RAPPRESENTAZIONE E CONOSCENZA: FORME DELL’ESPERIENZA DELLA NEGAZIONE* 1 - La negazione come metodo conoscitivo La spettacolarizzazione del reale cresce, come un tessuto anomalo, sulle discrasie, sulle patologie di un’ ‘esperienza integrata’ le cui condizioni di salute si aggravano man mano ci si addentra nel XX secolo. Questa esperienza si ammala prima della contemporanea opera di normalizzazione sociale inaugurata dai grandi monopoli capitalistici. Prima della tecnologizzazione dell’industria o dell’azione ‘virtualizzante’ esercitata sulla realtà dal mezzo di riproduzione televisivo. Un punto critico di conclamazione è quello rilevato da Benjamin e che si manifesta nelle ambientazioni delle grandi Esposizioni Universali di fine Ottocento, o tra i tendoni delle ‘meraviglie’ fotografiche delle fiere, in cui ciò che costituisce attrazione perché replica un frammento, o un frammento ‘altro’ ed eccezionale di realtà, è messa in crisi dell’organicità della suddetta esperienza. Dunque, man mano la capacità tecnologica si affina producendo un'oggettivizzazione – priva di significato organico – della realtà e una sua riproposizione in termini di ‘fruizione’ smembrata, è l’esistenza stessa del soggetto e la sua possibilità di percepire il reale – la sua esperienza – ad essere sottoposta a reificazione e parcellizzazione. È così che, verso la fine dell’Ottocento, si innesca in Europa un processo di frammentazione e reificazione del tempo di lavoro, di frammentazione e reificazione del corpo umano, di feticizzazione di un prodotto industriale che incorpora l’illusione di offrire un completamento a quell’unità bio-psichica smembrata – l’individuo – ma che non è altro se non il detrito nocivo dello schiacciante meccanismo replicativo della reificazione. Il tempo libero assume, da quel momento in avanti, la parvenza di un vuoto da riempire di prodotti di consumo che, nella dinamica dei rapporti di produzione, alimentano il settore dell’industria culturale. L’opera d’arte è il patto di conciliazione tra lo scarto oggettuale del prodotto e il miraggio del raggiungimento del sublime, di un valore etico aggiunto. Ovvero, essa è ombra traslucida che replica, sotto specie di riflesso divertente, distraente – meccanismo 1 anestetico di massa, con l’industria cinematografica – la potenza schiacciante del rapporto di scambio. I meccanismi di conciliazione delle antinomie sociali, implicati nell’attività dei mezzi tecnici di ri-produzione culturale, segnalano lo slancio verso un’apprensione positiva della realtà da parte del soggetto. Il tentativo, cioè, di appropriarsi di una conoscenza del reale che avalla il sistema di rapporti socioeconomici. Nei primi del Novecento le avanguardie storiche operano artisticamente per rovesciare l’assunto positivo di questa apprensione. Si formano, pertanto, delle modalità di penetrazione negativa della realtà valide come formule di comprensione e percezione critica delle mistificazioni dei rapporti materiali: La qualificazione della verità come atteggiamento negativo del sapere, che penetra l’oggetto – quindi cancella l’apparenza del suo essere immediatamente così – suona come un programma di dialettica negativa quale sapere che «concorda con l’oggetto»: ma stabilire questo sapere come positività lo fa cadere. Con la formula della «uguaglianza con sè», della pura identità, il sapere dell’oggetto si rivela come una truffa, perché questo sapere non è affatto più sapere dell’oggetto […] la dialettica ha il suo contenuto d’esperienza non nel principio bensì nella resistenza dell’altro contro l’identità[…]1 Se assumiamo la prospettiva della ‘resistenza’ all’uniformazione, vediamo venire alla luce tratti rilevanti delle operazioni duchampiane sui ready-made o di Samuel Beckett sul linguaggio verbale. Recuperare l’oggetto, come materiale che non asserisce la sua presenza reale positivamente ma denuncia ‘l’apparenza del suo essere’, significa concordare in negativo con l’oggetto. Usare il linguaggio modulando la mendacità del suo statuto reificato e manifestandolo profondamente in contraddizione con la sua vocazione esplicativa, significa negarne l’evenienza attuale, contestare la possiblità che esso entri in ‘identità’ con il reale. La necessità di stabilire ‘un atteggiamento negativo del sapere’, si profila contemporaneamente a quella prima elaborazione della crisi – come risposta alla crisi – che accompagna le emergenze della reificazione del soggetto alla fine dell’Ottocento. Trasporre in negativo il materiale, significa appropriarsi del materiale penetrandone l’involucro di apparente conciliazione e innestare, in ciò che il materiale incorpora del rapporto di produzione che l’ha ‘realizzato’, il quid della sua negazione. Non sarebbe corretto considerare tutta l’avanguardia come espressione di un’estetica negativa, di un’estetica cioè che problematizzi l’uso del materiale per metterne in luce l’inconciliabilità interna, equivalente alla contraddittorietà del mezzo di produzione che l’ha generato. Significherebbe cercare di fondare la realtà dell’apparente per mezzo di un’apparenza priva di fondamento. Sarebbe una mistificazione, poiché non tutta l’arte cosiddetta d’avanguardia sviluppa il presupposto necessario ad un uso ‘negativo’ del materiale. È più opportuno riconoscere la ciclicità di simile risposta all’industrializzazione culturale, dall’Ottocento al Novecento, nel lavoro sui materiali tecnico-espressivi laddove esista una non esplicita, non di superficie, negazione estetica delle forme di esperienza del reale. Ciò che equivale a dire: dove l’opera d’arte non sia esaltazione illusiva dei mezzi di (ri)produzione e di scambio (suggestione e condizionamento); dove non sia fuga dal rapporto reificato che intrattiene con la realtà verso paradisi di conservatorismo; dove non sia in contrasto diretto con i contenuti di quei rapporti. Dove l’opera d’arte, infine, risulti da un’adozione del 2 materiale che tenga conto che quel materiale è prodotto dai meccanismi di scambio ed è loro immagine traslata. E risulti da una messa in evidenza dell’inconciliabilità interna del materiale, lì il potenziale negativo del lavoro artistico è riconoscibile. 2 - Teatro e atteggiamento negativo dell’arte Quando l’arte, storicamente, si sia posta in aperta dialettica con la realtà del sistema costituito – di uno stato di fatto che coinvolge, a partire dai mezzi di produzione, le possibilità stesse dell’espressione – con quel sistema ha fatto i conti implicitamente. L’esplicitazione di un atteggiamento antagonistico soffre il peso di una condanna eseguita a priori. È infatti la conseguenza del vizio di forma di una manifesta vocazione artistica al dissenso, quella di subire la funzionalizzazione forzata da parte del sistema economico: L’utile che gli uomini si ripromettono, nella società antagonistica, dall’opera d’arte, è infatti proprio, in larga misura, l’esistenza dell’inutile; che però viene liquidato nell’atto in cui viene sussunto interamente sotto la categoria dell’utilità [corsivo nostro]. L’opera d’arte, adeguandosi interamente al bisogno, defrauda gli uomini in anticipo di quella liberazione dal principio di utilità che avrebbe appunto il compito di procurare. 2 La dialettica tra ‘utilità’ e ‘inutilità’, interna alla produzione artistica, permea la storia delle forme d’arte d’avanguardia. E si può spiegare solo non scendendo ad icastiche definizioni di ciò che sia utile o inutile artisticamente. Poiché qui utile va inteso come funzionale ed economicamente propizio – nell’ottica di un’economia dello scambio – pur traendo origine da un’urgenza culturale di fuga dall’utilitarismo. Per questa ragione, laddove si intenda penetrare i rapporti tra utilità-inutilità negli approcci artistici delle avanguardie, il fatto culturale deve essere considerato sovrapposto a un sostrato economico-produttivo e deve soggiacere all’insieme degli strumenti adottati, che pure incorporano il fatto culturale e quello di scambio traslati sul piano dei materiali. Per certi versi il teatro, in quanto sistema coordinato di strumenti espressivi eterogenei, raccoglie l’intero spettro dei piani di analisi appena citati. Nel suo rapporto con qualsivoglia progressista o conservatore atteggiamento critico, proprio il teatro mette in luce il punto di frattura originario creatosi tra la mediazione culturale imposta all’evento e l’evenienza spontanea di quest’ultimo, l’utile e l’inutile e il loro conseguente adattamento a una formula di arte amministrata: Parlare di cultura è sempre stato contro la cultura. Il denominatore comune «cultura» contiene già virtualmente la presa di possesso, l’incasellamento, la classificazione, che assume la cultura nel regno dell’amministrazione.3 Raccogliendo e dispiegando le serie innumerevoli delle potenzialità espressive dei materiali (dal corpo, all’incidenza acustico-visiva, alla sollecitazione astrattivoimmaginativa) l’evento teatrale è costantemente sottoposto all’azione della classificazione culturale. Il gesto del teatro, più di altri ‘gesti’ artistici, è compromesso con la sua socializzazione immediata, e deve quindi considerarsi 3 immediatamente catalogabile. Esso deve risultare, a priori, funzionale al sistema di scambio, onde eludere il rischio, esiziale per la produzione, dell’impopolarità. In quest’ottica, almeno per tutta la prima metà del secolo XX, il rapporto tra l’elaborazione culturale e il teatro e, proprio a seguito del suo mutamento ottocentesco in fatto puramente commerciale, tra la critica militante e il teatro, ha assunto posizioni importanti in accesi dibattiti. Sfuggire all’ ‘incasellamento’ e alla ‘classificazione’ culturale del gesto coincide con la liberazione del potenziale culturale eversivo in esso implicito. Per gesto si intende intenzione espressiva. Ma, appunto, la definizione classificatoria di quella espressione variabile costringe a normalizzazione l’intenzione che l’ha prodotta. Quello della tassonomia culturale è quindi un gioco di specchi cavi che proiettano, a priori, una rappresentazione non spontanea e libera del gesto. Solo un gesto che non si rifletta in questa rappresentazione, che non vi si specchi, sfugge come bagliore effimero alla calcificazione culturale e si disperde nel fiume di una vitalità non concettualizzata. Ciò non toglie che questa dissoluzione, propizia a una fuga dalle maglie strette, ma non impermeabili, del sistema di produzione e scambio, sia effimera e recuperabile – prima o dopo – alla classificazione. Il ‘nuovo teatro’4 italiano – che ricade, nella sua configurazione originaria, all’incirca nel panorama sociopolitico dei primi anni Sessanta – si mostra in rapporto del tutto negativo con le condizioni economico-produttive del periodo. Sia sul piano espressivo che su quello distributivo e produttivo il fenomeno risulta inclassificabile. E anche i rapporti che la critica intrattiene, tardivamente, con quest’ultimo sono contrassegnati da una sostanziale incapacità classificatoria. Tant’è vero che, finalità primaria dell’accostamento critico al nuovo teatro, è quella di approntare strumenti di analisi pregnanti per verificare la fondatezza della diffidenza mostrata verso un fenomeno non qualificabile. Inqualificabile poiché nega alla radice una forma di scambio, di comunicazione, che, a quell’altezza cronologica, sembra ormai stabilizzata sugli stilemi funzionali dell’Accademia. E, infatti, il diniego dei nuovi gruppi prende avvio proprio dal rifiuto dei moduli espressivi accademici. Di qui viene sviluppandosi la vitalità nuova di un panorma teatrale i cui nuclei costitutivi incrinano le ferme convinzioni – e convenzioni – di un sistema produttivo che impiegherà un decennio, ‘caldo’ come quello degli anni Sessanta, per ridurli a norma. Ma si tratta di un processo di riduzione che subisce lo scacco di una preliminare negazione delle sue dinamiche. 3 - Crisi dei meccanismi di produzione e consumo: stabilità e rapporti con il territorio 4 In Italia la regia si afferma tardi. L’idea registica forte, in Italia, corrisponde in parte alla riuscita di un progetto che deriva da suggestioni risalenti alla fine dell’Ottocento: la fondazione di un teatro stabile. Il sistema produttivo italiano, nella seconda metà del Novecento, vede convivere, tra i generi ‘alti’ di spettacolo, i residui delle compagnie private – strascico del nomadismo tardo ottocentesco del grande attore – e una produzione nuova, radicata nel territorio. Quella che nel progetto di Giorgio Strehler dovrebbe concorrere a educare un nuovo pubblico cittadino: la produzione stabile. Questo nuovo rapporto con il panorama urbano determina non solo un comprensibile mutamento distributivo, ma anche un nuovo modello di concepimento del sistema produttivo. Si afferma la concentrazione dell’offerta artistica teatrale in un centro ‘stabile’, verso cui dovranno convergere le più fervide intenzionalità creative, onde conseguire uno sbocco tra le luci del palcoscenico. Il teatro stabile accentra le dinamiche creative tanto quanto quelle produttive e distributive. Sinteticamente, è l’articolazione delle relazioni tra il regista e il suo ensemble attorico a costituire la novità, in Italia, di un rapporto che coinvolge anche il pubblico. La centralità del teatro stabile è radicamento nel territorio e quindi possibilità di raggiungere un’identificazione, un’individuazione sul piano sociale. Quella del teatro stabile – novità assoluta in un paese come l’Italia in cui norma privata e nomadismo sono il modello culturalmente e socialmente più conosciuto – è l’unica formula organizzativa che sembra in grado di sfuggire, anzi alimentarsi, alla crisi della domanda che imperversa nel teatro di prosa. Gli interventi del teatro stabile vanno letti, infatti, nell’ottica di una struttura pubblica accentratrice che aspira a scopi di risanamento e ‘bonifica’ del territorio. L’alternativa teatrale a tale stato di cose accede, sul finire degli anni Cinquanta, alla ribalta del sistema commerciale spettacolare. Questa alternativa risponde ai canoni di uno spontaneismo a sfondo non impresariale ma più che altro dilettantesco, più vicino alle filodrammatiche che alle compagnie ‘di giro’. Sopra questo spontaneismo, appoggiato a un’offerta anche culturalmente autonoma che si avvale dei testi della drammaturgia ‘d’avanguardia’ europea – Beckett, Genet, Ionesco… – si forma il terreno culturale su cui poggeranno le operazioni dei primi gruppi del nuovo teatro. Prendendo in esame la configurazione economica e strutturale dell’offerta spontanea in generale, ricaviamo l’immagine di una realtà profondamente precaria che trova nel ricavo della ‘serata’ l’unica fonte di guadagno. Negli anni Sessanta il teatro di ricerca non è finanziato. Portare ‘in giro’ uno spettacolo necessita o la sicurezza di un rientro di spese, nel caso ci si allontani dalla sede ‘centrale’ in cui opera il gruppo, o la limitazione degli interventi a una ristretta zona comunale. È tuttavia evidente che le possibilità di azione dei piccoli gruppi autonomi sono più ampie rispetto al macchinoso e pesante movimento degli stabili, che non possono permettersi di scontentare o contrariare provocatoriamente il pubblico contribuente. Il motivo per cui i gruppi spontanei necessitano di una sede operativa è valido sul piano creativo ma anche sul piano economico, come ricerca di un luogo dove ottenere visibilità, risonanza e rientro sicuro di spese. I gruppi del nuovo teatro maturano rapporti nuovi ed esclusivi con spazio e pubblico. Se per l’offerta stabile lo spazio è il luogo riconoscibile in cui ‘educare’ i propri spettatori e, per i gruppi autonomi non impegnati nella ricerca, una funzione pubblicitaria in cui proporre un prodotto esteticamente valido a un 5 pubblico trattato con i crismi del buon gusto e dell’elegante educazione ‘civilina’, il nuovo teatro appronta uno spazio in cui vivere il teatro e shoccare5 la ‘platea’. Lo spazio dei gruppi del nuovo teatro è luogo in cui esperire le possibilità creative di una drammatizzazione spontanea del reale. Il pubblico può risultare inutile ai fini dell’esperimento e propizio per l’incasso. Oppure può ricoprire il ruolo di un tessuto reattivo cui imporre, per la loro messa a punto, formule espressive nuove. La funzione del pubblico, nella sua veste di destinatario di un messaggio, è negata. E anche la collocazione topografica dello spazio è negata nella sua funzione di radicamento nel territorio. Tra spazi d’azione inediti e rapporti strutturali rinnovati si comprende la distanza, la sostanziale estraneità, dell’attore del nuovo teatro alla recitazione accademica. Lo spontaneismo è propiziato da un soggetto attorico che forgia da sé i propri strumenti di lavoro. L’attore del nuovo teatro non soggiace al processo normalizzatore, funzionale a creare ‘manodopera’ di qualità per gli stabili, messo a punto in Accademia. Le qualità recitative sono sviluppate seguendo un’evoluzione spontanea di metodi e suggestioni, errori e traguardi e non meno prendendo in considerazione basi tradizionali da riformulare. L’attore del nuovo teatro è un artista che mette costantemente in discussione gli stilemi precostituiti. Mezzo adeguato al conseguimento, di volta in volta, di nuove soluzioni espressive è la formula operativa del laboratorio che in Italia prende piede proprio negli anni Sessanta. Il lavoro di laboratorio possiede caratteristiche precise. Ovviamente si tratta di una dimensione sperimentale – di ‘laboratorio’ appunto – nella quale si organizza la ricerca in senso parascientifico, spesso per tentativi, e premettendo la possibilità dell’errore, di pervenire cioè a un approdo inospitale come sosta di un percorso a tappe. La prassi laboratoriale coincide spesso con il lavoro collettivo. Una dimensione che va dal lavoro di gruppo vero e proprio alla valorizzazione, da parte di una figura registica o coordinatrice, delle idiosincrasie dei singoli attori. Questo è l’unico vero radicamento dei gruppi del nuovo teatro: il legame indissolubile con condizioni formative e operative che ne fanno degli ‘apolidi’. Nella sua forma pura e non compromessa con il mercato – cioè con la necessità di approntare soluzioni disponibili all’uso in tempi brevi – il laboratorio è una forma spontanea di ‘teatralizzazione’ del vissuto. Conforme alle biografie dei diversi gruppi del nuovo teatro italiano, la forma laboratoriale si esprime in una pratica e in una sperimentazione condotta attraverso le pieghe riposte della vita quotidiana. 6 4 - Crisi della rappresentazione-rappresentazione della crisi 4.1 - Virtualità dell’esperienza Elemento connettore tra arte e realtà – nella seconda metà del Novecento, ma a partire almeno dalla fine dell’Ottocento – è sicuramente la deformazione delle possibilità esperienziali dell’individuo, direttamente collegata a una: Distruzione della Erfahrung (esperienza) operata dalla società borghese avanzata, e dalla sua sostituzione con concetti amministrati e privi di vita. La scomparsa della vera esperienza, che anche Benjamin aveva sottolineato come una caratteristica della vita moderna […] 6 La sostituzione di un’esperienza di vita con ‘concetti amministrati e privi di vita’, deriva dalla crisi in cui entrano le unità minime di rappresentazione del reale della ‘vita moderna’. Laddove esista un interesse anestetizzante per il dato materiale, ogni rappresentazione della realtà non può che permearsi di concessioni funzionali alla sistematicità utilitaristica. Per l’individuo socialmente integrato le possibilità residue di esperienza della realtà si esauriscono, in breve, nell’assunzione del ruolo di agente propulsore di uno scambio economico e di oggetto del meccanismo produttivo moderno. La stessa facoltà di verbalizzazione subisce la corruzione e l’inaridimento esercitati dal sistema di scambio: Ciò che, in una successione stabilita di lettere, trascende, e cioè non si lascia risolvere, nella pura correlazione all’evento, è bandito come qualcosa di oscuro e come un relitto di metafisica verbale. Ma in tal modo la parola, che deve limitarsi a designare e non può più significare nulla, è talmente fissata e attaccata alla cosa da irrigidirsi in una specie di formula. Ciò colpisce, in ugual modo, la lingua e l’oggetto. Invece di rendere l’oggetto accessibile all’esperienza, la parola depurata da ogni residuo estraneo lo presenta come il caso particolare di un momento astratto […]7 L’oggetto subisce un’amputazione ‘materiale’ sul piano della realtà. Non può ulteriormente permanervi presente, se non nell’ordine dell’univocità che gli è concessa. In questa prospettiva all’arte non resta che lasciarsi compenetrare da strumenti corrotti dall’interno. Ogni operazione creativa, condotta con e sui materiali disponibili, non può che innestarsi nelle guide di espressioni dimidiate, orientate in partenza verso rappresentazioni conformi al sistema. È facile comprendere come ogni operazione artistica che agisca con materiali corrotti, indipendentemente dall’impostazione formale e dall’affabulazione implicata nella resa del contenuto, si comporti come un meccanismo funzionale e in connivenza con quella corruzione. Un meccanismo che di per sé lavora con falsi frammenti di false rappresentazioni, per costruire apparenze illusive di interpretazioni del reale. Se, dunque, lo scopo dell’esperienza negativa dell’arte può essere sintetizzato, alla luce del suo rapporto con il sistema ufficiale, come un ‘pensare in contraddizioni in forza della contraddizione esperita nella cosa e contro di essa’8, il lavoro sopra e dentro il materiale e gli strumenti adottati 7 diventa momento ‘realizzativo’ centrale. Un operare artistico che entri in dialettica con il sistema dominante – e pare essere questo il presupposto di alcuni gruppi che convenzionalmente designamo con il termine avanguardia – deve incidere le ‘escrescenze’ che l’ingranaggio sistemico ha prodotto sul materiale. E, quindi, deve costituirsi come un operare che sfugga alla rappresentazione distorta della realtà, imposta dall’artificiosità tecnico-riproduttiva. Il ruolo che certa arte d’avanguardia ricopre nel Novecento possiede, essenzialmente, una funzione gnoseologica – vale a dire critica – destinata a penetrare ed esperire l’incrinatura insanabile che postula un’identità, un’integerità e uniformità solo virtuali. Intorno ai frantumi dell’apparenza d’identità, che la ‘società dello spettacolo’ distribuisce ai suoi ‘attori sociali’, si dispone l’interesse del lavoro artistico sperimentale. Prendendo in esame le prime risposte agli effetti ancora precoci dell’impatto tra arte e tecnica della ri-produzione, nel primo Novecento, tra le più efficaci si rivelano le operazioni avanguardiste di Dada e Samuel Beckett. In queste due ‘irregolarità’ dell’arte europea del secolo XX, l’incrinatura del reale è esperita nelle profondità delle apparenze del linguaggio. Che sia esso linguaggio verbale o sia il prodotto di una distillazione dell’immagine, è svelata la sua apparente trasparenza, in realtà rovesciata nella più esteriore opacità. Nelle succitate operazioni, l’apparenza non resta quindi che un detrito di rappresentazioni false, pur riuscendo efficace – informando esasperatamente tutta l’opera – sul piano della sua stessa negazione. 4.2 - Il corpo e il frammento nell’arte del nuovo teatro Cercando di ridurre ai minimi termini una possibile risposta alla domanda su quale sia la caratteristica del materiale adottato dal nuovo teatro italiano, ci imbattiamo in due gruppi di elementi espressivi. Si tratta, in realtà, di sintesi di segni e strumenti che tuttavia individuano, con una certa precisione, gli interessi operativi su cui si concentra il lavoro di sperimentazione teatrale negli anni Sessanta. Da un lato troviamo il corpo. Per corpo intendiamo quanto di materico, oggettivamente incisivo sul piano spaziale, si presenta in scena. Dall’altro lato, il frammento, vale a dire lo strumento di destrutturazione del corporeo, ma anche l’unità modulare di scomposizione e configurazione sincronica del tempo. Entrambi gli elementi sono quanto di più problematico, tra i materiali, il sistema di produzione renda disponibile. L’interesse sviluppato per il corpo deve essere letto, prima di tutto, come scioglimento dal vincolo di una presunta purezza virtuale del fisiologico, verso la riappropriazione di una complessità fisica in lotta contro la seduzione di quella‘virtualizzazione’. Il corpo è principalmente oggetto tra oggetti, non unità astratta e funzionale alla collocazione sociale, ma struttura spaziale suscettibile di essere plasmata. Una struttura spaziale che è infinitamente ricca di potenzialità creative. Prima di tutto essa subisce il modellamento determinato dalla sua dinamicità, espressa nei termini dell’azione. È ‘con quella pratica artistica che è stata battezzata genericamente arte di comportamento che i mezzi linguistici tipici dell’arte vengono sostituiti dal gesto e dall’azione’9. Gesto e azione dilatano e 8 restringono il corpo, lo integrano in altri corpi-oggetto e ne costituiscono le linee di tensione che modificano lo spazio. Il corpo, i corpi in quanto oggetti della scena, sono la scena. Il fisiologico e l’inorganico sono costituenti spaziali che acquistano valore meccanico organico all’interno del sistema di riferimento, e valore dinamico in rapporto all’azione. Il rapporto con lo spazio, rinnovato dal punto di vista materiale, e il conseguente allontanamento da un’insidiosa virtualità, spingono i gruppi del nuovo teatro a superare ‘i limiti della rappresentazione, pur di riacquistare un rapporto meno spettrale con la realtà’10. È infatti sul piano di una costante tensione tra le lusinghe di una rappresentazione illustrativa e il confronto con le costrizioni, i limiti, anche la fallibilità maldestra del corporeo, che si consuma parte del lavoro sulla dissociazione spaziale e temporale di Leo e Perla, o sulla composizione scenica ‘d’eccesso’ di Carmelo Bene. Il corpo, non consumato dall’attrito estenuante con l’ombra della sua spettacolarizzazione, può diventare nucleo generatore del contingente, dell’imprevisto che apre la struttura programmata all’irruzione materica del vitale, come negli esperimenti maturi di Carlo Quartucci. L’estetica del frammento è elaborata dal nuovo teatro come lavoro sulla distorsione temporale, intervenuta con la parcellizzazione dei rapporti di spazio e fruizione della modernità. Lo sbriciolamento della continuità materiale è elemento implicito del montaggio cinematografico. La continuità temporale è compromessa e mistificata ancorchè descritta solo virtualmente, come illusione percettiva, dal cinema. I frantumi di un’esistenza diventano, nell’acquiescenza all’imposizione del frammentario, oggetti sottoposti al controllo sistemico, tessere di ‘amministrazione’ che modificano nell’osservatore la percezione della continuità, così come rivelano: […] quelle scene terribili al cinema quando alcuni anni della vita dell’eroe sono descritti in una serie di sequenze che durano uno o due minuti, solo per far vedere come era cresciuto o invecchiato[…]. Questo spezzettare un’esistenza in alcuni momenti banali che possono essere caraterizzati schematicamente simbolizza la dissoluzione dell’umanità in elementi di amministrazione.11 Questa affermazione, che può prestare facilmente il fianco a critiche su una certa miopia retriva del suo autore, nasconde in realtà fondamentali germi di riflessione. Il frammento, che nel cinema affiora a necessità espressiva ancor prima che linguistica, è ellissi implicita di ciò che si considera inessenziale. È quindi sintesi temporale, manifestazione di una totalità virtuale non riscattata da una nuova definizione della totalità. Solo a livello percettivo, seguendo il tracciato di un semplice aggiramento sensoriale, destinato a determinare un’abitudine fruitiva12, questo tempo si annuncia come omogeneo e compiuto. La ‘serialità’ del tempo, di cui si appropria l’estetica del frammento, manifesta con maggiore violenza ed evidenza i suoi effetti nel passaggio, intervenuto nei primi decenni del Novecento, dall’ascolto musicale diretto alla riproduzione radiofonica, che reifica e atomizza la fruizione. La possibilità di riprodurre musica su nastri fruibili estesamente, e cioè la massificazione di un ascolto parcellare, è frammentazione potenziale della continuità di tempo, implicita nella sequenza musicale. Se la sostanza musicale è suono correlato al tempo, non tanto la perdita d’aura di una totalità d’opera costituisce il primo effetto della reificazione del 9 frammento musicale, quanto l’affiorare di un’artificiosa ‘atemporalità ripetitiva’13 che riduce a materiale seriale il suono. Cinema e musica, ovvero immagine in movimento e suono, costituiscono la sostanza del frammento. Costituiscono cioè gli strumenti principali di focalizzazione e rovesciamento della mistificazione sistemica. Non è un caso se, operando sulla tensione tra frammento e continuità – sempre per riportarci all’esempio del nuovo teatro italiano – negli anni Sessanta l’introduzione delle proiezioni cinematografiche in scena è finalizzata non tanto alla resa ‘spettacolarizzata’ di un’immagine riprodotta filmicamente, quanto a isolare la sua qualità oggettiva di frammento illusorio di spazio e frammento reale di tempo in qualità di ritmo (frammento reale di luce). Così come non è un caso che l’interesse per il suono non sia indirizzato al raggiungimento di una pretesa totalità scenico-sonora illusiva, ma a sostanziare, della sua qualità temporale frammentaria, unità acustiche demistificanti. Le operazioni di certo nuovo teatro su corpo e frammento tendono a porre in cortocircuito questi due elementi. Basti pensare a come Leo e Perla sfruttino l’immagine filmica ingombrante che, proprio per la sua inaccessibile enormità, diventa invasiva espropriando il corpo del suo peso e della sua solidità materiale. O, ancora, ci si può soffermare sulla micro-unità sonora che, nelle intenzioni di Carmelo Bene, dovrebbe divorare i residui di una vitalità corporea lasciata all’abbandono. Oppure si può constatare come la materialità – è il caso del primissimo Ricci – possa costituirsi dei detriti di frammenti cinetici da esporre in suoni e immagini. È evidente che interesse per una riformulazione del fisiologico, dell’oggettuale, e prelievo del frammento per disporlo sulle maglie di un tessuto lacerato e ridotto a brandelli, sono testimonianze di operazioni condotte su materiali-base. Materiali moderni, corrotti in quanto artificiosi, compromessi dalla sclerosi del sistema produttivo industriale. Ma anche materiali dal cui esercizio non può prescindere un’operazione di rifiuto dell’idioma ufficiale. Quindi corpo e frammento sono unità espressive sottoposte a una rigorosa operazione di riflessione dialettica. E non perché essi siano fatti oggetto di un messaggio contestatario diretto, ma perché utilizzati in quanto sostanze che incorporano una contraddizione sociale profonda. E ogni approfondimento non orientato a sanare quella contraddizione ma a dilatarne l’incrinatura, non può che costituire un episodio di arte negativa. In Italia, nel decennio che va dal 1959 al 1967, un certo tipo di nuovo teatro, nato prima del Convegno di Ivrea e quindi non ancora parte dell’ondata dei successivi gruppi sperimentali – sorti sui fasti teorici di quel 1967 –, opera in direzione di una riformulazione negativa delle componenti basilari del teatro. Il corpo, il corpo nello spazio, la tecnologia, le modalità di fruizione: tutti elementi problematizzati dalle nuove forme produttive e tutti impliciti nell’articolazione oggettuale e nella fenomenologia della frammentazione. Tutti elementi sottoposti alla logica deteriorante della società dello spettacolo. Il corpo è quanto reclama una sostanzializzazione, che è anche rappresentazione negativa della sua virtuale ostensione. Il corpo è replicato, smembrato, dilatato e rimpicciolito, sezionato in parti attrattive da esporre come resti di tessuto industriale. È soprattutto reificato e privato di quelle potenzialità esperienziali non connesse alla commerciabilità. Lo spazio è vuoto sospeso, privo di senso, che acquista significato solo se socializzabile: solo se ottiene collocazione produttiva esso esiste. Lo spazio può 10 esistere solo in quanto dimensione espositiva. La tecnologia è movimento riproduttivo, asettico e perfettibile, cui è affidato il compito di amalgamare corpo e frammento all’immagine, in una totalità del tutto virtuale. Anche il rapporto con il pubblico non può che essere caratterizzato da disorganicità e alienazione, fruizione separata e virtuale. Nelle contraddizioni interne a questi elementi, il nuovo teatro si incunea per dilatarne la spaccatura. Una dilatazione che è negazione (o tensione verso questa negazione) della qualità di fondo della posizione occupata da quegli stessi elementi, nel sistema ufficiale. 5 – Ripetizione e differenza Proprio per questo si parla continuamente di idea, novelty e surprise, di ciò che dovrebbe essere insieme arcinoto e mai esistito. Ritmo e dinamismo sono al servizio di questo scopo. Nulla deve restare com’era prima, tutto deve continuamente scorrere, essere in moto. Poiché solo l’universale trionfo del ritmo della produzione e della riproduzione meccanica può assicurare che nulla muti, e che non appaia mai qualcosa di incongruo.14 Negli anni Sessanta, il problema immanente a una prospettiva di fuga dal ‘ritmo e dinamismo’ imposto dalla scansione della produzione industriale, è esteticamente risolvibile problematizzando la ripetizione. Se il sistema ufficiale deve ‘assicurare che nulla muti’ per offrire al ‘pubblico’ la credibilità di una totalità organica raggiunta, un lavoro sotterraneo rispetto all’ufficialità non può che assumere e riversare la sostanza della ripetizione nella fenditura della differenza. Il nuovo teatro italiano si impegna in un lavoro di disgregazione di alcune unità di reduplicazione, mettendone in luce le contraddizioni interne. In una prospettiva sintetica le coordinate che queste unità individuano sono circoscritte al tessuto spaziale, temporale e materiale-corporeo. La moltiplicazione delle dinamiche minime di movimento e l’oggettivazione del fisiologico sono i presupposti di scardinamento della pseudo-positività del corpooggetto. Il corpo – l’oggetto – non è immagine luminosa che sia possibile contenere nella bidimensionalità asettica dell’offerta pubblicitaria. Tanto meno frammento funzionale alla produzione. Quella lucidità accattivante o significativa è unità cinetica fredda, materialmente deperibile. Quel frammento funzionale è corpo suscettibile di produrre un’espressione autonoma, corpo sfuggente. L’oggetto, il frammento di corpo, è residuo di una macchina produttiva ma è residuo autonomo che fatalmente può occupare, con terribile voracità, l’intera scena. Di qui il frammento abnorme usato nel Gulliver di Ricci o l’accatastamento asfittico dell’oggetto di trovarobato in Bene. Anche il mezzo tecnico che Leo e Perla espongono impudicamente in scena è perdita di controllo sull’oggetto. Correlato del corpo, frantumato e riprodotto, è uno spazio atomizzato, svuotato di capacità espressive autonome. Lo spazio di scena è un vuoto cui è negata qualsiasi possibilità autonoma di significazione. Esso, al contrario, riverbera il suo statuto di vuoto insignificante su ogni oggetto che ne occupi una porzione, che voglia assumersene le responsabilità significative. La scena non può che esistere come 11 campo di replica del materiale, disponibile ad accogliere tensioni di ogni tipo e ad acquisire i connotati reduplicati di quelle tensioni. Maggiore rilievo, ma anche impegno più sostanzioso, richiede il lavoro sul tempo. Il ritmo corrisponde al coordinamento dei frammenti di materia nei vuoti di spazio. Ogni elemento materiale, connesso alla virtualità della successione ritmica, ha due possibilità di riuscita. Può ripetersi in un’esasperante replica che confermi la serialità del tempo produttivo, o può svincolarsi dalla serialità annullando il potenziale illusivo del suo statuto di segno-materiale. L’immagine scandita dal proiettore può divorare il corpo e se stessa riducendosi a impulso ritmico luminoso. Può incidere l’ombra, in scena, rendendo il mero negativo unico elemento significante dello spettacolo. Lo stesso vale per il suono. L’audio riprodotto dal registratore, il suono diretto in asincrono, sono i risultati di un utilizzo materico della sostanza sonora. La riproduzione o la finzione, connesse al suono di scena, sono anti-illustrative, anti-illusive. Il suono, nella sua compromissione con il riproducibile o nella sua costituzione diretta è tempo che scandisce un’assenza. Assenza di un corpo, assenza di spazio. Tuttavia corpo, tempo, spazio, nei lavori del nuovo teatro italiano, determinano una peculiare tensione verso l’organicità presente dell’evento. Un’organicità problematica e continuamente messa in crisi. Abbiamo scelto di usare il termine ‘negazione’, che possiede qui valore concettuale e in parte metodologico, in riferimento da un lato all’estetica negativa adorniana, verso cui dichiariamo quindi, in questo modo, il nostro debito. Dall’altro lato, l’utilizzo di suddetto termine si è reso necessario esaminando i documenti teorici e interpretativi prodotti dalla speculazione critica degli studiosi che hanno cercato di comprendere il nuovo teatro italiano, nei primi anni Settanta (come si vedrà, argomento del presente testo). Il termine ‘negazione’, infatti, ricorre, con valore strumentale analitico non trascurabile, sulle pagine della rivista che più di ogni altra si è occupata del nuovo teatro, ovvero Teatro, diretta da Giuseppe Bartolucci, Edoardo Fadini, Ettore Capriolo. Potrebbe essere sufficiente, uno tra i tanti casi, il titolo scelto da Bartolucci, Sul nuovo teatro «negativo» e «utopia», per un suo intervento ‘consuntivo’ che apparve sul numero 3, anno III 1970, di quella rivista. Ma non è tanto il vezzo dell’intestazione saggistica, pur irrefutabile, che ci forza ad utilizzare il concetto di ‘negazione’. Infatti, esso è infine per noi sufficientemente giustificato dall’insistenza con cui l’affabulazione di un numero rilevante di contributi, inseriti in Teatro, ne chiama in causa esplicitamente l’incisività teorica. Intediamo così rendere ragione di quanto si propone non come una forzatura, né come una mistificazione intellettuale, ma come la presa d’atto di posizioni teoriche e critiche chiare che, altrettanto chiaramente, hanno influenzato – e da essi si sono lasciate influenzare – i percorsi creativi degli artisti del nuovo teatro. 1 T.W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, pp.143,144. 2 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p.170. 3 Ivi, p.138. 4 Decidiamo di usare la denominazione ‘nuovo teatro’, che riteniamo preferibile a ‘teatro sperimentale’, ‘neoavanguardia’, ‘teatro di ricerca’, ‘teatro di alternativa’, ‘teatro indipendente’, perché essa possiede funzione strumentale, storicamente connotata. Si tratta infatti di una categoria ‘attributiva’ – utilizzata come strumento per comprendere l’operato di alcuni gruppi teatrali, attivi tra gli anni Sessanta e i Settanta – forgiata durante il Convegno di Ivrea. Il ‘nuovo teatro’ è la designazione cui gli organizzatori del Convegno scelsero di far risalire l’intero apparato concettuale e interpretativo elaborato in quella sede. 5 Sull’importanza dello shock nell’arte moderna, cfr, W. Benjamin, Angelus Novus, in particolare, Baudelaire e Parigi, Einaudi, Torino 1995. 6 M. Jay, L’immaginazione dialettica, Einaudi, Torino 1979, p. 102. 7 M. Horkheimer, T.W. Adorno, op. cit , p178 * 12 8 T.W. Adorno, op. cit, p. 129. L. Bonotto, M. Guderzo, R. Melchiori, T. Santi, G.E. Simonetti, a cura di, Crisi della rappresentazione e iconoclastia delle arti, DeriveApprodi, Roma 1999, p.13. 10 Ivi, p. 38. 11 M. Jay, op. cit, p.329. 12 In merito alle consuetudini maturate nei processi di fruizione dell’opera d’arte, ci sembra non sarebbe privo di interesse un esame della ‘assuefazione’ al cliché di tanta arte contemporanea, che prenda le mosse proprio da, Adorno, T.W, Sulla popular music, Armando, Roma 2004. Crediamo che simile analisi possa gettare una prima luce, ancorchè precoce, sull’uso creativo dei campionamenti audiovisivi. 13 Ivi, p.300. 14 M. Horkheimer, T.W. Adorno, op. cit, p.142. 9 13