l`importanza del contesto come matrice di significati nella

L’IMPORTANZA DEL CONTESTO COME MATRICE DI SIGNIFICATI
NELLA PRESA IN CARICO DEL SOGGETTO TOSSICODIPENDENTE
ALL’INTERNO DEL CARCERE
DOTT.SSA TIZIANA TEDOLDI
PSICOLOGA-PSICOTERAPEUTA
L’Autore utilizza come modello teorico di riferimento, il pensiero sistemico e
l’epistemologia cibernetica. All’interno di questo paradigma, l’attenzione è posta sui
modelli interattivi che connettono i sistemi osservanti (terapeutici) con quelli
osservati (pazienti-utenti), in una struttura retroattiva nella quale la denominazione
osservatore sta ad indicare, sempre, la relazione osservatore-osservato.
Ci si muove nell’ambito di una visone cibernetica che aiuti a vedere gli eventi come
organizzati dal processo ricorsivo della retroazione, all’interno del quale l’accento è
posto sulla costruzione dei significati da parte delle persone e sulla loro evoluzione
nel tempo.
Coerentemente con queste premesse epistemologiche, il significato dell’accoglienza e
della presa in carico del soggetto tossicodipendente all’interno del carcere viene
esplorato attraverso la descrizione del contesto come matrice di significati, nel quale,
le rappresentazioni dei sistemi interagenti (i diversi operatori isituzionali, i
rappresentanti del volontariato, gli utenti) concorrono a costruire la realtà nella sua
fenomenologia. Viene sottolineata l’importanza di un cambiamento epistemologico
nella presa in carico del soggetto tossicodipendente che deve riguardare sia l’analisi
della domanda, sia la ridefinizione del momento diagnostico come evento contestuale
e processo interazionale. Vengono, infine, evidenziate le caratteristiche specifiche
del contesto detentivo, e, conseguentemente, i vincoli e le possibilità che da questo
emergono nel lavoro terapeutico con il soggetto tossicodipendente.
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L’IMPORTANZA DEL CONTESTO COME MATRICE DI SIGNIFICATI
NELLA PRESA IN CARICO DEL SOGGETTO TOSSICODIPENDENTE
ALL’INTERNO DEL CARCERE
Relatore:
TIZIANA TEDOLDI
psicologa - psicoterapeuta
1. Premessa
All’interno dell’istituzione detentiva ,ci si muove in un contesto che è una matrice
di significati ( Bateson G., 1975), un intreccio di molteplici rappresentazioni dove la
figura del soggetto detenuto emerge dall’intersezione di molteplici livelli interattivi:
il rapporto che stabilisce con gli operatori dell’area trattamentale penitenziaria,
(educatori, assistenti sociali, esperti ex art.80), con gli agenti di polizia penitenziaria,
con gli insegnanti, con i volontari e, ovviamente con gli operatori delL’equipe carcere
del S.ert.. Lavorare a diretto contatto con l’utenza detenuta, significa tenere
costantemente presente questa dimensione contestuale che diventa sempre più
complessa man mano che i livelli interattivi, sui quali si scambiano rappresentazioni e
significati, aumentano.( Tedoldi, 2004)
In considerazione di quanto premesso si sottolinea la necessità di adeguare
l’intervento psicologico al contesto specifico nel quale lo psicologo si trova ad
operare.
Ciò significa prendere in considerazione diversi livelli di rappresentazione connessi
fra di loro in modo ricorsivo:
le rappresentazione del mondo giudiziario e penitenziario come sistema
istituzionale nell’esercizio delle sue funzioni legislative ,organizzative, di
controllo e trattamentali
1) le rappresentazioni della popolazione detenuta
2) le rappresentazione dei vari enti, istituzionali e non (scuola, enti di formazione
professionale, comunità terapeutiche, associazioni religiose) come erogatori di
prestazioni specifiche e come soggetti che intervengono in un contesto
istituzionale diverso, rispetto a quello usuale (erogazione dei servizi sul territorio)
La presa in carico del soggetto, al momento del suo ingresso in carcere pone problemi
specifici che non si riscontrano in altri contesto operativi. La condizione detentiva
tende infatti, per sua natura, ad isolare il soggetto recluso dal contesto sociale
esterno; in questo senso, le regole e l’organizzazione del carcere tendono a portarlo
ad una condizione di adattamento alla micro- realtà interna, in un processo che Serra
(1981) definisce come passaggio dal disadattamento sociale all’adattamento
istituzionale.
Va tuttavia sottolineato che, all’interno di questo processo, Il significato del contesto
istituzionale non è, universalmente e aprioristicamente condiviso, ma dipende dalle
costruzioni che, di volta in volta, i soggetti detenuti ne fanno, e che sono, a loro
volta, ricorsivamente connesse all’azione, secondo ciò che Varela (1979) definisce
il circolo ermeneutico di interpretazione e azione:“In ogni momento, l'osservatore si
rapporta al sistema con una comprensione che modifica la sua relazione col sistema"
(ibidem).
Può quindi accadere che il processo di adattamento avvenga in tempi diversi per
soggetti diversi, sia vissuto in modo più o meno traumatico in relazione all’età del
soggetto, alla lunghezza della pena, alla presenza di malattie invalidanti,
all’importanza attribuita dal soggetto agli elementi contestuali della vita all’esterno
(lavoro, affetti familiari, ecc).
All’interno di questo processo si osservano spesso manifestazioni di “sindromi
transcontestuali” (Inglese,2000), che derivano dall’improvvisa sovrapposizione di
contesti di significato differenti che possono condurre il soggetto a mettere in crisi
il senso della propria identità personale e la certezza sulla comprensibilità del
mondo. La sindrome transcontestuale provoca una disintegrazione degli usuali
indicatori di contesto che orientano la reazione comportamentale e cognitiva del
soggetto, favorendo la contaminazione fra contesti diversi in modo contemporaneo.
Ad esempio, un soggetto tratto in arresto e tradotto in carcere, vive l’esperienza
traumatica del passaggio da un contesto, quello della vita esterna formato da
abitudine e stili di vita peculiari, a quello interno, che si presenta con tutta la
imprevedibilità di un nuovo contesto che nega o afferma, in opposizione, una rete di
significati alternativi che sono spesso poco comprensibili all’inizio e che richiedono
un grande sforzo di adattamento. Per cui accade che, specialmente in soggetti giovani
e tossicodipendenti alla prima esperienza detentiva, la messa in crisi del proprio
universo personale di significati
produca una reazione comportamentale,
caratteristica per la drammaticità delle sue manifestazioni, che può concretizzarsi in
gesti autolesivi o tentativi di suicidio. Al contrario se il soggetto fin dal suo ingresso
in carcere, accetta di adeguarsi alla realtà istituzionale, inizia a ridefinire le proprie
esigenze e il proprio ruolo, sulla base di nuove premesse e modelli relazionali. Tale
adeguamento fra sistemi di rappresentazioni diversi, favorisce nel soggetto una
diminuzione del livello di disagio e di malessere che ha ,però, come conseguenza, la
parziale rinuncia all’affermazione della propria identità personale. Il soggetto finisce
con il ridefinire sé stesso all’interno di un sistema che non può controllare e nei
confronti del quale può tendere ad ingaggiare una relazione di tipo strumentale e
mistificante per poterne ottenere i favori (lavoro, misura alternative, ecc).
In conclusione si può affermare che qualsiasi operatore che entri in carcere, deve
confrontarsi con l’insieme di valori e norme che la cultura detentiva rappresenta e
tenere in considerazione il fatto che qualsiasi interazione con il soggetto detenuto non
può prescindere da questo universo rappresentazionale.
2. Vincoli e possibilità terapeutiche in ambito detentivo: la presa in carico
psicologica
Le condizioni che provocano l’incontro fra lo psicologo e il soggetto detenuto sono
diverse e in esse si intrecciano elementi di domanda espliciti ed impliciti in una
matassa di significati, motivazioni, aspettative che, di volta in volta, deve essere
accuratamente dipanata.
All’interno di questo ventaglio di situazioni, le rappresentazioni del detenuto rispetto
alla figura dello psicologo, ma, anche, più in generale di altri operatori, come
l’educatore o l’assistente sociale, oscillano all’interno di uno spettro di
rappresentazioni ai cui estremi si collocano le polarità contrapposte, che identificano
l’operatore come esecutore di una funzione di valutazione e controllo oppure come
mediatore e protettore delle proprie istanze (Pantosti G., Pellegrini E., 1989). Il
modello prevalente di rappresentazione dell’operatore può portare il soggetto
detenuto ad assumere atteggiamenti congruenti con quelle attribuzioni che, a seconda
dei casi, possono manifestarsi come rivendicazione e intimidazione oppure
indifferenza allontanamento e, talvolta, inversione dei ruoli, drammatizzazione e
seduzione.
Va inoltre considerato che , il soggetto detenuto, tende a polarizzarsi su temi specifici
che, da una parte, riguardano problemi specifici legati alla condizione di isolamento
e convivenza coatta tipici di una situazione di restrizione della libertà personale,
quali, ad esempio, difficoltà relazionali con i compagni detenuti o con gli agenti di
custodia, preoccupazioni per la famiglia lontana e irraggiungibile, difficoltà ad
accettare la situazione detentiva, richieste d’intervento per la valutazione di misure
alternative
La situazione diventa anche più complessa quando il soggetto oltre ad essere
detenuto è anche tossicodipendente.
Il numero delle variabili interagenti aumenta.
La richiesta d’aiuto del detenuto tossicodipendente può avere significati diversi che
dipendono dalle sue aspettative, dal modo in cui si rappresenta le persone che lo
prendono in carico, da come ha costruito simbolicamente il suo rapporto con il
servizio Ser.T nel corso del tempo, e da come si rappresenta la funzione di quel
servizio ( ad es. nel rapporto con l’istituzione carceraria , con le comunità del
territorio, con altri servizi territoriali ). Le risposte che vengono date dagli operatori
sono, ovviamente dipendenti dai loro sistemi rappresentazionali e possono essere
condizionati da una conoscenza pregressa del soggetto, dal modo in cui egli si pone
all’interno del contesto detentivo e dai significati che essi attribuiscono ai suoi
atteggiamenti e comportamenti.
Infatti, se ogni rappresentazione è informata retroattivamente, in una processualità
circolare (Bateson,1972), dalle rappresentazioni dell’altro e dalle sue azioni, diventa
allora giocoforza riflettere su come l’insieme di significati che l’operatore attribuisce
al soggetto e alla relazione con esso, condizioni, non solo la relazione, ma anche
l’immagine che il soggetto si crea di sé stesso.
Per quanto concerne la presa in carico psicologica del soggetto, spesso ci si trova di
fronte a richieste soggettive di intervento confuse all’interno delle quali il soggetto
solo raramente è in grado di specificare con sufficiente chiarezza i motivi della sua
richiesta.
Risulta evidente che è necessario avviare un cambiamento epistemologico di cui
l’analisi della domanda ( Carli ,De Coro, Giannelli, Costanza, 1993) diventa lo
strumento metodologico necessario per avviare un processo trasformativo all’interno
del quale l’operatore e l’utente condividono le premesse epistemologiche di fondo.
L’analisi della domanda comporta un’attività di esplorazione condivisa del significato
della richiesta d’intervento e una chiara definizione del problema per il quale il
soggetto ritiene di avere bisogno dell’intervento psicologico.
Ne consegue che il significato dell’accoglienza del soggetto tossicodipendente
all’interno del contesto detentivo, passa anche attraverso una ridefinizione del
momento diagnostico fondato sul paradigma del modello psichiatrico tradizionale
(Inglese, 2000) che prevede ,prima, la frammentazione sintomatologica, per
costituire, poi, quel quadro psicopatologico nel quale avverrà la ricomposizione
sindromica sotto la forma di una nosografia o categoria diagnostica.
Occorre recuperare il senso originario della prassi diagnostica, che rimanda
all’etimo originario di un’azione intrapresa per distinguere, percepire, conoscere
qualcosa; una conoscenza per “immedesimazione” nel senso fenomenologico del
termine, come capacità di descrizione del fenomeno dal di dentro (Galimberti,1979).
La diagnosi deve diventare contestuale ed interazionale (Minuchin, 1974), basarsi
cioè sulla valutazione del modo in cui il sistema in terapia risponde agli interventi
del terapeuta all’interno di un contesto istituzionale specifico; questa diagnosi non è
statica, definitiva, ma si evolve nel tempo parallelamente ai cambiamenti che
intervengono nelle relazioni fra terapeuta e sistema e nel contesto.
La diagnosi include, perciò, tutto il sistema terapeutico, cioè il terapeuta, l’individuo
o il gruppo in terapia, il sintomo, e tutte le relaziono reciproche, circolari e retroattive
che lo caratterizzano (Keeney, 1979,1983)). La diagnosi ha come presupposto
l’interazione, non è mai definitiva, ma si evolve nel corso del tempo nella
consapevolezza che ogni paradigma diagnostico è sempre condizionato dai modelli
clinici e culturali di un dato periodo, che orientano le aree di consenso circa la
definizione di patologia all’interno della comunità degli esperti (Boscolo e
Bertrando,1993).
IL contesto detentivo pone al soggetto tossicodipendente dei vincoli oggettivi che si
trasformano in possibilità terapeutiche laddove la presa in carico del soggetto
costituisce l’occasione per una esperienza di ridefinizione delle premesse individuali.
All’interno di questa cornice di significato, non solo lo psicologo ma anche gli
educatori e gli altri componenti dell’equipe stabiliscono relazioni con gli utenti
all’interno delle quali viene continuamente negoziato il significato da attribuire alla
situazione, costruendo un’intersoggettività che si dà come processo creativo ed
imprevedibile. In questa ottica quindi la relazione tra operatori ed utenti non
costituisce semplicemente l'ambito o lo sfondo dell'intervento, ma il processo stesso
di costruzione dell'intervento.
L’utente non porta nella relazione terapeutica una 'situazione problematica', ma
delle narrazioni relative ad una serie di eventi che egli stesso percepisce come
situazione problematica. All'interno di questa narrazione di riferimento, compaiono,
inoltre, le narrazioni che egli fa di se stesso, degli altri e del mondo. Queste 'storie'
svolgono sicuramente un ruolo cruciale nel mantenimento del problema e,
soprattutto, sono il materiale più direttamente accessibile al lavoro terapeutico. E’,
infatti, proprio a questo livello che si può realizzare una ristrutturazione che deve
essere orientata ad aumentare le possibilità di scelta, i gradi di libertà del
sistema.(Ceruti, Lo Verso,1998).
La terapia deve diventare una operazione epistemologica che consente al soggetto
problematico di decentrarsi, relativizzare, abbandonare una causalità rigida e
costruire ipotesi da utilizzare come lenti differenziali per leggere la propria storia
personale, connettere fra di loro gli eventi di vita e le ipotesi, considerando la
costruzione consensuale dei significati, leggendo gli eventi all’interno di un processo
temporale che dal passato si dirige verso il futuro, responsabilizzarsi rispetto alle
proprie azioni e ai propri pensieri (Telfener,1995).
Anche in un contesto “vincolato” come quello penitenziario, lo psicologo può
aumentare i gradi di libertà del soggetto, assumendo il ruolo di creatore di consenso
intorno ad una storia alternativa rispetto a quella ossessivamente ripetuta e sempre
uguale del paziente (Manfrida, 1998). La relazione circolare che unisce lo psicologo,
l’utente e tutta la comunità di interlocutori competenti può costituire l’elemento
perturbatore in grado di favorire nel soggetto problematico l’emersione di punti di
vista alternativi sulla tossicodipendenza e sulla devianza.
Se il sistema terapeutico entra nella relazione come osservatore – partecipante e
facilitatore, impegnandosi a costruire nella conversazione dei significati condivisi,
allora il sistema terapeutico può diventare dissolutore dei problemi, può cioè aiutare il
soggetto a vedere e valutare la propria situazione attraverso lenti diverse, e, così
facendo, implementare azioni alternative (Anderson, Goolishan, 1992).
Nel caso del soggetto tossicodipendente detenuto, i suoi vincoli sono costituiti,
spesso, da un certo tipo di storia familiare caratterizzata da marginalità e
muliproblematicità, dalla tossicodipendenza, da precedenti tentativi terapeutici
fallimentari , dall’idea che gli operatori , il contesto sociale allargato e lui stesso si
sono fatti rispetto alle sue possibilità. Si osserva che le componenti individuali e
quelle socio-ambientali non agiscono secondo una dinamica lineare di tipo
sommativo, ma in sinergia secondo una dinamica complessa. Diventa in tal modo
centrale, la nozione di ambiente psico – relazionale.
I vincoli del sistema terapeutico nel contesto carcerario, riguardano, quindi, la
biografia del soggetto, le sue relazioni, inclusa quella terapeutica, all’interno e
all’esterno del contesto detentivo. Gli elementi di contesto che informano la relazione
sono molteplici e differenziati: l’organizzazione gerarchica del carcere, la costruzione
del ruolo dello psicologo e di altri operatori come rappresentanti del sistema
istituzionale, l’incertezza temporale legata alla non conoscenza della durata di
permanenza del soggetto in carcere (perché ancora in attesa di giudizio, perché
sempre soggetto ad un possibile trasferimento o perché giuridicamente nei termini per
accedere ad una misura alternativa).
A partire da questi vincoli, la relazione terapeutica viene a costituirsi come luogo nel
quale si innesca un processo trasformativo che restituisce al soggetto possibilità di
scelta e, quindi, di cambiamento.
Riconoscere che la responsabilità è una costruzione sociale individuale, significa, nel
rapporto con il soggetto, liberarlo dall’idea che tutta la sua personalità sia determinata
dal comportamento tossicomanico e dalle azioni devianti ad esso legate, aprirgli la
possibilità di cambiare attraverso la formulazione di ipotesi alternative, che lo
pongano a confronto con la realtà in modo diverso. Per trovare uno spazio di
intervento efficace, la tossicodipendenza e la devianza del soggetto non devono
costituire gli elementi a priori sui quali basare un’offerta scontata di terapia, quanto,
piuttosto, favorire un contesto nel quale, in primo luogo, è riconosciuta al soggetto la
competenza e la capacità rispetto all’espressione dei propri bisogni, i quali, potranno,
successivamente essere ridefiniti nell’ambito di una relazione terapeutica; ciò
permette di svincolare l’intervento psicologico da una dimensione di coercizione,
evitando che venga associato alla dimensione normativa della punizione e del
controllo. E’ necessario separare la risposta alla devianza dalla risposta ai bisogni, al
fine di rompere quel circolo ermeneutico patogeno che porta un individuo ad
utilizzare strategicamente la devianza come una forma di comportamento attraverso
la quale esprimere i propri bisogni, attirando lo sguardo degli altri.
L’obiettivo terapeutico deve essere quello di restituire all’utente attraverso una
relazione dinamica ed emancipativa, la capacità decisionale la responsabilità rispetto
alla risposta ai suoi bisogni, riconoscendogli la competenza per poterlo fare. E’
necessario approdare ad una ridefinizione del paradigma basato sul bisogno che lega
paziente ed operatore.
Lo psicologo, ma anche il sistema terapeutico più allargato, non può essere detentore
di soluzioni preconfezionate ma, piuttosto diventare un agente perturbatore in grado
di favorire nuove risposte da parte dell’utente ai propri bisogni(Boscolo e
Bertrando,1993), destabilizzando la struttura e la logica dominanti all’interno di un
sistema individuale dominato dal problema per favorire la costruzione di storie
meglio formate(Sluzki,1999; Anderson e Goolishan,1988)
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