, si verifica una doppia ipotesi di contrasto
costituzionale: da un lato, per la portata singolare del provvedimento
legislativo, dall'altro, per l'eventuale conflitto rispetto alla normazione dello
Stato.
Se può essere tratteggiata facilmente la figura delle leggiprovvedimento, non è altrettanto facile definire il confine tra legislazione
e amministrazione e indicare con certezza quando si è in presenza
dell'una o dell'altra. Né è agevole riconoscere i caratteri della generalità e
dell'astrattezza, che identificano un atto normativo in senso proprio.
Occorre allora specificare che si hanno leggi-provvedimento quando il
precetto incide su un numero determinato e limitato di destinatari e ha un
contenuto specifico. Allo stesso modo, vi rientrano anche le disposizioni
legislative adottate in sostituzione del confronto procedimentale: si pensi
ad una espropriazione ope legis che non necessita a sua volta di un
procedimento che la preceda, volto a dichiarare la pubblica utilità del
bene.
In questi casi, la veste formale legislativa impone di riconoscere
all'atto il valore e il regime giuridico della legge (anche perché non si
56
ritiene abbiano cittadinanza nel nostro ordinamento le «leggi in senso
formale», ossia quegli atti connotati da elementi estrinseci in senso
normativo, ma privi del valore giuridico di legge).
I profili di criticità che solleva questa fattispecie sono facilmente
evidenziabili. Nel momento in cui una legge in senso formale presenta un
contenuto tipico di un provvedimento amministrativo, si realizzano due
ordini di lesioni alla garanzia a tutela delle situazioni giuridiche soggettive
dei privati destinatari dell'attività così posta in essere. La prima è di
carattere procedimentale, poiché il privato non può prendere parte al farsi
della decisione, come avrebbe potuto fare se fosse stata rispettata la regola
del procedimento. La seconda, invece, sta in una forte attenuazione della
tutela giurisdizionale, in quanto la legge a differenza dell'atto
amministrativo non può essere sindacata entro il termine di decadenza
dinanzi al giudice amministrativo, ma ne può essere solo eccepita
l'illegittimità costituzionale una volta che sia stata incardinata la
controversia in un giudizio principale (senza alcuna garanzia, peraltro, che
la questione di legittimità costituzionale sia effettivamente sollevata dal
giudice della controversia).
È chiaro inoltre che quando si adotta una legge, in luogo di un
provvedimento, ci si appropria di una sfera riservata all'amministrazione: a
rigore, trattandosi di un caso in cui il potere legislativo invade la sfera di un
altro potere dello Stato, si potrebbe configurare un eccesso di potere
legislativo e, dunque, un vizio di legittimità dell'atto normativo, qualora si
desumesse dalla Carta costituzionale tale sfera di riserva.
Ricorrere alle leggi-provvedimento svuota però di contenuto il
principio di legalità, in quanto si inverte il rapporto ordinario, prima
descritto, tra norma e atto. La norma non è più indirizzo e limite dell'atto,
ma si fa essa stessa momento concreto di gestione amministrativa. Sotto
questo profilo, la «legge singolare» non può che presentarsi in contrasto
con uno dei canoni fondamentali dello Stato di diritto.
Nonostante tale profilo critico, la Corte costituzionale ha ritenuto
compatibili con l'ordinamento questi strumenti legislativi, sulla scorta di
due ordini di ragioni. Per un verso, non esiste una esplicita riserva di
amministrazione, sancita nella Carta costituzionale, che attribuisca alle
amministrazioni pubbliche in via esclusiva le competenze gestorie. Per
l'altro, non è possibile reperire nell'ordinamento limiti espliciti a carico del
legislatore rispetto al contenuto dei precetti legislativi, salvo quelli formali
legati all'osservanza del procedimento di formazione delle leggi23. L'attività
legislativa, libera nel fine e nei mezzi, può assumere qualunque statuizione
all'interno dei confini costituzionali.
23
Corte cost., n. 347/1995
57
Contestualmente la Consulta ha fissato però alcuni limiti entro i quali
può ammettersi l'adozione di leggi-provvedimento. Così, tali leggi sono
ammissibili solo nel rispetto del principio di ragionevolezza e non
arbitrarietà, nonché delle prerogative dei giudici in ordine alla decisione
delle cause in corso. Necessitando la legittimità di tali leggi di un controllo
sul contenuto, in considerazione del pericolo di disparità di trattamento
insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio, è consentito
uno scrutinio stretto di costituzionalità essenzialmente sotto i profili della non
arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore. Ed un tale sindacato
deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia la natura provvedimentale dell'atto
legislativo sottoposto a controllo [Corte cost., nn. 267/2008 e 429/2002].
Si pone così rimedio anche al problema della tutela, in quanto ciò che
non può garantire il giudice amministrativo, a causa dello schermo
legislativo, è assicurato dal giudice delle leggi. Rispettando il regime di
controllo dei provvedimenti normativi, la legge-provvedimento può essere
sindacata dal giudice costituzionale, sia pure previa intermediazione del
giudice rimettente. E non sembra esservi una diminuzione dei diritti di
difesa del cittadino perché, pur in presenza di un allungamento dei tempi
processuali, il sindacato di ragionevolezza della legge è anche più incisivo
di quello giurisdizionale sull'eccesso di potere24.
Permangono, tuttavia, alcuni elementi anormali in conseguenza della
sostituzione del provvedimento con la legge. Innanzitutto, occorrerà
un'altra legge per far venir meno la previsione che si è disposta. In secondo
luogo, il mancato rispetto della sequenza procedimentale elimina i diritti di
partecipazione e nega al cittadino la possibilità di condizionare il risultato
amministrativo. In terzo luogo, sotto il profilo delle garanzie, che
l'ordinamento pone a disposizione dei cittadini, risulta privato di effettività
il principio di legalità.
7. La legalità tra diritto pubblico e diritto privato
Secondo la dottrina tradizionale, per il privato tutto è permesso tranne
ciò che è espressamente vietato, mentre per l'amministrazione tutto è
vietato tranne ciò che è espressamente consentito. Eppure, già in base
all'analisi svolta finora, si può in parte dubitare della veridicità di questa
affermazione. Si proverà allora a mettere in evidenza come queste endiadi
non rappresentano più appieno la realtà in cui operano i soggetti pubblici e
privati.
24
Cons. St., n. 1559/2004; TAR Lazio, n. 3356/2008
58
Cominciamo dalla prima ipotesi. Seppur in generale vale la regola
dell'autonomia per cui tutto ciò che non è vietato è permesso, quando un
ente di diritto privato incide unilateralmente su posizioni giuridiche
soggettive del cittadino, limitandole, modificandole o estinguendole, opera
anche per questo il principio di soggezione alla legge. Ciò dipende dal
contenuto del potere esercitato, il quale è tale da imporre un più stringente
obbligo di conformità alla legge, condizionando il regime conseguente.
Parallelamente la natura giuridica, pubblica o privata, del soggetto che
esercita il potere non incide sul relativo regime giuridico che deve essere
applicato.
A prescindere allora dalla veste giuridica del soggetto agente, ne
consegue che un potere che sia esercitato da un ente di diritto privato
richiede un pieno rispetto della regola della legalità, come se quest'ultimo
fosse una pubblica amministrazione. Il caso tipico è quello dell'esercizio
privato delle pubbliche funzioni. Quando la delibera di un consiglio di
amministrazione di una società avente natura privatistica - come il vettore
ferroviario privatizzato - sia idonea per legge a produrre degli effetti
equiparabili alla dichiarazione di pubblica utilità, quest'ultima dovrà essere
preceduta nelle forme adeguate da una ponderazione delle ragioni degli
interessati25. Oppure: svolgendo le società private organismo di attestazione
una funzione pubblicistica di certificazione, che sfocia in un'attestazione
con valore di atto pubblico, l'attività da esse posta in essere è circondata di
garanzie e controlli pubblici, in ragione dei quali l'autorità dei contratti
pubblici dispone di penetranti poteri di vigilanza.26
È evidente, dunque, come la regola dell'autonomia sia temperata dal
fatto che il principio di legalità opera sempre per i poteri, sia pubblici sia
privati, che siano tali da incidere unilateralmente sulle situazioni giuridiche
soggettive: per cui dovrà essere rispettata la sequenza procedimentale e
saranno necessari i controlli pubblicistici. La regola della legalità mantiene
dunque intatta la sua funzione di garanzia rispetto a qualunque attività che
possa-risultare lesiva nei confronti della collettività, in quanto difende il
privato dall'esercizio di un potere che non sia predeterminato da una norma,
giacché non ci può essere un potere posto del tutto al di fuori di una
previsione di legge.
Riprendendo l'affermazione di partenza, veniamo alla seconda parte.
Se in generale per l'amministrazione tutto è vietato tranne le attività
autorizzate dalla legge, tale divieto non opera invece per quegli atti posti in
essere dal soggetto pubblico che si fondano sullo scambio del consenso,
come l'attività contrattuale.
25
26
Cons. St., n. 1617/2004
Cons. St., n. 991/2004
59
La persona giuridica pubblica è dotata di piena capacità d'agire ed è
ampiamente legittimata a contrattare, fatta eccezione ovviamente per i
negozi vietati dalla legge. Ai sensi dell'art. 11 l. proc. amm., inoltre,
l'amministrazione può ricorrere ad accordi, anche sostitutivi del
provvedimento, senza il limite della tassatività, ai quali si applicano i
principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Nella prima
ipotesi si avrà attività privata dell'amministrazione, mentre nella seconda
attività amministrativa di diritto privato.
I contratti possono essere utilizzati per procurarsi le risorse necessarie,
umane e strumentali, al corretto funzionamento della macchina
amministrativa. Ovvero possono essere impiegati per tutelare gli interessi
assegnati alla cura dell'ente pubblico mediante strumenti di diritto privato.
Esempi di questo fenomeno sono numerosi nel servizio sanitario, svolto
mediante strutture private accreditate, nell'istruzione, alla quale cooperano
anche istituti privati, nelle lottizzazioni convenzionate.
Tradizionalmente si afferma che, quando non viene esercitato un
potere autoritativo, ossia quando l'amministrazione opera mediante
strumenti paritari di natura privata, la regola della legalità - nella sua
declinazione di garanzia - non presenta alcuna utilità, poiché non vi è
incisione nelle situazioni giuridiche soggettive dei destinatari. Se si segue
questo orientamento, non vi è alcun limite per l'amministrazione che è
libera di sottoscrivere qualunque negozio, a dispetto di quanto affermato
all'inizio.
Viceversa, discorso diverso deve essere svolto se del principio di
legalità si enfatizza più che la funzione garantista, la funzione di indirizzo,
in base alla quale la legge individua i fini dell'azione amministrativa ed
indica mezzi e strumenti necessari per conseguirli.27 Sotto questa chiave,
ben diverso è il rapporto tra principio di soggezione alla legge e attività
consensuale conclusa dall'amministrazione.
Se si riconosce che la legalità riveste anche un ruolo di indirizzo,
pure in questa modalità di azione pubblica la legge deve offrire una base
idonea che sia capace di orientare l'amministrazione. Non al punto da
negare alla radice l'autonomia privata, che è espressione della personalità
giuridica, ma operando una livellamento, in base al quale si tenga conto
del fatto che i soggetti pubblici sono istituiti in funzione servente rispetto
ai fini che l'ordinamento impone loro di perseguire. Il principio di
funzionalità dell'attività impedisce allora che l'amministrazione eserciti in
modo libero i propri poteri, come i privati esercitano liberamente la
capacità negoziale.
27
Rif. in MARZUOLI C., Principio di legalità e attività di diritto privato della
pubblica amministrazione, Giuffrè, Milano, 1982.
60
La legalità prende la forma di un vincolo di scopo: l'attività negoziale
dell'amministrazione non può esorbitare dal perseguimento dell'interesse
pubblico ad essa assegnato. Nel rispetto del principio di libertà delle forme
proprio del diritto privato, i limiti che derivano dal vincolo teleologico non
comportano preclusioni assolute, espressamente stabilite con riferimento
all'oggetto o ai tipi negoziali.
Essi riguardano, in primo luogo, la modalità di formazione della
volontà contrattuale, che è procedimentalizzata nell'evidenza pubblica. In
secondo luogo, hanno ad oggetto una serie di limitazioni puntuali che si
correlano alle specificità che connotano l'amministrazione. Si pensi al
procedimento a cui è soggetta l'amministrazione qualora intenda addivenire
alla stipula di un contratto di compravendita di cosa futura, imposto al fine
di impedire che la negoziazione con il proprietario di un'area determinata,
volta all'acquisto di un bene da costruire, prenda il posto della
comparazione tra più aspiranti alla realizzazione di un contratto di appalto
pubblico, tutelata da norme imperative.28
Il soddisfacimento delle finalità istituzionali produce dunque l'effetto
di alterare il regime privatistico proprio del contratto. Al giudice è rimesso
il compito di valutare, in concreto, se l'attività consensuale sia preposta al
perseguimento dell'interesse pubblico, pena l'invalidità degli atti così posti
in essere.
Deve aggiungersi, in conclusione, come sia evidente che una graduale
trasformazione dell'attività amministrativa - da autoritativa a consensuale si ripercuote sulle modalità operative del principio di legalità. Il ricorso al
modulo consensuale ne muta la rilevanza da strumento di garanzia a
strumento di indirizzo: laddove il primo costituisce un effettivo limite, il
secondo è più un vincolo a perseguire gli obiettivi prefissati a carico
dell'amministrazione.
8. Legalità e legittimità: vizi formali e vizi sostanziali
Nel linguaggio della scienza politica la legittimità è sinonimo di
titolarità, pertanto un potere esercitato in assenza di una norma che lo
attribuisca si dice «illegittimo», mentre si dice «illegale» il potere
esercitato in modo difforme rispetto alla norma che ne regola l'esercizio.29
Nel linguaggio del diritto amministrativo è in una certa misura il contrario:
se l'illegalità è una categoria residuale che sta ad indicare gli atti adottati in
assenza di una norma che li preveda, con la qualifica di illegittimità si
28
Cons. St., n. 31/2005
BOBBIO N., Legalità, in N. BOBBIO, N. MATTEUCCI (a cura di), Dizionario di
politica, UTET, Torino, 1976, pp. 518-520.
29
61
contraddistinguono tutti gli atti che non siano conformi ai parametri
legislativi che ne predeterminano a vario titolo il contenuto.
L'illegittimità può dipendere da un vizio formale o da un vizio
sostanziale, oppure da entrambi contestualmente. Con la prima categoria si
intendono le infrazioni alle norme sul procedimento o sulla forma degli atti,
con la seconda le violazioni alle disposizioni legislative o ai canoni
ordinatori dell'azione che riguardano il contenuto della scelta pubblica.
La violazione di legge, nella forma della violazione dei modi dalla
legge prescritti per l'esercizio del potere, è chiaramente un vizio che deve
essere sanzionato e che, a questo titolo, conduce all'illegittimità della
decisione amministrativa. Eppure vi sono alcune violazioni di legge che,
ai sensi del quadro normativo vigente, non sono sanzionabili poiché non
sono ritenute tali da portare all'annullamento del provvedimento.
Secondo l'art. 21 octies l. proc. amm., infatti, non sono annullabili i
provvedimenti affetti da vizi attinenti la fase procedimentale, allorquando
essi non siano tali da influire sulla sostanza della decisione assunta
dall'amministrazione.
La norma distingue a questo proposito tra provvedimenti vincolati e
discrezionali. Nella prima ipotesi, il provvedimento non è annullabile per
vizio formale se «sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe
potuto essere diverso da quello in concreto adottato». Nella seconda,
invece; la non annullabilità vale solo per il vizio di mancata comunicazione
di avvio del procedimento (oppure di mancato preavviso di rigetto),
sempreché «l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del
provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto
adottato»30. In entrambe le ipotesi l'accertamento del carattere non
invalidante della violazione è lasciato al giudice.
Anche prima di questa modifica alla legge sul procedimento
amministrativo, intervenuta nel 2005, la giurisprudenza amministrativa
tendeva a limitare i casi di annullamento dei provvedimenti viziati solo
formalmente - specie con riferimento alla comunicazione di avvio allorquando essi avessero carattere vincolato. Una soluzione simile si
riscontra oggi nell'esperienza comunitaria: secondo l'orientamento dei
giudici del Lussemburgo, la violazione dei diritti di partecipazione può
condurre all'annullamento dell'atto finale soltanto quando la partecipazione
degli interessati o la considerazione di alcune informazioni rilevanti
avrebbe potuto condurre il procedimento ad esiti diversi31.
Ai fini del discorso che si sta conducendo, di questa disposizione di
salvezza degli atti interessa la relazione con la regola della legalità, poiché
è chiaro che essa conduce ad una dequotazione dei vizi formali, in quanto
30
31
TAR Puglia, n. 2288/2008
Trib. UE, T-162/06; CGUE, C-302/99, Commissione c. Francia
62
vi sono violazioni di legge che rimangono senza sanzione. In assenza delle
sanzioni, è evidente il pericolo che l'amministrazione agisca senza
preoccuparsi di rispettare tutte le regole procedimentali, in particolare
quando esse sono onerose in termini di risorse umane ed economiche.
Risultano allora esservi parametri legislativi che, conformando pur
sempre l'azione pubblica, non sono ugualmente meritevoli della medesima
protezione. Ne discende che il principio di legalità è sostituito dal principio
di strumentalità delle forme, per cui prevalendo la sostanza sulla forma, la
violazione di una norma procedimentale si traduce in un vizio di legittimità
solo quando abbia compromesso le esigenze che la norma violata mirava a
salvaguardare32.
La scienza giuridica ha cercato per via interpretativa di minimizzare
tale minaccia alla regola della legalità, ridimensionandone gli effetti e
sostenendo la tesi della «invalidità non pronunciata». Si prova a
sintetizzarla in tre punti.
Innanzitutto, i vizi non invalidanti del provvedimento, previsti dall'art.
21 octies, non costituiscono una nuova ipotesi di irregolarità, poiché l'atto
irregolare (non annullabile) è ab origine affetto da un vizio formale minore,
mentre in questa ipotesi la non annullabilità discende da una verifica ex
post del giudice, in base alla quale si accerta che il provvedimento non
poteva essere diverso33. Ne discende che il provvedimento viziato solo
formalmente è comunque illegittimo.
In secondo luogo, l'art. 21 octies è una norma processuale oppure una
norma sostanziale ad effetti processuali, il che non implica differenze sotto
il profilo della disciplina. La norma incide solo sul profilo sanzionatorio,
stabilendo che l'invalidità del provvedimento, viziato nella forma, non è
censurata mediante lo strumento annullatorio. Ciò significa, per un verso,
che detta norma non incide sul binomio legittimità-illegittimità, per l'altro,
che la cogenza delle norme che impongono il rispetto delle procedure
amministrative o relative alla forma non è messa in discussione.
In terzo luogo, tale invalidità formale non rimane integralmente priva
di penalità, perché a sanzionare il mancato rispetto delle regole formali può
intervenire una tutela alternativa di tipo risarcitorio fondata sulla
responsabilità dell'amministrazione. Questa si giustifica con il fatto che,
quando vi sia una invalidità non pronunciata, non è stato chiaramente
adempiuto un obbligo di protezione. Il danno economico patrimoniale
allora dovrà essere risarcito.
Riassumendo: il provvedimento affetto da vizi, che non influiscono
sulla rimozione giurisdizionale, è pur sempre un provvedimento illegittimo
perché posto in violazione di regole imprescindibili. Nonostante tale
32
33
TAR Lazio, n. 3543/2006
Cons. St., n. 4614/2007
63
illegittimità formale, il legislatore ritiene che la sanzione dell'annullamento
sia sproporzionata e dannosa e privilegia la stabilità del provvedimento. Ma
questo apre la strada al rimedio risarcitorio.
Questa tecnica di salvezza delle decisioni assunte è riscontrabile sia,
sul piano comparato, in altri ordinamenti come quello tedesco e quello
francese, sia, sul piano interno, nel diritto privato. Sotto quest'ultimo
profilo, essa presenta diverse similitudini con le violazioni di regole
comportamentali che non determinano l'invalidità del contratto. Anche tali
ipotesi comportano la responsabilità del privato per scorrettezza
comportamentale, a cui segue un risarcimento del danno da interesse
negativo, non essendo stato il contratto inciso al punto tale da meritare la
sanzione dell'annullamento, giacché non ne è stata spostata l'economia
sostanziale.
Nel complesso, risulta un difficile bilanciamento tra il principio di
economia procedurale e la regola della legalità, che passa per la
neutralizzazione degli effetti demolitori dell'infrazione. Il pericolo insito
che così si presenta - comune in parte a tutte le fattispecie esaminate di
«caduta» della legalità - sta nel dilatare oltremisura il potere del giudice sul
piano dell'intensità del sindacato, pur nei limiti dell'onere della prova
imposto dalla legge, delegando in sostanza all'organo giurisdizionale
l'accertamento di ciò che è in grado di determinare l'annullamento.
9. I pericoli di una «caduta» della legalità amministrativa
Dall'analisi svolta emerge, innanzitutto, come la regola della
sottoposizione dell'amministrazione alla legge sembra aver perso il ruolo
centrale che nel sistema democratico era prima chiamata ad assolvere.
L'amministrazione non riceve più i suoi poter in via esclusiva, da un
parlamento eletto a suffragio universale; anzi le norme comunitarie e le
convenzioni internazionali, che si rivolgono anch'esse ai poteri pubblici
nazionali, frequentemente prevalgono sulle leggi interne. Se si guarda al
versante delle fonti del diritto, ciò è direttamente connesso alla crisi dello
strumento della legge, intesa nel senso di manifestazione della preminenza
dell'organo parlamentare.
Sotto questo profilo, quello che era il principio di legittimazione
democratica della pubblica amministrazione assume ora i connotati di
principio di previa determinazione di criteri generali. Non rileva dunque la
provenienza della norma, ma la sua struttura, per cui la regola di
attribuzione e disciplina del potere deve essere generale, predeterminata in
modo astratto, destinata a governare i singoli casi concreti, come preteso
dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. La certezza giuridica sembra aver
preso il posto del principio di democraticità.
64
La prevedibilità del potere costituisce allora la prima garanzia per il
cittadino, che si accompagna a sua volta con i parametri di ragionevolezza,
adeguatezza; eguaglianza e proporzionalità. Difatti, se il principio di
legalità assume il significato di principio di previa determinazione dei
criteri di massima dell'azione amministrativa, all'ente pubblico è impedito
decidere caso per caso e in modo arbitrario.
Tra i criteri che guidano l'operato amministrativo rientrano anche i
principi generali e non solo le previsioni normative espresse, come risulta
dall'analisi dei poteri impliciti. Se si tiene conto della precettività della
Costituzione, dei principi universali, dei trattati internazionali, dei
regolamenti e direttive comunitarie, delle leggi statali e regionali, più che
di legalità sarebbe corretto allora parlare di principio di giuridicità o di
regola di diritto.
È evidente, però, il rischio legato alla sottoposizione dell'amministrazione ad una molteplicità di parametri normativi. Se la singolarità della
legge era in grado di assicurare effettivamente la prevedibilità del potere,
viceversa la pluralità delle norme ne rende incerta l'applicazione. Quando
vi sono tante disposizioni è in parte come se non ve ne fosse nessuna e ciò
può lasciare spazio ad una certa forma di arbitrio, negando in radice la
funzione di garanzia tipica del principio di legalità.
Se la regola della legalità serve a rendere prevedibile e calcolabile
l'attività amministrativa, il fatto che vi sia una pluralità di leggi opera in
senso opposto. Inevitabilmente, tante previsioni normative si limiteranno
più ad indicare ciò che è vietato e meno quello che è consentito, prendendo
così i caratteri che la regola della legalità assume nel diritto privato.
Il pericolo principale insito in questa situazione è l'eccesso di potere
giurisdizionale, dato che al giudice è rimesso il compito finale di indicare,
tra una pluralità di norme, quella che deve essere applicata
dall'amministrazione. Anche per questo motivo il riflesso più evidente del
fenomeno è che la regola della legalità non si connota più secondo il
modello della conformità tra norma e atto, di applicazione quasi
automatica, quanto secondo quello della compatibilità, nel quale rileva la
valutazione del giudice che integra e completa la norma, individuata fra
tante, con l'applicazione di principi giuridici generali, per stabilire l'idoneità
e l'adeguatezza dell'azione amministrativa al raggiungimento del fine
indicato dalla norma.
I rischi minori sono connessi alla preferenza che può essere accordata,
caso per caso, alla regola dell'economia procedurale rispetto alla legalità
sostanziale, come avviene con la dequotazione dei vizi formali, privati
della tutela demolitoria. Oppure alla precedenza che in certi casi può essere
assicurata alla regola della certezza del diritto rispetto al pieno rispetto
della disciplina legislativa, come avviene nella legalità comunitaria.
65
I rischi futuri, invece, sono legati ad una trasformazione dei parametri
di riferimento dell'azione amministrativa, che sono gradualmente integrati
dal soft law, secondo una concezione più aperta del diritto. In questi casi,
non vi è un obbligo di sottoposizione ad una regola predeterminata, ma un
suggerimento di una modalità di comportamento. L'amministrazione è
dunque chiamata a confrontarsi con standards e guidelines: un insieme di
precetti di origine diversa tesi, a vario titolo, ad influire sull'operato
amministrativo, specialmente allorquando è il soggetto pubblico ad
attendere un determinato risultato, come il riconoscimento di un bene
patrimonio mondiale dell'umanità oppure l'attribuzione di un significativo
punteggio nelle classifiche OCSE.
66
CAPITOLO 3
LA SEMPLIFICAZIONE PROCEDIMENTALE NEL CONTESTO
DEL RIFORMISMO AMMINISTRATIVO ITALIANO DEGLI
ULTIMI DECENNI: ALCUNE ESEMPLIFICAZIONI
1. Premessa. - 2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo
amministrativo italiano degli ultimi decenni. - 2.1. La regionalizzazione. - 2.2. La
privatizzazione del lavoro pubblico.- 2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della
disciplina riguardante gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale. - 2.4. Il
destino del principio di separazione tra politica e amministrazione. Il rischio di
deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco ai principi di merit system e tenure. -3.
Semplificazione amministrativa e competitività del Paese. - 4. Cause della complicazione
amministrativa e tecniche di intervento. - 5. Gli interrogativi. - 6. La d.i.a./scia. - 6.1. La
dibattuta questione della natura della d.i.a/scia e delle forme di tutela del terzo. - 6.2. La
d.i.a/scia e le politiche di semplificazione: conclusioni. - 7. Il silenzio-assenso. La
disciplina. - 7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione. - 8. Il silenzio
inadempimento. 8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69. - 8.1.2. La
ristorabilità del danno da ritardo. - 8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il
dibattito svoltosi prima della riforma. - 8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, 1. n.
241/1990: persa un’occasione per la soluzione del problema? 8.1.3. La nuova ipotesi di
responsabilità dirigenziale: i rapporti con la responsabilità dirigenziale prevista dall’art.
21, D.lgs. n. 165 del 2001. - 8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del
procedimento. - 9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1. 241/1990. - l0. Riforma
dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo: è possibile una
sinergia? La delega per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge n.
69 del 2009 e il varo del codice del processo amministrativo.
1. Premessa
La semplificazione amministrativa è da tempo all’ordine del giorno in
gran parte dei Paesi occidentali. Soprattutto negli ultimi decenni si sono
registrate riforme legislative e iniziative volte ad attuarla, per lo più
nell’ambito di più articolati disegni di riforma dell’amministrazione. In
particolare, si sono moltiplicati gli interventi finalizzati ad assicurare una
semplificazione del procedimento amministrativo. All’esame delle tecniche
di semplificazione procedimentale sperimentate in questi ultimi decenni è
diretto il presente capitolo: alla ricognizione dei principali istituti introdotti
dal legislatore con l’intento di semplificare l’attività procedimentalizzata e
alla ricostruzione con metodo diacronico delle discipline che si sono
succedute seguirà, quindi, il tentativo di analizzarne gli effetti anche di tipo
sistematico, evidenziando i risultanti raggiunti ma anche i principali profili
di criticità.
67
2. La semplificazione nel più ampio contesto del riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni.
Ancor prima, giova inquadrare le politiche di semplificazione
procedimentale in un contesto di più ampio respiro, quale è quello della
riforma complessiva dell’amministrazione.
Non vi è dubbio, invero, che la semplificazione amministrativa e, in
specie, quella procedimentale rappresenti un tassello (certo importante) di
più ampie e complesse politiche di riforma amministrativa.
Ebbene, non può non cogliersi l’utilità di una disamina delle politiche
di semplificazione procedimentale in atto condotta tenendo ben chiare le
linee principali lungo le quali si è mosso (e si sta muovendo) il percorso
delle riforme dell’amministrazione.
Almeno due le ragioni che rendono opportuno un inquadramento
sistematico delle politiche di semplificazione procedimentale.
Da un lato, lo snellimento delle procedure amministrative non è,
invero, conseguibile con interventi, tanto più se episodici e parziali, sulla
sola disciplina di questo o quel procedimento, richiedendo, piuttosto, la
definizione di un disegno globale, integrato e coerente che, muovendo dalla
revisione delle strutture amministrative e dei loro collegamenti
organizzativi, passi per una ridefinizione dei compiti ed un’ottimizzazione
delle capacità di lavoro all’interno degli uffici, giungendo per questa via ad
una riduzione dei passaggi e dei tempi necessari per lo svolgimento
dell’agire amministrativo34.
Detto altrimenti, sarebbe sbagliato pensare di poter affidare solo a
siffatta tipologia di tecnica la ripresa dei complicati e lunghi processi di
semplificazione amministrativa e, più in generale, di miglioramento delle
performance dell’amministrazione pubblica.
Volendo anzi anticipare quanto emergerà nel passare in rassegna
taluni istituti valorizzati dal legislatore nel tentativo di perseguire obiettivi
di semplificazione, può dirsi che un’autentica semplificazione può
raggiungersi incidendo sulle cause strutturali delle complicazioni
amministrative, non già con interventi destinati ad incidere sul solo
procedimento, al fine di eliminarne talune fasi o a depotenziare il rilievo da
riconoscere all’inosservanza di talune sue regole35.
Su altro e speculare versante, il nesso tra semplificazione procedimentale e disegno complessivo di modernizzazione dell’amministrazione
34
PATRONI GRIFFI, La semplificazione amministrativa, 2008, in “www.giustiziaamministrativa.it”
35
Sul punto, le riflessioni di AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le
recenti modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.Tar”, 2005, 2635 ss.
68
risulta, con una certa evidenza, se si considera il rischio che la
semplificazione del procedimento amministrativo e taluni istituti attraverso
il cui potenziamento si è inteso realizzarla (silenzio-assenso e d.i.a.) rechi
con sé una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e dei
suoi agenti, e, per l’effetto, un abbattimento della capacità degli apparati
pubblici di assolvere adeguatamente i propri compiti. Occorre, allora, avere
chiari gli obiettivi che si intende perseguire nel condurre le politiche
complessive di riforma dell’amministrazione e quelle, più particolari, di
semplificazione procedimentale.
Al riguardo, il legislatore dei primi anni ’90, per vero sviluppando
indicazioni contenute nel famoso Rapporto Giannini del 1979, ha colto
nella coppia efficienza-efficacia i parametri destinati ad ispirare ed
orientare la riforma del sistema amministrativo italiano; tanto in omaggio
ad una auspicata aziendalizzazione dell’amministrazione pubblica, frutto
peraltro di un retro terra culturale fondato sulla giusta considerazione delle
lentezze, arretratezze e disfunzioni dell’apparato pubblico.
Ciò che, però, non può trascurarsi è il rischio che, nel tentativo
spasmodico di aziendalizzare l’amministrazione pubblica, assimilandola
all’impresa privata, si perseguano obiettivi di efficienza ed efficacia a
discapito di altri valori fondamentali, in specie quelli di imparzialità,
legalità e responsabilità, nella mancata consapevolezza che la logica
pubblica non può coincidere del tutto con quella imprenditoriale.
Si tratta di un assunto che merita un qualche approfondimento.
L’introduzione di criteri di razionalità economica nell’organizzazione e nel
funzionamento dell’amministrazione pubblica non può e non deve finire
per mettere in ombra il principale obiettivo della stessa e dei suoi
funzionari, quale è quello della difesa e cura, imparziale e responsabile,
degli interessi pubblici generali.
Un’osservazione pare, al riguardo, quasi scontata.
La modernizzazione dell’apparato pubblico e il recupero, nella sua
organizzazione e nella sua attività, di efficienza ed efficacia (oltre che,
indirettamente, di credibilità) deve passare per una valorizzazione del
ruolo, un innalzamento delle capacità gestorie ed un rafforzamento del
sistema di responsabilità dei “vertici aziendali”, di chi cioè ha la
responsabilità di assicurare l’attuazione dei processi di riforma
amministrativa.
Non pochi pericoli prospetta, per contro, un processo riformatore che:
- sul piano organizzativo, precarizza la dirigenza pubblica rendendola
sempre meno idonea ad assicurare, in quanto defraudata della necessaria
indipendenza statutaria, un’imparzialità di azione ed una adeguata capacità
di comparare e valutare, nel definire la vicenda amministrativa, tutti gli
interessi coinvolti, e spesso in contesa;
69
- e che dall’altro, intervenendo sul piano funzionale, persegue l’obiettivo
dello snellimento procedimentale incidendo su talune fasi della
ponderazione degli interessi in gioco per eliderne talune, in specie
rendendo facoltativa la chiusura dell’iter procedimentale con un
provvedimento espresso che motivatamente dia conto delle ragioni sottese
alla scelta amministrativa.
È un timore che è consentito nutrire alla stregua di una lettura
sistemica delle linee di tendenza che hanno mosso il riformismo
amministrativo negli ultimi decenni?
A che punto è allora la riforma dell’amministrazione italiana? Quali le
linee di tendenza e i risultati raggiunti?
Non si tratta di domande cui è agevole rispondere tanto più che non è
affatto certo che si possa enucleare talune indiscutibili e condivise linee di
tendenza.
Al di là del comune denominatore rappresentato dai dichiarati scopi
efficientistici, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni si
è caratterizzato non solo per cambi di intensità nella marcia, con
accelerazioni e brusche battute di arresto, ma anche per fragorosi cambi di
rotta, con un succedersi frenetico di riforme e contro-riforme, l’una
contrapposta all’altra.
La stessa instabilità degli indirizzi politici, conseguente all’alternanza
al governo di maggioranze di segno opposto, non ha mancato di sortire
effetti sulle sorti della politica di riforma amministrativa, non sempre
atteggiatasi come politica bipartisan36.
Volendo provare, ciò nonostante, a tracciare alcune tendenziali
direttrici lungo le quali si è mosso, ancorché con oscillazioni e
36
Constatazione che non può non suscitare forti preoccupazioni essendo quello della
riforma dell'amministrazione un processo nella cui attuazione sono quanto mai
indispensabili coerenza e perseveranza di indirizzi politici, da realizzarsi prescindendo
da eventuali mutamenti degli equilibri politici e parlamentari. Si impone, cioè, per usare
una terminologia talvolta abusata, un sostegno bipartisan. Esigenza, quest'ultima, di cui
si comprende appieno l'importanza in specie con riferimento alle politiche di
semplificazione. Elevato si prospetta il rischio che le amministrazioni siano fagocitate
dai propri interessi di settore, e che da ciò derivino ostacoli all'emersione ed alla
concreta realizzazione di iniziative di semplificazione. Invero, la semplificazione e la
qualità della regolazione costituiscono un "interesse pubblico autonomo" che tuttavia,
non sostenuto da una continua e coerente volontà politica, appare inevitabilmente
perdente di fronte agli interessi di settore, dotati di maggiore capacità di autoconservazione, oltre che di più elevata attitudine ad affermarsi sul piano istituzionale ed
amministrativo. PATRONI GRIFFI, La semplificazione amministrativa, cit. Per usare il
linguaggio di M.S. Giannini, è questa una delle "invarianti" naturali che si frappongono
al processo di semplificazione, da impostare conseguentemente sulla base di una
strategia di lungo periodo. Sul tema MELIS, La storia del diritto amministrativo, in
Trattato di diritto amministrativo, a cura di CASSESE, Diritto amministrativo generale,
I, Milano, 2000, 89 ss.
70
contraddizioni, il riformismo amministrativo italiano degli ultimi decenni è
consentito svolgere, in estrema sintesi, le seguenti osservazioni.
2.1. La regionalizzazione
Su un primo versante, va segnalata la tendenza, per vero registratasi
anche in ambito europeo37, a spostare verso il basso e verso la periferia
funzioni e compiti amministrativi, con allentamento dei vincoli gerarchici
che connotavano storicamente il nesso tra plessi centrali
dell’amministrazione e le periferie e con conseguente valorizzazione della
rete delle istituzioni periferiche, in attuazione del principio di sussidiarietà.
Ne è emerso un rinnovato assetto istituzionale fondato su un modello di
tipo reti colare, in contrapposizione alla tradizione amministrativa di
stampo ottocentesco connotata dalla valorizzazione di schemi verticistici,
gerarchici e piramidali.
Scontato, al riguardo, segnalare 1’incerta e contrastata realizzazione
della riforma del Titolo V (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3),
svoltasi tra le forti resistenze di tipo centralistico (in specie per quel che
attiene alla riduzione degli apparati centrali e al trasferimento del
personale), e sempre più radicali proposte di modifica costituzionale volte a
riconoscere alle Regioni ancor più estese potestà esclusive.
Certo è, comunque, che lo spostamento di competenze e materie tra il
centro e la periferia ha imposto l’individuazione di nuove forme
organizzative oltre che di nuovi poteri idonei ad assicurare
l’armonizzazione e la messa in rete dei soggetti presenti nel reticolo
istituzionale ormai diffuso sul territorio38.
37
Per una disamina dei tratti comuni che hanno connotato l'evoluzione dei sistemi
amministrativi europei, D'ALESSIO, Convergenze e divergenze dei sistemi
amministrativi europei, in Istituzioni, politica e amministrazione. Otto paesi a
confronto, a cura di DI BENEDETTO, Torino, Giappichelli, 2005, 176 ss.
38
In tema CAMMELLI, Le autonomie tra sistemi locali e reti: profili istituzionali, in
L'innovazione tra centro e periferia. Il caso di Bologna, Il Mulino, Bologna, 2004, 15,
secondo cui “oggi il governo locale è avvolto in una fitta rete di regolazioni, procedure,
vincoli e compatibilità che condizionano profondamente l'esercizio dei propri poteri.
Questi ultimi restano, naturalmente, ed anzi si sono largamente accresciuti nel tempo...
Ma la selezione e soddisfazione della propria "domanda" passa, almeno per le decisioni
rilevanti, sempre meno per i moduli dell'autodeterminazione e sempre più per quelli
della cooperazione con altri soggetti, pubblici e privati. L'intuizione dei patti territoriali,
e delle altre forme negoziali promosse dal centro, muovono appunto da questi elementi
territoriali, e delle altre forme negoziali promosse dal centro, muovono appunto da
questi elementi".
71
2.2. La privatizzazione del lavoro pubblico
Un secondo fondamentale settore di intervento del riformismo
amministrativo italiano degli ultimi decenni è stato quello della
regolamentazione del lavoro pubblico, con la contrattualizzazione del
rapporto di impiego alle dipendenze dell’amministrazione pubblica.
Come è stato osservato, peraltro, anche tale importante segmento del
processo riformatore non è stato immune da criticità e debolezze: “Su
alcuni istituti di decisiva importanza per l’efficienza organizzativa la
contrattazione non è intervenuta o è intervenuta con eccessiva timidezza,
come nel caso degli inquadramenti e della progressione in carriera”; tanto
ha comportato che “l’area disciplinata da disposizioni normative è ancora
estesa’’39.
Soprattutto, una contrastata e preoccupante evoluzione ha connotato la
strategica regolamentazione del rapporto che lega i dirigenti all’amministrazione: evoluzione su cui è opportuno soffermarsi per tracciarne i
passaggi decisivi, ma anche per evidenziarne le sicure criticità40.
Il tema merita un approfondimento se si considera che la definizione
dello status dei dirigenti è con ogni evidenza destinata a condizionare i
rapporti tra politica e amministrazione, la cui netta separazione aveva
rappresentato il manifesto ideologico, se non la vera e propria bussola del
riformismo amministrativo dei primi anni Novanta41.
2.3. Le riforme della dirigenza: l’evoluzione della disciplina riguardante
gli incarichi, la valutazione e la responsabilità dirigenziale
39
SAVINO, Le riforme amministrative, in Trattato di diritto amministrativo, a cura di
Cassese, Diritto amministrativo generale, I, II ed., Milano, 2234.
40
Si veda, CARINCI, Giurisprudenza costituzionale e c.d. privatizzazione del
pubblico impiego, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2006, 3-4.
41
Tra i primi fautori della scissione netta tra funzione di indirizzo politico e funzione
di esecuzione amministrativa, SPAVENTA, La politica della Destra, Bari, 1910, 25;
MINGHETTI, I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione,
Bologna 1881, 102; WILSON, The study of administration, in Political science quarterly,
1887, 2, 209 ss.; PETERS, La pubblica amministrazione. Un'analisi comparata, Bologna,
1991, 18.
72
Come è noto, la dirigenza pubblica42 è stata oggetto di profonde
riforme a partire dalla generale privatizzazione dell’impiego pubblico
attuata col D.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 che, in attuazione di quanto
stabilito dalla legge delega43, l’aveva suddivisa in due “fasce”, con
limitazione della contrattualizzazione del rapporto d’impiego ai soli
dirigenti sottordinati e conservazione, invece, del rapporto di tipo
pubblicistico per i dirigenti generali (ossia, per quelli dei livelli apicali).
Distinzione che, seppure oggetto di critiche in dottrina44, era stata
ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale che ha valorizzato il ruolo di
“cerniera” svolto dai dirigenti apicali tra livello politico e livello
amministrativo45.
Successivamente, il legislatore ha abbandonato l’originaria opzione
tornando, con la legge 15 marzo 1997, n. 59 (c.d. “legge Bassanini’’) e il
conseguente decreto attuativo (D.lgs. 31 marzo 1998, n. 80), al regime
unitario; è stata difatti estesa anche ai dirigenti generali l’applicabilità della
generale disciplina civilistica con una scelta che apprezzata da taluni - in
quanto volta ad evitare pericolose fratture all’interno della dirigenza
pubblica e a portare a compimento l’avviato processo di privatizzazione del
pubblico impiego46 - è stata invece fortemente contestata da chi ha
intravisto nella collocazione dei dirigenti, anche generali, nell’area
privatistica, con conseguente soggezione alla contrattazione di diritto
comune, alla giurisdizione ordinaria e al connesso regime di recesso dal
rapporto di lavoro, altrettanti pericoli per l’indipendenza di giudizio e per
l’imparziale esercizio delle funzioni pubbliche loro conferite. In ogni caso,
42
Fra i principali studi monografici sulla dirigenza pubblica si segnalano: DURVAL,
La riforma della pubblica amministrazione ed il sistema di valutazione dei dirigenti, in
“Lav. e prev. oggi”, 2009, 3, 321 ss.; LANOTTE, Lavoro e P A. - La dirigenza pubblica,
in “Dir. prato lav.”, 2003, 10, 682 ss.; CUCCURU, Il ruolo della dirigenza alla luce del
principio di separazione fra politica e amministrazione, in “Foro amm. TAR”, 2003, 4,
1409 ss.; CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della
dirigenza, in Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 2003, n. 2, 231 ss.; ASTONE,
Prime note sul riordino della dirigenza statale, in Funz. pubbl., 2002, 1, 31 ss.; MEOLI,
Il nuovo ruolo della dirigenza, in “Foro amm.”, 1997, II, 2197 ss.; BATTINI, Il personale
e la dirigenza, in “Gior. dir. amm.”, 1997, 425 ss.; PROIETTI, La dirigenza, in “Quad.
dir. lav. rel. ind.”, 1995, n. 16, 72 ss.; CAPOBIANCHI, D'ALESSIO, GIRARDI, PREZIOSI,
ZELEFILIPPO, La riforma della dirigenza pubblica, in “Nuova rassegna”, 1994, n. 13-14,
1665 ss.; ALBANESE-TORRICELLI, La dirigenza pubblica, in “Giorn. dir. lav. rel. ind.”,
1993, 521 ss.; D'ALBERTI (a cura di), La dirigenza pubblica, Bologna, 1990; D'ORTA,
MEOLI, La riforma della dirigenza pubblica, Padova, 1994.
43
Legge 23 ottobre 1992, n. 421.
44
D'ORTA, La riforma della dirigenza pubblica tre anni dopo: alcuni nodi irrisolti,
in “Lav. dir.”, 1996, 2, 283 55.; PORIETTI, op. cit.
45
Corte. cost., 25 luglio 1996, n. 313, in Mass. giur. lav., 1996, 698 55.
46
FERLUGA, La dirigenza pubblica verso la ''privatizzazione'': gli ultimi (e forse
definitivi) interventi legislativi, in “Giust. civ.”, 1999, 1, 24 ss.
73
a questa trasformazione del regime giuridico della dirigenza, così sottratta
al tradizionale modello burocratico, ha corrisposto l’introduzione di nuove
forme di valutazione dell’operato dei dirigenti, in specie consistenti nella
verifica dei risultati conseguiti e degli obiettivi raggiunti. Conseguentemente, è stato delineato il nuovo modello della responsabilità dirigenziale, concepita come una responsabilità tipica e specifica del ruolo
dirigenziale, ulteriore e aggiuntiva rispetto ad altre forme di responsabilità
(civile, contabile, disciplinare ecc.), sganciata dall’illegittimità degli atti e
dei comportamenti posti in essere e invece strettamente connessa alla
validità ed all’efficienza dell’attività gestionale svolta47.
Più in generale, tra le maggiori novità introdotte dal D.lgs. 31 marzo
1998, n. 80, meritano di essere attentamente segnalate la previsione
generale del limite temporale massimo di sette anni per tutti gli incarichi
dirigenziali e la possibilità di revoca, da parte del governo che entra in
carica, dei cosiddetti incarichi di vertice (segretario generale di ministeri,
incarichi di direzione di strutture articolate in uffici dirigenziali generali);
facoltà esercitabile nei primi novanta giorni dall’insediamento del nuovo
governo che ha ottenuto la fiducia dal Parlamento (art. 13).
L’art. 13 del D.lgs. n. 80/1998, che sostituisce l’art. 19 del D.lgs. n.
29/1993, reca quindi significative innovazioni al regime degli incarichi dei
dirigenti.
Vengono, infatti, introdotti due principi mediante i quali si accentua il
carattere fiduciario dell’affidamento di tali incarichi: quello della durata
limitata nel tempo e quello - anche se limitato ai soli incarichi di “vertice” della revocabilità degli stessi da parte del nuovo governo che subentra al
precedente.
Su questo quadro complessivo è intervenuta la profonda riforma della
dirigenza pubblica recata dalla legge 15 luglio 2002, n. 145 (c.d. “legge
Frattini”), in cui, da più parti, si è intravisto il tentativo di attuare una
parziale (ma vistosa) inversione di rotta rispetto al percorso fino a quel
momento seguito dal legislatore, con sottrazione di ampi settori del
rapporto di impiego dei dirigenti al modello contrattuale e conseguente
ripubblicizzazione del loro status.48
Tre i principali aspetti del previgente impianto normativo su cui la
legge n. 145 del 2002 interviene in senso profondamente innovativo:
47
D'ORTA, Verifica dei risultati. Responsabilità dirigenziali, in II lavoro alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche, Commentario diretto da F. Cariaci,
Milano, 1995, 490 ss.; NOVIEILO, TENORE, La responsabilità e il procedimento
disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, Milano, Giuffrè, 2002, 62 ss., 136.
48
Cfr., CARINCI, Sisifo riformatore: la dirigenza, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 959 ss.;
CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.: dall'illuminismo del progetto alla
contaminazione della prassi, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 991 ss.
74
- le modalità di determinazione dell’oggetto, degli obiettivi e della durata
dell’incarico (art. 3, co. 1, lett. b);
- l’introduzione, tra i parametri di valutazione della responsabilità dirigenziale, dell’osservanza delle direttive da parte del dirigente (art. 3, co. 2,
lett a);
- l’abolizione del ruolo unico e, quindi, del cosiddetto mercato delle
competenze interno alle amministrazioni (art. 3, co. 4).
In disparte la riscrittura dell’art. 15, D.lgs. n. 165 del 2001, con
conseguente cancellazione del ruolo unico dirigenziale (che aveva rappresentato una delle principali innovazioni dell’impianto previgente,
sempre osteggiata dalle burocrazie presso i Ministeri)49 e conseguente
ripristino dei singoli ruoli ministeriali, assume un rilievo centrale la nuova
disciplina del conferimento degli incarichi dirigenziali di cui all’art. 19 del
medesimo testo unico che, nella versione tuttora in vigore, stabilisce che i
predetti incarichi siano conferiti con un “provvedimento”, al quale “accede
un contratto individuale”.
Ebbene, se il contenuto del contratto è limitato alla disciplina del
trattamento economico del dirigente, nel provvedimento di conferimento ovvero in separato provvedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri
o del Ministro competente - sono individuati “l’oggetto dell’incarico e gli
obiettivi da conseguire, con riferimento alle priorità, ai piani e ai
programmi definiti dall’organo di vertice nei propri atti di indirizzo e alle
eventuali modifiche degli stessi che intervengano nel corso del rapporto,
nonché la durata dell’incarico” (originariamente inseriti, invece, nel
contratto di impiego).
Quanto alla durata degli incarichi, peraltro, giova osservare che già
nella disciplina del 1998 la precarizzazione del rapporto di ufficio era stata
connessa al meccanismo secondo il quale la cessazione degli incarichi della
nuova dirigenza “privatizzata” discendeva automaticamente dal mutamento
del governo. Come osservato, “l’applicazione dello spoils system ‘‘in senso
stretto’’venne peraltro limitata, dal legislatore del 1998, ai soli incarichi
dirigenziali più elevati [...], cioè ad incarichi conferiti con d.P.R., previa
deliberazione del Consiglio dei Ministri, e relativi alla titolarità di strutture
articolate a loro volta in uffici dirigenziali generali”50. A questo, tuttavia, si
affiancava, già nella disciplina del 1998, quello che è stato definito spoils
system “in senso lato”, attesa la già prevista “temporaneità” per tutti gli
incarichi dirigenziali51.
49
CARINCI, Il lento tramonto del modello unico ministeriale: dalla "dirigenza" alle
"dirigenze'': in “Lav. nelle p.a.”, 2004, 5, 833 ss.
50
BATTINI, In morte del principio di distinzione tra politica e amministrazione: la
Corte preferisce lo spoils system, in “Giornale di diritto amministrativo”, 2006, n. 6,
912-913.
51
Ibidem.
75
Con la successiva legge n. 145 del 2002, tuttavia, la breccia aperta dal
legislatore del 1998 è stata non poco allargata, da un lato, con la
soppressione di qualunque limite alla durata minima degli incarichi
dirigenziali e la sostanziale previsione della possibilità di incarichi anche
brevissimi, dall’altro, con l’introduzione di una disciplina transitoria - poi
dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale52 - per la quale una tantum
si rendeva possibile la cessazione automatica di tutti gli incarichi di
funzione dirigenziale di livello generale in corso al momento dell’entrata in
vigore della legge.
Sul primo versante, è stabilito, infatti, che la durata degli incarichi di
direzione degli uffici di livello dirigenziale generale non possa eccedere il
termine di tre anni, mentre, per gli altri incarichi di funzione dirigenziale, il
termine non deve superare i cinque anni53.
Chiara la conseguente accentuazione dell’instabilità nell’esercizio
delle funzioni dirigenziali la cui titolarità riveste carattere permanentemente provvisorio, rinvenendo peraltro la sua legittimazione primaria in
un atto di investitura con cui sono conferiti ai dirigenti gli incarichi di
direzione degli uffici di livello dirigenziale.
Ne è risultato un complessivo quadro regolamentare del rapporto di
impiego dirigenziale difficilmente compatibile con il succitato principio di
netta separazione e reciproca autonomia tra indirizzo politico e azione
amministrativa (asse dichiaratamente portante delle riforme avviate negli
anni Novanta)54. Invero, l’accentuazione del carattere fiduciario della nomina
dei dirigenti e della loro dipendenza dall’organo di vertice politico, calata nel
contesto normativa che comunque continua a caratterizzare la dirigenza
pubblica, ha recato con sé una “precarizzazione” di quest’ultima55.
52
Corte. cost., 23 marzo 2007, n. 103, su cui CLARICH, Una rivincita della dirigenza
pubblica nei confronti dello strapotere della politica a garanzia dell'imparzialità della
pubblica amministrazione, in “www.neldiritto.it” (2007).
53
Prima dell'entrata in vigore della legge n. 145 del 2002, la disciplina modificata
prevedeva che gli incarichi avessero durata non inferiore a due anni e non superiore a
sette anni, con facoltà di rinnovo.
54
L'espressione è di D'ALESSIO, La disciplina della dirigenza pubblica: profili critici
ed ipotesi di revisione del quadro normativo, in “Lav. nelle p.a.”, 2006, 3-4, 549 ss. In
tema, MERLONI, Dirigenza pubblica e amministrazione imparziale, Il modello italiano
in Europa, Bologna, Il Mulino, 2006; SGROI, Dalla contrattualizzazione dell'impiego
all'organizzazione privatistica dei pubblici uffici, Torino, Giappichelli, 2006.
55
CASSESE, Il rapporto tra politica e amministrazione e la disciplina della dirigenza,
in “Lav. nelle p.a.”, 2003, 2, 231 ss. Cfr., pure, VALENSISE, La dirigenza amministrativa
tra fiduciarietà della nomina ed il rispetto dei principi costituzionali del buon
andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione, in “Giur. cost.”, 2002,
1211 ss., secondo il quale le disposizioni citate accentuano la componente fiduciaria nel
rapporto tra la politica e la dirigenza, con il rischio che neanche più il regime giuridico
della responsabilità dirigenziale, da far valere in caso di violazione degli obblighi
76
Tale ripensamento della filosofia sottesa alla normativa in materia di
dirigenza pubblica non ha mancato, peraltro, di manifestarsi anche in sede
di riscrittura della disciplina relativa alla valutazione dei dirigenti e alla
loro specifica responsabilità. Di sicuro rilievo, al riguardo, da un lato, la
soppressione, nel corpo dell’art. 21 del D.lgs. n. 165 del 2001, che
disciplina la responsabilità dirigenziale, di una delle ipotesi cui era
possibile ricondurre detta responsabilità, quella inerente ai risultati negativi
dell’attività svolta, previsione più direttamente connessa alla ratio normativa tendente a riconoscere in capo ai dirigenti il massimo dell’autonomia
organizzativa e gestionale, riservando alla P.A. la successiva verifica dei
risultati; dall’altro, come osservato, l’introduzione, tra i parametri di
valutazione della responsabilità dirigenziale, dell’osservanza delle direttive
da parte del dirigente.
Invero, il riferimento al rispetto delle direttive (da considerarsi altro
dal raggiungimento degli obiettivi), introduce una limitazione dell’autonomia del dirigente, consentendo al vertice politico (ovvero al dirigente
generale, nel caso del dirigente cui non sia affidato un ufficio dirigenziale
generale) di attendere, non solo, all’indicazione degli obiettivi, ma, anche,
alla definizione delle modalità concrete di realizzazione dell’obiettivo
stesso56.
Volendo riassumere, agli originari tre “livelli” di responsabilità (lieve,
nel caso di risultati negativi o di mancato raggiungimento degli obiettivi;
media, nel caso di grave inosservanza di direttive e di ripetuta valutazione
negativa dei risultati dell’attività amministrativa; grave, nei casi di
maggiore gravità) si sostituisce, per effetto della legge n. 145 del 2002, la
tipizzazione di due sole condotte che possono essere fonte di responsabilità: il mancato raggiungimento degli obiettivi e l’inosservanza di
direttive (quest’ultima non più accompagnata dal requisito della gravità).
Tali fattispecie, poi, in ragione della loro maggiore o minore gravità,
possono dar luogo a diverse conseguenze: nei casi meno gravi, all’impossibilità di rinnovo dell’incarico dirigenziale; in quelli più gravi, alla revoca
anticipata dell’incarico ovvero al recesso dal rapporto di impiego.
Lo stretto legame della responsabilità dirigenziale con l’oggetto
dell’incarico dirigenziale è quindi ancor più evidente a seguito della legge
pattuiti all'atto di conferimento dell'incarico, possa costituire una garanzia di stabilità,
una sorta di contrappeso al cosiddetto ''pactum fiduciae".
56
Nella scorsa legislatura, si è cercato, senza risultato, di ridefinire i confini della
responsabilità dirigenziale, nel quadro di progetti di legge intesi a una più generale
riscrittura dell'assetto della dirigenza pubblica. In tema, cfr. GLINIANSKI, Riforma e
innovazione della dirigenza nello schema di DDL del Governo contenente misure di
razionalizzazione delle norme generali sul lavoro alle dipendenze delle PP.AA., in
“www.Jexitalia.it.”, n. 9/2007; OLIVIERI, Brevi annotazioni sulla riforma della
dirigenza, cit.
77
n. 145 del 2002, attesa l’individuazione delle infrazioni suscettibili di dar
luogo a tale responsabilità (mancato raggiungimento degli obiettivi e
inosservanza di direttive).
Con la scomparsa di quella particolare fattispecie di responsabilità
dirigenziale che trovava fondamento nei “risultati negativi della gestione”,
detta responsabilità risulta oggi “tagliata esattamente a misura dei contenuti dell’incarico attribuito al dirigente”;57 in particolare, non è privo di
significato che oggi non sia più prevista, quale possibile causa di un
giudizio di inidoneità del dirigente, una generale e oggettiva verifica della
validità dei risultati ottenuti in rapporto all’interesse della collettività e ai
principi e valori di buon andamento della P.A., ma una valutazione
circoscritta all’aderenza dell’operato del dirigente agli obiettivi “scolpiti”
nell’originario provvedimento di incarico58.
2.4. Il destino del principio di separazione tra politica e amministrazione.
Il rischio di deresponsabilizzazione della dirigenza e l’attacco ai principi
di merit system e tenure.
Il complesso delle innovazioni così sommariamente descritte e,
sfociata, da ultimo, nella Riforma Brunetta del 2009 sui cui contenuti ed
effetti molto si discute e che pur, secondo alcuni autori, mirerebbe quanto
meno ad attenuare in senso meritocratico i rischi da molti paventati59, che
la riforma del 2009 parrebbe aver scongiurato.
Pur restando formalmente vigente, invero, il principio per cui nella
scelta dei dirigenti occorre tener conto anche “delle attitudini e delle
capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti’’, non vi è dubbio che l’accentuazione
dell’elemento fiduciario finisca per mettere in discussione il principio
cardine di separazione tra politica e amministrazione, implicando un
intervento di dettaglio della prima sull’attività della seconda.
Evidente il rischio di un’accentuazione della dipendenza e della
fidelizzazione del dirigente al vertice politico60.
57
MAINARDI, La responsabilità dirigenziale e il ruolo del comitato dei garanti, in
“Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 1078 ss. Sul sistema dello “spoils system”, a conforto della
tesi qui illustrata, si veda, tra tante, C. Cost. 81/2010
58
CARUSO, La storia interna della riforma del P.I.: dall'illuminismo del progetto alla
contaminazione della prassi, in “Lav. nelle p.a.”, 2001, 993-994.
59
GAROFALO, La dirigenza pubblica rivisitata, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6, 873 ss..
60
ANGIELLO, La valutazione dei dirigenti pubblici, in “Lav. nelle p.a.”, 2002, 6,
1070 ss. Rischio ancor più robusto se si considera che, in base alla vigente normativa
(art. 19, co. 6, del d.lg. n. 165 del 2001, così come sostituito dall'art. 3, co. 1, letto g), L
n. 145 del 2002), è il conferimento di incarichi di funzione dirigenziale semplice nonché
di funzione dirigenziale di livello generale, a persone estranee a quest'ultima.
78
Diverse le ragioni che hanno determinato quella che è stata definita
una “regressione” del sistema amministrativo italiano61.
Alla constatazione dell’immobilismo di certa dirigenza amministrativa,
scelta sulla base del criterio della sola anzianità, si è affiancato il forte
impatto esercitato anche sul sistema amministrativo dall’avvento nella
costituzione politica del principio maggioritario, che ha comportato
l’esigenza della politica, direttamente scelta dall’elettorato sulla base di un
programma politico assuntamente vincolante, di poter scegliere con discrezionalità i soggetti preposti all’attuazione del programma, sull’assunto
secondo cui all’apparato burocratico sarebbe spettato unicamente di mettere
in atto, in modo quasi meccanico, le direttive della politica.
In una prospettiva di più ampio respiro, si delinea il rischio che siano
posti in dubbio principi cardine dell’organizzazione amministrativa (non
privi, peraltro, di copertura costituzionale), quali quelli, per usare
un’espressione di origine britannica, di merit system (che presuppone e
impone l’accesso agli uffici pubblici in posizione di eguaglianza e sulla
base del merito accertato in forma competitiva) e di tenure (ossia di
permanenza nel ruolo dei dirigenti)62.
Principi la cui consapevole elaborazione nel dibattito costituente
svoltosi con riguardo alle disposizioni relative alla pubblica amministrazione non può essere messa in discussione.
Basti ricordare l’intervento, di evidente attualità, con cui Mortati
rimarcò l’esigenza di ‘‘assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli
alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica,
oggi che al potere si alternano i partiti deve tendere a garantire una certa
indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione
obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti’’63.
Naturalmente, i principi citati non ostano affatto all’introduzione di
strumenti giuridici che consentano di valutare i dirigenti pubblici quanto a
risultati, efficienza ed efficacia di azione.
Ciò che si sottolinea è il rischio che le illustrate riforme organizzative
degli ultimi anni possano recare - in uno ad un sistema di sostanziale
“irresponsabilità” degli organi politici che, non titolari della gestione
amministrativa, non possono essere chiamati a rispondere delle loro scelte
61
CASSESE, L'ideale di una buona amministrazione: principio del merito e stabilità
degli impiegati, Lectio magistralis per l'inaugurazione del Master in Diritto
amministrativo, Napoli, Facoltà di Giurisprudenza, 19 gennaio 2007.
62
Una ricostruzione delle ragioni che hanno storicamente giustificato l'affermarsi di
quei principi quali regole cardine dell'organizzazione della burocrazia nei Paesi
occidentali in CASSESE, L'ideale di una buona amministrazione: principio del merito e
stabilità degli impiegati, cit.
63
Intervento tenuto nella seduta del 14 gennaio 1947 della seconda Sotto
commissione per la Costituzione, Prima Sezione (in AP, 1864).
79
discrezionali (restando sottoposti prevalentemente alla sola responsabilità
politica) - una promiscuità nei rapporti tra potere politico e dirigenza, con
conseguente deresponsabilizzazione di quest’ultima, oltre che, il che è
ancor più grave, ad una progressiva perdita di quell’indipendenza statutaria
premessa indispensabile per un esercizio imparziale delle funzioni.
Su un piano ancor più generale il rischio è quello di una incondizionata rinuncia a costruire una dirigenza amministrativa di ruolo degna
delle migliori burocrazie europee.
3. Semplificazione amministrativa e competitività del Paese
Così sinteticamente illustrato il quadro generale delle riforme
dell’amministrazione, è possibile focalizzare l’attenzione sulle politiche di
semplificazione amministrativa.
Non si tratta di un processo solo italiano.
L’esigenza di por mano alle complicazioni amministrative è da tempo
avvertita in tutti i Paesi occidentali, nei quali è peraltro viva la consapevolezza della difficoltà del percorso di semplificazione. Consapevolezza
espressa in modo efficace con l’ossimoro simplifier est une tache assez
compliquée.
Una consapevolezza, del resto, non di recente emersione se già
Tocqueville mise in evidenza, nella descrizione dello Stato francese alla
vigilia della Rivoluzione del 1789, la complessità del sistema amministrativo e delle procedure all’epoca adottate, rilevando, per esempio, che
la lentezza della procedura amministrativa è così grande che “non ho mai
visto passare meno di un anno prima che una parrocchia potesse ottenere il
permesso di rialzare il campanile o di restaurare il presbiterio”64.
Ritornando all’interno dei confini nazionali, negli anni ’90, nell’ambito
del rinnovato interesse per la riforma dell’amministrazione, si sono imposti i
temi della delegificazione e della qualità della normazione, soprattutto
secondaria. Già con la legge 241/1990 è cominciata a farsi strada l’idea
secondo cui la “semplificazione amministrativa” è elemento trainante di una
riforma dell’amministrazione pubblica, ritardi ed inefficienze costituendo le
principali cause di arretratezza della macchina pubblica.
Matura, in una prospettiva di ancor più ampio respiro, la convinzione
dell’impatto negativo sulla competitività del “sistema Paese” del c.d.
“rischio amministrativo”, per tale intendendosi l’insieme di elementi
negativi che rendono l’amministrazione inefficiente, le sue regole non
chiare e contraddittorie, i suoi procedimenti lenti e farraginosi: dalle
64
Citazione tratta da CLARICH, Gli strumenti di semplificazione della burocrazia:
deregolamentazione, decentramento, sportello unico, nuove forme di organizzazione
amministrativa e nuovi modelli procedimentali, 2000, in “www.giustiziamministrativa.it”
80
disfunzioni organizzative, alle regole che disciplinano l’attività, talvolta
apparentemente destinate ad ostacolare o impedire le attività economiche,
ai ritardi nella cultura della dirigenza pubblica, alla difficoltà di affermare
un rigoroso regime di responsabilità per i danni arrecati alle attività dei
cittadini da atti o dall’inerzia o dai ritardi delle amministrazioni, alla non
risolutività delle decisioni della giustizia amministrativa ed alla ineffettività
quindi del sistema rimediale (tema, quest’ultimo, come si proverà ad
osservare in chiusura, intimamente connesso a quello della semplificazione
dell’amministrazione e del recupero di efficienza e credibilità della
stessa)65.
La consapevolezza del legame che intercorre tra riforma dell’amministrazione e sua semplificazione, da un lato, rilancio della competitività,
dall’altro, traspare peraltro in modo evidente se si considera che i primi
strumenti di semplificazione sono stati adottati, sul piano formale,
nell’ambito di una legge finanziaria (1. n. 537 del 1993); parimenti
significativo è che con il d.l. n. 35/2005 sulla c.d. “competitività” sono
state riscritte, nel tentativo di dare impulso al processo di semplificazione,
le disposizioni della legge 241/1990 relative alla d.i.a, e al silenzio-assenso.
Con legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo
economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di
processo civile”, sono state ancora una volta riscritte le disposizioni
relative a tre istituti di semplificazione, quali la conferenza di servizi (che
riguarderà la parte centrale del presente contributo), la d.i.a (oggi scia) e il
silenzio-assenso.
Non si intende in questa sede ripercorrere le tappe fondamentali lungo
le quali si è andata dipanando in Italia, non senza accelerazioni e battute
d’arresto, la politica di semplificazione amministrativa66, quanto piuttosto
soffermare l’attenzione su taluni dei principi, meccanismi ed istituti introdotti e valorizzati nel tentativo di assecondare e soddisfare una sempre più
avvertita esigenza di semplificazione.
Prima ancora è opportuno provare a passare in rassegna le principali
cause della “complicazione amministrativa”, nonché gli strumenti normalmente utilizzati nel tentativo di porvi rimedio.
65
AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e lo recenti modifiche normative
alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.-Tar”, 2005, 2635 ss.
66
Cfr., tra gli altri, AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le recenti
modifiche normative alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.Tar”,
2005, 2635 ss.; VESPERINI, Semplificazione amministrativa, in “Dizionario di diritto
pubblico”, a cura di Cassese, Milano, 2006, 5479; Natalini, Il tempo delle riforme
amministrative, Bologna, 2006; Patroni Griffi, La semplificazione amministrativa,
2008, in “www.giustizia-amministrativa.it”
81
4. Cause della complicazione amministrativa e tecniche di intervento
a.
b.
c.
d.
Le cause della complicazione amministrativa hanno natura strutturale:
vanno individuate nella progressiva articolazione e differenziazione della
società, nella sempre più frequente emersione di nuovi interessi pubblici
affidati alla tutela di una molteplicità di apparati pubblici, nella
moltiplicazione dei livelli amministrativi, nello sviluppo delle burocrazie,
nella farraginosità, arretratezza, inutile complicazione delle “regole”, implicanti l’inutile lungaggine delle procedure amministrative. Quali, allora,
storicamente, le tecniche di intervento?
Volendo mutuare una quadripartizione già segnalata in dottrina67,
vengono in considerazione:
la delegificazione, che, in omaggio ad un’esigenza di flessibilità normativa,
comporta la concentrazione delle norme in regolamenti, senza tuttavia
ridurne il numero e ridimensionarne l’incidenza;
la deregolamentazione, implicante l’eliminazione delle regole legislative o
regolamentari non indispensabili a tutelare gli interessi pubblici inerenti le
specifiche materie, con conservazione delle sole regole essenziali68;
la semplificazione dei procedimenti amministrativi, conseguente
all’attuazione delle stesse politiche di deregolamentazione ovvero alla
riduzione dei procedimenti alle sole fasi essenziali;
la deamministrativizzazione (o liberalizzazione), implicante la sottrazione
di intere attività del privato alle regole amministrative69.
67
AMOROSINO, op. cit.
Non esaltanti, secondo gli studi condotti da Giulio Napolitano, i risultati delle
politiche di semplificazione degli ultimi anni. Il governo di centro-destra iniziò la sua
esperienza adottando nel primo periodo 402 misure di semplificazione e 386 di
complicazione (con un tasso di semplificazione pari a 1, 04, superiore a quello del
precedente governo Prodi - 0, 77 - ma inferiore a quello del primo governo D'Alema - 1,
09): NAPOLITANO, L'attività normativa del Governo nel periodo dicembre 2001febbraio 2002, in “Riv. Trim. dir. pubbl.”, 2002, n. 2, 406. Sono seguite nel marzogiugno 2002 619 misure di semplificazione ma a fronte di 641 di complicazione (0, 97):
ID., L'attività normativa del Governo nel periodo marzo 2002-giugno 2002, cit., 2002,
n. 4, 986. Quindi, 477 misure di semplificazione a fronte di 415 di complicazione tra
giugno e dicembre 2002 (1, 15): ID., L'attività normativa del Governo nel periodo
marzo 2002-giugno 2002, cit., 2003, n. 2, 610. Negli anni seguenti i dati furono: 212
misure di semplificazione contro 329 di complicazione (tasso allo 0, 64) nel periodo
compreso tra dicembre 2003 e giugno 2004, 253 misure di semplificazione contro 637
di complicazione (tasso allo 0, 40) tra luglio e dicembre 2004, 167 misure di
semplificazione contro 343 di complicazione (tasso allo 0, 52) tra dicembre 2004 e
giugno 2005, 182 misure di semplificazione contro 317 di complicazione (tasso allo 0,
57) tra luglio e dicembre 2005, 227 misure di semplificazione contro 295 di
complicazione (tasso allo 0, 76) tra gennaio e maggio del 2006.
69
AMOROSINO, La semplificazione amministrativa e le recenti modifiche normative
alla disciplina generale del procedimento, in “Foro amm.-Tar”, 2005, 2635 ss.
68
82
Quest’ultima, consistente nel liberalizzare attività private, svincolandone l’esercizio ad ogni forma di preventiva verifica o valutazione di
tipo pubblicistico, è tecnica di intervento cui è per vero consentito ricorrere
residualmente, essendo non agevole ipotizzare una diffusa sottrazione di
attività private ad ogni momento di controllo amministrativo.
Le principali politiche attive di riforma sono; pertanto, quelle
finalizzate essenzialmente alla deregolamentazione ed alla semplificazione.
Revisione e razionalizzazione del sistema normativo e snellimento
delle procedure, pertanto, rappresentano le due principali tecniche di intervento, cui deve affiancarsi l’introduzione di tecnologie e di più adeguate
metodologie organizzative.
5. Gli interrogativi
1.
2.
3.
In questa sede ci si sofferma come anticipato, sulle tecniche di
semplificazione del procedimento amministrativo con l’intento di passare
in rassegna taluni degli strumenti di semplificazione procedimentale più di
recente valorizzati dal legislatore, verificandone la concreta attitudine ad
assicurare l’attuazione degli obiettivi di efficacia ed efficienza amministrativa in modo non disgiunto, come osservato nella prima Parte, dal
rispetto dei principi di legalità, imparzialità e responsabilità.
Nel farlo, pare utile farsi orientare nella disamina dall’esigenza di dare
risposta a tre interrogativi di fondo.
È possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo
rechi con sé una deprecabile deresponsabilizzazione dell’amministrazione e
dei suoi agenti?
La semplificazione dei procedimenti e la semplificazione delle regole
possono conciliarsi? La semplificazione del procedimento amministrativo
può, cioè, non essere perseguita dequotando e depotenziando regole
procedimentali la cui positivizzazione ha rappresentato una conquista di
civiltà procedimentale?
In che modo può e deve concorrere all’abbattimento del c.d. rischio
amministrativo una naturale e per vero già in atto (per quanto impensabile
solo fino ad alcuni anni fa) evoluzione del processo amministrativo, della
sua fisionomia, del suo oggetto, delle tecniche di tutela in seno allo stesso
sperimentabili? Detto altrimenti, riforma dell’amministrazione e riforma
del processo amministrativo devono convergere verso la realizzazione di
obiettivi comuni? È consentito quindi pensare ad una sinergia tra riforma
dell’amministrazione volta ad un miglioramento delle sue performance ed
evoluzione del processo amministrativo?
83
Giova muovere, nel condurre l’analisi, dalla legge che reca la
disciplina dell’azione amministrativa, la n. 241 del 1990, a più riprese modificata.
Anteriormente, infatti, all’emanazione di tale legge mancava una
disciplina generale del procedimento amministrativo70. Ne derivava
un’eccessiva discrezionalità della P.A nella gestione della fase procedimentale, anche per quanto riguarda i tempi di conclusione della stessa.
Con la l. n. 241 del 1990 è stata introdotta una disciplina organica del
procedimento amministrativo volta a garantire, oltre alla dialettica con i
soggetti interessati e controinteressati, l’accelerazione e semplificazione
dell’azione amministrativa, attraversò istituti quali il silenzio-assenso, la
denuncia in luogo di autorizzazione, le conferenze di servizi (di cui ci si
occuperà nella II parte), la regolamentazione dei termini del procedimento,
ecc.
In particolare, la politica della semplificazione si è tradotta nella
tendenza ad escludere la necessità di provvedimenti autorizzatori espressi
per il compimento di determinate attività. Ferma la disomogeneità di
posizioni dottrinali e giurisprudenziali in merito all’effettiva riconducibilità
dei singoli istituti al capitolo della semplificazione o dell’autentica
liberalizzazione, il riferimento è:
- alla dichiarazione di inizio attività, ora scia71, disciplinata dall’art. 19, l. n.
241 del 1990;
- alla denuncia di inizio attività, quale titolo abilitativo edilizio, disciplinato
dagli artt. 22 e 23, T.U. 6 giugno 2001, n. 380, che permette di eseguire
talune tipologie di interventi edilizi senza che sia necessario ottenere il
permesso di costruire, attraverso la semplice notizia, data dal privato al
Comune, che decorso il termine di trenta giorni previsto dalla legge darà
inizio all’intervento documentato (la d.i.a. deve essere infatti accompagnata
da una relazione redatta da un tecnico abilitato che asseveri la conformità
delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici e ai regolamenti edilizi e
il rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie). Se nel
termine di trenta giorni dalla presentazione della denuncia non interviene
alcun ordine inibitorio da parte del dirigente o del responsabile dell’UTC,
l’interessato può dare avvio ai lavori denunciati. Si osservi, in proposito,
una discrasia patente tra il nuovo dettato dell’art. 19, che estende il regime
della scia a tutti i casi in cui la legge si riferisca alla dia e la perdurante
vigenza della disciplina vappena descritta;
- al silenzio-assenso, istituto divenuto ad applicazione generalizzata a
seguito della l. 14 maggio 2005, n. 80 che, nel modificare l’art. 20, l. n. 241
70
Erano invece presenti alcune normative di settore, inerenti a specifiche tipologie
procedimentali, es. in materia di espropriazione per pubblica utilità (I. 25 giugno 1865,
n. 2359) o di rilascio di titoli abilitativi edilizi (I. 17 agosto 1942, n. 1150).
71
Dizione e disciplina introdotte dalla legge 122/2010.
84
del 1990, ha stabilito che - salvo quanto previsto dal precedente art. 19 in
materia di dichiarazione di inizio attività - nei procedimenti ad istanza di
parte, il silenzio dell’amministrazione competente, inteso come mancanza
di provvedimenti di diniego alla scadenza del termine fissato per la
conclusione del procedimento, equivale a un provvedimento di accoglimento;
- alla conferenza di servizi, quale modulo procedimentale finalizzato al
contemperamento degli interessi pubblici (nel caso della conferenza c.d.
istruttoria) e alla velocizzazione e semplificazione dell’azione amministrativa (si veda la II parte).
6. La d.i.a/scia
Tralasciando, per ora, istituti che all’evidenza rispondono ad
un’esigenza di semplificazione, quali in particolare le conferenze di servizi,
gli sportelli unici e gli accordi sostitutivi, ci si sofferma in particolare sulla
disciplina riguardante la d.i.a./scia, il silenzio significativo e non, le
illegittimità non invalidanti di cui all’art. 21-opties, l. 241/1990: istituti e
meccanismi (la cui disciplina è stata profondamente rivista dal legislatore
del 2005 e del 2009), in relazione ai quali, più che per altri, vengono in
rilievo gli angoscianti interrogativi sopra riportati.
Quanto alla d.i.a/scia e al silenzio assenso, si tratta di tecniche di
semplificazione procedimentale (per la scia, per vero, di autentica
liberalizzazione) ampiamente sperimentate in molti Paesi: in Spagna, per
esempio, ove i procedimenti per i quali è previsto il silencio positivo sono
sensibilmente aumentati nell’ultimo decennio del secolo scorso, o in
Francia dove hanno registrato un’ampia diffusione gli strumenti dell’accord implicite e del régime declaratif sostitutivo dell’autorizzazione nei
settori più disparati. Prima ancora di esaminare le ambiguità che connotano
la disciplina nazionale della d.i.a., giova tuttavia subito delimitare l’ambito
della sua concreta operatività, anche dopo il d.l. n. 35/2005, pure
dichiaratamente intervenuto con l’intento di estenderne la portata applicativa; tanto con l’intento di dimostrare che si tratta, comunque, di istituto
la cui valorizzazione nella prospettiva della “lotta” alle complicazioni
amministrative non può essere sopravvalutata.
Ebbene, il ricorso al modulo procedimentale in esame non è
consentito - oltre che, in generale, o con riferimento all’attività puramente
discrezionale della Pubblica Amministrazione72 - in una serie di materie,
72
Per vero, si è registrato sul punto una contrasto interpretativo innescato da talune
innovazioni che hanno interessato la disciplina della d.i.a nel passaggio dalla l. n.
241/1990, alla l. n. 537/1995 e, infine alla l. n. 80/2005. Nell'originaria formulazione
dell'art. 19, l. n. 241 del 1990, l'istituto era previsto come assolutamente eccezionale, la
85
tassativamente elencate dall’art. 19, l. n. 241/1990, comma 1, in cui la
delicatezza degli interessi coinvolti impone la necessità di un’adeguata
ponderazione da parte dell’ufficio, con conseguente obbligo per lo stesso di
concludere il procedimento con un provvedimento motivato ed esplicito.
Alle materie già in precedenza indicate dalla norma (difesa nazionale,
pubblica sicurezza, immigrazione, amministrazione della giustizia, amministrazione delle finanze, ivi compresi gli atti concernenti le reti di
acquisizione del gettito, anche derivante dal gioco, tutela della salute e
sua praticabilità essendo relegata ai soli casi contemplati dal successivo regolamento cui
la stessa disposizione primaria rinviava. La versione originaria dell'art. 19 escludeva,
comunque, dall'ambito di applicazione dell'istituto i casi in cui l'atto di assenso
dell'amministrazione richiedesse l'esercizio di poteri discrezionali o l'esperimento di
prove, o fosse soggetto a limiti o contingenti. Venivano, in tal modo, ad esempio,
sottratti al regime liberalizzato, i provvedimenti di abilitazione, che presuppongono, in
genere, una valutazione personale dei requisiti di idoneità del richiedente (si pensi alla
patente di guida, al porto d'anni, ecc.) e, come tali, comportanti l'esperimento di prove,
tra l'altro solitamente rimesse ad un giudizio connotato da elementi di discrezionalità
tecnica, Parimenti, erano escluse dal regime della d.i.a. (e lo sono tuttora) gli atti di
assenso rilasciati dalle amministrazioni preposte alla tutela di interessi superindividuali,
come l'ambiente, il patrimonio storico-artistico, il paesaggio, la salute, od operanti nei
settori della difesa nazionale, della sicurezza pubblica (si tratta dei settori sensibili). Con
l'art. 2, l. n. 537 del 1993 (legge Finanziaria per il 1994), l'incipit della norma fu
sostituito con la precisazione secondo cui "in tutti i casi …" in cui singole discipline di
settore richiedano, per lo svolgimento di un'attività privata, il previo ottenimento di
autorizzazioni, licenze, permessi, nulla-osta ovvero altri atti di assenso, comunque
denominati, l'attività medesima può essere esercitata previa denuncia di inizio da parte
dell'interessato. Ulteriore innovazione era costituita dall'introduzione di un termine
perentorio di sessanta giorni entro il quale la P.A. poteva inibire l'attività. L'istituto della
d.i.a, sia pur nel solo ambito delle attività vincolate, assolveva ad una funzione non
tanto di semplificazione amministrativa, quanto di sottrazione dall'area del
procedimento di tutta un'ampia gamma di attività private, rispetto alle quali il legislatore
valorizzava l'apporto collaborativo del privato, in considerazione della natura vincolata
e meramente accertativa dell'attività oggetto della dichiarazione. In questi casi, in altri
termini, la P.A. si fidava di quanto dichiarato dal privato, per lo meno fino
all'espletamento di una successiva attività amministrativa di verifica della rispondenza
di quanto dichiarato a quanto statuito dalla normativa di settore. L'art, 19, l. n. 241 del
1990, è stato completamente riformulato dall'art. 3, d.l. n. 35 del 2005, convertito con l.
n. 80 del 2005, che ha notevolmente innovato l'istituto. Per quel che in questa sede
viene in rilievo, la novella del 2005 ha ampliato, secondo una tesi minoritariamente
sostenuta, il campo di applicazione dell'istituto della d.i.a. trovando applicazione anche
laddove il rilascio delle autorizzazioni dipenda da valutazioni tecnicodiscrezionali,
considerato che il nuovo art. 19, l. n. 241 del 1990, non richiede più che l'accertamento
dei presupposti dell'autorizzazione avvenga senza ''prove a ciò destinate che
comportino valutazioni tecnico discrezionali'' e che il comma 3 dello stesso art, 19
prevede il potere di revoca ai sensi dell'art. 21-quinquies, che mal si concilierebbe con
l'assunto secondo cui la nuova d.i.a, si applica ai soli provvedimenti vincolati, giacché
l'esercizio del potere di revoca presuppone l'esistenza di margini di discrezionalità in
capo all'amministrazione.
86
della pubblica incolumità, del patrimonio culturale e paesaggistico e
dell’ambiente), si aggiungono, ora, per effetto delle innovazioni introdotte
dalla legge 18 giugno 2009, n. 69, l’asilo e la cittadinanza, materie,
peraltro, connesse alla pubblica sicurezza ed all’immigrazione, già esclusi
dalla formulazione previgente dell’art. 19, L n. 241/199073.
Sottesa alla disposta integrazione normativa è, con tutta evidenza, la
volontà di sottrarre gli ambiti suindicati a qualsivoglia automatismo, stante
la rilevanza dei beni implicati. Coerentemente, il medesimo art. 9, l. n.
69/2009, esclude l’asilo e la cittadinanza anche dal campo di operatività del
silenzio-assenso, inserendone il riferimento nel comma 4 dell’art. 20, L n.
241/199074.
73
LA VERMICOCCA, op. cit., 206. Per l'ingresso nel paese e l'acquisizione dello status
di cittadino italiano - commenta l'Autore - occorrono verifiche che, ancorché di natura
documentale e non caratterizzate da discrezionalità tecnico-amministrativa, attese le
implicazioni in tema di ordine pubblico, non possono essere lasciate ad un autonomo
esercizio da parte dell'interessato.
74
L'art. 9 della legge n. 69 del 2009 ha anche introdotto nel comma 2 dell'art. 19, L
n. 241/1990 il seguente periodo: "Nel caso in cui la dichiarazione di inizio attività
abbia ad oggetto l'esercizio di attività di impianti produttivi di beni e di servizi e di
prestazioni di servizi di cui alla direttiva 2006/123/ CE del Parlamento Europeo e del
Consiglio, del 12 dicembre 2006, compresi gli atti che dispongono l'iscrizione in albi o
ruoli o registri ad efficacia abilitante o comunque a tale fine eventualmente richiesta,
l'attività può essere iniziata dalla data della presentazione della dichiarazione
dell'amministrazione competente". In tali casi, l'amministrazione competente potrà fare
esercizio dei propri poteri inibitori "nel termine di trenta giorni dalla data della
presentazione della dichiarazione", come puntualizzato dal successivo comma 3, in tal
senso modificato dalla legge n, 69 del 2009. La novella introduce la possibilità, in
determinati casi, dell'avvio dei lavori contestuale alla dichiarazione di inizio attività.
L'innovazione si giustifica non solo e non tanto in termini di semplificazione
amministrativa, quanto per l'esigenza di dare attuazione alla direttiva 2006/123/CE,
espressamente richiamata dalla nuova previsione. La richiamata direttiva, entrata in
vigore il 28 dicembre 2006 e da recepirsi entro il 28 dicembre 2009, contiene le
disposizioni generali che consentono di agevolare la libera circolazione dei servizi e la
libertà di stabilimento dei prestatori, assicurando nel contempo un elevato livello di
qualità dei servizi stessi. In tal senso, là novità introdotta nell'art, 19, L n. 241/1990,
costituisce un anticipo di attuazione della direttiva - reso urgente dalla imminente
scadenza del termine sopra ricordato - nonché un vincolo al futuro recepimento. In
deroga a quanto previsto come regola generale, la nuova disposizione consente al
privato che abbia presentato una dichiarazione avente ad oggetto l'esercizio di attività di
impianti produttivi di beni e di servizi e di prestazioni di servizi di cui alla direttiva
citata di dare subito inizio all'attività medesima (c.d. d.i.a, "immediata"), senza necessità
di attendere il decorso di trenta giorni e di inoltrare un'ulteriore comunicazione di inizio
effettivo della stessa. L'avvio contestuale alla dichiarazione di inizio attività non
preclude alla Pubblica Amministrazione ricevente il potere-dovere di verificare la
sussistenza dei presupposti legittimanti l'esercizio dell'attività oggetto della
dichiarazione, da esercitarsi nel termine di trenta giorni decorrenti dalla presentazione
della d.i.a. Restano, inoltre, intatti gli ulteriori poteri sanzionatori e di autotutela,
87
Più nel dettaglio, l’art. 19, l. 241/1990, circoscrive drasticamente
l’ambito di operatività dello strumento, escludendone in linea generale
l’applicazione per gli atti per il cui rilascio non siano previsti non soltanto
limiti o contingenti complessivi - come già disponeva il testo originario ma neppure specifici strumenti di programmazione settoriale, nonché per
tutti quelli rilasciati dalle amministrazioni preposte alla difesa nazionale,
all’immigrazione, all’amministrazione della giustizia, all’amministrazione
delle finanze, alla tutela della salute e della pubblica incolumità, del
patrimonio culturale e paesistico e dell’ambiente, nonché per gli atti
imposti dalla normativa comunitaria.
Si fa, quindi, riferimento ad attività vincolate della Pubblica
Amministrazione, implicanti una verifica di conformità sempre che non sia,
ex lege, previsto un limite di tipo qualitativo o un contingentamento o una
programmazione di settore.
Il meccanismo è peraltro destinato a sostituire concessioni non costitutive.
I margini residui non sono molti, tanto più se si tiene conto
dell’intreccio di autorizzazioni cui sono soggette molte attività, sicché,
anche in casi in cui un’autorizzazione è apparentemente sostituibile da una
d.i.a./scia, questa finisce poi per essere in fatto inutilizzabile in assenza di
altre autorizzazioni per le quali la sostituzione è esclusa75.
Nell’ottica delle semplificazioni si è al cospetto, pertanto, di un’innovazione dal respiro corto.
A ciò si aggiunga la diffidenza con cui, nella prassi, i privati guardano
all’istituto della comunicazione di inizio d’attività, non essendo sicuri del
“valore” dei “non atti” così ottenuti. Diffidenza aggravata dall’espressa
previsione di un generalizzato potere di “autotutela” della p.a. sulla
d.i.a./scia, anche dopo la scadenza del termine per il controllo.
6.1. La dibattuta questione della natura della d.i.a./scia e delle forme di
tutela del terzo
Il che comporta - passando dalla delimitazione dell’ambito applicativo
dell’istituto alla decifrazione della sua natura giuridica - la trasformazione
della d.i.a./scia in uno “strano ircocervo”, destinato a nascere privato per
poi tramutarsi in pubblico76.
Trasformazione cui ha contribuito quella parte della giurisprudenza
amministrativa orientata a ritenere che la d.i.a./scia, lungi dal costituire un
esperibili dalla Pubblica Amministrazione anche dopo il decorso del termine di
esercizio del potere inibitorio ed ancorché abbia avuto inizio l'attività dichiarata.
75
AMOROSINO, op. cit.
76
SANDULLI, op. cit.
88
atto del privato cui la legge riconosce effetti di abilitazione all’esercizio di
talune attività private (così sottratte al vaglio preventivo dell’amministrazione), sia solo il primo atto di un vero e proprio procedimento
destinato a concludersi con un atto dell’amministrazione ancorché destinato
ad essere manifestato per silentium.
Due le tesi che al riguardo si contendono il campo.
Secondo una prima impostazione77, la d.i.a./scia. costituirebbe una
fattispecie a formazione successiva, configurabile come un atto amministrativo tacito destinato a formarsi in presenza di alcuni presupposti formali
e sostanziali e per effetto del decorso del termine assegnato all’amministrazione per esercitare il potere inibitorio.
Per altra tesi78, la d.i.a./scia, è un atto formalmente e soggettivamente
privato, cui la legge ricollega direttamente l’effetto, di abilitare l’istante
all’esercizio dell’attività.
A sostegno di siffatta conclusione si rileva che la scia non proviene da
un’amministrazione, essendo un atto del privato cui la stessa legge, in
presenza di determinate condizioni e all’esito di una fattispecie a
formazione complessa, ricollega la legittimazione allo svolgimento di una
determinata attività, così liberalizzata. Non viene in rilievo l’esercizio di
una potestà pubblicistica, né un provvedimento amministrativo informa
tacita (c.d. silenzio-assenso). Gli unici provvedimenti rinvenibili nella
fattispecie sono quelli, meramente eventuali, che la P.A. può emanare, nel
termine di legge, per impedire la prosecuzione dell’attività o per imporre la
rimozione degli effetti, ovvero quelli adottati in autotutela anche
successivamente alla scadenza di tale termine. Viene, soprattutto, richiamata la ratio dell’istituto, volto ad introdurre un regime di liberalizzazione
di determinate attività, con la conseguenza che per l’esercizio delle stesse
non è necessaria l’emanazione di un titolo provvedimentale di
legittimazione. Invero, la d.i.a. nasce storicamente non come strumento di
semplificazione procedimentale ma come strumento di autentica
liberalizzazione di alcune attività private.
Alla logica della semplificazione procedimentale risponde, infatti, il
diverso istituto, regolamentato dalla norma immediatamente successiva, del
silenzio-assenso, che non è strumento di liberalizzazione, ossia strumento
che facoltizza l’esercizio di talune attività da parte del privato senza che
sussista un preventivo vaglio da parte della P.A., ma che, al contrario, è
77
Tar Piemonte, sez. I, 5 settembre 2006, n. 2762; Tar Abruzzo, Pescara, 1 settembre
2005, n. 494; Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916; ID., sez. VI, 20 ottobre 2004,
n. 6910; Tar Veneto, sez. II, 10 settembre 2003, n. 4722; ID. 20 giugno 2003, n. 3405;
Cons, St., sez. VI, 10 giugno 2003, n. 3265; Tar Lombardia, Brescia, 1 giugno 2001, n.
397.
78
Cons. St., sez. IV, 22 luglio 2005, n. 3916; ID., sez. V, 22 febbraio 2007, n. 948;
Tar Puglia, Lecce, sez. III, 3 aprile 2007, n. 1652.
89
volto, sull’assunto della necessità del vaglio preventivo perché una certa
attività possa essere esercitata, a semplificare le modalità di esternazione
del suddetto vaglio. Quando un’attività soggiace a silenzio assenso, invero,
la stessa non può dirsi liberalizzata, essendo solo regolamentato un
meccanismo procedimentale più semplificato di formazione del
provvedimento, pure necessario, di esternazione dell’assenso dell’amministrazione.
La d.i.a./scia, è, invece, strumento di autentica liberalizzazione,
essendo storicamente nata per sottrarre certe attività al vaglio preventivo
dell’amministrazione. Il relativo meccanismo, difatti, consente di iniziare
l’esercizio di alcune attività sulla base di un atto che il privato formula e
presenta all’amministrazione senza attendere un vaglio preventivo della
stessa. Difatti, il legislatore prevede che l’amministrazione possa al più
esercitare un potere inibitorio dell’attività già iniziata (peraltro entro un
termine perentorio), non anche che la stessa possa e debba esprimere un
assenso preventivo all’esercizio di quell’attività.
Questa è, quindi, la distinzione concettualmente fondamentale tra la
d.i.a./scia ed il silenzio assenso: l’uno è espressione di una tendenza del
legislatore a liberalizzare certe attività, l’altro, invece, di un’esigenza di
semplificare il procedimento da osservare affinché la pubblica
amministrazione possa esternare la sua determinazione, ritenuta, tuttavia,
ancora necessaria perché il privato possa esercitare una data attività.
A sostegno dell’assunto militava già la lettera del secondo comma
dell’art. 19 - come novellata da parte dell’art. 9 della legge n. 69 del 2009 ove prevede la fattispecie della d.i.a, cd. “immediata” nel senso già sopra
divisato (nonché la novella contenuta nella l.122/2010 sulla segnalazione
certificata di inizio attività, sostitutiva della d.i.a.). In proposito, si osserva
che se il riconoscimento al privato della possibilità, in determinate ipotesi,
di dare immediato avvio ai lavori oggetto della dichiarazione non toglie,
come rilevato, la possibilità alla Pubblica Amministrazione di verificarne la
legittimità ed eventualmente di inibirne la prosecuzione odi ordinarne la
conformazione alla legge, nel termine di trenta giorni, decorrente non già
dalla comunicazione di inizio effettivo - in quanto omessa nel caso di
specie - bensì dalla presentazione della stessa d.i.a., tuttavia non è men vero
che quel riconoscimento rafforza l’assunto secondo cui, per effetto della
previsione della d.i.a., la legittimazione del privato all’esercizio dell’attività
non è più fondata sull’atto di consenso della P.A., secondo lo schema
“norma-potere-effetto”, ma è una legittimazione ex lege, secondo lo
schema “norma-fatto-effetto”, in forza del quale il soggetto è abilitato allo
svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale disciplina
l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere
autorizzatorio della P.A. Oggi, tale interpretazione è vieppiù avvalorata
90
-
-
-
-
-
dalla nuova formulazione dell’art. 19, più volte accennata e alla cui lettura
si rinvia.
Sul tema, è intervenuto, tra l’altro, Cons. Stato, sez. VI, 9 febbraio
2009, n. 71779.
All’esito di un articolato apparato motivazionale, la sesta Sezione
giunge alle seguenti conclusioni:
la d.i.a. è un atto di un soggetto privato e non di una Pubblica
Amministrazione, che ne è invece destinataria; non costituendo perciò
esplicazione di una potestà pubblicistica;
per effetto della previsione della d.i.a./scia, la legittimazione del privato
all’esercizio dell’attività non è più fondata sull’atto di consenso della P.A.,
secondo lo schema “norma-potere effetto”, ma è una legittimazione ex lege,
secondo lo schema ‘‘norma-fatto-effetto”, in forza del quale il soggetto è
abilitato allo svolgimento dell’attività direttamente dalla legge, la quale
disciplina l’esercizio del diritto eliminando l’intermediazione del potere
autorizzatorio della P.A.;
il riferimento agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, legge n. 241/1990,
contenuto nell’art. 19 della stessa legge n. 241/1990, consente alla P, A., di
esercitare un potere che tecnicamente non è di secondo grado, in quanto
non interviene su una precedente manifestazione di volontà dell’amministrazione, con l’autotutela classica condividendo soltanto i presupposti
e il procedimento;
il richiamo agli artt. 21-quinquies e 21-nonies, di cui all’art. 19 cit., è
riferito alla possibilità di adottare non già atti di autotutela in senso proprio,
ma di esercitare i poteri di inibizione dell’attività e di rimozione dei suoi
effetti, nell’osservanza dei presupposti sostanziali e procedimentali previsti
da tali norme. In tal, modo, il legislatore - nel recepire l’orientamento
giurisprudenziale che ammetteva la sussistenza in capo alla P.A. di un
potere residuale di intervento anche dopo la scadenza del termine - si è
fatto carico di tutelare l’affidamento che può essere maturato in capo al
privato per effetto del decorso del tempo;
attesa la natura di dichiarazione privata ascritta alla d.i.a., lo strumento di
tutela del terzo rispetto all’attività intrapresa dal dichiarante deve essere
identificato nell’azione di accertamento autonomo che il terzo può esperire
innanzi al giudice amministrativo per sentire pronunciare che non
sussistevano i presupposti per svolgere l’attività sulla base di una semplice
denuncia di inizio di attività. Emanata la sentenza di accertamento, graverà
sull’Amministrazione l’obbligo di ordinare la rimozione degli effetti della
condotta posta in essere dal privato, sulla base dei presupposti che il
giudice ha ritenuto mancanti.
79
Conforme, da ultimo, Tar Calabria, Reggio Calabria, 18 giugno 2009, n.431.
91
È quanto consente di soddisfare le esigenze di cui la giurisprudenza
amministrativa si fa carico, afferenti come osservato alla tutela del terzo.
Le si soddisfa, tuttavia, incidendo sul processo amministrativo,
anziché stravolgendo la natura dell’istituto di diritto sostanziale: in specie,
riconoscendo l’esperibilità, nel processo amministrativo, nel caso di specie
ad opera del terzo, di un’azione a carattere non impugnatorio, ma volta solo
all’accertamento della contrarietà dell’attività indicata in d.i.a./scia, alla
disciplina di settore80. 81
6.2. La d.i.a./scia e le politiche di semplificazione: conclusioni
Concludendo quanto alla d.i.a., i ristretti margini di operatività
dell’istituto, la rimarcata tendenza dei privati a diffidare dallo stesso, in uno
al rischio di una sua strisciante trasformazione in un autentico silenzio
assenso, inducono ad interrogarsi in merito alla sua effettiva utilità quale
strumento sul quale seriamente contare nel condurre un’ambiziosa politica
di recupero di efficienza procedimentale.
Soprattutto, la tendenza, talvolta anche giurisprudenziale, ad accostare
la d.i.a./scia al silenzio assenso induce a volgere lo sguardo a questo
secondo strumento di semplificazione procedimentale.
7. Il silenzio-assenso. La disciplina
Il silenzio-assenso costituisce un tipico rimedio previsto dal legislatore per prevenire lo stesso prodursi delle conseguenze negative
collegate all’inerzia amministrativa.
La più significativa innovazione, introdotta nel 2005, nel quadro della
riforma della l. 241/90, ha riguardato proprio l’ambito di applicazione del
silenzio-assenso che, da strumento particolare, utilizzabile solo nei casi
individuati dalle norme, diventa istituto ad applicazione generale, utilizzabile ogni qualvolta:
- il procedimento sia ad istanza di parte;
- il richiedente miri ad ottenere un provvedimento amministrativo;
- non si verta in una materia sottratta all’operatività del silenzio-assenso per
effetto della stessa previsione dell’art. 20 o per effetto di un successivo
80
In tema, CLARICH, SANCHINI, Verso il tramonto della tipicità delle azioni nel
processo amministrativo, in “Rivista nel diritto”, 2009, n. 3, 446 ss.
81
Da ultimo, a conforto della ricostruzione offerta si rinvia alle fondamentali
Adunananze Plenarie 3 e 15 del 2011 del Consiglio di Stato, nonché al d.l. 138/11,
conv. in legge 148/2011, di parziale sconfessione del dictum espresso dal Supremo
Consesso Amministrativo.
92
decreto del Presidente del Consiglio, all’uopo emanato, non avente natura
regolamentare ed adottato su proposta del Ministro competente, sentito il
Ministro per la funzione pubblica.
Invero, l’art. 20, 1. n. 241 del 1990, come riscritto dall’art. 3, comma
6 ter, d.l. n. 35 del 2005, nel testo risultante dopo la legge di conversione n.
80 del 2005, prevede che ‘‘fatta salva l’applicazione dell’articolo 19, il
silenzio dell’amministrazione competente equivale a provvedimento di accoglimento della domanda, senza necessità di ulteriori istanze o diffide, se
la medesima amministrazione non comunica all’interessato, nel termine di
cui all’articolo 2, commi 2 o 3, il provvedimento di diniego, ovvero non
procede ai sensi del comma 2 del presente articolo”.
Il silenzio-assenso, dunque, nei procedimenti ad istanza di parte, perde
il carattere di istituto eccezionale, destinato ad operare nelle tassative
ipotesi previste, per divenire istituto generale82.
82
Il legislatore ha, tuttavia, escluso dal suo ambito di applicazione talune ipotesi. La
formazione del silenzio-assenso è esclusa in primo luogo allorché l'amministrazione
avvii una procedura di conferenza di servizi entro trenta giorni dalla domanda.
Utilizzando l'art. 20, comma 2, l'espressione ''può indire", deve ritenersi che l'eccezione
riguardi le ipotesi di conferenza di servizi facoltativa. È lo stesso avvio del
procedimento di conferenza a costituire indice della necessità di una valutazione
comparativa di interessi e, quindi, di un'espressa determinazione in merito. Non trova
applicazione la regola del silenzio-assenso in una serie di ulteriori ipotesi, individuabili
per categorie di materie o di norme:
a) gli atti e i procedimenti riguardanti le materie sensibili del patrimonio culturale e
paesaggistico, dell'ambiente, della difesa nazionale, della pubblica sicurezza e
dell'immigrazione, della salute e della pubblica incolumità, che, in considerazione della
rilevanza costituzionale degli interessi ad esse sottesi, devono essere oggetto di
un'espressa determinazione amministrativa, non essendo possibile utilizzare meccanismi
di equiparazione al provvedimento espresso di comportamenti inerti;
b) i casi in cui la normativa comunitaria impone l'adozione di provvedimenti
amministrativi formali; si è in proposito osservato che la disposizione non riguarda le
ipotesi in cui la normativa comunitaria impone espressamente un provvedimento
amministrativo formale. Il riferimento è invece alle ipotesi in cui è indispensabile una
espressa valutazione amministrativa, come un accertamento tecnico o una verifica. In
conclusione, il silenzio-assenso, non può trovare applicazione in tutti i casi in cui
sussiste la necessità di svolgere una specifica attività istruttoria, vuoi in considerazione
della natura degli interessi coinvolti vuoi perché la stessa normativa affida all'autorità
procedente il potere di imporre prescrizioni e cautele a riprova che si richiede un
provvedimento ad hoc;
c) i casi in cui la legge qualifica il silenzio dell'amministrazione come provvedimento
di rigetto dell'istanza;
d) i casi in cui una disposizione regolamentare, ovvero atti e procedimenti individuati
con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro
per la funzione pubblica, di concerto con i Ministri competenti, escludono l'applicazione
del silenzio-assenso. I decreti in questione, essendo diretti a determinare in via generale
ed astratta la disciplina applicabile ad una serie di procedimenti, hanno natura
regolamentare. Non si tratta, tuttavia, di regolamenti di delegificazione, difettando dei
93
Al ricorrere delle condizioni indicate, la mancata adozione del
provvedimento finale (nei termini fissati dall’art. 2 della legge n. 241/90,
che generalizza l’obbligo della P.A. di concludere il procedimento con
l’adozione di un provvedimento espresso, entro termini certi e prefissati)
“equivale a provvedimento di accoglimento della domanda”.
La modifica apportata dal legislatore del 2005 si è rivelata, dunque, di
grande impatto, avendo rovesciato il rapporto di regola ad eccezione:
diversamente dalla previgente disciplina, che confinava l’operatività del
silenzio assenso ad ipotesi determinate, oggi costituisce la regola che la
richiesta del privato debba dirsi assentita qualora la P.A. non si sia
determinata entro il termine previsto per provvedere. Diversamente, è
l’inoperatività del silenzio assenso a costituire l’eccezione. Importante
osservare - passando dall’ambito applicativo alla concreta disciplina
dell’istituto - che, decorso il termine per la formazione del silenzio-assenso,
l’esaurimento del potere della P.A. di provvedere in maniera espressa è,
comunque, compensato dalla possibilità di incidere sugli effetti illegittimi
del silenzio-assenso agendo in autotutela.
In tal caso, però, l’eliminazione del silenzio non consegue automaticamente alla valutazione dell’illegittimità, ma presuppone il riscontro di
ragioni di pubblico interesse nella direzione della cancellazione dell’atto.
La conclusione trova positivo sostegno nel nuovo testo dell’art. 20, L
n. 241 del 1990, il cui comma 3 specifica che, nei casi in cui il silenzio
requisiti formali e sostanziali di cui all'art. 17, comma 2, L. 23 agosto 1988, n. 400; gli
stessi, peraltro, non delegificano un determinato settore, limitandosi a mantenere il
regime legislativo preesistente.
L'art. 9, 1. n. 69/2009, ha da ultimo inserito nell'art. 20, comma 4, 1. n. 241/1990, il
riferimento alle materie dell'immigrazione, dell'asilo e della cittadinanza, allo scopo di
sottrarle al meccanismo del silenzio provvedi mentale. L'innovazione appare coerente
con la parallela incisione dell'art. 19, legge medesima, di cui si è detto nel paragrafo
dedicato alla d.i.a., e la cui ratio consiste nella opportunità di evitare l'automatica
formazione di un provvedimento tacito di accoglimento della istanza in ambiti, quali
quelli specificati nel comma 4 dell'art. 20, 1. n. 241/1990, in cui la delicatezza degli
interessi coinvolti impone la necessità di una adeguata ponderazione a cura
dell'amministrazione competente, di cui la stessa possa dare conto nella motivazione
esplicita del provvedimento conclusivo. Infine, l'art. 7, L n. 69/2009, ha sostituito
l'ultimo comma dell'art. 20, 1. n, 241/1990, che ora così dispone: "Si applicano gli
articoli 2, comma 7, e l0-bis", Si tratta di adeguamento normativo reso indispensabile
dalle modifiche, apportate dalle altre disposizioni della novella. Ed invero l'originario
riferimento al comma 4 dell'art. 2, 1. n. 241/1990, è sostituito dal rinvio al comma 7,
stesso articolo, in cui risulta confluito, con alcune precisazioni, il contenuto del comma
4, avente ad oggetto l'istituto della sospensione del termine di conclusione del
procedimento amministrativo; resta immutato il richiamo all'art. 10-bis, disciplinante il
preavviso di rigetto. L'applicazione al silenzio-assenso delle disposizioni in materia di
sospensione del termine per provvedere e di comunicazione dei motivi ostativi
dell'accoglimento dell'istanza comprova la valenza provvedimentale dell'istituto.
94
equivale ad accoglimento della domanda, l’amministrazione competente
può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21quinquies e 21-nonies.
Il richiamo a tali disposizioni conferma, del resto, la natura
provvedimentale del silenzio-assenso, a tutti gli effetti equiparato ad un
provvedimento, suscettibile di rimozione tramite l’esercizio del potere di
autotutela della P.A. procedente.
7.1. Il silenzio-assenso quale strumento di semplificazione
Questa essendo la disciplina attuale del silenzio-assenso, qualche
riflessione si impone in merito alla possibilità di scorgere in tale istituto
uno strumento da valorizzare nel perseguire una politica di semplificazione
procedimentale.
Viene in considerazione, al riguardo, il primo dei tre interrogativi
prima enunciati.
È possibile evitare che la semplificazione del procedimento amministrativo passi inevitabilmente per una deprecabile deresponsabilizzazione
dell’amministrazione e dei suoi agenti? Può escludersi che il silenzioassenso sia un meccanismo cui ricorrere solo per “eludere” i problemi
strutturali di un’amministrazione non sempre in grado di svolgere in modo
adeguato ed efficiente, nell’ambito del procedimento, le funzioni che le
sono assegnate?
Soprattutto, non è più fisiologico imporre ed assicurare (con responsabilizzazioni e conseguenti sanzioni per i ritardi, oltre che con
adeguati poteri sostitutivi) il rilascio di provvedimenti espressi in un tempo
ragionevolmente prestabilito, incidendo sulle cause strutturali dei ritardi,
oltre che dotando il cittadino di strumenti rimediali adeguati da sperimentare per ovviare alle inerzie?
Il silenzio assenso e la sua propagandata generalizzazione non si
pongono in contraddizione con l’obbligo generale di concludere il procedimento con provvedimento espresso, finendo col legittimarne l’elusione, a
danno dei principi di buona amministrazione83?
8. Il silenzio-inadempimento
Un riferimento è d’obbligo, a questo punto, alla nuova disciplina del
silenzio-inadempimento, in specie volto ad esprimere l’apprezzamento per
la scelta dello stesso legislatore del 2005 di snellire l’iter di formazione
83
SANDULLI, op. cit.
95
dello stesso (con l’eliminazione della necessità della previa diffida) e, per
quel che più conta, con la prevista trasformazione del giudizio
amministrativo avverso il silenzio, ormai volto (almeno quando l’inerzia
contestata non sia stata serbata in relazione ad istanze il cui soddisfacimento implichi esercizio di discrezionalità) all’accertamento della
fondatezza sostanziale della pretesa, anziché della sola violazione ad opera
dell’amministrazione della tempistica procedimentale.
Scelta questa - coerente peraltro con un’idea prospettata oltre trenta
anni fa da Mario Nigro e fatta propria dalla storica pronuncia
dell’Adunanza plenaria del 1978 (prima che fosse rimessa in discussione
dalla stessa Plenaria nel 2002, per vero in un mutato contesto normativo) quanto mai opportuna al fine di evitare che il processo amministrativo
possa a sua volta divenire, a causa della non risolutività delle decisioni
all’esito dello stesso adottate, momento di ulteriore complicazione
amministrativa, anziché fattore di definitiva risoluzione delle inerzie
dell’amministrazione.
Si tratta, quindi, di intervento apprezzabile laddove irrobustisce le
forme rimediali assegnate al privato a fronte dell’inerzia dell’amministrazione.
Se accompagnata dalla previsione della risarcibilità dei danni da
ritardo, in disparte la spettanza del bene della vita invano chiesto
all’amministrazione, saremmo al cospetto di un sistema normativo capace
di sortire un effetto di deterrenza nei confronti delle amministrazioni inerti,
chiamate quindi a fare responsabilmente i conti con le cause della
inefficienza.
Con parziale favore vanno salutate, al riguardo, le previsioni contenute nella legge n. 69/2009 in tema di termini dell’azione amministrativa e
di conseguenze relative al mancato rispetto degli stessi. Giova passarle in
rassegna.
8.1. Le novità introdotte dalla legge 18 giugno 2009, n. 69
Su un primo versante, riscrivendo l’art. 2, legge n. 241/199084,
ridefinisce i termini per provvedere, anche attraverso la limitazione del
ricorso ad evenienze sospensive o interruttive della relativa durata.
84
Così riformulato: "Art. 2 - Conclusione del procedimento.
Ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un 'istanza, ovvero debba
essere iniziato d'ufficio, le pubbliche amministrazioni hanno il dovere di concluderlo
mediante l'adozione di un provvedimento espresso.
Nei casi in cui disposizioni di legge ovvero i provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5
non prevedono un termine diverso, i procedimenti amministrativi di competenza delle
96
È così introdotta una nuova disciplina dei termini massimi di
conclusione dei procedimenti improntata a una generale abbreviazione dei
termini stessi rispetto all’assetto previgente, nonché a principi di certezza,
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali devono concludersi entro il
termine di trenta giorni.
Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, adottati ai sensi
dell'art. 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta dei Ministri
competenti e di concerto con i Ministri per la Pubblica Amministrazione e l'innovazione
e per la semplificazione normativa, sono individuati i termini non superiori a novanta
giorni entro i quali devono concludersi i procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali. Gli enti pubblici nazionali stabiliscono, secondo i propri
ordinamenti, i termini non superiori a novanta giorni entro i quali devono concludersi i
procedimenti di propria competenza.
Nei casi in cui, tenendo. conto della sostenibilità dei tempi, sotto il profilo
dell'organizzazione amministrativa, della natura degli interessi pubblici tutelati e della
particolare complessità del procedimento; sono indispensabili termini superiori a
novanta giorni per la conclusione dei procedimenti di competenza delle
amministrazioni statali e degli enti pubblici nazionali, i decreti di cui al comma 3 sono
adottati su proposta anche dei Ministri della Pubblica Amministrazione e l'innovazione
e per la semplificazione normativa e previa deliberazione del Consiglio dei Ministri. I
termini ivi previsti non possono comunque superare i centottanta giorni, con la sola
esclusione dei procedimenti di acquisto della cittadinanza italiana e di quelli
riguardanti l'immigrazione.
Fatto salvo quanto previsto da specifiche disposizioni normative, le autorità di
garanzia e di vigilanza disciplinano, in conformità ai propri ordinamenti, i termini di
conclusione dei procedimenti di rispettiva competenza.
I termini per la conclusione del procedimento decorrono dall'inizio del procedimento
d'ufficio o dal ricevimento della domanda, se il procedimento è a iniziativa di parte.
Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 17, i termini di cui ai commi 2, 3, 4 e 5 del
presente articolo possono essere sospesi, per una sola volta e per u n periodo non
superiore a trenta giorni, per l'acquisizione di informazioni o di certificazioni relative a
fatti, stati o qualità non attestati in documenti già in possesso dell'amministrazione
stessa e non direttamente acquisibili presso altre pubbliche amministrazioni. Si
applicano le disposizioni dell'articolo 14, comma 2.
Salvi i casi di silenzio assenso, decorsi i termini per la conclusione del
procedimento, il ricorso avverso il silenzio dell'amministrazione, ai sensi dell'articolo
21 bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, può essere proposto anche senza necessità
di diffida all'amministrazione inadempiente, fintanto che perdura l'inadempimento e
comunque non oltre un anno dalla scadenza dei termini di cui ai commi 2 o 3 del
presente articolo. Il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell'istanza.
É fatto salva la riproponibilità dell'istanza di avvio del procedimento ore ne ricorrono i
presupposti.
La mancata emanazione del provvedimento nei termini costituisce elemento di
valutazione della responsabilità dirigenziale". Si veda, poi, l’art. 31 del d.lgs 104/2010
(Codice del Processo Amministrativo) in cui, sia pure con parziali ma non
apprezzabilmente significative modifiche, è stato trasportato il comma 8 dell’articolo
in parola.
97
uniformità ed estremo rigore circa il momento entro il quale la P.A. è
tenuta a definire il procedimento da essa gestito.
Su un secondo fronte, la legge 18 luglio 2009, n 69, introduce
previsioni dichiaratamente intese ad accrescere la tutela degli amministrati
a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti pubblici nella definizione dei
procedimenti amministrativi.
In tale prospettiva, vengono in rilievo due significative novità. Da un
lato, il riconoscimento esplicito della risarcibilità del c.d. danno da ritardo
contenuto nel “nuovo” art. 2-bis della legge n. 241, a tenore del quale “le
pubbliche amministrazioni e i soggetti di cui all’art. 1, comma 1-ter, sono
tenuti al risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza
dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del
procedimento.
Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono
attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto
al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni’’.
Dall’altro, la legge 18 giugno 2009, n. 69, nell’intento di accrescere la
tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei soggetti
pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi, prevede
espressamente che i predetti ritardi possono essere causa di responsabilità
dei dirigenti amministrativi.
Invero, il novellato art. 2, legge n. 241 del 1990, così recita al suo
ultimo comma: “La mancata emanazione del provvedimento nei termini
costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale’’.
Correlativamente, il comma 2 dell’art. 7 della legge n. 69 del 2009 dispone:
“II rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un
elemento di valutazione dei dirigenti; di esso si tiene conto al fine della
corresponsione della retribuzione di risultato. Il Ministro per la pubblica
amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro per la
semplificazione normativa, adotta le linee di indirizzo per l’attuazione del
presente articolo e per i casi di grave e ripetuta inosservanza dell’obbligo
di provvedere entro i termini fissati per ciascun procedimento”.
Si tratta di previsioni coerenti con i più generali intenti di incremento
dell’efficienza e della produttività che hanno ispirato la più recente
produzione legislativa in materia di organizzazione e funzionamento della
pubblica amministrazione, in specie la nota legge 4 marzo 2009, n. 15 (c.d.
“legge Brunetta” o “anti-fannulloni”).85
85
Fra i primi commenti, CLARICH, La "cura Brunetta" punta su formazione e premi
ma il giudizio è rinviato ai decreti legislativi, in “Guida dir.”, 2009, n. 13, 38 ss.
98
8.1.2. La ristorabilità del danno da ritardo
1)
2)
3)
Come osservato, a norma dell’art. 2 bis, l. n. 241/1990, “Le pubbliche
amministra:doni e i soggetti di cui all’art. 1, comma l-ter; sono tenuti al
risarcimento del danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento.
Le controversie relative all’applicazione del presente articolo sono
attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Il diritto
al risarcimento del danno si prescrive in cinque anni’’.
L’inosservanza del termine di conclusione del procedimento
amministrativo, nella sistematica della legge n. 69/2009, integra, altresì, un
elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale, come esplicitato
dal comma 9 dell’art. 2, l. n. 241/1990. Mentre, tuttavia, la responsabilità
dirigenziale incombe sul dirigente, in aggiunta a quella cd. erariale, nei suoi
rapporti con l’amministrazione alle dipendenze della quale svolge la
propria attività lavorativa, la responsabilità per danno da ritardo di cui
all’art. 2 bis, l. n. 241/1990, grava sulla Pubblica Amministrazione,
obbligandola a risarcire il cittadino del danno ingiusto che questo abbia
patito in conseguenza della inosservanza, dolosa o colposa, del termine di
conclusione del procedimento amministrativo, integrando un istituto
rimediale a disposizione del privato, aggiuntivo rispetto all’impugnazione
del silenzio.
Giova considerare che, con riferimento al danno da ritardo, vengono
in considerazione tre distinte questioni interpretative, tutte già esaminate in
giurisprudenza:
la prima, di tipo sostanziale, attiene all’individuazione dei presupposti di
ristorabilità del danno da ritardo e, prima ancora, all’identificazione delle
posizioni soggettive tutelate dal meccanismo risarcitorio attivabile contro la
P.A. colpevole del ritardo stesso: problematica, questa, che consente di
vedere riproposta la contrapposizione teorica tra le due opzioni, aquiliana e
contrattuale, relative alla natura giuridica della responsabilità dell’amministrazione;
la seconda, di tipo processuale, relativa all’individuazione del giudice
innanzi al quale proporre la pretesa risarcitoria avente ad oggetto i danni da
ritardo;
la terza, parimenti a carattere squisitamente processuale, riguardante
l’estensibilità della nota regola della pregiudizialità alle domande
risarcitorie aventi ad oggetto il pregiudizio asseritamente subito non già per
effetto di provvedimento annullabile dal giudice amministrativo, ma in
conseguenza del mero silenzio dell’amministrazione.
Ebbene la novella:
99
1)
2)
3)
non pare idonea a fugare i dubbi interpretativi emersi in dottrina e
giurisprudenza con riguardo ai presupposti di ristorabilità del danno da
ritardo, in specie con riferimento alla risarcibilità del danno da ritardo
mero;
interviene decisamente sulla seconda, con la devoluzione alla giurisdizione
esclusiva del giudice amministrativo delle controversie nelle quali si fa
questione del danno da ritardo;
non si occupa della questione relativa alla proponibilità in forma autonoma
della domanda risarcitoria avente ad oggetto il danno da ritardo, non
preceduta dal previo esperimento del ricorso avverso il silenzio.
Giova soffermarsi sul primo dei tre indicati profili.
8.1.2.1. La risarcibilità del danno da ritardo mero: il dibattito svolto si
prima della riforma
Come è noto, prima della novella, controversa è apparsa la questione
relativa alla spettanza della tutela risarcitoria laddove l’amministrazione
adotti un provvedimento sfavorevole, legittimo, ma con ritardo rispetto ai
tempi ordinari del procedimento: è questa l’ipotesi del c.d. da ritardo mero,
che s’identifica nella lesione dell’interesse procedimentale (e, dunque, non
collegata al bene sostanziale della vita) del privato alla tempestiva
conclusione del procedimento, nel termine di cui all’art. 2, l. n. 241 del
1990, a prescindere, quindi, dall’effettiva lesione del bene finale al cui
conseguimento l’istanza era rivolta.
Ci si è chiesti, quindi, se l’interesse del privato al rispetto della
tempistica procedimentale da parte della P.A. sia risarcibile ex se, a
prescindere dalla spettanza del bene della vita richiesto ed indipendentemente dalla successiva emanazione e dal contenuto del provvedimento oggetto dell’istanza.
In quest’ottica, si muoveva l’art. 17, comma 1, letto f), l. 15 marzo
1997, n. 59, che ipotizzava “forme di indennizzo automatico e forfettario
per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento e di mancata o
ritardata adozione del provvedimento”.
La previsione richiamata assicurava un quid minimum di ristoro
patrimoniale in via forfettaria; non escludeva, tuttavia, che il soggetto
danneggiato dal mancato rispetto della tempistica procedimentale potesse
provare di aver subito un danno in misura superiore rispetto a quella
forfettariamente determinata in base alla legge del 1997.
Diversi erano, infatti, i presupposti condizionanti, rispettivamente,
l’attivazione del meccanismo forfettario ipotizzato dal citato art. 17 e di
quello propriamente risarcitorio; l’indennizzo presupponeva il mero fatto
dell’inadempimento dell’obbligo di provvedere, non anche la valutazione
100
circa la maggiore o minore fondatezza, sul piano sostanziale, della pretesa
del privato.
Ad ogni modo, i dubbi interpretativi sollevati dalla disposizione in
esame, contenuta in un disegno di legge delega, non si sono mai
concretizzati, non essendo mai stata attuata la delega.
Il problema di fondo consiste nel verificare se sia o meno risarcibile il
danno da ritardo indipendentemente dalla fondatezza della pretesa azionata
dal privato con l’istanza. In altri termini, occorre stabilire se l’affidamento
del privato nella certezza dei tempi dell’azione amministrativa sia
meritevole di tutela in sé, a prescindere dal conseguimento dell’utile finale
cui l’istanza era preordinata.
Diverse le posizioni interpretative al riguardo emerse.
Per un primo indirizzo, va riconosciuta la responsabilità della P.A.
per il solo fatto del ritardo, in assenza quindi di ogni indagine sulla
spettanza del bene della vita o dell’utilità finale: si sostiene, invero, che
“non è ontologicamente corretto limitare le lesioni dell’interesse legittimo
al solo provvedimento (allorché esso sia, non solo illegittimo, ma anche
sfavorevole). Ogni violazione di principi e di regole che riguardino
qualsiasi aspetto dell’azione amministrativa, in quanto impedisca,
complichi o ritardi la determinazione (o il mantenimento) di un
favorevole assetto degli interessi (finali), per ciò stesso lede l’interesse
legittimo, anche se l’azione amministrativa si conclude in un
provvedimento sfavorevole (e legittimo). L’inerzia, il ritardo
nell’adozione del provvedimento, l’andamento contraddittorio, confuso,
inutilmente gravoso dell’amministrazione provocano la lesione
dell’interesse legittimo, allo stesso modo in cui provoca lesione il
provvedimento finale sfavorevole”.
Si tratta di impostazione che, in qualche misura, pare evocare la
ricostruzione dogmatica della responsabilità della P.A. come responsabilità
da contatto o paracontrattuale, più vicina a quella contrattuale che a quella
aquiliana, derivante dalla sola violazione dei doveri funzionali di legalità,
imparzialità ed efficienza gravanti sull’amministrazione, analoghi agli
obblighi di protezione nelle obbligazioni di diritto privato; ricostruzione
che, come è noto, svincola la tutela risarcitoria dal giudizio sulla spettanza
del bene della vita o della chance di conseguirlo, reputando sufficiente
l’acclarata violazione degli obblighi procedimentali, in cui il contatto
qualificato si concreta.
La tutela risarcitoria, secondo questa ricostruzione, è, quindi,
accordata in considerazione della riscontrata violazione degli obblighi
procedimentali, tra cui quello alla definizione tempestiva del procedimento
amministrativo, a prescindere dalla spettanza o meno del bene della vita.
101
Sviluppando la riportata impostazione, Cons. St., sez. IV, 7 marzo
2005, n. 875, nel rimettere la relativa questione all’Adunanza Plenaria, ha
ricostruito il danno da ritardo come pregiudizio conseguente alla violazione
dell’interesse al rispetto dei tempi di definizione dell’istanza prescritti dalla
legge.
A fondamento dell’assunto, i giudici di Palazzo Spada, oltre a richiamare la tesi della natura contrattuale della responsabilità della P.A.
(da contatto amministrativo qualificato), hanno sostenuto che
l’affidamento del privato alla certezza dei tempi dell’azione
amministrativa è - nell’attuale realtà economica e nella moderna
concezione del c.d. rapporto amministrativo - interesse meritevole di
tutela in sé considerato, non essendo sufficiente relegare tale tutela alla
previsione e all’azionabilità di strumenti processuali a carattere
propulsivo, che si giustificano solo nell’ottica del conseguimento
dell’utilità finale, ma appaiono poco appaganti rispetto all’interesse del
privato a vedere definita con certezza la propria posizione in relazione a
un’istanza rivolta all’amministrazione.
Sulla questione è intervenuto Cons. St., Ad Plen., 15 settembre 2005,
n. 7, optando per la non ristorabilità del danno da ritardo mero.
Ad avviso dei giudici della Plenaria, invero, il danno da ritardo è
risarcibile solo quando emerga la spettanza del provvedimento favorevole;
quando il provvedimento adottato in ritardo è (legittimamente) negativo, il
ritardo dell’agire amministrativo non è fonte autonoma di risarcimento.
Invero, “il sistema di tutela degli interessi pretensivi - nelle ipotesi in cui si
fa affidamento sulle statuizioni del giudice per la loro realizzazione consente il passaggio a riparazioni per equivalente solo quando l’interesse
pretensivo, incapace di trovare realizzazione con l’atto, in congiunzione
con l’interesse pubblico, assuma a suo oggetto la tutela di interessi
sostanziali e, perciò, la mancata emanazione o il ritardo nella emanazione
di un provvedimento vantaggioso per l’interessato (suscettibile di appagare
un “bene della vita’’)’’.
8.1.2.2. La fattispecie di cui all’art. 2 bis, l. n. 241/1990: persa un’occasione per la soluzione del problema?
La positivizzazione dell’istituto della responsabilità per danno da
ritardo era già stata inserita nel disegno di legge Nicolais, A.S. 1859,
presentato alle camere dal governo della scorsa legislatura, poi decaduto e,
quindi, ripresentato integralmente dal nuovo governo nel corso della XVI
legislatura.
Nella sua originaria formulazione, la previsione di cui al d.d.l. A.C.
1441 stabiliva che il risarcimento di danno ingiusto cagionato in
102
conseguenza della inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento fosse dovuto dalle Pubbliche Amministrazioni e
soggetti assimilati “indipendentemente dalla spettanza del beneficio derivante dal provvedimento richiesto”.
Nel comma 2 era inoltre prevista, “indipendentemente dal risarcimento del danno”, la corresponsione ai soggetti istanti, per il mero
ritardo, di una somma di denaro stabilita in misura fissa ed eventualmente
progressiva (da stabilirsi con regolamento governativo ex art. 17, comma 1,
L n. 400/1988), “tenuto conto anche della rilevanza degli interessi
coinvolti nel procedimento stesso’’.
In sede di stesura definitiva, sia il riferimento alla autonomia del
danno dalla spettanza del beneficio che quello relativo alla sanzionabilità
del ritardo indipendentemente dalla dimostrazione del pregiudizio sono
state espunte dal testo della norma, fomentando quindi, anziché sopire, la
diatriba in materia di giustiziabilità del danno da ritardo.
In dottrina, sono già emerse tesi contrapposte.
Per una prima impostazione, che valorizza l’espressa previsione della
giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo per il contenzioso
risarcitorio avente ad oggetto il danno da ritardo, l’odierna opzione normativa, implicando il riconoscimento - quanto meno in alcuni casi - della
natura di vero e proprio diritto dell’interesse dei privati alla tempestiva
conclusione del procedimento, confermerebbe la natura contrattuale della
relativa responsabilità dell’amministrazione: tanto sull’assunto della
tradizionale concezione della giurisdizione esclusiva come limitata a
materie caratterizzate da “intreccio” di situazioni di diritto soggettivo e
interesse legittimo86.
Su altro versante, tuttavia, chi, non senza fondamento, ritiene la nuova
disposizione non idonea a modificare le conclusioni già raggiunte dalla
prevalente giurisprudenza, tanto più in considerazione del ripensamento dei
compilatori rispetto alla prima versione del d.d.l., idoneo a suggerire la
86
Cfr. VACCA, Ontologia della situazione giuridica soggettiva sottesa all'azione di
risarcimento del danno conseguente all'inadempimento da parte della pubblica
amministrazione dell'obbligo di esercitare il potere amministrativo (alla luce della
legge 18 giugno 2009 n. 69), in “www.lexitalia.it” (luglio 2009), il quale, muovendo
dalla tradizionale concezione della giurisdizione esclusiva come limitata a materie
caratterizzate da "intreccio" di situazioni di diritto soggettivo e interesse legittimo,
conclude che l'odierna opzione normativa, implicando il riconoscimento - quanto meno
in alcuni casi - dalla natura di vero e proprio diritto dell'interesse dei privati alla
tempestiva conclusione del procedimento, confermerebbe la natura contrattuale della
relativa responsabilità dell'amministrazione.
103
volontà legislativa di non disancorare il risarcimento del danno da ritardo
dalla spettanza del beneficio sotteso al provvedimento omesso87.
In tal senso, e contrariamente all’avviso poc’anzi riferito, non si
ritiene decisiva neanche la previsione della giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo, verosimilmente volta a dissipare una volta per tutte
i dubbi insorti all’indomani della nota sentenza della Corte Costituzionale
del 6 luglio 2004, n. 204, allorché in talune pronunce si era ipotizzata
l’estraneità alla sfera di cognizione del giudice amministrativo delle azioni
da risarcimento da silenzio o da ritardo, essendo questi ultimi meri
comportamenti, e non atti né provvedimenti88.
8.1.3. La nuova ipotesi di responsabilità dirigenziale: i rapporti con. la
responsabilità dirigenziale prevista dall’art. 21, D.lgs. n.165 de1 2001
Come osservato, la legge 18 giugno 2009, n. 69, nell’intento di
accrescere la tutela degli amministrati a fronte di ritardi e inefficienze dei
soggetti pubblici nella definizione dei procedimenti amministrativi,
prevede espressamente che i predetti ritardi possono essere causa di
responsabilità dei dirigenti amministrativi.
Invero, il novellato art. 2, legge n. 241 del 1990, così recita al suo
ultimo comma: “La mancata emanazione del provvedimento nei termini
costituisce elemento di valutazione della responsabilità dirigenziale”.
Correlativamente, il comma 2 dell’art. 7 della ridetta legge n. 69 del 2009
dispone: “II rispetto dei termini per la conclusione dei procedimenti rappresenta un elemento di valutazione dei dirigenti; di esso si tiene conto al
fine della corresponsione della retribuzione di risultato. Il Ministro per la
pubblica amministrazione e l’innovazione, di concerto con il Ministro per
la semplificazione normativa, adotta le linee di indirizzo per l’attuazione
del presente articolo e per i casi di grave e ripetuta inosservanza dell’obbligo di provvedere entro i termini fissati per ciascun procedimento”.
Ciò posto, vanno segnalati i problemi di coordinamento che la nuova
previsione in tema di responsabilità dirigenziale pone con la generale
87
GRECO, I nuovi profili della responsabilità dirigenziale nella legge 18 luglio 2009,
n. 69, in GAROFOLI, La nuova disciplina del procedimento e del processo
amministrativo, Nel diritto editore, 2009.
88
Dubbi per vero già superati dalla prevalente giurisprudenza, la quale aveva in
contrario affermato trattarsi comunque di controversie aventi a oggetto l'esercizio, o
meglio il mancato esercizio, dei poteri funzionali e autoritativi della P.A., come tali
certamente rientranti nel perimetro della cognizione del giudice amministrativo. Cass,
s.u., 31 marzo 2005, n. 6745, in Giur. it., 2005, 1949; Cons. St., Ad. Plen., n. 7/2005,
cit.
104
disciplina in subiecta materia contenuta nel D. lgs. 30 marzo 2001, n. 165,
non inciso dalla riforma.
Problemi applicativi la nuova previsione può anche innescare se si ha
riguardo alle ipotesi in cui il responsabile del procedimento ex art. 5 l. n.
241/90 non rivesta qualifica dirigenziale89.
Giova esaminare dapprima i problemi di coordinamento tra la nuova
previsione e la generale disciplina in subiecta materia contenuta nel D.lgs.
30 marzo 2001, n. 165.
Occorre, invero, valutare se la nuova previsione oggi inserita
nell’ultimo comma dell’art. 2, l. n. 241 del 1990, secondo cui il mancato
rispetto dei termini di conclusione del procedimento amministrativo
“costituisce elemento di valutazione” della responsabilità dirigenziale,
importi o meno l’introduzione di una ipotesi ulteriore di responsabilità
dirigenziale, destinata ad aggiungersi alle due individuate dall’art. 21, d.lgs.
n. 165 del 2001.
Va senz’altro esclusa la possibilità di ricondurre la nuova fattispecie
alla figura della “inosservanza di direttive”, considerandola un’ipotesi
particolare di essa.
Invero, le “direttive” richiamate dall’art. 21 vanno identificate in
quelle impartite dall’organo di indirizzo politico, connesse con gli obiettivi
individuati nel provvedimento di incarico; per contro, l’obbligo di
osservare i termini di conclusione dei procedimenti amministrativi - il cui
mancato rispetto, secondo la norma, può costituire elemento di valutazione
della responsabilità del dirigente - non discende da siffatte direttive, ma
direttamente da disposizioni di legge o regolamento.
Parimenti problematico risulta ricondurre la nuova previsione alla
diversa ipotesi, ex art. 21 D.lgs. n. 165 del 2001, di “mancato raggiungimento degli obiettivi’’: anche in questo caso, infatti, gli “obiettivi’cui il legislatore ha inteso avere riguardo sono gli obiettivi specifici cui
è preordinato l’incarico dirigenziale, quali risultano individuati nel
provvedimento di conferimento, non già obiettivi generali dell’azione della
P.A., come il raggiungimento di risultati di efficienza ed efficacia, cui è
funzionale il rispetto dei termini di conclusione dei procedimenti
amministrativi di cui all’art. 2, l. n. 241/1990.
Come è stato attentamente osservato, allora, deve ritenersi che con la
novità legislativa che si esamina si è inteso introdurre una nuova ed
ulteriore ipotesi di responsabilità dirigenziale, destinata ad aggiungersi a
quelle già individuate dal non modificato art. 21 d.lgs. n. 165/200190.
89
Per una trattazione approfondita degli indicati aspetti, GRECO, I nuovi profili della
responsabilità dirigenziale nella legge 18 luglio 2009, n. 69, in GAROFOLI, La nuova
disciplina del procedimento e del processo amministrativo, Nel diritto editore, 2009.
90
GRECO, op. cit., il quale osserva che "ancora una volta, pertanto, il legislatore
interviene su un tessuto normativo 'sensibile', quale è quello in materia di ordinamento
105
8.1.3.1. Responsabilità dirigenziale e responsabilità del procedimento
Il rilievo ascritto dalla legge n. 69 del 2009 ai ritardi nella definizione
dei procedimenti amministrativi in sede di valutazione della responsabilità
dei dirigenti impone di scandagliare il rapporto tra tale peculiare
responsabilità e l’imputazione degli effetti dell’attività procedimentale al
responsabile del procedimento di cui all’art. 5, l. n. 241/90.
Come è noto, tale norma espressamente prevede il dovere del
dirigente di ciascuna unità organizzativa, come definita dal precedente art.
4, di assegnare la responsabilità dell’istruttoria e degli altri adempimenti
connessi a ogni singolo procedimento “a sé o ad altro dipendente addetto
all’unita’’; nella pratica, si individua quale responsabile del procedimento
un funzionario di livello non dirigenziale, ciò che ha posto l’ulteriore
questione del rapporto tra dirigente preposto all’unità organizzativa e
responsabile del procedimento.
Si è ritenuto, al riguardo, che non vi è contraddizione tra l’innovativa
introduzione di una nuova forma di responsabilità, circoscritta ai dirigenti e
strettamente connessa alla loro capacità di conseguire i risultati
programmati, e l’intento di accrescere al massimo, per ragioni di efficienza
e di trasparenza esterna, l’autonomia del responsabile della procedura,
funzionario sempre più spesso diverso dal dirigente, e tuttavia molto più di
questo a conoscenza delle problematiche sottese al procedimento.
Invero, si è sostenuto che la coerenza del sistema sia assicurata dalla
distinzione tra le possibili responsabilità (civile, penale, contabile etc.)
configurabili in capo al responsabile del procedimento per il proprio
operato all’interno delle singole procedure e la ben diversa responsabilità
del dirigente, concernente i profili generali di funzionamento dell’ufficio, la
sua efficienza, l’efficacia globale dell’azione condotta91.
Sul piano del rapporto interno fra il responsabile del procedimento e il
dirigente che lo nomina ai sensi dell’art. 5 L n. 241/90, il nuovo sistema si
caratterizzava per il superamento del tradizionale modello gerarchico del
rapporto tra dirigenza e dipendenti, in favore di un assetto incentrato sulla
della dirigenza pubblica e di relativa responsabilità, introducendo rilevanti novità in
una sedes eterogenea e senza interessare il testo fondamentale vigente in materia (nella
specie, il Testo Unico del pubblico impiego), e quindi con modalità foriere di possibili
dubbi ed equivoci interpretativi; tale tecnica legislativa, sempre più diffusa negli ultimi
anni, appare certamente censurabile (oltre che contrastante con i dichiarati intenti di
"codificazione" di interi settori normativi)''. Si veda, in ???? di responsabilità per
mancata conlcusione dei procedimenti, poi, il recente d.l. 5/2012.
91
In tal senso, POTENZA, Spunti innovatiti attuali nella disciplina della responsabilità
gestionale dei dirigenti degli enti locali, in “Foro amm.”, 1998, 2, 619 55.
106
separazione e reciproca interrelazione delle competenze, in senso
“orizzontale”.
Occorre verificare in che modo su questo modello incide la nuova
previsione di una possibile responsabilità del dirigente conseguente alla
violazione dei termini di durata massima dei procedimenti amministrativi.
Pare utile segnalare che il legislatore, mosso dall’intento di conseguire
obiettivi di semplificazione e di potenziamento delle garanzie dei cittadini a
fronte dell’azione della P.A., li abbia perseguiti non già introducendo più
puntuali previsioni relative alla responsabilità dei funzionari a diretto
contatto con gli amministrati, bensì introducendo una maggiore
responsabilizzazione del livello apicale dell’apparato, burocratico amministrativo.
Come è stato acutamente posto in risalto, non sarà semplice coniugare
l’inedita ipotesi di responsabilità dirigenziale. oggi prevista dall’art. 2,
comma 9, con quella che fino a oggi è stata la netta separazione del ruolo
del dirigente rispetto ai compiti e ai doveri attribuiti dalla legge al
responsabile del procedimento92.
9. La disciplina dettata dall’art. 21-octies, 1.241/1990
Un cenno merita, ancora, la disciplina dettata dall’art. 21-octies, L. 241
del 1990, già, peraltro, scrutinata sotto un diverso angolo visuale nel cap. 2
del presente lavoro, recante una previsione che, forse più delle altre, è
destinata ad avere un impatto decisivo sul sistema di tutela approntato dal
giudice amministrativo, non più tenuto ad arrestarsi alla valutazione della
illegittimità formale o procedimentale dell’atto impugnato, su cui non può
quindi abbattersi la scure dell’annullamento giurisdizionale allorché il
giudice si avveda della sua giustezza sostanziale all’esito del doveroso esame
prognostico circa gli esiti che il procedimento avrebbe avuto allorché l’errore
formale o procedimentale, pure acclarato, non fosse stato commesso.
Si tratta, sul versante processuale, di un clamoroso cambio di
prospettiva: l’atto amministrativo non è più l’oggetto esclusivo del giudizio
amministrativo, che deve invece estendersi, a patto che sia rispettato lo
spazio riservato alla discrezionalità amministrativa, al rapporto, con la
verifica di ciò che nella vicenda amministrativa sarebbe comunque
successo se pure le dedotte illegittimità non si fossero verificate.
Volgendo lo sguardo alle possibili implicazioni di tipo sostanziale e
procedimentale (anziché squisitamente processuale) della disposizione
citata, non è mancato chi ha nella stessa ravvisato una misura di
92
GRECO, op. cit.
107
semplificazione procedimentale, destinata ad aprire la via alla riduzione
della rilevanza degli adempimenti procedimentali.
Se così fosse, si tratterebbe di scelta non del tutto in linea con quelle
pure contestualmente fatte dallo stesso legislatore del 2005: quel
legislatore, infatti, ha mostrato, da un lato, la tendenza a rafforzare le
garanzie procedimentali - si pensi alla norma sulla comunicazione dei
motivi ostativi all’accoglienza dell’istanza: art. l0-bis, cui segue una
eventuale fase partecipativa - dall’altro, quella a deprezzarle.
Giova, sul punto, qualche riflessione, necessariamente sintetica. L’art.
21-octies, 1. 241 del 1990, costituisce il tentativo di codificare quelle
tendenze antiformaliste già apparse sia in dottrina che in giurisprudenza.
Orbene, premesso che l’impostazione antiformalista va senz’altro
condivisa, ci si deve però chiedere se effettivamente la nuova previsione
vada nel senso di semplificare l’azione amministrativa e renderla più
efficiente eliminando alcune formalità che costituivano un appesantimento.
Giova considerare, al riguardo, che le norme sul procedimento o la
forma degli atti non sono dettate per bizantinismi, costituendo viceversa il
precipitato di principi di grande rilievo, talvolta di rango costituzionale:
trasparenza, leale collaborazione, partecipazione al procedimento, accesso
agli atti.
Come è noto, peraltro, la legge n. 241 non ha minuziosamente
disciplinato il procedimento amministrativo, dettando alcune regole,
“poche ma forti”, che non sembrano certo da sé sole destinate ad indebolire
la tensione efficientistica dell’azione amministrativa93.
Regole, soprattutto, dettate a tutela del cittadino, oltre che della stessa
amministrazione.
In specie, la trasparenza dell’agere amministrativo e delle sue
decisioni, la partecipazione dei privati o delle altre autorità pubbliche al
procedimento, lungi dal costituire un aggravio dello stesso, consentono alla
stessa amministrazione procedente di avere una visuale migliore per
adottare le proprie determinazioni.
I principi e le regole introdotti dalla 241 non sono quindi meramente
formali.
Ove la riforma della 241 avesse inteso fare un passo indietro rispetto a
questi principi si aprirebbe un serio problema di costituzionalità.
Si tratta del noto dibattito, sorto all’indomani dell’entrata in vigore
della disposizione che si esamina, relativo alla sua natura sostanziale o
processuale:
- secondo una prima tesi, l’art. 21-octies ha trasformato i vizi di illegittimità
individuati al secondo comma in mere irregolarità. In particolare, secondo
93
CHIEPPA, Il nuovo regime dell'invalidità del provvedimento amministrativo, in
“www.giustizia-amministrativa.it”
108
una minoritaria posizione, l’art. 21-octies, configurerebbe addirittura una
sorta di esimente, in grado di sollevare la P.A. dall’obbligo di rispettare gli
artt. 7 e 8;
- secondo la tesi contrapposta, invece, l’art. 21-octies, non incide sul regime
giuridico dell’atto, cioè sulle categorie dell’irregolarità e dell’illegittimità,
ma semplicemente inibisce la pronuncia di annullamento dell’atto per
carenza dell’interesse a ricorrere. L’unico rimedio esperibile rimarrebbe,
pertanto, il risarcimento del danno, anche se è discussa la possibilità di
configurare un danno risarcibile quando il provvedimento concretamente
adottato non avrebbe potuto essere diverso. In questi casi, infatti, noni
sussiste solitamente una diretta lesione del bene della vita, ma
semplicemente una violazione dell’interesse al rispetto delle regole
procedurali, sulla cui risarcibilità esistono opinioni contrastanti.
L’impostazione ermeneutica che sembra trovare maggiori consensi in
dottrina e in giurisprudenza è quella che riconosce nella disposizione in esame la codificazione del principio giuridico del raggiungimento del risultato.
L’invalidità del provvedimento, secondo questa ipotesi ricostruttiva,
diventa irrilevante, in quanto il ricorrente non può attendersi dalla
rinnovazione del procedimento una decisione diversa da quella adottata. La
novella legislativa non avrebbe fatto altro, quindi, che accogliere le istanze
della dottrina e della giurisprudenza che già da tempo sottolineavano come
la sanzione dell’annullamento appaia inutile e, sotto certi aspetti, persino
dannosa per il privato, qualora sia evidente che all’annullamento conseguirebbe comunque un provvedimento, questa volta formalmente legittimo, sfavorevole al ricorrente. In conclusione, l’art. 21-octies, comma 2,
della legge 241/90, pure simile alla previsione contenuta nell’ordinamento
tedesco, appare pericoloso in specie laddove, non correttamente inteso,
rischia di depotenziare la funzione partecipativa del cittadino al procedimento amministrativo.
Il rischio più forte è quello di un disorientamento dell’amministrazione, che farebbe meglio a non tenere conto della norma in sede
amministrativa, limitandosi ad utilizzarla in sede giurisdizionale, quando
sono stati commessi degli errori e non si è riusciti a correggerli attraverso
l’esercizio del potere di autotutela94.
Scontato ricordare le profonde radici che il diritto del destinatario ad
essere sentito, prima dell’adozione di un provvedimento non favorevole, ha
in altre civiltà giuridiche, ritenute meno formaliste della nostra: in Gran
Bretagna, la regola dell’audi alteram partem, il diritto di essere sentiti, dal
processo è passato al procedimento amministrativo ed è divenuta una
garanzia (essenziale) ineludibile per gli interessati a seguito di pronunzie
delle Corti giudiziarie inglesi su casi amministrativi risalenti al seicento ed
94
Ibidem.
109
al settecento. Pare piuttosto contraddittorio, allora, oltre che configgente
con il principio di democraticità dell’azione amministrativa, pensare che la
semplificazione dei procedimenti amministrativi possa passare per
l’introduzione di una estesa dimidiazione delle regole formali e
procedimentali e per un ridimensionamento del rilievo che l’inosservanza
delle stesse può sortire in termini di patologia del provvedimento finale
adottato dall’amministrazione.
10. Riforma dell’amministrazione ed evoluzione del processo amministrativo: è possibile una sinergia? La delega per il riassetto della giustizia amministrativa introdotta dalla legge n. 69 del 2009 ed il nuovo
codice del processo amministrativo
Per chiudere, giova confrontarsi con l’ultimo degli interrogativi da cui
si è inteso prendere le mosse.
In che modo può e deve concorrere all’abbattimento del c.d. rischio
amministrativo una naturale evoluzione del processo amministrativo, della
sua fisionomia, del suo oggetto, delle tecniche di tutela in seno allo stesso
sperimentabili? È possibile pensare ad una sinergia tra riforma dell’amministrazione volta ad un miglioramento delle sue performance ed
evoluzione del processo amministrativo95?
Come è noto, è ormai in atto una tendenziale trasformazione del
giudizio amministrativo, ruotante non più attorno alla sola azione di annullamento, al suo interno essendo sperimentabili plurime azioni.
Soprattutto, è in atto una tendenza a considerare l’atto amministrativo
non più l’oggetto esclusivo della cognizione del giudice amministrativo,
chiamato sempre più a portare il suo vaglio sul rapporto, sì da assicurare
una tutela piena (e non di facciata) all’interesse del privato.
L’evoluzione che ha interessato il giudizio sul silenzio e il suo oggetto, le novità in tema di motivi aggiunti; l’introduzione del meccanismo
sanante di cui all’art. 21octies, 1. 241/1990, costituiscono indizi forti del
processo evolutivo accennato.
Si tratta di un’evoluzione da salutare con particolare favore se solo si
considera che la precedente e tradizionale visione del processo
amministrativo quale sistema ruotante attorno all’atto, volto cioè a valutarne la legittimità senza che nello stesso si prenda coscienza del rapporto
che all’atto è, sotteso e si accerti, quindi, l’effettiva consistenza delle
95
Per alcune riflessioni sulle "interrelazioni tra le trasformazioni che hanno
riguardato il provvedimento e quelle che hanno interessato il processo amministrativo"
espresse "nella consapevolezza che tra le une e le altre esiste una reciproca influenza,
una osmosi continua", DE LISE, Lo statuto del provvedimento amministrativo, in
www.giustizia-amministrativa.it.
110
1)
2)
3)
4)
5)
posizioni, di vantaggio e non di cui sono titolari i protagonisti della vicenda
amministrativa (amministrazione, istante e controinteressati), ha tradizionalmente indotto:
ad escludere, quanto alle azioni proponibili, la sperimentabilità nel
processo amministrativo a tutela di interessi legittimi, di azioni di accertamento e condanna;
a ritenere, quanto alla consistenza della cognizione devoluta al giudice
amministrativo e all’impegno istruttorio dallo stesso esigibile, non
necessaria una complessa attività di raccolta probatoria, come attestato
dalla mancata previsione, prima del varo della legge n. 205/2005, della
consulenza tecnica;
ad avallare la prassi processuale del c.d. assorbimento dei motivi, in forza
della quale il giudice annulla l’atto sulla base della riscontrata presenza di
uno solo dei diversi vizi dedotti con i motivi di ricorso, senza passare
all’esame degli altri, in specie quelli sostanziali, pure necessario perché la
sentenza possa orientare il successivo riesercizio del potere;
ad escludere l’integrabilità in giudizio della motivazione di cui si è dedotto
in ricorso la mancanza o l’insufficienza, al contempo ammettendo che,
annullato l’atto sulla base della acclarata violazione dell’art. 3, L.
241/1990, l’amministrazione possa reiterare il diniego esplicitando nuove
ragioni;
sostanzialmente a riconoscere - a fronte di un giudizio di annullamento per
intero vertente sull’atto e sui suoi vizi, anche formali o procedimentali - un
amplissimo potere di riesaminare e definire la vicenda in capo
all’amministrazione, cui di fatto si riconsegna, sostanzialmente indifeso, il
privato, pure vittorioso in giudizio.
Risvolti, quelli segnalati, certo confliggenti con l’obiettivo di rendere il
processo amministrativo e le pronunce che lo definiscono davvero
“risolutive”, anziché parentesi processuali di un procedimento amministrativo
destinato in spregio ad ogni istanza semplificatrice - a ripartire ex novo.
Ferme le conquiste ormai realizzate, occorre interrogarsi sull’opportunità (o necessità) di un’ulteriore evoluzione, spinta fino al punto da
aprire il processo amministrativo al principio di atipicità delle forme di
tutela.
Aperture in tal senso si sono registrate nella più recente giurisprudenza impegnata ad esaminare la questione relativa all’ammissibilità,
nel processo amministrativo, di un’azione di accertamento autonomo, sul
modello tedesco96.
96
In senso affermativo, Cons, St., sez. VI, 9 febbraio 2009, n, 717, in Rivista
Neldiritto, 2009, n. 3, 446 ss., con nota di CLARICH e SANCHINI, Verso il tramonto
della tipicità delle azioni nel processo amministrativo. Cfr. da ultimo, Tar Calabria,
Reggio Calabria, 18 giugno 2009, n, 431. Per un attento esame della tematica,
111
Era probabilmente opportuna una scelta di campo del legislatore,
coerente non solo con la rappresentata evoluzione del sistema di giustizia
amministrativa nella direzione della pienezza della protezione accordata
alle posizioni soggettive, ma anche con il segnalato obiettivo di rendere
davvero “risolutive” le pronunce del giudice amministrativo.
Un’opportunità è, al riguardo, offerta dalla delega per il riassetto della
giustizia amministrativa contenuta nell’art. 44, legge n. 69 del 2009, poi
trasfusa nel d. lgs. 104/2010 e, da ultimo, riesaminata in sede di primo
correttivo al codice del processo amministrativo, in cui molti degli spunti
indicati sono stati oggetto di apposita previsione legislativa.
Due, principalmente, le direttrici di fondo lungo le quali si è mosso il
legislatore delegato.
Da un lato, si è cercato di incidere sui fattori che ostano ad una
definizione tempestiva del processo amministrativo, ponendo mano ai
criteri di riparto della giurisdizione e assicurando piena attuazione al
principio di concentrazione processuale, nonché ridefinendo la disciplina
dei termini processuali e della tutela cautelare.
Dall’altro, per l’appunto, ci si è provati ad assicurare pieno ingresso al
principio della pluralità (se non della atipicità) delle azioni proponibili: di
annullamento, accertamento e risarcimento.
Sullo sfondo, però, un obiettivo ulteriore: quello di rendere il sistema
di giustizia amministrativa idoneo ad assicurare, con le sue decisioni, un
miglioramento delle performance dell’amministrazione, orientandola, oltre
che stigmatizzandone, con lo strumento risarcitorio, illiceità e ritardi.
È possibile e doverosa, cioè, una sinergia tra riforma dell’amministrazione, volta ad un recupero di efficienza e credibilità, ed evoluzione del
processo amministrativo, diretta a garantire che le decisioni dei giudici abbiano un’efficacia per quanto possibile “risolutiva” della vicenda amministrativa, anziché costituire parentesi di un procedimento amministrativo
destinato - in spregio ad ogni istanza semplificatrice - a ripartire ex novo.
CLARICH, Tipicità delle azioni e azioni di adempimento nel processo amministrativo,
in www.giustizia-amministrativa.it
112
PARTE II
UNA DECLINAZIONE
DI SEMPLIFICAZIONE AMMINISTRATIVA:
LA CONFERENZA DI SERVIZI
113
114
CAPITOLO 1
LA CONFERENZA DI SERV1ZI COME NUOVO
MODELLO DI AZIONE AMMINISTRATIVA: LE
DIVERSE TIPOLOGIE E IL PROCEDIMENTO
1. Introduzione - 2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi. - 3.
L'utilità dell'istituto. - 4. Il problema della natura giuridica. - 5. La conferenza
istruttoria. - 6. La conferenza di servizi decisoria. - 7. La conferenza trasversale a
procedimenti connessi. - 8. La conferenza preliminare. - 9. Il procedimento: Premessa. 10. Organizzazione, funzionamento e tempi. - 11. Il soggetto legittimato a partecipare. 12. L’acquisizione tacita dell’assenso. - 13. Il provvedimento finale. - 14. Ulteriori
snodi procedimentali.
l. Introduzione
In linea con la ratio del presente contributo, dopo avere sviscerato le
cause del tracollo della economia in questi ultimi anni ed offerto la
rappresentazione complessiva della risposta semplificatoria che
l’ordinamento ha approntato per recuperare efficienza e competitività,
utilizzando un ideale “cannocchiale”, veniamo ad occuparci della
conferenza di servizi, istituto tipico di un modo nuovo e, per certi versi “
rivoluzionario”, di intendere l’agere amministrativo. La conferenza di
servizi nasce come istituto fondamentale della semplificazione
amministrativa. Essa diventa altresì, nel tempo, nuovo modulo di azione
amministrativa che, in presenza di diversi aspetti settoriali alla cui tutela
sono preposte altrettante amministrazioni (se non proprio diversi livelli di
governo), tende alla ricerca dell'interesse pubblico prevalente.
In particolare, da istituto di carattere speciale richiamato, di volta in
volta, all'interno di procedimenti amministrativi di settore (es. rifiuti,
mondiali di calcio, etc.), esso si è trasformato, dopo le prime positive
esperienze pratiche, in modello di carattere generale cui ricorrere
ogniqualvolta è necessario acquisire l'assenso di più amministrazioni su un
progetto od una iniziativa pubblica.
Occorre poi sottolineare sin da ora come il legislatore, già
all'indomani della legge generale sul procedimento (L. n. 241/90), abbia
comunque dimostrato una certa propensione a (ri)disegnare, all'interno di
specifici ambiti amministrativi (es. localizzazione opere pubbliche, energia,
attività produttive, etc.), conferenze di servizi di carattere speciale, con
caratteri di differenziazione più o meno accentuati rispetto all'istituto
generale.
115
L'esigenza che sta alla: base della conferenza di servizi è, in primo
luogo, la cronica frammentazione di competenze amministrative che, da
sempre, caratterizza il sistema amministrativo italiano.
In secondo luogo, il principio di decentramento territoriale, che trova
ispirazione nell'art. 5 Cost., in virtù del quale su aspetti identici o
comunque intimamente connessi è frequente, nonché necessario, il
concorso di più livelli di governo (statali, regionali e locali) ai fini della
loro concreta gestione.
La conferenza di servizi assume dunque una duplice funzione: da un
lato, essa è mezzo di accelerazione e semplificazione del procedimento
amministrativo (aspetto che potremmo definire quantitativo): in un'unica
sede, fisica e concettuale, si concentra infatti l'intervento di una pluralità di
amministrazioni che hanno competenza, a vario titolo, ad intervenire nel
procedimento stesso.
Dall'altro lato, essa costituisce un formidabile strumento di
mediazione (o di ponderazione, se si preferisce) delle diverse discrezionalità che, in termini spesso contrapposti, vengono a confrontarsi
all'interno del procedimento amministrativo (aspetto, questo, che potrebbe
dunque qualificarsi come qualitativo).
La conferenza di servizi si presenta così, all'interno del panorama del
diritto amministrativo, in chiave dirompente, per non dire rivoluzionaria:
essa spinge infatti a decidere non solo “in tempi brevi”, ma anche in modo
"fattibile”, inducendo la pubblica amministrazione ad abbandonare schemi
decisionali di tipo solitario per abbracciare metodi più aperti, democratici,
che attraverso il contributo di più soggetti (anche privati, come si vedrà)
consentano - ove possibile, si intende, e senza che vi sia alterazione alcuna
delle ordinarie competenze attribuite - la realizzazione dell'intervento o del
progetto richiesto.
Al pari del diritto di accesso, questo modello si pone allora non solo
come mezzo di semplificazione procedimentale, ma anche quale strumento
di democratizzazione dell'azione amministrativa.
In questa direzione, la grande sfida che la odierna pubblica amministrazione è chiamata a raccogliere è quella del confronto aperto, ove tenere
conto dei diversi e contrapposti interessi settoriali, nonché dei vari livelli di
governo che ormai, dopo i recenti interventi di carattere costituzionale,
sono chiamati ad applicare in senso pieno il principio di leale collaborazione.
È ben vero che la pubblica amministrazione, nella sua accezione
tradizionale, sembra poco propensa alla cultura della mediazione e della
conciliazione. Ma su questo punto non debbono esservi dubbi, né spazio
per tentennamenti.
Proprio per questo motivo, ossia per spingere le amministrazioni ad aprirsi,
sarebbe altresì auspicabile, in prima battuta, rafforzare l'obbligatorietà circa
116
l'utilizzo di tale strumento; in seconda battuta, il ricorso ad alcuni istituti
propri della semplificazione amministrativa, quali il silenzio-assenso, che
potrebbero così determinare i vari soggetti competenti a non ritrarsi da tale
confronto.
Accanto ai vantaggi che l'istituto in esame innegabilmente arreca, è
allo stesso tempo doveroso sottolineare come sussistano, sullo sfondo,
alcune problematiche che i vari soggetti istituzionalmente competenti
(legislatore, giurisprudenza e pubblica amministrazione) sono chiamati a
risolvere con una certa sollecitudine.
La prima di esse riguarda la fase finale del procedimento e i relativi
atti da adottare: se da un lato si riscontrano soluzioni che certamente non
contribuiscono ad accelerare il procedimento (si vedano le opzioni adottate
dalla legge n. 15 del 2005), dall'altro lato alcune scelte più recenti di
politica legislativa rischiano addirittura di indurre la P.A. a non maturare
decisioni sufficientemente ponderate. Si veda la riscrittura dell’istituto ex
art. 44 l. 69/00.
La seconda di esse riguarda invece la gestione del dissenso, annosa
questione che non ha mai conosciuto una soluzione soddisfacente sin dai
tempi del varo della legge n. 241 - del 1990. Ed i motivi di tale
(comprensibile) difficoltà sono ben noti: da un lato la conservazione
dell'assetto delle competenze amministrative, che attraverso l'applicazione
di taluni criteri (primo fra tutti quello della maggioranza) rischiano invece
di essere inevitabilmente alterate; dall'altro lato, il rispetto delle attribuzioni
riservate ai diversi livelli di governo (Stato, regioni ed enti locali), sulle
quali vi è addirittura una copertura di natura costituzionale.
Un'ultima notazione riguarda la tendenza del legislatore, poc'anzi
richiamata, a ritagliare all'interno dei vari settori amministrati (e
normativizzati) conferenze di servizi che hanno carattere derogatorio, per
alcuni particolari aspetti (es. definizione dei dissensi), rispetto all'istituto di
carattere generale.
Tale fenomeno rischia senz'altro di produrre una “fuga dal
procedimento” non priva di conseguenze negative sia per la tenuta della
legge generale sul procedimento (che rischierebbe di svuotarsi di
contenuto), sia per le inevitabili difficoltà di natura applicativa ed
interpretativa che, giorno dopo giorno, i principali operatori del diritto
(giudici e P.A.) sono costretti a risolvere con notevoli difficoltà.
2. Il panorama normativo in materia di conferenza di servizi
Istituto centrale della semplificazione del procedimento amministrativo, la conferenza di servizi, già prima dell'entrata in vigore della L. n.
241/1990, era stata utilizzata dal legislatore all'interno di discipline di
117
settore (legge 21 ottobre 1987, n. 441, sullo smaltimento di rifiuti; legge 29
maggio 1989, n. 205, sui mondiali di calcio; legge 5 giugno 1990, n. 135,
in tema di lotta sull'AIDS).
Per la verità, come messo in evidenza da accorta dottrina97 l'istituto ha
una origine informale, a livello di prassi amministrativa. Le prime
applicazioni risalgono infatti agli anni cinquanta, per la precisione nel
settore della pianificazione urbanistica, ad opera dell'allora Ministero del
Lavori Pubblici.
In seguito, la legge istitutiva dell'Ente Nazionale per l'Energia
Elettrica (legge 6 dicembre 1962, n. 1643), prevedeva a sua volta - ai fini
della installazione di nuovi impianti - l'indizione di “periodiche
conferenze” per la consultazione di rappresentanze locali ed economiche e,
in particolare, delle regioni, degli enti locali, delle organizzazioni sindacali
e dei corpi scientifici.
La legge generale sul procedimento amministrativo ha quindi esteso
l'efficacia di un istituto già vitale in settori specifici, per poi modificarne,
con la L. n. 127/1997 e da ultimo con le leggi n. 340/2000 e n. 15/2005,
taluni tratti caratteristici98.
L'importanza della conferenza è tale che lo stesso legislatore, anche
successivamente, ha ritenuto opportuno continuare a legiferare in materie
necessitanti una rilettura ad hoc della conferenza di servizi. Si pensi alla
legge 15 dicembre 1990, n. 396 (interventi su Roma Capitale), nonché al
D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447 (Sportello Unico per le attività produttive).
Di sicuro rilievo è infine il ruolo che la conferenza assume all'interno dei
contratti pubblici e, in particolare, dei lavori pubblici (legge n. 109 del
1994, c.d. legge Merloni, le cui disposizioni sono in parte qua confluite nel
codice dei contratti, D.L. n. 163 del 2006).
97
D. D'ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione della complessità,
Torino, 2002, 63-64.
98
Bibliografia fondamentale: G. PASTORI, Conferenza di servizi e pluralismo
autonomistico, in “Reg.”, 1993, 1564 ss.; E. STICCHI DAMIANI, La conferenza di servizi;
in Studi in onore di Pietro Virga; II, Milano, 1994, 1753 ss.; P. BERTINI, La conferenza
di servizi; in “Dir. amm.”, 1997, 293 ss.; L. TORCHIA, La conferenza di servizi e
l'accordo di programma, ovvero della difficile semplificazione, in “Giorn. dir. amm.”,
1997, 675 ss.; F. G. SCOCA, Analisi giuridica della conferenza di servizi, in “Dir.
amm.”, 1999, 255 ss.; P. FORTE, La conferenza di servizi; Padova, 2000; E. STICCHI
DAMIANI, G. DE GIORGI CEZZI, P. L. PORTALURI, F. F. TUCCARI, Localizzazione di
insediamenti produttivi e semplificazione amministrativa, Milano, 1999; L. TORCHIA,
Lo Sportello Unico per le attività produttive, in “Giorn. dir. amm.”, 1999, 109 ss., F.
CARINGELLA, L. TARANTINO, Il nuovo volto della conferenza di servizi; in “Urb. e
app.”, n. 4/200l; D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi e amministrazione della
complessità, cit.; F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi. Il modello e i
principi, in “www.astridonline.it”, 2006.
118
Anche in risposta alle problematiche emerse nel dibattito dottrinale
successivo alla L. n. 340/2000, la L. n. 15/2005, recante «Modifiche ed
integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241. Norme generali sull'azione
amministrativa», ha introdotto tra l'altro alcune importanti modifiche
all'istituto de quo, nell'intento di perfezionare ulteriormente il modulo
procedimentale disciplinato dagli articoli 14 e seguenti della L. n. 241/1990
e di eliminare alcuni difetti di coordinamento insorti a seguito delle
modifiche operate dalla citata legge 24 novembre 2000, n. 340.
3. L'utilità dell'istituto
L'utilità della conferenza di servizi risiede nella possibilità di
concentrare in un unico contesto logistico e temporale le valutazioni e le
posizioni delle singole amministrazioni portatrici degli interessi pubblici
coinvolti in un procedimento amministrativo, al fine di consentire il
coordinamento tra le amministrazioni coinvolte.
Come rilevato da autorevole dottrina99, l'esigenza di semplificazione e
di accelerazione dei processi decisionali delle amministrazioni pubbliche
cui risponde la conferenza di servizi è duplice: una è comune a molti
ordinamenti, l'altra è tipica di quello italiano.
In tutti i moderni sistemi amministrativi democratici, l'ordinamento
riconosce una pluralità di interessi pubblici come meritevoli di tutela. Essi
non sono necessariamente collocati dalla legge (e neppure, talora, dalla
stessa Costituzione) in un ordine gerarchico o di prevalenza, né lo sono i
soggetti preposti alla loro tutela (né a livello orizzontale, tra diversi
Ministeri o enti dello Stato, né a livello verticale, tra diversi livelli di
governo); gli stessi, anzi, sono spesso collocati in posizione di
equiordinazione. Pertanto, il rapporto, la composizione, la ponderazione, il
contemperamento fra di essi vengono sempre più spesso realizzati con
moduli orizzontali e consensuali e non più, o sempre di meno, con moduli
verticali e gerarchici.
La prima esigenza è, dunque, quella di individuare i moduli
procedimentali più efficienti per questo nuovo contesto, in cui l'interesse
pubblico non è più rigidamente predeterminato e imposto, ma costituisce in
concreto la risultante di un processo di formazione cui sono chiamati a
partecipare - in posizione tendenzialmente paritaria - sempre più soggetti,
compartecipi di un'opera di armonizzazione e contemperamento fra i
diversi interessi pubblici alla tutela dei quali ciascuno di essi è preposto.
La seconda esigenza nasce, invece, dall'alto tasso di dispersione delle
funzioni amministrative che appare, in qualche modo, connaturato al
99
F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 2.
119
sistema italiano. Anche i recenti sforzi per riallocare in modo organico e
razionale le funzioni amministrative, cercando di eliminare le disfunzioni
causate da un processo secolare di stratificazione di funzioni nel tempo,
hanno in verità sortito modesti effetti: essi sono stati infatti ancora una
volta contrastati dalla naturale propensione delle amministrazioni italiane a
riappropriarsi delle strutture e delle funzioni che si era cercato di ridurre,
riallocare e riordinare.
“Di fronte a questa duplice esigenza, la conferenza di servizi propone
(dunque) soluzioni di grande novità istituzionale".
Più in particolare, essa può essere definita come luogo istituzionale per il
razionale coordinamento degli interessi pubblici e, quindi, alla stregua di
strumento di attuazione del principio di buon andamento ai sensi dell'art. 97
Cost. La stessa Consulta100 ha dato il suo placet all'istituto in esame,
ritenuto rispettoso del principio di legalità in quanto non comporta alcuno
spostamento di competenze, dando invece luogo ad una differente
disciplina delle modalità di esercizio del potere.
Come segnalato da alcuni studiosi101, la conferenza di servizi “si
segnala profondamente proprio perché rompe lo schema tradizionale della
decisionalità solitaria e introduce un principio generale di segno opposto,
quello dell'agire amministrativo contestuale e congiunto di tutti i centri
amministrativi di cura degli interessi pubblici oggettivamente coinvolti, nel
concreto, nei problemi amministrativi da risolvere: dal “principio della
solitudine” dell'organo decidente si passa dunque al principio generale
della valutazione comparativa contestuale e congiunta dell'insieme degli
interessi pubblici coinvolti, anche a costo, è stato efficacemente sostenuto,
di “amministrare per dissensi” (STICCHI DAMIANI).
La conferenza di servizi decisoria, in particolare, costituisce un
procedimento tipizzato ricompreso nella categoria dei procedimenti “di
coordinamento strutturale”, diretti ossia a realizzare la sintesi della pluralità
di competenze amministrative con lo strumento della partecipazione dei
soggetti pubblici coinvolti nella vicenda, i cui interessi vengono fatti
convergere e sono contemperati all'interno della conferenza stessa102.
Soprattutto all'indomani dell'entrata in vigore della L. n. 340/2000,
l'istituto in parola riveste dunque una duplice funzione: da un lato si
100
Cfr. Corte Cost., 19 marzo 1996, n. 79, in Foro it., 1996, I, coL. 1939, che ha
dichiarato l'illegittimità costituzionale di una legge regionale lombarda nella parte in cui
essa prevedeva che l'esame di progetti di nuove discariche pubbliche fosse attribuita ad
un «gruppo di valutazione», organismo interno all'amministrazione, composto da
funzionari regionali, con l'intervento non necessario e solo eventuale degli enti locali
interessati, in violazione dell'art. 3-bis della L. n. 441/1987, secondo il quale i comuni
devono partecipare all'approvazione del relativo progetto.
101
D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 38.
102
G. MORBIDELLI, Il procedimento amministrativo, in AA.VV., Diritto amministrativo, Bologna, 2001, 1369.
120
presenta come modulo generale di semplificazione procedimentale,
trattandosi, in definitiva, del «luogo del procedimento nel quale tutti gli
interessi pubblici rilevanti hanno l'occasione per essere sincronicamente
rappresentati» (profilo della semplificazione); dall'altro lato, come
strumento di coordinamento, ossia diretto alla composizione dei vari
interessi pubblici coinvolti in un dato procedimento e quindi - attraverso
una loro complessiva e contestuale valutazione - alla individuazione e
riaffermazione dell'interesse pubblico primario, o prevalente (profilo
dell'assetto degli interessi)103.
In altre parole, la conferenza di servizi è sia strumento di
semplificazione (in chiave di snellimento ed accelerazione) dell'azione
amministrativa, sia mezzo di coordinamento di poteri e discrezionalità
amministrative diverse e, talora, contrapposte.
Come rilevato, “ne consegue la capacità dell'istituto di modificare, in
misura non marginale, il modo di agire dell'amministrazione, dal momento
che il titolare di ciascun interesse pubblico settoriale non potrà esimersi, nel
momento in cui esprime il suo punto di vista, dal farsi carico degli ulteriori
interessi pubblici che vengono contestualmente in rilievo ai fini
dell'emanazione dell'atto finale. Ad una serie di valutazioni separate di
singoli interessi pubblici - in cui ciascuna amministrazione tende ad
“assolutizzare” quello per la cura del quale è preposta, ponendo se stessa al
centro del problema - si sostituisce, così, un dialogo tra amministrazioni
che conduce ad una valutazione unica, globale e contestuale di tutti gli
aspetti coinvolti”104.
Come è stato opportunamente rilevato, «snellimento della procedura e
concordamento sulle determinazioni (rectius, individuazione dell'interesse
prevalente) sono obiettivi che non ha senso disgiungere: sono due anime
dello stesso istituto che si influenzano reciprocamente e innescano un
circolo virtuoso muovendo da un'idea tutto sommato semplice: “riunire e
mettere a confronto tutti gli interlocutori in uno stesso luogo”105.
Il presente lavoro avrà dunque come leitmotiv questo particolare
duplice aspetto, anche al fine di valutare gli interventi giurisprudenziali che
si sono succeduti sull'argomento in discussione.
L'aspetto ulteriormente da sottolineare è che da strumento di natura
eccezionale e di carattere facoltativo, quale era nell'assetto normativo
iniziale, esso è evoluto in modulo obbligatorio e, se si preferisce, in modo
ordinario di amministrare, quale forma obbligata di esercizio di pubbliche
103
Si veda, sul punto, O. FORLENZA, «Interessi prevalenti» con la conferenza di
servizi, in “Guida al diritto”, 2000, n. 46, 117.
104
F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 3..
105
P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 340.
121
funzioni106: in altre parole, la conferenza di servizi è passata da modulo
speciale a istituto di carattere generale dell'amministrazione pubblica.
4. Il problema della natura giuridica
Come si vedrà analiticamente in seguito, la L. n. 241/1990 prevede
due tipi di conferenze di servizi: quella istruttoria (art. 14, comma l), nella
quale vi è un'unica amministrazione competente a decidere (decisione
monostrutturata) che, con la conferenza, acquisisce l'avviso delle altre
amministrazioni portatrici di interessi coinvolti nella procedura; la
conferenza decisoria (art. 14, comma 2), caratterizzata dalla necessità
dell'assenso di più amministrazioni ai fini dell'adozione del provvedimento
finale (decisione polistrutturata).
Due sono gli orientamenti che si contendono il campo sulla natura
giuridica di tale istituto, con particolare riguardo alla più problematica
ipotesi della conferenza decisoria:
a) parte degli studiosi ritiene si tratti di un organo amministrativo
collegiale di carattere straordinario, centro formale di imputazione autonomo;
b) altra parte ne sostiene la natura di mero modulo procedimentale,
quale forma di raccordo tra più organi di separate amministrazioni, privo di
una propria individualità107.
Dunque, il dibattito si incentra riguardo alla collocazione dell'istituto,
se tra gli istituti di ordine organizzativo o, viceversa, tra quelli riguardanti
l'ordine dell'azione108. In altre parole, la conferenza è un organo collegiale
oppure un metodo procedimentale, senza alcun rilievo sul piano organizzativo?
All'indomani della legge n. 241 del 1990 era prevalsa la tesi sub a), in base
alla quale il provvedimento era imputato non alla P.A. procedente che
convoca la conferenza istruttoria, bensì a quest'ultima come organo
autonomo, che acquisiva di conseguenza, in sede processuale, legittimazione passiva autonoma.
La tesi sub b), invece, pone in rilievo come l'istituto si limiti a facilitare il coordinamento tra le singole autorità amministrative che sono gli
unici centri di imputazione volontaristica, con la conseguenza che nulla è
mutato dal punto di vista delle competenze.
106
D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 6.
Per una rassegna dei possibili argomenti nell'uno e nell'altro senso, sia consentito
il rinvio a F. MARTINELLI - M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi
«derogatoria» al vaglio del giudice costituzionale, in “Urb. e app.”, 2002, 174-175.
108
D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 24.
107
122
Di qui i corollari secondo i quali l'atto finale risulta imputato solo
all'amministrazione che adotta il provvedimento finale ovvero (nel caso
della conferenza decisoria) alle altre amministrazioni che attraverso la
conferenza esprimono la loro volontà provvedimentale; pertanto, la
legittimazione passiva in sede processuale compete solo all'amministrazione o alle amministrazioni che abbiano adottato le statuizioni
rilevanti all'esterno, e non alla conferenza, la quale funge da solo strumento
di raccordo e di semplificazione organizzativo-procedimentale. Allo stesso
modo non sono passivamente legittimate le amministrazioni che, attraverso
la conferenza, esprimono solo le loro posizioni (conferenza istruttoria)
ovvero adottano atti endoprocedimentali privi di efficacia esterna lesiva e
non autonomamente impugnabili.
La dottrina, così, ha prevalentemente optato per la “soluzione
procedimentale”, rispetto a quella collegiale, soprattutto in considerazione
del fatto che:
a) la parte collegiale ha bisogno di una rigida predeterminazione dei
componenti. Infatti, il collegio può avere una presenza necessaria ed una
presenza eventuale, ma mai una presenza non definita (come la conferenza
di servizi);
b) sul piano della legittimazione processuale, il riconoscimento della
natura di organo collegiale comporterebbe la negazione di qualunque
possibilità dei componenti, in quanto tali, di agire giudizialmente per
vedere riconosciuta la fondatezza dei motivi del dissenso emerso (ma anche
superato) in sede di conferenza109;
c) con particolare riferimento alla nuova configurazione dei rapporti
tra Stato ed autonomie, a seguito della legge costituzionale n. 3/2001,
occorre prestare molta attenzione alla possibile rimodulazione delle
competenze, tra le diverse amministrazioni (statali, regionali e locali), che
inevitabilmente conseguirebbe alla natura collegiale della conferenza di
servizi: ciò che contrasterebbe, con ogni probabilità, con il nuovo sistema
di riparto previsto dall'art. 117 Cost., con il principio di sussidiarietà di cui
all'art. 118 Cost. e, non ultimo, con il principio di (tendenziale) pari dignità
istituzionale tra gli enti che compongono la Repubblica, ai sensi del
novellato art. 114 Cost.
Come già rilevato nel paragrafo 3, la conferenza di servizi introduce in
questo modo, nel sistema, “un modo di amministrare profondamente
innovativo rispetto all'atteggiarsi tradizionale dell'agire amministrativo, il
cui obiettivo primario è da ravvisare, più che nella accelerazione o nel mero
snellimento del procedimento, nel coordinamento dei poteri, nel momento
del loro concreto esercizio, strumentale alla composizione dei vari interessi
pubblici, ottenuta attraverso la loro valutazione complessiva e contestuale.
109
Ivi, 115-117.
123
Si tratta di una soluzione originale ai problemi del coordinamento delle
azioni amministrative proprio perché, operando a livello procedimentale, e
comportando la valutazione contestuale di tutti gli interessi pubblici
coinvolti in una determinata operazione amministrativa, consente di
ricucire sul piano operativo il frazionamento delle competenze e la distribuzione tra vari centri di imputazione della cura degli interessi pubblici”110.
L'esposta tesi, secondo cui la conferenza funge non da organo
collegiale ma da modulo organizzatorio e procedimentale, ha trovato
l'avallo della Corte Costituzionale, che sul punto ha avuto modo di
pronunciasi con le decisioni n. 62 dell'8 febbraio 1993 e n. 79 del l0 marzo
1996111.
La questione è stata poi chiarita dal Consiglio di Stato, che con
pronuncia della sez. IV del 9 luglio 1999, n. 1193112, ha concluso che la
conferenza di servizi è solo un modulo procedimentale e non costituisce
anche un ufficio speciale della pubblica amministrazione, autonomo
rispetto ai soggetti che vi partecipano: di qui la mancanza di necessità di
un'ulteriore notificazione ad un organo insussistente. L'assenza di una
legittimazione processuale passiva impone, peraltro, che ai fini della
corretta instaurazione del contraddittorio le notifiche del ricorso vengano
effettuate nei confronti di tutti quei soggetti che, in seno alla conferenza,
hanno manifestato, mercé atti esoprocedimentali, la propria volontà.
Il più tradizionale indirizzo trova ulteriore ed ampia conferma anche nella
giurisprudenza amministrativa più o meno recente.
Al riguardo è stato infatti affermato che:
a) la conferenza di servizi, malgrado le innovazioni introdotte dalla L. n.
34012000, non costituisce un organo amministrativo collegiale straordinario, ma
soltanto un modulo procedimentale per cui il provvedimento finale deve essere
110
Ivi, 119-121.
Pubblicate rispettivamente su Le Regioni, 1993, 1563 (n. Pastori) e Foro it., 1996,
I, 1939. La prima pronuncia si era occupata del presunto contrasto tra la legge su Roma
Capitale e l'art. 128 Cost., ritenendo che la conferenza di servizi non sposti la
competenza e, quindi, non invada la competenza degli enti locali. La seconda sentenza
si è occupata della legge regionale della Lombardia sullo smaltimento dei rifiuti: la
legge statale n. 441/1987 aveva previsto l'utilizzazione delle conferenze di servizi con il
coinvolgimento delle autorità comunali interessate, mentre la legge regionale crea dei
gruppi di valutazione autonomi, quali organi della regione in cui venivano invitati più o
meno formalmente rappresentanti delle autonomie locali. La Consulta ha ritenuto che
tali gruppi di valutazione non diano quelle garanzie assicurate dalla conferenza di
servizi a tutte le P.A. partecipanti ed ha valutato la legge incostituzionale, qualificando
la conferenza di servizi come mezzo generale dell'azione amministrativa.
112
In Cons. Stato, 1999, I, 1096 (s.m.).
111
124
imputato alle singole amministrazioni che formano la conferenza e adottano l'atto
finale (T.A.R. Lombardia, sez. III, con decisione del 28 febbraio 2002, n. 888113);
b) “la particolare natura della conferenza di servizi consente ai soggetti a
vario titolo interessati al provvedimento finale di far conoscere il proprio punto
di vista secondo lo schema della partecipazione funzionale, per cui ciascun
apporto mantiene la sua autonomia. La conferenza stessa costituisce una formula
organizzativa non lontana dal previo concerto, ed è strumento procedimentale di
emersione e comparazione di interessi pubblici, destinati a sintetizzarsi nel
provvedimento finale, e non un vero e proprio organo collegiale ove le singole
manifestazioni di volontà si fondono in una. La conferenza di servizi non è il
luogo giuridico in cui si assumono le decisioni finali, ma solo la sede ove tutti gli
interessi pubblici rilevanti in un certo ambito vengono palesati e confrontati e,
quale strumento di collaborazione e di accelerazione del procedimento, il suo
valore resta determinato dall'ampiezza degli interessi considerati e dalla qualità
dei singoli apporti tecnici” (Cons. Stato, sez. V, 25 gennaio 2003, n. 349);
c) Sul piano strettamente processuale, la circostanza che la conferenza di
servizi non formi oggetto autonomo di rituale impugnazione (rivolta invece, più
correttamente, soltanto contro i singoli organi partecipanti) non costituisce vizio
di inammissibilità del ricorso, poiché tale soggetto, costituendo un semplice
strumento e un diverso modulo procedimentale dell'attività della P.A., non può
esser ritenuto autonomo centro di imputazione di interessi ma costituisce, invero,
solo un veicolo per velocizzare le intese e gli accordi tra più enti locali, lasciando
peraltro integra l'imputabilità delle singole realtà organiche (Cons. Stato, sez. V,
16 aprile 2002, n. 5295);
d) la conferenza di servizi costituisce un originale modulo organizzativo in
cui l'avviso espresso dalle singole amministrazioni resta pur sempre imputabile
alle sole singole amministrazioni. Pertanto, il ricorso avverso la decisione finale
non deve essere necessariamente notificato a tutte le amministrazioni che hanno
preso parte alla conferenza, mancando in questo caso il rapporto di lesività
immediata con ciascuno degli avvisi espressi in conferenza (Cons. Stato, IV, n.
2874 del 2004);
e) la conferenza di servizi non assurge a soggettività giuridica autonoma,
ma è uno strumento procedimentale di coordinamento di amministrazioni che
restano diverse tra loro e che mantengono la rispettiva autonomia soggettiva: ne
consegue che “è ammissibile il ricorso che non sia stato notificato a tutte le
autorità che hanno partecipato alla conferenza di servizi, le quali non sono
qualificabili come controinteressate al ricorso, mentre il gravame deve essere
notificato alle autorità, tra quelle partecipanti, che mediante lo strumento della
conferenza di servizi abbiano adottato un atto con rilevanza esoprocedimentale, il
quale, in difetto del ricorso alla conferenza, si sarebbe dovuto impugnare da parte
di chi avesse inteso contestarlo” (Tar Toscana, decisione n. 1162 del 2004).
Sulla natura di strumento di semplificazione amministrativa - pur senza
toccare profili legati all'impugnativa - si sofferma altresì il Consiglio di Stato
113
La decisione è riportata in “Foro amm.”, 2002, 839, con commento di G.
TACCOGNA, Questioni in tema di conferenza di servizi.
125
nella sentenza n. 316 del 2004 della sesta sezione. Nel giudizio di primo grado,
in particolare, era stato ritenuto che, nella conferenza convocata ai sensi della
normativa sullo Sportello Unico (D.P.R. n. 447/98, oggi rivisto dal d.p.r.
106/2010), la Regione non avesse “espresso il suo assenso poiché il
rappresentante legittimato si era limitato a dare comunicazione del parere
favorevole della Giunta regionale, senza partecipare al confronto ed allo scambio
di vedute tra i vari rappresentanti; (e) ciò sulla premessa della natura della
conferenza di organo autonomo o comunque di strumento di raccordo, reciproco
coordinamento e comune valutazione ancorato ad una partecipazione effettiva”.
Il Consiglio di Stato ha invece ritenuto che:
1. il punto da risolvere è quello relativo alla possibilità di considerare il
metodo collegiale come metodo necessario e indefettibile della conferenza di
servizi;
2. tale istituto, anche dopo le più recenti riforma amministrative, non ha
tuttavia natura di organo collegiale, quanto di modalità di semplificazione
dell'azione amministrativa;
3. da ciò deriva la piena legittimità di una modalità di espressione
dell'assenso rappresentata dalla trasmissione della delibera di assenso della
Giunta regionale effettuata prima della conferenza di servizi, poiché “la
conferenza rimane essenzialmente un luogo per l'acquisizione dell'assenso delle
amministrazioni interessate ad un procedimento amministrativo e non un collegio
che funziona secondo il metodo deliberativo - di derivazione parlamentare - della
discussione e deliberazione tipico degli organi collegiali”.
Isolata, invece, appare quella giurisprudenza secondo cui la conferenza
decisoria comporta l'adozione di una decisione pluristrutturata, e quale istituto
centrale della semplificazione, specie a fronte delle recenti modifiche legislative
di cui alla L. n. 340/2000, essa pare assumere la configurazione non tanto di un
semplice modulo organizzatorio, privo di influenza sul riparto di competenza,
quanto di un vero e proprio organo amministrativo dotato di caratteri di
autonomia (Tar Liguria, sez. I, 28 settembre 2002, n. 984)114.
In definitiva, la prevalente giurisprudenza amministrativa ritiene che
dal punto di vista della legittimazione passiva la conferenza abbia una
valenza neutrale, dovendosi operare le dovute notificazioni come se non ci
fosse. Conferma in tal senso proviene altresì dalla decisione n. 2107 del
2005 della quarta sezione del Consiglio di Stato.
Peraltro, merita particolare attenzione la decisione n. 976 del 2004 del Tar
Marche, il quale, nel ribadire in sostanza l'orientamento tradizionale, afferma
che, al contrario, la speciale conferenza di servizi disciplinata dall'art. 9 del D.L.
n. 114/1998 e dall'art. 13 della Legge Regione Marche n. 26/1999, in materia di
distribuzione commerciale, configura, soprattutto in ragione della diversa
distribuzione di poteri decisori tra i vari partecipanti alla conferenza, una sorta di
114
In “Foro amm.”, TAR, 2002, 3153, con nota di P. LOMBARDI. In senso contrario,
peraltro, si veda lo stesso Tar Liguria, sentenza n. 1652 del 2003.
126
vero e proprio organo collegiale straordinario, diventando di conseguenza
legittimata passiva in sede giurisdizionale.
In ogni caso, anche accogliendo la tesi che esclude il carattere di
organo, si sostiene che di fatto il funzionamento della conferenza di servizi
va regolato sulla scorta delle norme relative agli organi collegiali, applicate
analogicamente (fatta salva la presenza di norme ad hoc).
Ed infatti:
a) quanto alla convocazione, la conferenza di servizi deve essere
convocata con un congruo anticipo da valutarsi in base al numero
delle PP.AA. partecipanti e alla complessità del procedimento;
b) i singoli rappresentanti delle varie PP.AA. devono ottenere
l'autorizzazione ad esprimere la volontà dell'ente (l'art. 14-ter della L.
n. 241/1990, come modo dall'art. 11 della L. n. 340/2000, prevede un
preavviso di almeno l0 giorni, con la possibilità da parte delle PP.AA.
coinvolte di chiedere entro 5 giorni, in caso di impossibilità di
partecipare alla riunione, la fissazione di una nuova data entro l0
giorni);
c) l'oggetto dell'ordine del giorno deve essere chiaro e non può essere
mutato, salvo che non vi sia l'assenso di tutte le P.A. convocate;
d) nel verbale deve darsi atto delle ragioni che hanno portato
all'indizione della conferenza, nonché giustificare la legittimazione dei
singoli rappresentanti.
5. La conferenza istruttoria
L’art. 14 contiene una disciplina piuttosto scarna della conferenza di
servizi istruttoria, limitata ai commi l e 3 del suddetto articolo, salvo, di
volta in volta, verificare la compatibilità delle regole riguardanti la diversa
species della conferenza di servizi decisoria. L’istituto non è stato
significativamente inciso dalla L. n. 340/2000, né dalla L. n. 15/2005.
La conferenza istruttoria è un istituto al quale si ricorre nel caso in cui
sia opportuno acquisire fatti e interessi pubblici per mezzo di una
partecipazione delle PP.AA. cui è affidata la cura di questi ultimi115.
115
Tra gli esempi più ricorrenti di conferenza istruttoria, la giurisprudenza è solita
ricomprendere quella prevista dall’art. 27 del D.L. n. 22 del 1997 (c.d. “Decreto
Ronchi”), in tema di localizzazione di impianti di smaltimento di rifiuti. Sulle
problematiche inerenti a tale disciplina, e in particolare ai criteri per la legittimazione ad
intervenire alla conferenza da parte dei comuni interessati, si rinvia a A. CAROSI,
Riflessioni su localizzazione di discariche e tutela giurisdizionale, in “Foro amm.
TAR”, 2003, 1999 (nota a T.A.R. Abruzzo, 26 novembre 2002, n. 712).
127
In sostanza la conferenza è uno strumento che assolve, per le
amministrazioni pubbliche, alla stessa funzione che ha per i privati la
partecipazione al procedimento ex artt.7 e ss. della L. n. 241, con la
differenza che mentre per i privati la partecipazione è di tipo meramente
cartolare, per le PP.AA. il legislatore ha ritenuto di dare la stura ad
un’istruttoria aperta.
Con la conferenza istruttoria viene consentita la partecipazione anche
ad amministrazioni che non derivano la loro legittimazione procedimentale
da altra esplicita disposizione di legge. Si prescinde quindi da una
investitura formale, assumendo rilievo, alla luce della situazione concreta,
la verifica della titolarità di un interesse in funzione collaborativa o
difensiva e la conseguente opportunità di audizione del rappresentante
dell’amministrazione116.
Come si vedrà più avanti, è sempre più frequente che sia il legislatore
a qualificare espressamente come istruttoria la conferenza di servizi; ciò
anche perché, dopo l’avvento della legge n. 340 del 2000, la regola è data
dal ricorso al modulo della conferenza decisoria. Pertanto la precisazione
legislativa serve a caratterizzare in termini derogatori l’applicazione della
conferenza di servizi, per l’appunto di natura istruttoria. In questo senso si
richiama la legge sulle grandi opere (legge 443 del 200l).
Ancora aperto è invece, come si vedrà, il capitolo relativo alla
partecipazione alla conferenza da parte di soggetti privati117.
L’indizione spetta alla P.A. procedente deputata all’adozione del
provvedimento finale; resta da vedere se l’indizione sia facoltativa od
obbligatoria, ossia se, a fronte di una attuale configurazione in termini
obbligatori della conferenza decisoria spetti per la conferenza istruttoria,
alla P.A. procedente, una sfera di valutazione discrezionale circa
l’opportunità e l’utilità del coinvolgimento di altre amministrazioni
attraverso tale modulo, piuttosto che attraverso la procedura ordinaria di
cui agli artt. 7 e seguenti della L. n. 241/1990. Il problema va analizzato
tenendo conto del fatto che, a fronte di una originaria configurazione in
termini puramente facoltativi, già con la L. n. 127/1997 è venuta in rilievo
una caratterizzazione per così dire ordinaria della procedura, evidenziata
dall’inciso «di regola» che compare nell’art. 14, comma l.
116
Secondo Trib. Sup. Acque Pubbliche 12 maggio 2000, n. 33, in “Cons. Stato”,
2000, II, 1017, la conferenza può essere indetta, ove se ne ravvisi l’opportunità, anche
in relazione a procedimento particolare specificamente disciplinato dalla legge.
117
Parte della dottrina sostiene che il privato possa partecipare alla conferenza
quando si faccia portatore di interessi pubblici (es. l’associazione ambientale): la
giurisprudenza ha in alcune sentenze valutato la conferenza di servizi un istituto rigido
riservato alla P.A.; altra giurisprudenza opta per la natura di strumento elastico, cui può
partecipare anche il privato. A favore di questa tesi milita la circostanza che altrimenti
sarebbe necessario acquisirli al di fuori, perdendo il beneficio della contestualità.
128
Sui temi delle facoltatività e del tasso di discrezionalità non si
registrano posizioni univoche. L’inciso «di regola» sembra fare della
conferenza istruttoria uno strumento ordinario di esercizio della funzione
amministrativa, la cui deroga necessita di specifica motivazione. Una
eccezione, in presenza della quale la P.A. può decidere di non utilizzarla
sarebbe, in particolare, l’urgenza che qualifichi la situazione (sulla scia
dell’art. 7 e ss. della L. n. 241/1990).
In conformità a tale orientamento la giurisprudenza, pur sottolineando
la lata discrezionalità spettante alla P.A. in materia, non ha mancato di
evidenziare la necessità che la «P.A. si prospetti il problema del
coinvolgimento di una pluralità di interessi pubblici e di ricercarne la
composizione attraverso lo strumento della conferenza di servizi»118.
Parte della dottrina, comparando il dato normativo con la vecchia
disciplina in tema di conferenza decisoria (in origine facoltativa), ha
concluso nel senso dell’obbligatorietà del ricorso alla conferenza
istruttoria. Questa tesi, in un panorama che dopo la L. n. 340/2000 ha
trasformato in obbligatoria anche la conferenza decisori a, porterebbe alla
conclusione del carattere obbligatorio di tutte e due le ipotesi di conferenza.
Secondo altri, invece, l’amministrazione competente ad indire la
conferenza sarebbe domina della valutazione di opportunità relativa
all’indizione della conferenza, valutazione non censurabile in alcun modo
in quanto afferente al merito amministrativo: l’espressione « di regola»
sarebbe il « mero appello di un legislatore didascalico».
Anche la giurisprudenza maggioritaria mostra in ogni caso di preferire
quest’ultima soluzione.
A conferma della esposta tesi della facoltatività si segnala, in particolare, la
decisione n. 5249 del 2004 della sesta sezione del Consiglio di Stato.
La questione atteneva alla ripartizione degli oneri, tra una amministrazione
provinciale ed una società subentrata ad un consorzio interregionale per la
gestione delle acque, relativamente allo spostamento di condotte idriche a seguito
di lavori di allargamento e di sistemazione stradale.
La norma di riferimento era data dall’art. 28 del codice della strada (D.L. 30
aprile 1992, n. 285), il quale dispone che “i concessionari di [...] distribuzione di
acqua potabile [...] hanno l’obbligo di osservare le condizioni e le prescrizioni
imposte dall’ente proprietario per la conservazione della strada e per la sicurezza
della circolazione [...]”.
Il citato art. 28 prevede poi, al comma 2, che “qualora per comprovate
esigenze della viabilità si renda necessario modificare o spostare, su apposite sedi
messe a disposizione dall’ente proprietario della strada, le opere e gli impianti
118
Trib. Sup. Acque Pubbliche 26 maggio 2000, n. 66, in “Cons. Stato”, 2000, II,
1022, che ha dichiarato illegittimo un provvedimento di imposizione di vincolo
archeologico adottato omettendo di considerare l’opportunità di vagliare gli altri
interessi pubblici coinvolti dalla misura, relativi alla realizzazione di opere idrauliche.
129
eserciti dai soggetti indicati nel comma 1, l’onere relativo allo spostamento
dell’impianto è a carico del gestore del pubblico servizio; i termini e le modalità
per l’esecuzione dei lavori sono previamente concordati tra le parti,
contemperando i rispettivi interessi pubblici perseguiti”.
La società per la gestione delle acque riteneva che il citato art. 28, comma
2, presupporrebbe dunque il coordinamento dell’azione amministrativa
plurisoggettiva, previa conferenza di servizi ai sensi dell’art. 14 della L. 7 agosto
1990, n. 241.
Il Consiglio di Stato, invece:
a) ha ribadito che l’applicazione dell’art. 28 comporta che gli oneri
conseguenti allo spostamento o alla modifica degli impianti, i quali
interferiscono con la sistemazione o l’allargamento della strada, devono
sostenersi con oneri a carico dei soggetti gestori dei servizi pubblici, tra cui
anche i concessionari di distribuzione di acqua potabile, come la società
appellante;
b) pur essendo vero che l’art. 28, comma 2, del codice della strada, richiede
che “i termini e le modalità per l’esecuzione dei lavori sono previamente
concordati tra le parti, contemperando i rispettivi interessi pubblici
perseguiti”, ha affermato che ciò attiene all’esecuzione dei lavori di
spostamento, non incidendo in alcuna misura sull’individuazione del
soggetto cui grava l’onere relativo allo spostamento dell’impianto, che resta
pur sempre il gestore del servizio pubblico;
c) ha tuttavia rilevato come il citato art. 28 non prescriva il previo ricorso alla
conferenza di servizi di cui all’art. 14 della L. n. 241/1990. “L’indizione
della stessa, inoltre, resta pur sempre una facoltà dell’amministrazione, non
rinvenendosi l’ipotesi dell’indizione obbligatoria prevista al comma 2 del
medesimo art. 14”, il quale verte “nell’ambito di un procedimento
amministrativo in cui devono intervenire atti o provvedimenti da parte di
altre amministrazioni pubbliche”. Per di più, nella fattispecie legale in
esame il legislatore ha già ritenuto prevalente l’interesse pubblico alla
viabilità sull’interesse dei gestori del servizio pubblico all’ubicazione degli
impianti, ponendo a carico di questi ultimi gli oneri conseguenti allo
spostamento degli impianti.
Il ragionamento assunto dal Consiglio di Stato appare senz’altro condivisibile, atteso che dalla formulazione dell’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990,
si evince in particolare come il procedimento sia diretto alla manifestazione di
volontà provvedimentali, piuttosto che alla formazione di atti consensuali, per la
cui regolazione si ritiene più appropriato il ricorso all’art. 15 della stessa legge
generale, recante disciplina sugli “accordi” tra le amministrazioni.
Si segnala, in ogni caso, come in generale il modulo della conferenza
istruttoria sia in buona parte eroso dalla maggiore ricorrenza, in concreto,
di ipotesi di conferenza decisoria. E ciò a seguito della legge n. 340 del
2000, in base alla cui formulazione si prevede che la conferenza è “sempre
indetta” qualora siano necessari atti di intesa, nulla osta o assensi
comunque denominati per la definizione dell’intervento.
130
Più in particolare, si evidenzia invece come le ipotesi di conferenza
istruttoria siano per lo più intese dal legislatore in chiave derogatoria - e
dunque espressamente contemplate come tali - rispetto alla conferenza
decisoria. Basti pensare, al riguardo, a quanto previsto in materia di rifiuti
(D.L. n. 22 del 1997), di grandi opere (legge n. 443 del 2001) e, secondo
parte della giurisprudenza, di “sbloccacentrali” (D.L. n. 7 del 2002).
Circa i rapporti tra le PP.AA. in sede di determinazione del contenuto
del provvedimento, la conferenza istruttoria non dà luogo ad una decisione
pluristrutturata, ma monostrutturata, che non risulta vincolata in alcun
modo, come anche confermato dal Consiglio di Stato119 120. Ciò
nondimeno, sulla P.A. procedente incombe l’onere di motivare congruamente il dissenso in ordine alle ragioni espresse durante l’istruttoria; la
necessità di motivazione si presenta in modo particolare ove nel corso della
conferenza sia intervenuta un’intesa informale che abbia ingenerato un
affidamento. In questo caso, infatti, pur rimanendo il provvedimento nella
disponibilità della P.A. procedente, il discostarsi dalle opinioni manifestate
dalla stessa P.A. in sede di conferenza, ove non corroborato da adeguato
supporto motivazionale (anche relativo a fatti sopravvenuti), sarà
sintomatico di un’irragionevolezza dell’azione amministrativa stigmatizzabile con l’arma dell’eccesso di potere sintomatico.
L’unanimità non è ovviamente richiesta, poiché la conferenza
istruttoria non è un mezzo di manifestazione del consenso come per le
decisioni pluristrutturate (quindi si ritiene che tutte le norme volte a
rimediare alla non unanimità siano da riferirsi alla sola conferenza
decisoria).
119
Cfr. Cons. Stato, sez. IV, 6 ottobre 2001, n. 5296, in “Il Consiglio di Stato”, 2002,
331, con nota di F. Fonderico, in cui si è affermato che in tema di esame dei progetti per
l’insediamento degli impianti di trattamento e stoccaggio di rifiuti, la cui istruttoria è
regolata dalla L. n. 441 del 1987 (ora sostituita dal D.L. n. 22 del 1997), è irrilevante
che il soggetto presente alla prevista conferenza di servizi (che ha natura meramente
istruttoria), non abbia votato a favore di un determinato progetto, posto che il parere
favorevole di alcuno dei soggetti intervenuti non può impedire alla regione di decidere
la localizzazione dell’impianto. In questa stessa direzione, cfr. Cons. Stato, sez. V, 2
marzo 1999, n. 212, e T.A.R. Lombardia, III, 25 agosto 1999, n. 756.
120
Cfr. Tar Piemonte (n. 278 del 2002), in cui si afferma, da un lato, che la funzione
precipua della conferenza istruttoria sia quella di acquisire tutti gli elementi valutativi
necessari per procedere ad un compiuto esame del progetto medesimo, nonché di
comporre tutti gli interessi di cui sono portatori i soggetti partecipanti; dall’altro, che la
valutazione finale relativa alla decisione dell’amministrazione procedente non è
comunque sindacabile sotto il profilo dell’opportunità, implicando una tipica scelta
riservata all’amministrazione medesima.
131
Per gli stessi motivi la conferenza può aver luogo anche in assenza dei
rappresentanti di alcune amministrazioni regolarmente convocate121.
Può accadere, peraltro, che all’interno della conferenza istruttoria
maturino i presupposti per la conclusione di un accordo ex art. 15, L. n.
241/1990 o ex art. 27 L. n. 142/1990 (ora 34, D.L. n. 267/2000): a quel
punto l’Amministrazione procedente concorda il contenuto del provvedimento che deve emanare con le altre amministrazioni e stipula l’accordo.
6. La conferenza di servizi decisoria
La disciplina generale della conferenza decisoria è dettata dall’art. 14,
comma 2, e dagli artt. 14-ter e 14-quater della L. n. 241/1990, completamente
riscritti dalla L. n. 340/2000 e poi, ancora, dalla L. n. 15/2005122 e, da ultimo,
dalle l. 69/09 e l. 112/10.
L’istituto in questione si prefigge il fine di velocizzare e semplificare
l’attività amministrativa, mediante una concentrazione in un unico contesto
dei procedimenti e delle competenze decisionali di una pluralità di
amministrazioni il cui assenso è necessario ai fini dell’adozione di un
determinato provvedimento (decisione pluristrutturata).
La conferenza decisoria consente di acquisire intese, concerti,
nullaosta, nel senso che le determinazioni assunte al suo interno tengono
luogo di queste ultime; l’elencazione, peraltro, non è tassativa, ma
meramente esemplificativa123.
Si tratta - come detto - di una decisione pluristrutturata, in quanto il
provvedimento finale concordato sulla base degli assensi espressi in
conferenza sostituisce le determinazioni delle amministrazioni parteci–
panti124.
121
La giurisprudenza (Cons. Stato, sez. IV; 13 settembre 1998, n. 1088) ha escluso la
natura di collegio perfetto della conferenza di servizi, con la conseguenza che non è
necessaria la presenza di tutti i componenti, perché possa operare legittimamente.
122
Una species della conferenza decisori a madre è contenuta nell’art. 14, comma 4.
Quest’ultima è caratterizzata dall’avvio riservato al privato, che può chiederne
l’indizione (non la convoca egli stesso), quando ha bisogno che il provvedimento ultimo
sia preceduto da più assensi, che in questo. modo vengono acquisiti in un’unica sede.
Altre species della conferenza decisoria sono presenti negli artt. 14-bis e ss.
123
Pronunciandosi con riguardo a fattispecie antecedente alla L. n. 340/2000, Cons.
Stato, sez. V; l marzo 2000, n. 3830, in “Cons. Stato”, 2000, 1, 1681, ha chiarito che
«l’art. 14, comma 2 della L. n. 241/1990 va interpretato nel senso che tale disposizione
non comporta ipotesi di deroga rispetto agli atti amministrativi generali vigenti né di
variante agli strumenti urbanistici». Vedi anche, sulla portata dello strumento, Cons.
Stato, sez. V; l0 marzo 2000, n. 1078.
124
Le volontà dei rappresentati delle singole amministrazioni sono raccolte nel
verbale che chiude la conferenza. Dalla stessa verbalizzazione verrà desunta la verifica
dei poteri rappresentativi, la validità delle convocazioni, le motivazioni e le modalità del
132
In via generale, la conferenza di servizi si applica essenzialmente
all’ambito dei consensi vincolanti o parzialmente vincolanti.
Si discute se la conferenza di servizi possa essere utilizzata anche per
la acquisizione di pareri, con un meccanismo alternativo a quello previsto
dagli artt. 16 e 17 L. n. 241/1990. Parte della dottrina ritiene che, poiché la
norma fa riferimento ad assensi vincolanti o parzialmente vincolanti,
sempre con lo stesso limite la conferenza possa essere utilizzata per
accogliere pareri; altra tesi, invece, non vede nessun ostacolo all’utilizzo
della conferenza per l’ottenimento di ogni tipo di parere, essendo la
disciplina degli artt. 16 e 17, peraltro, armonizzabile con quella dell’art. 14.
La risposta al quesito, certo, risente della valutazione circa la natura
dell’attività consultiva ed il ruolo da questa svolto in rapporto con la c.d.
amministrazione attiva; dipende in definitiva dall’accoglimento o dal
superamento della concezione tradizionale del «parere» visto come
valutazione resa in assoluto, completamente slegata da qualsivoglia
riferimento ad un interesse particolare. Un orientamento più recente,
rifacendosi all’insegnamento francese avvicina, invece, il parere all’atto di
adesione, al «consentiment».
Probabilmente in quest’ultimo contesto va collocata la nuova
posizione che le soprintendenze ai beni culturali hanno di recente assunto a
seguito della entrata in vigore del Codice dei beni culturali (D.L. n.
42/2004), che ha trasformato il potere di annullamento ministeriale sulle
autorizzazioni paesaggistiche in un parere obbligatorio, in taluni casi
finanche vincolante.
Ulteriore problema è rappresentato dalla possibilità di acquisire a
mezzo della conferenza l’atto di controllo: tale eventualità, per certi versi
auspicabile, non è da praticare in ragione del fatto che il controllo
interviene in una fase successiva rispetto alla perfezione dello stesso, per
cui non è immaginabile l’intervento del controllo prima che la volontà della
P.A. si manifesti (eccezion fatta, quindi, per i controlli di tipo preventivo).
Senza dire dell’impossibilità di sovrapposizione della funzione di
amministrazione attiva con quella di controllo, a guisa della posizione di
terzietà che deve assistere quest’ultima ai fini di una logica autonomia
funzionale125. Su questo punto si veda tuttavia il ruolo che, almeno prima
dibattito, i termini dell’assenso. Quindi, il verbale ha funzione documentale,
rappresentando le attività svolte e gli atti che le determinazioni assunte vengono a
sostituire.
125
V’è da precisare, per giunta, che il controllo operato sul provvedimento finale non
vale anche per le singole manifestazioni d’assenso: tale interpretazione è avvalorata
dall’analisi comparativa dell’art. 14 e dell’art. 11, comma 3, quest’ultimo sugli accordi
133
della emanazione del suddetto Codice dei beni culturali, svolgevano le
soprintendenze deputate alla cura del paesaggio.
Dal momento che l’art. 14 è preordinato all’emanazione di concreti
atti amministrativi, si esclude poi che il disposto del comma 3 possa essere
adoperato qualora la conferenza sia stata convocata per l’adozione di un
atto normativo, segnatamente di livello regolamentare (si veda in questo
senso anche la giurisprudenza consultiva del Consiglio di Stato, la quale
afferma che la conferenza di servizi si muove nel rispetto della normativa
vigente, e non in deroga alla stessa126).
L’iniziativa127 dell’indizione della conferenza spetta alla P.A.
competente per l’adozione del provvedimento finale che deve definire il
procedimento; la regola è rispettata anche nel caso previsto al comma 4
dell’art. 14, a mente del quale il privato interessato può solo sollecitare
l’indizione della conferenza all’indirizzo dell’amministrazione competente
per l’adozione del provvedimento conclusivo. La legge n. 340 del 2000 ha
innovato, sul punto, la disciplina precedente (comma 2-ter dell’art. 14), per
cui, in caso di iniziativa del privato subordinata ad atti di consenso di più
amministrazioni, l’indizione veniva operata dall’«amministrazione preposta
alla tutela dell’interesse pubblico prevalente».
In caso di affidamento di concessione di lavori pubblici la convocazione compete al concedente, oppure al concessionario dietro autorizzazione del concedente, il quale conserva in ogni caso diritto di voto128.
sostitutivi asserisce vadano effettuati quei controlli che dovrebbero essere effettuati sui
singoli provvedimenti.
126
Cfr. Cons. Stato, I, parere n. 1622 del 1997, in Giornale di diritto amministrativo,
1998, 475, con nota di F. Fonderico.
127
In alcune ipotesi di conferenza il legislatore individua anche nominalmente
l’amministrazione competente ad indire la conferenza. In altre ipotesi quali quella
dell’art. 27, L. n. 142/1990 si adotta un criterio fondato sulla titolarità dell’interesse
pubblico prevalente. Rimane fermo il problema inerente alla individuazione della P.A.
legittimata all’indizione in base all’interesse pubblico prevalente (quest’ultimo criterio è
stato spesso utilizzato dal Cons. Stato in tutt’altra fattispecie per l’individuazione
dell’amministrazione titolare della competenza in materia espropriativa), se il comune
perché trattasi di attività edificatoria, o la regione perché preposta a tutela
dell’ambiente. Secondo parte della dottrina, dell’interesse pubblico prevalente sarebbe
comunque sempre titolare l’amministrazione alla quale il privato presenta l’istanza che
apre il procedimento.
128
La disciplina dettata dalla L. n. 340/2000 non ha toccato il funzionamento della
conferenza in materia di appalti di lavori pubblici, che resta disciplinato della L. n.
109/1994 (ora anzi dal Codice dei contratti pubblici) e dal D.P.R. n. 554/1999. Sono
tuttavia abrogati, nonostante l’apparente salvezza integrale dell’art. 7 della L. n.
l09/1994 (comma 3, art. 14, L. n. 241), i commi da 7 a 14 dell’art. 7 della legge
Merloni. Quanto invece alla conferenza per l’approvazione dei progetti di opere
concernenti reti ferroviarie, ai sensi del comma 2 dell’art. 14, l’indizione compete al
Ministero dei Trasporti ai sensi dell’art. l0 del D.L. n. 457/1997 (conv. dalla L. n.
30/1998); ovvero alle Ferrovie dello Stato s.p.a. ai sensi della presente legge, e con
134
Salvo diversa disposizione, il potere di convocare la conferenza spetta
(come per la conferenza istruttoria) al responsabile del procedimento, se
competente per l’adozione del provvedimento finale; altrimenti il
responsabile si limita a proporre al dirigente competente l’indizione della
conferenza (art. 6, comma l, letto c, della L. n. 241/1990).
Rispetto alla conferenza istruttoria, l’indizione della conferenza
decisoria, nella versione antecedente alla L. n. 340, aveva carattere non
obbligatorio («[…] la conferenza di servizi può essere indetta»), con la
conseguenza che la relativa indizione passava per una difficilmente
sindacabile valutazione di opportunità da parte dell’amministrazione
procedente.
L’art. 9 della L. n. 340/2000, modificando il comma 2 dell’art. 14
della legge 241, ha invece previsto la trasformazione della conferenza in
meccanismo obbligatorio. In questo senso, è esplicito il dato testuale, dal
quale si evince che ogni qual volta sia necessario acquisire assensi, da parte
di altre amministrazioni, la P.A. procedente deve indire la conferenza,
salvo che non li ottenga entro quindici giorni dall’inizio del procedimento,
avendoli formalmente richiesti. La legge n. 15 del 2005 ha poi portato a
trenta giorni tale termine.
Sullo specifico punto, l’art. 8 della L. n. 15/2005 novella l’art. 14,
comma 2, della L. n. 241/1990 chiarendo alcuni dubbi interpretativi e
rimuovendo alcuni difetti di coordinamento. In particolare, il comma l,
lettera a), numero l), rende chiaro l’esatto momento di decorrenza del
termine previsto per l’obbligatoria indizione della conferenza di servizi,
prevedendo a tal fine che i trenta giorni (in un primo momento quindici, al
pari della attuale previsione) di cui all’art. 14, comma 2, della L. n.
241/1990, decorrano non già dall’inizio del procedimento, ma, più
propriamente, dalla ricezione della richiesta da parte dell’amministrazione
invitata.
Al riguardo, non era ben chiaro all’indomani della legge n. 340 del
2000, se l’obbligatorietà della conferenza fosse legata alla circostanza che
le amministrazioni debitamente richieste non si pronunziassero in alcun
modo nel termine di quindici (ora trenta) giorni, ovvero se la previsione
scattasse anche nel caso in cui una risposta espressa vi fosse entro il
termine previsto, ma si cristallizzasse in un diniego.
Anche su tale problematica è intervenuta in chiave risolutiva la L. n.
15/2005. Il comma l, lettera a), numero 2), dell’art. 8, che modifica l’art.
14, comma 2, della legge 241, mira infatti a raggiungere due obiettivi:
precisare, superando i dubbi interpretativi emersi in materia e ripristinando
riferimento all’art. 25, comma 2, della L. n. 2109/1985, in caso di opere per la
soppressione di passaggi a livello su linee delle ferrovie stesse localizzati nell’ambito
regionale.
135
il parallelismo con il dissenso all’interno della conferenza, che il dissenso
preventivo al di fuori della conferenza non può avere effetti preclusivi;
rendere facoltativo, in tal caso, il ricorso alla conferenza, posto che
l’amministrazione proponente potrebbe condividere le valutazioni espresse
da quella dissenziente e non trovare utile il ricorso alla conferenza129.
Occorre infine precisare che l’atto di convocazione della conferenza si
deve altresì porre quale schema di decisione concordata.
7. La conferenza trasversale a procedimenti connessi
Una species di conferenza di servizi istruttoria più raffinata e
complessa è stata introdotta dalla legge Bassanini-bis (L. n. 12711997), che
fa riferimento alle ipotesi nelle quali si vogliano acquisire interessi di altre
PP.AA., non nell’ambito di un procedimento unico, bensì nell’ambito di
più procedimenti connessi tra di loro, riguardanti medesimi risultati o
attività.
Secondo alcuni autori (SCOCA) occorrerebbe distinguere, in materia
di conferenza complessa, tra procedimenti collegati in serie (in cui la
conclusione del primo condiziona l’apertura del secondo) e procedimenti in
parallelo (ove non si ravvisa detto condizionamento procedurale). Nel fare
gli esempi del procedimento di dichiarazione di pubblica utilità e di
espropriazione da un lato, e di pianificazione territoriale (risultato di un
procedimento di adozione e di approvazione) dall’altro, si ritiene che la
sequenza cronologica, ove prescritta, abbia anche valore sostanziale; con la
conclusione che «la conferenza di servizi non possa riunire procedimenti
che la legge ha disciplinato non solo come separati ma anche in modo che
non siano cronologicamente coincidenti».
Nella originaria formulazione della norma non era chiaro a quale
amministrazione spettasse l’indizione della conferenza, visto che la norma
(comma 4-bis dell’art. 14) rinviava alla P.A. portatrice dell’interesse
prevalente, ovvero a quella chiamata a gestire il procedimento che
temporalmente precede gli altri. Era sempre fatta salva, peraltro, la
possibilità che una qualunque delle PP.AA. interessate caldeggiasse
l’indizione della conferenza.
Più elastica è la disciplina dettata dalla L. n. 340/2000. L’art. 9 della
L. n. 340, modificando l’art. 14, comma 3, della L. n. 241/1990, prevede
infatti che, ove se ne ravvisi l’opportunità per l’esame contestuale di
interessi coinvolti in più procedimenti connessi, l’indizione compete,
previa informale intesa, ad una delle PP.AA. portatrici dell’interesse
129
Inoltre, l’ultima disposizione che novella l’articolo 14, eliminando il terzo periodo
del comma 3, risolve a sua volta l’incongruenza determinata dal coordinamento tra l’art.
14 della L. n. 340/2000 e l’articolo 9, comma l, della medesima legge.
136
prevalente. Rimane comunque salva, in capo alle amministrazioni coinvolte
che non siano titolari dell’interesse pubblico prevalente, la facoltà di
richiedere l’indizione della conferenza.
Anche per dette conferenze trasversali ogni amministrazione conserva
il potere di decidere in ordine alle proprie competenze, salvo l’obbligo di
motivare in caso di mancata uniformazione alle indicazioni emerse in sede
di conferenza130.
Esempi di conferenza trasversale sono dati in materia di opere
ferroviarie (legge n. 210 del 1985), di porti turistici (D.P.R. n. 509 del
1997) e rigassificatori.
8. La conferenza preliminare
L’art. 10 della L. n. 340/2000 ha riscritto l’art. l4-bis, prevedendo
un’ipotesi di conferenza di servizi speciale che ha ad oggetto istanze o
progetti preliminari.
La conferenza, che ripercorre le direttive tracciate dall’art. 7, comma
8, della L. n. 109/1994 (riguardante ossia l’approvazione dei progetti
preliminari di opere pubbliche), costituisce un’anomalia rispetto al
panorama tradizionale: per un verso non si tratta di una conferenza
istruttoria, posto che vi partecipano amministrazioni che saranno chiamate
a prestare il loro assenso sul progetto definitivo; dall’altro lato non si verte
in tema di conferenza pienamente decisoria, in quanto le amministrazioni
non adottano una decisione finale ma indicano se e a quali condizioni
potranno prestare il consenso in ordine al progetto definitivo131.
È allora possibile parlare di una sorta di conferenza predecisoria, con
la quale le amministrazioni esprimono un avviso anticipato sulla possibilità
di prestare l’assenso finale, così autovincolandosi a non esprimere ex post
ragioni di dissenso non emerse in sede di progetto preliminare e non legate
a fatti sopravvenuti.
130
Secondo altri (cfr. D. SCALETTA, Problematiche connesse ai poteri della
provincia di formazione del piano regolatore generale, in “Foro amm. TAR”, 2002,
3195), notevoli vantaggi si registrerebbero anche sul piano del buon andamento di cui
all’art. 97 Cost.: la conferenza di servizi utilizzata in tema di pianificazione urbanistica,
infatti, realizzerebbe una più intensa ed efficiente partecipazione degli enti locali nel
procedimento di formazione dei relativi strumenti. Sotto il profilo collaborativo, la
contestualità della sede collegiale consentirebbe una più completa ed esaustiva
acquisizione di tutti gli interessi pubblici e privati coinvolti nell’attività di
pianificazione. Sotto il profilo oppositivo, la conferenza di servizi potrebbe consentire
di prevenire e risolvere anticipatamente l’eventuale contenzioso giurisdizionale in cui
potrebbe sfociare il procedimento di formazione del piano regolatore.
131
F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, cit., 523.
137
Per questa via viene coltivata la possibilità di guadagnare un assenso
di massima sull’istanza o sul progetto preliminare, che spiana la strada per
ottenere l’assenso necessario sul progetto definitivo ed evitare uno spreco
di complessa attività progettuale destinata a possibile insuccesso.
Dal punto di vista dell’ambito applicativo, il comma l, che configura
in termini facoltativi il ricorso alla conferenza, si riferisce a progetti di
particolare complessità, che deve essere adeguatamente motivata e
documentata. La nuova legge di riforma (L. n. 15/2005) estende tale
possibilità anche alle ipotesi di insediamenti produttivi di beni e servizi (in
altre parole, i procedimenti che si svolgono innanzi allo Sportello Unico
per le attività produttive, di cui al D.P.R. n. 447 del 1998), subordinando in
ogni caso la presentazione dell’istanza de qua alla allegazione di un studio
di fattibilità che attesti la effettiva complessità dell’opera del privato (si
amplia in questo modo il concetto di documentazione progettuale); il
comma 2 prevede invece il ricorso generalizzato ed obbligatorio al modulo
della conferenza quando il progetto preliminare (art. 93, comma 3, del
Codice) abbia ad oggetto procedure per la realizzazione di opere pubbliche
e di interesse pubblico.
Dunque, il comma 1 sembra riguardare opere private di particolare
complessità (il che è avvalorato dal carattere facoltativo e dall’addebito
delle spese della conferenza a carico dell’istante), per le quali l’interessato
chiede la verifica anticipata e l’amministrazione discrezionalmente valuta
l’opportunità della convocazione; il comma 2 concerne invece opere
pubbliche e di interesse pubblico (e dunque pur se l’opera è di origine
privata) per le quali lo strumento della conferenza, come per la conferenza
decisoria classica, assume caratterizzazione obbligatoria.
Circa il grado di vincolatività che grava sull’amministrazione in
ordine alle opere sì private, ma di interesse pubblico (si pensi alle strutture
alberghiere, per quanto sulla loro qualificazione in termini di interesse
pubblico non vi è unanimità di orientamenti in giurisprudenza), ci si chiede
in quale misura l’amministrazione procedente sia tenuta o meno a
convocare una conferenza preliminare.
La risposta non potrebbe che essere positiva, atteso che tale obbligo
procedimentale trova fondamento, come già detto, nell’esigenza di evitare
sprechi progettuali a carico dei soggetti, pubblici o privati che siano,
committenti, e dunque assume, al pari di altri obblighi procedimentali come
ad esempio il diritto di accesso e quello di partecipazione, autonoma
rilevanza rispetto alla posizione sostanziale che è sottesa al bene della vita
che si intende conseguire in via principale, ossia l’autorizzazione alla
realizzazione dell’opera.
Pertanto, la conferenza che abbia ad oggetto opere private di interesse
pubblico, qualora si svolga in assenza di una fase (necessariamente)
preliminare, dovrebbe essere dichiarata illegittima, a prescindere dalla
138
bontà della decisione (negativa) assunta in merito al progetto, con ogni
conseguenza in ordine ai profili risarcitori, peraltro ben evidenziabili in
presenza di una attività progettuale vanamente svolta132.
Diverse sono le disposizioni dettate per le due ipotesi dal punto di
vista procedimentale: nella ipotesi di cui al comma l, la conferenza deve
pronunciarsi entro 50 giorni, ma il termine, non assistito da un qualche tipo
di sanzione, è meramente ordinatorio.
Nella ipotesi di cui al comma l, invece, le amministrazioni devono
tutte pronunciarsi nel termine di 45 giorni, sempre che non vi siano
elementi preclusivi, che fanno ritenere inaccettabile in sé l’opera progettata.
Ulteriore profilo di difformità tra le due ipotesi concerne l’intensità
della verifica rimessa alle singole amministrazioni.
Nella conferenza di cui al comma l, le amministrazioni coinvolte
devono esprimere un’indicazione di massima circa le condizioni alle quali
daranno il loro assenso; per converso, nella conferenza di cui al comma 2,
con la previsione che siano indicati anche gli elementi necessari e le
condizioni per l’assenso sul definitivo, sembra quasi che le amministrazioni
in conferenza debbano svolgere una più penetrante opera di integrazione e
ausilio rispetto al progetto preliminare presentato dall’amministrazione
istante.
Il comma 5, ancora, specifica che il responsabile del procedimento
(relativo alla realizzazione dell’opera pubblica) trasmette il progetto
definitivo formulato sulla scorta delle condizioni e degli elementi indicati
dalle amministrazioni, e procede, tra il trentesimo e il sessantesimo giorno
successivi alla trasmissione, alla convocazione di una conferenza di servizi,
questa volta pienamente decisoria, che si concluderà con un provvedimento
che terrà luogo di tutti gli assensi comunque denominati. Rimane salva la
previsione, ora desumibile dall’art. 143 del Codice (vedi anche art. 9,
comma 2 del D.P.R. n. 554/1999) a tenore della quale in caso di appaltoconcorso o di concessione di lavori pubblici la conferenza decisori a viene
convocata dall’amministrazione aggiudicatrice sulla base del solo progetto
preliminare133. In tal caso, la conferenza finale non si esprime anche sul
progetto definitivo, e tanto evidentemente in considerazione del fatto che
132
Si veda M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 514-515.
Una particolarità si desume ex adverso dalla disciplina prevista dal comma 3, che
concerne le ipotesi in cui sia necessario acquisire la Valutazione di impatto ambientale.
Infatti, in questo caso l’amministrazione che deve rilasciare la Via si preoccupa di
vagliare il progetto esaminando tutte le principali alternative, compresa l’opzione zero.
In tal modo appare evidente che nei primi due casi il legislatore ritiene che solo
elementi di radicale incompatibilità possano bloccare l’opera. Mentre maggiore
discrezionalità viene riservata a favore delle amministrazioni preposte alla tutela
dell’ambiente, che possono bocciare senza speranza alcuna il progetto loro presentato.
133
139
per tali procedure la stesura del progetto definitivo compete al
concessionario ed all’appaltatore.
Ricapitolando sulla figura, in particolare, del concessionario di lavori
pubblici: la conferenza di servizi sul progetto preliminare è convocata e
tenuta dall’amministrazione concedente; quella sul progetto definitivo può
essere convocata sempre dall’amministrazione concedente oppure, dietro
autorizzazione di questa, dal concessionario, il quale è in ogni caso invitato
a partecipare, senza diritto di voto, alla conferenza stessa (art. 144, comma
10, del codice). Come già anticipato, il d.d.l. Capezzone (AS 1532) tende
ad ampliare ancor di più tale ruolo, assegnando in sostanza anche al
concessionario (ivi compreso il gestore o concessionario di servizi) il
diritto a partecipare, pur senza diritto di voto, alla conferenza di servizi
avente ad oggetto il progetto di sua competenza.
Su quale sia il valore degli assensi preventivi espressi in seno alle
conferenze di cui ai commi l, 2 e 3, il legislatore si sbilancia nel comma 4,
laddove prevede che il preventivo assenso possa essere revocato solo in
base ad elementi sopravvenuti, eventualmente sottolineati dai privati in
sede di partecipazione al procedimento, e quindi non in base ad una
differente valutazione degli elementi di cui l’amministrazione fosse già in
possesso precedentemente. In forza di un’interpretazione conforme ai
principi generali, deve ritenersi che tale limite al ripensamento riguardi
soltanto i profili di opportunità dell’assenso e non quelli di legittimità. Il
legislatore tutela, infatti, l’affidamento eventualmente ingenerato nell’istante circa il felice esito del procedimento, inibendo l’amministrazione che
ha errato nella preventiva valutazione di manifestare una volontà diversa.
Si discute, anche, se il diniego manifestato difformemente da quanto
espresso in sede di prima conferenza sia viziato da radicale nullità, in
quanto la volontà dell’amministrazione è già stata espressa e non può
essere nuovamente manifestata in assenza di elementi sopravvenuti (salvi i
ricordati profili di illegittimità del primo avviso); ovvero, come appare più
probabile, si tratti di un mero vizio di violazione di legge (o di eccesso di
potere per contraddittorietà comportamentale), che richiama il più mite
regime della annullabilità.
La legge n. 15 del 2005 ha previsto in ogni caso l’applicazione della
procedura del dissenso, di cui all’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990,
nelle ipotesi di conferenze preliminari aventi ad oggetto opere interregionali.
9. Il procedimento: Premessa
Colmando una lacuna presente nella legislazione previgente, l’art. 14ter della L. n. 241/1990, come introdotto dalla legge n. 340 del 2000, fissa
le regole relative all’organizzazione ed al funzionamento della conferenza.
La norma è riferita genericamente a tutte le ipotesi di conferenza, anche se
140
la disciplina appare ritagliata, quanto ai profili del dissenso, in particolare
sulle problematiche tipiche della conferenza decisori134
Sulle carenze ed ambiguità della disciplina legislativa si sono
appoggiate, nel corso degli anni novanta, una serie di incertezze
ricostruttive dell’istituto della conferenza di servizi. Nella disciplina
generale previgente, infatti, non erano regolate, ad esempio:
- le modalità da seguirsi, da parte dell’amministrazione procedente, nella
attività di convocazione della conferenza di servizi;
- non era previsto espressamente che l’atto di convocazione dovesse
contemplare uno schema già elaborato di decisione;
- il funzionamento della conferenza, né era fissato alcun termine per la
conclusione del lavori della conferenza di servizi.
La nuova disciplina legislativa - introdotta come detto dalla legge n.
340 del 2000 - apporta al contrario sufficiente chiarezza sui profili
problematici indicati e, più in generale, sui caratteri funzionali dell’istituto.
Non a caso, l’art. 11 della richiamata legge n. 340 del 2000 è intitolato
espressamente al “Procedimento della conferenza di servizi”135.
10. Organizzazione, funzionamento e tempi
Come accennato, il funzionamento della conferenza decisoria è
ritagliato su quello degli organi collegiali.
L’art. 10 della L. n. 15/2005 modifica l’art. 14-ter della L. n.
241/1990, introducendo disposizioni procedurali e chiarendo alcuni dubbi
interpretativi.
In particolare, rispetto al testo vigente si prevede, accanto al termine per
l’indizione di cui all’art. 14, comma 2 (trenta giorni dalla ricezione della
richiesta da parte delle amministrazioni competenti a rilasciare qualsivoglia
atto di assenso), anche un termine per la convocazione (ossia, quindici giorni
in via ordinaria, prorogabili di ulteriori quindici per progetti di elevata
complessità). La formulazione introdotta dall’art. 9 della L. n. 340/2000,
infatti, mentre stabiliva un termine (prima di quindici giorni, ora di trenta)
per l’indizione della conferenza di servizi, nulla statuiva in ordine ai tempi di
convocazione della stessa. Trattasi, in effetti, di due fasi logicamente e
giuridicamente distinte, ma di fatto spesso confuse dal legislatore. La
conseguenza, sul piano della pratica applicazione della disciplina, era
134
Con ordinanza 6 marzo 200l, la sezione VI ha ad esempio escluso, con
riferimento alla normativa anteriore alla L. n. 340/2000, che alla conferenza di servizi di
tipo istruttorio si applichino le disposizioni volte a disciplinare le ipotesi di dissenso
come l’art. 14, comma 3-bis, della L. n. 241/1990, che, prima della L. n. 340/2000,
prevedeva il potere di sospensione delle determinazioni conclusive (cfr. par. 264).
135
D. D’ORSOGNA, Conferenza di servizi, cit., 188-189.
141
piuttosto evidente, dal momento che le amministrazioni procedenti, laddove
non ravvisassero esigenze di particolare celerità, avrebbero potuto sì
assolvere all’obbligo di indizione, procrastinando però allo stesso tempo sine
die il momento di effettivo avvio dei lavori della conferenza stessa136.
La convocazione, con l’ordine del giorno, deve pervenire alle
amministrazioni con almeno 10 gg. di anticipo; le amministrazioni, entro 5
giorni, hanno la possibilità di chiedere un rinvio, in caso di impossibilità,
ad una data fissata in ogni caso entro 10 gg. dalla prima (comma 2).
Sul termine per la convocazione della conferenza di servizi si è ampiamente
espresso il TAR Veneto, con la decisione n. 705 del 2007. In particolare, detto
giudice si è preoccupato di stabilire se il termine per la convocazione della
conferenza di servizi indicato dall’art. 14-ter della legge n. 241/90 sia libero o
meno. Il quesito è stato risolto nel primo senso. Stabilisce, invero, la richiamata
disposizione che “la convocazione [...] della conferenza di servizi deve pervenire
alle amministrazioni interessate... almeno cinque giorni prima della relativa
data”. Ciò significa dunque - ad avviso del giudice di primo grado - che il giorno
precedente a quello fissato per la riunione (e cioè, nel caso di specie, si trattava
del 2 luglio, atteso che la riunione era indetta per il successivo 3 luglio) è il dies
ad quem utile per il ricevimento, da parte delle Amministrazioni interessate,
dell’avviso di convocazione: avviso che, essendo pervenuto in tale evenienza alle
Amministrazioni il 28 giugno, non lasciava alle stesse il margine temporale
previsto dalla legge, in quanto, poiché dal computo deve escludersi, secondo la
regola generale di cui all’art. 155 cpc, il giorno iniziale (e cioè il 28 giugno),
residuavano soltanto quattro giorni utili.
In caso di sua violazione, si tratterebbe dunque di un vizio di legittimità del
procedimento.
Né può affermarsi - prosegue il medesimo giudice - che l’avvenuta
partecipazione alla conferenza di tutte le Amministrazioni chiamate abbia sanato
il riscontrato vizio per sopravvenuto raggiungimento dello scopo: la sanatoria,
infatti, potrebbe dirsi realizzata qualora il termine violato fosse previsto ad
esclusivo vantaggio delle Amministrazioni stesse, ma così non è, in quanto scopo
della norma non è quello di consentire la mera partecipazione delle
Amministrazioni coinvolte (affinché abbiano soltanto a difendere gli interessi
alla cui tutela sono preposte), ma di consentire la loro partecipazione
consapevole (affinché, da una compiuta ed esaustiva analisi e dal successivo
contemperamento dei vari interessi coinvolti, pubblici e privati, possano trarre,
quale momento di sintesi, una conclusione che, pur nell’accertata prevalenza di
quelli pubblici, sia comunque di giusto compromesso tra tutti gli interessi).
Sulle modalità di convocazione alla conferenza è invece intervenuta la
quarta sezione del Consiglio di Stato (decisione n. 7450 del 2004).
Nel caso di specie, alcuni cittadini impugnavano l’autorizzazione concessa ad
136
F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, cit., 527 ss.
142
una impresa che, nel corso del processo produttivo di lavorazione di talune
sostanze, recava problemi di inquinamento atmosferico.
Tra i motivi di impugnativa vi era la mancata convocazione, alla conferenza
di servizi, dell’AUSL e della provincia, competenti rispettivamente in materia di
tutela della salute e dell’ambiente.
Il giudice di primo grado aveva ritenuto di applicare la specifica normativa
regionale (legge Regione Veneto n. 33/1985), secondo la quale la conferenza di
servizi di cui all’articolo 3-bis della L. 441/1987 (normativa in materia di rifiuti)
è valida quando sia presente la maggioranza dei componenti, purché essa
raggiunga almeno il 40% dei componenti previsti: l’assenza dei rappresentanti
delle predette amministrazioni non poteva dunque inficiare la validità delle
delibere autorizzatorie assunte in quella stessa sede. A tal fine riteneva altresì
valida la convocazione effettuata a mezzo fax.
Il Consiglio di Stato ha invece ribaltato tale impostazione, affermando che
della dedotta convocazione attraverso fax delle predette amministrazioni, le quali
non hanno partecipato alla conferenza, non fosse stato offerto alcun elemento di
prova da parte della amministrazione appellata (ossia, la regione): “l’avvenuta
comunicazione sarebbe, infatti, dovuta essere provata attraverso un estratto dei
registri del protocollo delle Amministrazioni, che erano tenute a protocollare i fax
in arrivo”.
Tale decisione si pone in netta controtendenza rispetto alle più recenti
decisioni dello stesso Consiglio di Stato in materia di comunicazioni a mezzo fax.
Nella sentenza n. 2207 del 2002 della quinta sezione, si afferma infatti che
«il fax rappresenta uno dei modi in cui può concretamente svolgersi la
cooperazione tra i soggetti, in quanto essa viene attuata mediante l’utilizzo di
un sistema basato su linee di trasmissione di dati ed apparecchiature che
consentono di poter documentare sia la partenza del messaggio dall’apparato
trasmittente che, attraverso il cosiddetto rapporto di trasmissione, la ricezione
del medesimo in quello ricevente. Tali modalità, garantite da protocolli
universalmente accettati, indubbiamente ne fanno uno strumento idoneo a
garantire l’effettività della comunicazione. In tal senso, infatti, si muove la
normativa più recente (D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445) che consente un uso
generalizzato del fax nel corso dell’istruttoria, sia per la presentazione di
istanze e dichiarazioni da parte dei privati (articolo 38, comma 1) che per
l’acquisizione d’ufficio da parte dell’amministrazione di certezze giuridiche
(articolo 43, comma 3). Tanto è vero che “i documenti trasmessi da chiunque ad
una pubblica amministrazione tramite fax, o un altro mezzo telematico o
informatico idoneo ad accertarne la fonte di provenienza, soddisfano il requisito
della forma scritta e la loro trasmissione non deve essere seguita da quella del
documento originale” (articolo 43, comma 6). Posto quindi che gli
accorgimenti tecnici che caratterizzano il sistema garantiscono, in via generale,
una sufficiente certezza circa la ricezione del messaggio, ne consegue non solo
l’idoneità del mezzo a far decorrere termini perentori, ma anche che un fax deve
presumersi giunto al destinatario quando il rapporto di trasmissione indica che
questa è avvenuta regolarmente, senza che colui che ha inviato il messaggio
debba fornire alcuna ulteriore prova. Semmai la prova contraria può solo
143
concernere la funzionalità dell’apparecchio ricevente; ma questa non può che
essere fornita da chi afferma la mancata ricezione del messaggio».
Tornando allo snodo procedimentale entro cui si svolge la conferenza,
il comma l stabilisce che essa delibera a maggioranza le determinazioni
relative alla sua organizzazione.
L’ambito di tali determinazioni va ovviamente desunto in negativo
dagli spazi lasciati liberi dal legislatore.
Una specificazione della previsione di cui al comma l, in tema di
potere di auto-organizzazione, è rappresentata dal comma 3, a dire del
quale spetta alla conferenza, nella prima riunione, determinare il termine
per l’adozione della decisione conclusiva. In ogni caso il termine non può
essere superiore a novanta giorni, fatta salva la disciplina speciale prevista
dal comma 4, qualora sia necessario acquisire la VIA.
L’inutile decorso del termine comporta l’attivazione dello stesso
meccanismo previsto nel caso di dissenso, ossia il radicarsi in capo
all’amministrazione procedente del potere di adottare la decisione
definitiva sulla base delle posizioni acquisite in sede di conferenza.
Il meccanismo è simile a quello previsto, in caso di mancato rispetto
del termine, dal previgente comma 2-bis dell’art. 14, il quale prevedeva
peraltro il potere di assumere da parte dell’amministrazione procedente, in
via solitaria, la determinazione finale dandone comunicazione, a seconda
dei casi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Presidente della regione
od al Sindaco ai fini dell’eventuale sospensione137.
Sulla natura dei termini previsti dalla normativa sulla conferenza di servizi
è intervenuto il Consiglio di Stato.
La questione aveva ad oggetto una procedura di localizzazione di opere
pubbliche: è qui necessario, come noto, una intesa tra Stato e Regione, da
raggiungere in esito ad una conferenza di servizi, che viene convocata qualora sia
necessario apportare, per l’approvazione del progetto stesso, una variante agli
strumenti urbanistici vigenti.
La disposizione di cui al D.P.R. n. 383/1994 prevede, peraltro, che nel caso
in cui non sia raggiunta la predetta intesa nel termine di 90 giorni, la decisione è
rimessa al Consiglio dei ministri.
Nel caso di specie alcuni privati, interessati dalla predetta procedura di
localizzazione, contestavano che l’intesa fosse intervenuta ben oltre lo scadere
del termine di 90 giorni, ossia in un momento in cui le amministrazioni
avrebbero già consumato i rispettivi poteri decisori, e che i medesimi poteri
dovevano intendersi ormai devoluti in capo al Consiglio dei ministri.
137
La riforma del procedimento amministrativo (L. n. 15/2005) prevede ora una
intervento risolutivo anche in sede di Conferenza Stato-Regioni, oppure Unificata, in
caso di contrasto tra amministrazioni statali e regionali, oppure locali, oppure ancora tra
amministrazioni regionali e locali.
144
Il Consiglio di Stato (sez. IV, n. 6714 del 2004) non ha condiviso tale impostazione,
ritenendo al contrario che:
a) il termine di 90 giorni per la formazione dell’intesa non deve considerarsi
perentorio;
b) la norma in parola è rivolta unicamente a regolare il potere d’intervento del
Consiglio dei ministri, ma non può essere interpretata nel senso che, decorso il
termine di 90 giorni, la regione perde il potere di procedere alla formazione
dell’intesa, potere che, dunque, può essere efficacemente esercitato fintanto che
non risulti esercitato quello, concorrente, del Governo (cfr. Cons. St., Sez. IV, 6
maggio 1992, n. 481);
c) a sostegno della non perentorietà di tale termine si osserva, da un lato, che
secondo l’orientamento della giurisprudenza tale natura deve essere espresamente prevista dalla singola disposizione; dall’altro lato, che in assenza di
specifica previsione in tal senso, i termini per l’esplicazione di potestà pubbliche
hanno, di regola, carattere meramente sollecitatorio.
Pur riferito ad una conferenza di settore, si deve ritenere che i principi elaborati
in questa sede dal giudice amministrativo siano senz’altro estensibili alla
procedura ordinaria della conferenza di servizi.
Sull’argomento si avrà peraltro modo di tornare più avanti.
L’art. 8, comma l, lettera d), della legge n. 15 del 2005, prevede a sua
volta il ricorso a sistemi informatici per lo svolgimento concreto delle
conferenze, presumibilmente anche a distanza (c.d. teleconferenze). Ci si
interroga - al di là degli innegabili risparmi sul piano della spesa pubblica sull’efficacia di tale strumento, posto all’interno di un modello le cui
possibilità di successo - come più volte ribadito nel corso di questo lavoro si basano proprio sul confronto (fisico) diretto e dialettico tra le varie
amministrazioni portatrici di diversi interessi (dopotutto, nella conferenza
di servizi si assiste ad un vero e proprio “gioco delle parti”).
Nei procedimenti in cui è richiesta la VIA (valutazione d’impatto
ambientale), la conferenza di servizi, benché riunita prima della adozione
del provvedimento sulla valutazione di impatto ambientale, attende di
conoscere tale determinazione per esprimersi. Nel caso, però, la Valutazione non venga adottata nei termini per l’adozione del provvedimento,
l’amministrazione competente si esprime all’interno della conferenza; in tal
caso la conferenza si conclude nei trenta giorni successivi al decorso del
termine entro cui doveva essere adottata la VIA.
Rimane tuttavia ferma la possibilità che la conferenza, a maggioranza
dei partecipanti, deliberi la proroga di altri trenta giorni per esigenze
istruttorie138.
138
La sanzione per l’amministrazione competente ad adottare la Via in caso di
ritardo consiste nella dequotazione del suo dissenso, che può essere superato mercé
l’adozione della decisione finale da parte del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 14145
La L. n. 15/2005 reca disposizioni dirette ad evidenziare meglio gli
esatti tempi di intervento e di inserimento della VIA: anche in linea con
quanto previsto dalla normativa vigente in materia ambientale (ove si fa
riferimento, in via implicita ovvero esplicita, ad una sospensione dei
termini previsti per la procedura di approvazione ogniqualvolta risulti
necessario acquisire detta valutazione) la disposizione in parola (art. 1O,
comma l, lettera c) indica la complessiva durata del procedimento di
conferenza di servizi nel caso in cui al suo interno debba essere acquisita
una valutazione di impatto ambientale.
Si prevede, al riguardo, la sospensione dei termini della conferenza di
servizi, qualora debba essere assunta tale valutazione. Si tratta di una
soluzione tutto sommato conforme alle disposizioni che, in generale,
regolano la VIA: in esse si fa infatti riferimento, in via implicita ovvero
esplicita, ad una sospensione dei termini previsti per la procedura di
approvazione dei progetti di volta in volta interessati. Ed infatti, mentre la
L. n.349/86 prevede che, decorsi i termini per la pronuncia sulla
compatibilità la «procedura di approvazione del progetto riprende il suo
corso» (ipotesi di sospensione implicita), il D.L. n. 22/1997 (c.d. «decreto
Ronchi ») stabilisce espressamente, all’art. 27 (recante norme per la
realizzazione di nuovi impianti di smaltimento o di recupero di rifiuti), che
il termine di novanta giorni indicati per la conclusione dei lavori della
conferenza di servizi (si noti la coincidenza di tale previsione con quella
riportata nella L. n. 241/1990) «resta sospeso fino all’acquisizione della
pronuncia sulla compatibilità ambientale» (ipotesi di sospensione esplicita).
Per quanto attiene alla valutazione comunque espressa in tema di VIA,
il legislatore non affronta apertamente la questione, ma alcune tracce
ricostruttive possono essere desunte dal comma 5 dell’art. 14-ter.
Infatti, quest’ultimo prevede che se sia già intervenuta la Via, le
disposizioni di cui al comma 3 dell’art. 14-quater, volte a superare il
dissenso espresso in seno alla conferenza siano applicabili solo laddove si
tratti di amministrazioni preposte alla tutela della salute pubblica.
quater (oppure alla Conferenza Stato-Regioni/Unificata, secondo le linee della nuova
riforma). Questa prospettazione normativa, peraltro, suscita non poche perplessità, dal
momento che si fanno pesare sulla tutela di un bene di rango superiore, quale può essere
quello della tutela dell’ambiente, eventuali disfunzioni dell’amministrazione. Ciò che
sorprende, in definitiva, è che possa essere sminuito il peso della decisione di
un’amministrazione la cui competenza a decidere è fondata anche sul possesso di
particolari strumenti di rilevazione e di valutazione dei rischi derivanti all’ambiente
dalla costruzione di un’opera. Da questo punto di vista il legislatore forse si sarebbe
dovuto muovere o nel senso di stigmatizzare il comportamento inerte del responsabile
del procedimento, ovvero di prevedere interventi surrogatori di altre amministrazioni
aventi competenze di analoga natura. Per una recente applicazione giurisprudenziale in
materia di rapporti tra VIA e conferenza di servizi, vedi T.A.R. Veneto, sez. I, sentenza
n.2234/2005.
146
Da ciò si desume che negli altri casi il provvedimento negativo di Via
espresso prima della conferenza non possa in alcun modo essere superato,
salva la sua impugnazione dinanzi al giudice amministrativo. Ulteriore
chance è fornita, però, dal disposto del comma 5 dell’art. 14-quater.
Secondo questa disposizione il provvedimento negativo di Via può
comunque essere superato attraverso il meccanismo di cui al comma 2,
letto c-bis) dell’art. 5 della L. n. 400/1988, che prevede che il Consiglio dei
ministri su impulso del Presidente possa svolgere una funzione di
mediazione per il superamento dei contrasti tra le amministrazioni.
11. Il soggetto legittimato a partecipare
Quanto alla rappresentanza dell’amministrazione coinvolta, il comma
6 stabilisce che un unico rappresentante legittimato dall’organo competente
esprime la volontà dell’amministrazione in modo vincolante per la stessa su
tutte le decisioni che le competono. Dal momento della nomina, pertanto, la
volontà dell’amministrazione, in ogni fase, viene manifestata dal
rappresentante debitamente legittimato dall’organo competente; e tanto in
omaggio alla generale costruzione secondo la quale la conferenza non
introduce elementi di novità rispetto all’organizzazione delle singole
amministrazioni.
La norma, in sostanza, sopendo le dispute sorte in passato, richiede
che il rappresentante dell’ente sia dotato preventivamente del potere di
vincolare l’ente, potere che presuppone un’investitura ad hoc dell’organo
competente (ove non coincidente) in relazione allo specifico ordine del
giorno139. Tale autorizzazione assume valenza decisiva alla luce delle
139
Prima della L. n. 340/2000, si discuteva circa il margine di azione del soggetto
che interveniva in sede di conferenza in rappresentanza dell’amministrazione, con
particolare riguardo alla possibilità per il rappresentante di assentire a determinazioni in
parte diverse da quelle in relazione alle quali era stato conferito il potere
rappresentativo.
Si sono prospettate tre distinte ipotesi di definizione dei rapporti tra soggetto
rappresentante ed ente rappresentato.
Una prima ipotesi vede il rapporto in questione fondarsi su direttive la cui attuazione
è sottoposta alla verifica del rappresentato; altra ipotesi parla di delega condizionata al
rappresentante che partecipi alla conferenza. con conseguente impossibilità di adesione
da parte dell’ente rappresentato alla determinazione concordata in caso di
scantonamento da quanto indicato nella delega ed inefficacia degli assensi infedeli; altri,
infine, paventa una riserva attraverso la quale il rappresentato si riserva di esprimere un
consenso definitivo all’esterno della conferenza.
Quest’ultima ricostruzione, peraltro, è stata giudicata in dottrina disarmonica rispetto
all’intento di concentrazione procedimentale che anima l’istituto della conferenza,
dovendosi sin dall’inizio sedere al tavolo della conferenza solo un soggetto in grado di
esternare pienamente la volontà dell’ente che rappresenta in sede procedimentale.
147
modifiche introdotte dalla L. n. 15/2005, che ha eliminato l’istituto del
dissenso postumo: dunque, le posizioni delle amministrazioni saranno
“cristallizzate” esclusivamente all’interno della conferenza.
La delega è in particolare necessaria - pena l’illegittimità del parere
emesso - quando l’organo legittimato non può partecipare direttamente,
come nel caso di organi collegiali rappresentati in conferenza (es. comuni):
in tal caso il collegio deve deliberare il conferimento della delega, fornendo
al delegato l’indirizzo votato dal collegio140.
In proposito, la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibile sia che la
delega risulti condizionata ad una determinata soluzione, sia che in essa
venga inserita una espressa riserva di preventivo esame, da parte della
amministrazione delegante, dello schema delle determinazioni definitive
verso le quali le amministrazioni partecipanti si orientano141.
Sul tema dei poteri esercitabili in conferenza, e in particolare da parte del
sindaco (in relazione agli aspetti urbanistici), è intervenuto il Consiglio di Stato
con decisione n. 4780 del 2004 della quinta sezione.
Come noto, la conferenza prevista dall’art. 27 del D.L. n. 22/1997 (c.d.
decreto “Ronchi”) per l’autorizzazione allo smaltimento di rifiuti, può
comportare, ove necessario, l’adozione di una variante agli strumenti urbanistici.
Gli appellanti avevano dedotto, in particolare, la violazione dell’art. 27,
comma 5, della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del D.L. n. 267/2000), considerato che
la partecipazione del Sindaco alla conferenza di servizi dovesse considerarsi
inefficace, in assenza di ratifica del Consiglio comunale, in quanto si andava ad
incidere sulla destinazione urbanistica dell’area interessata dall’intervento.
Il rilievo trae argomento dal dato che, in base all’art. 27, comma 5, del D.L.
n. 22/1997, l’approvazione del progetto di discarica costituisce, ove occorre,
variante allo strumento urbanistico comunale.
Il Consiglio di Stato ha rigettato l’eccezione, in quanto la norma invocata
del TUEL non poteva trovare applicazione al caso di specie.
Ovviamente qualora l’oggetto della conferenza risulti del tutto stravolto allora il
rappresentante dell’ente, a meno che non coincida con l’organo competente a
manifestare la volontà dell’ente, sarà ritenuto privo dei poteri necessari ad esprimere
definitivamente la volontà dell’ente rappresentato.
140
Secondo alcuni autori (SCOCA), in questo caso l’indirizzo espresso non dovrebbe
legare il rappresentante a posizioni «definitivamente precostituite, perché queste
impedirebbero la valutazione congiunta e contestuale di tutti gli interessi coinvolti».
141
Corte Cost., 28 luglio 1993, n. 348. Queste limitazioni sono da taluni viste con
sfavore in quanto da un lato sortiscono l’inevitabile effetto di appesantire la procedura
nel suo complesso, e dall’altro incidono negativamente sulla valutazione comparativa
degli interessi, che dovrebbe invece svolgersi contestualmente e incondizionatamente;
la delega dovrebbe essere, in altre parole, « ragionevolmente ampia ». Il citato
meccanismo della delega condizionata e della riserva di esame non sembrano inoltre
coerenti con la necessità di assicurare alla conferenza rappresentanti in grado di
esprimere « definitivamente» la volontà dell’ente (BERTINI).
148
Ed infatti, la disposizione secondo cui “ove l’accordo comporti variazione
degli strumenti urbanistici, l’adesione del sindaco allo stesso deve essere
ratificata dal Consiglio comunale entro trenta giorni a pena di decadenza”, si
riferisce più propriamente all’accordo di programma, contemplato dalla norma
stessa, il quale “consiste nel consenso unanime delle amministrazioni statali e
locali e degli altri soggetti pubblici interessati, ma non può estendersi alla
differente ipotesi della Conferenza dei servizi, prevista in tema di approvazione
di progetti di discarica, diretta alla acquisizione contestuale e coordinata della
pluralità di interessi incisi, nell’ambito di un provvedimento di amministrazione
attiva di esclusiva attribuzione regionale, senza che possano assumere efficacia
vincolante e preclusiva gli eventuali dissensi’’.
In altri termini, il giudice amministrativo ha ritenuto che le disposizioni
sull’accordo di programma non siano applicabili - per analogia - alla conferenza
di servizi: mentre il primo si caratterizza per il livello di alta pianificazione, e
dunque in grado di incidere sul quadro normativo esistente, la conferenza di
servizi si muove maggiormente sul piano degli specifici interventi, nel rispetto
del quadro normativo vigente (cfr. Cons. Stato, parere n. 1622 del 1997). Sul
rapporto tra conferenza di servizi ed accordi di programma, si veda più avanti il
capitolo VI, specificamente dedicato ai profili processuali.
Per quanto attiene, poi, alla individuazione dell’organo, politico o
amministrativo, legittimato a partecipare alla conferenza, si deve assumere
come punto di partenza il ragionamento del Consiglio di Stato che, in sede
consultiva (parere n. 1622 del 1997), si è espresso nel senso che l’istituto
della conferenza di servizi non muta l’assetto normativo vigente,
muovendosi anzi nel pieno rispetto dello stesso.
Se ne dovrebbe concludere che, in generale, restando inalterata la
vigente normativa (fatte le dovute eccezioni in ordine alle cosiddette
conferenze speciali, o derogatorie), dovrebbe mantenersi altrettanto
immutato il quadro delle competenze, non solo esterne (quelle cioè
istituzionalmente attribuite all’amministrazione), ma anche interne, relative
ossia alla distribuzione dei diversi poteri sul piano organizzativo
dell’amministrazione.
Pertanto, se attributario di una certa funzione (di gestione) è l’organo
dirigenziale, unico legittimato a partecipare con pieni poteri alla conferenza
sarà lo stesso dirigente della struttura competente (senza che occorra
ovviamente un atto di delega), oppure un funzionario da lui delegato. Se
invece si tratti di poteri riservati alla sfera di indirizzo politico (si pensi
ancora agli interventi di pianificazione, all’interno dei quali la conferenza è
concepita al fine di apportare varianti agli strumenti urbanistici),
competente a partecipare non potrà che essere un componente, vertice
compreso, dell’organo collegiale di governo (giunta regionale, provinciale
o comunale), purché abbia ricevuto una specifica delega in tal senso da
parte del collegio da lui rappresentato (salvo che la competenza ad
149
esprimere la volontà dell’ente sia invece direttamente attribuita al Sindaco,
nel qual caso lo stesso sarà ex lege legittimato, o meglio autorizzato, ad
agire di propria iniziativa - salvo l’opportunità di un coinvolgimento degli
organi collegiali - e fermo restando il potere di delegare ad altri una sua
competenza)142.
In questi termini sembra esprimersi il Consiglio di Stato nella sentenza n.
8080 del 2003 della quinta sezione. Nel caso di specie (si trattava di apertura di
nuovi centri commerciali), la parte appellante deduceva violazione dell’art. 107
del D.L. n. 267/2000, e degli artt. 14 e seguenti della L. n. 241 del 1990,
considerato che, ai sensi di tali disposizioni, rientrando il rilascio di
provvedimenti autorizzativi nella competenza dei dirigenti, avrebbero dovuto
partecipare alla conferenza di servizi organi dirigenziali ed amministrativi e non,
come in concreto era accaduto, politici o amministratori. Le norme di riferimento
(tra cui anche una legge regionale di attuazione del D.L. n. 114/1998) prevedono
infatti il rilascio dell’autorizzazione commerciale ad opera del dirigente e tale
competenza - sempre secondo la tesi dell’appellante - non muta se si decide in
conferenza di servizi.
Secondo il Consiglio di Stato la “conferenza di servizi, abbia essa funzione
istruttoria o decisoria, costituisce un modulo organizzativo di semplificazione ed
ottimizzazione temporale del procedimento al fine del miglior raccordo delle
Amministrazioni nei procedimenti pluristrutturali destinati a concludersi con
decisioni connotate da profili di complessità. Siffatta modalità di svolgimento
dell’azione amministrativa presuppone e conserva integri i poteri e le
competenze delle Amministrazioni partecipanti, alle quali, pertanto, restano
imputati gli atti e le volontà espresse nel corso della conferenza”.
“Di qui la necessità - prosegue il Consiglio di Stato - che anche i
rappresentanti indicati nell’art. 9 comma 3, del D.L. n. 114/1998, perché la loro
partecipazione sia coerente alla funzione attribuita alla conferenza, siano
legittimati ad esprimere in modo vincolante la volontà dell’Amministrazione”.
Il Supremo Consesso amministrativo conclude affermando che la censura
relativa alla partecipazione di politici o amministratori, in luogo di organi
dirigenziali ed amministrativi competenti, “imponeva, in ogni caso, l’impugnazione degli atti di delega”.
In tale occasione il Consiglio di Stato, dunque, sfiora ma non tocca con la
dovuta incisività il problema dell’organo legittimato a partecipare, in relazione
soprattutto alle conseguenze che l’istituto della conferenza di servizi comporta
sul piano delle competenze, non tanto esterne quanto interne, dell’ente
partecipante.
Significativo appare il passaggio in cui si afferma che la conferenza di
servizi, in quanto modulo essenzialmente di semplificazione procedimentale, non
altera il quadro dei poteri e delle competenze delle amministrazioni partecipanti.
142
S. GLINIANSKI, La legittimazione a partecipare alla conferenza di servizi e la
competenza all’adozione della decisione conclusiva, in “www.giust.it.”.
150
Sempre in merito all’istituto della legittimazione procedimentale è
intervenuta un’altra interessante pronuncia del Consiglio di Stato (sez. VI, n.
4568 del 2003), in cui la parte appellante rilevava, tra l’altro, che sarebbero
mancati, per alcuni partecipanti alla conferenza di servizi, i poteri di
rappresentanza e le relative deleghe.
Il Consiglio di Stato ha tuttavia ritenuto infondata tale censura “poiché, in
termini generali, si deve ritenere che essendo la conferenza di servizi ispirata da
esigenze di celerità e semplificazione, ciò che rileva è l’effettiva sussistenza del
potere di rappresentanza degli enti invitati in capo ai partecipanti, e non anche
la documentazione formale dello stesso”.
Dall’esame dei verbali della conferenza, si evinceva infatti come tutti i
partecipanti fossero muniti della necessaria legittimazione, pur in difetto di
formale delega e conferimento di poteri, atteso che la presenza fisica, in alcuni
casi, dell’assessore competente o comunque dell’organo di vertice
dell’amministrazione (es. direttore ente parco) legittimasse anche la presenza e i
poteri del dirigente della struttura di riferimento.
A parere di chi scrive, ciò sarebbe vero fino a quando il dirigente
competente non sia legittimato, per i poteri conferitigli dalle norme o dal
contratto, ad impegnare la relativa amministrazione di appartenenza; circostanza
questa che si verifica, come nel caso di specie, in particolare laddove occorra
intervenire in materia di pianificazione urbanistica, la cui regolazione è rimessa
direttamente agli organi collegiali di direzione politica dell’ente territoriale.
Qualora si tratti invece di atti strettamente dirigenziali (es. rilascio
concessione edilizia), la presenza del dirigente preposto alla struttura competente
per materia risulta di per sé sufficiente a legittimare la sua partecipazione, non
necessitando ovviamente in questo caso di ulteriori e formali deleghe da parte di
strutture (financo politiche) ad esso sovraordinate. Fatta salva, ovviamente,
l’ipotesi in cui parteciperà un funzionario della struttura stessa, per il quale
occorrerà, questa volta, il rilascio di un formale atto di delegazione da parte dello
stesso dirigente competente.
12. L’acquisizione tacita dell’assenso
Ai sensi del comma 7, in ogni caso si considera acquisito l’assenso
dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso la volontà
definitiva dell’amministrazione. Si tratta, dunque, di una vera e propria
ipotesi di silenzio-assenso.
La precedente formulazione introdotta dalla legge n. 340/2000 prevedeva
che, in alternativa al dissenso (espresso):
a) poteva essere espresso un dissenso “fuori” dalla conferenza, nel termine
perentorio di trenta giorni dalla data di ricevimento della determinazione
(c.d. dissenso postumo);
b) nel medesimo termine, poteva essere altresì proposta impugnativa. Ciò che
rendeva oltremodo dubbio se, espresso il dissenso fuori conferenza in via
151
giurisdizionale, all’amministrazione fosse o meno del tutto inibito l’accesso
alla tutela giurisdizionale avverso il successivo provvedimento finale. In
ogni caso, tale disposizione appariva censurabile poiché non era
sincronizzata con i tempi di reazione processuale (60 giorni),
determinando, all’effetto pratico, un dimezzamento del normale termine di
decadenza che nemmeno la legge n. 205/2000 contempla nella parte in cui
si provvede alla dimidiazione dei termini processuali (Ciaglia)143.
Tali previsioni sono state tuttavia eliminate dalla legge n. 15/2005,
facendo venire meno, con tutta probabilità, le problematiche relative al dies
a quo per l’impugnativa dei provvedimenti della conferenza, nonché alla
natura, costitutiva o semplicemente dichiarativa, del provvedimento finale
di cui al richiamato comma 9 (v. par. 4).
In linea generale, la norma di cui al comma 7, come risultante anche a
seguito delle modifiche ad essa apportate dalla legge n. 15/2005, sembra
fare riferimento al caso della mancata partecipazione alla conferenza di
servizi da parte del rappresentante, alla partecipazione di rappresentante
che non si sia pronunciato o non sia stato munito del potere di
rappresentare l’ente.
La disposizione in parola sembra ora coniugarsi, finalmente, con la
previsione di cui al comma l dell’art. 14-quater, il quale prevede che il
dissenso, a pena di inammissibilità, sia espresso in conferenza. La dottrina
che si era espressa sulla precedente formulazione aveva infatti denunciato
una antinomia, al riguardo, superabile soltanto considerando il caso del
(precedente) comma 7 quale deroga fisiologica al meccanismo descritto al
citato art. 14-quater, comma 1144.
143
È ben vero che, anche a seguito di alcune pronunce (cfr. TAR Toscana, sez. III, 1l
aprile 2003, n. 13871), si andava delineando - prima dell’intervento riformatore - una
situazione in base alla quale:
a) alle amministrazioni partecipanti alla conferenza di servizi era tendenzialmente
riservata la possibilità di impugnare la determinazione conclusiva ai sensi del comma 7
dell’art. 14-ter, ossia entro trenta giorni dalla sua adozione, e in particolare per ragioni
legate al mancato rispetto delle regole di organizzazione della conferenza o di quelle
fissate per legge o di quelle stabilite dalla stessa conferenza, nella misura in cui la loro
violazione avesse inciso negativamente sul corretto svolgimento dei lavori della
conferenza e sui diritti delle amministrazioni partecipanti (in sostanza, per vizi
procedimentali);
b) ai soggetti estranei alla conferenza (dunque i privati, in prevalenza) era infine
riservata la possibilità di impugnare il provvedimento finale, adottato ai sensi del
comma 9 dell’art. 14-ter, entro l’ordinario termine di decadenza (in sintesi, per vizi
sostanziali). Tale prerogativa, per la giurisprudenza, sarebbe stata preclusa alle
amministrazioni partecipanti, cui era invece circoscritto il ricorso ai rimedi di cui al
comma 7 dell’art. 14-ter. Sul punto, la dottrina aveva tuttavia manifestato alcune
considerazioni critiche.
144
F. CARINGELLA, Il processo amministrativo, Napoli, 2002, 187. In merito, invece,
alla invocata formulazione del dissenso in modo motivato, la mancata riproposizione
152
Si segnala in ogni caso come la giurisprudenza amministrativa che si è
pronunziata sul punto non sia giunta, sino ad ora, a soluzioni univoche.
In particolare, mentre alcuni TAR propendono per la soluzione dianzi
prospettata (ossia, applicazione del silenzio-assenso alle amministrazioni
non partecipanti oppure partecipanti ma inerti), altri ritengono al contrario secondo una interpretazione letterale del suddetto comma 7 - che il
meccanismo del silenzio-assenso scatti soltanto per le amministrazioni che
abbiano effettivamente preso parte al procedimento, non anche per quelle
ab initio assenti.
Pur considerando oscura, sul punto, la formulazione attuale del
comma 7 dell’art. 14-ter, non sembra tuttavia - ad avviso di chi scrive - che
l’indirizzo da ultimo adombrato possa proficuamente inserirsi all’interno di
quelli che sono considerati canoni fondamentali della conferenza di servizi,
ossia semplificazione procedimentale e mediazione delle diverse
discrezionalità. Argomenti testuali sono inoltre evincibili in tal senso da
parte del richiamato comma l dell’art. 14-quater (sul punto si veda,
amplius, capitolo V, par. 2).
Ci si interroga - parallelamente - se l’istituto del silenzio-assenso trovi
applicazione nei confronti della conferenza di servizi, ossia non solo con
riguardo alle singole amministrazioni partecipanti, ma anche all’intera
procedura; e ciò anche a seguito delle modifiche apportate, all’art. 20 della
legge generale sul procedimento, da parte del decreto-legge n. 35 del 2005.
Ci si riferisce, in particolare, alle ipotesi di silenzio non delle
amministrazioni partecipanti (ipotesi già disciplinata dall’art. 14-ter,
comma 7, come anche modificato dalla legge n. 15 del 2005), ma di quello
serbato dall’amministrazione procedente.
La problematica sussiste in particolare laddove l’amministrazione
procedente, nei termini previsti per la conclusione dei lavori della
conferenza di servizi, non si sia espressa né positivamente, né
negativamente145.
Si dovrebbe essere indotti a propendere per una soluzione che diriga
in ogni caso l’amministrazione procedente ad esprimere, in senso positivo
oppure negativo, la propria posizione entro il termine previsto per la fine
dei lavori della conferenza (tenuto peraltro conto del notevole tempo che, a
differenza della altre amministrazioni semplicemente convocate, la stessa
dell’inciso di cui all’art. 14-quater (secondo cui la motivazione del dissenso nell’ambito
della conferenza è a pena di inammissibilità) faceva inoltre nascere il dubbio se il
congegno tacito funzionasse anche in caso di dissenso privo di un pur stringente
bagaglio motivazionale. L’identità di ratio sembrava deporre nel senso
dell’improduttività di effetti di un dissenso postumo privo di motivazione (e quindi
incapace di fornire un contributo collaborativo) e della conseguente formazione del
silenzio assenso.
145
Sul punto, M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 523.
153
ha avuto a disposizione per svolgere una adeguata ed approfondita
istruttoria).
Si pensi inoltre al caso in cui la maggioranza delle amministrazioni
partecipanti si sia espressa in senso negativo, piuttosto che positivo. È
chiaro che, in questo caso, un comportamento inerte dell’amministrazione
procedente potrebbe surrettiziamente provocare il superamento delle
amministrazioni dissenzienti, determinando indirettamente una svolta
positiva nella decisione finale, e con ciò tradendo quella che è la effettiva
ratio perseguita dal legislatore, ossia quella di far emergere l’interesse
prevalente (e non quello dell’amministrazione procedente).
D’altra parte, secondo l’art. 20 della legge n. 241 del 1990, nella
formulazione introdotta dal D.L. n. 35 del 2005, la conferenza di servizi
può essere utilizzata dal terzo estraneo al procedimento - quale mezzo di
tutela procedimentale - anche per evitare gli effetti iugulatori del silenzioassenso, e dunque per avere la possibilità di un confronto aperto proprio in
sede di conferenza.
In altre parole, lo strumento della conferenza di servizi, in chiave di
semplificazione procedimentale, si pone quale alternativa al meccanismo
del silenzio assenso di cui all’art. 20 della legge n. 241: laddove trova
applicazione l’uno, non si ricorre all’altro, e viceversa. Entrambi sono
strumenti di accelerazione dell’azione amministrativa, ma con diversi
fondamenti ed applicazioni.
Il meccanismo del silenzio-assenso non sembra dunque trovare
applicazione al modulo generale della conferenza di servizi (ipotesi di
silenzio dell’amministrazione procedente). Diverso è il caso del silenzio
serbato dall’amministrazione partecipante, ipotesi questa invece ammessa e
appositamente disciplinata dal comma 7 dell’art. 14-ter.
13. Il provvedimento finale
La natura degli atti emessi dalla conferenza è un tema che divide le
opinioni della dottrina. Molti autori ritengono che la determinazione
conclusiva della conferenza possa ascriversi alla categoria degli accordi o
comunque dei procedimenti negoziati, anche sulla base di un dato testuale:
l’art. 15 della legge n. 241/90, nel riferirsi alle ipotesi dell’art. 14, parla
infatti di “accordi”. Questa disposizione fornisce un pesante argomento
testuale a favore della teoria negoziale: secondo la sistematica della legge
241/90, la decisione assunta in sede di conferenza avrebbe natura analoga a
quella degli accordi di programma, e come tale sarebbe imputabile a
ciascuno dei partecipanti.
154
Secondo altri autori146, tuttavia, questa posizione non appare del tutto
condivisibile, “non fosse altro per il fatto che l’esistenza di dissensi, che
vengono superati attraverso la previsione di un apposito meccanismo, nega
in radice la possibilità di un accordo, quale che sia il significato giuridico
che si vuole attribuire a questo termine.
Perché possa trattarsi di accordo, in definitiva, dovrebbe essere
sempre richiesta l’unanimità e non dovrebbe esistere un meccanismo di
superamento del dissenso”.
Sempre secondo la dottrina da ultimo richiamata, “più convincente,
sul punto, risulta la posizione di chi ritiene che la conferenza non abbia
valore di accordo ma di provvedimento, dal momento che essa non
consente uno scambio di consensi su un programma comune, cui
naturalmente consegue l’assunzione di impegni reciproci”.
Come viene opportunamente sottolineato, la conferenza di servizi
resta piuttosto nel “cono d’ombra del provvedimento amministrativo”
(Falcon)147: prova ne sia che esiste un meccanismo di superamento del
“dissenso”, inconciliabile con l’idea di accordo.
Prima di affrontare direttamente il tema del provvedimento finale,
occorre soffermarsi - pur brevemente - sulle fasi conclusive della
conferenza di servizi prima della legge n. 15/2005.
Esse erano caratterizzate da una complessa trama normativa,
caratterizzata dai seguenti passaggi procedimentali:
a) ai sensi dell’art. 14-quater, comma 2, al termine dei novanta giorni,
l’amministrazione procedente (ossia, l’amministrazione deputata ad
adottare il provvedimento finale) adottava, sulla base della maggioranza
delle posizioni espresse, la c.d. determinazione conclusiva (fase
necessaria);
b) ai sensi del precedente art. 14-ter, comma 7, qualora alcune delle
amministrazioni non si fossero per caso espresse in sede di conferenza (c.d.
amministrazioni «silenti»), entro trenta giorni dalla determinazione
conclusiva le medesime avevano la possibilità di rilasciare tardivamente il
proprio parere (c.d. parere postumo). In caso di silenzio protratto oltre il
termine di trenta giorni, si applicava l’istituto del silenzio assenso (fase
aventuale)148.
146
G. GARDINI, La conferenza di servizi: la complicata esistenza di un istituto di
semplificazione, pp. 9-10 della relazione presentata al convegno “Le riforme della legge
7 agosto 1990, n. 241, tra garanzia della Iegalità ed amministrazione di risultato”,
Urbino, 18-19 maggio 2006.
147
FALCON, Gli accordi tra amministrazioni e tra amministrazioni e privato, in La
semplificazione amministrativa, Vandelli e Gardini (a cura di), Quaderni della Spisa,
Rimini, Maggioli, 1999, p. 1.
148
La precedente formulazione prevedeva altresì la possibilità di impugnare, nel
medesimo termine di trenta giorni, la determinazione conclusiva della conferenza di
servizi.
155
c) ai sensi dell’art. 14-ter, comma 9, l’amministrazione precedente adottava il
provvedimento finale, che sintetizzava la fase sub a (necessaria) ed
eventualmente quella sub b, sostituendo ad ogni effetto qualsiasi atto di
assenso, anche nei confronti degli assenti (fase necessaria).
Si poneva la questione circa la corretta qualificazione da attribuire al
provvedimento finale: se, in altre parole, lo stesso dovesse rivestire natura
costitutiva oppure più semplicemente dichiarativa.
La corretta qualificazione nei termini sopra indicati del provvedimento
finale assumeva rilievo fondamentale con riferimento alla decorrenza dei
termini per l’impugnazione degli atti della conferenza: in altre parole,
secondo la tesi che qualificava come costitutivo il provvedimento finale, il
termine per l’impugnazione non poteva che decorrere dalla conoscenza di
quest’ultimo; qualora si optasse, invece, per la natura semplicemente
dichiarativa dello stesso, il termine per impugnare sarebbe decorso
dall’adozione della determinazione conclusiva, ai sensi dell’art. 14-quater,
comma 2, da parte dell’amministrazione procedente.
La giurisprudenza che si era espressa sul punto sembrava prediligere
quest’ultima tesi.
Al riguardo, era intervenuta una pronuncia del Tar Veneto (n. 672 del
2003), la quale aveva stabilito che la natura sostanzialmente dichiarativa del
provvedimento finale, conforme alla decisione assunta in sede di conferenza di
servizi, si evinceva: “1) dal fatto che l’art. 14-quater dichiara espressamente che
la determinazione conclusiva della conferenza di servizi è immediatamente
esecutiva; 2) dal fatto che anche l’amministrazione procedente manifesta il suo
avviso e non può poi modificare le indicazioni emerse nella decisione della
conferenza di servizi, essendo illogica e contraria alla ratio della norma la
possibilità di una rielaborazione della determinazione conclusiva, che costituisce
il risultato dell’incontro delle volontà di più amministrazioni; 3) dal fatto che
l’art. 14-ter, co. 7, della legge 241/90 consente (rectius, consentiva)
all’amministrazione dissenziente di impugnare direttamente la determinazione
conclusiva prima del recepimento finale149; 4) dal fatto che l’art. 14-ter, comma
9, della legge 241/90 subordina l’operatività del provvedimento alla sua
“conformità” alla determinazione finale della conferenza di servizi, con effetto
sostitutivo di tutti gli atti di assenso necessari”.
Di qui, la conclusione secondo cui l’effetto lesivo si sarebbe prodotto già
dalla determinazione conclusiva della conferenza di servizi, con ogni
conseguenza in ordine ai termini decadenziali previsti per l’impugnazione degli
atti della conferenza: in altre parole, secondo i giudici veneti non sarebbe stato
necessario attendere il provvedimento finale, ai fini dell’impugnazione, a pena di
irricevibilità, per tardività, del ricorso stesso.
149
Tale previsione è stata tuttavia respinta con l’entrata in vigore del nuovo disegno
di riforma.
156
Dello stesso avviso appariva inoltre il Consiglio di Stato (sez. VI, n. 5708
del 2003), che nel ricorso in appello avverso la stessa decisione sopra segnalata
ribadiva che il ricorso di primo grado dovesse ritenersi intempestivo, in quanto la
conoscenza, da parte dell’interessato, degli atti, e segnatamente di quello
conclusivo della conferenza dei servizi, avesse effetto preclusivo
sull’impugnazione, a motivo della tardività della notifica del ricorso, del
provvedimento conclusivo della conferenza dei servizi medesima.
Da una lettura dell’art. 14-ter, comma 9, della L. 7 agosto 1990, n. 241,
emerge infatti come il provvedimento finale costituisca “atto meramente
esecutivo e consequenziale delle determinazioni assunte in sede di conferenza di
servizi”.
Eventuali modificazioni o integrazioni della determinazione conclusiva del
procedimento - proseguiva lo stesso Consiglio di Stato - potrebbe unicamente
discendere “da una nuova convocazione, riunione o deliberazione da parte della
conferenza medesima”; in altre parole, occorrerebbe agire in via di autotutela,
secondo il principio del contrarius actus, che impone come noto di ripercorrere
la stessa procedura adottata per l’atto che si vuole rimuovere o modificare150.
Secondo la ricostruzione appena offerta alla luce del sistema
previgente alla legge n. 15/2005, emergeva come l’orientamento avallato
dai giudici amministrativi rischiasse di non tener sufficientemente conto
dell’ipotesi - nemmeno tanto di scuola - dei cosiddetti “ribaltoni”: ed
infatti, era ben possibile immaginare che all’esito del procedimento non si
fossero espresse una serie di amministrazioni che, per mera consistenza
quantitativa, erano tuttavia in grado di mutare, nei trenta giorni successivi
alla comunicazione, l’orientamento adottato a maggioranza e confluito
nella determinazione conclusiva.
Pertanto, il provvedimento finale avrebbe assunto - nella ipotesi sopra
delineata - un ruolo di assoluto rilievo, in quanto attestante che la prima
maggioranza che si era espressa in sede di conferenza, e che aveva dato
luogo ad una prima (ma provvisoria) determinazione conclusiva ai sensi
dell’art. 14-quater, comma 2, era stata superata da tutte quelle
amministrazioni (silenti) che, a norma dell’art. 14-ter, comma 7 (nella
vecchia formulazione), si erano espresse, in senso ovviamente opposto, nei
trenta giorni successivi dalla comunicazione della determinazione stessa.
In questa direzione, il provvedimento finale assumeva dunque natura
costitutiva, e non meramente dichiarativa, come invece sostenuto dai
giudici amministrativi.
150
A conferma di tale indirizzo si deve soggiungere che, ancora più in radice, l’art.
14-ter, al comma 9, subordina l’operatività del provvedimento alla sua conformità alla
determinazione assunta in conferenza, così escludendo che il provvedimento finale
possa sostituire gli assensi necessari in ipotesi di mancata uniformazione all’esito della
conferenza.
157
In sintesi, poteva attribuirsi al provvedimento finale di cui al comma 9
dell’art. 14-ter una duplice natura, o meglio asimmetrica, che prendeva
forma, nell’uno o nell’altro senso a seconda del numero di “silenti” che si
riscontravano al termine dei lavori della conferenza di servizi: qualora tale
numero non fosse comunque sufficiente ad operare un “ribaltone” della
maggioranza che si era espressa sul tipo di intervento da effettuare, il
provvedimento finale avrebbe assunto valore eminentemente dichiarativo,
in quanto sostanzialmente confermativo delle decisioni adottate in sede di
determinazione conclusiva, e dunque il termine di impugnazione sarebbe
decorso dalla sua effettiva conoscenza. Nel caso in cui, invece, le
amministrazioni silenti fossero state così consistenti, sotto il profilo
quantitativo, da rendere ipotizzabile un mutamento di indirizzo a seguito di
rilascio del parere postumo, sarebbe stato necessario attendere lo scadere
dei trenta giorni di cui al (vecchio) comma 7 e, di conseguenza, l’adozione
del provvedimento finale costitutivo degli effetti di cui al successivo
comma 9 (e soprattutto di sintesi di tutte le posizioni comunque espresse,
dentro e fuori conferenza), che avrebbe infatti potuto risultare
eventualmente difforme rispetto alla determinazione conclusiva, per fare
scattare i termini decadenziali di impugnativa151.
A ben vedere, la formulazione originaria del disegno di legge di
novella della legge 7 agosto 1990, n. 241 (poi divenuto legge n. 15/2005),
prevedendo modifiche ai commi 2 e 3, stabiliva il principio (ricavabile
soltanto implicitamente e non senza qualche difficoltà dal testo introdotto
dalla legge n. 340/2000) secondo il quale il provvedimento finale della
conferenza di servizi non è altro che la « cristallizzazione » delle posizioni
assunte in conferenza e di quelle postume, emerse fuori conferenza, ossia a
seguito del ricorso alla procedura di cui al comma 7 dell’art. 14-ter.
Trovava dunque conferma - con qualche correttivo -lo schema
introdotto dalla L. n. 340/2000 in merito alla scansione delle fasi finali
della conferenza. Scansione che si basa su un modello di tipo binario, ossia
composto da determinazione conclusiva (relativa alle posizione espresse
“in conferenza” e provvedimento finale (che tenga conto altresì delle
posizioni emerse “fuori conferenza”).
Il testo ha invece subito un radicale mutamento, nella direzione
indicata, nel corso del successivo iter parlamentare.
Più in generale, nell’obiettivo di « riportare a sistema» alcune
disposizioni contenute negli articoli 14-ter e 14-quater in tema di fasi
conclusive della conferenza di servizi (che, in ragione della loro
frammentarietà e disomogeneità, hanno spesso posto notevoli problemi di
matrice interpretativa e ricostruttiva agli operatori del diritto), si è ritenuto
di collocare tutte le disposizioni attinenti alla conclusione della conferenza
151
M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza, cit., 517.
158
all’interno dell’art. 14-ter, appositamente dedicato alle singole fasi del
procedimento. Correlativamente, l’art. 14-quater si riferisce alla sole (ma
piuttosto variegate) ipotesi di dissenso.
In particolare, con la legge n. 15 del 2005:
- viene eliminata la possibilità di esprimere il dissenso entro trenta giorni
dalla chiusura del procedimento (c.d. dissenso postumo). Si tratta di una
modifica rilevante, dal sapore un po’giacobino, ma comunque in linea con
le esigenze di semplificazione ed accelerazione del procedimento;
- è stato dunque consacrato l’istituto del silenzio assenso all’interno della
conferenza di servizi: se l’amministrazione non concorda con l’intervento
proposto, lo deve manifestare espressamente e perentoriamente,
nell’ambito dei lavori della conferenza, e giammai in esito alla chiusura del
relativo procedimento. In caso contrario, si intende acquisito il suo parere
favorevole. Anche nel procedimento amministrativo si pone fine alla prassi
dei c.d. “ribaltoni”: le posizioni di tutte le amministrazioni trovano infatti la
loro “cristallizzazione” alla fine della conferenza di servizi, e non dopo di
essa (come consentiva il precedente sistema). Come si avrà modo di
vedere, non tutti i TAR sono tuttavia concordi con questa linea
interpretativa, limitando il meccanismo del silenzioassenso alle sole
amministrazioni che abbiano effettivamente partecipato ai lavori della
conferenza;
- il provvedimento finale costituisce ora “atto meramente esecutivo e
consequenziale delle determinazioni assunte in sede di conferenza di
servizi’’ (sebbene con valenza costitutiva, come si dirà appresso). Ci si
chiede, piuttosto, se dopo l’eliminazione dei pareri postumi il
provvedimento finale possa continuare ad avere una sua dignità autonoma
rispetto alla determinazione conclusiva, o se piuttosto la sua emanazione
non debba rivestire, dopo le modifiche apportate dalla legge 15, una natura
eminentemente formale (in quanto “conforme” alla stessa determinazione
conclusiva);
- è stata parimenti eliminata la possibilità di impugnare la determinazione
conclusiva nel termine (assai discusso) di trenta giorni. Si evitano in questo
modo difficoltà interpretative ed applicative in merito ai rimedi
giurisdizionali attivabili. Dunque, il termine per impugnare tornerà ad
essere quello ordinario di sessanta giorni, data la soppressione dello
specifico inciso alla precedente formulazione del comma 7. Sul punto,
infatti, anche la dottrina più autorevole (Cerulli Irelli) è concorde nel
ritenere che la soppressione della seconda parte del comma 7 sia
irrilevante, essendo comunque in facoltà dell’amministrazione dissenziente
avvalersi o meno del mezzo giurisdizionale. Sul punto, si veda più avanti
(in questo stesso paragrafo) il dibattito che si sta evolvendo nella
giurisprudenza, nuovamente, sul momento in cui si radica la effettiva
159
lesione in capo al ricorrente (se, in altre parole, nella fase della
determinazione conclusiva oppure in quella del provvedimento finale).
La legge n. 15 del 2005 interviene così nuovamente sul rapporto che
intercorre tra conclusione del procedimento e provvedimento finale.
Come messo in rilievo da alcuni studiosi, la necessità di preservare
una fase dedicata alla emanazione di un provvedimento finale (seppure
conforme, come espressamente previsto, alla determinazione conclusiva
della conferenza) si giustifica soprattutto in termini di effetti costitutivi: è
con l’emanazione dell’atto che si producono gli effetti giuridici tipici
derivanti dalla conclusione del procedimento. In altre parole, laddove la
determinazione conclusiva condiziona il profilo sostanziale del potere
amministrativo, la presenza dell’atto unilaterale appare indispensabile ai
fini della produzione degli effetti giuridici152.
A tale riguardo si è di recente espressa la giurisprudenza
amministrativa. Secondo un primo indirizzo si ritiene inammissibile, per
assenza di lesività immediata, l’impugnazione del verbale conclusivo della
conferenza di servizi. Si richiamano al riguardo alcune pronunzie del TAR
Toscana (cfr. decc. nn. 4274 del 2006, 383 del 2007 e 758 del 2007), che
ha inaugurato tale percorso partendo da una disamina dell’istituto, come
anche ridefinito a seguito delle modifiche normative apportate dalla legge
n. 15 del 2005 (su tale orientamente è pure intervenuto, come si vedrà in
senso parzialmente difforme, il TAR Catania). Ebbene, secondo i giudici
toscani (si riporta qui, per esteso, l’intero passaggio) “sia nella
formulazione antecedente alle modifiche apportate dalla legge 11 febbraio
2005 n. 15, che in quella risultante dalla recente novella, emerge una
costruzione dell’istituto della conferenza di servizi che impone una
distinzione bifasica:
- il momento istruttorio, caratterizzato dall’acquisizione degli avvisi dei
soggetti pubblici (necessariamente) coinvolti nel procedimento, senza che
la naturale efficacia provvedimentale - autonoma e definitiva - dell’avviso
richiesto alla singola Amministrazione partecipante, quando esso si
esprima al di fuori della conferenza, possa incidere sulla sua (trasformata)
natura meramente endoprocedimentale laddove venga pronunciato in sede
di conferenza, sia pure decisoria;
- il momento conclusivo, costituito dal provvedimento successivo e
monocratico adottato dall’Amministrazione procedente, pur sempre
tenendo conto degli esiti della conferenza di servizi decisoria.
In altri termini, l’affermazione contenuta nella disposizione di cui
all’art. 14-bis, comma 6-bis, della legge n. 241 del 1990, secondo cui «
all’esito dei lavori della conferenza, e in ogni caso scaduto il termine di cui
al comma 3, l’amministrazione procedente adotta la determinazione
152
P. BERTINI, La conferenza di servizi, in “Dir. amm.”, 1997, 326. Vedi nota 125.
160
motivata di conclusione del procedimento, valutate le specifiche risultanze
della conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti espresse in
quella sede », testimonia dell’architettura che il legislatore ha voluto fare
propria nel fissare le regole di funzionamento dell’istituto della conferenza
di servizi e che si compendia nella necessità che rispetto all’esito dei lavori
della conferenza di servizi decisoria si sostituisca pur sempre un
provvedimento conclusivo del procedimento (del quale la conferenza
costituisce solo un passaggio procedurale), avente la veste di atto adottato
(di regola e tranne specifiche eccezioni) da un organo monocratico
dell’Amministrazione procedente”.
In ragione del percorso ricostruttivo sopra esposto, il TAR Toscana
conclude allora per la natura endoprocedimentale del verbale (sebbene)
conclusivo della conferenza, che per definizione non assurge al rango di
provvedimento conclusivo e quindi idoneo a pregiudicare la posizione
giuridica soggettiva dei privati interessati. Ne deriva la inammissibilità
delle domande giudiziali annullatorie rivolte avverso tali atti (verbali
conclusivi) di natura endoprocedimentale ed inidonei a definire i relativi
procedimenti.
In conclusione, il verbale della conferenza di servizi non può ritenersi
equipollente, e quindi sostituire, il provvedimento finale del procedimento
non ancora concluso.
Sulla falsa riga di quanto testè affermato (ma con alcune differenze
che saranno vieppiù sottolineate) si colloca il TAR Catania, che con
decisione n. 1254 del 2007 sottolinea come (sì riporta integralmente, anche
in questo caso, il passaggio di interesse) “la prescrizione di cui al comma
6-bis dell’art. 14-ter della legge 241/90 abbia una funzione ed uno scopo
ben delineati dal legislatore.
Nel configurare quel particolare modulo procedimentale che è
costituito dalla Conferenza dei servizi, infatti, il legislatore della riforma
della L. 241/90, operata con la L. 15/2005, ha sentito la necessità di
prevedere e prescrivere che l’Amministrazione responsabile del
procedimento (e, per essa, il relativo funzionario), all’esito dei lavori della
Conferenza adotti un “provvedimento finale” che, non solo (e non tanto)
riepiloghi a scopo meramente elencativo (e dichiarativo) le determinazioni
concordate o emerse in Conferenza, ma “adotti”, con valenza costitutiva, le
determinazioni conclusive del procedimento153.
Lo scopo di questa norma è, principalmente, di consentire che il
cittadino abbia come proprio referente solo il responsabile del
procedimento e quindi “una” amministrazione, lasciando che il “concerto”
tra più Enti rimanga all’interno dei processi decisionali della P.A.
153
In dottrina, P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit.
161
Inoltre, rappresentandosi che, specie in riferimento a progetti o
iniziative di maggiore spessore e complessità, possono emergere una
pluralità di vedute e di apprezzamenti da parte dei diversi Enti coinvolti nel
procedimento (o anche dei privati interessati o controinteressati), il
legislatore ha voluto che la decisione finale restasse ascritta comunque alla
responsabilità dell’Amministrazione incaricata del provvedimento finale,
ovvero di quella cui è demandata la cura di quei particolari interessi
pubblici che sono oggetto del procedimento.
Ciò in quanto la conferenza di servizi non è un organismo deliberante,
ossia un consesso ove le decisioni si adottano a maggioranza (ad eccezione
delle regole di autorganizzazione, art. 14-ter comma l), ma un “modulo
procedimentale’’e di confronto tra diverse P.A. (Cfr. Consiglio di Stato, V,
5 aprile 2005, nr. 1543), le cui valutazioni e decisioni non possono che
essere ponderate responsabilmente (ossia con piena responsabilità di
decisione) da parte di chi è chiamato ad adottare il provvedimento finale
(cfr. Consiglio di Stato, VI, 3 marzo 2006, nr. 1023).
In altre parole, trattandosi di una determinazione “plastica” che può
assumere pluralità di forme e contenuti (cfr. i diversi presupposti per la
convocazione della conferenza dei servizi di cui all’art. 14, commi da l a
5), la decisione che emerge da una conferenza dei servizi può essere anche
relativa a più scelte possibili, fare emergere più orientamenti e, comunque,
essa non esclude che nella decisione finale il rappresentante
dell’Amministrazione decidente possa disattenderne motivatamente in tutto
o in parte il contenuto (così come avviene in relazione a qualsiasi
istruttoria), naturalmente fatto salvo il riferimento, contenuto nella norma
di legge in esame, agli orientamenti “prevalenti” che sono elemento
necessario della motivazione (come rende palese l’inciso “tenendo conto”)
e che quindi non vincolano, ma obbligano (in caso di decisione difforme)
ad una penetrante motivazione”.
È importante tale affermazione del TAR Catania, il quale evidenzia
una importante novità apportata dalla legge di riforma del 2005, laddove il
meccanicistico - e arido - criterio quantitativo basato sulla mera
maggioranza è stato sostituito, anche per evitare più volte denunziate
possibili applicazioni “selvagge” di tale metodo (maggioritario), da un
diverso criterio, di stampo più qualitativo, che si fonda al contrario sulle
“posizioni prevalenti”. Di talché l’amministrazione potrebbe a rigore anche
disattendere il parere della maggioranza numerica per aderire
all’orientamento che, a suo avviso, appare più convincente, pure in termini
di legittimità dell’azione amministrativa.
Alla luce di tali premesse, laddove accada - prosegue il TAR Catania
_ che le determinazioni della conferenza dei servizi siano in sé vincolanti
ed autoesecutive (per come formulate), ferma restando la loro immediata
162
impugnabilità (si vedano su tale punto le affermazioni più avanti riportate),
ciò non esclude che debbano comunque tradursi nel provvedimento finale.
“Per altro verso, alla stregua dei consolidati principi giurisprudenziali
e dottrinari in materia, anche gli atti endoprocedimentali (o preparatori del
procedimento), laddove - e nella misura in cui - contengono ordini precisi
ed autoesecutivi rivolti ai destinatari e prevedono anche sanzioni o
provvedimenti sostitutivi, anticipando sostanzialmente, in tutto o in parte,
l’efficacia finale del provvedimento conclusivo della sequenza
procedimentale, devono ritenersi indubbiamente lesivi, e pertanto non può
negarsi come sussistente l’interesse a coltivare il relativo gravame;
interesse che poi viene meno quando il provvedimento finale è emanato,
dovendosi necessariamente impugnare quest’ultimo che riassume in sé gli
effetti derivanti dalle conferenze medesime, sostituendoli integralmente”.
In altre parole, colui che muove qualsivoglia doglianza nei confronti
di una decisione adottata in seno alla conferenza di servizi può farlo
direttamente avverso il verbale conclusivo, qualora questi riassuma le
caratteristiche decisionali sopra descritte (ossia, ordini precisi ed
autoesecutivi), altrimenti può (comunque) attendere a tal fine il
provvedimento finale, senza incappare in un vizio di inammissibilità del
gravame. Fermo restando che tale attesa diventa obbligatoria nel momento
in cui il verbale non abbia contenuto sostanzialmente decisionale (in questa
stessa direzione si veda anche TAR FVG, dec, n. 292 del 2007).
Dunque, la differenza tra TAR Toscana e TAR Catania sta in questo:
mentre il primo appare sempre contrario all’impugnabilità del verbale
conclusivo, il secondo risolve tale quesito in termini più sostanziali (e
comunque facoltativi), ossia nel senso di interpretare, di volta in volta ed in
concreto, contenuto e volontà del verbale medesimo. Qualora esso
contenga ordini autoesecutivi e immediatamente applicabili, il soggetto che
si sente leso avrà due strade: impugnare subito il verbale oppure attendere
l’emanazione del provvedimento, senza incorrere in rischi di
inammissibilità del ricorso. Qualora invece tali ordini non abbiano tale
natura, dovrà in ogni caso attendere il provvedimento finale.
A parere di chi scrive occorre stabilire, in altri termini, il giusto
rapporto tra verbale di “fine lavori” e determinazione conclusiva della
conferenza di servizi: qualora il primo denoti la volontà dell’amministrazione procedente di assumere una certa posizione (prevalente), si sarà
dinanzi, in sostanza, ad una vera e propria determinazione conclusiva ai
sensi del comma 6-bis, cui farà poi seguito un “conforme” provvedimento
finale (comma 9); lo schema è dunque binario: verbale/determinazione
conclusiva - provvedimento finale. In questo caso, il soggetto che si sente
leso potrà percorrere la prima strada, ossia impugnare subito il verbale
163
oppure - e comunque - attendere l’emanazione del provvedimento finale,
ma senza rischio di inammissibilità.
Qualora, invece, tale contenuto decisionale non emerga nel verbale
ultimo della conferenza di servizi, limitandosi questo al mero riscontro,
acritico e riassuntivo, delle posizioni rilevate nel corso dei lavori (e dunque
senza intercettare l’interesse prevalente), soccorrerà la seconda strada,
delineata dal TAR Toscana (impugnazione del solo provvedimento finale).
Con l’unica precisazione che tra “mero” verbale e provvedimento finale si
dovrebbe collocare la determinazione conclusiva di cui al comma 6-bis. lo
schema diventa in questo caso ternario (verbale - determinazione
conclusiva - provvedimento finale), dal momento che cade l’assimilazione
tra verbale e determinazione conclusiva.
È altamente probabile che l’incertezza giurisprudenziale tragga la sua
origine dal mutato contesto normativo. Ed infatti, la legge n. 340 del 2000
aveva correttamente inserito due momenti decisionali, l’uno provvisorio
(determinazione conclusiva) e l’altro definitivo (provvedimento finale),
atteso che medio tempore potevano acquisirsi posizioni postume, ossia
successive (30 gg.) alla chiusura dei lavori della conferenza; l’originaria
stesura del d.d.l. governativo, poi divenuto legge 15, esaltava anzi questo
ruolo del provvedimento finale, ossia di “sintesi” tra determinazione
conclusiva ed eventuali pareri postumi. Al contrario la legge n. 15 del
2005, se da un lato ha eliminato i predetti pareri postumi, dall’altro lato non
ha in ogni caso intaccato la fase relativa al provvedimento finale, il quale,
tuttavia, ha ormai perso il suo principale significato (sintesi tra posizioni
emerse dentro e fuori conferenza). Considerato peraltro che esso deve
risultare “conforme” alla determinazione conclusiva, non se ne comprende
a questo punto l’utilità teorica e pratica.
È chiaro che tale questione troverà in ogni caso una risoluzione
qualora si approvi, come si è approvato, definitivamente il richiamato d.d.l.
AS 1532 della XV legislatura. Esso prevede infatti, all’art. 3, comma 5,
letto c), che “il verbale recante la determinazione conclusiva di cui al
comma 6-bis, nonché le indicazioni delle dichiarazioni, degli assensi, dei
dinieghi e delle eventuali prescrizioni integrative, sostituiscono” gli atti di
assenso comunque denominati e necessari per la definizione del
procedimento. Lo schema diventerebbe allora “unico”, dal momento che vi
sarebbe integrale assimilazione non solo tra verbale e determinazione
conclusiva, ma anche tra questi due atti ed il provvedimento finale di cui al
comma 9. Da impugnare sarà direttamente (e soltanto) il verbale
conclusivo dei lavori. Ci si chiede, piuttosto, se vi sia sufficiente spazio per
scegliere e ponderare da parte della P.A. procedente, dal momento che la
decisione sarà inoltre contestuale alla chiusura della stessa conferenza,
senza dare ulteriore spazio a momenti valutativi da parte della
amministrazione procedente. Si tratta di una sicura opera di semplifica164
zione, forse anzi eccessivamente impressa in questa direzione, con il
rischio di aversi provvedimenti non sufficientemente ponderati.
14. Ulteriori snodi procedimentali
L’iter della conferenza segue tendenzialmente una linea snella, come
si evince dal comma 8 che limita la richiesta di chiarimenti e documenti ad
una sola volta. se gli stessi non sono forniti l’amministrazione procede
prescindendone.
Anche in questo caso la scelta del legislatore, volta ad un’accelerazione procedimentale, pare un po’di grana grossa: si sarebbe potuto,
infatti, utilizzare degli strumenti più elastici quali quello del silenzio
facoltativo o del silenzio devolutivo di cui agli artt. 16 e 17, L. n. 241/1990
in materia di pareri e valutazioni tecniche.
Nulla dispone la legge, inoltre, sul modus redigendi del verbale
conclusivo. Sul punto specifico si è espresso il TAR Piemonte, che nella
decisione n. 4074 del 2005, a fronte del ricorrente il quale sosteneva che il
verbale della conferenza dei servizi sarebbe stato nullo per difetto di
sottoscrizione contestuale di tutti i partecipanti, ha tenuto a precisare che la
normativa generale in materia di conferenza dei servizi nulla dispone in
materia di verbalizzazione delle attività della conferenza stessa ed a
maggior ragione non prescrive affatto che il verbale debba essere
necessariamente sottoscritto da tutti i partecipanti (anziché dal solo
responsabile del procedimento che la ha indetta). In ogni caso, per
principio generale, persino gli atti di un organo monocratico non possono
considerarsi nulli se mancanti della firma, tutte le volte che, come nel caso
in esame (in cui i partecipanti erano nominativamente indicati), non vi
siano dubbi circa l’identità del soggetto emanante (T.A.R. Piemonte, I, 30
ottobre 2002, n. 1807; T.A.R. Emilia-Romagna - Bologna, 23 dicembre
2002, n. 2609).
Per quanto attiene, invece, alla motivazione del provvedimento che
definisce la conferenza, sembra poi essere ammessa la motivazione ob
relationem, anche in collegamento con quanto previsto dall’art. 3, comma
2, della legge n. 241 del 1990.
Si richiama al riguardo la pronunzia del TAR Piemonte n. 4348 del
2006, in cui la determinazione conclusiva della conferenza di servizi e il
provvedimento del responsabile dello Sportello Unico per le attività
produttive, di segno negativo rispetto alla domanda presentata (coltivazione
di cava), richiamava i vari atti provenienti dalle diverse amministrazioni
titolari dei diversi interessi pubblici coinvolti, facendo proprio il contenuto
di tali atti attraverso l’espressione di un unanime parere negativo
all’intervento richiesto. La motivazione della determinazione appariva
165
dunque adeguata, posto che in tal modo si realizzava la forma tipica della
motivazione per relationem disciplinata dall’articolo 3, comma 3, della
legge 2 agosto 1990, n. 241, secondo il quale quando le ragioni della
decisione risultano da altro atto dell’amministrazione questo deve essere
indicato e reso disponibile. La prima condizione indicata dalla norma
appena richiamata risultava soddisfatta, così come pure la seconda
condizione, risultando dagli atti del giudizio che la determinazione
conclusiva della Conferenza di servizi (di cui costituivano parte integrante
e sostanziale i pareri ivi citati) era stata comunicata alla società ricorrente
con nota dello stesso Responsabile dello Sportello Unico. Gli atti
impugnati erano quindi dotati di sufficiente motivazione.
In tema di autotutela, quanto alla revoca sembra a taluno da escludersi
dopo la legge n. 340/2000 uno jus poenitendi della P.A. esercitato senza la
convocazione di una nuova conferenza, perché, intervenuto il consenso di
tutti i partecipanti (o il surrogato della maggioranza), la materia regolata
dal provvedimento finale esce dalla sfera di disponibilità della P.A.
procedente; a sostegno dell’assunto depone la circostanza che la conferenza
è tesa a coagulare la volontà di più PP.AA.
Pertanto, la nuova fisionomia della conferenza sembra inibire
ripensamenti unilateriali non suffragati da una complessiva rivisitazione
collegiale dell’originaria posizione154.
A conferma di tale impostazione è sufficiente rilevare che la pubblica
amministrazione ben può procedere alla rimozione dei propri atti, restando
tuttavia « soggetta alla procedura del contrarius actus, ossia a seguire il
medesimo procedimento di emanazione degli atti che intende rimuovere o
modificare» (Cons. Stato, sez. V, 2 ottobre 2000, n. 5210)155.
154
Sul punto si veda F. G. SCOCA, Analisi giuridica, cit., 280. L’autore ritiene che,
essendo le determinazioni finali il frutto di valutazioni comuni, contestuali e quindi
interdipendenti, la revoca è sì possibile, ma deve avvenire «attraverso una nuova
comune e contestuale valutazione globale degli interessi e, quindi, attraverso una nuova
convocazione della conferenza di servizi». Altra parte della dottrina ritiene inoltre che
lo jus poenitendi sia pienamente esercitabile, singolarmente da parte di ciascuna
amministrazione, almeno sino all’esito dei lavori della conferenza (ossia prima che
l’amministrazione procedente adotti la determinazione conclusiva); cfr., sullo specifico
punto, F. MARTINELLI, M. SANTINI, Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 175.
155
Alcuni autori ritengono che il potere delle amministrazioni si consumi, con
l’effetto che l’assenso non possa più essere ritirato. Altri sostengono che il principio di
autotutela ha valenza generale e non è sconfessato dalla partecipazione ad una
conferenza. A ben vedere, però, quello in esame è un falso problema, in quanto una
valutazione può essere fatta soltanto sulla scorta della tipologia manifestata. Ad
esempio, se l’assenso è un parere, la natura consultiva dell’atto in questione renderà
impossibile un intervento in autotutela. Stesso discorso può essere fatto per gli atti di
controllo, sempre che si ammetta la possibilità che esso possa essere reso in sede di
conferenza. Quindi, dovrà essere operato un esame caso per caso sulla scorta della
166
Si segnala al riguardo la decisione n. 560 del 2005 del Tar Liguria, in
cui si afferma che è possibile ricorrere a tale meccanismo (annullamento in
autotutela) laddove sia stato seguito, dall’amministrazione procedente,
secondo i principi vigenti in materia, il medesimo procedimento espletato
in precedenza.
La stessa amministrazione ben poteva, quindi, riesaminare le
determinazioni di sua competenza già adottate, e riconvocare la conferenza
per acquisire l’assenso degli altri enti interessati.
L’assunto - prosegue il giudice ligure - è del resto corroborato dal
sopravvenuto comma 6-bis dell’art. 14-ter della L. 241/90 (come introdotto
dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15) il quale, nel disporre che ‘‘All’esito dei
lavori della conferenza [...] l’amministrazione procedente adotta la
determinazione motivata di conclusione [...]”, riconosce in testa a
quest’ultima la piena titolarità di tutta la funzione procedimentale, dalla sua
attivazione alla sua conclusione.
natura dell’atto d’assenso, al fine di ponderare la percorribilità di un intervento in
autotutela.
167
168
CAPITOLO 2
LA DISCIPLINA DEI DISSENSI ESPRESSI
IN CONFERENZA DI SERVIZI. RIFLESSI SUL TITOLO V
DELLA PARTE SECONDA DELLA COSTITUZIONE
1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso. - 2. La disciplina
del dissenso nella L. n.340/2000 e nella L. n. 15/2005: dal principio maggioritario a
quello di prevalenza. - 3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V
della parte seconda della Costituzione. - 4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del
2005: spunti per una soluzione percorribile.
1. Premessa: breve excursus normativo sulla disciplina del dissenso
Il problema più rilevante nello studio dell’istituto della conferenza di
servizi decisoria riguarda gli incidenti che possono verificarsi in seno alla
conferenza e che possono portare:
a) ad una manifestazione di dissenso da parte di una delle amministrazioni;
b) alla mancata partecipazione da parte di un’amministrazione alla
conferenza;
c) alla partecipazione con organi privi di potere rappresentativo.
Queste problematiche sono state affrontate e risolte nel tempo dal
legislatore sulla scorta di una pluralità di interventi che hanno evidenziato
cinque distinte fasi, prima della definitiva soluzione fornita con l’art. 14quater della L. n. 241, come riscritto dall’art. 12 della L. n. 340/2000 e poi
dalla legge n. 15 del 2005, 69/09 e 122/10.
L’originaria disciplina della L. n. 241 era improntata sul principio di
unanimità degli assensi alla decisione finale (ove necessari in base alle
regole ordinarie al di fuori della conferenza), tanto che la conferenza
veniva paralizzata sia nell’eventualità di mancata partecipazione di una
P.A. necessaria, sia nell’ipotesi di dissenso manifestato in seno alla
conferenza da una P.A. intervenuta, col consequenziale obbligo di adottare
in alternativa le vie ordinarie. Il legislatore si era premurato di adottare un
meccanismo di silenzio assenso (comma 3) per la P.A. che non interveniva
o lo faceva mediante un rappresentante privo della legittimazione a
manifestare la volontà dell’ente in seno alla conferenza. In forza di tale
fictio juris l’autorità procedente poteva adottare il provvedimento finale,
salvo che entro i 20 giorni successivi non intervenisse il motivato dissenso
della P.A. inerte. A seguito di ciò, si discuteva in passato se fosse
169
necessario indire una nuova conferenza o si realizzasse una mera
sospensione del procedimento.
Veniamo ora alla seconda fase; all’indomani della L. n. 241 è stato
posto all’ordine del giorno il problema di scardinare o temperare il
principio dell’unanimità156 che, inteso in senso rigido, portava di fatto alla
paralisi della conferenza con l’attribuzione di un potere di veto a tutte le
amministrazioni chiamate ad esprimere il proprio assenso. La L. n.
537/1993 ha quindi previsto che, in caso di dissenso di un’amministrazione
intervenuta, il provvedimento poteva essere adottato con l’intervento del
Presidente del Consiglio dei Ministri, sollecitato dall’amministrazione
procedente. Detta determinazione faceva allora le veci della deliberazione
unanime della conferenza.
Ulteriore problema posto dalla L. n. 537 riguardava la praticabilità del
descritto meccanismo, imperniato sull’intervento sostitutivo centrale anche
nei procedimenti di competenza delle regioni e degli enti locali. Di fronte a
tale meccanismo si sollevava infatti, da più parti, l’obiezione circa la
difficile armonizzabilità dell’esportazione dell’intervento del Presidente del
Consiglio dei Ministri nella sfera di competenza regionale, presidiata a
livello costituzionale dagli artt. 117 e 118 della Carta
Fondamentale, e ciò ancor prima della riforma costituzionale del
157
2001 .
Con la L. n. 127/1997 si innesta la terza fase: l’amministrazione
procedente può adottare il provvedimento ed incorrere nel potere di
sospensione attribuito all’organo di vertice.
Qui, si attribuisce all’amministrazione procedente il potere di adottare
la statuizione finale nonostante il contrario avviso espresso in seno alla
conferenza, a patto che detto provvedimento venisse comunicato al
Presidente del Consiglio dei Ministri o della regione o al Sindaco (previa
deliberazione dei rispettivi organi consiliari). Trascorsi 30 giorni dalla
comunicazione all’organo di vertice senza che questi sospendesse il
provvedimento, a seguito della valutazione comparativa delle ragioni
espresse dall’amministrazione dissenziente e da quella procedente, la
deliberazione si intendeva esecutiva. Il potere di sospensione veniva ad
156
Deroghe espresse al principio di unanimità sono previste nella legislazione di
settore: ad esempio, l’art. 9, comma 2, del D.L. n. 114/1998, in tema di autorizzazione
alle grandi strutture di vendita, prevede che nella conferenza alla quale partecipano un
rappresentante ciascuno per regione, provincia e comune, la decisione sia presa a
maggioranza, anche se la regione non può mai essere messa in minoranza, in quanto
l’autorizzazione è condizionata al suo parere favorevole. Si ha in questo modo la
creazione di un organismo collegiale atipico, i cui singoli componenti hanno all’interno
dello stesso un peso dissimile.
157
Parte della dottrina si era richiamata in questo caso a quella giurisprudenza
costituzionale (Corte Cost., 21 gennaio 1991, n. 37), che aveva ritenuto ammissibile una
simile ingerenza in presenza di interessi nazionali urgenti e improrogabili.
170
assumere una matrice discrezionale, parametrata alle ragioni del
dissenso158.
La sospensione provocava sine die un arresto procedimentale che
impediva alla P.A. procedente l’emanazione del provvedimento, dando
luogo alla necessità di indire una nuova conferenza ovvero di procedere per
le vie ordinarie ove si potesse fare a meno dell’assenso.
In merito all’ambito applicativo, non era chiaro cosa accadesse nel
caso di dissenso plurimo, dal momento che il legislatore sembrava aver
preso in considerazione solo il dissenso singolo; è prevalsa in dottrina la
tesi estensiva motivata sulla ratio acceleratrice dell’istituto. Infine,
permaneva un cono d’ombra circa il regime applicabile in caso di dissensi
misti espressi sia da amministrazioni centrali che da enti territoriali.
La disciplina ricordata, imperniata sul binomio potere di adottare il
provvedimento-potere di veto centrale, era espressamente estesa,
diversamente dalla disciplina previgente, sia al caso di dissenso interno alla
conferenza sia all’ipotesi del dissenso postumo, espresso nei venti giorni
dalla comunicazione dell’esito al fine di evitare la formazione del silenzio
assenso.
Giova infine rammentare che il ricordato meccanismo non trovava
applicazione nel caso di motivato dissenso espresso da amministrazione
preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, del patrimonio
storico-artistico o alla tutela della salute. In detti casi permaneva, infatti, il
rimedio di cui alla legge del 1995, necessitante della determinazione del
Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio
dei Ministri.
Venendo alla quarta fase, la L. n. 191/1998, in coda all’art. 14, comma
3-bis, si è preoccupata di disciplinare la situazione che consegue al potere
di sospensione, prevedendo che: « In caso di sospensione la conferenza può
entro 30 giorni pervenire ad una nuova decisione che tenga conto delle
osservazioni del Presidente del Consiglio dei ministri. Decorso inutilmente
tale termine, la conferenza è sciolta ». Tale formulazione ha destato
peraltro alcuni dubbi per il riferimento al solo potere di sospensione del
Presidente del Consiglio159.
158
Il significato del potere di sospensione nasconde una sorta di potere di
«sostituzione», dal momento che l’unanimità non viene meno, ma l’organo dissenziente
viene sostituito. Il Presidente del Consiglio dei Ministri (oppure la Conferenza StatoRegioni/Unificata, secondo il nuovo disegno di riforma) deve fare le veci dell’organo che
originariamente si era espresso in chiave negativa. Si tratta, quindi, di una sostituzione,
secondo altri di avocazione, nella valutazione circa l’effettiva compromissione
dell’interesse pubblico la cui cura è attribuita all’organo dissenziente, ed eventualmente
della cedevolezza della posizione di questo interesse rispetto agli altri presenti nella
conferenza.
159
Nonostante il silenzio del legislatore, la dottrina ha anche in modo ragionevole
reputato che, in alternativa alla strada della rideterminazione ossequiosa rispetto alle
171
2. La disciplina del dissenso nella L. n. 340/2000 e nella L. n. 15/2005:
dal principio maggioritario a quello di prevalenza
Sul piano delle caratteristiche che deve possedere il dissenso, la legge
n. 340 del 2000 è nuovamente intervenuta, chiarendo che deve trattarsi, a
pena di inammissibilità: a) di un dissenso propositivo, ossia corredato dalle
condizioni per il suo superamento; b) espresso “in conferenza” (punto
questo, come visto, alquanto controverso); c) pertinente all’oggetto della
conferenza; d) congruamente motivato.
Tali caratteristiche del dissenso - si ripete poste a pena di
inammissibilità, nel senso ossia che l’amministrazione deve considerare tali
pareri come se non ci fossero - non sono state poi oggetto di modifica da
parte della legge n. 15 del 2005.
La specifica sanzione dell’inammissibilità evidenzia con nettezza che
detto dissenso si deve considerare tamquam non esset laddove si presenti in
termini puramente ostruzionistici, in quanto non corredato da supporto
motivazionale ovvero da apporto costruttivo inteso ad indicare le
condizioni idonee a sanare il contrasto.
In tale ultimo caso, in definitiva, la conferenza potrà decidere senza
neanche darsi carico sul piano motivazionale delle ragioni del dissenso, ossia
della sua non idoneità a scalfire, sul piano della legittimità e dell’opportunità,
la tenuta della statuizione conclusiva.
Sul punto si è soffermata la più recente giurisprudenza, in particolare
per definire il ruolo della regione in materia urbanistica (si rinvia per un
approfondimento al paragrafo 2 del capitolo V).
La disposizione chiarisce inoltre, in questo modo, la distinzione - non
direttamente percepibile nel sistema antecedente alla L. n. 340 - tra assenso
“con prescrizioni” e dissenso “celato”; figura quest’ultima che si riproponeva
ogniqualvolta le condizioni poste al rilascio dell’assenso erano tali da impedire
- in sostanza - la concreta realizzazione del progetto.
Appare chiaro, infatti, come la richiesta di alcune modifiche
progettuali delinei, a seconda della loro applicazione a fini progettuali, una
situazione di sostanziale assenso, qualora ‘le modifiche si rivelino di diretta
praticabilità, oppure di dissenso, nel caso opposto, ove le stesse debbano
indicazioni del Presidente del Consiglio, l’amministrazione potesse battere le vie della
cicatrizzazione dei dissensi per le vie ordinarie o in seno alla conferenza. In tal caso, la
ricomposizione dell’unanimità avrebbe escluso la necessità di sincronizzare il
provvedimento terminale con i moniti dell’organo centrale, espressione di un potere di
interdizione che nasce per effetto del dissenso e che dovrebbe coerentemente
consumarsi al momento della ricomposizione dell’unanimità.
172
quindi assumere la valenza di proposta progettuale (sostanzialmente)
alternativa.
Lo stesso Consiglio di Stato sembra generalmente propenso a
considerare come dissensi in senso sostanziale quei pareri asseritamente
favorevoli che tuttavia, in realtà, per la quantità e la qualità delle
prescrizioni (e condizioni) poste alla base del rilascio del parere favorevole,
sono in realtà idonee a disvelare una posizione negativa
dell’amministrazione partecipante.
È quanto emerge dall’ord. n. 7566 del 2004 della quarta sezione del
Consiglio di Stato. Tale posizione sembra vieppiù trovare conferma nella
formulazione dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990, dove indirettamente
si evince come l’indicazione delle modifiche progettuali necessarie ai fini
dell’assenso costituisca uno dei presupposti essenziali per l’ammissibilità
del dissenso.
Si richiama al riguardo la decisione n. 5498 del 2004 della quarta sezione
del Consiglio di Stato. Nel caso di specie, sulla istanza di autorizzazione a
coltivare una cava di ghiaia presentata da una impresa appaltatrice, il comune
“esprimeva parere positivo, rappresentando tuttavia che la attività estrattiva non
era consentita dal vigente strumento urbanistico”. Successivamente, il comune
stesso negava l’autorizzazione. La società richiedente impugnava il provvedimento negativo per eccesso di potere, in quanto fortemente contraddittorio
rispetto al parere favorevole espresso in conferenza.
Il Consiglio di Stato ha rigettato il gravame, attribuendo valore meramente
formale al preventivo avviso favorevole (peraltro del tutto generico), ed
assegnando invece valore sostanziale (e preminente) alla “espressa riserva”
manifestata nella stessa sede, riserva che in realtà celava un evidente posizione
dissenziente.
Ultimo esempio si ricava infine dalla decisione n. 6292 del 2004 della
quinta sezione del Consiglio di Stato: qui, per la realizzazione di un impianto di
smaltimento rifiuti veniva convocata una conferenza di servizi per il rilascio del
necessario provvedimento autorizzatorio.
A seguito delle modifiche progettuali concordate in seno alla prima
riunione, la Regione, senza riconvocarne un’altra, revisionava integralmente il
progetto, approvandolo con provvedimento definitivo.
Il Consiglio di Stato, in aderenza alla decisione di prime cure, ha
evidenziato in tale occasione il difetto di “carenza istruttoria derivante dalla
mancata sottoposizione del nuovo progetto all’esame della conferenza”,
rilevando come proprio “in esito alle risultanze della conferenza di servizi, il
commissario (ossia, l’amministrazione procedente) aveva completamente
rielaborato il progetto”.
Appare chiaro che, qualora l’amministrazione si fosse limitata a recepire (o
meglio, a ratificare) le risultanze istruttorie della conferenza di servizi, ossia a
modificare il progetto secondo le modifiche in quella sede concordate, un nuovo
173
passaggio in conferenza avrebbe potuto costituire soltanto una vuota formalità,
idonea esclusivamente a rallentare l’iter procedimentale.
Nel caso delineato sembra invece che l’amministrazione procedente abbia
compiuto una attività di ultrarecepimento, diretta ossia a non limitarsi alla
semplice trasposizione delle indicazioni emendative emerse in conferenza, ma a
stravolgere completamente il progetto, configurando un qualcosa di
oggettivamente diverso dal progetto approvato in conferenza: pertanto, in
quest’ultimo caso sarebbe stato vieppiù necessario un nuovo confronto dialettico
tra le amministrazioni interessate (si tratta, in sostanza, di un aspetto molto simile
alla disciplina dell’autotutela applicata all’istituto della conferenza di servizi).
Per quanto riguarda, invece, la disciplina in senso stretto sulla
gestione del dissenso - che è tra l’altro il punto maggiormente problematico
- l’evoluzione normativa di cui si è detto è stata profondamente segnata
dalla L. n. 340/2000, che ha proposto un più radicale strumento di elisione
dei dissensi maturati in conferenza, sostituendo il farraginoso meccanismo
dato dal binomio adozione del provvedimento-potere di sospensione con un
più lineare meccanismo che abilitava l’amministrazione procedente, ove lo
ritenesse, a recepire la posizione maggioritaria espressa in sede di
conferenza160.
La decisione “a maggioranza” trovava un limite soltanto in presenza
di dissensi espressi in materia di interessi sensibili (paesaggio, ambiente,
salute), nel qual caso la decisione veniva rimessa ad un secondo livello di
valutazione, ossia al Consiglio dei Ministri (integrato, in caso di dissenso
regionale, dal Presidente della regione interessata, che in ogni caso
partecipava senza diritto di voto).
Tale criterio era tuttavia soggetto a critiche, sia per il rischio che
posizioni di dissenso basate su aspetti legati alla legittimità dell’azione
amministrativa potessero essere agevolmente superate (anche attraverso
surrettizie strategie dell’amministrazione procedente, come si vedrà), sia
per la difficoltà (se non assurdità) di considerare tutte le amministrazioni
partecipanti allo stesso livello di importanza, in base al noto principio una
amministrazione = un voto.
È per questi motivi che la regola maggioritaria è stata
successivamente, almeno in parte, “stemperata” con il nuovo disegno di
160
La norma maggioritaria apre molti interrogativi, tra i quali:
a) la compatibilità dei voti per numero di amministrazioni o in base agli interessi da
queste rappresentati;
b) la compatibilità con i principi costituzionali della superibilità del dissenso delle
regioni in materia in cui queste abbiano competenza costituzionale (vedi Corte Cost.
sento n. 206/2001);
c) la necessità di evitare la partecipazione al voto di amministrazioni il cui assenso
non sia legalmente contemplato (ad es. P.A. chiamata ad esprimere solo un parere), e
tanto per evitare un inquinamento della maggioranza.
174
riforma (L. n. 15/2005), ossia attraverso l’introduzione del concetto di
“posizioni prevalenti”. E ciò in conseguenza di alcune considerazioni ed
implicazioni critiche, derivanti dalla prima (pratica) applicazione di detto
criterio all’indomani della entrata in vigore della L. n. 340, che la dottrina
aveva puntualmente messo in evidenza.
La legge di riforma n. 15 del 2005, in particolare, nell’obiettivo di «
riportare a sistema» alcune disposizioni contenute negli articoli 14-ter e 14quater in tema di fasi conclusive della conferenza di servizi (che, in ragione
della loro frammentarietà e disomogeneità, hanno spesso posto notevoli
problemi di matrice interpretativa e ricostruttiva agli operatori del diritto),
ha innanzitutto ritenuto di collocare tutte le disposizioni attinenti alla
conclusione della conferenza all’interno dell’art. 14-ter, appositamente
dedicato alle singole fasi del procedimento, Correlativamente, l’art. 14quater si riferisce alla sole (ma variegate) ipotesi di dissenso.
Si interviene così, in modo significativo, sui meccanismi attraverso i
quali pervenire ad una decisione da parte dell’amministrazione procedente.
In particolare si prevede - contrariamente alla L. n. 340/2000 in cui si
faceva esplicito riferimento al criterio della maggioranza - che “l’amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione
del procedimento, valutate le specifiche risultanze della conferenza e tenendo
conto delle posizioni prevalenti espresse in quella sede”.
Come rilevato dalla dottrina161, “volendo esemplificare i possibili casi
che potranno porsi nel nuovo regime, l’amministrazione procedente potrà
discernere (...) tra le ragioni di legittimità e quelle di opportunità poste
alla base di un dissenso “non rilevante”.
La legge n. 15 del 2005 (...) sembra consentire senz’altro alla
“prevalenza” delle posizioni espresse di superare eventuali questioni
minoritarie di mera opportunità; occorrerà, invece, pur in presenza di
posizioni prevalenti favorevoli, un maggiore approfondimento motivazionale in caso di dissenso motivato da obiezioni di legittimità di
competenza dell’amministrazione dissenziente. Per le stesse ragioni, “la
prevalenza delle posizioni espresse potrà essere anche disattesa - con una
congrua motivazione - in caso di fondata (pur se minoritaria) obiezione di
legittimità, mentre sarà ben più difficile che possa essere disattesa al fine
di tener conto di obiezioni di pura opportunità”.
Il criterio della maggioranza - prosegue la stessa dottrina - si era
rivelato infatti di difficile applicazione, specialmente per la carenza di
precisi criteri di conteggio e/o di ponderazione dei voti ai fini della
formazione delle maggioranze (e anche per la difficoltà di definire, de jure
condendo, i criteri stessi); ma anche per la difficoltà di identificare
normativamente le amministrazioni legittimate ad intervenire nelle
161
F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 8-9.
175
conferenze (con il conseguente rischio che l’amministrazione convocante si
trovasse in condizione di poter facilmente precostituire la maggioranza
numerica con un’accorta gestione dell’elenco delle amministrazioni invitate
a partecipare)”.
Come evidenziato nella relazione di presentazione all’assemblea del
Senato del 20 marzo 2003, “il criterio della maggioranza, introdotta dalla
L. n. 340, propone dubbi ed incertezze interpretative di difficile soluzione
(come si calcola la maggioranza, in presenza di amministrazioni di diversa
natura e dimensione: regioni, comuni, province, comuni grandi e comuni
piccoli, amministrazioni dello Stato, amministrazioni fortemente interessate
e altre interessate solo marginalmente, ecc.), e pone problemi assai ardui
già al momento della identificazione delle amministrazioni da convocare
alle riunioni della conferenza”.
Trova dunque affermazione quell’orientamento secondo il quale il
superamento del dissenso deve intendersi non solo (come era insito nel
sistema introdotto dalla legge n. 340 del 2000) in senso meramente e
aridamente quantitativo-formale (ossia con riferimento al mero computo
numerico del numero degli assensi e dei dissensi espressi), ma anche in
un’ottica qualitativa-sostanziale, rilevabile in concreto162.
In altre parole, nell’esercizio dei poteri sostitutivi i dissensi
manifestati in conferenza, qualora in posizione minoritaria, potranno essere
superati dall’amministrazione procedente soltanto motivatamente e
ragionevolmente, con la conseguenza che, laddove le argomentazioni del
diniego si appalesino come oggettivamente insuperabili - e nel caso in cui
si eccepiscano vizi di legittimità tale aspetto è reso ancora più evidente -la
determinazione conclusiva positiva non dovrebbe essere adottata163.
La tesi appena prospettata trae la sua origine dalla preoccupazione
che, attraverso una applicazione « selvaggia» del principio di maggioranza,
si potesse aprire lo spazio per una proliferata diffusione di comportamenti
illegittimi.
162
D. D’ORSOGNA, Spunti di riflessione sulla nuova conferenza di servizi, in “Cons.
Stato”, 200l, 2, 688.
163
Argomentazioni in questo senso possono essere tratte anche da F. G. Scoca,
Analisi giuridica della conferenza di servizi, in Dir. amm., 1999, 285. Il tema
dell’omessa o insufficiente motivazione, che di per sé integra una violazione dell’art. 3
della legge fondamentale sul procedimento, è stata efficacemente affrontata nella
sentenza n. 2085 del 2003 della Sesta sezione del Consiglio di Stato, ove si impugnava
un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri intervenuto a seguito di rimessione
degli atti della conferenza, da parte dell’amministrazione procedente, in presenza di un
dissenso espresso in materia di tutela ambientale (caso di apertura una miniera, cui
ostava la presenza di una falda acquifera). Nel caso di specie, si metteva in rilievo il
deficit motivazionale che, in rapporto alle coordinate normative di riferimento, inficiava
il provvedimento di determinazione sostitutiva.
176
Sembra dunque trovare conferma quella parte della dottrina secondo
cui la regola maggioritaria, basata unicamente sulla prevalenza
quantitativa, non sembra coincidere con una cura qualitativa degli interessi
pubblici coinvolti164.
Senza dimenticare, peraltro, che ciò potrebbe determinare una
possibile violazione di competenze costituzionalmente garantite.
In questa direzione si è mosso il nuovo disegno di riforma (legge n. 15
del 2005), sia nel senso - da ultimo considerato - di preservare le
competenze costituzionalmente garantite ad enti locali e territoriali, sia nel
nell’ottica di sostituire il criterio della maggioranza con quello della
valutazione delle posizioni prevalenti, da operarsi a cura dalla
amministrazione procedente (art. 10, comma l, lettera f).
Come affermato da autorevole dottrina (Cerulli Irelli), “mentre il
criterio della maggioranza è eminentemente soggettivo, nel senso che ad
ogni Amministrazione partecipante corrisponde un voto, si può ritenere che
il criterio della prevalenza vada riferito al tipo e all’importanza delle
attribuzioni di ciascuna Amministrazione con riferimento alle questioni in
oggetto. Ne deriva che per stabilire quale sia la posizione prevalente,
l’Amministrazione procedente che è responsabile di questa determinazione,
dovrà avere riguardo alle singole posizioni e le diverse Amministrazioni
coinvolte assumono in sede di conferenza con riferimento al potere che
ciascuna di esse avrebbe di determinare l’esito, positivo o negativo, del
procedimento, in base alle singole leggi di settore di cui si tratta”.
Altra parte della dottrina (Picozza) ha poi sottolineato come si sia
passati dal criterio dell’unanimità a quello della maggioranza, sino all’altro
(attuale) del “prudente apprezzamento”.
Resta ferma, ovviamente, la particolare disciplina applicabile in
presenza di dissensi concernenti interessi sensibili (ambiente, paesaggio,
salute ed ora anche pubblica incolumità), nella cui ipotesi si procede ad una
valutazione di secondo grado che sarà espressa, in via generalissima:
a) da organi collegiali di governo (Consiglio dei ministri oppure
giunte regionali, provinciali o locali), qualora il contrasto sorga tra
amministrazioni appartenenti allo stesso livello di governo;
b) da organismi istituzionalmente deputati alla “gestione” della leale
collaborazione (Conferenza Stato-Regioni oppure Unificata), qualora il
contrasto sorga tra amministrazioni riconducibili a diversi livelli di governo
(si veda più avanti la specifica disciplina).
È chiaro il rapporto, da regola a eccezione, tra il comma 2 e il comma
3 dell’art. 14-quater: il meccanismo della determinazione sostitutiva, in
altre parole, scatta soltanto nel momento in cui si ravvisi la presenza di
164
G. TULUMELLO, La semplificazione procedimentale applicata all’urbanistica:
profili problematici delle recenti riforme legilslative, in “Giur. it.”, 2002, 453.
177
amministrazioni portatrici di interessi sensibili all’interno di una minoranza
dissenziente, e non di una maggioranza (o meglio, di una complessiva
“posizione prevalente”) contraria all’intervento, nel qual caso - trovando
applicazione il criterio della maggioranza (rectius, delle posizioni
prevalenti) - la determinazione sarà negativa.
Dunque, la regola è data dal fatto che in conferenza di servizi si
prendono le decisioni finali sulla base del criterio della “prevalenza”, fatte
salve le ipotesi in cui, tra i dissenzienti in minoranza, vi siano alcune
amministrazioni portatrici di determinati interessi cosiddetti “sensibili” (es.
ambiente, salute o paesaggio). In tal caso (eccezione), la decisione andrà
assunta dall’organo collegiale individuabile secondo i parametri indicati
dallo stesso comma 3165.
La legge n. 15 del 2005 ha esteso l’area degli interessi sensibili anche
alle tematiche concernenti la pubblica incolumità, con l’obiettivo di
conferire il giusto rilievo agli aspetti concernenti le condizioni di sicurezza
in. cui vengono concepiti e realizzati gli interventi oggetto di approvazione
da parte della conferenza. La nozione di pubblica incolumità, peraltro non
consueta nella nostra normazione positiva, e di contenuto assai ampio,
coinvolge tutte le situazioni di pericolo in cui le persone possono trovarsi,
da quelle concernenti fatti di ordine e sicurezza pubblica a quelle
concernenti calamità naturali, o incidenti prodotti dall’uomo, o da opere
dell’uomo, incendi, crolli di edifici, rottura di argini e così via. La norma
perciò apre il dissenso qualificato a molteplici Amministrazioni, dalle forze
165
Al riguardo si è espressa la decisione n. 4568 del 2003 della sesta sezione del
Consiglio di Stato. Nel caso di specie, la parte appellante riteneva che non si sarebbero
potuti ritenere conclusi i lavori della conferenza di servizi, essendo stato espresso
dissenso dalla Soprintendenza, vale a dire da un’amministrazione preposta a tutela del
paesaggio e dell’ambiente, in applicazione dell’art. 14- quater, L. n. 241/1990; pertanto,
la decisione andava rimessa al Consiglio dei Ministri (in quanto la soprintendenza deve
intendersi quale organismo statale). Il Consiglio di Stato non ha condiviso tale
impostazione, atteso che “l’art. 14-quater, L. n. 241/1990, nel prevedere al comma 2
che la conferenza di servizi delibera a maggioranza e al comma 3 che occorre la
delibera del Consiglio dei Ministri, se il dissenso è espresso in conferenza di servizi da
un’amministrazione statale preposta alla tutela del paesaggio, ambiente, territorio,
patrimonio storico-artistico, salute, va interpretato nel senso che la delibera del
Consiglio dei Ministri occorre solo nell’ipotesi in cui vi sia in conferenza di servizi una
maggioranza favorevole e l’amministrazione statale preposta alla cura di interessi
ambientali - paesistici etc. sia rimasta in minoranza; sicché si ritiene che la conferenza
di servizi non possa concludere il procedimento, occorrendo la fase ulteriore in
Consiglio dei Ministri; laddove invece l’amministrazione statale non sia l’unica
dissenziente perché la maggioranza dei partecipanti alla conferenza di servizi si
esprimano in senso negativo, il procedimento si conclude con la determinazione
negativa della conferenza di servizi; e non occorre l’intervento del Consiglio dei
Ministri’’.
178
dell’ordine, ai vigili del fuoco, al Corpo forestale dello Stato, agli uffici
della protezione civile e così via (Cerulli Irelli).
Al dissenso concernente interessi sensibili si accompagna inoltre, con
la nuova riforma della L. n. 241, un nuovo e diverso tipo di dissenso
riguardante la posizione (negativa) espressa da una amministrazione
regionale in merito a materie costituzionalmente riservate alla regione
stessa, ed a prescindere dalla presenza o meno di interessi sensibili. E
questo in ragione della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha
segnato, come è noto, una svolta in senso « federalista» nell’assetto delle
funzioni e dei compiti demandati agli enti territoriali. Viene così inserita,
come appena detto, una specifica ipotesi di dissenso regionale la quale, nel
complesso, costituisce una eccezione alla regola della maggioranza, diversa
ed ulteriore rispetto a quella prevista dal comma 3 dell’art. 14-quater, in
quanto, prescindendo dalla presenza o meno di interessi sensibili, si estende
all’intera area di materie costituzionalmente attribuite alla competenza,
legislativa o amministrativa (si deve presumere), delle regioni.
Ciò premesso, la disciplina della gestione del dissenso si articola, in
particolare, nelle seguenti fasi:
A. Nelle ipotesi in cui il dissenso verta su interessi sensibili (tra cui
rientra ora anche il concetto di “pubblica incolumità”):
A.1. Laddove il contrasto riguardi solo amministrazioni statali
(valutazioni di primo livello), la soluzione sarà rimessa al Consiglio dei
ministri (valutazione di secondo livello);
A.2. Laddove il contrasto sorga tra una amministrazione statale ed una
regionale, oppure tra amministrazioni regionali (ossia, appartenenti a due
diverse regioni), la valutazione di secondo livello, in chiave risolutori a,
sarà rimessa alla Conferenza Stato-Regioni;
A.3. Laddove il contrasto riguardi una amministrazione statale ed una
locale, oppure una amministrazione regionale ed una locale, la soluzione
sarà riservata alla Conferenza Unificata.
B. Nelle ipotesi in cui il dissenso incida su competenze regionali (la
legge non distingue tra competenze legislative o amministrative, dunque si
deve ritenere che entrambi i profili siano di conseguenza interessati):
B.1. Laddove il contrasto sorga tra una amministrazione statale ed una
regionale, oppure tra amministrazioni regionali (ossia, appartenenti a due
diverse regioni), la valutazione di secondo livello, in chiave risolutoria,
sarà rimessa alla Conferenza Stato-Regioni;
B.2. Laddove il contrasto riguardi una amministrazione statale ed una
locale, oppure una amministrazione regionale ed una locale, la soluzione
sarà riservata alla Conferenza Unificata.
C. Nelle ipotesi in cui la decisione (sia su interessi sensibili, sia su
materie regionali) sia riservata ad una delle due Conferenze (Stato-Regioni
oppure Unificata), ossia nelle ipotesi sopra individuate A.2., A.3., B.1. e
179
B.2., qualora non si pervenga, entro i successivi novanta giorni, ad una
soluzione (di secondo livello), si innesca una ulteriore fase (che potrebbe
definirsi “valutazione di terzo livello”) davanti:
C.1. Al Consiglio dei ministri, nelle ipotesi in cui si verta su
competenze statali ai sensi degli articoli 117 e 118 Costo Tempo di
definizione della questione: 30 giorni;
C.2. Alla “competente Giunta regionale” negli altri casi (sul punto si
svolgeranno più avanti alcune osservazioni critiche). In quest’ultimo caso,
qualora non si pervenga ad una soluzione nei successivi trenta giorni, si
rimetterà (in quarta istanza) la questione al Consiglio dei ministri, che
delibera con la partecipazione dei Presidenti delle regioni interessate (non è
chiarito se con o senza diritto di voto.
D. Infine, quale ipotesi residuale, è previsto che “in caso di dissenso
tra amministrazioni regionali, i commi 3 e 3-bis (ossia in presenza di
qualsiasi dissenso concernente interessi sensibili oppure materie
strettamente regionali) non si applicano nelle ipotesi in cui le regioni
interessate abbiano ratificato, con propria legge, intese per la composizione
del dissenso ai sensi dell’articolo 117, ottavo comma, della Costituzione,
anche attraverso l’individuazione di organi comuni competenti in via
generale ad assumere la determinazione sostitutiva in caso di dissenso”.
Sul piano dei termini a normativa, il comma 3 dell’art. 14-quater
prevede che la deliberazione del Consiglio dei Ministri o dell’altro organo
collegiale debba intervenire nel termine dì trenta giorni, a decorrere
evidentemente dalla ricezione della richiesta dell’amministrazione
procedente di pervenire al superamento del dissenso, prorogabile dal
Presidente del Consiglio dei ministri, per la complessità dell’istruttoria,
fino a sessanta giorni. Come si vedrà più avanti, per le decisioni rimesse
alla Conferenza Stato-Regioni oppure a quella Unificata il meccanismo di
superamento dei dissensi, di recente introduzione, è alquanto diverso.
Si pone il problema della perentorietà dei termini in parola.
Il problema è stato già affrontato, per la verità, con riferimento ai
termini generalmente previsti per il procedimento ordinario della
conferenza di servizi.
Nonostante a sostegno della tesi negativa si ponga la pretesa
caratterizzazione eccezionale dell’intervento dell’organo politico centrale,
la soluzione della natura ordinatoria - già risolta positivamente in questo
senso dal Consiglio di Stato - è suffragata dai seguenti elementi:
a) il principio generale in tema di procedura amministrativa, ribadito
dalla giurisprudenza con riguardo al termine per la definizione del
procedimento amministrativo ai sensi dell’articolo 2 della L. n.
241/1990, è quello della natura non perentoria dei termini laddove la
consumazione del potere decisorio non sia comminato da una
previsione legislativa decadenziale, che nella specie difetta;
180
b)
la soluzione della natura ordinatoria è in linea con la caratterizzazione
pacificamente ordinatoria dei termini per la definizione della
procedura base della conferenza di servizi, ai sensi della legge
dell’articolo 14-ter, comma 3. Chiare esigenze di parallelismo
impediscono allora di annettere un rilievo diverso, nell’un caso
ordinatoria e nell’altro preclusivo-decadenziale, al decorso infruttuoso
del termine per la definizione del procedimento;
c) la soluzione della perentorietà inciderebbe negativamente sul diritto
del privato, che abbia presentato l’istanza, alla definizione del
procedimento amministrativo ai sensi dell’articolo 2 della L. n.
241/1990, impedendo in concreto la formale definizione della
procedura con un provvedimento espresso.
Da segnalare, poi, che la disposizione racchiusa nel comma l, lettera
b), dell’art. 11 della L. n. 15/2005, nel recare modifiche all’articolo 14quater, comma 3, della L. n. 241/1990, distingue la complessità istruttoria
(che comporta una proroga dei termini di sessanta giorni per l’esame da
parte del Consiglio dei ministri o di altri organi esecutivi) dalla carenza
istruttoria, che in tal caso dovrebbe impedire l’utile decorso dei termini
(complessivamente indicati in 90 giorni) per la determinazione sostitutiva
dell’organo collegiale di Governo o degli altri organismi istituzionali
deputati alla gestione della leale collaborazione (Conferenza Stato-Regioni
oppure Unificata).
Con particolare riferimento al procedimento di secondo livello che si
svolge davanti ad una delle due Conferenze di cui al decreto legislativo n.
281 del 1997, è intervenuto un importante parere del Consiglio di Stato (13
luglio 2005, n. 2140), il quale ha ritenuto che il nuovo art. 14-quater rende
palese l’intento del legislatore di assicurare alla Conferenza (Stato-Regioni
oppure Unificata) un termine “pieno” di 30 giorni (eventualmente
prorogabili nei termini anzidetti) per l’assunzione della decisione
sostitutiva.
La ratio della disposizione in esame è, peraltro, anche quella di
pervenire sollecitamente e, comunque, nel minor tempo possibile, alla
definizione della questione con il superamento del dissenso. Ne consegue
che l’interpretazione più coerente con la ratio e con le esigenze sottese
dalla norma è quella che identifica il dies a quo, a far data dal quale debba
decorrere il periodo di trenta giorni, nell’iscrizione all’ordine del giorno
della Conferenza, in modo da assicurare a quest’ultima tutto lo spatium
deliberandi previsto dalla legge.
Deve peraltro ritenersi - prosegue lo stesso organo consultivo - che
dalla stessa norma derivi anche l’obbligo, in linea di principio, di iscrivere
all’ordine del giorno della prima conferenza utile la decisione sostitutiva
richiesta. Tale esito sembra infatti discendere con chiarezza dalla natura
eminentemente sollecitatoria delle disposizioni in esame, mentre a tale
181
dovere funzionale l’amministrazione (la Segreteria di una delle due
Conferenze) potrà sottrarsi soltanto in caso di macroscopica e radicale
assenza di documentazione, che metta l’organo collegiale nell’impossibilità
di adottare qualunque decisione.
Riepilogando, una volta ricevuta la documentazione trasmessa a
seguito del dissenso, l’amministrazione procedente, ossia la Segreteria
della Conferenza, dovrà pertanto provvedere, in linea di massima,
all’iscrizione del relativo affare all’ordine del giorno della prima
Conferenza utile, e sarà dalla data di questo primo esame dell’affare che
inizierà a decorrere il termine di trenta giorni previsto dalla legge. La
Segreteria, prima dell’iscrizione, dovrà sempre verificare, in ogni caso, la
completezza della documentazione istruttoria, e acquisire una relazione
sintetica da parte dell’amministrazione procedente e dissenziente.
Come segnalato nel citato parere del Consiglio di Stato (n. 2140 del
2005), la disciplina relativa al superamento del dissenso, inoltre, “non può
che riguardare le conferenze decisorie, e non le conferenze c.d.
“istruttorie”, che provvedono ad un esame congiunto degli interessi
coinvolti, ma non adottano determinazione conclusive”. La Conferenza
(Stato-Regioni o Unificata), investita a seguito del motivato dissenso delle
amministrazioni indicate dalla legge, è così chiamata a porre’in essere la
decisione che, per il richiamato dissenso, la conferenza di servizi non è
stata in grado di assumere; tale decisione non potrà pertanto che risolversi
in una determinazione conclusiva del procedimento che, in adesione del
dissenso, neghi le autorizzazioni od i nullaosta da acquisire, ovvero che,
superando motivatamente il dissenso, li conceda. La decisione potrà,
peraltro, in parte concedere ed in parte negare le autorizzazioni ed il nulla
osta richiesti, non potendo escludersi che il motivato dissenso sia ritenuto
soltanto in parte superabile”.
In merito a tale particolare fase di gestione del dissenso, il citato
parere del Consiglio di Stato ha altresì affermato, da un lato, che tutti i
soggetti portatori degli interessi sensibili, come indicati dalle norme in
questione, sono legittimati ad esprimere il “motivato dissenso” che dà
origine alla rimessione della decisione agli organi collegiali che risultano
competenti in base al tipo di conflitto: dunque, non deve esservi necessaria
coincidenza tra amministrazioni dissenzienti ed organi istituzionali che
compongono le due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata).
E ciò in quanto i collegi deputati alla decisione sostitutiva sono stati
indicati come tali dalla legge non in quanto capaci, per la loro
composizione, di assicurare la presenza di tutte le amministrazioni
partecipanti alla conferenza di servizi, quanto piuttosto per la loro idoneità
a rappresentare e garantire adeguatamente la ponderazione degli interessi in
gioco; dall’altro lato, che la composizione delle due Conferenze non può
che essere quella istituzionalmente prevista dal D.L. n. 281 del 1997, con la
182
conseguenza che la rappresentanza di enti e soggetti eventualmente non
presenti nella Conferenza dovrà essere assunta da soggetti istituzionali che
compongono la Conferenza (le regioni potranno ad esempio assumere la
rappresentanza degli interessi di enti regionali vigilati).
Dovranno in ogni caso essere assicurate - prosegue il Consiglio di
Stato - adeguate forme di pubblicità, da parte della Segreteria delle due
Conferenze, volte a garantire l’informazione degli eventuali soggetti,
promotori del dissenso, diversi da quelli che compongono la conferenza
medesima.
A tale ultimo riguardo, si segnala un recente atto della Presidenza del
Consiglio dei Ministri - Segreteria della Conferenza Unificata, concernente
la “costituzione di gruppi tecnici per l’espletamento dell’attività istruttoria
delle conferenze”. Fanno parte di tali organismi un rappresentante della
segreteria della Conferenza stessa, un rappresentante del Ministero dotato
della competenza primaria sull’oggetto del dissenso, un rappresentante
della/e regioni territorialmente competenti, un rappresentante ciascuno per
Anci, Upi, Uncem, nonché i rappresentanti dell’amministrazione
procedente e di quelle dissenzienti.
In questo modo vengono create apposite sedi tecniche con il compito
di istruire le relative questioni e fornire indicazioni a supporto della
decisione spettante alle conferenze.
Non va sottaciuto come la valenza lato sensu politica, che assume la
decisione collegiale (oppure interistituzionale, secondo le nuove linee
adottate dal disegno di riforma sul dissenso regionale) di disattendere il
responso dell’organo espressosi in senso negativo, in base ai principi di cui
al D.L. n. 29/1993, delinei in realtà una significativa deroga al riparto di
competenze tra organo di governo e ceto dirigente, che si concretizza
nell’attribuzione al primo di una competenza relativa ad una
determinazione puntuale esulante dalla sfera di indirizzo e di
programmazione.
Come si avrà modo di approfondire più avanti, parte della dottrina
ritiene tale procedimento macchinoso ma inevitabile, e comunque reso
indispensabile sulla base del nuovo Titolo V della parte seconda della
Costituzione (con il conforto della Consulta su questo punto), mentre altra
parte degli studiosi lo hanno considerato inefficace e, peraltro, poco
rispettoso del principio di separazione tra politica ed amministrazione.
Nel corso del successivo paragrafo si svolgeranno alcune
considerazioni di approfondimento sul tema dei rapporti con il nuovo
Titolo V della Costituzione.
183
3. In particolare: il rapporto tra conferenza di servizi e Titolo V della
parte seconda della Costituzione
A seguito della entrata in vigore della legge costituzionale n. 3/2001,
ci si é a lungo soffermati sulla persistente compatibilità costituzionale di
una disciplina statale in tema di conferenza di servizi (e ovviamente, più a
monte, di procedimento amministrativo), laddove siano concretamente
coinvolti interessi regionali e locali166.
A tale riguardo, si rammenta che l’impianto normativo della
conferenza di servizi si articola su due livelli di valutazione: il primo
necessario il secondo eventuale. Il primo livello di valutazione è
ovviamente quello rimesso all’esame della conferenza di servizi in senso
proprio, che deve concludere i propri lavori nel termine, legalmente fissato,
di novanta giorni. Il secondo livello di valutazione è invece meramente
eventuale, ricorrendo nelle ipotesi di dissensi espressi su interessi c.d.
sensibili (paesaggio, ambiente, salute), ed è rimesso all’esame del
Consiglio dei ministri, oppure degli altri organi collegiali di governo degli
enti locali o territoriali (giunte regionali, provinciali o comunali)
individuati secondo i parametri di cui all’art. 14-quater, comma 3, della L.
n. 241/1990. Con la nuova legge di riforma, le valutazioni di secondo
livello ricomprendono altresì, secondo particolari forme, i dissensi
regionali.
Per quanto riguarda il primo aspetto, è stato affermato - in sede di
relazione davanti all’assemblea del Senato della Repubblica167 - che “la
competenza statale in materia potrebbe utilmente essere ricavabile da una
serie di elementi contenuti nel secondo comma dell’art. 117 Cost.
In linea generale è noto che, prima della riforma costituzionale del
2001, le norme sancite dalla L. n. 241 si applicavano a tutte le
amministrazioni pubbliche, sulla base della qualificazione dei princìpi da
essa desumibili come princìpi generali dell’ordinamento o princìpi di
grande riforma, in quanto tali vincolanti anche per la legislazione regionale.
Tuttavia, dopo la riforma del titolo V della parte seconda della
Costituzione, appare assai arduo sostenere che l’esercizio della competenza
legislativa regionale incontri ancora il limite dei princìpi generali
dell’ordinamento o dei princìpi di grande riforma. Secondo il nuovo
articolo 117 Cost., infatti, i soli limiti che il legislatore regionale incontra
sono rappresentati dalla Costituzione, dal vincolo comunitario e da quello
internazionale.
166
M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V della Costituzione: analisi del
quadro normativo attuale e di quello di imminente introduzione, in “Urb. App.”, n.
9/2004.
167
Depositata in data 20 marzo 2003 dal senatore Franco Bassanini.
184
Si deve inoltre aggiungere che, per come risulta oggi formulato
l’articolo 117 Cost., la potestà legislativa della regione si estende non solo
alla
disciplina
generale
dell’attività
amministrativa
svolta
dall’amministrazione regionale e dagli enti da essa dipendenti, ma anche a
quella svolta da qualsiasi altra amministrazione pubblica, a meno che la
potestà legislativa relativa non sia riservata allo Stato.
Appare peraltro di particolare rilievo - al fine di radicare una
persistente competenza statale in questa direzione - la riserva al legislatore
statale, ai sensi della lettera m) dell’articolo 117, della determinazione dei
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali.
Mediante l’esercizio di tale potestà si possono imporre a tutte le
amministrazioni obblighi attinenti ai servizi pubblici e alle prestazioni
pubbliche volti a rendere effettivi i diritti civili e sociali riconosciuti ai
cittadini.
Ma anche l’amministrazione è un servizio, e così molte delle
disposizioni generali sull’azione amministrativa sembrano rientrare
nell’ambito di applicazione della lettera m) dell’articolo 117. Si pensi, ad
esempio, ai termini massimi entro cui il provvedimento deve essere portato
a conoscenza dell’interessato o ai princìpi della cosiddetta semplificazione
amministrativa, ovvero all’imposizione di obblighi diretti a garantire a tutti
la conoscibilità delle attività delle amministrazioni mediante la pubblicità
dei provvedimenti e delle relative motivazioni. La previsione che la
disciplina statale non possa andare oltre la determinazione dei livelli
essenziali trova fondamento nel fatto che la configurazione concreta
dell’attività da svolgere deve procedere di pari passo con quella degli
assetti organizzativi degli apparati che esercitano l’attività amministrativa”.
Si tratta, in sostanza, di un principio che si sta vieppiù affermando,
soprattutto in sede di politica legislativa (si veda anche la legge annuale di
semplificazione per il 2005), ossia quello dei “livelli minimi di
semplificazione”.
È, questa, una tesi che trova il suo principale fulcro nella definizione,
legislativamente data ed introdotta con la legge n. 15 del 2005, del diritto di
accesso quale livello essenziale di prestazione ai sensi dell’art. 117,
secondo comma, lettera m), Cost. Occorre tuttavia sottolineare come tale
qualificazione non abbia indotto il Consiglio di Stato, nella sentenza n. 6
del 2006 dell’Adunanza Plenaria, a considerare tale istituto alla stregua di
diritto soggettivo [suggerita dalla stessa impostazione della citata lettera
m)] piuttosto che di interesse legittimo. Si tratta in sostanza di etichette che
il legislatore (statale) attribuisce ai vari istituti del procedimento
amministrativo (si veda in tal senso il recente d.d.l. Nicolais, AS 1859,
sfociato, poi, nel nuovo art. 29, l. 241/90, art. 8, con il quale si estende il
concetto di livelli essenziali anche alla conclusione del procedimento, alla
partecipazione, alla d.i.a./scia ed al silenzio-assenso, praticamente tutta la
185
241 (!) con il solo fine di sottrarre ampi spazi di intervento al legislatore
regionale, ma senza che si riscontrino in tal senso adeguati supporti logici e
sistematici per giustificare una simile scelta.
Nella direzione appena illustrata, il richiamato disegno di legge, poi,
in buona sostanza, recepito con le modifiche all’istituto conferenziale
apportate nel successivo biennio di riforme 2009/2010, contiene alcune
norme generali che regolano il rapporto tra fonti statali e regionali. In
particolare:
a) all’art. 19, comma 2, si prevede che “le regioni e gli enti locali,
nell’ambito delle rispettive competenze, regolano le materie
disciplinate dalla presente legge nel rispetto del sistema costituzionale
e delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’azione amministrativa,
così come definite dai princìpi stabiliti dalla presente legge”. Dalla
lettura della norma emerge come lo Stato abbia voluto fissare i c.d.
“livelli minimi di semplificazione” dell’attività amministrativa, cui si
dovranno attenere gli enti locali e regionali nell’ambito delle rispettive
competenze. Livelli minimi che dovranno comunque essere desunti
dai principi della L. n. 241 del 1990, come risulterà anche a seguito
delle richiamate modifiche. Nel rispetto di tali “livelli minimi”, le
regioni potranno quindi apportare, successivamente, modifiche nella
parte di diretta e specifica regolazione della materia;
b) all’art. 22, si prevede che “fino alla data di entrata in vigore della
disciplina regionale di cui all’articolo 29, comma 2, della legge 7
agosto 1990, n. 241, come sostituito dall’articolo 15 della presente
legge, i procedimenti amministrativi sono regolati dalle leggi regionali
vigenti. In mancanza, si applicano le disposizioni della L. n. 241/1990
come modificata dalla presente legge”. Si tratta in sostanza di una
tipica clausola di cedevolezza, volta ossia ad affermare la validità
delle prescrizioni statali anche di dettaglio, nell’ipotesi in cui non vi
abbia ancora provveduto il legislatore regionale (nel limite dei “livelli
minimi di semplificazione” fissati dalla L. n. 241). Si tratta, dunque,
di salvaguardare esigenze pratiche di funzionamento del sistema,
nonché il rispetto dei diritti civili, in modo uniforme sull’intero
territorio nazionale, almeno sino a quando il legislatore regionale non
avrà provveduto concretamente ad attivare l’esercizio delle proprie
competenze168.
168
Per la verità, sono sorti diversi dubbi circa la legittimità costituzionale di tale
istituto all’indomani della riforma costituzionale del 2001, che fissa un criterio di riparto
molto più marcato rispetto al precedente sistema; Tuttavia, dottrina (Caravita) e
giurisprudenza (cfr. Corte Costituzionale, sent n. 13 del 2004, in materia di istruzione e
individuazione delle dotazioni organiche), hanno cominciato ad ammettere qualche
residuale spazio in questo senso, proprio per la salvaguardia dei livelli minimi di
funzionamento del sistema istituzionale.
186
Qualche considerazione critica al riguardo. Già la Corte
Costituzionale, con la nota sentenza n. 465 del 1991, aveva avuto modo di
sottolineare come il procedimento amministrativo non coincida con uno
specifico ambito materiale di competenza, in quanto modo di esercizio
delle diverse competenze; ne consegue che la disciplina dei vari
procedimenti dovrà essere affidata a fonti statali o a fonti regionali, a
seconda che gli stessi attengano all’esercizio di competenze materiali
proprie dello Stato o delle regioni. E questo tanto più ove si consideri la
connessione naturale esistente tra la disciplina del procedimento e la
materia dell’organizzazione, connessione che conduce a individuare nella
regolamentazione ad opera della regione dei procedimenti amministrativi di
propria spettanza un corollario della competenza regionale, richiamata
nell’art. 117 della Costituzione (nel testo allora vigente), concernente
l’ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalle regioni.
Se si vuole, la Corte adotta un ragionamento analogo a quello
sostenuto, nella sentenza n. 303 del 2003 (e poi sostanzialmente ribadito
nella decisione n. 401 del 2007, riguardante il codice dei contratti), in tema
di appalti pubblici, i quali a loro volta non costituiscono una materia a sé
stante, quanto piuttosto un settore che accede alla materie che, di volta in
volta, si intende regolare: così per gli appalti in materia di difesa e beni
culturali (entrambi di competenza statale), porti ed aeroporti, nonché
governo del territorio (entrambi di competenza concorrente), etc.
Con l’unica differenza che, mentre in tema di appalti il Codice dei
contratti, all’art. 4, ha integralmente recepito le indicazioni della Consulta,
non altrettanto pare avere fatto il legislatore del 2005 sul procedimento
amministrativo.
Si osserva infatti come nel codice appalti si distinguano aspetti
riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato (es. tutti gli aspetti
relativi alla concorrenza, tra cui il sistema di qualificazione oppure di
aggiudicazione), alla competenza concorrente (es. sicurezza del lavoro) ed
a quella residuale regionale (es. organizzazione amministrativa): nel primo
caso, le disposizioni del codice valgono tout court nei confronti delle
regioni; nel secondo caso, come norme di principio; nel terzo, come norme
cedevoli.
È agevole osservare come una strutturazione di questo genere sarebbe
stata salutata con maggior favore per quanto riguarda la legge generale sul
procedimento amministrativo, caratterizzata invece (art. 29, come
modificato) da una formulazione ambigua e, a tratti, poco comprensibile.
In altre parole, si poteva articolare l’efficacia della legge 241 a
seconda che il procedimento amministrativo riguardasse:
a) ambiti di competenza legislativa esclusiva statale (es. ambiente e beni
culturali): in questo caso, le competenze amministrative
eventualmente attribuite, in tali materie, a regioni ed enti locali,
187
sarebbero state esercitate nel rispetto integrale (principi e dettaglio)
della legge 241;
b) ambiti di competenza legislativa concorrente (es. governo del
territorio): in tal caso, la legge 241 sarebbe risultata applicabile in
quanto legge recante principi fondamentali (es. sui termini massimi o
minimi), come del resto secondo l’originaria formulazione dell’art. 29,
adottata in costanza del vecchio titolo V. Di conseguenza, le norme di
dettaglio della 241, in tali materie, sarebbero risultate cedevoli rispetto
alla sopravvenuta legislazione regionale;
c) ambiti di competenza legislativa residuale regionale (es. commercio):
in questa ipotesi, la legge 241 sarebbe stata applicabile come
normativa integralmente cedevole.
Venendo alla Conferenza di servizi, è chiaro che lo schema sopra
illustrato avrebbe conservato validità sino a quando si fosse trattato di
procedimenti interamente regionali o locali. Qualora fossero entrati in
gioco interessi statali (per la verità, la maggioranza delle ipotesi),
probabilmente lo schema delineato dal legislatore statale, come vedremo in
applicazione del criterio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost., avrebbe in
ogni caso prevalso, anche in considerazione della particolare disciplina sul
secondo livello di valutazioni.
Come già anticipato, diversa è stata la scelta di politica legislativa,
adottata anche nel d.d.l. Nicolais (AS 1859), in cui si giustifica l’intervento
statale a tutto campo sulla base di una certa lettura - per la verità assai
generosa - del concetto di livelli essenziali delle prestazioni di cui all’art.
117 Cost., secondo comma, lettera p).
In ordine al secondo aspetto, concernente le valutazioni di secondo
livello per la relativa gestione dei dissensi qualificati, assume particolare
significato il D.P.R. n. 383/1994 (relativo alla localizzazione di opere
pubbliche, e sulla cui disciplina si rinvia al paragrafo 12), laddove è
stabilito - in deroga alla disciplina generale che ormai prevede
l’applicazione del criterio della maggioranza ai fini della adozione del
provvedimento conclusivo - che la conferenza di servizi debba concludersi,
nel primo stadio di valutazione, con l’assenso di tutti gli enti partecipanti, e
dunque anche delle regioni (con le quali, anzi, si dovrebbe prima di tutto
raggiungere l’intesa) e degli enti locali.
Si tratta di una previsione antesignana, concepita in un momento
precedente all’entrata in vigore della riforma costituzionale del 2001, che si
muove nel pieno rispetto delle autonomie locali ed alla quale si è
accompagnata l’introduzione, di carattere pretorio, di un meccanismo
analogo anche in tema di Sportello Unico per le attività produttive (D.P.R.
n. 447/1998 e 106/2010), laddove è previsto - per espressa statuizione della
Corte Costituzionale con la sentenza n. 206 del 200l - il necessario assenso
della regione (o meglio, l’impossibilità di superare il suo dissenso con il
188
mero criterio della maggioranza) in ordine alle varianti agli strumenti
urbanistici.
Tale meccanismo (necessaria intesa con le regioni nell’ambito delle
valutazioni di primo livello) ha pressoché trovato generale applicazione
(fatta eccezione per alcuni casi particolari, come le comunicazioni) con
l’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 200l: è il caso, ad
esempio, del D.L. n. 7/2002 (c.d. “sbloccacentrali”).
Si tratta altresì di un meccanismo - quello volto all’acquisizione del
necessario assenso regionale - che era tuttavia limitato, nel quadro
normativo anteriore all’entrata in vigore della L. n. 15/2005, alle sole
valutazioni di primo livello, e non anche a quelle di secondo livello.
Ci si è allora domandato se il meccanismo dell’intesa dovesse essere o
meno esteso anche a tale ultima fase.
Una prima risposta positiva in questa direzione poteva agevolmente
ricavarsi da alcune sentenze della Corte Costituzionale (rispettivamente n.
303 del 2003, n. 6 e n. 27 del 2004), dal cui complessivo esame si ricava
che tali intese, vertendo anche su materie di interesse regionale (opere
pubbliche, energia, etc.), debbano essere considerate “in senso forte” (cfr.
sentt. n. 303 e n. 6), ossia non altrimenti superabili se non dopo avere
esperito ogni “sforzo” utile e necessario per la loro acquisizione da parte
dello Stato (cfr. sent. n. 27 del 2004): di qui, l’esigenza che il principio di
leale collaborazione tra Stato e regioni trovasse spazio non solo all’interno
delle valutazioni di primo livello (intesa Stato-Regioni per il rilascio del
provvedimento costitutivo di effetti, come nel decreto “sbloccacentrali”),
ma anche all’interno delle valutazioni (eventuali) di secondo grado169.
In particolare, la Corte Costituzionale ha rilevato che:
a) ogni ordinamento federale, ispirato a rigidi criteri di separazione delle
competenze, conosce clausole di flessibilità, in deroga ai principi di
riparto, utilizzabili per imprescindibili istanze di unificazione;
b) nella nostra Costituzione, tale elemento di, flessibilità è rinvenibile
nell’art. 118 Cost., il quale consentirebbe allo Stato di assumere, in
base ai principi di sussidiarietà ed adeguatezza, funzioni
amministrative per esigenze di carattere unitario, anche in materia
riservate alla legislazione regionale (sia concorrente, sia residuale);
c) sulla base del principio di legalità cui è sottoposto l’esercizio di ogni
attività amministrativa - e dunque anche di quelle “assunte in
sussidiarietà” - le funzioni ricondotte allo Stato debbono essere
disciplinate con norme di legge, che solo lo Stato, per ragioni di
uniformità, può porre in essere;
d) l’assunzione in sussidiarietà, quale deroga al sistema di competenze,
deve sottostare a due specifiche condizioni: in primo luogo, la
169
M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 1003.
189
riconducibilità allo Stato della funzione amministrativa (e di conseguenza di quella legislativa) deve rispondere a criteri di proporzionalità e ragionevolezza; in secondo luogo, la funzione in esame
deve essere amministrata secondo il principio di leale collaborazione,
e dunque attraverso intese ed accordi con le regioni “espropriate”. In
particolare, il principio della leale collaborazione opera in senso
assoluto, in quanto il corretto esercizio della funzione amministrativa
non può prescindere dal mancato raggiungimento dell’intesa.
Di qui, la necessità che la mancanza di una intesa di primo livello non
potesse essere superata sic et simpliciter da una determinazione unilaterale
del Consiglio dei ministri, se non dopo avere esperito ogni tentativo utile, e
dunque anche in sede di valutazione di secondo grado, per superare detto
impasse.
Pertanto, anche in caso di decisione rimessa al Consiglio dei ministri,
vuoi per la valutazione di dissensi concernenti interessi sensibili, vuoi per
la presenza di dissensi regionali su materie di loro competenza, si è ritenuto
che la relativa decisione avrebbe dovuto essere adottata, secondo lo schema
avallato dalla Corte Costituzionale, mediante intesa (o comunque mediante
forme “rafforzate” di leale collaborazione) con la regione interessata; e ciò
sia per i procedimenti ordinari ascrivibili tout court alla L. n. 241 del 1990,
sia per quelli speciali, previsti da determinate normative di settore (cfr.
D.P.R. n. 383/1994 e D.P.R. n. 447/1998).
In tale ottica si è mossa pienamente la L. n. 15/2005: il nuovo art. 14quater prevede infatti - come già evidenziato in precedenza - due ipotesi di
“dissenso qualificato”:
a) il dissenso in materia di interessi sensibili (ora esteso anche alla
pubblica incolumità), che viene “gestito” dal Consiglio di ministri in
caso di conflitto tra amministrazioni statali; dalla Conferenza StatoRegioni in caso di conflitto tra amministrazioni statali e regionali
oppure tra più amministrazioni regionali; dalla Conferenza Unificata
in caso di contrasto tra amministrazioni statali (o regionali) e locali, o
tra più amministrazioni locali;
b) il dissenso di una regione in materia di competenza regionale, che
viene “gestito” nelle stesse forme indicate al punto precedente, ossia
davanti ad una delle due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata).
Viene dunque inserita una specifica ipotesi di dissenso regionale la
quale, nel complesso, costituisce una eccezione alla regola della
maggioranza diversa ed ulteriore rispetto a quella prevista dal comma 3
dell’art. 14-quater, in quanto, prescindendo dalla presenza o meno di
interessi sensibili, si estende all’intera area di materie costituzionalmente
attribuite alla competenza legislativa, esclusiva o concorrente, delle regioni.
190
Appare ovvio che le due ipotesi ben possono simultaneamente
verificarsi: la formulazione della norma è comunque tale da evitare
notevoli problemi applicativi di coordinamento testuale.
Sembrerebbe altrettanto pacifico che, laddove si parli di conflitti tra
più amministrazioni regionali, il riferimento è ad amministrazioni che
fanno parte di due diversi enti regionali, e non ad articolazioni della stessa
Regione.
A conferma di tale interpretazione sta il successivo comma 3-quater
dell’art. 14-quater della L. n. 241/1990, introdotto dall’art. 11 del d.d.l.,
che prevede proprio la deroga al ricorso alla Conferenza Stato-Regioni,
nelle ipotesi in cui le due regioni di riferimento abbiano stipulato intese di
coordinamento ai sensi dell’art. 117, ottavo comma, Cost.
Se ne deduce, da tale lettura, che la norma statale di nuovo conio si
riferisce ai soli conflitti “esterni”, e non anche a quelli “interni” (ossia tra
più amministrazioni della stessa regione o dello stesso ente locale), che
saranno di conseguenza disciplinati dalle rispettive norme regionali e dai
regolamenti locali.
Occorre evidenziare come il contrasto tra amministrazioni statali
(oppure regionali) ed enti locali, debba essere circoscritto alle sole ipotesi
in cui:
1. L’ente locale sia amministrazione procedente;
2. L’ente locale sia dissenziente, ma unicamente in relazione alla tutela
di interessi sensibili, e non anche di interesse regionale (di qui, la
persistente “specialità” della disciplina di cui al D.P.R. n. 883, che
invece prevede il ricorso alla valutazione di secondo livello anche
nelle ipotesi di dissenso dell’ente locale non necessariamente
concernente un interesse sensibile, tanto più che la maggior parte delle
volte - come nel caso prospettato dalla sentenza in epigrafe - la
posizione negativa dei comuni riguarda più propriamente l’assetto dei
parametri urbanistici).
Lo Stato si è qui preoccupato di disciplinare situazioni in cui l’ente
locale eserciti funzioni di amministrazione procedente, oppure risulti
comunque titolare di interessi sensibili, di competenza esclusiva statale.
In sostanza, le disposizioni di cui ai commi 3, 3-bis e 3-quater dell’art.
14-quater; come introdotti dall’art. 11 della legge di riforma,
sembrerebbero costituzionalmente conformi al quadro di riparto delle
competenze, nonché ai recenti dettami della Corte Costituzionale in tema di
sussidiarietà e di leale collaborazione, che consentono allo Stato di
intervenire anche in settori di competenza concorrente (sentenza n. 808 del
2003) o addirittura residuale (sentenza n. 6 del 2004) delle regioni: infatti,
in questi casi la decisione sostitutiva viene assunta in sede di Conferenza
Stato-Regioni oppure Unificata, ossia all’interno dei due organi che
191
costituiscono, al momento, la massima espressione istituzionale del canone
di leale collaborazione170.
Al riguardo, appare quanto meno doverosa una puntualizzazione:
infatti, la Conferenza Stato-Regioni (oppure quella Unificata) non è
precisamente qualificabile come un organo propriamente statale (in termini,
Corte Costituzionale, sentenza n. 116 del 1994), né ovviamente
appartenente all’ordinamento regionale, quanto piuttosto quale “sede
privilegiata del confronto e della negoziazione politica tra lo Stato e le
regioni”, ossia come “istituzione operante nell’ambito della comunità
nazionale”, in funzione di “strumento per l’attuazione della cooperazione
tra lo Stato, le regioni e le province autonome”.
Ne deriva che, pur non essendo direttamente qualificabile come
“organo statale”, si potrebbe comunque definire, la stessa istituzione, come
“organismo di coordinamento interistituzionale di derivazione statale’’,
In estrema sintesi si confermerebbe, anche sul piano del procedimento
amministrativo di generale applicazione. (e non solo in quello di settore,
come attualmente riscontrabile), la necessità dell’assenso regionale, su
materie di stretta competenza costituzionale, nelle valutazioni di primo
livello; inoltre, anche nelle successive (ed eventuali) valutazioni di secondo
livello, dovrà essere raggiunta l’intesa tra Stato ed autonomie locali o
territoriali, ai fini della adozione della determinazione sostitutiva.
Dunque, sembra trovare rispondenza il quadro che ha di recente
“ricostruito” la Corte Costituzionale con le sentenze prima richiamate (n.
803 del 2008 e n. 6 del 2004), giacché la decisione in capo alla Conferenza
Stato-Regioni, secondo il sistema di recente introduzione, viene nel
complesso giustificata da esigenze unitarie oppure dal rispetto dei livelli
minimi di semplificazione (garantire al cittadino una decisione,
possibilmente in tempi sicuri e celeri), nonché sempre adottata nel rispetto
del canone di leale collaborazione, e dal quale non è possibile prescindere
(di qui, l’intesa anche nel secondo livello di valutazione).
Alcuni studiosi (Gardini) hanno avuto modo di sottolineare che, di
fronte a interessi così rilevanti per l’ordinamento e dinanzi alla pari dignità
dei soggetti che costituiscono la Repubblica, si ritiene opportuno affiancare
- nei procedimenti di secondo livello, si intende - alla tecnica della
prevalenza quella della mediazione, per quanto limitatamente a materie
specifiche e a interessi qualificati. Nel nuovo quadro costituzionale il
metodo concertativo viene quindi a sostituirsi a quello maggioritario.
Come sarà più avanti evidenziato, al di là delle critiche che parte della
dottrina (Bin) ha riservato, sul piano della compatibilità costituzionale, a
tale scelta del legislatore, si deve osservare che la Corte Costituzionale,
nella sentenza n. 886 del 2005 sul Codice delle comunicazioni elettroniche,
170
Ivi, 1017.
192
ha invece considerato, in un importante obiter dictum, che la salvaguardia
delle attribuzioni regionali, dopo le modifiche apportate all’art. 14-quater
della legge n. 241 del 1990 dall’art. 1l della legge 11 febbraio 2005, n. 15,
“passa - nel caso in cui il dissenso verta tra una amministrazione statale
ed una amministrazione regionale - attraverso il coinvolgimento diretto
della Conferenza Stato-Regioni”.
Cosa succede se non viene raggiunta l’intesa con la Regione,
nemmeno nella seconda fase? La risposta potrebbe essere ricavata da una
pronuncia della Corte Costituzionale (sent. n. 27 del 2004), ove si afferma,
in sintesi, che nell’ipotesi in cui l’ordinamento preveda il raggiungimento
dell’intesa per l’adozione di determinati atti (si trattava, nel caso di specie,
di nomina del direttore di un ente parco ai sensi della L. n. 894/1991), lo
Stato deve attivare tutte le risorse necessarie per addivenire a tale forma di
accordo, e soltanto dopo avere esperito ogni tentativo di intesa con la
Regione, allora, può emettere atti motu proprio, prescindendo
eccezionalmente dall’intervento regionale (sempre nel caso di specie, si
trattava di nomina governativa di un commissario straordinario, nell’attesa
della definizione dell’ordinaria procedura di nomina).
Nell’ottica appena delineata si colloca altresì la previsione di cui al
comma 3-ter introdotto dalla L. n. 15/2005, che prevede un intervento
finale del Consiglio dei ministri, pure definibile “di ultima istanza” (per la
precisione, la quarta), dato che esso sopravviene soltanto all’esito di una
serie di tentativi diretti a risolvere la questione davanti agli organi
costituzionalmente competenti (Conferenza Stato-Regioni e “competente”
giunta regionale).
Potere finale di intervento che trova altresì conferma in un’altra
fondamentale pronuncia della Corte Costituzionale, la n. 274 del 2003, in
cui si è affermato, con riferimento alla delimitazione dei poteri di
impugnativa delle leggi regionali ai sensi dell’art. 127 Cost., che lo Stato,
pur in considerazione del nuovo assetto costituzionale delineato dall’art.
114 Cost. (che ha introdotto il concetto di “equiordinazione” o di “pari
dignità istituzionale”), si trova comunque in una “peculiare posizione
istituzionale” nei confronti degli altri soggetti dell’ordinamento.
Notevoli dubbi di compatibilità costituzionale e di pratica applicabilità
suscita invece il successivo comma 3-ter, il quale prevede, in sintesi, che:
a) in caso di inosservanza dei termini previsti per la determinazione
sostitutiva di una delle due Conferenze (Stato-Regioni oppure Unificata), la
decisione viene ulteriormente assunta (in sussidiarietà) da parte dello Stato,
nelle sole materie, tuttavia, di competenza statale (o meglio, ove si
riscontra “anche” una competenza statale);
b) nelle materie che non sono di competenza statale (e dunque, in caso
di contrasto tra regioni oppure tra regioni ed enti locali), la decisione viene
rimessa alla competente giunta regionale;
193
c) in quest’ultima ipotesi, qualora anche la giunta regionale non
provveda nei termini stabiliti per legge, interviene (questa volta in quarta
battuta) il Consiglio dei ministri, con la partecipazione del Presidente della
giunta interessata.
In primo luogo, si nutre qualche dubbio sulla avocazione in
sussidiarietà in capo allo Stato (sub lettera c), in via generale ed astratta
(seppure in quarta istanza), di una funzione suppletiva ricadente in materie
di competenza regionale, atteso che, secondo i principi stabiliti dalla
Consulta, questo può sì avvenire, ma in via eccezionale, ossia in relazione a
singole ipotesi in cui si ravvisino insuperabili esigenze di carattere unitario
(grandi opere, impianti energetici, etc.). Piuttosto, sarebbe stato più
opportuno in questa ipotesi (sub lettera c), l’attivazione delle forme
sostitutive previste dall’art. 8 della L. n. 131/2003, di diretta attuazione
dell’art. 120 Cost., che da un lato presenta forti analogie con il sistema
indicato dal citato comma 3-ter (tanto che si potrebbe anche parlare, in
relazione al comma 3-ter di prossima introduzione, di attuazione “in forma
atipica” dell’art. 120 Cost.), e dall’altro lato è comunque connotato da
maggiori garanzie procedimentali, in quanto prevede, in linea generale,
l’invio di una diffida alla regione interessata, nonché, nei casi più gravi
(non disciplinati invece dal disegno di legge), la possibilità di attivare
procedure di urgenza (comma 4 del citato art. 8).
In secondo luogo, la discrasia più evidente - tale da arrecare seri
problemi di funzionalità al sistema e dubbi di legittimità costituzionale sul
piano della ragionevolezza - è quella di cui alla lettera b) dello schema, in
quanto non si comprende, in caso di conflitto tra più regioni (da risolvere
dunque in seno alla Conferenza Stato-Regioni ai sensi del comma 3-bis,
lettera b), quale debba essere la “competente giunta regionale” con funzione
dirimente, qualora la stessa Conferenza Stato-Regioni non si sia
pronunziata nei termini.
4. Considerazioni critiche sulla legge n. 15 del 2005: spunti per una
soluzione percorribile
In disparte queste ultime notazioni, la dottrina - pur con qualche
distinzione - si è in ogni caso quasi unanimemente espressa nel senso della
compatibilità (o inevitabilità) costituzionale di tale disciplina.
Secondo Cerulli Irelli171, “si tratta di una disciplina del tutto
innovativa (art. 14-quater, commi 3, 3-bis, 3-ter, 3-quater, 3-quinquies)
intesa, tra l’altro, a dare ordine alla disciplina alla conferenza di servizi,
171
V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della L. n.
241/90 - III parte, p. 6.
194
laddove questo strumento venga utilizzato per la composizione di pluralità
di interessi pubblici facenti capo a diversi livelli di governo, le cui
attribuzioni sono costituzionalmente garantite. Appare, invero, un pò
macchinosa; ma non è facilmente immaginabile una disciplina alternativa
più semplice, tenuto conto delle rigidità derivanti dalla Costituzione, nei
rapporti tra le attribuzioni spettanti ai diversi livelli di governo”.
Per alcuni, infatti, una maggiore complessità può essere la naturale
conseguenza della più complessa articolazione dell’assetto istituzionale che
è tipica dei contesti di multilevel governance, con conseguente maggiore
complicazione dei meccanismi decisionali172.
Sempre su tale tematica, qualche dubbio è stato invece avanzato come già anticipato al paragrafo 2 - da coloro (Picozza) che ritengono leso
in questo modo il principio di separazione tra politica e amministrazione,
dal momento che, mentre in sede di primo livello di valutazione sono i
dirigenti competenti ad assumere posizioni vincolanti per
l’amministrazione, nel secondo livello di valutazione tale scelta è rimessa
ad organi politici (Consiglio dei ministri oppure Conferenze ex D.L. n.
281/97). Si tratterebbe dunque di disattendere il responso dell’organo
espressosi in senso negativo nel primo livello della conferenza di servizi, in
base ai principi di cui al D.L. n. 29/1993, che giustificherebbe una
significativa deroga al riparto di competenze tra organo di governo e ceto
dirigente e che si concretizza nell’attribuzione al primo di una competenza
relativa ad una determinazione puntuale esulante dalla sfera di indirizzo e
di programmazione.
In questa medesima direzione critica, è stato altresì affermato che
“questa soluzione, certamente ispirata a garantire una tutela differenziata
a interessi costituzionalmente rilevanti come quello della tutela ambientale
o della salute pubblica, suscita qualche perplessità di natura sistematica,
in quanto di fatto tende a sostituire valutazioni eminentemente tecniche con
valutazioni politiche o comunque di “alta amministrazione” in deroga ai
principi generali di separazione di funzioni previste dal D.L: n.
165/2001”173.
Come già anticipato, detta conformità rispetto alla novella
costituzionale del 2001 è stata in ogni caso sottolineata non solo dalla
dottrina174 ma anche dalla Consulta, nella sentenza n. 336 del 2005, con
riferimento alle procedure per l’installazione di infrastrutture di
telecomunicazione, adottate ai sensi del D.L. n. 215 del 2003 (artt. 87 e
88): nell’occasione la Corte ha infatti considerato, in un importante obiter
dictum; che la salvaguardia delle attribuzioni regionali, dopo le modifiche
172
Ivi, p. 6.
G. CUGURRA, G. FANTINI, Conferenza di Servizi: profili generali e aspetti
applicativi nel settore ambientale, in “RPA Rivista” n. 5, settembre-ottobre 2004.
174
F. BASSANINI, L. CARBONE, La conferenza di servizi, cit., 29.
173
195
apportate, all’art. 14-quater della L. n. 241 del 1990, dall’art. 11 della L. n.
15 del 2005, “passa - nel caso in cui il dissenso verta tra una
amministrazione statale ed una amministrazione regionale - attraverso il
coinvolgimento diretto della Conferenza Stato-Regioni”.
La difficoltà del meccanismo descritto risiede tuttavia nel momento
della sua pratica attuazione. Infatti:
- la Conferenza Unificata decide di regola all’unanimità, mentre il criterio
maggioritario scatta in via residuale e soltanto per gli enti territoriali (art.
9, comma 4, del D.L. n. 281 del 1997);
- la stessa Conferenza decide inoltre “per corpi”, e non “per teste”, il che
rende ancora più complesso il meccanismo decisionale. Allo stesso
modo, si è sostenuto che l’introduzione delle Conferenze (Stato-Regioni
e Unificata) nel modello della conferenza (di servizi) genera incertezza
sulla tenuta dell’assetto complessivo del sistema, poiché in tal modo
vengono chiamati ad esprimersi su decisioni tecniche e strettamente
connesse al territorio (come quelle che tipicamente sono oggetto delle
conferenze di servizi) organi titolari di una rappresentanza non
territoriale ma di “corpo” (il Governo, il sistema regionale nel suo
complesso, l’insieme delle autonomie locali);
- la composizione della Conferenza Unificata riflette quella già prevista
dal D.L. n. 281 del 1997. Dunque, in numerosi casi non vi sarebbe
perfetta coincidenza tra i soggetti istituzionali, preposti alla cura di
determinati interessi (es. sovrintendenze, ARPA e USL, nonché i singoli
comuni e province), che hanno espresso il dissenso, e quelli presenti in
conferenza, i quali possono essere sì rappresentativi dei primi, ma
soltanto in senso lato ed esponenziale. Questo meccanismo di
superamento del dissenso pone le conferenze intergovernative nella
condizione di dovere rappresentare amministrazioni tecniche
volutamente collocate al di fuori del circuito politico (si pensi ad
esempio alle ASL, alle sovrintendenze).
La particolare posizione degli enti locali, i cui rappresentanti in
Conferenza Unificata sono individuati dalle associazioni delle autonomie,
secondo un sistema di rappresentanza indiretta, rende inoltre oltremodo
difficile una reale tutela degli interessi localizzati su di un determinato
territorio). Il meccanismo opererebbe perciò nella direzione di abbassare la
soglia di protezione di quegli interessi “sensibili” (“privilegiati” in quanto
costituzionalmente protetti), subordinandoli agli interessi politici
contingenti. Il Consiglio di Stato, nel parere n. 2140 del 2005, ha
sottolineato non a caso l’esigenza di invitare i soggetti procedenti e
dissenzienti (spesso non direttamente rappresentati in seno alla Conferenza
Unificata) almeno all’interno dei tavoli tecnici preparatori.
196
Come evidenziato da autorevole dottrina175, la Conferenza non
sarebbe inoltre dotata di strumenti adeguati per affrontare e risolvere
decisioni così specifiche e “localizzate”, tanto che la stessa legge Obiettivo
ha a sua volta distinto gli atti ad essa sottoposti, di carattere generale e
programmatico (elencazione delle grandi opere), da quelli, di contenuto più
specifico (ossia la localizzazione delle singole opere pubbliche), da
riservare invece alle intese bilaterali Stato-Regione. Nell’ultima direzione
appena illustrata si colloca anche chi ritiene che la conferenza di servizi è
diretta ad adottare decisioni efficaci ed efficienti. Tuttavia, «decidere vuol
dire tagliare, e per tagliare bisogna avere strumenti adeguati: la Conferenza
Stato-Regioni e la Conferenza Unificata non saranno mai strumenti
adeguati a “tagliare” i conflitti che demanda loro la legge 15. Essi sono
organi di rappresentanza - mediazione generale degli interessi territoriali, di
per sé impossibilitati ad affrontare conflitti di interesse che sorgano su
questioni localizzate».
In ulteriore analisi, è stata stigmatizzata la singolarità di un modello in
cui le Conferenze sarebbero chiamate a decidere - con la necessaria
partecipazione dei rappresentanti dello Stato - anche nel caso in cui il
dissenso non coinvolga amministrazioni statali, ma solo amministrazioni
regionali tra loro, o solo amministrazioni locali, o addirittura solo una
amministrazione regionale ed un ente locale della medesima Regione, con
l’effetto di ricondurre a livello nazionale una decisione che potrebbe,
invece, essere adottata nelle sedi di concertazione regionale presenti ormai
in tutti gli ordinamenti regionali e previsti dalla stessa Costituzione.
Si è posta, a vari livelli, l’esigenza di una soluzione normativa che
definisca le problematiche sopra evidenziate. A tal fine, occorre in ogni
caso premettere che:
- recuperare tout court il vecchio modello, ove la decisione di secondo
livello era da riservare al Consiglio dei Ministri qualora sorgesse un
contrasto tra Stato e regioni oppure tra Stato ed enti locali, potrebbe far
emergere questioni di legittimità costituzionale, anche alla luce della
richiamata sentenza n. 886 del 2005 della Corte Costituzionale. Motivo,
questo, che se da un lato induce a confermare in linea di massima il
disegno riformatore del 2005, dall’altro lato spinge in ogni caso a
prevedere forti correttivi all’attuale meccanismo, soprattutto sul piano
della consistenza qualitativa e quantitativa dell’organo chiamato a
decidere in via suppletiva (opinabile in questo senso è invece il d.d.l. AS
1532, che torna invece al vecchio modello, senza nemmeno contemplare
la partecipazione dei Presidenti di regione all’interno del Consiglio dei
ministri);
175
R. BIN, Dissensi in Conferenza di servizi e incauto deferimento della decisione
alle “Conferenze” intergovernative: le incongruenze della L. 15/2005, in
www.forumcostituzionale.it, p. 3.
197
- non vi sono preclusioni nel rimettere la decisione di secondo livello ad
un organo di matrice spiccatamente politica, dato che una previsione di
questo genere era già contemplata prima del varo della L. n. 15/2005,
ossia quando la decisione sostitutiva era riservata al Consiglio dei
Ministri;
- è bene in ogni caso che nelle decisioni di secondo livello i soggetti
procedenti e dissenzienti siano adeguatamente (e non solo latamente ed
esponenzialmente) rappresentati;
- occorre poi garantire una decisione, di natura sostitutiva, che al tempo
stesso risulti certa, raggiungibile in termini ragionevolmente brevi e
rispettosa delle diverse istanze territoriali: in altre parole, una sede dove
si possano conciliare i valori dell’efficienza e della semplificazione con
le garanzie delle autonomie territoriali. Per quanto riguarda la conferenza
di servizi, in particolare, l’auspicio è che i diversi livelli di governo
interessati da questa tecnica decisionale siano in grado di dare vita ad un
nuovo modello di azione amministrativa, fondato sul metodo
collaborativo e sul rispetto dell’interesse pubblico come sintesi dei
diversi interessi istituzionali. Nella fase di secondo livello - che scatta in
presenza di dissensi qualificati - si dovrebbe allora sostituire il metodo
della prevalenza con quello della concertazione e della mediazione,
attraverso l’utilizzo delle più efficaci tecniche conciliative cui assai di
rado si ricorre, ad oggi, nell’ambito dell’azione amministrativa.
Strategica, sul punto, appare l’applicazione del principio di sussidiarietà
verticale di cui all’art. 118 Cost., temperato - come più volte messo in
evidenza dalla Consulta
- dal metodo della leale collaborazione. Come evidenziato da autorevole
dottrina (Bin), la ricerca dell’unanimità è dunque la via maestra.
- in relazione alla dimensione dell’affare, sarebbe comunque necessario
riservare all’ambito regionale la cura degli interessi non direttamente
tutelati da amministrazioni statali.
Alla luce delle considerazioni svolte, quale opzione percorribile si
potrebbe introdurre un diverso livello decisionale tale da garantire
rappresentanza multilivello piena e, allo stesso tempo, certezza e
snellimento decisionale. In altre parole, dalla Conferenza Unificata si
passerebbe ad un organismo più ristretto, a composizione mista (Stato,
regioni ed enti locali), per le procedure in cui si ravvisi - per l’appunto - un
contrasto tra Stato ed enti territoriali.
Il modello, almeno in parte, è quello già previsto dal D.L. n. 330 del
2004, in materia di infrastrutture lineari energetiche. La disposizione (che
introduce un art. 52-quinquies al codice delle espropriazioni) prevede
infatti che, per le infrastrutture lineari energetiche, l’accertamento della
conformità urbanistica delle opere, l’apposizione del vincolo preordinato
all’esproprio e la dichiarazione di pubblica utilità, sono effettuate
198
nell’ambito di un procedimento unico, mediante convocazione di una
conferenza dei servizi ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241. L’atto
conclusivo del procedimento è poi adottato d’intesa con le regioni
interessate. In caso di mancata definizione dell’intesa con la regione o le
regioni interessate nel termine prescritto per il rilascio dell’autorizzazione,
nel rispetto dei principi di sussidiarietà e leale collaborazione, si provvede,
entro i successivi sei mesi, a mezzo di un collegio tecnico costituito
d’intesa tra il Ministro delle Attività produttive e la regione interessata, ad
una nuova valutazione dell’opera e dell’eventuale proposta alternativa
formulata dalla regione dissenziente. Ove permanga il dissenso, l’opera è
autorizzata nei successivi novanta giorni, con decreto del Presidente della
Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, integrato con il
Presidente della regione interessata, su proposta del Ministro delle Attività
Produttive, di concerto con il Ministro competente, sentita la Conferenza
permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le Province autonome di
Trento e di Bolzano.
Nell’ipotesi qui in considerazione, si dovrebbe così pensare ad un
organismo ad hoc, di dimensioni inferiori rispetto a quello della
Conferenza Unificata, ma comunque rappresentativo di tutti i livelli di
governo (Presidenza del Consiglio, Conferenza dei Presidenti di Regione,
Anci, Upi, etc.), nonché delle amministrazioni procedenti, concertanti e
dissenzienti. Si tratterebbe dunque di due tipi di componenti, fissi e
variabili. Rispetto al modello delineato dal citato decreto legislativo n. 830,
è chiaro che non si tratterebbe di un organismo eminentemente tecnico, ma
anche politico, o comunque di alta amministrazione.
All’istruttoria delle questioni di competenza del comitato
provvederebbe, anche alla stregua di quanto già ipotizzato dalla Conferenza
delle regioni nella nota del 26 gennaio 2006, un gruppo tecnico di lavoro.
Si tratterebbe in altre parole di formalizzare ed anzi elevare la
proposta contenuta nella citata nota, in cui si riteneva necessario costituire,
per ciascuna questione oggetto di esame, un Gruppo di lavoro che veda,
accanto al rappresentante della Segreteria della Conferenza, da una parte la
presenza di un rappresentante del Ministero che abbia la competenza
primaria o prevalente sull’oggetto del dissenso e di un rappresentante della
o delle regioni territorialmente competenti, nonché, per quanto di
competenza della Conferenza Unificata, di un rappresentante ciascuno
dell’ANCI, UPI ed UNCEM, e dall’altra i rappresentanti
dell’Amministrazione procedente e dell’Amministrazione dissenziente. In
questo modo vengono create apposite sedi tecniche con il compito di
istruire le questioni tecniche e fornire indicazioni a supporto della decisione
spettante alle conferenze.
Una normativa statale di principio di questo genere si giustificherebbe
senz’altro nei procedimenti riguardanti materie di competenza legislativa
199
esclusiva statale (es. rifiuti) oppure concorrente (es. porti, governo del
territorio, etc.), mentre maggiori dubbi si addenserebbero nelle materie
residuali (es. commercio, con particolare riferimento al D.L. n. 114 del
1998, il quale prevede proprio una conferenza di servizi per l’apertura di
grandi centri commerciali). In tale ultimo contesto si potrebbe in ogni caso
invocare il principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost, oppure
introdurre una clausola di cedevolezza, sulla falsariga di quella già
contenuta nell’art. 19 della L. n. 15 del 2005.
Come già anticipato, il d.d.l. AS 1532 della XV, poi confluito, tra
l’altro, nelle leggi 69/09 e 122/10, legislatura va in una direzione opposta,
recuperando ossia il vecchio modello in cui decide soltanto il Consiglio dei
ministri, anche in caso di dissenso regionale o locale, senza nemmeno
contemplare la partecipazione - pur senza diritto di voto - del Presidente
della regione di volta in volta interessata, prevista al contrario nel sistema
introdotto dalla legge n. 840 del 2000, dunque in tempi antecedenti alla
riforma in senso federale dello Stato176. Sviluppo, questo, discutibile,
avendo portato al varo di una normativa di accentramento, per così dire
indifferente alla necessaria multilevel governance, che pure dovrebbe
informare i rapporti tra i diversi enti dello Stato.
176
Si pensi al riguardo che, nel corso dei lavoro preparatori della legge n. 15 del
2005, nel corso di alcune riunioni della Conferenza Unificata di cui al D.L. n. 281/1997
era emerso l’orientamento - espresso da taluni rappresentanti delle regioni - diretto a
vedere riconosciuta al Presidente dell’amministrazione regionale una partecipazione al
Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 4, con diritto di voto. In
quell’occasione tale facoltà era stata poi accantonata dal momento che sarebbe stata
necessaria, al riguardo, una modifica costituzionale della disposizione che disciplina
l’organizzazione d ed il funzionamento dell’Esecutivo.
200
CAPITOLO 3
PROFILI INTERPRETATIVI E PRINCIPALI
PROBLEMATICHE APPLICATIVE DELL’ISTITUTO
E ASPETTI PROCESSUALI
1. Premessa. - 2. La partecipazione dei privati. - 3. La conferenza di servizi quale sede
di mediazione delle discrezionalità amministrative. - 4. Il ruolo delle soprintendenze
all’interno della conferenza di servizi. Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali. 5. La legittimazione attiva della P.A. - 6. L’instaurazione del contraddittorio. - 7. Gli atti
impugnabili. - 8. le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010.
l. Premessa
Si affronteranno in questo capitolo alcune delle principali
problematiche di carattere applicativo ed interpretativo che hanno coinvolto
dottrina e giurisprudenza nell’analisi e nello studio della conferenza di
servizi.
Esse riguardano aspetti già affrontati, seppur brevemente, nei capitoli
che precedono, ma che per la loro complessità si è ritenuto di concentrare
in una sezione appositamente dedicata ad una loro trattazione specifica.
In particolare, si affronterà il tema della partecipazione dei privati e
quello, più settoriale, del ruolo che la soprintendenza ai beni paesaggisti. ci
riveste all’interno del modulo procedimentale in considerazione.
Rilievo assoluto svolge invece l’argomento del “confronto in
conferenza”, che rappresenta un po’il leitmotiv dell’intera parte dell’opera.
2. La partecipazione dei privati
Ulteriore problema è individuare i soggetti che possono partecipare
alla conferenza177. Possono parteciparvi i privati? La terminologia utilizzata
dal legislatore sembra preclusiva di tale possibilità: «qualora sia opportuno
effettuare un esame contestuale di vari interessi pubblici».
La tesi che sembra escludere tale possibilità (SCOCA) poggia sulla
considerazione che, dovendosi escludere che la conferenza sostituisca
globalmente il procedimento, essa si collochi nel procedimento stesso dopo
l’esaurimento della fase partecipativa.
177
Problema analogo si pone per la partecipazione agli accordi di programma di cui
all’art. 27 della L. n. 142/1990:sugli accordi di programma, per tutti, E. STICCHI DAMIANI, Attività amministrativa consensuale e accordi di programma, Milano, 1992.
201
Secondo alcuni, in linea di principio, sulla base di una verifica caso
per caso, il privato che risulti portatore di un interesse pubblico potrà
partecipare alla conferenza istruttoria, dal momento che il vincolo non
concerne la necessaria rappresentazione dell’interesse da parte di un
soggetto formalmente pubblico178. V’è da aggiungere che il modulo della
conferenza di servizi istruttoria non è rigido ed è rappresentato dal
legislatore nel suo contenuto minimo. Pertanto, sarebbe auspicabile la
partecipazione in tale sede anche dei privati, vista la ratio di acquisizione
degli interessi pubblici rilevanti ai fini dell’ottimizzazione del contenuto
del provvedimento finale179.
Più problematica, senz’altro, appare la questione, se riferita poi alla
conferenza decisoria.
Una apertura di questo genere - peraltro già riconosciuta a livello
normativo in materia di Sportello Unico per le attività produttive - si
collocherebbe senza dubbio nella prospettiva della «democratizzazione»
della amministrazione pubblica180.
Lo stesso giudice amministrativo - ma si tratta ancora di alcune isolate
decisioni - ha del resto affermato che in sede di conferenza, ancorché
convocata ai sensi dell’art. 27 della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del D.L. n.
267/2000), «è ammissibile l’intervento chiarificatore o collaborativo di una
molteplicità di soggetti pubblici o privati il cui apporto non acquista
rilevanza formale ai fini del perfezionamento del consenso, pur
contribuendo alla più consapevole formazione di quest’ultimo»181.
178
Si pensi alle associazioni di protezione ambientale riconosciute dall’art. 18 della
L. n. 349/1986, queste pur non essendo enti pubblici sono portatrici sulla base di un
riconoscimento legislativo di un interesse pubblico, quindi nessuna preclusione
dovrebbe poterei essere.
179
Le suddette riflessioni vanno anche coordinate con quel processo di
avvicinamento tra soggettività pubblica e privata che trova il punto di maggiore
emersione nella categoria dei « gestori di pubblici servizi », che il D.L. n. 80/1998
indica genericamente in modo indipendente dalla loro veste giuridica pubblica privata.
180
I.M.G. IMPASTATO, La conferenza di servizi «aperta» nel D.P.R. n. 447 del 1998
ovvero della «semplificazione partecipata», in “Dir. amm.”, 2001, 487. L’autore
evidenzia inoltre come alcune pronunce della giurisprudenza amministrativa abbiano,
per un verso, negato l’accesso del privato alla conferenza di servizi (cfr. Tar Veneto, l0
luglio 1997, n. 1083), e, per altro verso, riconosciuto la possibilità di un apporto
chiarificatore o collaborativo di soggetti portatori di interessi privati nella fase di
elaborazione e definizione delle scelte spettanti alle amministrazioni ex legge
competenti.
181
Cfr. Tar Lazio, sez. I, 20 gennaio 1995, n. 62. Di contrario avviso rispetto alla
partecipazione dei privati, o meglio all’obbligatorietà di tale previsione, si segnala Tar
Puglia, n. 2100/2002, in cui si afferma che il D.P.R. n. 509/1997 (che prevede appunto
l’indizione di una conferenza di servizi ai fini del rilascio della concessione demaniale,
marittima) non prevede i privati (concessionari) tra i soggetti tassativamente indicati tra
quelli chiamati a partecipare, e che la loro partecipazione al procedimento si realizza
202
Sulla partecipazione dei privati alla conferenza di servizi si è in particolare
espresso il TAR Veneto, con decisione n. 3587 del 2006: i ricorrenti lamentavano
che la partecipazione di un soggetto imprenditoriale, proprio in quanto
direttamente coinvolto dall’esito dell’azione amministrativa da esso stesso
richiesta, potesse determinare una lesione del fondamentale principio
dell’imparzialità dell’azione amministrativa medesima. Il Tar adito ha invece
ritenuto che la partecipazione del proponente 1’iniziativa, in disparte la sua
previsione da una specifica legge regionale, riguardasse un soggetto che, già per
la sola e quanto mai significativa circostanza di essere titolare di un progetto
assistito dalla dichiarazione di pubblica utilità, si collocava per certo in una
posizione differenziata rispetto agli altri consociati.
Sussistono, al riguardo, una serie di motivazioni che militano a favore
della partecipazione dei privati alla conferenza, naturalmente senza diritto
di voto, anche nell’ambito della conferenze c.d. decisorie:
a) la fungibilità della conferenza al procedimento, del quale sostituisce la
sequenza degli atti e delle fasi ma rispetta principi sostanziali e regole
di conduzione182. Se dunque il procedimento ammette la
partecipazione e la conferenza sostituisce il procedimento, ne deriva
che, per la proprietà transitiva, anche la conferenza deve ammettere
l’intervento dei privati, salvo previsioni normative di segno contrario
che, tuttavia, non è dato riscontrare. Aderendo alla tesi che vede la
conferenza come modulo procedimentale, non può che ritenersi la
potenziale (ed implicita) estendibilità ad essa di tutti gli istituti
fondamentali del procedimento amministrativo183;
b) la partecipazione sarebbe coerente con il principio di semplificazione
e di contestualità, atteso che in questo modo l’amministrazione non si
vedrebbe costretta ad acquisire « fuori conferenza », a mente dell’art.
l0 della legge sul procedimento (con inevitabile appesantimento della
procedura), le posizioni assunte dai privati direttamente coinvolti.
L’omogeneità del «linguaggio» costituisce infatti condizione
indispensabile affinché le parti possano confrontarsi efficacemente,
seppure con ruoli differenti ed infungibili184;
c) come efficacemente rilevato, «l’effettività delle istanze dialogiche di
partecipazione trova massima attuazione, con riferimento al
solo a mezzo delle osservazioni da formulare sull’istanza di concessione e che, una
volta presentate, devono formare oggetto di valutazione da parte della conferenza di
servizi.
182
P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 330.
183
Sul punto si vedano le considerazioni svolte da M. SGROI, Lo Sportello Unico per
le attività produttive: prospettive e problemi di un nuovo modello di amministrazione,
in “Dir. amm.”, 2001, 223.
184
P. BERTINI, La conferenza di servizi, cit., 335.
203
procedimento mediante conferenza, nella audizione dell’interessato,
attraverso la quale si esalta la qualità dell’intervento del privato, che
viene messo in condizione di “interagire” con il potere pubblico in
modo pieno (non limitato all’apporto “cartaceo”). A ben vedere,
infatti, tra gli strumenti necessari a rendere effettivo il contraddittorio
amministrativo non può non annoverarsi l’intervento orale
dell’interessato, specie nell’ipotesi in cui il procedimento trovi
attuazione tramite lo strumento della conferenza, la cui operatività è
essenzialmente fondata sulla discussione orale del problema
amministrativo»185;
d) argomentando a contrario, la circostanza che in alcuni casi - si veda
ad esempio la normativa sullo Sportello Unico sulle attività produttive
(D.P.R. n. 447/1998) - il legislatore, trattandosi di materia di
pianificazione e quindi esclusa dall’applicazione degli istituti
partecipativi ai sensi dell’art. 13 della L. n. 241/1990, ha dovuto
prevedere espressamente (e quindi in deroga al predetto criterio di
esclusione) la presenza del privato nell’ambito della conferenza: di qui
la conseguenza che, non vertendo la conferenza ordinaria su atti di
pianificazione, non sarebbe stato necessario prevedere espressamente
detta partecipazione, desumendosi implicitamente essa da una lettura
coordinata e sistematica della legge fondamentale sul procedimento186.
Nel complesso, la posizione della giurisprudenza amministrativa si
mostra ancora timida su una apertura di questo genere. In proposito si
rammenta, da un lato, la pronuncia n. 8080 del 2003 della quinta sezione
del Consiglio di Stato, che indirettamente nega la partecipazione dei privati
all’interno della conferenza di servizi; dall’altro lato, la decisione n. 3684
del 2003, nella parte in cui si sostiene che l’amministrazione procedente
non ha alcun obbligo di invitare alla conferenza di servizi, che costituisce
una riunione di pubbliche amministrazioni, il privato interessato.
A ben vedere, le posizioni di giurisprudenza e di dottrina non sono poi
così inconciliabili, se solo si pensa che dall’analisi delle decisioni dei
giudici amministrativi emerge tutto sommato soltanto un mancato obbligo
generalizzato da parte della P.A. di convocare il privato di sua iniziativa; il
che non esclude, ovviamente, che qualora sia il privato a chiedere
formalmente la propria presenza in seno alla conferenza, in questo caso
scatterebbe allora un dovere da parte della P.A. a consentire siffatta
185
I.M.G. IMPASTATO, La conferenza di servizi «aperta», cit., 535 ss., in cui l’autore
contrappone la c.d conferenza di servizi “ aperta” all’apporto collaborativo dei privati
alla conferenza ad “accesso libero”, prevista in apposite leggi speciali.
186
A tale riguardo, nella decisione n. 8080 del 2003 della quinta sezione del
Consiglio di Stato si afferma che, qualora leggi di settore prescrivano la pubblicità delle
riunioni della conferenza di servizi, ciò non significa peraltro che detta partecipazione
sia da intendersi come limitata alla sola fase istruttoria del procedimento.
204
partecipazione, in applicazione dei principi che presiedono al rispetto delle
garanzie procedimentali187.
Il d.d.l. AC 1532, di iniziativa dell’on. Capezzone ed altri, ma che
sostanzialmente recepisce un emendamento governativo proveniente dalla
c.d. “Lenzuolata” del Ministro Bersani, all’art. 3, comma 5, lettera b),
nell’introdurre un comma 2-bis all’interno dell’art. 14-ter della legge n.
241 del 1990, reca una specifica previsione di apertura in tal senso,
stabilendo ossia che la conferenza di servizi “è pubblica e ad essa possono
partecipare, senza diritto di voto, i soggetti portatori di interessi pubblici o
privati, individuali o collettivi, nonché i portatori di interessi diffusi
costituiti in associazioni o in comitati che vi abbiano interesse”.
Sempre a proposito dei soggetti privati ammessi a partecipare alla
conferenza, assume peculiare rilievo l’art. 12 della L.n. 15/2005: esso
introduce un nuovo articolo, nell’ambito della disciplina della conferenza
di servizi finalizzata all’approvazione del progetto definitivo, in ordine ai
soggetti aggiudicatari di concessione individuati all’esito della procedura di
cui all’art. 37-quater della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (c.d. “project
financing”). Ad essi non è tuttavia riconosciuto diritto di voto.
Parimenti, sulla base del combinato disposto dell’art. 14, comma 5,
della legge n. 241, e dell’art. 143, comma 1, del Codice dei contratti, il
concessionario di opere pubbliche può partecipare (o addirittura convocare,
dietro autorizzazione del concedente) alla conferenza di servizi avente ad
oggetto l’approvazione dei progetti di sua competenza, senza diritto di
voto.
Anche le disposizioni sulla legge obiettivo (ora, art. 168 del codice)
prevedono la partecipazione alla conferenza istruttoria sul progetto
definitivo, con funzioni di supporto (dunque sempre senza diritto di voto),
del concessionario e del contraente generale (figura ad esso assimilabile,
per certi versi).
La tendenza che si registra, dunque, è quella di una crescente
importanza attribuita al concessionario di lavori pubblici (ma anche a
quello di servizi), che in effetti svolge un ruolo essenziale nell’economia
dell’appalto. Ciò è, peraltro, confermato dal nuovo disposto dall’art. 14, l.
241/90, come integrato e modificato dalle leggi 69/09 e 122/10.
Argomento connesso con quello appena trattato è infine costituito
dagli obblighi di comunicazione cui l’amministrazione procedente sarebbe
tenuta in relazione ai soggetti privati interessati al procedimento che si
svolge in conferenza, e che dunque potrebbero avanzare, in merito,
specifiche istanze di partecipazione: soccorre al riguardo la nota pronuncia
dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, n. 14 del 1999, che impone
187
Si veda M. SANTINI, Analisi della recente giurisprudenza del Consiglio di Stato in
tema di conferenza di servizi, in “Urb. e app.”, n. 5/2004, 521.
205
all’amministrazione titolare del procedimento di adempiere agli obblighi di
comunicazione nei confronti dei proprietari di aree coinvolte nelle
procedure espropriative.
Più problematica appare la prospettata questione nel caso in cui si
riscontrino numerosi interessati, dovendo eventualmente trovare
applicazione, in tal caso, l’istituto delle cosiddette “comunicazioni di
massa”, espressamente contemplato dall’art. 8, comma 3, della legge
generale sul procedimento amministrativo, a norma del quale “qualora per
il numero dei destinatari la comunicazione personale non sia possibile o
risulti particolarmente gravosa, l’amministrazione provvede a rendere noti
gli elementi di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di volta
in volta stabilite dall’amministrazione medesima’’.
In diverse occasioni è stato contestato l’utilizzo di tale strumento con
riferimento ai procedimenti istruiti mediante conferenza di servizi. Il
Consiglio di Stato, con decisione n. 8219 del 2002 della sesta sezione, ha
tuttavia ritenuto idonea e dunque legittima tale forma di comunicazione.
Trattasi di una importante pronuncia, anche se non decisiva al fine di
sgomberare il campo da ogni possibile dubbio applicativo. Dubbi che
nascono certamente dalla sostanziale genericità e indeterminatezza del
quadro normativo di riferimento, e che dovrebbe indurre l’amministrazione, secondo i parametri indicati dal Consiglio di Stato, ad operare
una valutazione caso per caso, e dunque in concreto, avendo come punti di
riferimento un fatto (la presenza di numerosi potenziali destinatari
dell’intervento), uno strumento idoneo (le forme di pubblicità più varie ma
rispondenti all’obiettivo) e due principi fondamentali da ponderare tra loro,
in quanto a volte configgenti: l’economicità e la trasparenza dell’azione
amministrativa.
3. La conferenza di servizi quale sede di mediazione delle discrezionalità amministrative
Prendendo spunto dal carattere obbligatorio o meno della conferenza,
si tratterà in questa sede la posizione delle amministrazioni che, senza
partecipare alla conferenza, non esprimano la propria volontà, oppure la
manifestino con semplici riscontri esterni alla conferenza (e dunque fuori
dal confronto che in essa inevitabilmente avviene tra amministrazioni).
Con riferimento all’obbligatorietà del ricorso alla conferenza, oltre
alla già citata decisione n. 5249 del 2004 (commentata nel capitolo
secondo, par. 1, cui si rinvia per una più ampia trattazione), si segnala
altresì un’altra decisione del Consiglio di Stato (sez. VI, n. 34 del 2002), il
quale, nel rammentare che scopo della conferenza è la massima
semplificazione procedimentale e l’assenza di formalismo, ha affermato
206
che le forme della conferenza stessa «vanno osservate nei limiti in cui siano
strumentali all’obiettivo perseguito», non potendo far discendere
automaticamente dalla inosservanza delle forme l’illegittimità dell’operato
della conferenza, «se lo scopo è comunque raggiunto»188.
Nella stessa direzione si colloca l’indirizzo pretorio secondo cui
l’indizione della conferenza di servizi, pur essendo normativamente
configurata quale ordinario modus procedendi per la frequente eventualità
di necessaria acquisizione di pareri preventivi, non risulta evidentemente
necessaria nel caso in cui siffatti pareri siano stati acquisiti comunque
aliunde; e ciò sia nel caso in cui si ritenga la attuale necessità di acquisire
pareri e atti di assenso (onde la previa acquisizione degli stessi ne
prospetterebbe la automatica inutilità), sia che si reputi che la riscontrata
alterazione dell’ordinaria ed ordinata scansione procedimentale si atteggi
comunque a mera irregolarità, «dovendosi a tal fine valorizzare il generale
principio di conservazione degli effetti giuridici e di raggiungimento dello
scopo» (sul punto, si veda anche Consiglio di Stato, sez. V, 3917 del 2002).
L’indirizzo in esame si caratterizza per il ragionamento in termini
sostanzialistici, basato sul principio dello “scopo comunque raggiungibile”.
Si tratta peraltro di fattispecie regolate in base alla vecchia disciplina sulla
conferenza di servizi, ed alle quali, ad oggi, andrebbe probabilmente
applicato l’istituto del silenzio-assenso, contenuto nel comma 7 dell’art.
14-ter.
Si tratta inoltre di fattispecie in cui si è raggiunto un parere
favorevole, conforme alla decisione temporaneamente assunta, in modo
altrettanto favorevole, dalla conferenza stessa. Diversa sarebbe stata invece
l’ipotesi in cui le amministrazioni “incerte” si fossero espresse in termini
negativi, con eventuali effetti sulla decisione finale: in questo caso sarebbe
probabilmente riemerso il problema della valutazione necessariamente
contestuale - e dunque del confronto diretto “in conferenza” - delle diverse
posizioni tra loro in conflitto.
A tale ultimo riguardo si richiama un’altra decisione del Consiglio di
Stato (sez. VI, n. 5917 del 2003), in cui l’appellante intravedeva uno
specifico errore di diritto in cui sarebbe incorso il primo giudice, giacché
una delle amministrazioni invitate a partecipare alla conferenza di servizi
aveva comunque riscontrato l’invito via fax, esprimendo un orientamento
negativo all’approvazione dell’istanza di autorizzazione presentata: non
188
Nel caso di specie, da un lato, il Ministero per i Beni e le Attività Culturali aveva
già espresso il suo avviso sul progetto con atto di concerto del 5 febbraio 1999, sicché la
sua partecipazione alla successiva conferenza di servizi del giugno 1999, appariva un
adempimento non indispensabile; dall’altro lato, il Ministero medesimo, anziché
duolersi delle irregolare convocazione, ha ritenuto di poter comunque collaborare ex
post ai lavori della conferenza, esprimendo un parere successivo che, ponendosi in
linea, e non in conflitto, con la determinazione della conferenza, fa corpo con la stessa.
207
avendo, quindi, la suddetta amministrazione manifestato la propria volontà
in via definitiva all’interno della conferenza di servizi, il primo giudice
avrebbe dovuto applicare nella specie l’art. 14-ter, comma 7, della L. n.
241/1990, e considerare perfezionato l’assenso della amministrazione
stessa.
Siffatta censura è stata tuttavia ritenuta infondata dal giudice di
appello, “in quanto muove da un presupposto che non risponde alla
realtà”, vale a dire che l’amministrazione, con specifica nota, “abbia
espresso un orientamento negativo all’istanza”.
A parere di chi scrive si rileva tuttavia, al riguardo, che il dissenso
scritto era comunque pervenuto a seguito della convocazione alla
conferenza di servizi: quindi, a maggior ragione tale posizione doveva
essere “riscontrata” in conferenza, e non fuori di essa, poiché la stessa era
stata indetta e dunque, da tale momento, trovavano unicamente
applicazione le speciali regole che la governano, in particolare quella di cui
al comma 1 dell’art. 14-quater, recante il principio dell’acquisizione del
“dissenso in conferenza”.
Si tratta dunque della violazione del principio della contestuale valutazione
di tutti gli interessi in gioco e del confronto reciproco, in dispregio allo
spirito che anima la conferenza stessa soprattutto a seguito della L. n.
340/2000, considerato inoltre che, accanto al principio dell’internalizzazione del dissenso, trova altresì applicazione, sempre a norma dell’art.
14-ter, comma 1, il principio del dissenso costruttivo.
Pertanto, più correttamente gli atti della conferenza dovevano
dichiararsi illegittimi, a causa dell’inammissibilità del dissenso, non avendo
peraltro la conferenza raggiunto lo scopo che gli è proprio, secondo i
parametri indicati dalla giurisprudenza.
Ma su questo tema ha avuto modo di tornare la più recente giurisprudenza
di primo grado.
Notevole interesse suscita infatti quel filone giurisprudenziale189 che si
è ampiamente soffermato sul ruolo che la regione riveste, all’interno della
conferenza di servizi di cui alla procedura dello Sportello Unico per le
attività produttive (D.P.R. n. 447 del 1998) e diretta essenzialmente alla
variazione dello strumento urbanistico, in almeno quattro situazioni:
a) assenza della regione alla conferenza e mancanza di un qualsivoglia
riscontro, anche soltanto per iscritto, rispetto ai lavori della
conferenza;
b) partecipazione della regione ai lavori e mancanza di una sua espressa
posizione;
189
TAR Puglia, sez. staccata di Lecce, n. 1003 del 2007, n. 2577 del 2006 e n. 1976
del 2007.
208
c)
parere tardivo, ossia espresso fuori conferenza e in ogni caso dopo lo
spirare dei termini massimi previsti per la chiusura del procedimento;
d) parere negativo espresso in conferenza.
Sulle questioni sopra evidenziate si confrontano due principali
orientamenti.
Per quanto attiene alla tematica di cui alla lettera a), le pronunzie
riconducibili al primo degli indirizzi sembrano richiedere che senza
partecipazione ai lavori della conferenza non possa maturare il silenzioassenso, soprattutto in una materia (id est urbanistica) ove la regione
esercita penetranti poteri.
La disposizione di cui all’art. 14-ter, comma 7, della legge n. 241 del
1990, infatti, così recita: “Si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante non abbia espresso definitivamente la
volontà dell’amministrazione rappresentata”. Di qui la conclusione
secondo la quale, per radicarsi una situazione di silenzio-assenso, sarebbe
preventivamente necessaria la presenza di un rappresentante legittimato
dell’amministrazione in seno alla conferenza di servizi.
Occorre tuttavia premettere che l’attuale formulazione del comma 7 è
la risultante dell’intervento demolitore operato dal legislatore del 2005 che,
per evitare eccessive lungaggini procedimentali, ha abrogato il seguente
periodo (che costituiva un tutt’uno con quello prima evidenziato e che era
stato introdotto dalla legge n. 340 del 2000): “e non abbia notificato
all’amministrazione procedente, entro il termine di trenta giorni dalla data
di ricezione della determinazione di conclusione del procedimento, il
proprio motivato dissenso, ovvero nello stesso termine non abbia
impugnato la determinazione conclusiva della conferenza di servizi”.
Nel sistema anteriore alla riforma del 2005, dunque, mentre per
l’amministrazione partecipante il silenzio-assenso maturava allo scadere
dei termini previsti per la conclusione del procedimento, per le
amministrazioni non partecipanti tale meccanismo scattava sì, ma soltanto
a seguito del decorso di un ulteriore spazio temporale (una sorta di termine
di comporto) pari a trenta giorni, decorrenti dalla comunicazione della
determinazione (provvisoriamente) conclusiva.
Venendo meno tale periodo, sembrerebbe che il legislatore abbia
inteso escludere dall’applicazione del meccanismo in questione le
amministrazioni che non abbiano preso parte al procedimento: come
affermato da alcune delle pronunzie in commento, infatti, “la possibilità
che il consenso intervenga in forma tacita presuppone quindi la presenza
del rappresentante ai lavori della conferenza”.
È evidente che tale impostazione, almeno per quanto riguarda il
meccanismo del silenzio-assenso, ben potrebbe essere sostenuta non solo
per le regioni all’interno di tale peculiare procedura speciale, ma anche per
209
qualsivoglia amministrazione nell’ambito del procedimento di generale
applicazione.
Condivisibile sul piano dell’interpretazione letterale, tale orientamento
potrebbe tuttavia risultare in qualche misura estraneo rispetto alla ratio che
ha costantemente accompagnato tutti gli interventi legislativi di
semplificazione ed accelerazione del procedimento amministrativo di
questi ultimi anni.
Pur nella consapevolezza della centralità del ruolo rivestito in subiecta
materia (id est urbanistica) dalla regione (cfr., sul punto, Corte Cost., sento
n. 206 del 2001), nonché - si ribadisce - del dato letterale attualmente
offerto dal citato art. 14-ter, comma 7, il quale non sembrerebbe dare adito
a posizioni che possano maturarsi al di fuori della conferenza stessa, si
deve in ogni caso prendere spunto dai principi che animano detto istituto,
ossia: semplificazione procedimentale e individua zio ne dell’interesse
prevalente.
Appare evidente come entrambi i capisaldi verrebbero in questo modo
contraddetti, da un lato in quanto il procedimento risulterebbe di
conseguenza aperto sine die, ossia fino a quando la regione (o qualsiasi
altra amministrazione, a questo punto) non decida di esprimersi, con
conseguente frustrazione delle esigenze di certezza e celerità dell’azione
amministrativa; dall’altro lato, atteso che in assenza di confronto diretto e
contestuale non sarebbe consentita la giusta ponderazione di tutti gli
interessi, pubblici e privati, coinvolti nel procedimento stesso.
Ad analoghe conclusioni si perverrebbe per le soluzioni proposte sempre da parte del primo indirizzo giurisprudenziale - in merito alle
questioni sub b) e sub c), che pure vengono risolte nel senso di ammettere
in ogni caso un intervento regionale, benché tardivo, e di conseguenza
l’impossibilità che in capo alla regione stessa possa formarsi una fattispecie
di silenzio-assenso.
Per quanto attiene al parere negativo esso, oltre a poter essere espresso
fuori conferenza e in dispregio dei termini previsti, può arrivare a sortire secondo la medesima linea giurisprudenziale - effetti in via assoluta
preclusi vi, ossia senza che vi sia la possibilità di attivare, presso gli
organismi competenti (Consiglio dei ministri oppure Conferenza
Unificata), le valutazioni di secondo livello contemplate dall’art. 14-quater,
comma 3. E ciò sempre secondo una certa lettura della richiamata sentenza
n. 206 del 2001 della Corte Costituzionale, che avrebbe sancito la centralità
del ruolo regionale e, dunque, l’insuperabilità delle relative posizioni.
Ma veniamo ora ad analizzare il secondo indirizzo giurisprudenziale,
che si contrappone al primo sulla base di un approccio tutto sommato più
vicino - ad avviso di chi scrive - alla ratio che complessivamente ispira
l’istituto in commento.
210
Ebbene, in base a questa giurisprudenza190 il dissenso regionale in
materia urbanistica, oltre ad essere manifestato entro certe forme a pena di
inammissibilità (cfr. art. 14-quater, comma l), deve poter essere sottoposto
a valutazioni di secondo livello, al pari degli altri interessi regionali
costituzionalmente tutelati e degli altri interessi sensibili garantiti, in via
generale, ai sensi dell’art. 14-quater, comma 3.
In altre parole, secondo questa diversa tesi la posizione della Regione,
per quanto centrale nella procedura sullo Sportello Unico, può comunque
essere soggetta:
1) a declaratorie di inammissibilità, qualora il dissenso sia espresso fuori
conferenza, oppure in ritardo191, oppure ancora senza indicazione delle
soluzioni alternative;
2) al formarsi del silenzio-assenso, in caso di perdurante inerzia
manifestatasi in seno ai lavori della conferenza;
3) a valutazioni di secondo livello (Consiglio dei ministri o Conferenza
Unificata), in caso di parere negativo.
La posizione appena esposta sottolinea così l’importanza del c.d.
contraddittorio procedimentale, nonché l’esigenza di pervenire, ove
possibile, a soluzioni effettivamente concordate.
In altre parole, tutti gli enti - anche quelli a tutela costituzionalmente
rafforzata, per lo meno in merito ad alcune competenze - non solo debbono
soggiacere alle comuni regole acceleratori e - e non di rado ad effetti
preclusivi - della conferenza di servizi, ma sono altresì tenute a
confrontarsi apertamente, in conferenza, con le altre amministrazioni
partecipanti, senza potersi sottrarre al modello di ponderazione delle
diverse discrezionalità, così come previsto dalla legislazione più recente.
In questa direzione si collocano, a titolo esemplificativo, due
decisioni, rispettivamente del TAR Toscana (dec, n. 978 del 2005) e del
TAR Umbria (dec. n. 679 del 2006).
Nella prima decisione si afferma che, sulla scorta delle ultime
disposizioni in tema di conferenza di servizi, «occorre convenire che è stato
sancito l’obbligo della partecipazione alla conferenza delle amministrazioni
convocate nonché l’impossibilità di esprimere al di fuori di tale sede il
proprio consenso o dissenso, di talché l’unica maggioranza utile ai fini
della validità delle decisioni che si vanno ad assumere è quella che risulta
“fisicamente” presente alla adunanza».
Il TAR Umbria, a sua volta, a proposito di una questione ricadente
proprio in materia di Sportello Unico per le attività produttive, ha rilevato
come dalla lettura dei relativi atti della conferenza di servizi emergesse la
totale mancanza di un minimo di discussione e di approfondimento circa il
190
191
Cfr. ancora TAR Puglia, sez. staccata Lecce, dec. n. 2909 del 2007.
TAR Bari, dec. n. 537 del 2006.
211
progetto in questione. Siffatta carenza di istruttoria (e di conseguente
inadeguata motivazione), particolarmente rimarchevole se riferita ad enti
(come regione e provincia) con specifica competenza istituzionale in chiave
di valutazioni urbanistiche, non poteva che determinare l’illegittimità degli
atti della conferenza per eccesso di potere. In altre parole, il giudice
amministrativo di primo grado ha evidenziato l’esigenza che in sede di
conferenza si proceda ad un serio ed approfondito esame e confronto delle
diverse posizioni e discrezionalità, senza che la volontà di sottrarsi a tale
obbligo possa di fatto impedire la positiva conclusione dei lavori.
Questa seconda impostazione sembrerebbe da preferire - a sommesso
parere di chi scrive - anche perché, pur riconoscendo la delicatezza del
ruolo regionale in tal une materie:
- ammettere, alla stregua del primo indirizzo, un simile potere di
interdizione alla regione potrebbe portare a cronicizzare la sua assenza
all’interno della conferenza di servizi, ossia a rendere la mancanza di
partecipazione di tale ente (ma il principio potrebbe estendersi anche ad
altre amministrazioni) un fatto ordinario. In altre parole, se la regione (o
altra amministrazione) fosse contraria ad un tipo di intervento sul piano
urbanistico (ma non solo), le sarebbe sufficiente non presentarsi per far
respingere il progetto, o quanto meno per lasciarlo pendente sine die;
- evitare in questo modo ogni confronto con amministrazioni portatrici di
diversi interessi e posizioni determinerebbe la completa frustrazione
della ratio dell’istituto, che è anche quella di mediare e contemperare le
diverse discrezionalità amministrative;
- considerare insuperabile in via assoluta, sempre secondo la
giurisprudenza per prima rassegnata, il parere negativo regionale,
finanche attraverso il ricorso alle procedure di secondo livello (Consiglio
dei ministri o Conferenza Unificata), significherebbe attribuire a tale
posizione un peso superiore non solo rispetto ad altri interessi regionali
(comunque) costituzionalmente tutelati, ai sensi dell’art. 117 Cost., ma
anche nei confronti di tutti quegli interessi C.d. “sensibili” (es. paesaggio
e salute), che trovano in ogni caso la loro matrice in ambito
costituzionale (rispettivamente artt. 9 e 32 Cost.) se non addirittura
comunitario (si pensi all’ambiente), che restano invece sottoposti alla
procedura sostitutiva di cui al comma 3 dell’art. 14-quater. Si
riscontrerebbe in altri termini una ipotesi di eccesso di tutela
dell’interesse urbanistico di livello regionale. A tale riguardo, si
consideri che la Corte Costituzionale, nella più volte citata sentenza n.
206 del 200 l, ha ritenuto illegittima la disposizione di cui all’art. 25 del
decreto legislativo n. 112 del 1998 non per l’inidoneità della procedura
davanti al Consiglio dei ministri, quanto piuttosto perché l’interesse
urbanistico, non rientrando tra gli interessi sensibili, sarebbe stato
inevitabilmente assorbito dal principio maggioritario, a seguito delle
212
modifiche apportate dalla legge n. 340 del 2000, senza che residuasse
spazio alcuno per valutazioni di secondo grado. Al contrario il
legislatore del 2005, nel tenere in debita considerazione le note
evoluzioni di carattere costituzionale, ha invece stabilito il ricorso alle
procedure di secondo livello non solo per gli interessi sensibili ma anche
per quelli costituzionalmente assegnati alle regioni, ivi comprese le
competenze in materia di governo del territorio: e ciò anche in
applicazione del principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. l18,
primo comma, Cost., secondo gli schemi applicativi enunciati dalla
Corte Costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003 (cfr., sul punto,
ancora una volta TAR Lecce, dec. n. 1953 del 2006, che ha ritenuto
illegittima la determinazione conclusiva della conferenza di servizi con
la quale, prendendosi atto del motivato parere contrario espresso dalla
autorità preposta alla tutela dell’ambiente e del paesaggio, ossia la
soprintendenza statale, in ordine alla realizzazione di un impianto eolico,
l’amministrazione procedente aveva concluso i lavori in senso contrario
alla realizzazione del predetto impianto, invece di rimettere la decisione
finale ai livelli superiori di amministrazione indicati dall’art 14-quater
della legge 241/90, in applicazione del predetto principio di sussidiarietà
verticale).
Certamente, sono ben note le difficoltà pratiche connesse ad una
presenza costante della regione ad ogni singola conferenza di servizi, che in
merito alla procedura in materia di Sportello Unico assume carattere
prettamente localistico (per quanto lo stesso discorso potrebbe valere anche
per le soprintendenze statali deputate alla tutela del paesaggio). In disparte
ogni considerazione circa la conferenza telematica, introdotta non a caso
dalla legge n. 15 del 2005 e che proprio in questa direzione potrebbe
risolvere evidenti problematiche legate a tale presenza “fisica” (prima fra
tutte “il costo della benzina”), si potrebbero studiare, proprio su iniziativa
di organismi statali e regionali coinvolti in tali procedure, apposite sessioni
territoriali a carattere pluricomunale, all’interno delle quali concentrare, per
l’appunto, più conferenze di servizi, pur se riferite a differenti autorità
procedenti.
Conclusivamente, appare opinabile quella giurisprudenza che ammette
la possibilità, in via generale, di ammettere posizioni espresse per iscritto
fuori conferenza, ricorrendo al noto principio dello scopo comunque
raggiungibile.
Considerando invece il canone fondamentale su cui poggia l’istituto in
esame (ossia il confronto e la mediazione delle diverse discrezionalità), più
congrua appare la tesi che ritiene inammissibile l’intervento espresso fuori
conferenza e, comunque, applicabile l’istituto del silenzio-assenso, qualora
non sia riscontrabile nemmeno una posizione aliunde manifestatasi
(principio, questo, cui dovrebbe sottostare non solo le regioni nelle materie
213
di specifica competenza, ma qualsiasi altra amministrazione a vario titolo
partecipante ai lavori della conferenza).
4. Il ruolo delle soprintendenze all’interno della conferenza di servizi.
Gli effetti del nuovo Codice dei beni culturali
Di notevole interesse è l’analisi del ruolo della soprintendenza statale
al paesaggio, con particolare riguardo al meccanismo dell’autorizzazione
emessa dall’amministrazione delegata o subdelegata e della sua
annullabilità da parte dell’amministrazione delegante (sistema, questo, che
varrà soltanto sino al l0 maggio 2008, secondo quanto stabilito dal codice
dei beni culturali dì cui al decreto legislativo n. 42 del 2004).
Sull’argomento si segnala - in primo luogo - una importante decisione
del Consiglio di Stato, Ad. Plen. n. 9 del 2001, con la quale è stata
esaminata la questione se il Ministero per i Beni e le Attività Culturali
(nell’esercizio dei poteri previsti dall’art. 82, nono comma, del D.L. n.
616/1977) possa solo valutare gli aspetti della legittimità
dell’autorizzazione ovvero se possa anche esercitare un “sindacato esteso al
merito delle scelte paesistico-ambientali”.
In tale occasione l’Adunanza Plenaria, nel ritenere che fosse ribadita
la consolidata giurisprudenza del Consiglio di Stato sulla sussistenza del
potere del Ministero di annullare l’autorizzazione regionale affetta da
qualsiasi vizio di legittimità (e non anche “per ragioni di merito”), ha
inoltre precisato che:
- attraverso il richiamo a ogni «atto di assenso comunque denominato» la
normativa generale sulla conferenza di servizi si riferisce anche ai casi di
modifica di un bene sottoposto al vincolo paesistico e al potere
autorizzativo regionale ed a quello statale di riesame dell’autorizzazione,
che possono manifestarsi mediante posizioni di consenso o di dissenso,
con le conseguenze previste dall’art. 14-quater, commi 3 e 4, della L. n.
241/1990;
- rispetto al potere esercitabile prima della conclusione del procedimento
ai sensi del nono comma dell’art. 82 del D.L. n. 616/1977 (e dell’art.
151, comma 4, del Testo Unico n. 490/1999, ora art. 146 del D.L. n.
42/2004), nell’ambito del procedimento riguardante la conferenza di
servizi il Ministero è titolare del più ampio potere di veto, che può
basarsi su valutazioni di salvaguardia diverse e opposte da quelle
formulate dalla regione o dall’ente titolare del potere di rilasciare
l’autorizzazione;
- il dissenso manifestato in sede di conferenza dal Ministero non si
sovrappone ex se e definitivamente alle valutazioni eventualmente
difformi dell’autorità competente al rilascio dell’autorizzazione
214
paesistica, poiché (similmente a quanto avviene nell’ipotesi inversa, di
consenso statale ad un progetto non condiviso da tale autorità) attiva
l’ulteriore competenza del Consiglio dei Ministri, la cui motivata
determinazione finale comporta la conclusione del procedimento, in sede
di alta amministrazione.
Con quesito inoltrato al Consiglio di Stato il 16 novembre 2001 (e
quindi prima che si pronunciasse l’Adunanza Plenaria con la citata
decisione in data 14 dicembre 200l), l’Ufficio Legislativo del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali aveva invece ritenuto che, in considerazione
della natura del predetto potere di annullamento per ragioni soltanto di
legittimità, la partecipazione delle soprintendenze alla conferenza non
trovasse spazio, se non nelle forme di una partecipazione meramente
informativo-consultiva, cioè senza diritto di voto.
Ciò avrebbe configurato una conferenza decisoria, preceduta da una
conferenza istruttoria, quest’ultima consistente nella fase in cui la
soprintendenza, pur non potendo partecipare alla decisione finale comune,
rappresenta elementi di valutazione di cui gli altri soggetti intervenuti con
diritto di voto potranno (anzi dovranno, pena la configurabilità di un
eccesso di potere) tener conto.
Secondo la prospettazione del Ministero, detto potere doveva restare
in ogni caso esercitabile al di fuori della conferenza di servizi, secondo il
modulo procedimentale di cui all’art. 151 del previgente Testo Unico del
1999, assumendo dunque le caratteristiche di un controllo successivo192.
Ed infatti, ad avviso del medesimo ufficio legislativo, il potere di
annullamento delle soprintendenze ha un inserimento procedimentale
necessariamente successivo all’adozione del nullaosta paesaggistico,
dovendo quindi sottostare ad un termine normativamente previsto e non
riducibile (anche in applicazione del principio di legalità), quale
espressione della necessità che consegua ad una valutazione approfondita
delle implicazioni dell’atto.
Nel parere reso dalla prima sezione (n. 2457/200l del 6 febbraio 2002)
il Consiglio di Stato ha tuttavia disatteso la posizione assunta in merito dal
Ministero, aderendo (o dovendo aderire) a quanto affermato sul punto dalla
citata decisione dell’Adunanza Plenaria; con la precisazione che, in ogni
caso, nella relativa procedura resta assorbito l’esercizio del potere di
riesame e di annullamento ex art. 151 T. U. n. 490/1999. Infatti, in caso di
dissenso, la determinazione finale e conclusiva, a componimento dei
contrastanti interessi in gioco, non importa se adesiva o meno al dissenso
manifestato, viene assunta dal Consiglio dei Ministri, in sede di alta
amministrazione (art. 14-quater, comma 3).
192
S. CIVITARESE MATTEUCCI, Porti turistici. La metamorfosi del potere ministeriale
di annullamento delle autorizzazioni paesistiche in seno alla conferenza di servizi; in
“Riv. giur. amb.”, 2002, 757.
215
In altre parole, la determinazione sostitutiva (o di secondo grado)
assunta dal Consiglio dei ministri, va ad assorbire, o meglio a sostituire, il
potere di annullamento ministeriale (almeno sino alla completa attuazione,
come si è detto, del nuovo codice dei beni culturali).
Nel caso invece che il Ministero o la soprintendenza esprimano il loro
assenso al progetto, opera il meccanismo già visto in base al quale il
provvedimento finale sostituisce, a tutti gli effetti, ogni autorizzazione,
concessione, nulla osta o atto di assenso comunque denominato (art. 14-ter,
comma 9). In altre parole, la procedura della conferenza di servizi - ad
avviso del Supremo Consesso Amministrativo - si pone come alternativa a
quella di cui all’art. 151 T.U, n. 490/1999 (ora, art. 146 del predetto
Codice).
Considerare la conferenza di servizi quale strumento procedurale
totalmente ed integralmente alternativo rispetto alla procedura ordinaria
(consistente in altre parole nell’anticipazione della verifica di legittimità
assegnata al Ministero) accelera senz’altro i tempi del procedimento e
conferisce miglior certezza e più salda stabilità all’atto finale193.
Tale assunto sembra infine trovare una conferma testuale e sistematica
nel Testo Unico delle disposizioni in materia di edilizia (D.P.R. n.
380/2001), ove si prevede espressamente, all’art. 5, che lo Sportello Unico
per l’edilizia possa acquisire in sede di conferenza di servizi, da convocarsi
ai sensi degli articoli 14 e seguenti della L. n. 241/1990, anche «gli atti di
assenso, comunque denominati, previsti per gli interventi edilizi su
immobili vincolati ai sensi degli articoli 21, 23, 24 e 151 del D.L. n.
490/1999».
Un ruolo esterno (tutto sommato analogo a quello prospettato dal
Ministero per i Beni e le Attività Culturali con il quesito sopra richiamato)
è invece esercitato dalla soprintendenza - ma per espressa previsione
normativa, come si vedrà - in materia di porti turistici (D.P.R. n. 509/1997).
In seguito a tali interventi del Consiglio di Stato, la giurisprudenza
amministrativa di primo grado si è ulteriormente interrogata sul rapporto
tra i poteri esercitati da amministrazioni centrali e locali, a vario titolo
deputate alla tutela del paesaggio, all’interno della conferenza di servizi (si
tratta pur sempre di descrivere il sistema antecedente alla entrata in vigore
del codice dei beni culturali).
Sul punto si affacciano due tesi, a prima vista inconciliabili ma, a ben
vedere, perfettamente compatibili.
Secondo la prima di esse (sostenuta dal TAR Veneto nella decisione
n. 3587 del 2006), il predetto schema comporterebbe che nella conferenza
193
M. SGROI, La conferenza di servizi tra semplificazione procedimentale e
amplificazione delle competenze, in “Urb. e app.”, 2002, 1075. Lo stesso autore
manifesta tuttavia la perplessità in merito all’eccessiva amplificazione delle competenze
ministeriali in detta materia.
216
decisoria deve intervenire non già l’Amministrazione delegata o
subdelegata, ma (soltanto) l’Amministrazione competente ad esprimersi in
via definitiva in ordine alla funzione autorizzatoria qui considerata, ossia
l’Amministrazione
delegante.
Dunque
la
partecipazione
dell’amministrazione subdelegata (per lo più quella comunale) alla
conferenza sarebbe da considerarsi inutiliter data, essendo quest’ultima a
sua volta sostituita dalla Soprintendenza relativamente all’autorizzazione
paesaggistica: la sua chiamata in sede di conferenza di servizi
comporterebbe la conseguente estromissione dalla conferenza medesima.
Condivisibile sul piano dell’efficacia dell’azione amministrativa, si
evita tuttavia, in questo modo, il “confronto” tra amministrazioni - statali e
locali - portatrici di interessi anche contrapposti, che dovrebbe essere
proprio la funzione tipica (accanto a quella ovviamente legata alla
semplificazione procedimentale) della conferenza di servizi, ossia la
mediazione e il contemperamento delle varie discrezionalità. Tema, questo,
già ripercorso in più parti di questo lavoro.
Ma la cultura della mediazione, come più volte messo in evidenza,
risulta ancora estraneo al modo di agire dei pubblici poteri. Senza
dimenticare, peraltro, il principio di (tendenziale) equiordinazione
istituzionale introdotto, all’art. 114 Cost., dalla riforma costituzionale del
2001, che risulterebbe seriamente compromesso nel momento in cui la
funzione comunale (nella specie subdelegata) sia considerato ad ogni buon
conto “oscurato” da quella statale, ossia dall’autorità delegante.
Sulla stessa tematica si è espresso il TAR Lombardia, sez. staccata di
Brescia, con la decisione n. 13 del 2007. Ci si chiedeva, al riguardo, se la
mancata partecipazione della Soprintendenza alla conferenza di servizi non
avesse definitivamente consumato il potere dell’amministrazione statale di
annullare il provvedimento di autorizzazione paesaggistica.
La tesi si fondava sull’indirizzo giurisprudenziale secondo cui nella
procedura della conferenza di servizi resta assorbito - come affermato dal
Consiglio di Stato nella pronunzia testè riportata - l’esercizio del potere di
riesame e di annullamento della Soprintendenza ex art. 151 del D.L. n.
490/1999 (ora art. 159 del D.L. n. 42 del 2004).
Il TAR ha invece ritenuto che, nel caso di specie, la conferenza di
servizi aveva autolimitato gli effetti del proprio operato al solo piano
istruttorio, senza coinvolgere le funzioni di amministrazione attiva (nella
specie di carattere annullatorio) spettanti alla soprintendenza. Il verbale
faceva infatti espressamente riferimento all’invio della determinazione
conclusiva della conferenza alla soprintendenza, affinché quest’ultima
potesse esercitare i poteri (con eventuale annullamento) previsti dalla
legge.
Alla luce delle pronunzie sin qui commentate, si profilerebbe dunque
un modo di partecipazione della soprintendenza, all’interno della
217
conferenza, che si potrebbe definire “a geometria variabile”: qualora la
stessa sia invitata alla conferenza, la sua presenza arriverebbe addirittura ad
assorbire quella dell’ente (sub)delegato al paesaggio (di solito il comune);
qualora invece la soprintendenza sia tenuta fuori dalla conferenza,
quest’ultima assumerebbe non più carattere decisorio bensì istruttorio (o
meglio “decisorio ma claudicante”), in quanto la sua determinazione finale
resterebbe in ogni caso condizionata alla valutazione (esterna) favorevole
della soprintendenza medesima.
Questa soluzione, a differenza di quanto sostenuto nel paragrafo 2 del
presente capitolo (ossia sul necessario confronto tra amministrazioni “in
conferenza”), potrebbe tutt’al più essere sostenuta se non altro perché è la
legge (e, in particolare, prima la legge n. 431 del 1985 e poi il decreto
legislativo n. 490 del 1999, nonché il richiamato codice, seppure con
alcune differenze sostanziali) a stabilire un doppio step procedimentale.
Nell’uno come nell’altro caso, tuttavia, si rischierebbe di svilire quello
che è tra i principali fondamenti dell’istituto della conferenza di servizi,
ossia la mediazione ed il confronto delle diverse discrezionalità
amministrative o, se si preferisce, l’individuazione dell’interesse
prevalente.
Come già anticipato, il l0 maggio 2004 è entrato in vigore il nuovo
Codice dei beni culturali, emanato con D.L. n. 42 del 2004.
Tra le novità più rilevanti la modifica, in tema di tutela del paesaggio,
della posizione dello Stato, che non eserciterà più un potere di
annullamento sulle autorizzazioni rilasciate dalle amministrazioni
competenti (regioni oppure comuni sub-delegati), ma assumerà
diversamente un ruolo meramente consultivo, attraverso pareri obbligatori
ma non vincolanti (art. 146 del Codice).
Tale sistema, si evidenzia, varrà in ogni caso soltanto per quelle
regioni in cui è stato approvato il piano paesaggistico; altrimenti si
applicherà la disciplina previdente (art. 151 del TU n. 490 del 1999),
secondo lo schema classico autorizzazione-annullamento (o, meglio, il
parere sarà in questo caso vincolante).
Di conseguenza, sembra mutare la posizione della soprintendenza
all’interno della conferenza, acquistando il suo ruolo rilievo collaborativo e
non più volitivo, e dunque senza effetti sulla deliberazione finale.
La partecipazione sarebbe comunque giustificata in base all’assunto,
più sopra dimostrato, secondo cui le amministrazioni che esercitano poteri
consultivi sono senz’altro ammesse a partecipare ai lavori della conferenza.
Ci si chiede, a questo punto, quale conseguenza possa determinare un
eventuale avviso negativo (della soprintendenza) espresso in seno alla
conferenza, e sempre ammesso che l’amministrazione procedente decida di
invitarla (si tratterebbe, è bene chiarirlo, di una ipotesi ai sensi delle nuove
disposizioni del Codice, e non ricollegabile a quella affrontata dal TAR
218
Lombardia nella richiamata decisione n. 13 del 2007, in cui si regolava un
caso disciplinato dal vecchio sistema normativo). In altre parole, se tale
posizione di dissenso potrà o meno innescare una valutazione di secondo
grado davanti al Consiglio dei ministri (o meglio, davanti ad una delle due
Conferenze, Stato-Regioni oppure Unificata, secondo il nuovo disegno di
riforma), come attualmente si verifica sulla base dello schema di cui all’art.
151 del TU n. 490 (in via di totale o meglio parziale estinzione, in quanto
dipendente dalla celerità o meno delle singole regioni).
A differenza di quanto sostenuto da alcuni194, si ritiene che a tale
quesito debba comunque darsi risposta negativa, a prescindere dalla
decisione, da parte della amministrazioni procedente, di invitare o meno la
soprintendenza. E ciò sulla base del fatto che, in virtù di una lettura
combinata degli artt. 14-quater, commi 1 e 2, e 14, comma 2, della legge n.
241 del 1990, il meccanismo sostitutivo deve essere applicato - a parere di
chi scrive - soltanto in presenza di atti volitivi (di assenso o dissenso) e non
anche - per quanto di particolare rilievo - collaborativi.
In ogni caso, internalizzando (attraverso la convocazione della
soprintendenza alla conferenza) o non internalizzando (mediante la
richiesta di parere esternamente alla conferenza stessa) il dissenso in
conferenza, l’amministrazione procedente potrà ovviare a tale impasse
soltanto facendo ricorso ad una dettagliata e puntuale motivazione delle
ragioni che sono alla base del superamento del parere della soprintendenza.
Resta ferma in ogni caso - si rammenta ancora una volta - la disciplina
transitoria prevista dall’art. 159 del Codice, a norma del quale per i primi
quattro anni dall’entrata in vigore della nuova normativa continuerà ad
applicarsi il sistema previsto dall’art. 151 del Testo Unico del 1999, ossia il
potere di annullamento statale. Di conseguenza resteranno validi, per tale
limitato arco temporale, i principi sino ad ora fissati dalla giurisprudenza
amministrativa in merito al ruolo svolto delle soprintendenze all’interno
della conferenza di servizi.
Tale disciplina troverà poi ulteriore applicazione, come già detto,
qualora le regioni non abbiano provveduto ad approvare i piani
paesaggistici, secondo lo schema delineato dal codice.
Da segnalare, infine, come le problematiche sopra evidenziate
afferiscano esclusivamente al ruolo svolto dalle soprintendenze preposte
alla tutela dei beni paesaggistici (che incidono non a caso su materie di
competenza regionale, come il “governo del territorio”). Diverso è il caso
delle soprintendenze preposte alla tutela dei beni culturali in senso stretto,
in particolare dei beni immobili e mobili che presentano notevole interesse
artistico, storico ed archeologico. In tale contesto, il codice dei beni
194
F. CARINGELLA, M. SANTINI, Il nuovo volto della conferenza di servizi, in
AA.VV.
219
culturali prevede, all’art. 25, che “nei procedimenti relativi ad opere o
lavori incidenti su beni culturali, ove si ricorra alla conferenza di servizi,
l’autorizzazione necessaria ai sensi dell’articolo 21 (demolizione,
spostamento, smembramento, etc.) è rilasciata in quella sede dal
competente organo del Ministero con dichiarazione motivata, acquisita al
verbale della conferenza e contenente le eventuali prescrizioni impartite per
la realizzazione del progetto. Qualora l’organo ministeriale esprima
motivato dissenso, l’amministrazione procedente può richiedere la
determinazione di conclusione del procedimento al Presidente del
Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei Ministri”.
Si tratta, come evidente, di una fattispecie nettamente derogatoria
rispetto a quella ora introdotta dalla L. n. 15/2005, che prevede particolari
meccanismi di componimento dei contrasti tra amministrazioni statali e
amministrazioni regionali o locali (come si vedrà nel successivo
paragrafo): in caso di dissenso espresso dalla amministrazione centrale dei
beni culturali, infatti, la valutazione di secondo grado sarà sempre svolta
dal Consiglio dei ministri, e non dalla Conferenza Stato-Regioni, oppure
Unificata, qualora l’interesse statale sia contrastante con quello di altri enti
locali o territoriali.
L’eccezionalità di tale norma è senz’altro giustificata dalla conclamata
competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di “tutela dei beni
culturali”.
5. La legittimazione attiva della P.A.
In ordine ai profili processuali, uno dei problemi più rilevanti,
affrontato dalla giurisprudenza prima della L. n. 340/2000, è quello relativo
alla legittimazione delle singole amministrazioni all’impugnazione dei
provvedimenti che maturano nell’ambito della conferenza.
Il provvedimento non può essere impugnato dalla conferenza non
avendo questa dignità di organo autonomo. Secondo l’originaria previsione
della L. n. 241 non poteva esistere la figura della P.A. dissenziente dal
momento che la conferenza doveva concludersi all’unanimità; la L. n.
537/1993, confermata in tal senso, dalla L. n. 127/1997 e dalla L. n.
340/2000 ha, invece, previsto che non tutte le PP.AA. debbano assentire o
partecipare; di qui il problema della legittimazione dell’amministrazione
dissenziente (interna od esterna), ad impugnare il provvedimento finale.
Parte della dottrina ritiene che, indipendentemente dal consenso, tutte
le P.A. partecipano alla formazione della volontà provvedimentale, quindi
nessuna può, pur dissenziente, impugnare il provvedimento finale.
Diversamente, la tesi dominante è per la non estinzione del potere di
cura degli interessi dei quali sono affidatarie le singole amministrazioni e,
220
quindi, per l’assenza di qualsivoglia preclusione, a far valere sia violazioni
formali che violazioni relative ad interessi sostanziali.
La tesi era in parte confermata dalla previsione legislativa (art. 14-ter)
della legittimazione ad impugnare (in alternativa alla manifestazione del
dissenso esterno) da parte dell’amministrazione che non abbia espresso il
suo consenso nella conferenza (perché non invitata o non adeguatamente
rappresentata), previsione estensibile secondo i più al caso di
manifestazione del dissenso all’interno della conferenza. Tale previsione è
stata ormai soppressa dalla L. n. 15/2005: ciò non implica, tuttavia, che si
possa dire venuta meno la predetta legittimazione ad impugnare.
Al contrario la P.A. emanante non può impugnare l’atto, vuoi per il
rilievo secondo il quale l’imputazione formale dell’atto le preclude tale via,
vuoi per una ragione sostanziale che poggia sul principio di non
contraddizione (salvo valutare il potere di autotutela)195.
Le soluzioni anzidette sono state elaborate dalla giurisprudenza in
epoca nella quale era pacifica la natura della conferenza come strumento di
raccordo procedimentale tra le amministrazioni che rimangono autonome e
distinte.
In questo contesto non si è visto per quale motivo le amministrazioni
che abbiano espresso il loro dissenso nell’ambito della conferenza, non
possano continuare ad esprimere il loro dissenso in sede giurisdizionale, o
per far valere l’impossibilità di decidere senza il loro consenso o per far
valere le proprie ragioni.
6. L’instaurazione del contraddittorio
Altra questione è quella - già esaminata, per la verità - relativa alla
notificazione del ricorso. Il problema è stato affrontato dalla decisione del
Cons. Stato, sez. IV, 9 luglio 1999, n. 1193, che si occupava di un decreto
di occupazione d’urgenza, adottato nell’ambito di una conferenza, che
aveva l’effetto di derogare ad un piano regolatore generale. Nel corso del
giudizio veniva eccepita l’inammissibilità del ricorso per l’omessa notifica
alla conferenza di servizi, ma i giudici di Palazzo Spada hanno respinto
l’assunto in questione sulla scorta della considerazione che la conferenza
non è organo autonomo dotato di una propria competenza, per cui non vi
sono atti della conferenza annullabili con ricorso e non vi è interesse della
stessa a resistere in giudizio. Il problema va risolto secondo le regole di
carattere generale e chiedendosi che tipo di atto viene impugnato e a quale
195
Tesi minoritaria fa notare come possano venire in rilievo interessi sopravvenuti
grazie ad indagini più approfondite, o nuovi fatti che legittimerebbero anche la P.A.
procedente ad adire il G.A.
221
amministrazione bisogna notificare il ricorso se l’atto fosse stato emanato
al di fuori della conferenza196.
Il Consiglio di Stato, correggendo la motivazione della pronuncia di
primo grado, ha escluso, ritenendola non necessaria, la necessità della
notifica a tutte le amministrazioni, e conclude per la sufficienza della
notifica in capo a quelle amministrazioni che attraverso la conferenza
abbiano adottato un atto esoprocedimentale in qualche modo lesivo della
sfera giuridica del ricorrente. Se vengono emanati una pluralità di
provvedimenti esterni, bisogna verificare quale di essi sia messo in
discussione. Nel caso in questione l’atto veniva impugnato nella parte in
cui modificava il piano regolatore; quindi il ricorso andava notificato solo a
quelle amministrazioni (comune e regione) che avrebbero con variante
dovuto procedere ad adeguare il piano stesso197.
Tale indirizzo ha poi ottenuto, come visto in precedenza, diverse e
recentissime conferme. Si richiamano al riguardo due decisioni,
rispettivamente del Tar Calabria e del Tar Toscana.
In particolare, nella decisione n. 200 del 2006 il Tar Calabria
rammenta come la conferenza dei servizi costituisca un modulo
organizzativo volto all’acquisizione dell’avviso di tutte le amministrazioni
preposte alla cura dei diversi interessi rilevanti, finalizzato
all’accelerazione dei tempi procedurali, mediante un esame contestuale di
tutti gli interessi pubblici coinvolti.
Secondo l’orientamento pacifico, la conferenza non si identifica con
un nuovo organo separato dai singoli partecipanti. Come già visto in
precedenza, la conferenza di servizi non è dunque un organo collegiale, ma
un modulo procedimentale: ne consegue che l’avviso espresso in
conferenza dei servizi dai rappresentanti delle varie amministrazioni
partecipanti è pur sempre imputabile alle stesse. “Ciò non implica, tuttavia,
che gli atti posti in essere in sede di conferenza in relazione ad essa e, in
particolare, quelli con i quali sia espresso l’avviso delle singole
196
Nel senso che la conferenza di servizi non ha legittimazione processuale passiva,
cfr. Tar Puglia, sez. II, 19 aprile 1994, n. 570, in I Tar, 1994, I, 2806; Tar Puglia, sez. II,
14 marzo 1994, n. 277, in Foro it., 1995, III, c. 163. Contra, Tar Veneto, sez. 1, 9
dicembre 1992, n. 565, in I Tar, 1993, I, 510.
197
L’assunto in parola sembra trovare conferma nella decisione del Tar Lombardia n.
888 del 2002, nella quale si afferma, nel ribadire la natura di modulo procedimentale e
non di organo della conferenza (anche a seguito delle novità apportate dalla L. n.
340/2000), che il provvedimento finale va imputato all’amministrazione che lo adotta e,
nel caso di conferenza decisoria, alle amministrazioni che attraverso la conferenza
esprimono la loro volontà provvedimentale, sicché la legittimazione passiva in sede
processuale spetta solo alle amministrazioni che abbiano adottato il provvedimento
rilevante all’esterno. Sulla richiamata decisione, si veda il commento di G. TACCOGNA,
Questioni in tema di conferenza di servizi, in “Foro amm.”, 2002, 840 ss.
222
amministrazione, siano idonei a ledere in modo diretto ed immediato la
sfera del cittadino inciso dal provvedimento emanato a seguito della
conferenza di servizi, perlomeno tutte le volte in cui, come nel caso di
specie, l’esito della conferenza dei servizi rappresenti il necessario atto di
impulso di un’autonoma fase, volta all’emanazione di un nuovo
provvedimento amministrativo dell’amministrazione che ha indetto la
conferenza dei servizi.
È solo quest’ultimo atto che è direttamente ed immediatamente lesivo
ed è contro esso, pertanto, che deve dirigersi l’impugnazione, in quanto gli
altri atti o hanno carattere meramente endoprocedimentale ovvero non
risultano impugnabili se non unitamente al provvedimento conclusivo, in
quanto non immediatamente lesivi”.
Come anticipato, sul punto si è ulteriormente e diffusamente
soffermato il TAR Toscana, nella decisione n. 804 del 2007, in cui si
aderisce senza remore al richiamato orientamento giurisprudenziale, ormai
dominante: in questa direzione, tra i criteri per la necessaria notificazione
alle Amministrazioni coinvolte nella conferenza dei servizi vi è
innanzitutto quello per cui tale conferenza deve esercitare poteri decisori e
non meramente istruttori.
Il secondo requisito è che non debba essere notificato gravame né
esclusivamente contro la sola Amministrazione procedente né, al contrario,
contro tutte le Amministrazioni coinvolte nella conferenza.
Il ricorso, a pena di inammissibilità, deve essere notificato a tutte e
sole le Amministrazioni interessate che hanno una competenza
esoprocedimentale. Più precisamente: se un’Amministrazione partecipa alla
conferenza esercitando una competenza che le avrebbe dato titolo - in caso
di esperimento del procedimento normale e non di quello mediante
conferenza dei servizi - ad adottare un atto autonomamente lesivo perché
conclusivo di un procedimento o subprocedimento, e quindi doverosamente
impugnabile nei termini di decadenza, allora il ricorso le deve essere
notificato quale parte necessaria del giudizio avverso le determinazioni
della conferenza.
La ragione - delucidata dalla citata giurisprudenza e decisamente
condivisibile - è che le Amministrazioni pubbliche non dissolvono nella
conferenza le loro competenze, come se questa costituisse un mero organo
amministrativo sostitutivo delle medesime, ma conservano le loro funzioni
autonome, variando solo il modo del loro utilizzo.
Diversamente, invece, se le Amministrazioni partecipanti alla
conferenza di servizi avessero avuto titolo ad esprimere solo un parere o
altro atto meramente endoprocedimentale, esse non possono acquisire,
grazie all’esperimento del mezzo della conferenza, la natura di parte
necessaria di un processo.
223
Un’altra questione particolare è stata affrontata dal Tar Liguria, sez. I,
23 novembre 1999, n. 485. Nella fattispecie un comune impugnava il
parere negativo espresso dalla regione in sede di conferenza. Si è posto al
riguardo il problema se sia possibile impugnare il parere. Normalmente il
parere è ritenuto lesivo quando determina un arresto del procedimento
ovvero quando preclude la possibilità dell’amministrazione chiamata a
provvedere di rilasciare il provvedimento favorevole al privato. Nel caso di
specie ci si chiedeva se si trattasse di un parere preclusivo ovvero di un atto
endoprocedimentale non autonomamente lesivo.
Questo interrogativo ne porta con sé un altro: la procedura aggravata
utilizzabile per superare il dissenso espresso in conferenza da
un’amministrazione è alternativa al ricorso giurisdizionale o è obbligatoria?
Il Tar Liguria conclude nel senso che questi atti endoprocedimentali sono
impugnabili solo laddove dalla loro adozione discenda con carattere di
certezza l’impossibilità di ottenere il bene della vita o un ritardo nel loro
ottenimento. Nell’ipotesi in considerazione, il parere della regione poteva
dirsi aggravatore del procedimento e, quindi, non autonomamente
impugnabile. Il comune avrebbe potuto così contestare il dissenso in sede
giurisdizionale solo qualora il Consiglio dei Ministri (ora la Conferenza
Unificata, secondo le nuove linee introdotte dalla L. n. 15/2005) avesse
confermato il dissenso, ossia la posizione contraria della Regione,
frustrando la possibilità di avere il bene della vita.
In queste ipotesi, però, l’impugnazione andrà proposta, piuttosto che
contro il dissenso, avverso il provvedimento della Conferenza Unificata
che abbia rifiutato l’adozione del provvedimento.
7. Gli atti impugnabili
Nel quadro dei principali aspetti di natura processuale occorre segnalare
la problematica degli atti, adottati dalla conferenza di servizi, suscettibili di
impugnazione. Una precisazione: sin qui si è parlato degli atti (pareri) emessi
dalle singole amministrazioni partecipanti alla conferenza, e dunque prima
della decisione finale; ora, in questo paragrafo, si tratterà invece degli atti
finali adottati dalla conferenza a conclusione del proprio iter.
Il discrimen è ovviamente segnato dalla immediata lesività che tali atti
- della conferenza, si ripete, e non delle singole amministrazioni
partecipanti - possano o no determinare nei confronti delle posizioni a vario
titolo coinvolte nel procedimento; indagine che - come più avanti si
cercherà di dimostrare - dipende il più delle volte dal contenuto e dalla
volontà che l’amministrazione procedente cercherà di imprimere, in
concreto, all’interno del singolo atto.
224
Si riportano, di seguito, alcuni dei casi affrontati, sul tema, dalla
giurisprudenza.
Il primo di essi riguarda l’art. 14-ter, comma 10, della legge 241/1990
(nel testo introdotto dall’art. 11 della legge 24 novembre 2000 n. 340), il
quale prevede, come noto, che “il provvedimento finale concernente opere
sottoposte a VIA è pubblicato, a cura del proponente, unitamente
all’estratto della predetta VIA, nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino
Regionale in caso di VIA regionale ed in un quotidiano a diffusione
nazionale. Dalla data della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
decorrono i termini per eventuali impugnazioni in sede giurisdizionale da
parte dei soggetti interessati”.
Il presupposto perché si verifichi la presunzione di conoscenza è
quindi la contestuale pubblicazione del provvedimento finale e di un
estratto della pronuncia di compatibilità ambientale, intesi quali elementi
costitutivi di una fattispecie complessa, che può dirsi realizzata solo in
presenza di un compiuto assolvimento degli obblighi di legge.
Nella circostanza - rilevava il giudice di primo grado - il decreto
dirigenziale di autorizzazione alla costruzione ed esercizio dell’impianto
era stato pubblicato senza l’estratto della VIA, con ciò impedendo la
produzione degli effetti che l’ordinamento riconduce a ben specifiche
formalità: in altre parole, poiché era stato pubblicato il solo decreto
dirigenziale di approvazione senza l’estratto della VIA, non sarebbero
scattati i termini per l’utile impugnazione del provvedimento. In sostanza, a
giudizio del Tar, i ricorrenti non potevano evincere tutti gli elementi
essenziali a tal fine prescritti dalla legge, e che “tanto avesse impedito
l’automatico decorso del termine decadenziale di impugnativa”.
Il Consiglio di Stato, con decisione n. 316 del 2004 della sesta
sezione, ha invece optato per una diversa soluzione, affermando
principalmente che:
a) innanzi tutto, le regole che presiedono alla pubblicazione degli atti
amministrativi debbono essere lette con minore rigore e tassatività
rispetto a quelle che disciplinano invece la pubblicazione degli atti
normativi, nel senso ossia di non tenere conto delle “mere
irregolarità”;
b) in altre parole, può ammettersi che limitate irregolarità delle
operazioni siano valutate come “non incidenti sul perfezionamento
della fattispecie, ove, nel complesso, si siano realizzati gli elementi di
fatto voluti dalla legge a fini di garanzia della conoscibilità dell’atto”;
c) pur essendo mancata, nella specie, la contestuale pubblicazione di
provvedimento conclusivo ed estratto Via, è altrettanto indubbio che il
tenore del provvedimento dirigenziale ricalcasse gli elementi
essenziali della valutazione di compatibilità ambientale: pertanto, “in
225
tal caso la pubblicazione dell’estratto dell’atto presupposto nulla
avrebbe potuto aggiungere alla pubblicazione dell’atto finale”;
d) si può ritenere, quindi, che i ricorrenti potevano desumere dalla
pubblicazione dell’autorizzazione tutti gli elementi essenziali prescritti
dalla legge, “essendo onerati, i soggetti interessati, a partire da quel
momento, dal decorso del termine di impugnativa”.
Il secondo caso riguarda la decisione n. 1060 del 2004 della sesta
sezione del Consiglio di Stato.
Per la realizzazione di un viadotto, veniva convocata una conferenza
cui partecipavano una serie di comuni, per ivi esprimersi sugli aspetti
paesaggistici.
In seguito, le predette amministrazioni comunali adottavano, separatamente, i relativi atti di assenso.
Una associazione ambientalista impugnava ciascuna delle autorizzazioni paesistiche rilasciate.
Le amministrazioni comunali eccepivano la mancata impugnazione
del verbale della conferenza di servizi, in cui si era discusso proprio delle
modalità del rilascio delle predette autorizzazioni.
Il Consiglio di Stato ha respinto tale eccezione: la richiamata
conferenza di servizi assumeva infatti valore meramente istruttorio e non
decisorio, atteso che nel suo svolgimento “non vi è stata alcuna specifica
valutazione sugli interessi in conflitto”.
Il terzo caso concerne la decisione n. 10641 del 2005 del Tar
Campania, ove si rileva l’inammissibilità dell’impugnativa della determinazione con cui si approva il progetto preliminare di lavori pubblici, stante
la natura non provvedimentale di tale atto: ciò in quanto gli atti collegati
all’esame del progetto preliminare sono privi di autonoma efficacia
decisoria e quindi non impugnabili. Secondo il giudice campano, infatti,
come chiarito dalla giurisprudenza formatasi sul punto, “il progetto
preliminare è strumento di studio e di predisposizione di interventi, ma non
individua, come invece fa il progetto esecutivo, le singole aree e l’oggetto
definitivo delle statuizioni amministrative. Pertanto il progetto preliminare
non è direttamente impugnabile, per carenza di quegli effetti lesivi che
derivano esclusivamente dal successivo progetto esecutivo”.
Qualche perplessità suscita tale decisione nel momento in cui sia stata
avanzata l’opzione zero in sede di conferenza, che rappresenta un vero e
proprio arresto procedimentale rispetto alla prosecuzione dei lavori e,
dunque, alla giustiziabilità della varie posizioni che risulterebbero
eventualmente lese da tale, drastica, posizione delle amministrazioni
partecipanti. In particolare, i singoli interessati, pubblici o privati,
potrebbero lamentare il fatto che le amministrazioni competenti non
abbiano correttamente esercitato il relativo potere, ossia indicando le
226
eventuali alternative progettuali in presenza delle quali manifestare il
proprio assenso all’opera.
Il quarto caso, sempre in tema di atti impugnabili, è del TAR Lecce,
che nella decisione n. 609 del 2007 ha avuto il merito di evidenziare il
giusto rapporto che intercorre tra conferenza di servizi ed accordo di
programma di cui all’art. 34 del TUEL. Al riguardo, il giudice di prime
cure ha ritenuto che il termine a quo per l’impugnativa deve essere fatto
decorrere dal giorno della pubblicazione degli atti assunti in sede di
Accordo i quali abbiano valenza di variazione degli strumenti urbanistici.
Tuttavia, una siffatta valenza non può essere riconosciuta agli atti
conclusivi della Conferenza di servizi di cui al comma 3 dell’art. 34 citato.
Ciò in quanto l’evidente carattere meramente istruttorio della
conferenza di servizi in parola comporta che la valenza lesiva non possa
essere connessa alla mera conclusione dei suoi lavori, bensì vada ricondotta
alla conclusione dell’Accordo cui essa è prodromica (rectius: al
perfezionamento della complessiva fattispecie che consegue alla ratifica, da
parte del Consiglio comunale, dell’adesione prestata dal Sindaco).
Tanto emerge dal tenore stesso del comma 3 dell’art. 34 in commento,
secondo cui scopo della Conferenza di servizi non è quello di adottare
determinazioni immediatamente prescrittive in merito alle varianti allo
strumento urbanistico, bensì - e più limitatamente - quello di verificare la
sola possibilità di concordare l’accordo di programma.
Di sicuro rilievo è infine quel filone giurisprudenziale, cui si è già
fatto cenno, che pone una distinzione tra verbale e provvedimento finale
(si veda sul punto il capitolo III, paragrafo 4): il primo volto a racchiudere
(quasi) acriticamente tutti gli orientamenti emersi all’esito dei lavori della
conferenza, il secondo teso invece a farne la sintesi e, conclusivamente, a
trarne la volontà definitiva in termini di posizioni (risultate) prevalenti. Di
qui la conseguenza secondo cui il verbale non sarebbe mai autonomamente impugnabile, se non unitamente al provvedimento finale che ne
costituisce organica sintesi. Si contrappone a questa tesi quell’affermazione giurisprudenziale secondo cui la questione viene affrontata in termini più sostanziali (e comunque facoltativi), ossia nel senso di interpretare, di volta in volta ed in concreto, contenuto e volontà del verbale
medesimo. Qualora esso contenga ordini autoesecutivi e immediatamente
applicabili, il soggetto che si sente leso avrà due strade: impugnare subito
il verbale oppure attendere l’emanazione del provvedimento, senza incorrere in rischi di inammissibilità del ricorso. Qualora invece tali ordini non
abbiano tale natura, dovrà in ogni caso attendere il provvedimento finale.
Come già detto, queste incertezze derivano - con ogni probabilità - dal
mutato contesto normativo: mentre prima, infatti, aveva senso distinguere
determinazione conclusiva e provvedimento finale (potendo essere acquisite, medio tempore, nuove e diverse posizioni), ora tale distinzione ha
227
perso il significato che gli è proprio, essendo stato eliminato l’istituto del
parere postumo.
8. Le novità introdotte dalle leggi 69/2009 e 122/2010
Esemplificative della metafora che vede la conferenza di servizi come
“cantiere aperto” sono gli interventi modificativi avutisi con l’adozione
delle leggi 69/2009, nonché, soprattutto, 122/2010.
Il legislatore del 2009, sulla scorta della previsione di cui all’art. 143
del Codice dei contratti pubblici, ai commi 2-bis e 2-ter dell’art. 14-ter,
l.241/90, ha finalmente aperto alla possibilità di partecipazione dei privati.
In particolare, oltre a prevedere modalità procedurali telematiche, anche
mediante webcam, della partecipazione alla prima riunione, ha introdotto la
presenza in conferenza, senza diritto di voto, dei soggetti proponenti il progetto dedotto nonché dei concessionari e dei gestori di pubblici servizi, nel
caso in cui il procedimento amministrativo o il progetto dedotto richiedano
loro adempimenti ovvero incidano direttamente sulla loro attività.
La semplice partecipazione si limita, tuttavia, a fornire un contributo
collaborativo e chiarificatore, risolvendosi in una mera audizione in cui i
soggetti coinvolti, al più, potranno esprimere gli interessi di cui sono
portatori. Si segnala, altresì, a livello giurisprudenziale, una recente
opzione ermeneutica volta ad ammettere la partecipazione dei privati
toccati dagli effetti dell’azione amministrativa, delegando alle amministrazioni procedenti l’onere di individuare i relativi tempi e modi.198
L’art. 49 del d. l. 78/2010, convertito in legge 122/2010, poi, oltre ad
incidere profondamente sulla generale legge sul procedimento amministrativo (si pensi alla SCIA, ad esempio) accoglie in gran parte, e, sia
consentito, inopinatamente, le richieste dell’ANCE, finalizzate, soprattutto,
ad accelerare le procedure per le aree e gli immobili soggetti a tutela.
Nel dettaglio, è stata modificata l’attivazione della conferenza di
servizi, i lavori, la disciplina del dissenso, nonché il suo ambito di applicazione (art. 14-ter, quater e 29).
Con riguardo alla conferenza istruttoria, le modifiche intervengono
sull’art. 14, c.1, il quale, nella versione novellata, prevede che
l’amministrazione procedente possa indire, e non più indice “di regola”, la
conferenza medesima. La locuzione “può indire” ha, sostanzialmente,
decretato la fine del dibattito circa il carattere obbligatorio o meno da
annettere alla indizione della conferenza di servizi istruttoria. In particolare,
la dottrina prevalente predicava, come già illustrato, il carattere facoltativo
dell’indizione della conferenza, rimettendone alla discrezionalità della
pubblica amministrazione la relativa decisione, di contro ad altre tipologie
198
Cons. Stato, sez. VI, 6183/2007.
228
di conferenza di servizi, in cui la legge riconoscerebbe all’indizione la
qualifica di atto dovuto.Una simile impostazione sembrerebbe coerente con
la previsione della novella.
L’obbligatorietà è, invece, mantenuta, per la conferenza di servizi
decisoria.
In particolare, il novellato comma 2 dispone che la conferenza di
servizi decisoria possa essere indetta quando nel termine di trenta giorni sia
intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate ovvero, e
in ciò si coglie la novità, nei casi in cui sia consentito all’amministrazione
procedente di provvedere direttamente in assenza delle determine delle
PPAA competenti.
La novella in esame interviene, poi, in maniera incisiva sull’art. 14-ter.
Nello specifico, viene previsto, riguardo alla convocazione della
conferenza, un rinvio, al massimo di quindici giorni, della data della nuova
riunione, nel caso in cui la richiesta provenga da un’autorità preposta alla
tutela del patrimonio culturale. Viene, poi, introdotto un nuovo comma 3bis, a norma del quale il Soprintendente, in caso di opera o attività
sottoposta anche ad autorizzazione paesaggistica si esprime, in via definitiva, in sede di conferenza, ove convocata, in ordine a tutti i provvedimenti di sua competenza, ai sensi del d.lgs.42/2004.
Per quanto riguarda il procedimento in materia di VIA, VAS, e AIA
molteplici sono state le novità, anche se, in realtà, in questi casi, già era
prevista una disciplina speciale. La novella del 2010 ha introdotto un nuovo
comma 4-bis il quale prevede che, al fine di accelerare il rilascio degli
assensi da parte delle amministrazioni coinvolte, evitando la duplicazione
di valutazioni già effettuate in sede di VAS, i risultati e le prescrizioni ivi
conseguiti debbano essere utilizzati, senza modificazioni, ai fini della VIA,
qualora realizzata dalla medesima autorità competente ad effettuare la
VAS. Peraltro, vengono integralmente sostituiti i commi 6-bis e 7.
In particolare, il primo dispone che l’amministrazione procedente, in
caso di VIA statale, può adire recta via il Consiglio dei Ministri, ai sensi del
d.lgs. 152/2006. Per converso, in tutti gli altri casi, valutate le risultanze della
conferenza e tenendo conto delle posizioni prevalenti che sono state
espresse, adotta la determinazione motivata di conclusione del procedimento,
sostitutiva di tutte le autorizzazioni necessarie per il progetto. Inoltre, la
versione novellata del comma 7 della norma in esame, con riferimento al
silenzio assenso, prevede che è considerato acquisito l’assenso delle
amministrazioni, ivi preposte quelle preposte alla tutela della salute e della
pubblica incolumità e alla tutela ambientale, il cui rappresentante, all’esito
dei lavori della conferenza non abbia definitivamente espresso la volontà
dell’amministrazione rappresentata. Tuttavia, ai sensi della norma de qua,
tale meccanismo del silenzio-assenso non opererebbe per i provvedimenti in
materia di VIA, VAS, AIA, paesaggistico-territoriale.
229
Quanto alla disciplina sul rilievo dei dissensi, si considera acquisito
l’assenso dell’amministrazione il cui rappresentante, all’esito dei lavori
della conferenza, non abbia definitivamente espresso la volontà dell’amministrazione rappresentata, qualora, come ovvio, manchi l’unanimità.
Inoltre, a tenore del novellato art. 14-ter, conclusi i lavori della conferenza
ovvero scaduto il termine entro il quale avrebbero dovuto concludersi, la Pa
procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del
procedimento, alla quale si uniformerà l’atto finale, previa valutazione
delle risultanze della conferenza e considerate le posizioni prevalenti ivi
espresse. Ciò posto, è evidente che dei dissensi si dovrà tenere conto come
risultanze della conferenza, ma gli stessi non potranno negare l’eventuale
assunzione di una decisione conforme alle posizioni prevalenti. Sembra, in
tal modo, che ai pareri, ai nulla osta, nonché agli assensi delle
amministrazioni, diverse da quella competente a prendere la decisione
finale sia attribuita, in sostanza, la diversa natura di atti consultivi.199
Infine, l’intervento di modifica operato dal legislatore del 2010 ha
inciso anche sulla disposizione contenuta nell’art. 14-quater, l. 241,
relativamente agli effetti del dissenso espresso in sede di conferenza di
servizi. Più in particolare, viene introdotto un unico comma 3, in
sostituzione dei commi 3, 3-bis, 3-ter e 3-quater, a tenore del quale è
rimessa all’esame del Consiglio dei Ministri la maggior dei casi di
motivato dissenso, escluse le ipotesi di cui all’art 117 c. 4 Cost. (la norma
si riferisce, in particolare, alle intese tra le regioni), di specifici
procedimenti disciplinati nel Codice dei contratti pubblici (D.Lgs.163/2006
e s.m.i.), nonché di localizzazione di opere di interesse statale.
Da ultimo, va evidenziato come, in virtù della modifica della norma di
cui all’art. 29, l 241, relativa all’ambito di applicazione della stessa legge,
le norme che disciplinano la conferenza di servizi vengono inserite tra i
livelli essenziali delle prestazioni che debbono essere garantiti in tutto il
territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, comma 2, l.m) della Costituzione
(una materia di legislazione esclusiva dello Stato)200.
199
Adesiva la tesi di Sorace, “Diritto delle amministrazioni pubbliche: una
introduzione”, Bologna, 2010, 394-395.
200
Un cenno, pur minimo, meritano il Dl 70/2011, che è intervenuto sul termine di
conclusione dei lavori in sede di Consiglio dei Ministri (entro 30 giorni), nella stessa
logica acceleratorio-centralistica animatrice delle altre novità legislative sull’ istituto
della conferenza e la attualissima discussione parlamentare, finora non approdata ad
esiti definitivi in termini di effettiva e vigente normazione, circa la possibilità, per
quanto qui interessa, di estendere ad eventuali rappresentanti di enti ausiliari delle
amministrazioni coinvolte, di partecipare ai lavori conferenziali (il riferimento è al c.d
Codice della P.a., attualmente vaglio delle Camere).
230
CAPITOLO 4
LE C.D. CONFERENZE DI SERVIZI SPECIALI,
O DEROGATORIE
l. Premessa. - 2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994). - 3.
Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici (c.d. Legge Obiettivo). 4. La realizzazione dei/porti turistici (D.P.R. n. 50911997). - 5. Interventi in materia di
energia. - 6. Lo Sportello Unico per le attività produttive. - 7. Altre procedure. - 8. Post
scriptum.
l. Premessa
Le disposizioni di cui alla citata L. n. 241/1990, relative alla disciplina
generale della conferenza di servizi, vengono spesso richiamate da
specifiche norme di settore per l’applicazione di detto istituto in occasione
di determinati procedimenti autorizzatori quali, ad esempio, la
localizzazione di opere pubbliche o di interesse statale (D.P.R. n.
383/1994), la concessione di beni del demanio marittimo (D.P.R. n.
509/1997), l’autorizzazione per l’insediamento di attività produttive
(D.P.R. n. 447/1998), la realizzazione delle grandi infrastrutture di carattere
strategico (D.L. n. 190/2002), in particolare nel settore dell’energia
(decreto L. n. 7/2002, c.d. “sbloccacentrali”, e D.L. n. 330 del 2004,
recante integrazioni al D.P.R.8 giugno 2001, n. 327, in materia di
espropriazione per la realizzazione di infrastrutture lineari energetiche) e
delle telecomunicazioni (D.L. n. 198/2002).
Lo specifico richiamo si giustifica soprattutto per la possibilità di
introdurre deroghe rispetto all’applicazione ordinaria dell’istituto della
conferenza, sia nel senso di una amplificazione dei relativi poteri (es.
procedimenti ove è possibile introdurre modifiche sostanziali agli strumenti
urbanistici), sia nell’opposto senso di una loro compressione (es. procedure
ove la conferenza ha solo natura istruttoria, oppure dove non trova
pienamente applicazione il criterio della maggioranza).
Per vero si assiste, da ultimo, ad un massiccio utilizzo di tali
conferenze di settore, ognuna dotata di una peculiare disciplina, in parte o
del tutto diversa da quella prevista dalla legge generale sul procedimento.
Tanto che si potrebbe arrivare a parlare di una vera e propria “fuga dal
procedimento”, con ogni conseguenza in ordine alle politiche di semplificazione normativa ed amministrativa, che di questo passo potrebbero
risultare seriamente compromesse.
231
Nel corso del presente capitolo si tenterà dunque di delineare, seppure
approssimativamente, alcune delle principali procedure di intervento
recanti una disciplina derogatoria della normativa generale sulla conferenza
di servizi.
2. La localizzazione delle opere statali (D.P.R. n. 383/1994)
Come già anticipato all’inizio di questo lavoro, nell’ambito dei
contratti pubblici (e specificamente nel campo dei lavori pubblici), di
particolare importanza è il ruolo assunto dalla conferenza di servizi.
L’art. 97 del Codice dei contratti stabilisce infatti che l’approvazione
dei progetti avviene in conformità alla legge n. 241 del 1990 e, in
particolare, degli articoli 14-bis e seguenti della legge generale sul
procedimento.
Anche l’art. l0 del codice, riprendendo quanto contenuto nella Legge
Merloni (legge n. 109 del 1994), attribuisce al responsabile del procedimento il compito di indire la conferenza di servizi, per l’acquisizione dei
necessari atti di assenso delle altre amministrazioni a vario titolo coinvolte
nella procedura di approvazione del progetto.
L’istituto in esame trova dunque applicazione nella fase di
progettazione, sia essa preliminare (si veda l’art. 14-bis della legge n. 241)
sia essa definitiva (cfr, il successivo art. 14-ter della stessa legge 241),
dell’opera pubblica, ossia laddove è necessario acquisire atti di assenso
delle pubbliche amministrazioni portatrici dei vari interessi di settore (es.
beni culturali o dissesto idrogeologico) ai fini della approvazione dei
richiamati documenti progettuali (disciplinati dall’art. 93 del codice dei
contratti).
Per la verità, già una precedente versione della Legge Merloni (ossia
quella modificata dalla legge n. 415 del 1998) prevedeva un procedimento
speciale di conferenza di servizi per l’approvazione dei progetti,
preliminari e definitivi, relativi alla realizzazione di opere pubbliche.
Tale procedura speciale venne poi abrogata dalla legge n. 340 del
2000, dal momento che la stessa aveva introdotto - per ogni tipologia di
procedimento amministrativo, ossia non solo in tema di lavori pubblici l’istituto della conferenza preliminare: dunque, non vi era più motivo di
mantenere in piedi due sistemi normativi (legge 241 e legge Merloni) di
analogo contenuto, dato che in entrambi era rinvenibile una disciplina della
conferenza di servizi concernente sia la fase preliminare (art. 14-bis della
legge 241 e art. 7 della legge Merloni) sia la fase definitiva (art. 14-ter
della legge 241 e, ancora, art. 7 della legge Merloni).
Restava per la verità qualche incongruenza normativa, dal momento
che non veniva allo stesso tempo abrogato il rinvio allo stesso art. 7 della
232
Legge Merloni, contenuto nell’art. 14, comma 3, della legge n. 241 del
1990. Tale difetto di coordinamento legislativo è stato poi definitivamente
risolto dalla legge n. 15 del 2005 (art. 8, comma l, lettera b), che ha
eliminato il terzo periodo del comma 3 dell’art. 14, nella formulazione
previgente alla stessa novella del 2005).
La valutazione progettuale, da operare in sede di conferenza di servizi,
è altresì prevista per gli appalti di servizi e forniture, e ciò in base al
combinato disposto degli articoli 94 e 97 del Codice.
Al di là della approvazione dei progetti, l’istituto della conferenza di
servizi trova peculiare applicazione - per quanto concerne i lavori - ai fini
della localizzazione delle opere pubbliche, qualora gli strumenti urbanistici
vigenti non contemplino la possibilità di realizzare dette opere: in questo
caso si tiene una conferenza di servizi “speciale”, ai sensi del D.P.R. n. 383
del 1994, per apportare le necessarie modifiche alla normativa di piano e,
dunque, in funzione della allocazione oppure della tracciatura dell’opera.
Si tratta allora di una conferenza che si svolge non sull’approvazione
del progetto, ma che si attesta in una fase precedente, relativa ossia alla
contestualizzazione urbanistica dell’opera.
Al riguardo si confrontano due tesi.
Secondo la prima, di matrice ministeriale, le due fasi della
localizzazione e della progettazione debbono essere intese in senso
dicotomico. Ed infatti, mentre la conferenza di servizi sulla localizzazione,
indetta soltanto dal Ministero delle Infrastrutture (che non è di solito anche
l’ente aggiudicatore), è strettamente intesa ai soli fini urbanistici, e dunque
alla definizione del tracciato, la seconda conferenza di servizi, tenuta non a
caso da un ente che il più delle volte è diverso dal Ministero delle
Infrastrutture, trattandosi dell’ente che poi aggiudica l’appalto, è relativa
soltanto agli aspetti progettuali dell’opera.
La seconda tesi è invece diretta ad assimilare le due fasi
(localizzazione e progettazione): e ciò in base ad alcuni indici normativi
(per la verità abbastanza inconfutabili) contenuti nel D.P.R. n. 383 del
1994, in base ai quali la conferenza di servizi valuta e si esprime sui
progetti definitivi (art. 3, commi 2, 3 e 4). Tale orientamento è stato fatto
proprio dal Consiglio di Stato (sez. IV), nella sentenza n. 2773 del 2006.
La connotazione in senso dicotomico (prima tesi) ovvero unitario
(seconda tesi) non è di poco conto, se solo si tiene conto che i
concessionari di opere pubbliche (es. ANAS, RTI, etc.) potrebbero
partecipare (e addirittura sollecitare la convocazione della conferenza di
servizi), secondo la prima tesi, soltanto alla seconda conferenza, ossia
quella sulla approvazione del progetto. Diversamente, per i fautori della
seconda tesi i concessionari in parola sarebbero legittimati a partecipare
alla conferenza (e a sollecitarne la convocazione) già a partire dalla fase di
233
localizzazione (per quanto si parla in questo caso di sole amministrazioni
pubbliche), che comprende anche quella di approvazione progettuale.
La tematica si riflette anche sulla comunicazione di avvio del
procedimento, che nella prassi (ministeriale) viene spostata nella seconda
conferenza (prima tesi), in cui si svolgono le valutazioni sul progetto
definitivo (in questo senso depone anche quanto previsto dall’art. 166,
comma 2, del Codice, in tema di grandi opere).
Sul tema si tornerà più ampiamente in occasione dei progetti
ferroviari.
Onde risolvere i richiamati problemi di partecipazione dei concessionari e di comunicazione ai privati, il d.d.l. Capezzone della XV
Legislatura (AS 1532) contiene un importante riferimento alla possibilità,
per i concessionari di servizi di pubblica utilità (anche se solo gestori), di
poter partecipare, senza diritto di voto, a tutte le conferenze di servizi da
cui traggono adempimenti di loro stretta competenza. Dunque, anche in
quelle conferenze che vertono sulla localizzazione delle opere (v. nuovo
art. 14 l. 241/90, come modificato dalla l. 122/2010, ultimo paragrafo del
capitolo precedente)/
Si rammenta peraltro, a tale riguardo, il ruolo che i concessionari di
opere pubbliche stanno vieppiù assumendo all’interno della conferenza di
servizi.
Fatte queste premesse di ordine sistematico, si illustrano di seguito i
principali passaggi procedimentali riguardanti il D.P.R. n. 383 del 1994,
sulla localizzazione di opere pubbliche.
Al riguardo, l’art. 55 disciplina la fase prodromica al procedimento di
localizzazione ex D.P.R. n. 383/1994, e pertanto la realizzazione del
progetto dovrà necessariamente essere preceduta dalla presentazione alla
Regione, da parte della competente amministrazione, di un quadro
complessivo delle opere che si intendono realizzare nel territorio regionale
(tratto, questo, rinvenibile anche nella “Legge Obiettivo”).
Più specificamente, il procedimento di localizzazione si apre con
l’accertamento di conformità dell’opera alle prescrizioni delle norme e dei
piani urbanistici ed edilizi, effettuato dallo Stato, e cioè dal provveditore
alle opere pubbliche competente per territorio, d’intesa con la regione
interessata.
Qualora tale accertamento sortisca un esito negativo (l’intesa, cioè,
evidenzi la difformità dell’opera rispetto agli strumenti urbanistici),
l’autorità interessata indice una conferenza di servizi cui partecipano le
altre amministrazioni coinvolte (la Regione, il comune previa deliberazione
del Consiglio comunale, le amministrazioni competenti in relazione ai
vincoli esistenti sull’area; nonché tutti gli altri enti comunque tenuti ad
adottare atti d’intesa, oca rilasciare pareri, autorizzazioni, approvazioni,
nulla osta, ecc.).
234
La conferenza valuta il progetto e si esprime sui progetti definitivi
entro 60 gg. dalla convocazione, apportando direttamente ad essi le
modifiche eventualmente necessarie.
L’approvazione unanime dei progetti intervenuta in sede di conferenza
importa la deroga automatica degli strumenti urbanistici, e sostituisce non
solo gli atti endoprocedimentali, come i pareri, i nulla osta, ecc., ma anche ì
provvedimenti conclusivi, come le concessioni, le autorizzazioni e le
approvazioni eventualmente richiesti dalle norme vigenti.
La mancanza di unanimità in sede di conferenza di servizi determina
l’applicabilità dell’art. 81, comma 4, del D.P.R. n. 616/1977: l’autorità
procedente rimette gli atti alla Presidenza del Consiglio dei ministri, e la
questione, sentita la commissione interparlamentare per le questioni
regionali, viene decisa con decreto del presidente della Repubblica, previa
deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del ministro
competente per materia.
Ciò in quanto al caso della mancanza di unanimità non sembrano
applicabili le disposizioni dell’art. 14-quater, comma 3 della L. n.
241/1990. Come evidenziato dal Consiglio di Stato (parere n. 1622 del
1997), queste si riferiscono infatti alla conferenza di servizi in generale, che
costituisce uno strumento di semplificazione amministrativa e di
snellimento dei procedimenti, ma che deve sempre muoversi nel rispetto
della normativa vigente. In altre parole, lo spazio all’interno del quale si
muove la conferenza di servizi non è quello della deroga, ma quello della
composizione delle discrezionalità amministrative e dei poteri spettanti alle
amministrazioni partecipanti. Se si ritenesse altrimenti, si dovrebbe
giungere alla conclusione, contrastante con i principi generali dell’ordinamento, che la conferenza di servizi possa diventare uno strumento di
costante disapplicazione della normativa (secondaria) o degli atti amministrativi generali (come i piani regolatori generali)201.
La natura della conferenza di servizi disciplinata dall’art. 3 del D.P.R.
383/1994, invece, avendo ad oggetto la localizzazione di opere di interesse
statale difformi dagli strumenti urbanistici, assume un carattere speciale, di
tipo derogatorio. Essa, infatti, mira al raggiungimento di un accordo
concernente una deroga ad un atto amministrativo generale efficace202.
201
Si veda, sul punto, quanto affermato nel citato parere del Consiglio di Stato,
n.1622/1997.
202
“La L. n. 241 del 1990, nell’introdurre una disciplina di carattere generale relativa
all’istituto della conferenza di servizi, non ha disposto l’abrogazione delle discipline
previgenti da essa difformi, contenute in leggi speciali, e ciò perché le disposizioni
contenute in queste ultime leggi non possono essere tacitamente abrogate da successive
disposizioni contenute in leggi a carattere generale; pertanto, restano ancora pienamente
operanti le disposizioni speciali che, in materia di approvazione dei progetti di
trattamento e smaltimento dei rifiuti, indeterminati casi, prevedono che le relative
235
In altre parole, poiché si tratta di modificare atti amministrativi
generali, si applica (o meglio si torna ad applicare) in questi casi il criterio
dell’unanimità e non della maggioranza, anzi della “prevalenza” (come
prevede l’attuale disciplina di carattere generale); per il resto, si applica il
procedimento ordinario.
Se la conferenza di servizi «speciale» disciplinata dall’art. 3 del
D.P.R. 383/1994 consente, in caso di accordo, di derogare al piano
regolatore generale, essa invece non sembra in grado di superare il
motivato dissenso espresso dalle amministrazioni preposte alla tutela
paesaggisticoterritoriale, nonché del patrimonio storico-artistico. Il comma
2 dell’art. 3 in esame specifica infatti che la conferenza stessa valuta i
progetti «nel rispetto delle disposizioni relativa ai vincoli archeologici,
storici, artistici ed ambientali». In tale prospettiva, la rimessione degli atti
al Consiglio dei ministri consente di oltrepassare anche questo ostacolo. La
deliberazione del Consiglio, infatti, deve ritenersi capace di superare
l’eventuale dissenso delle amministrazioni menzionate, a causa della
partecipazione alla deliberazione stessa degli organi di vertice di tali
amministrazioni203.
In altre parole, con la procedura fissata dall’art. 81, comma 4, del
D.P.R. n. 616/1977, la composizione dei contrapposti interessi delle
amministrazioni statali e locali coinvolte in un procedimento si realizza
garantendo da un lato che l’opera di interesse statale ritenuta irrinunciabile
sia portata comunque a compimento, e dall’altro che alla sua localizzazione
e progettazione partecipino le regioni e gli altri enti locali (in sede di
conferenza di servizi «speciale», di natura decisoria, ma anche
derogatoria), ed altresì le amministrazioni statali portatrici di interessi
contrapposti (in sede di conferenza, ma anche di Consiglio dei ministri):
dunque, si prevede la rimessione al Consiglio dei ministri non solo dei
dissensi concernenti interessi sensibili, ma di ogni tipo di dissenso, e
dunque anche locale o regionale.
Si segnala, in questo senso, la sentenza n. 540 del 2002 del TAR
Abruzzo sul noto caso del traforo del Gran Sasso. Decisione, questa, che
convince per il risultato (illegittimità delle determinazione finale in
presenza del dissenso di una amministrazione, l’Ente Parco), ma non per le
argomentazioni addotte a sostegno del risultato stesso. Il giudice
amministrativo abruzzese parte infatti dal presupposto che la conferenza
prevista dal D.P.R. n. 383 abbia ad oggetto soltanto profili urbanistici, e
che dunque gli altri interessi, tra cui quello ambientale (cui è preposto
l’Ente Parco), siano da vagliare ai sensi degli artt. 14 ss. della L. n. 241:
deliberazioni vengano adottate a maggioranza” (T.A.R. Veneto, sez. I, 11 novembre
1999, n. 1985).
203
Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI,
Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 183-184.
236
pertanto, il dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela
dell’ambiente deve essere rimesso al Consiglio dei ministri ai sensi dell’art.
14-quater della L. n. 241, senza che lo stesso possa essere superato con il
criterio della maggioranza. A parte ogni altra considerazione, relativa alla
constatazione che l’applicazione integrale del D.P.R. n. 383, contemplante
la necessaria unanimità dei consensi, comporta l’innesco della procedura
dinanzi al Consiglio dei ministri in ogni caso, a prescindere dalla natura o
meno sensibile dell’interesse tutelato dall’amministrazione dissenziente,
deve peraltro rilevarsi come la asserita applicazione “a geometria variabile”
dell’istituto della conferenza di servizi (D.P.R. n. 383 per i profili
urbanistici, 241 per gli altri interessi), nell’ipotesi delineata dal TAR
Abruzzo, contrasti:
a) con la previsione di cui all’art. 3, commi l, 2 e 4, del D.P.R. n.
383/1994, secondo cui debbono trovare adeguata valutazione e
ponderazione, nelle relativa conferenza di servizi, tutti gli interessi a
vario titolo coinvolti, compresi quelli ambientali e paesaggistici, e non
solo quelli legati all’assetto urbanistico (è naturalmente fatta salva
l’ipotesi in cui si debba innestare un procedimento VIA, la quale
precede ed assorbe, per i profili ambientali e paesaggistici, le
conclusioni della conferenza stessa);
b) con i principi di unicità, semplificazione e concentrazione, che trovano espressione nel più generale divieto di aggravio procedimentale di
cui alla stessa L. n. 241 del 1990.
Sicuramente degna di nota è altresì la decisione del TAR Veneto n.
2234 del 2005. Qui la conferenza sulla localizzazione di un’opera
autostradale, cui partecipava un rappresentante della soprintendenza ai beni
culturali e paesaggistici, era stata preceduta dalla VIA. Quest’ultima, non
avendo trovato soluzione risolta nella sede ordinaria per contrasto tra
amministrazioni statali, era stata portata alle valutazioni del Consiglio dei
ministri, che si esprimeva poi positivamente sulla predetta compatibilità
ambientale.
Nonostante tale posizione del Consiglio dei ministri, cui aveva peraltro partecipato il Ministro dei Beni Culturali, il dirigente della
soprintendenza, nella successiva conferenza sulla localizzazione (qui si
eminentemente ai fini urbanistici, dal momento che i profili ambientali e
paesaggistici erano stati affrontati e risolti con la procedura VIA) si
esprimeva tuttavia negativamente.
Il Ministero delle Infrastrutture - non potendo fare applicazione del
principio maggioritario - considerava in ogni caso tamquam non esset tale
parere, in quanto la relativa posizione dei beni culturali doveva ritenersi
“assorbita” dalla decisione del Consiglio dei ministri.
Il TAR Veneto riteneva invece illegittimo l’operato del Ministero, in
quanto la conferenza di servizi sulla localizzazione di opere statali (D.P.R.
237
n. 383 del 1994) richiede l’unanimità, in luogo della maggioranza:
pertanto, in presenza di un parere negativo, doveva trovare applicazione la
procedura di cui all’art. 81 del D.P.R. n. 616 del 1977.
Tale posizione non appare del tutto convincente. Ed infatti, il D.P.R.
n. 383 del 1994, fatta eccezione per alcuni aspetti come l’unanimità dei
consensi, rinvia, per la parte residuale della disciplina della conferenza di
servizi in esso contemplata, alla legge n. 241 del 1990.
Ebbene tale legge prevede, all’art. 14-ter, comma 5, che nei casi in cui
sia intervenuta la VIA (positiva), le disposizioni sul dissenso si applicano
solo alle amministrazioni preposte alla cura della salute, del patrimonio
artistico e della pubblica incolumità: dunque, non anche a quelle che
tutelano il paesaggio, e ciò in quanto la loro posizione viene assunta (ed
assorbita) in seno alla VIA.
Nel caso di specie, dunque, la VIA (anche con riferimento agli aspetti
relativi al paesaggio) doveva essere ritenuta favorevolmente acquisita, in
seno alla conferenza stessa, tramite l’assunzione della relativa decisione da
parte del Consiglio dei ministri; di conseguenza, anche il parere
paesaggistico doveva essere ritenuto assorbito dalla predetta valutazione di
impatto ambientale, e ciò soprattutto ai fine del computo dei necessari (ed
unanimi) consensi in sede di conferenza stessa. Ben aveva fatto, allora, il
Ministero delle Infrastrutture, a non considerare il parere successivo (e
contrario) del dirigente della soprintendenza, atteso che la posizione di
quest’ultimo doveva ritenersi assorbita - come detto - dal provvedimento
adottato in sede di Consiglio dei ministri: in altre parole, la questione
andava dunque risolta in termini di mera ammissibilità del parere (come
effettivamente deciso dal Ministero procedente), e non di suo computo ai
fini del raggiungimento della necessaria unanimità dei consensi (aspetto
questo indiscusso, per effetto della richiamata specialità del D.P.R. n. 383).
Sempre con riferimento all’applicazione del D.P.R. n. 383/1994, il Tar
Liguria (n. 1652 del 2003) ha ritenuto - confermando il suddetto indirizzo che debba qui trovare eccezionalmente applicazione il criterio
dell’unanimità, in luogo di quello maggioritario (ora, delle “posizioni
prevalenti”), per le seguenti ragioni:
a) la ratio legis richiede che sull’intervento da realizzare sia acquisita
l’intesa di tutti i soggetti istituzionalmente preposti alla tutela dei
diversi interessi pubblici coinvolti. E ciò soprattutto in linea con il
nuovo quadro costituzionale che si è venuto a formare a seguito
dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001. Sul
punto, il TAR richiama altresì la giurisprudenza costituzionale
(sentenza n. 303 del 2003), che ha sancito la necessaria presenza di un
sistema di intese tra Stato e regioni, qualora per insopprimibili
esigenze di carattere unitario lo Stato intervenga su materie di
238
competenza regionale, quale è quella relativa al “governo del
territorio”;
b) la disciplina che il D.P.R. n. 383/1994 detta in tema di conferenza di
servizi si caratterizza per la sua “specialità” rispetto alla normativa
generale di cui alla L. n. 241/1990: ciò soprattutto a causa della
previsione di cui all’art. 3, comma 5, del regolamento stesso, che
esclude la disciplina generale per la parte in cui prevede (va) la non
applicabilità della “unanimità temperata” (ossia, la rimessione della
determinazione finale al Presidente del Consiglio dei ministri, nelle
ipotesi di dissenso da parte di una o più delle amministrazioni
partecipanti, come prevista dalla L. n. 537/1993, e che ora risulta
sostituita dal diverso criterio maggioritario, ora delle “posizioni
prevalenti”).
In altre parole, la ratio che ha ispirato il legislatore è che in ogni caso,
qualora si ravvisi un qualsiasi dissenso all’interno della conferenza di
servizi, non si proceda attraverso una semplice determinazione sostitutiva
del Presidente del Consiglio, ma si inneschi una procedura aggravata, più
complessa, che garantisca in via ottimale anche gli interessi regionali
attraverso il coinvolgimento del Consiglio dei ministri nella sua
collegialità, il Presidente della Repubblica e, soprattutto, la commissione
parlamentare per le questioni regionali.
Tale esigenza si manifesta con maggior rilievo allo stato della vigente
legislazione, considerato, da un lato, la novella costituzionale del 2001, e,
dall’altro lato, l’introduzione, in luogo del meccanismo della “unanimità
temperata”, del criterio maggioritario (rectius, della “posizioni prevalenti”)
per la composizione degli interessi, che evitando, in assenza di interessi
sensibili, una valutazione di secondo grado, potrebbe porre vieppiù in
pericolo le prerogative costituzionali di regioni ed enti locali.
In sintesi, se il D.P.R. n. 383/1994 ha dato preferenza, in caso di
dissenso espresso in conferenza, al sistema aggravato di cui all’art. 81 del
D.P.R. n. 616/1977, in luogo della semplice determinazione presidenziale,
a maggior ragione si deve ritenere che la procedura stessa debba continuare
ad applicarsi, adesso che è stato introdotto il criterio della maggioranza che
evita (fatta eccezione per la presenza di interessi sensibili, tra i quali non
rientra tuttavia l’urbanistica) la rimessione degli atti al Presidente del
Consiglio, e dunque non trovando più applicazione nemmeno il
meccanismo della “unanimità temperata”.
Sennonché, tali argomentazioni potevano ritenersi valide sino alla
introduzione dei nuovi meccanismi di gestione del dissenso previsti dalla
L. n. 15/2005, sui quali ci si è già ampiamente soffermati. Ed infatti,
mentre per gli enti locali (che potranno invocare valutazioni di secondo
grado, secondo il nuovo sistema, solo in presenza di interessi sensibili da
loro espressi) continuerà a ritenersi preferibile il regime di cui all’art. 81
239
del D.P.R. n. 616/77, per le regioni, sia in relazione ad interessi sensibili,
sia ad altri interessi comunque costituzionalmente riservati, risulterà più
garantista il sistema di gestione del dissenso delineato dalla nuova legge di
riforma del procedimento amministrativo (che in tal caso devolverà le
valutazioni di secondo livello alla Conferenza Stato-Regioni).
Per l’onnicomprensività del procedimento di cui al D.P.R. n. 383/1994
si è espresso il Consiglio di Stato, ossia nel senso che le conclusioni della
conferenza di servizi assorbono ogni valutazione non solo con riferimento
alla localizzazione dell’opera, ma anche relativamente all’approvazione del
progetto di opera pubblica.
Al riguardo, il Consiglio di Stato, sez. IV, nella pronunzia n. 2773 del 2006
ha ritenuto che le disposizioni dell’ormai abrogato terzo comma dell’art. 81 del
D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (secondo cui “la progettazione di massima ed
esecutiva delle opere pubbliche di interesse statale, da realizzare dagli enti
istituzionalmente competenti, per quanto concerne la loro localizzazione e le
scelte del tracciato se difforme dalle prescrizioni e dai vincoli delle norme o dei
piani urbanistici ed edilizi, è fatta dall’amministrazione statale competente
d’intesa con le regioni interessate [...]”) e quelle corrispondenti del “nuovo”
procedimento disegnato, per le opere di interesse statale difformi dagli strumenti
urbanistici, dall’art. 3 del D.P.R. 18 aprile 1994, n. 383 (“la conferenza si
esprime sui progetti definitivi entro sessanta giorni dalla convocazione,
apportando ad essi, ove occorra, le opportune modifiche, senza che ciò comporti
la necessità di ulteriori deliberazioni del soggetto proponente: comma 3) vanno
interpretate nel senso di attribuire all’atto di approvazione del progetto da parte
della conferenza, cui fa cenno il successivo comma 4 (“l’approvazione dei
progetti [...] sostituisce ad ogni effetto gli atti di intesa, i pareri, le concessioni,
anche edilizie, le autorizzazioni, le approvazioni, i nulla osta, previsti da leggi
statali e regionali”: primo periodo), nei casi in cui la decisione sia adottata dalla
conferenza di servizi all’unanimità, non il mero valore di deroga agli strumenti
urbanistici generali dei comuni interessati dalla esecuzione dell’opera pubblica,
ma anche il valore di approvazione definitiva del “progetto definitivo”. Tanto, si
badi, non certo in virtù della generica applicabilità alla particolare conferenza di
servizi prevista dal citato decreto presidenziale delle disposizioni degli articoli 14
e seguenti della legge n. 241 del 1990 nel testo successivamente innovato
dall’articolo 17 della legge 15 maggio 1997, n. 127, quanto piuttosto in forza
dello stesso schema legalmente tipizzato del procedimento de quo, che, come s’è
visto, prevede che tale approvazione avvenga senza che ciò comporti la necessità
di ulteriori deliberazioni del soggetto proponente (art. 3, comma 3, del D.P.R. n.
383/1994) e contiene un preciso riferimento all’approvazione dei progetti una
volta che l’accertamento di conformità urbanistica abbia dato esito positivo (art.
14-ter della legge n. 241/90, nella versione rado ne temporis applicabile alla
fattispecie, specificamente riferito alla conferenza di servizi di cui all’articolo 3
del decreto del Presidente della Repubblica 18 aprile 1994, n. 383).
240
Secondo detto schema legale, dunque, l’atto finale della conferenza ha
rilevanza tanto ai fini della verifica di conformità urbanistica, quanto ai fini
della approvazione del progetto definitivo e, pertanto, ai sensi dell’art. 14,
comma 13, della legge n. 109/1994, della dichiarazione di pubblica utilità
dell’opera.
3. Interventi in materia di infrastrutture ed insediamenti strategici
(c.d. Legge Obiettivo)
Con il D.L. n. 190/2002, in attuazione della delega al governo prevista
con la L. n. 443/2001, sono state introdotte una serie di deroghe ad
importanti istituti quali la VIA, la conferenza di servizi e, in generale,
l’appalto di lavori pubblici, al fine di accelerare le procedure di
progettazione, affidamento ed esecuzione delle grandi opere infrastrutturali
di preminente interesse nazionale, pubbliche e private, da realizzare per la
modernizzazione e lo sviluppo del Paese. Tale normativa è stata poi
integralmente trasfusa nel Codice dei contratti.
Per quanto attiene in particolare alla fase della progettazione, il
decreto legislativo di attuazione prevede espressamente, ai fini
dell’approvazione del progetto preliminare (art. 165 del Codice), la non
applicabilità dell’istituto della conferenza di servizi, cui si dovrebbe
generalmente ed ordinariamente ricorrere ai sensi dell’art. 14-bis della L. n.
241/1990.
In alternativa, si assiste ad un ritorno al procedimento di stampo
classico, caratterizzato dalla sequenzialità degli atti e dei relativi passaggi,
al termine dei quali il CIPE (che decide con l’intervento dei Presidenti di
Regione), dietro proposta del Ministero delle Infrastrutture, decide a
maggioranza sull’approvazione del progetto (preliminare). Tale
approvazione ha effetto anche ai fini della localizzazione dell’opera,
qualora gli strumenti urbanistici necessitino di apposita modifica in tal
senso.
Le relazioni istruttorie di competenza delle diverse amministrazioni
chiamate ad esprimersi sul progetto preliminare, non vengono dunque
acquisite attraverso una conferenza di servizi, bensì mediante un tipico
procedimento di natura «diacronica» (e non «sincronica», opportunità
ineludibilmente offerta dalla conferenza di servizi), ossia mediante il
riproporsi di un modello rigidamente sequenziale che, proprio per
l’appesantimento procedurale che ne derivava, gli interventi di riforma
amministrativa degli ultimi anni avevano cercato di eliminare.
A differenza delle valutazioni espresse dalle amministrazioni centrali
che - anche in presenza di interessi sensibili - rivestono prevalentemente
carattere istruttorio e non vincolante, l’eventuale dissenso delle regioni
241
viene diversamente gestito, sia per i progetti interregionali ed
internazionali, sia per quelli infraregionali (seppure con diversi livelli di
intervento), mediante l’applicazione - in ultima istanza - del procedimento
indirettamente rinvenibile nell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977 (ossia, D.P.R.
dietro deliberazione del Consiglio dei Ministri e sentita la Commissione
parlamentare per le questioni regionali).
Sistema, quello appena delineato, che la Corte Costituzionale, con la
nota sentenza n. 303 del 2003, ha peraltro ritenuto compatibile con il nuovo
quadro delle competenze costituzionali, sorto a seguito della legge
costituzionale n. 3/2001; e ciò in quanto lo Stato ben può assumere in
sussidiarietà funzioni amministrative per poi regolarle in ossequio al
principio di legalità, a patto che sia adeguatamente rispettato il principio di
leale collaborazione.
Resta un dubbio: il superamento del dissenso regionale nelle forme
dell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977, è in grado di superare “la prova del
nuovo Titolo V”, soprattutto tenuto conto che si deve trattare di intese in
senso forte, ossia superabili solo dopo avere esperito “ogni utile sforzo”? Il
passaggio obbligatorio al parere della commissione per le questioni
regionali (forma primigenia del possibile, futuro, Senato federale),
costituisce di sicuro un elemento di garanzia - almeno sulla carta - per le
autonomie territoriali, ma non al pari del confronto (effettivamente)
paritario e del livello di ponderazione che si possa ottenere in una sede
come quella della Conferenza Stato-Regioni, come previsto dalla nuova
riforma della disciplina della conferenza di servizi (peraltro esclusa dalla
“Legge Obiettivo”). Ancora sul tema dell’art. 81 del D.P.R. n. 616, si
rinvia a quanto riportato nel paragrafo 2 di questo capitolo).
All’interno della procedura di approvazione è da ritenersi molto
probabile l’innesto del procedimento di valutazione di impatto ambientale,
come disciplinato dall’art. 185 del Codice, che prevede il rispetto di tale
adempimento soltanto nella fase preliminare e non anche in quella
definitiva, all’interno della quale si esercita un (diverso) potere di verifica
ambientale.
In via generale, l’approvazione della compatibilità ambientale avviene
contestualmente, ad opera dello stesso CIPE, a quella relativa al progetto
preliminare, con la sola eccezione dovuta ad un eventuale motivato
dissenso dei ministeri dell’ambiente e dei beni culturali. In questo caso la
decisione sulla Via è rimessa al Consiglio dei Ministri.
Nel silenzio del legislatore deve reputarsi che, in tale ultima ipotesi, la
determinazione sostitutiva del Consiglio dei Ministri (si osservi, sulla sola
compatibilità ambientale e non anche sul progetto preliminare) si attesti in
una fase (ovviamente e) cronologicamente anteriore rispetto alla delibera
del CIPE in merito all’approvazione del progetto preliminare (che
naturalmente dipenderà dall’esito positivo della Via).
242
Per quanto riguarda invece l’approvazione del progetto definitivo,
l’art. 166 del Codice prevede la convocazione, da parte del Ministero delle
Infrastrutture, di una conferenza di servizi di natura esclusivamente
istruttoria ed alla quale non si applicano, quindi, le disposizioni relative al
principio della maggioranza (o meglio delle posizioni prevalenti) e alla
tutela degli interessi sensibili.
Le posizioni assunte dalle amministrazioni debbono soltanto essere
prese in considerazione dal Ministero in termini di compatibilità con le
indicazioni emerse nel progetto preliminare, ai fini della successiva
proposta al CIPE, che anche in questo caso decide a maggioranza, salva
l’ipotesi di dissenso regionale, nel qual caso troveranno applicazione le
procedure descritte in tema di progetti preliminari.
Da una lettura sistematica della disposizione si evince che, pur
essendo prevista in tale ipotesi una conferenza di servizi (di natura tuttavia
esclusivamente istruttoria, e quindi non vincolante per la proposta
definitiva che l’amministrazione deve adottare al termine del
procedimento), il criterio della decisione «a maggioranza» da parte del
CIPE trova applicazione anche nei confronti della amministrazioni
portatrici di determinati interessi C.d. sensibili (beni culturali, ambiente,
salute). Si osserva, a tale particolare riguardo, che con il criterio della
maggioranza vengono superati gli interessi sensibili (beni culturali,
ambiente, salute) ma non quelli regionali (presumibilmente espressi anche
in materie diverse da quelle «sensibili», come ad esempio l’urbanistica),
che in caso di dissenso vengono «gestiti» dinanzi al Consiglio dei Ministri,
secondo lo schema tipico dell’art. 81 del D.P.R. n. 616/1977. Con il
risultato che gli «interessi sensibili» dello Stato si collocherebbero in una
posizione deteriore rispetto a quelli (eventualmente anche «non sensibili»)
tutelati dalle regioni.
L’art. 168 del Codice, il quale riporta quanto previsto dal decreto
legislativo n. 189 del 2005 che, a sua volta, aveva introdotto uno specifico
art. 4-ter all’interno del decreto legislativo n. 190 del 2002, reca una
disciplina speciale della conferenza istruttoria che si esprime sul progetto
definitivo.
In particolare, vengono definite modalità e termini per la formulazione
di osservazioni da parte delle pubbliche amministrazioni (che possono far
pervenire contributi scritti anche al di fuori della conferenza), nonché il
coinvolgimento di terzi (privati) e dei concessionari (oppure dei contraenti
generali) all’interno della conferenza medesima. Dunque, se da un lato si
deroga rispetto alla disciplina ordinaria dell’istituto, dall’altro lato si
introducono importanti strumenti di democrazia partecipativa che, allo
stato, fanno ancora fatica ad essere introdotti nel procedimento de quo.
243
Per quanto attiene alla natura meramente istruttoria della conferenza di
servizi contemplata dall’art. 4 del decreto n. 190 (ora trasfusa nel Codice dei
contratti), è intervenuta una sentenza del TAR Lazio (n. 3312 del 2004).
Veniva qui proposta eccezione di inammissibilità del gravame per carenza
di interesse, sollevata dalle amministrazioni resistenti, in considerazione della
natura istruttoria della conferenza di servizi concernente un’opera ferroviaria
inclusa nel primo programma delle infrastrutture strategiche.
Il Tar ha accolto tale eccezione, ritenendo dirimente, ai fini del decidere,
l’enucleazione della esatta collocazione giuridico-sistematica della conferenza di
servizi in questione.
Si rammenta, ad ogni buon conto, che la conferenza istruttoria si esprime
sul progetto. Successivamente, il Ministero delle Infrastrutture, anche sulla base
dei pareri espressi in conferenza (ma senza essere ad essi vincolato) presenta una
proposta204 di approvazione al CIPE, integrato anche dai Presidenti di Regione, il
quale decide a maggioranza dei componenti.
Ciò significa che il progetto cui fa riferimento il verbale della conferenza di
servizi non è ancora stato approvato, e dunque che tali conclusioni possiedono
comunque carattere inautonomo, risultando prive - in quanto non dotate di
effettualità esterna - del requisito della lesività nei confronti dei soggetti
destinatari dell’attività amministrativa.
In definitiva, l’impugnativa del verbale della conferenza di servizi è da
ritenersi inammissibile per carenza di interesse a ricorrere, concernendo un atto
meramente istruttorio, preparatorio ed endoprocedimentale, e non approvativo
del progetto dell’opera ferroviaria in questione.
4. La realizzazione dei porti turistici (D.P.R. n. 509/1997)
All’interno delle principali discipline speciali che debbono trovare un
coordinamento sistematico con l’istituto della conferenza di servizi occorre
ricordare il D.P.R. 2 dicembre 1997, n. 509, recante disciplina del
procedimento di concessione di beni del demanio marittimo per la
realizzazione di strutture dedicate alla nautica da diporto, a norma dell’art.
20, comma 8, della L. n. 59/1997.
Tale normativa, che si riferisce in concreto alla realizzazione e alla
modernizzazione di porti turistici, si caratterizza per la presenza di tre fasi
essenziali: la prima consiste nella presentazione, da parte di un soggetto
privato (spesso una società mista pubblico-privato), di un progetto che
viene sottoposto ad esame preliminare all’interno di una conferenza di
servizi all’uopo indetta; in caso di valutazione di ammissibilità dello stesso,
la seconda fase si concentra nella convocazione di una ulteriore conferenza
204
Detta proposta non si limita a recepire le indicazioni provenienti dalla singole
Amministrazioni, ma si configura come proposta autonoma, frutto di una ponderazione
comparativa di quanto sostenuto dalle altre Amministrazioni.
244
di servizi, da svolgersi ai sensi della L. n. 241/1990, ed avente ad oggetto
l’approvazione del progetto definitivo; nella terza fase, in caso di ulteriore
esito favorevole della conferenza di servizi definitiva, il Ministero delle
Infrastrutture rilascerà il provvedimento di concessione demaniale205.
Alla luce di tale procedimento speciale - che comprende due
conferenze, l’una preliminare e l’altra definitiva - la L. n. 241/1990, almeno
sino alle modifiche ad essa apportate dalla L. n. 340/2000, si inseriva
soltanto nell’ambito della seconda fase (quella relativa all’approvazione del
progetto definitivo), dal momento che la sua disciplina non si riferiva a
conferenze di tipo preliminare.
Con l’introduzione, ad opera dell’art. 10 della L. n. 340/2000, di
quest’ultimo tipo di conferenza, ci si è allora chiesti se tale procedimento
non assorba integralmente quanto disposto dal D.P.R. n. 509/1997, con ciò
abrogandolo implicitamente; il problema risiede, in altre parole, nello
stabilire se, anche a fronte di tale nuovo intervento normativo, il
regolamento in oggetto continui a preservare il suo carattere di norma
speciale ovvero se lo stesso debba intendersi ormai abrogato e quindi
riassunto nella normativa più generale della L. n. 241/1990, che contiene
anch’essa la possibilità di ricorrere alla conferenza preliminare.
A quest’ultima domanda sembrerebbe tuttavia di doversi dare risposta
negativa: a ben vedere, nell’impianto delineato dal D.P.R. n. 509/1997 il
passaggio dalla conferenza preliminare a quella definitiva non appare così
automatico ed esclusivo. In caso di approvazione del progetto preliminare,
infatti, si aprono due strade per la successiva approvazione del progetto
definitivo: nell’ipotesi in cui detto progetto risulti conforme ai vigenti
strumenti urbanistici, si procederà alla convocazione di una conferenza di
servizi; nel caso in cui non si riscontri invece tale conformità, si dovrà
ricorrere, al fine di apportare le necessarie varianti, ad un accordo di
programma ex art. 27 della L. n. 142/1990 (ora art. 34 del TUEL).
Così ragionando, ciò che non sarebbe possibile realizzare attraverso
l’applicazione della L. n. 241/1990, la quale, non avendo natura sostanziale
e quindi derogatoria, non consente di apportare varianti agli strumenti
urbanistici, lo sarebbe mediante l’applicazione del D.P.R. n. 509/1997, il
quale contempla invece tale possibilità.
In altre parole, se si accettasse la tesi secondo la quale la L. n. 241/1990,
prevedendo ora la possibilità di ricorrere alla conferenza preliminare,
renderebbe inutile l’applicazione del D.P.R. n. 509/1997206, ci si priverebbe
inevitabilmente dell’opportunità (offerta dal legislatore stesso) di avvalersi di
uno strumento derogatorio, quello dell’accordo di programma, al fine di
205
Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI,
Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 183-184.
206
Dato che tale ultima norma di legge riprende lo stesso percorso procedurale, ossia
conferenza preliminare-conferenza definitiva, già prevista dal D.P.R. n. 509/1997.
245
apportare varianti al PRG in caso di difformità del progetto rispetto ai piani
urbanistici; varianti che l’applicazione del D.p.R. n. 509/1997 consentirebbe,
al contrario, di introdurre concretamente in virtù di quanto disposto dal
richiamato art. 6.
In conclusione, si ritiene che.il D.P.R. n. 509/1997, anche a fronte
delle rilevanti novità introdotte dall’ultimo intervento di riforma in tema di
conferenza di servizi, mantenga ancora inalterata la natura di procedimento
speciale.
Un discorso a parte merita il ruolo esercitato dalle soprintendenze,
preposte alla tutela dei beni paesaggistici, all’interno di tale speciale
procedura, su cui ci si è già soffermati.
Al riguardo, è intervenuto un importante parere del Consiglio di Stato
(n. 2457 del 2001), che si è occupato dell’interpretazione da darsi agli art. 5
e 6 del D.P.R. n. 509/1997.
Il problema che si è posto il Supremo Consesso Amministrativo
consiste nel fatto che i predetti artt. 5 e 6 prevedono il modulo della
conferenza di servizi per l’approvazione dei progetti, escludendo
espressamente dalla conferenza la partecipazione del Ministero per i Beni e
le Attività Culturali, e affidando la tutela dei beni paesistico-ambientali
esclusivamente alla regione o ai comuni interessati eventualmente delegati.
Per di più, mentre l’art. 5, concernente i progetti preliminari, prevede
espressamente, nel comma 9, l’invio immediato al Ministero delle
determinazioni assunte ex art. 7 L. n. 1497/39 (ora art. 146 del codice dei
beni culturali), affinché questi possa esercitare i poteri di riesame e
annullamento previsti, una disposizione analoga non è contemplata nell’art.
6, che riguarda l’approvazione dei progetti definitivi e che, pur affidando
tale approvazione a una conferenza di servizi o a un accordo di programma
(a seconda che il progetto sia conforme o meno alle previsioni urbanistiche)
tiene ferma l’esclusione dalla conferenza di servizi e dall’accordo di
programma del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, ribadendo la
previsione già operata nell’art. 5.
Di qui l’interrogativo (posto dall’ufficio legislativo del Ministero dei
Beni Culturali) se possa ritenersi in via interpretativa che anche il progetto
definitivo vada sottoposto al vaglio ministeriale, ovvero se il silenzio del
legislatore sul punto richieda un’integrazione normativa.
Al riguardo il Consiglio di Stato ha ritenuto che non sia necessaria
un’integrazione normativa, potendosi in via intepretativa pervenire alla
conclusione che anche nel caso di cui all’art. 6 del D.P.R. n. 509/1997 sia
dovuto l’invio al Ministero, per i fini di cui all’art. 151 T.U. n. 490/1999
(ora art. 146 del codice, che tra l’altro non prevede più l’annullamento
ministeriale), delle determinazioni assunte in sede di conferenza di servizi o
di accordo di programma.
246
Ciò anche alla stregua di un preciso orientamento della giurisprudenza
costituzionale, che ha più volte avuto occasione di sottolineare come il
paesaggio costituisca un valore etico-culturale che trascende le competenze
della regione e che coinvolge tutte le amministrazioni, ed in primo luogo lo
Stato e le regioni, in un vincolo reciproco di leale cooperazione.
Da ciò deriva che il potere di riesame e di annullamento, previsto
dall’art. 151 T.U, n. 490/1999, si poneva come regola generale
dell’ordinamento di settore, e quindi sempre operante, anche se non
espressamente previsto da norme specifiche (questo sempre secondo il
sistema pre-codicistico).
Il Consiglio di Stato conclude quindi ritenendo che, analogicamente a
quanto previsto dall’art. 5, anche l’art. 6 del D.P.R. n. 509/1997 vada
interpretato nel senso che le determinazioni finali assunte in sede di
conferenza di servizi o di accordo di programma debbono essere inviate al
Ministero per i Beni e le Attività Culturali: diversamente opinando, infatti,
poiché il Ministero è espressamente escluso dalla procedura per volontà
normativa, si dovrebbe ammettere che nella fattispecie verrebbero meno sia
il vincolo di leale cooperazione che deve caratterizzare il rapporto StatoRegione, sia i poteri di “estrema difesa del vincolo” che sono (o meglio,
erano) affidati allo Stato.
Tale sistema ha conservato la sua validità, ovviamente, sino alla piena
attuazione del codice dei beni culturali su questo specifico tema (I° maggio
2008).
5. Interventi in materia di energia
In materia di energia si sono succeduti almeno tre fondamentali
provvedimenti normativi: il decreto L. n. 7/2002, in materia di
“sbloccacentrali”; la L. n. 239/2004 (c.d. “Legge Marzano”), in materia di
“sbloccalinee”; il D.L. n. 330/2004, che introduce importanti disposizioni
per la fase espropriati va, nonché, con particolare riferimento ai
metanodotti, per la fase autorizzativa.
A) Il decreto L. n. 7/2002 (c.d. “sbloccacentrali”), prevede un
procedimento unico che si svolge davanti al Ministero per le Attività
Produttive, il quale indice una conferenza di servizi le cui risultanze
sfociano in un provvedimento che, in seconda istanza, deve essere adottato
“di intesa” con la regione interessata (tale modello, conosciuto anche come
“avocazione in sussidiarietà di funzioni regionali”, è stato peraltro avallato
dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 6 del 2004).
Come sottolineato nel capitolo IV, da una analisi della legislazione di
settore adottata a seguito del nuovo Titolo V, emerge un sostanziale
247
rispetto (ma soltanto all’interno della prima fase della conferenza di
servizi) del principio della necessaria e ineludibile leale collaborazione.
È quanto si riscontra con riferimento al decreto L. n; 7 del 2002, la cui
procedura, prima assunta in via temporanea, è stata ora “stabilizzata”
mediante il D.L. n. 290/2003. Al riguardo, sia la fase della
programmazione, sia quella relativa alla realizzazione delle centrali
elettriche (che si svolge attraverso il rilascio di una autorizzazione unica a
cura del Ministero per le Attività Produttive), deve avvenire - come già
anticipato con il sistema delle intese Stato-Regioni. In particolare, l’intesa
per la realizzazione dell’opera si verifica “fuori” dalla conferenza, ossia
dopo la sua chiusura, e non prima, ossia all’interno della conferenza (cui la
regione sarà comunque chiamata il partecipare, anche se non con un ruolo
necessariamente deliberante).
La sesta sezione del Consiglio di Stato, con decisione n. 3502 del
2004, si è preoccupata di configurare la natura giuridica di tale intesa tra lo
Stato e la Regione.
Nel caso di specie, a seguito del rilascio dell’autorizzazione la regione
revocava, con delibera consiliare, il relativo atto di intesa: gli appellanti
(una associazione ambientalista contraria alla installazione della centrale)
ritenevano dunque che l’autorizzazione rilasciata dal Ministero sarebbe
divenuta inefficace, a seguito del predetto atto di ritiro.
Il Consiglio di Stato ha invece rigettato tale impostazione, ritenendo
che l’atto di intesa della regione sia qualificabile come atto
endoprocedimentale, sulla cui base è stato adottato il provvedimento finale
di autorizzazione.
“Dopo la conclusione del procedimento la revoca di un atto
endoprocedimentale non può in alcun modo essere idonea a travolgere il
provvedimento finale, che quindi resta valido e pienamente efficace.
La regione poteva al più chiedere al Ministero delle Attività Produttive di
esercitare i propri poteri di autotutela in ordine all’autorizzazione rilasciata,
rappresentando non semplici valutazioni di ordine politico, ma la
sopravvenienza di ragioni di pubblico interesse giustificative dell’annullamento dell’autorizzazione”.
Le conclusioni del Consiglio di Stato sembrano condivisibili, tenuto
conto che il modello della leale collaborazione interistituzionale trova applicazione in ogni momento dello svolgersi dell’azione amministrativa, e dunque anche nella fase dell’esercizio dello ius poenitendi, che deve sempre rispettare il principio del contrarius actus: in altre parole, se per il rilascio dell’autorizzazione è necessario un atto di intesa tra Stato e Regione, parimenti
deve avvenire, sul piano procedimentale, per il ritiro del medesimo atto.
Piuttosto, ci si chiede quali possano essere gli strumenti per superare
un eventuale contrasto sorto ab origine tra Stato e Regione, tale ossia da
non consentire il raggiungimento dell’intesa.
248
Secondo alcuni, il mancato raggiungimento dell’intesa, in assenza di
una disposizione normativa (presente invece, come si vedrà, in altre
provvedimenti concernenti sempre la materia energetica) che individui
specifici meccanismi di risoluzione dell’impasse, risulterebbe preclusi va,
in termini assoluti, al rilascio dell’autorizzazione: in altre parole, la
mancanza dell’intesa equivarrebbe a rigetto dell’istanza di autorizzazione.
Secondo altri, occorrerebbe comunque ispirarsi, pur in assenza di una
previsione legale tipizzata, a quell’orientamento della giurisprudenza
costituzionale (cfr. sent. n. 27 del 2004) secondo cui, in presenza di “intese
forti”, occorre compiere “ogni sforzo utile” per il raggiungimento delle
intese stesse. Di qui, la possibilità di attivare forme di superamento del
contrasto riconducibili - almeno lato sensu - a quelle di recente introdotte
dalla L. n. 15/2005, che prevede in tal caso il ricorso alle valutazioni
ulteriori della Conferenza Stato- Regioni.
La tesi da ultimo esposta troverebbe una conferma di tipo letterale
nell’art. 14, comma 2, della L. n. 241/1990, che prescrive l’applicazione
della conferenza di servizi, quale modello generale, anche nelle ipotesi in
cui è necessario acquisire “intese”. Di qui, l’applicazione dello stesso
modello generale anche ai fini del superamento di eventuali dissensi.
Parte della giurisprudenza non ha tuttavia abbracciato tale tesi.
Ed infatti il TAR Calabria, con la decisione n. 200 del 2006, ha
affermato che, anche in caso di mancata intesa (dunque dopo la conferenza,
ritenuta di natura eminentemente istruttoria) tra Stato e regione interessata,
non trovano applicazione i meccanismi sostitutivi di cui al comma 3
dell’art. 14-quater della legge generale sul procedimento. Nel quadro
delineato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 6 del 2004, infatti,
non è dato comprendere che rilievo possano avere le nuove norme in
materia di conferenza di servizi, atteso che una cosa è l’esito della
conferenza, ben altra l’acquisizione dell’intesa. L’esito della conferenza
attiene alla definizione del modulo procedimentale previsto dagli articoli
14 e seguenti della legge n. 241/90. L’intesa della regione tende invece ad
attuare quelle modalità di collaborazione nello svolgimento delle funzioni
che, secondo l’impostazione della Corte Costituzionale (cfr. sentenze nn.
303 del 2003 e 6 del 2004), rende aderente al dato normativo costituzionale
l’assetto delle attribuzioni in materia, quale definito dalle norme di legge
statale.
Nella pronuncia sopra richiamata del Consiglio di Stato (n. 3502 del
2004) si affronta altresì il tema relativo alla natura giuridica della
conferenza di servizi, ossia quella svolta prima del rilascio
dell’autorizzazione da parte del Ministero.
Secondo il Consiglio di Stato, “si tratta di una conferenza di servizi
istruttoria, che ha il fine di consentire la partecipazione al procedimento
delle amministrazioni e le cui conclusioni assumono solo valenza
249
istruttoria, di cui dovrà ovviamente tenere conto l’organo competente ad
assumere la determinazione finale (nel senso che potrà discostarsi da tali
conclusioni solo con adeguata e ragionevole motivazione).
Il legislatore ha quindi previsto non una decisione pluristrutturata,
tipica della conferenza di servizi decisoria, in cui il provvedimento finale
concordato sostituisce i necessari assensi delle amministrazioni
partecipanti, ma una decisione monostrutturata, in cui vi è un’unica
amministrazione competente che deve acquisire l’avviso di altre
amministrazioni, oltre all’intesa con la regione di cui si è detto in
precedenza”.
Vi sono dunque due livelli decisionali. Il primo ha carattere istruttorio
e si svolge in conferenza di servizi (l’intesa in questi termini è definita per
l’appunto “debole”). Il secondo ha carattere definitivo e si svolge in sede
bilaterale - e soprattutto fuori conferenza - tra Stato regione (l’intesa è in
questo caso “forte”).
Del resto, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza n. 6 del 2004,
ha evidenziato come, oltre alla previsione dell’intesa “forte” con la regione
interessata, il D.L. n. 7 del 2002 ha prescritto l’obbligo di richiedere il
parere motivato del comune e della provincia nel cui territorio ricadono le
opere in modo da assicurare un sufficiente coinvolgimento degli enti locali,
in relazione agli interessi di cui siano portatori ed alle funzioni loro
affidate. Il principio di leale collaborazione si attua quindi in maniera
“forte” nei rapporti con la Regione, con cui deve necessariamente essere
raggiunta un’intesa, e in maniera “debole” con le altre amministrazioni
interessate, cui deve essere consentito di partecipare al procedimento e di
esprimere il proprio parere. L’acquisizione di tale parere in sede di
conferenza di servizi ha una valenza meramente istruttoria.
La conseguenza più immediata è che per la giurisprudenza, anche alla
conferenza di servizi (in quanto istruttoria) non si applicano tutte le
disposizioni volte a rimediare alla non unanimità, ossia l’art. 14-quater,
comma 3, della L. n. 241/1990: “in sede di conferenza istruttoria, infatti,
non è richiesta l’unanimità, poiché tale conferenza non è un mezzo di
manifestazione del consenso”.
Dunque, secondo tale indirizzo la disciplina del dissenso di cui all’art.
14-quater non si applica né alle intese deboli (conferenza istruttoria), né a
quelle forti (intesa Stato-Regione).
Tale impostazione, che ha trovato conferma in alcune decisioni di
primo grado (cfr. TAR Lazio, 14 aprile 2005, e TAR Salerno, n. 2233 del
2006), suscita per la verità alcuni dubbi, come di seguito meglio
specificato:
l. Il procedimento dello “sbloccacentrali” prevede l’acquisizione, al suo
interno, della VIA, la quale a sua volta trova la relativa disciplina di
250
2.
3.
4.
riferimento, per quanto riguarda il suo rapporto con la conferenza di
servizi, all’interno del solo modulo decisorio, e non di quello
istruttorio (cfr. artt, 14-bis e 14-ter della L. n. 241/1990);
La presenza di amministrazioni portatrici di interessi sensibili
all’interno della conferenza (es. salute, paesaggio) ed il conseguente
(ed eventuale) superamento dei possibili dissensi, da loro espressi, in
applicazione dei meccanismi che presiedono alla conferenza istruttoria
(dunque, decisione unilaterale dell’amministrazione procedente, ossia
il Ministero per le Attività Produttive, pur se dietro ampia e adeguata
motivazione), determinerebbe con tutta probabilità la lesione di
interessi costituzionalmente protetti, con particolare riferimento agli
articoli 9 e 32 Cost.;
Sulla base delle più recenti scelte di politica legislativa, quando si
vuole evidenziare che una conferenza di servizi, soprattutto se prevista
in materie di strategica importanza (es. grandi infrastrutture), debba
avere natura meramente istruttoria, è il legislatore che, direttamente,
provvede a qualificarla come tale (cfr. D.L. n. 190/2002).
Caratteristica, questa, non altrimenti rinvenibile nel caso di specie;
Il recente D.L. n. 330/2004, che riguarda le infrastrutture lineari
energetiche e che prevede, in parte qua, l’applicazione delle
disposizioni sullo “sbloccacentrali’’qualifica (quasi) espressamente
tale conferenza come “decisoria”.
B) La Legge Marzano (n. 239/2004) è invece diretta a snellire, all’art.
l, comma 26 (che riscrive l’art. l-sexies del decreto L.n. 239/2003) le
procedure di realizzazione degli elettrodotti, nell’obiettivò di provvedere al
potenziamento della rete di trasporto nazionale (RTN).
Si prevede una procedura sostanzialmente simile a quella dello
“sbloccacentrali”, ossia un procedimento unico da adottarsi ai sensi dei
principi di cui alla L. n. 241/1990 (dunque, la conferenza di servizi), la cui
durata è stabilita in 180 giorni ed all’interno del quale viene altresì
acquisita (con allungamento dei relativi termini) la valutazione di impatto
ambientale.
Infine, l’atto conclusivo della conferenza, ossia l’autorizzazione, è
adottata di intesa con la regione interessata. In caso di mancata definizione
dell’intesa, sono attivati (ed in questo sì differenzia dallo “sbloccacentrali”)
i poteri sostitutivi di cui all’art. 120 Cost.
Si evidenzia come la previsione di un potere sostitutivo di questo tipo
sia probabilmente in contrasto con le finalità ed i presupposti che sono alla
base della disposizione costituzionale stessa (art. 120 Cost.).
Conformemente all’indirizzo della Corte Costituzionale che, in
materia di “intese forti”, pone l’esigenza di compiere “ogni sforzo utile”
per il raggiungimento delle medesime intese, si riterrebbe preferibile un
251
sistema di superamento del contrasto più vicino a quello delineato dalla
recente legge di riforma del procedimento amministrativo (L. n. 15/2005).
C) Dal canto suo, il D.L. n. 330/2004 interviene, da un lato, in senso
trasversale su tutti i procedimenti in materia di energia, recando la
disciplina in tema di espropriazione per pubblica utilità; dall’altro lato,
pone in essere anche alcune norme riguardanti i procedimenti autorizzativi
connessi, in particolare relativi ai metanodotti.
A tale ultimo riguardo viene previsto un procedimento unico, all’esito
del quale il Ministero per le Attività Produttive rilascia l’autorizzazione, di
intesa con la regione interessata.
In caso di mancata definizione dell’intesa - e qui sta il carattere
peculiare della previsione - si costituisce un collegio tecnico a
composizione paritaria per la formulazione di una nuova proposta. In caso
di ulteriore esito negativo, si provvede con D.P.R., previa delibera del
Consiglio dei ministri, integrato dal Presidente della regione interessata
(che partecipa presumibilmente, per le ragioni in precedenza esposte, senza
diritto di voto), e sentita la Conferenza Stato-Regioni.
Si tratta senz’altro di una procedura complessa, ma comunque in
grado di rispettare i parametri imposti dal nuovo ordinamento
costituzionale e, tutto sommato, anche di consentire l’adozione di un
provvedimento efficace e condiviso da tutti gli attori del processo. Prova ne
sia che in questo lavoro si è fatto riferimento anche a tale ipotesi, al fine di
migliorare l’attuale meccanismo generale di soluzione dei conflitti.
6. Lo Sportello Unico per le attività produttive
Lo Sportello Unico per le attività produttive trova due fonti essenziali,
ossia il D.L. n. 112/1998 (artt. 23, 24 e 25) e il D.P.R. 20 ottobre 1998, n.
447, come modificato dal D.P.R. 7 dicembre 2000, n. 440.
Lo spirito cui si richiama l’istituto in oggetto è quello della
semplificazione amministrativa, in particolare attraverso la riduzione del
numero dei procedimenti amministrativi, anche mediante la loro
unificazione207. Il fine ultimo dell’istituto in questione, pertanto, è quello di
ridurre fortemente i costi amministrativi per le imprese, con un impatto
significativo sullo sviluppo economico territoriale.
207
Al riguardo, giova osservare che la legge quadro sul turismo, 29 marzo 2001, n.
135, prevede che i procedimenti amministrativi per il rilascio di ogni tipo di
autorizzazione per l’apertura di esercizi turistici si informino a principi di unicità e
speditezza, utilizzando a tal fine la disciplina dello Sportello Unico.
252
Lo strumento attraverso il quale concretizzare l’accelerazione dei
tempi è, per l’appunto, la conferenza di servizi di cui alla legge n. 241 del
1990.
De iure condendo, il più volte citato d.d.l. Capezzone della XV
Legislatura (AS 1532) imprime una particolare accelerazione alla suddetta
procedura, prevedendo persino alcuni interventi in deroga rispetto alla
disciplina generale, con particolare riferimento alla durata della conferenza
ed alla applicazione del silenzio-assenso in caso di inerzia delle
amministrazioni competenti.
In merito alle principali disposizioni del D.L. n. 112/1998, l’art. 23 si
preoccupa di attribuire ai comuni le funzioni amministrative concernenti la
realizzazione, l’ampliamento, la cessazione, la riattivazione, la
localizzazione e la rilocalizzazione di impianti produttivi, ivi incluso il
rilascio delle concessioni o autorizzazioni edilizie.
In sintesi, compito dello Sportello Unico è quello di acquisire la
pluralità di assensi che debbono essere resi dalle amministrazioni,
rimanendo l’unico interlocutore del cittadino, sulla scorta di un principio di
unificazione funzionale.
Lo Sportello Unico si traduce non semplicemente in un’unità
procedimentale, quanto piuttosto nell’articolazione, sotto forma di
subprocedimenti, di quelli che prima erano realtà procedimentali autonome,
senza però che ciò comporti un azzeramento degli interessi pubblici
confluiti nel procedimento unitario, della cui soddisfazione dovrà essere
dato conto in sede motivazionale.
Il principio di unicità che ispira il procedimento in questione si
evidenzia nella unicità di domanda che il privato deve presentare e nella
unicità di struttura con cui deve interagire208.
Giova rammentare, in proposito, che la disciplina ricavabile del
D.P.R. n. 447/1998, emanato in attuazione dell’art. 25 del D.L. n.
112/1998, prevede il ricorso all’istituto della conferenza di servizi in tre
distinte occasioni:
a) all’art. 2, laddove è ammessa la possibilità per il comune di
individuare le aree da destinare all’insediamento di impianti
produttivi, anche eventualmente adottando varianti rispetto agli
strumenti urbanistici;
208
Ancora problemi di coordinamento devono essere denunciati a causa della non
cristallina formulazione dell’art. 1 del D.P.R. n. 447/1998. Tra le zone d’ombra che
concernono l’ambito d’applicazione del regolamento occorre denunciare la circostanza
che rimangono salve le previsioni del D.L. n. 114/1998 in materia di commercio, con
ciò non chiarendosi, se si sia voluto escludere dall’ambito di efficacia dello sportello gli
esercizi commerciali. Sul punto cfr., F.F. TUCCARI, L’ambito d’applicazione del
regolamento sullo Sportello Unico, in Localizzazione di insediamenti produttivi e
semplificazione amministrativa, Milano, 1999, 71 ss.
253
b)
all’art. 4, in presenza di autorizzazioni per l’insediamento di impianti
e depositi nucleari, di armamento, di olii minerali e di rifiuti, ovvero,
quando sia richiesta una valutazione di impatto ambientale, ovvero
ancora quando il privato non intenda avvalersi del procedimento
mediante autocertificazione, allo scadere di termini prestabiliti dalla
stessa norma;
c) all’art. 5, laddove è prevista la possibilità di addivenire all’adozione
della variante al piano urbanistico, su progetto presentato dal privato,
subordinatamente al ricorrere di una duplice condizione: che il
progetto sia conforme alle norme vigenti in materia ambientale,
sanitaria e di sicurezza del lavoro; che «lo strumento urbanistico
comunale non individui aree da destinare agli insediamenti produttivi
ovvero queste siano insufficienti in relazione al progetto
presentato»209. È questa l’ipotesi di maggiore applicazione nella prassi
amministrativa.
È stato affermato (TAR Pescara, n. 56 del 2005, nonché TAR Lecce,
n. 965 del 2007) che l’esito della Conferenza dei Servizi consistente - ai
sensi del comma 2 dell’art. 5 del D.P.R. 20 ottobre 1998 n. 447 - in una
proposta di variante dello strumento urbanistico su cui è chiamato a
pronunciarsi definitivamente il Consiglio comunale, non è certamente
vincolante per il Consiglio comunale, il quale deve autonomamente
valutare se aderire o meno a tale proposta (TAR Marche, l0 aprile 2004, n.
145). In questi termini, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, decc. nn. 3593
del 2007 e 1644 del 2007; in tale ultimo caso il Supremo Consesso ha
infatti ritenuto che la determinazione della conferenza dei servizi,
nell’ambito del particolare procedimento di cui al ricordato articolo 5, non
ha un immediato e diretto contenuto provvedimentale, ma rappresenta, a
sua volta, un semplice atto di impulso (proposta) dell’autonomo
procedimento (di natura esclusivamente urbanistica) volto alla variazione
del vigente piano regolatore, rientrante nelle attribuzioni esclusive dell’ente
locale.
È altresì prevista la partecipazione dei privati alla conferenza. Tale
specificazione, da taluni vista come eccezione alla regola generale del
mancato coinvolgimento dei privati, è in realtà una disposizione necessaria,
posto che, trattandosi di conferenza in materia di pianificazione urbanistica,
209
Deve segnalarsi, al riguardo, l’indirizzo giurisprudenziale ad avviso del quale
l’istanza del privato, susseguente al diniego opposto per dichiarata incompatibilità del
proposto intervento con l’attuale assetto urbanistico, risulta idonea ad imporre, in chiave
sollecitatoria e alternativa: a) l’automatica indizione di apposita conferenza di servizi
preordinata alla verifica delle condizioni per l’eventuale superamento del diniego; b)
oppure far scattare comunque l’obbligo di adeguato e compiuto riscontro motivazionale
del rifiuto di indizione.
254
la formulazione dell’art. 13 della L. n. 241/1990 ne escluderebbe la
presenza.
Non era chiaro - almeno sino all’intervento chiarificatore della Corte
Costituzionale di cui si dirà subito appresso - se il modello dello Sportello
Unico, al pari di quanto accade per la conferenza di servizi nella sua
ordinaria configurazione, si atteggiasse a mero modulo di semplificazione
procedimentale ovvero se si trattasse di un istituto modificativo dell’ordine
sostanziale delle competenze.
Parte della dottrina opinava nel senso che la normativa in parola
avesse innescato una alterazione sostanziale del quadro delle competenze,
facendo degradare gli assensi delle altre amministrazioni a mere
manifestazioni consultive non vincolanti, concentrando il potere e la
competenza in capo all’amministrazione comunale. E ciò in quanto la
normativa parla di “atti istruttori” che il comune deve acquisire dalle altre
amministrazioni competenti.
Per converso, alcuni autori ritenevano che la definitiva allocazione in
capo al comune di tutti i poteri autorizzatori sarebbe comunque risultata
difficilmente compatibile con le ulteriori disposizioni dell’art. 4; che
prevede la conclusione negativa del procedimento se «entro i termini di cui
al comma l, una delle amministrazioni di cui al medesimo comma si
pronuncia negativamente»; di qui, la volontà del legislatore di ritenere così
decisivo l’intervento delle varie amministrazioni da condizionare l’esito del
procedimento210.
Ulteriore argomento a sostegno della tesi che non vedeva una
alterazione delle competenze era da rinvenirsi - ad avviso della stessa
dottrina - nell’art. 6 del D.P.R. n. 447/1998, poiché anche in tale ipotesi «lo
sportello esercita poteri di controllo circa la regolarità, sufficienza ed
esaurienza del corredo autocertificatorio e autorizzatorio prodotto dal
richiedente, senza esprimersi sui singoli profili che costituiscono la
legittima fattibilità sostanziale dell’intervento progettato»211.
Circa la rilevanza degli apporti delle altre amministrazioni in sede di
Sportello Unico, si sono così da subito addensate nubi minacciose,
soprattutto sotto il profilo della compatibilità con il tessuto costituzionale:
ciò in quanto si qualificavano espressamente come «atti istruttori» gli atti
ed i provvedimenti propri dei diversi enti coinvolti (Stato, regioni,
province, e così via), al fine di attribuire al comune la competenza
sostanziale all’esercizio di tali funzioni: in altre parole, la «degradazione»
ad atti istruttori di cui si è detto sopra, si sarebbe concentrata in capo ad un
unico ente l’intera potestà autorizzativa, mentre ai soggetti coinvolti prima
210
211
M. SGROI, Lo Sportello Unico, cit., 194.
Ivi, 198.
255
richiamati (Stato, regioni, province e così via) sarebbe stato conservato un
potere istruttorio «non riservato» ed «eventuale».
Il conferimento ai comuni si deve invece sostanziare, ad avviso di
alcune regioni che avevano presentato ricorso davanti alla Corte
Costituzionale, «non in un effettivo spostamento della titolarità delle
funzioni quando esse attengono ad impianti produttivi, ma nella unitaria
convergenza procedimentale (e formalizzazione provvedi mentale
conclusiva) nel comune di tutte le funzioni coinvolte, ferma restandone la
titolarità in capo ai soggetti cui ordinariamente è demandata la cura dei
relativi interessi».
Con sentenza n. 376 del 2002, la Corte Costituzionale ha tuttavia
ritenuto non fondata la questione relativa alla ipotizzata alterazione di
competenze (anche in merito ai criteri di riparto costituzionale), sulla base
dei seguenti motivi:
- la disciplina sullo Sportello Unico configura una sorta di
«procedimento di procedimenti», cioè un iter procedimentale unico in cui
confluiscono e si coordinano gli atti e gli adempimenti facenti capo a
diverse competenze, richiesti dalle norme in vigore affinché l’insediamento
produttivo possa legittimamente essere realizzato;
- a seguito del D.P.R. n. 440/2000, quelli che erano, in precedenza,
autonomi provvedimenti, ciascuno dei quali adottato sulla base di un
procedimento a sé stante, diventano «atti istruttori» al fine dell’adozione
dell’unico provvedimento-conclusivo. Ciò non significa, tuttavia, che
vengano meno le distinte competenze e responsabilità delle
amministrazioni deputate alla cura degli interessi pubblici coinvolti: tanto
più che - come peraltro già evidenziato in precedenza - nel c.d.
«procedimento semplificato», ove una delle amministrazioni chiamate a
decidere si pronunci negativamente, «il procedimento si intende concluso»
(salva la possibilità per l’interessato di chiedere la convocazione di una
conferenza di servizi, modulo, questo, che si svolge secondo le-attuali
regole previste dalla L. n. 241/1990);
- la disposizione impugnata ha dunque lo scopo e la portata, assai più
modesti, di prevedere che ciascuna delle diverse amministrazioni
competenti adotti, nella propria autonomia, le misure organizzative
necessarie affinché le attività ad essa demandate siano svolte nel modo più
rapido, così da coordinare i termini stabiliti per ciascuna di tali attività con i
termini previsti per il compimento del procedimento unico di cui all’art. 25
del D.L. n. 112/1998: un’esigenza di coordinamento, questa, che si correla
naturalmente con l’intento unificante e semplificante che sta alla base della
scelta legislativa.
Ulteriore argomento che ha occupato i giudici della Consulta è stato
poi quello relativo alle competenze costituzionalmente riservate alle
regioni; si segnala al riguardo la sentenza 26 giugno 2001, n.206, con cui la
256
Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 25,
comma 2, lettera g, del decreto legislativo n. 112/1998, nella parte in cui
prevede che, ove la conferenza di servizi registri un accordo sulla
variazione dello strumento urbanistico, la determinazione costituisce
proposta di variante sulla quale si pronuncia definitivamente il Consiglio
comunale, anche quando vi sia il dissenso della Regione212.
In particolare, il Giudice delle leggi ha osservato che in applicazione
delle regole generali fissate dall’art. 14-quater della legge 7 agosto 1990, n.
241 (nella versione modificata dalla L. n. 340/2000, si evidenzia), «la
conferenza di servizi può adottare una determinazione positiva sul progetto,
non conforme allo strumento urbanistico generale, anche quando vi sia
dissenso di taluna delle amministrazioni partecipanti, e dunque anche, in
particolare, della Regione» (la legge n. 340, si rammenta, aveva introdotto
il criterio maggioritario, temperato dalla presenza di interessi sensibili tra
cui non rientrava, come noto, quello urbanistico). In tale ipotesi, Ia
previsione secondo cui la proposta di variante può essere approvata
definitivamente dal Consiglio comunale, senza l’ulteriore approvazione
regionale, equivale a consentire che lo strumento urbanistico sia modificato
senza il consenso della Regione, con conseguente lesione della competenza
regionale in materia urbanistica.
Prima dell’entrata in vigore della L. n. 340/2000, è noto che l’istituto
della conferenza di servizi prevedeva, in caso di dissenso, due meccanismi
di intervento da parte del Consiglio dei Ministri: il primo, relativo alla c.d.
determinazione sospensiva, veniva applicato in caso di dissenso «non
sensibile»; il secondo, relativo alla c.d. determinazione sostitutiva, in caso
di dissenso in materia di «interessi sensibili».
Il dissenso espresso (dalla Regione) sotto il profilo dell’impatto
urbanistico (in quanto “non sensibile” al pari di altri come il paesaggio e
l’ambiente) veniva dunque «gestito» attraverso la richiesta di
«determinazione sospensiva» al Consiglio dei Ministri (rectius, Presidente
del Consiglio dei Ministri).
Con l’approvazione della L. n. 340/2000. mentre è rimasto inalterato il
principio del «dissenso qualificato» in materia di interessi sensibili,
l’istituto della «determinazione sostitutiva» è stato invece soppresso.
Il parere non favorevole espresso in materia urbanistica sarebbe
dunque stato soggetto a superamento mediante l’applicazione del principio
di maggioranza, introdotto proprio dalla predetta legge di semplificazione
del 1999.
La Corte Costituzionale, con la sentenza n. 206/2001, ha invece
dichiarato l’incostituzionalità di tale sistema - come venutosi a creare a
212
Si vedano, sul punto, le considerazioni svolte da F. MARTINELLI, M. SANTINI,
Sportello Unico e conferenza di servizi, cit., 170 ss.
257
seguito della L. n. 340/2000 - in quanto lesivo delle prerogative
costituzionali delle regioni in materia urbanistica.
L’elemento da cui la Corte ha tratto le ragioni di illegittimità
costituzionale risiede nella mancata (e sopravvenuta) previsione di un
qualsivoglia meccanismo di valutazione di secondo grado, quale la
richiamata determinazione sostitutiva del Consiglio dei Ministri, dei motivi
del dissenso espresso dalla Regione.
In altre parole, la Corte Costituzionale - con ciò peraltro avallando
l’orientamento che il Consiglio di Stato aveva già espresso in sede
consultiva (sez. I, parere n. 1622 del 1997) - avrebbe sancito l’illegittimità
costituzionale della normativa in parola nella misura in cui non si
prevedeva, . in caso di dissenso della regione in materia urbanistica, un
intervento sostitutivo ed eccezionale da riservare ad un organo di alta
amministrazione (c.d. «salvagente».), ossia una valutazione. di secondo
grado (ora disciplinata secondo i nuovi parametri della L. n. 15/2005).
Pertanto, si deve ritenere che il dissenso della regione in tema di
Sportello Unico (espresso su qualsivoglia materia di interesse regionale,
oppure concernente interessi sensibili) sia in ogni caso da sottoporre a
valutazioni di secondo livello. La L. n. 15/2005 ha poi “ratificato” tale
impostazione attraverso la nuova disciplina del dissenso. Essa prevede
infatti che il dissenso regionale espresso in materie costituzionalmente
riservate (alle regioni stesse, si intende), e dunque anche - ma non solo quelli in tema di pianificazione urbanistica - siano anch’essi rimessi, in
aggiunta agli interessi sensibili, alle valutazioni di secondo grado della
Conferenza Stato-Regioni o di quella Unificata.
Sulla mancata partecipazione della regione ai lavori della conferenza,
oppure sulla mancanza di riscontri circa la sua posizione, ci si è già
ampiamente soffermati nel capitolo V, paragrafo 2, cui peraltro si rinvia. Si
richiamano qui, sinteticamente, le principali posizioni di coloro che, da un
lato, ne prospettano l’assoluta insuperabilità, anche in presenza della citata
decisione della Consulta (n. 206 del 2001); dall’altro lato, la tesi di chi
invece, secondo una lettura coordinata tra la sentenza n. 206 e la legge n.
15 del 2005, ne ravvisa sì l’importanza ma non l’assolutezza, ritenendo di
applicare anche alle regioni i meccanismi del silenzio-assenso, nonché
quelli sostitutivi di cui all’art. 14-quater.
258
6.1. Il Consiglio di Stato tra patologie applicative della disciplina sullo
Sportello Unico e riforma del Titolo V della Costituzione.
Il Consiglio di Stato, con parere n. 1357 del 2002 della prima
sezione213, ha avuto modo di affrontare - in parte - la tematica del
coordinamento alla luce del nuovo Titolo V, proprio con riferimento alla
conferenza di servizi che si svolge nell’ambito della procedura dello
Sportello Unico per le attività produttive.
Va rimarcato che il D.P.R. 20 ottobre 1998, n. 447, prevede,
nell’ambito della disciplina istitutiva del c.d. ‘‘Sportello Unico”, due distinte procedure per l’individuazione delle aree da destinare all’insediamento
di nuovi impianti produttivi.
La procedura di cui all’art. 2, comma l, prende avvio su iniziativa dei
comuni e si concreta in un atto avente natura pianificatori. La procedura di
cui all’art. 5, comma l, muove dall’istanza di un privato.
La Presidenza del Consiglio dei ministri - con proprio quesito rilevava in proposito “l’utilizzo massiccio” da parte di alcuni enti locali
della procedura di cui al citato art. 5, con il risultato che l’individuazione
delle aree di ubicazione degli impianti sarebbe avvenuta mediante
numerose “microvarianti” al piano regolatore. Osservava che siffatta
ripetuta applicazione dell’art. 5 è anomala e irragionevole rispetto alla
finalità della norma, e che a fronte del ricorso a singole e innumerevoli
conferenze dei servizi, la procedura prevista dall’art. 2 dello stesso D.P.R.
n. 477/1998 (oppure un accordo di programma) sarebbe stata preferibile sia
per ragioni di economia procedimentale sia, e soprattutto, perché avrebbe
consentito una più consapevole ponderazione degli interessi pubblici
coinvolti, con particolare riferimento agli aspetti relativi alla protezione
dell’ambiente e del paesaggio.
Nel formulare il quesito la Presidenza del Consiglio riteneva infatti che:
1. Sotto il profilo funzionale, attraverso l’uso abnorme dello strumento
eccezionale di cui all’articolo 5 del D.P.R. n. 447/1998, in luogo di quello
ordinario previsto dall’articolo 2 per l’adozione di varianti urbanistiche, l’autorità
amministrativa sembrerebbe avvalersi del potere di incidere sulla situazione
giuridica esistente, attraverso l’emanazione di distinti e numerosi microprovvedimenti, perseguendo sì interessi pubblici, ma con un potere diverso da
quello previsto a tal fine dalla legge; in altre parole potrebbe ravvisarsi, dal
complesso degli atti rilevabili in concreto, una non coincidenza tra funzione
istituzionale (adozione della variante su istanza di privato ex art. 5 del D.P.R. n.
447/1998) e finalità concreta (individuazione di aree produttive quale espressione
della funzione programmatoria dell’ente e riqualificazione di aree urbane.
213
M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 21-23.
259
2. Sotto il profilo dell’economia procedimentale, a fronte del ricorso a
singole ed innumerevoli conferenze di servizi (necessarie per ogni istanza di cui
all’art. 5 in parola), l’applicazione di altri strumenti normativi (art. 2 oppure
accordi di programma) sembrerebbe invece consentire di riportare ad unità attraverso l’applicazione dell’istituto in esame per una sola volta - tutte le
fattispecie particolari che possono presentarsi in una circoscritta realtà locale per
determinate situazioni contingenti (sviluppo turistico, produttivo, occupazionale,
etc.).
3. Di conseguenza, sotto il profilo del principio di buona amministrazione,
il fatto di consentire alle singole amministrazioni di poter vagliare
complessivamente ed organicamente - e non secondo una visione della realtà
ineludibilmente “parcellizzata” - tutti gli interventi che si intende realizzare in un
dato contesto territoriale, sembrerebbe poter consentire una consapevole
valutazione delle scelte urbanistiche e quindi degli aspetti relativi all’uso del
territorio, con riferimento particolare alla protezione dell’ambiente e del
paesaggio, garantire una contestuale ponderazione dei vari interessi pubblici in
giuoco, nonché assicurare un più ampio rispetto del principio di trasparenza
dell’azione amministrativa, attraverso una adeguata informazione ai cittadini in
merito alla definizione delle predette scelte di piano.
Ciò premesso, la Presidenza chiedeva di conoscere se, in presenza di
un procedimento avviato ai sensi dell’art. 5 del D.P.R. n. 477/1998, potesse
“in primo luogo” chiedere all’amministrazione locale procedente
“l’esistenza o meno - e la relativa quantificazione - di altri procedimenti
analoghi” e se, “nel caso in cui si rilevi un utilizzo abnorme di questo tipo
particolare di conferenze”, potesse “rimettere l’istanza e tutti gli atti
connessi alla medesima amministrazione, indicando a tal fine la corretta
procedura (ordinaria) da utilizzare”.
Nel rilevare che al Dipartimento per il coordinamento amministrativo
della Presidenza del Consiglio, in quanto preposto all’attività istruttoria,
spetta, per regola generale, di acquisire tutti gli elementi utili per l’adozione
del provvedimento conclusivo da parte del Consiglio dei ministri, il
Consiglio dì Stato ha affermato che, in questa prospettiva, nulla impedisce
che il Dipartimento medesimo accerti, nell’ambito del procedimento di cui
al citato art. 5 del D.P.R. n. 477/1998, il numero e la distribuzione nel
territorio comunale degli impianti produttivi esistenti e di quelli previsti da
altri progetti presentati da privati, trattandosi di dati e circostanze
suscettibili, in linea astratta, di assumere rilievo ai fini della composizione
degli interessi risultati configgenti in sede di conferenza di servizi.
Qualora dall’istruttoria emerga l’inadeguatezza della singola
microvariante in considerazione della pluralità e della tipologia dei progetti
in corso di esame o per altre ragioni, egualmente nulla impedisce che il
Dipartimento inviti in primo luogo l’amministrazione locale a valutare
l’opportunità di avviare un procedimento di revisione dello strumento
260
urbanistico più ampio ed incisivo di quello realizzabile in sede di
applicazione del citato art. 5.
Tuttavia - prosegue il Consiglio di Stato - al Dipartimento non
competono, né potrebbero competere a pena di illegittimità costituzionale
della fonte normativa, poteri di controllo o di indirizzo nei confronti degli
enti locali. Sicché l’invito può assumere soltanto i caratteri di un apporto
collaborativo fra amministrazioni pubbliche, che è sempre possibile anche
in mancanza di una espressa previsione legislativa.
In quanto tale, l’iniziativa del Dipartimento non è idonea a porre
vincoli all’amministrazione destinataria, alla quale l’ordinamento riconosce
un ampio potere discrezionale circa gli strumenti urbanistici da adottare e le
scelte sostanziali da effettuare in tema di pianificazione del territorio.
Per compiutezza di esame - aggiunge il Consiglio di Stato - nel caso in
cui emerga, dai dati acquisiti in sede istruttoria, un “uso abnorme dello
strumento eccezionale di cui all’art. 5 del D.P.R. n. 447/1998”, ciò dovrà
trovare specifica considerazione da parte del Consiglio dei ministri (ora la
Conferenza Unificata, secondo la L. n. 15/2005) il quale, essendo preposto
a risolvere il dissenso manifestatosi nella conferenza dei servizi, è tenuto ad
effettuare una valutazione comparativa di tutti gli interessi coinvolti. Ove,
poi, l’incongruità della “micro-variante” assumesse tale consistenza da far
emergere una divergenza fra la funzione istituzionale dell’atto e il risultato
concreto che ne conseguirebbe a causa della moltitudine delle “microvarianti” e del conseguente pregiudizio in termini di corretta utilizzazione
del territorio comunale, non resterebbe che rigettare l’istanza, per non
incorrere nel vizio di eccesso di potere. In tal caso, dalla motivazione del
provvedimento l’amministrazione comunale potrà trarre spunto per avviare
quei procedimenti di natura pianificatoria che consentirebbero di affrontare
il problema dell’ubicazione del nuovo impianto, nel quadro di una
valutazione complessiva degli aspetti relativi all’uso del territorio.
Dunque, secondo il Consiglio di Stato l’amministrazione centrale ben
può escogitare forme di leale collaborazione anche non espressamente
contemplate dalla legge, purché questo non si traduca, surrettiziamente, in
un potere di indirizzo e coordinamento di tipo gerarchico-sovraordinato,
che non sarebbe altrimenti ammesso sulla base del nuovo assetto dei poteri
costituzionali.
Ribadisce, infine, che in caso di accertata e conclamata, illegittimità
dell’operato dell’ente locale (surrettizie micro-varianti che in realtà celano
macrovarianti), il Consiglio dei ministri (ora la Conferenza Unificata), sul
fondamento dei poteri che ad esso sono conferiti dalla (attuale) legge sul
procedimento amministrativo, ben può adottare una determinazione
sostitutiva di segno negativo, ossia respingere - in buona sostanza - le
istanze presentate in conferenza di servizi ed avallate dall’amministrazione
comunale.
261
7. Altre procedure
7.1. Interventi in materia di telecomunicazioni
In materia di comunicazioni, con particolare riguardo alla installazione di impianti ed alla realizzazione di infrastrutture di telecomunicazioni, sia il D.L. n. 198/2002 (dichiarato incostituzionale dalla citata
sentenza n. 303 del 2003), sia il D.L. n. 259/2003 (c.d. “Codice delle comunicazioni elettroniche”), che recepisce integralmente l’impostazione del
decreto dichiarato incostituzionale, prevedono semplicemente, ai fini del
rilascio delle prescritte autorizzazioni ed in caso di dissenso preventivo, il
rinvio alla normativa generale sulla conferenza di servizi, fissando - quale
caratteristica peculiare - il termine di conclusione del procedimento a trenta
giorni (in luogo di novanta).
Si rileva uno sfasamento nella formulazione del comma 6 del richiamato art. 87, dal momento che si prevede, quale presupposto per la convocazione della conferenza di servizi, l’eventualità che “una amministrazione
interessata abbia espresso motivato dissenso”; in tal caso, l’amministrazione procedente “convoca, entro trenta giorni dalla ricezione della
domanda, una conferenza di servizi”. A parte ogni considerazione circa la
mancata fissazione di un termine entro il quale deve essere manifestato (per
iscritto) il dissenso delle amministrazioni, non si comprende, sul piano
temporale, il collegamento tra la presentazione dell’istanza di autorizzazione da parte dell’interessato e l’eventuale diniego di una delle amministrazioni interessate.
In questa occasione sarebbe stato ancor più necessario evitare, con
tutta probabilità, la c.d. “fuga dal procedimento”, atteso che la normativa
generale pone in essere dei termini e delle modalità di intervento
sicuramente più chiare di quelle appena delineate.
Nella normativa anzidetta non vi è tra l’altro alcun riferimento, al
contrario del decreto “sbloccacentrali”, alla necessità di acquisire in ogni
caso l’assenso regionale (si rammenta che la materia delle comunicazioni,
al pari dell’energia e del governo del territorio, è di competenza concorrente): il comma 8 dell’art. 87 del “Codice” prevede infatti la rimessione
degli atti al Consiglio dei ministri nelle sole ipotesi di dissensi espressi in
materia di interessi sensibili (salute, ambiente, patrimonio storico-artistico),
peraltro senza distinguere tra amministrazioni statali o regionali, e senza
nemmeno inserire tra gli interessi sensibili il paesaggio.
In altre parole, sarebbe prevista la rimessione delle decisione al
Consiglio dei ministri (e non ai competenti organi collegiali di riferimento
territoriale) praticamente in ogni caso, ossia anche in ipotesi di interessi
esclusivamente locali o regionali: infatti, ove l’amministrazione procedente
sia comunque un ente locale, ai sensi dell’art. 87, comma 2, l’amministra262
zione dissenziente in tema di interessi sensibili potrebbe essere non solo
una amministrazione statale, ma una qualsiasi amministrazione, dunque
anche regionale214.
Alla luce di quanto appena considerato, le discrasie sopra evidenziate
potrebbero presentare profili di dubbia costituzionalità, costituendo esse
stesse ipotesi addirittura contrarie rispetto al quadro normativo antecedente
alla riforma costituzionale del 2001215.
7.2. Norme in materia di rifiuti
Come noto, il D.L. n. 22/1997, detto anche “decreto Ronchi”, prevede
l’attuazione della normativa comunitaria in tema di smaltimento di rifiuti.
In particolare l’art. 27.prevede, ai fini della autorizzazione alla
realizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero, la presentazione
di una domanda alla Regione; la quale convoca una apposita conferenza cui
partecipano i responsabili degli uffici regionali competenti, i rappresentanti
degli enti locali interessati ed il richiedente medesimo.
Entro novanta giorni dalla sua convocazione, la conferenza procede
alla valutazione dei progetti, acquisisce tutti gli elementi relativi alla compatibilità del progetto con le esigenze ambientali e territoriali, ivi compresa,
qualora prevista dalla normativa vigente, la valutazione di impatto
ambientale; infine, trasmette le proprie conclusioni con i relativi atti alla
giunta regionale.
Entro trenta giorni dal ricevimento delle conclusioni della conferenza,
e sulla base delle risultanze della stessa, la Giunta regionale approva il progetto e autorizza la realizzazione dell’impianto. L’approvazione sostituisce
ad ogni effetto visti, pareri, autorizzazioni e concessioni di organi regionali,
214
Si rammenta, in proposito, che l’art. 146 del D.L. n. 42 del 2004 (Codice dei beni
culturali), ha eliminato l’annullamento ministeriale del nulla osta paesaggistico (che nel
precedente regime, pur con qualche fondato dubbio interpretativo, legittimava la
presenza in conferenza della soprintendenza con poteri di voto, e dunque con eventuale
rimessione al Consiglio dei ministri in caso di dissenso espresso in posizione di
minoranza), trasformandolo in un parere obbligatorio ma non vincolante. Si discute
allora se la Soprintendenza, pur potendo partecipare alla conferenza di servizi, possa
continuare ad esercitare il diritto di voto (altrimenti il suo dissenso potrebbe innescare il
ricorso al Consiglio dei ministri, e dunque surrettiziamente traducendosi in un neopotere sostanzialmente di annullamento). Dunque, solo l’amministrazione regionale
potrebbe esprimere dissenso sui profili paesaggistici. Ma se amministrazione procedente
è un ente locale, e amministrazione dissenziente un ente regionale (ipotesi ricavabile
dalla lettura dell’art. 87 del codice delle comunicazioni), come è possibile che sulla
decisione definitiva intervenga il Consiglio dei ministri (contrariamente. alla L. n.
15/2005, che in questi casi prevede l’intervento della Conferenza Unificata), senza
nemmeno, acquisire l’intesa con la regione interessata?
215
Cfr. M. SANTINI, Conferenza di servizi e Titolo V, cit., 1014.
263
provinciali e comunali, costituendo altresì, ove occorra, variante allo strumento urbanistico comunale, e comportando, al tempo stesso, dichiarazione
di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei lavori.
Si tratta dunque di una conferenza istruttoria. Ciò trova conferma nella
giurisprudenza del Consiglio di Stato, ove si afferma (sez. V, n. 3917 del
2002) che “la conferenza dei servizi prevista dall’art. 27 del Decreto
legislativo 22/1997 ha natura istruttoria, come si evince con chiarezza dal
testo della norma che prevede la presentazione delle conclusioni della
Conferenza alla regione perché provveda su tale base ma in modo
evidentemente autonomo”.
Come anche evidenziato dal TAR Piemonte nella decisione n. 2953
del 2006, la determinazione conclusiva di volontà, nell’ambito del potere
discrezionale riconosciuto, è infatti riconducibile unicamente alla Regione,
senza che le conclusioni della conferenza di servizi possano ritenersi in
qualche modo vincolanti. Se l’organo decidente motiva in maniera congrua
rispetto alla decisione assunta, pur in presenza di una conclusione opposta
della conferenza di servizi, il relativo provvedimento non può essere
considerato illegittimo, atteso che l’organo istruttorio, come ribadito
dall’art. 27 citato, si limita a valutare il progetto e ad acquisire elementi
legati alla compatibilità territoriale e ambientale, trasmettendo le proprie
conclusioni, appunto per la autonoma valutazione finale, all’organo
competente ad assumere la decisione.
7.3. Disposizioni in materia di ferrovie.
L’art. 19, comma l-ter, del decreto L. n. 457/1997, convertito in L. n.
30/1998, prevede che per la approvazione dei progetti di opere concernenti
reti ferroviarie sia appositamente indetta una conferenza di servizi, ai sensi
della L. n. 241/1990.
Tale disposizione deve essere letta contestualmente alla L. n.
210/1985, la quale prevede che la adozione dei progetti di opere ferroviarie,
se previste nel piano generale dei trasporti, produce gli effetti di cui al
primo comma dell’articolo l della legge 3 gennaio 1978, n.1216, ossia la
dichiarazione (implicita) di pubblica utilità, urgenza ed indifferibilità dei
lavori. I progetti sono inoltre comunicati alle regioni e agli enti locali
interessati per la verifica di conformità urbanistica. In caso di non
conformità, si promuove l’intesa tra Stato, regioni ed enti locali, per
apportare la relativa variante (prima era prevista un accordo di programma,
ora, dopo la L. n.30/1998, la conferenza di servizi). Se l’intesa non si
216
Si vedano sul punto le ampie considerazioni di A. RANCI, Grandi strutture di
vendita: novità in tema di conferenza dei servizi (nota a sentenza tar marche n.
976/2004), in “www.diritto.it”, dicembre 2004.
264
realizza entro novanta giorni, si provvede, sentite le regioni interessate e la
commissione parlamentare per le questioni regionali, con decreto del
Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei
Ministri, su proposta del Ministro dei Trasporti (dunque, la procedura
prevista dall’art. 81, quarto comma, del D.P.R. n. 616/1977).
Raccordando le citate fonti normative, si deve concludere, in sintesi,
che la conferenza di servizi convocata in materia di opere ferroviarie è
diretta sia alla localizzazione del tracciato, sia alla approvazione del
progetto (dunque, è una conferenza “complessa”).
È quanto emerge, peraltro, nella decisione n. 1443 del 2004 della sesta
sezione del Consiglio di Stato, chiamato a pronunciarsi, in particolare, sulla
corretta scansione delle diverse fasi in cui si articola la conferenza stessa.
Nel caso di specie, la conferenza era stata convocata in due distinti
momenti: prima per la localizzazione dell’opera, poi per la relativa
progettazione (e conseguente dichiarazione di pubblica utilità, con
indicazione dei termini di inizio ed ultimazione lavori).
Alcuni ricorrenti (le cui proprietà ricadevano all’interno del tracciato
ferroviario, e dunque soggette ad atti ablativi) lamentavano il fatto di non
essere stati destinatari di comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi
dell’art. 7 della L. n. 241/1990 (cfr. Ad. Plen., n. 14 del 1999).
Tale comunicazione non si era effettivamente riscontrata in occasione
della prima conferenza (localizzazione); diversamente, in vista della
seconda conferenza (progettazione) si era invece provveduto in tal senso.
Secondo il Consiglio di Stato, occorre stabilire quale sia la fase di
effettiva approvazione del progetto, onde stabilire il momento in cui
occorreva procedere alla predetta comunicazione: rileva, dunque,
l’incertezza circa il valore di dichiarazione di pubblica utilità da
riconoscersi a determinati atti approvati del progetto esecutivo intervenuti
nel corso del procedimento; incertezza che “può essere risolta solo
utilizzando canoni ermeneutici; strutturali e funzionali; che, analizzando la
struttura e lo scopo di ogni atto, e poi il nesso di presupposizione e
teleologico fra gli atti, consentano di interpretare lo svolgersi, nel
procedimento, della complessa attività amministrativa in esame, secondo i
parametri legalmente stabiliti, complessivamente intesi, ed assegnando a
ciascun atto il valore conforme all’intento voluto realizzare dalla p.a. e
reso palese dalla successione degli atti medesimi’’.
Dal combinato disposto delle richiamate norme (L. n. 30/1998 e L. n.
210/1985, nonché altre disposizioni di settore, tra cui il D.P.R. n.
383/1994), si evince come i due momenti approvativi (localizzazione e
progetto definitivo) debbano avvenire - almeno in teoria - in un unico
contesto procedimentale.
Tale condizione (concentrazione dei due momenti approvativi:
localizzazione e progettazione) si verifica, tuttavia, a condizione che alla
265
procedura di localizzazione partecipi altresì l’ente titolare ad emanare il
provvedimento finale di approvazione progettuale, ossia Ferrovie s.p.a.: ciò
in quanto la conferenza di servizi non può in alcun modo alterare l’assetto
delle rispettive competenze amministrative.
Pertanto, poiché Ferrovie era assente alla prima conferenza di servizi,
si deve ritenere che questa abbia avuto esclusivamente ad oggetto la
localizzazione dell’opera. La seconda conferenza, convocata da Ferrovie
s.p.a., aveva invece ad oggetto - di conseguenza - la successiva fase di
(definitiva) approvazione progettuale, nonché la relativa dichiarazione di
pubblica utilità dell’opera: per questi motivi, si doveva dunque ritenere
correttamente adempiuto l’obbligo di comunicazione di avvio del
procedimento, che aveva preceduto la convocazione della conferenza
stessa, proprio perché era a quel momento che erano riferibili le decisioni
destinate ad incidere sugli assetti proprietari degli interessati.
Si ritiene che, in questo caso, il Consiglio di Stato abbia fatto un corretto,
quanto opportuno, utilizzo di alcuni principi dell’ordinamento giuridico,
quali la conservazione degli atti giuridici, nonché l’efficienza causale degli
atti e degli apporti dei privati nel procedimento.
7.4. Disposizioni in materia di commercio
Il D.L. n. 114/1998, recante come noto disposizioni di riforma nel
settore del commercio, prevede, all’art. 9 (grandi strutture di vendita), che
l’apertura, il trasferimento di sede e l’ampliamento della superficie di una
grande struttura di vendita sono soggetti ad autorizzazione rilasciata
dal’comune competente per territorio.
La domanda di rilascio dell’autorizzazione è esaminata da una
conferenza di servizi indetta dal comune, composta da tre membri, in
rappresentanza, rispettivamente, della Regione, della provincia e del
comune medesimo.
Le deliberazioni della conferenza sono adottate a maggioranza dei
componenti, entro novanta giorni dalla convocazione; il rilascio dell’autorizzazione è inoltre subordinato al parere favorevole del rappresentante
della Regione.
Peraltro; alle riunioni della conferenza di servizi partecipano, a titolo
consultivo; i rappresentanti dei comuni contermini, delle organizzazioni dei
consumatori e delle imprese del commercio più rappresentative del relativo
bacino d’utenza.
Circa la natura giuridica, in senso procedimentale o sostanziale, di tale
conferenza e dei connessi effetti, anche processuali, delle sue decisioni, si è
266
occupato il TAR Marche, con la sentenza n. 976 del 2004217.
Nel ribadire in sostanza l’orientamento tradizionale (diretto a configurare la
conferenza quale mero modulo procedimentale di semplificazione), il TAR
afferma che, al contrario, la conferenza di servizi disciplinata dall’art. 9 del
D.L. n. 114/1998 e dall’art. 13 della Legge Regione Marche n. 26/1999, in
materia di distribuzione commerciale, configura una sorta di attribuzione,
ai tre membri che la compongono (regione, provincia e comune), di una
vera e propria competenza collegiale di carattere decisorio.
La conferenza assume, in tali ipotesi, i connotati di un vero e proprio
“organo straordinario”, e dunque sostanziale, “con il compito di valutare le
domande e con poteri autonomi ed ulteriori rispetto a quelli propri di
ciascuna Amministrazione partecipante”: essa, pertanto, diventa legittimata
passiva in sede giurisdizionale.
Il Tar conclude in sostanza per l’inammissibilità dei ricorsi, non solo
per mancata impugnazione della delibera della Conferenza, ma anche per la
mancata loro notifica alla Conferenza medesima, quale appunto “organo
straordinario”.
Numerosi sono gli indici sintomatici che depongono per la
soggettività di tale organismo peculiare, tra cui:
a) la funzione decisoria nettamente riconosciuta ai tre membri
componenti della Conferenza, rispetto alla funzione meramente
consultiva di altri soggetti eventualmente convocati;
b) la possibilità per la Conferenza di decidere a “maggioranza” dei
componenti;
c) il ruolo ancillare del Comune, il quale, ottenuto il parere favorevole
della Conferenza, “deve” rilasciare l’autorizzazione. Afferma a tale
proposito il TAR. Marche che il funzionario responsabile del
procedimento è privo di un proprio potere valutativo - egli può solo
rilasciare l’autorizzazione, oppure negarla, se il parere della
conferenza è negativo (si veda invece la conferenza indetta ai sensi
della legge generale, che impone di “tenere conto”, ma non di
‘‘ratificare” supinamente, le posizioni prevalentemente espresse in
quella stessa sede);
d) la predeterminazione normativa delle amministrazioni tenute a
partecipare alla conferenza, mentre la legge generale sul procedimento
non dispone che singole amministrazioni compongano, ossia
costituiscano, la Conferenza.
Pur se apparentemente in controtendenza rispetto all’orientamento
maggioritario, in realtà ne conferma indirettamente la validità: si afferma
infatti, da parte dei, giudici marchigiani, come la tesi dell’organo collegiale
sia validamente sostenibile sì, ma limitatamente alla ipotesi della
217
In Diritto & Diritti, dicembre 2004, con nota di A. RANCI.
267
conferenza prevista dalle disposizioni di cui al D.L. n. 114 del 1998 (e
relative norme regionali di attuazione), che delinea un modello
procedimentale speciale e caratterizzato da tratti di assoluta peculiarità
rispetto ai meccanismi contemplati nella legge generale sul procedimento.
7.5. Interventi per i Giochi olimpici invernali «Torino 2006»
La legge 9 ottobre 2000, n. 285, reca disposizioni per la realizzazione
di impianti sportivi, infrastrutture olimpiche e viarie, necessari allo
svolgimento dei XX Giochi olimpici invernali «Torino 2006».
Ai fini della approvazione dei relativi progetti definitivi, la giunta
della Regione Piemonte convoca, ai sensi dell’art. 9 della legge, una
conferenza di servizi, senza tuttavia fare riferimento alcuno alla disciplina
contemplata dalla L. n. 241/1990.
Ed infatti, tale disposizione prevede anche la possibilità di apportare
variazione agli strumenti urbanistici: la conferenza ha dunque carattere
sostanziale, e non meramente procedimentale.
Si conserva inoltre l’istituto della determinazione sospensiva, in caso
di dissenso espresso in tutte le materie diverse dagli interessi sensibili. Non
viene previsto, in altre parole, il principio di maggioranza, temperato dalla
presenza di determinati interessi, come sarà previsto - di lì a poco - dalla L.
n. 340/2000. Ci si chiede, in proposito, se la L. n. 241/1990, come
successivamente modificata, non debba prevalere ed essere applicata in
luogo della legge in commento. Deve tuttavia rilevarsi, in proposito, che la
sentenza della Corte Costituzionale n. 206/2001 ha in sostanza censurato la
possibilità per l’amministrazione procedente di mettere nel nulla - mediante
l’applicazione del criterio di maggioranza - l’eventuale dissenso proposto
da enti territoriali in materia urbanistica, in assenza di una norma che
garantisca la possibilità di ricorrere ad una valutazione di secondo grado.
Per quanto, in tale ipotesi, gli interessi urbanistici vengano prevalentemente
tutelati dalla regione che, nel caso di specie, è pure amministrazione
procedente, e dunque in grado di influenzare in modo determinante, a
monte del processo, le sorti di un progetto infrastrutturale considerato non
conforme ai parametri ed agli obiettivi di piano perseguiti.
7.6. Lo Sportello Unico per l’edilizia
L’art. 5 del D.p.R. 6 giugno 200 l, n. 380 (Testo Unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) prevede che, ai
fini del rilascio del permesso di costruire, lo Sportello Unico per l’edilizia,
ufficio comunale deputato a gestire tutti i rapporti tra il privato e le
268
amministrazioni coinvolte, da un lato acquisisce direttamente i pareri
dell’ASL e dei vigili del fuoco (comma 3); dall’altro si preoccupa (comma
4) di acquisire, anche mediante conferenza di servizi di cui alla L. n.
241/1990, tutti gli altri assensi necessari (dissesto idrogeologico, autorizzazione paesistica, aree protette, servitù militari, marittima, doganale, zona
sismica, ecc.).
Da una lettura integrata dei due commi, sembra evincersi che i due
pareri dell’ASL e dei vigili del fuoco - probabilmente a causa della loro
particolare delicatezza ed importanza - non possono essere acquisiti in
conferenza di servizi, ma fuori di essa, soprattutto per evitare che i
meccanismi introdotti all’uopo dalla L. n. 340/2000 (criterio della
maggioranza e comunque superamento, seppure in seconda battuta, degli
interessi sensibili), possano seriamente mettere a rischio valori
costituzionalmente tutelati come la salute e la pubblica incolumità. Dubbi,
per vero, fugati anche dal recente intervento normativo che ha posto al
primo piano la tutela della stessa pubblica incolumità.
8. Post scriptum
Va rilevato, infine, come su molti profili sin qui scrutinati siano,
ancora di recente intervenute interessanti novità di derivazione comunitaria.
Fra queste, merita certamente segnalazione il già cennato d.p.r.
106/2010, in tema di S.U.A.P. (il quale ha irrobustito e rivitalizzato
l’istituto dello “ sportello unico” introdotto nel 1998), la nuova normativa
in tema di pianificazione strategica, nonché, più in generale, i recentissimi
decreti “Salva ,cresci e semplifica Italia” , che il Governo Monti, in uno
con le riforme delle pensioni, del mercato del lavoro e del fisco, ha varato
con l’obiettivo di rendere il Paese più aperto alla concorrenza, eliminando,
quanto più possibile, lacci e lacciuoli della pesante macchina burocratica
dello Stato (sotto questo profilo, si staglia la sperimentazione in molte aree
del Paese, non solo a Sud, di zone a c.d. “burocrazia zero”, varata con la
legge di stabilità 2012) e, dall’altro, di contenere, in un contesto di
drammatica oscillazione economico-finanziaria, frutto avvelenato della
perdurante crisi internazionale, le uscite pubbliche, razionalizzandole a
seguito anche di processi di spending review (revisione delle spese).
Come a dire, in un ideale chiusura del discorso avviato nel I capitolo
della I parte, che se il mondo dell’economia corre, seppure verso l’ignoto,
quello del diritto cerca, per lo meno,e ora più che mai, di non starsene a
guardare.
269
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