Le interazioni future. Il ruolo delle aspettative nella relazione con la realtà La psicologia ha cercato di spiegare i processi con cui si percepisce la realtà, come si dà senso a ciò che si vede, come si costruiscono le rappresentazioni del mondo dotate di significato per cercare di ridurre o evitare situazioni di incertezza, di dubbio, di indefinitezza. Questa esigenza di controllo degli eventi in fondo fa parte della natura umana e dell’esigenza di ridurre al minimo lo sforzo cognitivo che l’uomo compie nel relazionarsi quotidianamente con il mondo. E’ per questo motivo che tendiamo a giustificare qualsiasi nostro comportamento, anche il più strano, come dettato da precisi progetti e da chiari obiettivi. Riusciamo sempre a dare una spiegazione di ciò che abbiamo fatto, o pensato, pur di non confessare a noi stessi di essere in balia delle emozioni dell’ultimo minuto. Soprattutto riusciamo sempre ad attribuire una responsabilità, o ad individuare una giustificazione per il comportamento altrui, anche se spesso in maniera del tutto soggettiva, e poco corrispondente con il punto di vista dell’altro (Hewstone et al. 1988). Abbiamo cercato di dare delle risposte a questi interrogativi da sempre. Questa area di studi è stata definita come l’area della “cognizione sociale” e rappresenta una delle più vaste di questa disciplina. Lo sviluppo di quest’area di studi sui processi di rappresentazione ha avuto un certo impulso grazie ai contributi della psicologia cognitiva fondati quasi prevalentemente sulla metafora della mente come luogo di elaborazione delle informazioni. All’interno di questo filone di studi e ricerche, animato dal razionalismo che ha caratterizzato l’età moderna (Siri, 2001 e 2004), un significativo numero di ricercatori e studiosi hanno cercato di individuare i principi generali capaci di spiegare i comportamenti sociali. Fortemente ispirati dal successo nell’età moderna delle idee del positivismo (Siri, 1996), questi primi studiosi del comportamento sociale hanno cercato di individuare le leggi che governano la natura attraverso un modello di studio pragmatico, fondato sulla consapevolezza che la realtà oggettiva esterna è conoscibile poiché è così come è data. Ciò consolida l’idea che la realtà esterna e il comportamento umano possano essere conosciuti nella loro oggettività, se analizzati attraverso strumenti di osservazione rigorosi ed attraverso la semplificazione di ciò che è complesso ed articolato nei suoi singoli elementi. A volte questa ricerca, quasi ossessiva, ha spinto studiosi ed esperti ricercatori ad avere, come guida illuminante dei loro percorsi di ricerca, la profonda convinzione che si potessero individuare precise leggi e modelli esplicativi universali del comportamento umano. In questo tipo di analisi ritroviamo tutti i nuclei centrali del pensiero positivista: la possibile semplificazione della realtà in elementi costituenti, la possibilità di leggere la realtà ed i comportamenti nella loro essenza oggettivata, la possibilità di studiare tali elementi attraverso la rigorosa applicazione del modello di studio sperimentale, attraverso la quantificazione degli elementi di base della realtà e la possibilità di accorpare questo insieme di conoscenze in un corpus unico, risultato di assembramenti consecutivi al fine di potere giungere alla verità delle cose. L’uomo e i suoi processi sono stati, pertanto, semplificati in processi razionali facilmente leggibili ed interpretabili con una lente di ingrandimento razionalizzante. Così come Taylor (1911) ha razionalizzato la complessa realtà organizzativa semplificandola nei suoi elementi costitutivi, nello stesso modo si è proceduto a semplificare i processi di base del comportamento sociale, per scoprirne i principi di funzionamento. 1 Questa ipersemplificazione rischia di promuovere una rappresentazione del comportamento umano priva di quella dinamicità e di quei processi di influenzamento reciproco che stanno alla base della complessità del comportamento umano . Purtroppo l’immagine dell’uomo razionale è diventata una forma di cliché tanto utilizzata da stimolare numerose ricerche di laboratorio che in alcuni casi hanno rischiato di confermare tale modello razionalistico più per la specificità del contesto sperimentale che per la capacità di coglierne la sua specificità. Questa forma mentis che spesso ritroviamo in molte ricerche sulle interazioni, caratterizza molti testi di marketing che prendono in prestito diversi concetti della psicologia per aspiegare i comportamenti sociali, attraverso un minuzioso processo di analisi e di semplificazione dei processi. Esistono tuttavia evidenze sul fatto che l’individuo non agisce solo in modo razionale, anche se dice spesso, anche a se stesso, di agire sempre secondo una logica razionale, o secondo processi cognitivi “freddi”, caratterizzati dalla logica dei costibenifici (Mannetti, 2002). Il modo stesso di reagire alle interazioni sociali testimoniano un desiderio di gioco, di humor, di esperienza e di esplorazione non esclusivamente correlati con la dimensione della razionalità, ma carichi di effetti di desiderio e di significazione assai lontani dalla logica razionalistica. Sempre più spesso la complessità, la circolarità, la pluriappartenenza, la multiculturalità irrompono con forza destrutturante nel nostro quotidiano, minando le certezze acquisite. La percezione degli altri, per esempio, anche nella sua articolata e meravigliosa funzione, non sembra rispondere alle medesime leggi universali individuate dagli studi di laboratorio di psicologia cognitiva. Il senso e il significato che diamo alle cose guidano, a volte inaspettatamente, il nostro modo di percepire la realtà e gli altri. Una realtà che non sembra più data una volta per tutte, bensì costruita di volta in volta dai processi di socializzazione, di simbolizzazione e dai significati che noi stessi gli attribuiamo. Un significato profondamente influenzato dal contesto culturale di riferimento. Così una frase, un’azione, un comportamento assume un significato diverso in funzione dei codici culturali che utilizziamo per interpretarli. Lo sanno bene coloro che hanno il compito di valutare e giudicare le modalità educative dei bambini di altre etnie. In alcuni contesti, infatti, l’uso di un comportamento “violento” nei confronti del proprio figlio, anche se è in ogni caso deprecabile, non è segno di inadeguata genitorialità. Questi comportamenti possono rientrare nelle più condivise modalità educative di una particolare comunità. Sempre più spesso giudici, medici, insegnanti e operatori del territorio devono fare i conti con queste profonde differenziazioni, cercando di leggere correttamente ciò che una società sempre più multiculturale, o meglio multietnica, offre. Queste considerazioni richiedono, tuttavia, un approfondimento di tipo sociologico, etico e giuridico che trascende il nostro obiettivo. Di certo, ritornando ai temi della psicologia delle interazioni, in questo processo il contesto sociale e culturale ha un ruolo determinante nella costruzione di senso. Già Lewin nel 1935 studiando il rapporto tra processi psicologici e contesto sociale scriveva che “gli esperimenti sulla memoria e sulla pressione esercitata dal gruppo sull’individuo dimostrano che qual che esiste come realtà per una persona è determinato in buona misura da ciò che socialmente viene accettato come tale. Questo vale anche per la fisica: per un abitante di un’isola dell’Oceano Pacifico, il mondo può essere piatto; per l’europeo esso è rotondo”. 2 La realtà quindi non è assoluta, ma la sua percezione può variare secondo il gruppo cui ogni individuo appartiene. Secondo Lewin (1935) le forse ambientali (appunto la realtà) hanno un ruolo di grande rilievo nello sviluppo dell’individuo e nella determinazione del suo comportamento, ma ciò che è importante è la profonda relazione “causale circolare fra le une e le altre”. L’ambiente esperito dall’individuo è visto potenzialmente diverso da persona a persona, come per la stessa persona in momenti diversi. Viene così riconosciuto il ruolo attivo dell’individuo nei processi di conoscenza e l’influenza del processo di significazione individuale nella spiegazione della realtà , a sua volta culturalmente caratterizzato. Bruner nel 1957 sosteneva che l’esperienza percettiva si verifica attraverso un processo mediante il quale la cosa o la persona percepita “è collocata in un posto e acquista il suo significato da una classe di percetti con i quali è raggruppata” attraverso un processo pressoché inconsapevole (Mannetti, 2002). Ecco quindi che gli individui diventano artefici del loro ambiente sociale e del contesto in cui vivono e percepiscono. Come scriveva Bruner (1992) “non è l’eredità biologica dell’uomo a guidare e plasmare la sua azione e la sua esperienza, ad avere la funzione di causa universale; piuttosto, questa eredità impone dei limiti all’azione, limiti i cui effetti non sono immutabili. Le culture, invece, mettono in moto dei <<meccanismi-pròtesi>> che ci rendono possibile trascendere i <<puri e semplici>> limiti biologici; per esempio i limiti di capacità della memoria o quelli dello spettro visivo e uditivo. Si presuppone che sia la cultura e non la biologia a plasmare la vita e la mente dell’uomo, a dare significato all’azione inserendo gli stati intenzionali profondi in un sistema interpretativo. La cultura può farlo imponendo i modelli che fanno parte dei suoi sistemi simbolici: il linguaggio e le modalità del discorso, la forma della spiegazione logica e di quella narrativa e i modelli, infine, della vita sociale con i relativi aspetti di reciproca interdipendenza”. Questa tesi ci spinge a considerare il comportamento del consumatore non solo determinato dai suoi bisogni e dalla sua dimensione biologica, ma a comprendere il suo comportamento e i processi funzionali che lo influenzano (percezione, memoria, apprendimento e decisione) strettamente influenzati dal contesto sociale e culturale in cui si muove. Questo è maggiormente più evidente se pensiamo al modello di cultura del consumo a verso cui andiamo. Una volta svincolato dalla dimensione del bisogno e dell’esclusiva esigenza biologica i comportamenti sociali, così come quelli di consumo sono atti che esprimono un modello di cultura condiviso. Solo negli ultimi anni si è assistito nella psicologia ad una maggiore attenzione alla dimensione narrativa e simbolica per la comprensione dei comportamenti sociali (Mazzara, 2008). Ecco, quindi, che lo stesso oggetto o comportamento assume un significato diverso nel tempo e nello spazio tanto da rendere ancora più insicura e difficile l’opera di chi intende predire o spiegare i comportamenti umani e sociali. D’altra parte è anche comprensibile come mai ci sia un netto rifiuto di tale aleatorietà. La soggettività dei significati rende, infatti, arduo il lavoro di chi deve interpretare e soprattutto predire. In realtà sembra che tutta la filosofia intrinseca a molte teorie scientifiche moderne (tra cui anche il marketing e alcune psicologie) stia cambiando. Nonostante le critiche mosse al modo di studiare l’umo ancora troppo focalizzate sull’immagine dell’uomo “econmico” (Fabris, 2009; Siri, 2004), di fatto si sta diffondendo sempre di più una concezione umanistica, 3 culturale e sistemica per studiare l’interazione sociale. Una concezione capace di tener conto sempre più spesso del contesto culturale e sociale e del processo di influenzamento reciproco uomo-ambiente. In questo caso l’individuo deve essere considerato come un sistema complesso in stretta interrelazione con un sistema ancora più ampio del sociale. Entrambi analizzabili attraverso una modalità di studio di tipo olistico. Così studiare la l’interazione sociale senza fare riferimento ai filtri individuali che la società contribuisce a diffondere, o senza prendere in considerazione l’influenza che l’attribuzione di significato ha nei processi di percezione della realtà, risulta insufficiente per comprendere le interazioni. La realtà viene percepita come vorremmo che fosse, non come oggettivamente si presenta. Di là dalla rappresentazione razionalizzante, quando ci confrontiamo con la realtà utilizziamo sempre dei filtri cognitivi ed affettivi. Quante volte capita letteralmente “di non vedere ciò che ci può fare soffrire”, oppure quante volte ci ritroviamo a percepire solo quei messaggi e quei significati coerenti con il nostro punto di vista? Quante volte cercando un oggetto smarrito usiamo delle vere e proprie mappe, una specie di guida dei posti da osservare perché ritenuti (chissà perché) luoghi in cui “probabilmente” ritroveremo l’oggetto perduto? E’ come se fossimo guidati dall’abitudine e dall’esperienza passata, senza renderci conto che gli altri luoghi possono essere altrettanto probabili posti in cui il nostro oggetto è caduto o è stato accidentalmente spostato. A volte utilizziamo lo stesso processo di razionalizzazione per imporre una realtà che di razionale non ha nulla. Basta soffermarsi solo per un attimo alle pene d’amore per avere un esempio chiaro e lampante per tutti. Pur di non soffrire siamo capaci di non vedere o di minimizzare gli errori, le mancanze e le malefatte dell’amato partner (tanto da essere increduli persino delle numerose testimonianze o consigli dei più cari amici), così come ci ritroviamo a giustificare i torti subiti da un caro amico, ad ampliare enormemente gli aspetti positivi di una scelta conflittuale effettuata, a prendere in considerazione solo gli aspetti vantaggiosi di un acquisto rinnegando o ignorando completamente ciò che contraddice la nostra idilliaca visione. Ecco quindi che ogni atto di acquisto, ogni azione, ogni messaggio pubblicitario, va inserito e compreso all’interno di precisi percorsi di senso che ogni individuo costruisce, analizzati alla luce dei più inconsapevoli filtri cognitivi ed affettivi che ci permettono di “leggere la realtà e gli eventi”. L’individuo non è solo un insieme di sensazioni, né un calcolatore che costruisce regole decisionali sulla base del rapporto costi-benefici, né è semplicemente animato da richiami accattivanti. Egli è tutto questo, ma all’interno di uno sforzo continuo di ricerca di senso e di significato, di un progetto esistenziale che investe ogni atto (Siri, 1995). Il gioco razionale nella spiegazione della realtà: la dissonanza cognitiva Leon Festinger (1957), allievo di Kurt Lewin, è stato il primo ad occuparsi di alcuni processi di razionalizzazione e giustificazione dei comportamenti descrivendo gli effetti della dissonanza cognitiva. Questa si basa sulla premessa che gli atteggiamenti di un individuo sono tendenzialmente consonanti e che le sue azioni sono di solito coerenti con gli atteggiamenti. Il principio da cui parte Festinger è che l’individuo è prevalentemente caratterizzato da coerenza e razionalità. Nel prendere qualsiasi decisione, come ad esempio 4 acquistare un prodotto, l’individuo affronta una situazione di conflitto nella quale deve soppesare le valutazioni positive e negative nei confronti delle diverse alternative. Subito dopo la decisione le informazioni sulle caratteristiche positive della possibile scelta che di fatto è stata scartata e quelle sulle caratteristiche negative della scelta effettuata possono produrre una situazione di dissonanza il cui grado deriva dall’importanza stessa della decisione, dal grado di attrazione della scelta rifiutata, dal numero di elementi negativi che caratterizzano la scelta effettuata. Secondo Festinger la dissonanza è psicologicamente scomoda o comunque è in grado di creare un certo disagio a causa della tensione che deriva da una scelta che può essere in contrasto con una valutazione. La dissonanza, intesa come incoerenza tra processi cognitivi, o come discordanza tra atteggiamento dichiarato e comportamento agito, provoca una condizione di difficoltà che spinge l’individuo ad adottare tutte le possibili soluzioni e i filtri per recuperare uno stato di coerenza, di equilibrio e conseguentemente di “benessere” (Williams, 1981). Lo stato di disagio provocato dalla dissonanza è, probabilmente, determinato dal fatto che siamo, sempre, stati abituati a percepirci coerenti con le nostre opinioni, equilibrati nei nostri comportamenti. A fronte di tale disagio, l’individuo cerca di trovare specifici rimedi: la rivalutazione delle proprie opinioni; la revoca delle decisioni (il che tuttavia non sempre è possibile e spesso assai costosa); il cambiamento dei propri atteggiamenti o delle convinzioni (per esempio un consumatore può avere un atteggiamento sfavorevole nei confronti di una marca, ma l’offerta di coupon può indurlo a provare la marca in questione); la ricerca di nuove informazioni che dimostrino che il comportamento agito, in fondo, non è così incoerente o sbagliato come sembra. Ciò avviene attraverso quelli che vengono definiti i filtri cognitivi. Questi permettono di raccogliere le informazioni coerenti con le proprie aspettative. L’uso di filtri per la selezione delle informazioni può dare vita ad una vera e propria forma di percezione difensiva, intesa come la tendenza a non rilevare la presenza di stimoli ritenuti non graditi o minacciosi e spiacevoli: di fronte ad una scelta (per esempio l’acquisto di un’automobile) pur di evitare il disagio provocato dal recepire informazioni contrastanti con la scelta fatta, non sarà difficile vedere il nostro impavido acquirente confrontarsi entusiasticamente con chi ha fatto lo stesso acquisto, leggere e ricordare solo le informazioni che convalidano e sostengono la scelta fatta, rinnegare o screditare tutte quelle informazioni, e\o le loro fonti, che dimostrano di avere commesso un profondo errore di valutazione nell’acquisto dell’automobile. Schemi e aspettative nella costruzione della realtà Nelle interazioni un ruolo determinante è attribuito alle aspettative. Queste sono in grado di guidare l’intera azione, oltre che i processi di selezione delle informazioni e di percezione della realtà. Sappiamo, per esempio che l’attenzione opera in modo tendenzioso, favorendo l’accesso degli input verso i processi superiori di elaborazione di quei contenuti che sembrano avere più pertinenza con le attese, con le abitudini, con i bisogni e con gli scopi che l’organismo sta perseguendo in quel momento. “L’obiettivo che governa il Sistema Io finisce per rendere necessaria la scorciatoia di pre-giudizi e di ipotesi “rischiose” resi necessari dalla capacità limitata e dall’urgenza di decidere. L’influenza delle aspettative e questo processo di influenzamento sui processi percettivi (previsione – controllo – decisione – azione) si rafforza 5 in situazioni complesse ed ansiogene e la forza degli stereotipi e dei pregiudizi si inasprisce nel momento in cui ci si percepisce in difficoltà, o quando la nostra attivazione fisiologica (aoursal) supera un certo limite. Con il termine arousal si indica l’intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale dell’organismo. Secondo la Teoria dell’Arousal (Olivero e Russo, 2009) quando l’organismo deve effettuare una prestazione occorre una attivazione come l’aumento della vigilanza e dell’attenzione (attivazione del sistema nervoso centrale), la preparazione dei muscoli allo sforzo (attivazione del sistema muscolo-scheletrico), l’attivazione del sistema cardiaco e respiratorio per la produzione delle energie necessarie per sostenere lo sforzo (sistema vegetativo simpatico) all’azione. Secondo la legge di Yerkes_Dodson un’attivazione fisiologica moderata favorisce un buon livello di prestazione percettiva, attentiva, decisionale. Diverse ricerche sul campo infatti dimostrano che se l’attivazione fisiologica cresce, la prestazione aumenta corrispondentemente. Ciò però avviene fino ad un certo punto e fino ad una certa attivazione fisiologica (arousal). Oltre un certo livello la prestazione decresce. E’ possibile rappresentare il rapporto arousal prestazione come una campana capovolta in cui la prestazione si riduce con l ’ a u m e n t a r e dell’attivazione. Quando siamo sotto stress o emotivamente attivati la nostra memoria ci fa brutti scherzi così come la nostra capacità attentiva o di riflessione. Questo processo spiega come mai molto spesso durante un esame particolarmente ansiogeno alcuni studenti hanno difficoltà ad interagire con il docente a causa di un’eccessiva emozione (ansia, paura) che può provocare una riduzione della capacità di esposizione e di richiamo alla memoria degli argomenti studiati Il fenomeno ci può spiegare come mai in situazioni particolarmente stressanti si è più propensi ad utilizzare schemi e stereotipi o perché si è più soggetti alla pressione della conformità, violando qualsiasi principio di logica “razionale” (Siri, 2002). Gli schemi, tuttavia, non hanno solo effetti negativi. Aiutano a classificare la realtà ed a dare senso a ciò che registriamo. Il modo in cui classifichiamo un evento dirige la nostra attenzione sull’informazione rilevante per quella categoria di eventi. Se si prova a classificare l’osservazione di un gruppo di persone come “riunione di lavoro” nella quale è presente un dirigente e i suoi collaboratori probabilmente si sarà più propensi a raccogliere tutte quelle informazioni che sono coerenti con i temi di lavoro, ignorando o dando meno importanza ad altre tematiche, ma soprattutto si tenderà ad interpretare buona parte dei messaggi e delle comunicazioni in maniera del tutto diversa rispetto alla stessa situazione in cui il gruppo di lavoro viene, invece, codificato come semplice “gruppo di amici”. 6 In questo processo l’uso degli schemi o meglio l’uso di categorie e concetti intesi come rappresentazioni mentali e strutture di conoscenza più o meno condivisi, è indispensabile per semplificare la realtà e dare senso all’enorme quantità di stimoli ed informazioni. Questa classificazione in strutture conoscitive, solitamente automatica, è estremamente utile in quanto ci consente di trattare oggetti apparentemente diversi allo stesso modo e ci consente di guidare i nostri comportamenti e il modo di leggere la realtà circostante. Il raggruppamento, che la concettualizzazione determina, semplifica il mondo e lo rende controllabile. Questi processi sono estremamente preziosi poiché classificare l’enormità degli stimoli ambientali in equivalenti e diversi è un primo passo per arrivare all’adattamento. La riduzione del mondo in unità concettuali aiuta anche la memoria e la chiarezza del pensiero. La gente ricorda meglio l’informazione organizzata in parti o quella che richiama elementi noti e conosciuti. Così come i concetti facilitano anche la comunicazione. Le definizioni verbali associate ai concetti ci permettono di parlare di emozioni, di pensieri , di personalità ed atteggiamenti. Non è facile comunicare esperienze che non si prestano ad un’immediata traduzione in unità più semplici. La concettualizzazione in fondo riduce l’ansia. Finché non sappiamo che cosa accade nel mondo, non possiamo neanche sapere come potremo agire agli eventi. Infatti un mondo non definibile in base a schemi o concetti di qualche tipo è potenzialmente pericoloso. Il ruolo degli schemi nella percezione dei protagonisti dell’interazione In una società in cui la sfera dell’esperienza sociale ha un ruolo determinante, poiché è quella in cui si gioca il legame con gli altri, l’accettazione da parte del gruppo, il riconoscimento del proprio valore e del proprio modo di essere, rappresentano uno degli aspetti più importanti del processo di interazione sociale. In questo processo di conoscenza la relazione sociale è alla base della costruzione del Sé. Grazie ad essa si mantiene l’identità personale, il senso del sé rappresenta la sfera di azione da cui possiamo trarre alimento per la nostra autostima, essenziale per la sopravvivenza psicologica (Siri, 2001). In questa relazione, tuttavia, un ruolo determinante è riconosciuto ai processi di preselezione, di pre-giudizio e di deformazione della realtà oggettiva proprio perché aiutano l’individuo a non mettere in discussione la propria immagine e il proprio Sè. Non è un caso che “percepiamo” (ed elaboriamo) diversamente le informazioni provenienti da coloro che ci criticano, ritenendole non valide, inattendibili e false, mentre tendiamo a ritenere indiscutibili tutte le informazioni che al di là di ogni evidenza tendono a supportare la nostra buona immagine. Anche gli adulatori vengono percepiti diversamente. In un contesto sociale complesso si manifesta uno dei “difetti” maggiori del sistema dell’Io: quanto più lavora sotto stress tanto più esso tende ad irrigidire gli schemi e i pregiudizi che governano il suo operare, nel tentativo di garantirsi una rappresentazione rassicurante di sé e delle cose. L’abuso delle categorie può, infatti, costituire un limite alle nostre esperienze e oscurare sottili differenze (a volte anche differenze macroscopiche, si pensi per esempio all’effetto omologante dei pregiudizi e degli stereotipi) che intercorrono tra un pezzo e un altro della realtà. Gli stessi concetti ci possono spingere a richiamare la nostra attenzione su certe caratteristiche facendocene ignorare altre. Uno degli esempi di cecità sociale è quello che 7 porta a vedere la gente che appartiene ad una categoria come totalmente differente da quella che appartiene ad altre. Questo fenomeno è particolarmente delicato se ci riferiamo a particolari rapporti interpersonali come quelli che richiedono un forte investimento personale e una particolare motivazione all’ascolto come per esempio nelle situazioni di sostegno psicologico e sociale o nel campo educativo. Chi si occupa di counseling, per esempio, dovrebbe essere particolarmente formato a riconoscere e gestire i propri schemi cognitivi e i propri pre-giudizi poiché questi possono semplificare troppo la realtà e influenzare negativamente la relazione di aiuto su cui si dovrebbe basare il lavoro del consulente. Uno dei più noti esperimenti in merito a questo processo di categorizzazione sociale è stato realizzato da Salomon Asch (1946), il quale ha dimostrato come una lista di aggettivi e di elementi che descrivono una persona è possibile avere un idea comune e condivisa della caratteristiche di personalità della persona stessa. Asch ha somministrato ad un gruppo di persone una lista di aggettivi “intelligente, competente, industrioso, caldo, determinato, pratico e prudente” per avere una descrizione pressoché condivisa da tutti di una persona generosa, che “crede che certe cose sono giuste, vuole che gli altri capiscano il suo punto di vista, che è sincero quando discute o vorrebbe che la sua opinione fosse ritenuta giusta”. Oltre a questa immagine condivisa dalle persone che avevano letto la lista di aggettivi Asch ha dimostrato l’esistenza di alcuni elementi centrali capaci di modificare radicalmente (sempre in maniera abbastanza condivisa) l’immagine della persona. Bastava sostituire l’aggettivo caldo con freddo per avere un’impressione profondamente diversa. Asch contribuendo significativamente all’applicazione delle teorie gestaltiche in campo sociale ha voluto dimostrare che l’impressione che ci facciamo degli altri è sempre più della semplice somma delle parti e che vi sono dei tratti centrali descrittivi che fungono da punti di ancoraggio nella formazione dell’impressione, rendendola stabile e significativa. Lasciarsi guidare dalle proprie attese ed aspettative, infatti, determina il rischio di perdere di vista ciò che veramente colui che chiede aiuto intende portare all’attenzione del consulente. Ciò ovviamente non vale solo per coloro che si occupano di consulenza psicologica, ma di tutte le relazioni interpersonali e delle diverse forme di ascolto: dalla consulenza aziendale alla relazione medico paziente. Proviamo a riportare un breve esempio pratico tratta dalla mia esperienza di responsabile della formazione per diversi anni in Telefono Azzurro. Si tratta di un tema trattato in altri contesti (Russo, 2003 e 2004) che trattiamo brevemente anche in questa parte del testo per sottolineare l’importanza che assume la consapevolezza dell’effetto delle attese e degli schemi nella comunicazione e nell’interpretazione della realtà e dei comportamenti altrui. Ci riferiamo ad esperienze svolte per la formazione dei consulenti telefonici di una delle più note helpline per l’infanzia e l’adolescenza in Italia, gli operatori telefonici di Telefono Azzurro. In questo contesto ogni richiesta d’aiuto prende forma all’interno di uno scambio comunicativo tra un professionista ed un utente. Se è vero che tramite l’interazione/ comunicazione si costruiscono i significati e si dà un senso alla realtà che ci circonda, (Saccani, 1994), si può affermare che attraverso i discorsi (lo scambio conversazionale) si producono significativi effetti sulla realtà stessa. In altri termini, la parola detta assume rilevanza se si presuppone che “dire è fare delle azioni” (Austin e Searle, 1994). 8 Attraverso il colloquio terapeutico o la consulenza telefonica, gli interlocutori cercano di riconoscere e ri-costruire una situazione problematica, al fine di riuscire in qualche modo a mutarla. Nella stessa definizione di “incontro terapeutico” si pone come elemento fondante il compiersi di una “trasformazione della storia narrata che lasci spazio a nuove esperienze”: c’è un’attenzione quindi alla narrazione e alle strutture semantiche, alla trasformazione del modo in cui gli utenti descrivono i loro problemi. Anche il colloquio telefonico crea uno spazio d’ascolto: offre all’utente/chiamante l’opportunità di verbalizzare il proprio problema, di riflettere sulla possibilità di apportare delle modificazioni alla situazione attuale, di ricostruire insieme all’operatore una “nuova storia”, sulla quale ci sia il consenso di entrambi. Nella relazione tra l’operatore telefonico e l’utente adolescente, ad esempio, emerge con forza il rapporto tra “dire e fare”. L’offerta del servizio di consulenza si basa, quindi, sulla corretta interpretazione delle richieste di aiuto. In base alla lettura della domanda si ottiene una prima definizione interpretazione della richiesta e la costruzione e di conseguenza la costruzione della relazione di aiuto. Questo processo come indicato da Schein (1992) prevede una profonda conoscenza non solo delle problematiche e delle possibili origini multidimensionale del disagio, ma soprattutto una profonda capacità del consulente di comprendere i propri schemi di riferimento e il proprio modo di relazionarsi con il disagio e con chi chiede aiuto. Parlare di domanda e di offerta significa riconoscere due poli, due attori sociali, ognuno dei quali dotato di senso e di intenzionalità specifiche, di linguaggi e di sensi differenti, di culture e di riferimenti semantici differenti, di desideri e bisogni. Il consulente deve essere capace di riconoscere le modalità di interpretazione personali adottate per comprendere la dimensione relazionale e i vissuti riportati dal chiamante. Nella costruzione della relazione di aiuto uno dei rischi maggiori potrebbe essere quello di non sapere “valutare e controllare” i propri vissuti e le modalità interpretative nell’analisi di quanto viene riportato da chi ha richiesto una forma di aiuto. La complessità della consulenza nella relazione di aiuto nasce infatti dal fatto che il nostro sistema nervoso è simultaneamente “un sistema di raccolta dati, un sistema di elaborazione e un sistema manageriale autogeno: ossia osserviamo, reagiamo emotivamente a quanto osservato, analizziamo, elaboriamo ed esprimiamo giudizi basati sulle nostre osservazioni con lo scopo di produrre degli eventi, cioè interveniamo” (Schein, 1992). Ciò significa che l’interpretazione dei dati e dei messaggi del chiamante passano attraverso la capacità di lettura e attraverso i “filtri” cognitivi ed affettivi del consulente. Per una consulenza efficace e funzionale è, pertanto, necessario che il consulente sappia utilizzare con “consapevolezza” le proprie specificità e i propri vissuti e che sappia riconoscere gli schemi cogniti che più facilmente vengono utilizzati nella valutazione delle situazioni. È necessario che sappia riconoscere quali sono gli eventuali ostacoli alla comunicazione e gli errori che possono derivare dai propri vissuti, dalle proprie abitudini e dai filtri cognitivi ed affettivi (Simon, 1960; Nisbett e Ross, 1980). E’ indicativo il fatto che uno degli errori comunicativi verso cui può essere facile orientarsi in una relazione di aiuto è di “dare suggerimenti prima ancora di avere ascoltato a fondo. Abilità che in realtà chiama in causa competenze di ascolto attivo e richiede un preciso training formativo. La modalità del suggerimento e della soluzione sottolinea in ogni caso, l’asimmetria della relazione e tende a favorire rapporti di dipendenza, ostacolando processi di crescita (Di Fabio 2003). SI tratta in fondo della stessa simmetria che caratterizza i processi di valutazione basati su pregiudizi e stereotipi. Una 9 valutazione guidata dai propri schemi interpretativi senza una oggettiva corrispondenza con la realtà sociale oggetto di valutazione. Ogni stereotipo è una forma di generalizzazione rigida riguardanti gruppi sociali dal contenuto illogico ed inesatto. Secondo gli approcci motivazionali questi meccanismi pregiudiziali derivano da motivazioni autoprotettive e servono a mantenere un’immagine positiva di se stessi e del proprio gruppo di appartenenza, come indicato dalla teoria dell’Identità sociale di Tajfel e Turner (1979) o la teoria della categorizzazione di sé (Turner, 1987). Così dietro l’obiettivo palese di chi presta aiuto si può nascondere una difesa della propria immagine positiva o l’esigenza di una forma di riscatto personale, un modo per contenere profondi sensi di colpa e una forma di inadeguatezza, o addirittura l’esigenza di conquistare o consolidare una posizione di potere. Chi riceve aiuto, infatti, può adagiarsi su quell’aiuto e abdicare alle sue capacità adattandosi al ruolo di colui che è aiutato, colludendo perfettamente con il bisogno di riconoscimento del consulente. Nella relazione di aiuto ai fini di una sua efficacia profonda e di qualità, diventa fondamentale allora la preparazione dell’operatore. A questo proposito di parla comunemente di competenza comunicativa e relazionale senza una chiara indicazione di cosa significhi. Una prima considerazione è che questa competenza richiede una profonda consapevolezza di sé, dei propri vissuti e motivi, del proprio quadro valoriale, capacità di decentramento cognitivo, abilità nella costruzione e nell’interpretazione della relazione (Di Fabio, 1999). Queste abilità permettono di comprendere gli elementi e le dinamiche che possono determinare gli ostacoli alla comunicazione e causare una non corretta interpretazione. La relazione dialogica volta ad ottenere la libera espressione dell’altro è strettamente influenzata da alcuni atteggiamenti che si possono manifestare già dalle prime fasi della relazione. Si tratta di atteggiamenti,schemi, abitudini che spingono il consulente a prestare maggiore attenzione durante la costruzione della relazione di aiuto ad una dimensione piuttosto che ad altre, ad alcune informazioni o parti di esse piuttosto che a quanto interamente riportato dall’altro, tanto da rischiare di ostacolarne la libera e trasparente “apertura” (Di Fabio 2003; Mucchielli, 1987). Le dimensioni che possono guidare l’attenzione e determinare il flusso delle informazioni che vengono prese in considerazione possono così essere semplificate: la dimensione cognitiva e affettiva, la “centratura” sul cliente o la centratura su sé stessi. Poiché durante la consulenza il criterio più importante per decidere cosa analizzare ed utilizzare per una corretta “diagnosi” e come intervenire è da ricercarsi, da una parte, negli elementi di “evidenza” riportati da colui che ha rischiato un supporto ed un aiuto, e, dall’altra, nella percezione e l’interpretazione che l’osservatore ha delle informazioni che è riuscito a raccogliere, anche la “qualità delle relazioni” e il modo di approcciare il chiamante diviene oggetto di osservazione o almeno elemento di riflessione e di analisi da parte del consulente. Questo, infatti, potrà essere guidato durante l’analisi dei vissuti e dei dati da una “predisposizione” ad agire prevalentemente nella dimensione cognitiva, agendo sugli elementi di razionalità, manifestando atteggiamenti di giudizio degli elementi senza considerare opportunamente tutte le informazioni che attengono alla dimensione affettiva che nella relazione di aiuto è in ogni caso sempre presente. Altra condizione è quella in cui l’attenzione del consulente si inquadra principalmente all’interno del registro dell’affettività. Sono le emozioni che guidano la diagnosi o comunque assumo un ruolo determinante le informazioni che hanno una forte valenza affettiva. Il registro delle emozioni del chiamante e delle emozioni del consulente guidano l’attenzione e strutturano la 10 relazione di aiuto, con una ridotta attivazione dei processi di giudizio e di razionalizzazione. Ovviamente si tratta di due dimensioni che agiscono non secondo la regola del tutto o nulla, ma con la prevalenza dell’una sull’altra. La mancanza di consapevolezza da parte del consulente delle proprie abitudini o “predisposizioni” rischia di ostacolare la comunicazione o lasciare costruire al consulente una realtà che è assai lontana da quanto vuole essere riportata dall’altro. Una realtà più coerente con le proprie aspettative o una realtà che protegge il consulente dalle sue più profonde ansie e insicurezze (Schein, 1992). Sull’altro versante agisce una predisposizione ad interpretare i vissuti, a leggere i dati riportati dal chiamante, a costruire una strategia di intervento con una centratura sul consulente stesso o esclusivamente sul cliente. In quest’ultimo caso il rischio maggiore è quello di perdere di vista il gli effetti che il chiamante ha sul consulente. Si tratta in ogni caso di informazioni utili se opportunamente equilibrate con le informazioni tratte a sua volta da un’analisi centrata sul chiamante. Dalla predisposizione di una dimensione sull’altra è possibile distinguere diverse tipologie di risposta e di consulenza secondo la seguente rappresentazione (Di Fabio, 2003). Dall’interazione delle diverse dimensioni è possibile individuare cinque tipologie di atteggiamento e conseguentemente diverse modalità di comunicazione del consulente, che possono risultare da ostacolo ad una relazione di aiuto efficace e funzionale. - Atteggiamento interpretativo - dimensione cognitiva, centratura sul consulente: questo implica l’attenzione a ciò che viene presentato e riportato e che risulta essenziale per l’ascoltatore e determinante per il giudizio e la razionalizzazione. Ne risulta una comunicazione in cui non c’è spazio per la vera ed autentica dimensione dell’altro. Il consulente giudica oggettivamente ciò che viene riportato dall’altro attraverso le proprie “griglie di riferimento abituali, riportando quanto espresso 11 all’interno una logica di spiegazione causale secondo regole e criteri “razionali” del consulente. La risposta interpretativa tende spesso a presentare una ricostruzione di ciò che il consulente ha sentito sulla base di legami causa – effetto relativamente agli aspetti che hanno attirato la sua attenzione - Atteggiamento risolutivo – dimensione cognitiva, centratura sul consulente: in questo caso vengono proposte al chiamante soluzioni precostituite che in realtà rispecchiano le logiche del consulente e non il problema del chiamante. Le soluzioni incalzano senza aspettare di ascoltare (diagnosi) le informazioni e i problemi riportati. Si indica la strada da perseguire sotto forma di consigli razionali. Uno dei rischi maggiori è di dare la sensazione al chiamante di volersi “liberare di lui” in tempi brevi senza che gli sia concessa la possibilità di essere compreso. Inoltre suggerendo all’altro ciò che deve fare si rischia di alimentare una relazione di dipendenza, utile alla soddisfazione dei bisogni del consulente ma pericolosa per il chiamante. - Atteggiamento valutativo morale - dimensione affettiva, centratura sul consulente: in questo caso il consulente si pone in una posizione rigorosa basata sulla valutazione morale di quanto riportato. Si tratta di una valutazione morale che coinvolge più la dimensione affettiva ed emotiva del consulente piuttosto che il rispetto di criteri etici comunemente e razionalmente condivisi. Il consulente filtra quanto riportato dal chiamante sulla base delle reazioni emotive personali determinate dalle proprie idee precostituite e dei propri presupposti ideologici. In questa relazione la dimensione politica, intesa come forma nobile della contrattazione e della negoziazione, lascia lo spazio alle posizioni rigide ideologiche. La mancanza di rispetto di tali posizioni ideologiche scuote emotivamente il consulente che rischia di esprimere (anche non espressamente) un atteggiamento di valutazione, di sentenziosità e di colpevolizzazione. - Atteggiamento di sostegno e consolazione – dimensione affettiva, centratura sul chiamante. in questo caso il consulente agisce consolando, supportando il chiamante, rassicurandolo sulla sua situazione, sdrammatizzando gli aspetti per lui preoccupanti. La risposta di supporto rassicura, consola, sostanziandosi di modalità materne, rischiando di attivare una profonda passività nel chiamante. In questo caso il consulente rischia di colludere con il chiamante, inducendo dipendenza soprattutto se questa forma di interazione viene agita sistematicamente. - Atteggiamento investigativo inquisitorio – dimensione cognitiva, centratura sul chiamante. La voglia indagatrice e la modalità inquisitoria caratterizza questo atteggiamento, secondo il quale il consulente interroga seguendo i propri criteri logici e razionali di analisi ma spostando l’attenzione solo su quanto riportato dal chiamante. Non vi è spazio per l’analisi della dimensione affettiva personale e del cliente. Né tanto meno si capaci di “contestualizzare” quanto riportato. L’inquisizione pone l’altro di fronte un interrogatorio martellante con domande precise e puntuali. In 12 questa situazione il chiamante rischia di allontanarsi e di chiudersi difensivamente di fronte all’eccesso di attenzioni. Compito del consulente è di essere consapevole delle proprie predisposizioni ed abitudini al fine di giungere ad un giusto equilibrio per la raccolta delle informazioni prestando attenzione alle le diverse dimensioni. Alla base di questa forma di equilibrio di attenzione vi èi un profondo atteggiamento di accettazione dell'altro, la capacità di riconoscere le proprie predisposizioni al fine di promuovere un’analisi della dimensione cognitiva ed affettiva senza un’unica centratura su uno dei due poli dell’interazione. La posizione rigida su uno dei suddetti versanti rischia, infatti, di ostacolare la comunicazione. La relazione di aiuto deve essere supportata da questi diversi atteggiamenti, senza rigide predisposizioni. Perché ciò accada il consulente deve essere, da una parte, preparato a riconoscere i propri atteggiamenti secondo lo schema proposto e dall’altro ad attivare il circolo virtuoso della comprensione e facilitazione. Questo può essere garantito solo attraverso un processo circolare che prevede la sospensione del giudizio, l’accettazione cognitiva-emotiva dell’altro, l’ascolto attivo, la costruzione di una relazione di fiducia e la costruzione di senso e di significato attraverso un lavoro congiunto tra consulente e chiamante. Decisione e cognizione sociale Alla base dei processi cognitivi che abbiamo fino ad ora esaminato vi è la consapevolezza che in fondo il sistema dell’Io è caratterizzato da processi di semplificazione e di sintesi che sembrano guidati dal principio di regolarità. E’ questa regolarità che può garantire la sicurezza di “prevedere” e gestire la complessità del mondo e per contenerne la sua carica ansiogena. Per lungo tempo l’implicita assunzione che sottostava alle teorie e agli studi sui processi decisionali era che il comportamento poteva essere “catturato”, spiegato da un modello onnicomprensivo o da una “grande teoria”. In questa prospettiva le persone decidono attentamente, valutando ogni singolo aspetto della situazione e della scelta da effettuare, arrivando al termine di questo delicato e “consapevole” processo ad una decisione soddisfacente. Lo schema generale del processo lo descriveva come una sequenza coerente e consapevole di azioni volte a risolvere una tensione indotta dalla mancata soddisfazione di un bisogno. Il primo autore che ha introdotto il concetto di problem solving per l’analisi del comportamento dei consumatori è stato Howard (1963), il quale ha sottolineato l’importanza del processo di apprendimento che permette al consumatore di agire degli automatismi o attivare un processi di valutazione delle scelte più controllato e lineare. Secondo Howard con passare del tempo e con l’esperienza gli individui imparano a identificare le variabili ambientali capaci di dare maggiore soddisfazione ed a reagire nei confronti di queste in maniera del tutto automatica. Questo processo, per chi si occupa di problemi di consumo, implica che ogni singola fase potrebbe essere studiata dall’uomo di marketing per potere comprendere i singoli passaggi decisionali del consumatore al fine di adeguare messaggi e prodotti in funzione delle credenze e opinioni del consumatore e dei suoi processi razionali di scelta. I prodotti potrebbero essere caratterizzati da quei attributi 13 che guidano il processo decisionale, così come il messaggi pubblicitari potrebbero rispettare le aspettative del consumatore. Alla base di questo modo di vedere il processo decisionale vi sono alcune considerazioni e presupposti euristici della società moderna: l’idea che il mercato sia caratterizzato da alternative e che il consumatore procede in genere a fare una scelta tra queste alternative secondo un processo logico, direi quasi matematico (anche se automatico perché strettamente associato a processi di apprendimento in cui il comportamento di consumo è stato associato a piacevoli o spiacevoli conseguenze); che i criteri di valutazione utilizzati permettano la previsione delle conseguenze di ogni tipo di consumo (uno di questi criteri può essere la convenienza economica del prodotto); che il consumatore utilizzi delle regole e delle valutazioni decisionali logiche per valutare le diverse alternative (semplificando il processo di consumo in un atto di valutazione di un prodotto do di un servizio solo attraverso una dimensione quella economica o quella relativa alla soddisfazione oggettiva del bisogno); che le informazioni usate per le decisioni abbiano una loro precisa origine e fonte (sia che si tratti di persone esterne sia che si tratti di contenitori interni come la memoria). Questa linearità coerente con il modello di homo oeconomicus dell’età moderna non comprende la complessità della realtà umana, anche se soddisfa l’esigenza di controllo e di razionalità di cui abbiamo parlato. Come, abbiamo avuto modo di descrivere prima, non tutti i processi decisionali si presentano secondo questa complessa ed articolata linearità. La valutazione può realizzarsi man mano che si scoprono nuove alternative, man mano che queste assumono un diverso significato simbolico ed esperienziale per l’individuo al di là della semplice analisi costi benefici. In questo processo sembra perdersi e confondersi l’idea di espressione del proprio Sé, non vi è che il riferimento all’esperienza dell’acquisto in cui ciò che conta è la dimensione oggettiva della scelta in funzione di obiettivi ben precisi. Non vi è la dimensione del consumo in cui l’aspetto espressivo e l’esigenza di ricerca di conferme alla propria immagine non sembra svilupparsi secondo questo modello razionale di valutazione delle alternative. Non tutte le decisioni procedono secondo questo modello lineare e razionalistico. Non a caso l’enfasi su modelli onnicomprensivi e razionalistici ha tuttavia riconosciuto una battuta d’arresto significativa già negli anni Ottanta (Simonson et al. 2001). Eppure ancora oggi non è difficile trovare teorie e modelli in cui il flusso decisionale viene descritto secondo un modello razionalistico, figlio dell’era positivistica, ma a volte distante dalla realtà dei fatti. Con ciò non si vuole svalutare il valore di numerose ricerche sui processi cognitivi e sulla razionalità dell’individuo, ma si ritiene opportuno segnalarne la debolezza nella spiegazione dei comportamenti. A volte il processo decisionale viene rappresentato come un percorso caratterizzato da una parte da un insieme di variabili umane come la personalità, la motivazione, la percezione, l’apprendimento e dall’altro dalla da processi razionali caratterizzato dalla valutazione cognitiva delle informazioni, la loro pesatura, la scelta razionale e così via. Le variabili come personalità e motivazione rischiano di essere percepite come variabili di disturbo che alterano inspiegabilmente il processo razionale di scelta. Come è possibile vedere nella figura successiva la personalità, l’apprendimento, la motivazione sono elementi importanti ma sembrano essere considerati come un insieme indefinito di variabili che sembrano non coincidere con il flusso più importante dove avviene la valutazione delle informazioni secondo un processo di tipo cibernetico. La stessa 14 rappresentazione grafica che troviamo in molti testi di marketing sottolinea la presenza di una distribuzione proporzionata degli elementi da studiare o da considerare. Il processo decisione qui descritto è coerente con il modello positivistico caratterizzato dalla possibilità di individuare leggi universali, razionalmente definibili, flussi decisionali caratterizzati da processi lineari e deterministici. Eppure numerose ricerche hanno dimostrato che il processo di decisione può avvenire attraverso diverse strategie. Ogni individuo, può, per esempio, valutare gli sforzi richiesti per una particolare scelta e scegliere la strategia migliore in funzione del livello di sforzo e di impegno richiesto. Alcune decisioni sono prese con un basso coinvolgimento emotivo, affettivo, cognitivo. Già nella seconda metà degli anni Settanta è stato evidenziato che le persone molto spesso non sono affatto consapevoli dei processi cognitivi che utilizzano nel formulare i propri giudizi e le proprie scelte (Nisbett, Wilson, 1977). Il processo decisionale non necessariamente rispetta il modello cibernetico razionale. Di fatto esistono processi automatici che riportano all’attenzione degli studiosi i processi preconsci, o la valutazione dei processi inconsapevoli o di processi di influenzamento di valori, emozioni, desideri sui processi di attenzione e percezione (Postmanm, Bruner, McGinnies, 1948). Anche il giudizio su di sé non sembra essere così lineare e logico come sembra. La percezione del proprio modo di essere è strettamente legata alla relazione sociale e influenzata da questa. Secondo uno dei primi teorici del comportamento sociale, Mead (1934) il proprio concetto di sé è il riflesso delle opinioni comunicati da altri per noi significativi. La società offre uno specchio nel quale scopriamo la nostra immagine o autodefinizione. Dai risultati di numerose ricerche risulta che la gente alimenta la propria autostima riponendo viva fiducia nelle opinioni di chi giudica favorevolmente piuttosto che a seguito di una precisa e puntuale analisi delle informazioni su di sé. Gergen già nel 1965 aveva dimostrato come l’autostima di un gruppo di studentesse universitarie potevano essere influenzate durante un’intervista fatta da un’attraente laureata in psicologia clinica che chiedeva loro di valutarsi più onestamente possibile. Ogni studentessa dava un punteggio alla propria persona, al proprio aspetto e alle proprie qualità sociali. La ricerca ha dimostrato come l’approvazione della psicologa data alle valutazioni positive delle studentesse produsse invariabilmente un aumento nell’autoconsiderazione dei soggetti. Oltre alle opinioni di persone significative il confronto sociale, studiato da Festinger nel 1954, ha un ruolo determinante nei giudizi su di sé. Il confronto sociale diviene pertanto il principale sistema di discernimento di ciò che è vero e che è falso nella vita sociale. Ciò fu dimostrato in una delle più note ricerche sul confronto sociale fatta da Morse e Gergen (1970): in questo esperimento un candidato si presentava per un intervista; durante l’attesa dell’intervistatore veniva fatto sedere da solo e provvisto di una 15 serie di moduli da compilare tra cui un test standardizzato sull’autostima. Una volta che il candidato avesse risposto a metà test, un secondo candidato veniva introdotto nella stanza. Questo era un complice dello sperimentatore e su metà dei soggetti della ricerca doveva fare colpo indossando un bell’abito, portando con sé una valigetta elegante, con dentro matite ben temperate, un libro di filosofia e un portadiapositive. Agli altri soggetti della ricerca la stessa persona si presentava maleodorante, con un vestito malconcio, uno zainetto consunto con dentro uno squallido romanzetto. I punteggi di autostima mostrarono risultati sorprendenti: dopo l’entrata a metà della compilazione i punteggi dei candidati cambiava significativamente. I punteggi della prima parte del test erano superiori dopo l’entrata della persona ben vestita e inferiori per coloro che avevano avuto il contatto con il tipo malconcio. Confrontandosi con quest’ultimo i candidati registrarono un aumento della loro autostima e lo dichiararono inconsapevolmente nella compilazione della seconda parte del test. Questa ricerca e altre simili hanno voluto indicare che il giudizio di sé può essere fortemente influenzato dal confronto con gli altri. L’uso delle scorciatoie: le euristiche Le euristiche, come dicevamo, sono strategie di pensiero che consentono di formulare rapidamente un giudizio sulla probabilità che qualche evento si verifichi o sulle caratteristiche di una persona o di un prodotto. Molti problemi conoscitivi che affrontiamo nella vita quotidiana sono strutturati in modo da richiedere l’uso del ragionamento probabilistico. In realtà le ricerche condotte sul modo in cui le persone rispondono a questo tipo di quesiti indicano chiaramente che in molti casi non vengono usate le leggi probabilistiche ma vengono utilizzati i processi di stereotipizzazione e la semplificazione.. Una delle principali euristiche è quella della rappresentatività. Secondo questa strategia, o meglio scorciatoia, persone o prodotti vengono inscritti in una categoria concettuale tramite un processo di valutazione della similitudine tra le loro caratteristiche principali e quelle rappresentative della categoria. I giudizi di categorizzazione basati sulla rappresentatività interessano principalmente l’utilizzo di schemi sociali relativi a prototipi o stereotipi (Zamperini, Testoni, 2002). Alcune imprese minori spesso cercano di trarre vantaggio da questa strategia cercando di creare prodotti con nomi o caratteristiche estetiche molto simili a quelli adottati da marche famose. In questo caso si vuole stimolare il consumatore a credere che le caratteristiche dei due prodotti siano simili. Un’altra euristica è quella della disponibilità secondo cui gli individui stimano la frequenza oggettiva di determinati eventi sulla base della facilità di recuperare di informazioni disponibili. Ciò significa che un individuo prova realmente a raccogliere le informazioni per risolvere il quesito e per stimare la probabilità da associare ad un evento, ma nel far ciò si basa sugli elementi cognitivamente più disponibili. Ecco perché dopo un grave fatto di cronaca relativo alle vittime di un incidente aereo troviamo una percentuale ampia di persone disposte a dichiarare che la probabilità di morte per incidente in aereo è tra le più alte, contrariamente a quanto le statistiche dichiarano inequivocabilmente. L’immediata ed effettiva disponibilità di informazioni affidabili su fatti ed eventi non corrisponde alla corretta valutazione delle frequenze degli eventi stessi. 16 In maniera del tutto automatica, poiché guidati da questi processi di semplificazione la probabilità soggettiva prende il sopravvento su quella oggettiva. Di fronte ad una possibile scelta di prodotti tutti uguali in termini estetici, di composizione di prezzo, di peso la possibilità di ricordare con più facilità il nome di un prodotto piuttosto che di un altro spinge a valutare più positivamente il prodotto di cui si ricorda il nome. Ecco perché le azione investono ingenti risorse per differenziare i propri prodotti da quelli concorrenti ricorrendo a miglioramenti nelle performance ma soprattutto investendo nella comunicazione poiché è senza dubbio importante influenzare la capacità dei consumatori di ricordare il prodotto dell’azienda. D’altra parte è proprio questa euristica che porta i consumatori a sovrastimare sistematicamente il valore di certi prodotti e delle marche più note. L’euristica dell’ancoraggio postula che quando le persone devono esprimere un giudizio in situazioni di incertezza, spesso riducono tale incertezza assumendo come punto di riferimento un dato per loro sicuro, come per esempio un’esperienza passata o uno stereotipo. Questo dato funge da ancoraggio per tutte le altre informazioni che verranno “accomodate” in modo da rimanere pertinenti al dato iniziale. Ecco che a causa di una valutazione pregiudiziale verso un prodotto, una marca o una persona sarà assai difficile riuscire ad accettare idee e informazioni ad essa contrastante. Le euristiche rispetto al pensiero logico formale sono più rapide, più facili e più semplici tali da condurre a soluzioni mediamente corrette. Unico problema ovviamente è quel termine “mediamente”. Si tratta, infatti, sempre di scorciatoie dettate certamente dall’esperienza, dalla condivisione di credenze, dalla semplificazione che in un contesto assai complesso come la realtà circostante sono molto utili, ma che rischiano di condurci ad un’eccessiva semplificazione e quindi all’errore. L’aspetto più interessante di questo processo è che nella maggior parte delle volte questo avviene in maniera del tutto inconsapevole, inintenzionale e automatico (Wilson et al. 1996). A volte sono proprio gli elementi più irrilevanti che influenzano il comportamento di scelta dell’individuo (Simonson et al., 1993). La scelta automatica guidata da un sentimento, da un’emozione, dall’esigenza di soddisfare un intimo bisogno o da un’abitudine non può che essere giustificata che da argomentazioni spesso lontani da una valutazione incapace di reggere ad un’analisi razionale ed oggettiva. I processi automatici sono fuori della sua consapevolezza. Si tratta di processi che si attivano senza l’intenzione della persona, sfuggono al suo controllo. Al contrario i processi controllati sarebbero processi meno efficienti (dal punto di vista del dispendio di energia psichica) in quanto richiedono sforzo e tempo, che possono essere disturbati da fattori personali (incapacità, fatica cognitiva, scarsa motivazione) e situazionali che vengono applicati intenzionalmente e consapevolmente dall’individuo che può quindi controllarli (Mannetti, 2003). Sulla base di questa distinzione alcuni autori hanno provato a individuare processi differenti che caratterizzano il modo di attribuire significati alle cose e al modo di prendere le decisioni. Significativi a questo riguardo sembrano le due teorie di Pretty e Cacioppo autori della teoria della probabilità dell’elaborazione e la teoria di Chaiken sull’elaborazione euristico sistemica. Secondo Pretty e Cacioppo il processo decisionale e di persuasione si sviluppa secondo due possibili vie: quella centrale e quella periferica. La prima prevede un’attenta elaborazione 17 cognitiva delle informazioni e delle alternative secondo il modello razionale e lineare che abbiamo descritto sopra. Questo processo centrale, che richiede energia e attenzione in genere viene attivato in funzione anche delle peculiarità della situazione e delle specificità della persona. Infatti le persone molto motivate ad elaborare attentamente le informazioni della situazione o il messaggio pubblicitario tenderanno ad attivare il percorso centrale soprattutto se sono e si percepiscono anche competenti in materia. Ovvero se hanno le competenze cognitive adeguate per procedere a questo tipo di elaborazione. La seconda via, quella periferica, è caratterizzata da un minore impegno nell’elaborazione delle informazioni e della presa di decisione. In questo caso la decisione viene presa in maniera quasi automatica, secondo abitudini o comunque facilmente determinata da pregiudizi, da attese, così come da influenze esterne. Non vi è un’attenta riflessione sulle informazioni e sulle possibili alternative. Quando la motivazione e la capacità cognitiva sono ridotte è più probabile che venga seguita la via periferica. Questa distinzione dovrebbe spingere l’uomo di marketing a prestare attenzione al grado di coinvolgimento e alle competenze del proprio gruppo target perché queste informazioni, secondo Pretty e Cacioppo (1983) permettono di capire se il messaggio deve essere strutturato per un’attenta elaborazione delle informazioni o se può solo agire a livello periferico, puntando così sugli aspetti di persuasione più superficiali come la gradevolezza della fonte piuttosto che la trattazione del contenuto e la qualità degli argomenti. Questa teoria ha spinto molti studiosi a valutare il grado di influenzamento nei processi decisionali di alcune variabili come la qualità degli argomenti, l’esperienza, il prestigio e la gradevolezza della fonte e il coinvolgimento delle persone (valutato in funzione della situazione misurando per esempio aspetti oggettivi come l’affaticamento e la distrazione) o aspetti soggettivi come l’interesse e la motivazione. Anche secondo Chaiken (1980) ogni individuo nell’attribuzione di un significato ad un messaggio o a un prodotto può utilizzare due diversi approcci o due diversi processi cognitivi: un processo centrale che richiede tempo e sforzo per elaborare attentamente la situazione e le diverse alternative e un processo di elaborazione euristica che utilizza semplici regole decisionali, apprese durante le esperienze precedenti o determinate dalle influenze sociali che richiede uno sforzo limitato. L’elaborazione euristica è in altre parole un processo cognitivo che procede dall’alto verso il basso in quanto utilizza strutture cognitive precedenti, aspettative e credenze, opinioni e pregiudizi per elaborare le nuove informazioni L’elaborazione euristica è più circoscritta rispetto alla via periferica di cui hanno parlato Pretty e Cacioppo (1983) perché la dimensione definita periferica faceva riferimento a tutto ciò che non era elaborazione attenta e dettagliata delle informazioni secondo un processo cognitivo e razionale. Tale modello tuttavia prevede che i due processi siano mutuamente escludenti. Non si può avere congiuntamente un processo periferico e centrale. Invece il modello di Chaiken prevede la possibilità che i due processi si verifichino contemporaneamente. In altre parole chi riceve il messaggio può avere la motivazione e la capacità di seguire un’elaborazione sistematica e allo stesso tempo , se sono disponibili potrebbe lasciarsi guidare da pregiudizi o da processi euristici (che descriviamo dettagliatamente più avanti). Il giudizio finale e il conseguente cambiamento dell’atteggiamento potranno essere influenzati in modo interattivo dalle due modalità di elaborazione. La scelta di un processo rispetto all’altro è infatti un falso problema poiché il 18 modo di reagire dell’individuo non può essere così semplificato ma va visto sempre in maniera sinergica, dinamica ed interattiva. A volte il processo potrà essere di tipo centrale, o prevalentemente di tipo centrale, altre volte prevalentemente periferico con un influenza forte dei processi euristici. La scelta di un’auto per esempio sembra essere guidata prevalentemente da un processo sistematico e centrale e di fatto è così. Ma non vi è alcun dubbio che in questo processi di scelta entrano in gioco elementi decisionali legati alla nostra esperienza passata, ai nostri desideri, ai significati più o meno razionali che attribuiamo a quella specifica scelta. E questo è quanto più vero oggi in cui la scelta di auto della stessa categoria che si assomigliano profondamente è guidata soprattutto da altre considerazioni piuttosto che dalla semplice valutazione costi benefici. In realtà i processi decisionali automatici e controllati non possono essere intesi come disgiunti e mutuamente escludenti. I processi controllati hanno una parte di automatismi così come gli automatismi hanno elementi di consapevolezza. La complessità dei processi decisionali non solo deve fare i conti con la presenza di processi non razionali o comunque non coscienti, ma anche con la compresenza di processi automatici e processi cognitivi controllati. In genere i processi automatici sono quelli che vengono attivati più immediatamente, sono quei processi che forniscono la prima risposta che viene successivamente controllate se necessario modificate, attraverso uno sforzo cognitivo e un maggiore tempo per l’analisi della situazione o del prodotto. Tra i fattori capaci di stimolare un processo controllato e di stimolare un maggiore impegno energetico vi sono alcuni elementi come per esempio la presenza di nuove informazioni incongruenti con gli schemi posseduti o con le aspettative, l’interesse della persona per eventuali giudizi esterni o la percezione di dovere rendere conto della scelta fatta ad altri o a se stessi, tutti fattori che stimolerebbero un certo bisogno di accuratezza, mentre la dimensione temporale così come la stanchezza e la mancanza di energie o interessi specifici (appunto il debole coinvolgimento personale verso qualcosa o qualcuno)sarebbero fattori che ostacolano l’applicazione di processi cognitivi controllati. Questi argomenti e queste teorie sono state alla base di molte ricerche e di molti dibattiti in questi ultimi anni. E’ bene però sottolineare, per ricollegarci a quanto abbiamo detto all’inizio del paragrafo, che sia il modello della probabilità che quello dell’elaborazione euristica sistematica presuppongono che le persone siano sempre ed esclusivamente motivate a trovare soluzioni razionali o comunque accurate e che i processi decisionali siano pur sempre caratterizzati da processi “freddi” e logici. A volte il grado di logicità si riduce poiché ci lasciamo guidare da aspetti superficiali e da un’analisi semplice della realtà, altre volte il grado di elaborazione è elevato. Si tratta, comunque, di modelli che considerano esclusivamente la funzione cognitiva degli atteggiamenti e della scelta di consumo, senza considerare la dimensione affettiva, emozionale e del desiderio che ha un ruolo determinante nella spiegazione dei processi di scelta. Eppure anche nella ricerca delle informazioni, come abbiamo visto più sopra, la dimensione motivazionale ed affettiva ha un ruolo determinante. L’attenzione su un’area, su un oggetto, su una persona può essere influenzata dal piacere di avere un contatto giusto con quello oggetto o con quella persona modificando anche il processo di raccolta di informazioni. Pur di mantenere inalterata la propria autostima, gli individui vanno alla ricerca di tutte le informazioni che non possono che dare conferma delle proprie qualità. Anche la scelta di 19 effettuare la ricerca delle informazioni utilizzando la propria banca interiore (la memoria che è a sua volta strettamente influenzata dalle emozioni) o l’ambiente esterno dipende da processi affettivi e non è solo da motivi razionali. Se osserviamo i processi di consumo come quelli relativi all’acquisto di auto ci rendiamo conto che anche in questo campo la raccolta dettagliata di informazioni non sempre rappresenta un elemento importante e determinante. Uno studio effettuato tra i consumatori australiani (Solomon, 2002) ha mostrato che più di un terzo degli acquirenti di una nuova auto fanno sue o poco più di due visite in giro per le concessionarie prima di acquistare l’auto. Nel caso in cui l’oggetto di acquisto ha un valore simbolico, legato maggiormente all’espressione di sé, come l’abbigliamento i consumatori tendono, paradossalmente, ad impegnarsi maggiormente proprio perché il rischio di sbagliare la modalità più giusta per esprimere se stessi viene vissuto con maggiore preoccupazione. La ricerca stessa delle informazioni, a volte, non risponde a principi logici e razionali. Ogni individuo può distinguersi dall’altro anche in funzione dell’impegno e delle energie che investe per cercare le informazioni in merito ad un prodotto da acquistare. In genere dovrebbero essere i consumatori che per la prima volta si confrontano con un prodotto a dovere cercare tutte le informazioni per decidere, così come coloro che si ritengono più esperti perché conoscono la materia e vogliono sapere di più in merito alle caratteristiche del prodotto che conoscono. Di fatto alcune ricerche hanno dimostrato che né gli uni, né gli altri sono i soggetti che maggiormente dedicano la loro attenzione alla ricerca delle informazioni. Coloro che moderatamente conoscono il prodotto sembrano essere quelli più stimolati ad intraprendere un percorso di approfondimento e di accurata ricerca delle informazioni. Sembrerebbe che ci sia una relazione a U capovolta tra la conoscenza e la familiarità del prodotto e l’impegno e l’energia spesi nella ricerca delle informazioni aggiuntive. Il ruolo delle emozioni e delle motivazioni nella percezione della realtà Bruner in un convegno del 1955 in Colorado durante il suo intervento dal titolo Going beyond the information given (Bruner, 1983, Contarello e Mazzara, 2002) ha voluto dimostrare che la percezione non è altro che un processo di categorizzazione e di costruzione soggettiva. Non più solo acquisizione di informazioni attraverso in nostri sensi ma processo di rielaborazione delle informazioni sensoriali attraverso la guida dettata dai nostri desideri e dalle nostre emozioni. E per dimostrare questo assunto Bruner si è servito di uno dei più noti esperimenti che i manuali di psicologia sociale riporta. Tale esperimento intitolato da Bruner Value and need as organizing factors in perception, consisteva nel chiedere ad un gruppo di ragazzi di dieci anni di età di giudicare la grandezza di alcune monete. Metà del gruppo campione dei bambini proveniva da un’area benestante di Boston mentre la restante parte dai sobborghi e dalle zone più povere della città. I risultati mostrano che questi ultimi tendevano a sovrastimare la grandezza delle monete rispetto al primo gruppo, soprattutto per le monete di maggiore valore e ad accentuare le differenze tra le diverse monete, soprattutto quelle che avevano i valori più estremi, contrastando il principio della tendenza centrale secondo cui un gruppo di valutatori tendono naturalmente a confluire verso un giudizio di valore medio indipendentemente dall’oggetto da valutare. 20 L’appartenenza ad un contesto sociale, i bisogni e i desideri hanno influenzato la percezione della grandezza delle monete indicando chiaramente l’influenza dei processi “caldi” affettivi e cognitivi nell’elaborare le informazioni. A partire dagli anni Cinquanta e dai risultati di ricerche su tale ambito Bruner ha approfondito i processi di sviluppo dei bambini per provare a studiare come questi imparano ad andare oltre l’informazione data. Questi studi hanno spinto Bruner e altri studiosi a riflettere sull’importanza della relazione sociale e dei vissuti dei bambini per la crescita e lo sviluppo cognitivo del bambino. Lo stesso Bruner si è soffermato sul ruolo attivo che hanno gli adulti nello sviluppo del linguaggio e nell’influenza che ha l’adulto nei processi di acculturazione e di crescita. Questo tema non è certo lontano dalle problematiche di oggi. La motivazione sembra, pertanto, avere un ruolo determinante nell’interpretazione della realtà. Diversi studi hanno infatti sottolineato l’influenza esercitata dalla motivazione all’accuratezza, per esempio, sui processi cognitivi. La motivazione all’accuratezza o il suo contrario la motivazione alla chiusura cognitiva determinano la quantità e la qualità dell’attività cognitiva di un soggetto e del grado di impegno nella ricerca di informazioni più dettagliate e nell’individuazione di possibili alternative nella scelta di un particolare comportamento. Se la motivazione all’accuratezza spinge le persone ad adottare strategie più onerose la motivazione alla chiusura cognitiva spinge all’adozione di strategie semplificatrici come per esempio l’uso dell’euristiche. Secondo Kruglaski (1996) la motivazione alla chiusura coincide con l’utilizzo di schemi e stereotipi e con l’impazienza e impulsività nel formulare giudizio. Si tratta di un modo di reagire al contesto sociale dettato prevalentemente da una forma di rigidità di pensiero e dalla riluttanza ad accettare punti di vista diversi dal proprio. La motivazione alla chiusura può essere indotta da caratteristiche del contesto (situazione id pressione temporale, affaticamento, rumore, noiosità e comunque scarso interesse al compito) sia essere una caratteristica disposizionale di un individuo (Mannetti, 2003) e determina: la riduzione della ricerca di altre informazioni prima di prendere una decisione, la formulazione di un numero inferiore di alternative, una maggiore predisposizione a recepire le prime informazioni e un maggiore affidamento a pregiudizi e stereotipi. Le aspettative sono una semplice lettura della realtà o contribuiscono a modificarla? Abbiamo visto che gli schemi hanno un ruolo determinante per la rappresentazione della realtà e per guidare il nostro comportamento. Tuttavia in alcuni casi l’uso di questa modalità semplificata può portare alla formulazione di giudizi, convinzioni e decisioni inadeguate se non addirittura dannose. Sulla base del processo semplificatore degli schemi nascono i pregiudizi, ovvero una forma di giudizio che anticipa, e quindi semplifica, l’attribuzione di senso ad un evento, l’attribuzione di causa ad un comportamento, attribuzione di aspetti caratteriali alle persone. In questo caso si parla di stereotipo sociale inteso come una forma di teoria implicita di personalità, condivise all’interno di un gruppo di persone e che riguardano il proprio gruppo o un altro gruppo. L’aspetto più importante per la definizione dello stereotipo è che si tratta di una teoria implicita condivisa da una comunità di individui e che tali teorie implicite si riferiscono ai 21 partecipanti di un intero gruppo. Uno degli autori che ha dato grande impulso alla ricerca sugli stereotipi è stato Tajfel che le 1969 pubblicò un articolo dal titolo, Aspetti cognitivi del pregiudizio, in cui affermò che gli stereotipi possono essere concepiti come particolari forme di categorizzazione che consistono nell’accentuare le somiglianze interne al gruppo e le differenze fra gruppi. Questi rischi si aggravano se consideriamo che in genere le persone mostrano nei confronti dei propri schemi mentali un notevole attaccamento. A volte, pur di non mettere in discussione le proprie e rassicuranti certezze si rischia di considerarle valide anche di fronte a nuove e chiare informazioni. Per evitare la sgradevole sensazione determinata dalla dissonanza è possibile riscontare anche una forma di adattamento forzato dei nuovi stimoli agli schemi preesistenti. Si parla in questo caso di perseveranza degli schemi. Questa perseveranza rischia di innescare poi un meccanismo perverso definito profezia che si autoavvera. Secondo tale fenomeno l’adozione di uno schema per interpretare un fenomeno, un evento o il comportamento di una persona può influenzare tanto il nostro modo di relazionarci con quella persona o evento da creare i presupposti per la conferma dello schema o del pregiudizio. Esempio comune di tale fenomeno si ha quando convinti che le persone di un certo gruppo sono poco socievoli e introverse ci relazioniamo con loro in maniera poco amichevole, forse intimoriti dal nostro schema e dal pregiudizio. Ma questa modalità poco accogliente rischia di determinare una relazione perfettamente coerente con lo schema che abbiamo appena adottato per adeguare il nostro comportamento al presunto modo di essere dell’altro. Lo schema ci ha fatto perdere di vista il nostro comportamento che è diventato un vero e proprio stimolo ad un comportamento meno accogliente dell’altro, determinando la profezia che si autoavvera. Rosenthal e Jacobson (1968) hanno realizzato una delle più note ricerche sull’influenza degli schemi e dei pregiudizi. L’esperimento realizzato con il coinvolgimento di insegnanti ha voluto analizzare il ruolo delle aspettative nei confronti dei propri studenti nell’influenzare e determinare il comportamento e il rendimento degli studenti stessi. La ricerca rientra tra le numerose attività di analisi e studio che negli anni Sessanta in America avevano stimolato l’interesse degli studiosi per cercare di comprendere e gestire il differente modo di relazione degli insegnanti nei confronti di gruppi etnici diversi. Per studiare questi aspetti i due ricercatori fecero un esperimento in una scuola di San Francisco somministrando a tutti gli studenti un questionario di intelligenza. Successivamente agli insegnanti fu comunicato il livello intellettuale dei rispettivi alunni per verificare se questo “schema”, questa informazione potesse in qualche modo influenzare il loro modo di relazionarsi con studenti con livello basso, medio e alto. Fu comunicato agli insegnanti solo l’insieme degli studenti che avevano ottenuto un punteggio elevato (livello intellettuale superiore), creando poi un gruppo di controllo di studenti di cui non gli insegnanti non avevano alcuna informazione dei risultati del test. Di fatto l’attribuzione di un punteggio superiore alla media fu dato in maniera del tutto casuale. Dopo otto mesi i due ricercatori somministrarono nuovamente il test per verificare eventuali miglioramenti. I risultati rilevarono che gli studenti ritenuti più bravi al test effettivamente ottennero un punteggio significativamente superiore degli studenti del gruppo di controllo. Effettivamente si registrò un miglioramento elevato. Ulteriori ricerche hanno poi dimostrato che il raggiungimento di una prestazione decisamente superiore per quei ragazzi nei confronti dei quali si erano indotte delle aspettativa più elevate furono determinate in parte da 22 comportamenti diversi da parte degli insegnanti nei confronti degli studenti ritenuti più bravi: gli insegnanti mostravano più attenzione a questi studenti, li stimolavano con compiti più impegnativi, fornivano loro feedback più frequenti e positivi e offrivano maggiori opportunità di partecipazione alle attività rispetto al gruppo di controllo. Ecco un chiaro esempio di profezia che si autoavvera. Le aspettative degli insegnanti avevano determinano un cambiamento nei loro stessi comportamenti tanto da influenzare le prestazioni reali degli studenti. 23 La valutazione dell’ambiente e delle persone: l’attribuzione di causa Il tema dell’attribuzione di causa è di grande interesse per la psicologia sociale poiché fa riferimento ad un considerevole numero di studi e di ricerche sui processi attraverso il quale gli individui giustificano i propri comportamenti sociali e i comportamenti altrui. Per la descrizione di questo processo partiamo dai risultati di un’interessante ricerca condotta da Duncan nel 1976 sulle percezioni e le spiegazioni della violenza che si verifica fra individui della stessa razza e membri di razze diverse. Ai soggetti dell’esperimento fu mostrato un filmato in cui dei soggetti agivano in maniera sempre più aggressiva l’uno verso l’altro terminando la sequenza con la visione di uno dei partecipanti che dava una spinta ad un altro. I risultati sorprendenti dimostrarono che quando il protagonista che agiva in maniera violenta era di colore nero, oltre il 70% dei soggetti scelsero la categoria “comportamento violento” per descrivere ciò che avevano visto. Quando invece la spinta veniva data dal bianco nei confronti del nero tale percentuale scendeva drasticamente al 13%. Chiedendo poi di spiegare il comportamento osservato Duncan si rese conto che l’appartenenza da una razza era determinante nell’attribuzione di causa dei comportamenti osservati. Quando colui che dava la spinta era nero i soggetti affermavano che tale comportamento violento era strettamente legato a fattori disposizionali, ovvero a caratteristiche di personalità, mentre nel caso in cui si trattava di persona di razza bianca i soggetti nell’attribuzione di causa del comportamento violento facevano riferimento maggiormente ad aspetti situazionali. Tali risultati hanno stimolato un’innumerevole quantità di ricerche sull’attribuzione di causa dimostrando come lo stesso evento può essere letto in maniera assolutamente differente in funzione della persona che agisce, delle caratteristiche ad essa attribuite, in funzione del contesto e così via. I primi studi sull’attribuzione di causa sono stati realizzati da Heider (1958). Costui concepì l’individuo come uno scienziato ingenuo il cui compito è quello di collegare il comportamento osservabile con cause non osservabili al fine di potere spiegare i fenomeni che osserva. Nel pieno rispetto dell’immagine dell’uomo come individuo elaboratore di informazioni, Heider considerava l’individuo come proteso a raccogliere i dati necessari alla conoscenza di un certo oggetto e a giungere a conclusioni logiche come si farebbe in un laboratorio sperimentale. Secondo questo autore il compito principale che deve risolvere un soggetto osservatore è decidere se una particolare azione è causata da fattori interni e disposizionali (le sue abilità, la sua personalità, la sua motivazione) o indotta da fattori esterni o situazionali (la fortuna, le specifiche condizioni in cui si viene a trovare). L’attribuzione di causa a fattori interni o esterni modifica radicalmente il significato attribuito ad un’azione e conseguentemente il nostro modo di reagirvi. Si provi a pensare alle nostre reazioni di fronte ad un comportamento indisponente subito e alle diverse reazioni che abbiamo avuto nel caso in cui tale azione sia stata attribuita a caratteristiche personali dell’attore, piuttosto che alla situazione che ha spinto l’attore a comportarsi in una particolare maniera. La stessa materia giuridica impone la valutazione di un’azione criminale in funzione dell’influenza situazionale o della preterintenzionalità. Secondo Heider nell’attribuzione di causa dei comportamenti sembra che vengano privilegiate le spiegazioni in termini di caratteristiche disposizionali poiché più economiche (è più facile attribuire le colpe alle persone che analizzare la complessità del sistema, basti 24 pensare a quanto sia facile attribuire all’errore umano un incidente catastrofico in un’azienda piuttosto che analizzare quanto l’azienda stessa e le sue macchine e le sue contraddizioni possano realmente spingere l’individuo a commettere un errore). In questo modo la causa di un evento viene attribuita ad un solo elemento: l’individuo e le sue presunte debolezze. D’altra parte secondo l’autore la persona sembra essere sempre più saliente rispetto al contesto in cui si muove, dando luogo ad un effetto percettivo simile a quello di figura sfondo. Attore e azione formano un’unità causale (Heider, 1958) la quale induce il soggetto a focalizzare l’attenzione sulla persona, anziché sulla situazione assegnandole così un ruolo a volte sproporzionato. Nella valutazione di una notizia di cronaca sugli incidenti stradali è facile attribuire le responsabilità alle caratteristiche di personali, con il rischio di perdere di vista gli effetti delle condizioni di usura dell’auto, della cattiva progettazione delle strade, dell’inadeguatezza dei segnali e così via. D’altra parte l’uso di tratti di personalità per descrivere le persone e dare senso alle loro azioni caratterizza la cultura occidentale. Essa rappresenta una abitudine abbastanza diffusa e coerente con la particolare sensibilità che la dimensione individuale ha in questa cultura individualista rispetto alle culture collettiviste. Il contributo di Heider (1958) relativo alle variabili disposizionali è stato per la psicologia sociale di grande valore per avere introdotto per avere dato il via a numerosi altri studi sui processi di attribuzione. Tra questi vi è il lavoro di Jones e Davis (1965) e il loro modello dell’inferenza corrispondente. Secondo questi autori il processo attributivo consiste nel risalire dal comportamento osservato e dai suoi effetti alle eventuali intenzioni dell’attore e dalle intenzioni alle caratteristiche disposizionali (i tratti di personalità) che le sottendono. Il processo attributivo si distingue, in questo caso, in due fasi, la prima in cui l’osservatore prova a riconoscere il carattere intenzionale dell’azione osservata e la seconda più strettamente legata all’inferenza delle caratteristiche disposizionali dell’attore. Durante la prima fase per inferire che alcuni degli effetti di un’azione siano intenzionali l’osservatore deve credere che l’attore conosca le conseguenze della sua azione e che abbia la capacità (per esempio la forza) di produrre gli effetti osservati. Riconosciute le abilità dell’attore e la sua consavolezza degli effetti della sua azione il passo successivo è l’accertamento che al momento dell’azione l’individuo si trovava in condizione di libera scelta (non era sotto pressione esterna nell’agire una particolare azione). Un’azione compiuta sotto costrizione ( o prescritte dal ruolo agito in un particolare momento o influenzato da particolari norme) non può essere attribuita alle caratteristiche di personalità dell’attore. Il soggetto percepiente inizia questa seconda fase del processo attributivo confrontando le conseguenze delle azioni scelte con quelle di altre possibili azioni, non attuate. Il principio che guida il processo inferenziale è quello degli effetti non comuni in base al quale il soggetto compie un’inferenza corrispondente quando l’azione da lui scelta produce degli effetti relativamente unici o comuni (Hewstone et al. 1988). Ad esempio, dare una spinta a qualcuno è un’azione facilmente distinguibile da altre azioni possibili e ciò che la differenzia è il fatto di arrecare un dolore fisico. Minore è il numero di tali effetti non comuni, tanto più saremo sicuri della correttezza delle inferenze sulle disposizioni personali. Un altro contributo di grande interesse per le teorie sull’attribuzione è quello offerto da Kelley (Kelley, 1973; Kelley e Michela, 1980), autore della teoria della covariazione, il quale 25 inizia il suo lavoro interrogandosi su quale è l’informazione che le persone usano per arrivare ad un’attribuzione causale. Secondo Kelley le persone adotterebbero gli stessi processi che uno scienziato utilizza nel laboratorio per dare spiegazione ai fenomeni. In particolare Kelley afferma che “un certo effetto viene attribuito a quella condizione che è presente quando l’effetto è presente e assente quando l’effetto è assente”, ovvero se una condizione si presenta al soggetto percepente quando ha luogo un certo evento e non si presenta quando l’evento non ha luogo costui tende a concludere che la condizione causa l’evento. Per fare questo tipo di analisi l’individuo si serve di tre regole: la regola della specificità, del consenso e della congruenza. Per una breve descrizione di queste regole proviamo a fare un breve esempio: supponiamo di dovere decidere se andare in un ristorante a mangiare del buon pesce sulla base delle informazioni sulla bontà del cibo e del servizio che ha dato il nostro caro amico Luigi. Per decidere se andare in quel ristorante per noi diventa importante valutare se il giudizio più che positivo di Luigi sia più attribuibile alla reale qualità del ristorante e alla freschezza del pesce provato o alle sua eccessiva cortesia e gentilezza nel giudicare i ristoranti. Per potere decidere partiamo dalle informazioni che abbiamo: Luigi lavora spesso fuori ufficio, e mangia molte volte al ristorante, se il giudizio positivo di Luigi è stato espresso solo per quel ristorante (alta specificità), o comunque se Luigi non esprime così facilmente giudizi positivi come Matteo per esempio; se il suo giudizio è coerente nel tempo (Luigi torna in quel ristorante più volte e giudica sempre positivamente quel ristorante) (alta congruenza), e se il suo giudizio coincide con quello del nostro amico Ivan e tanti altri nostri amici (alto consenso), allora potremmo essere certi che il giudizio dato da Luigi non è attribuibile alla sua personale predisposizione a giudicare positivamente i ristornanti, ma può essere ragionevolmente attribuibile ad una causa esterna ben precisa: la bontà del pesce mangiato e la qualità del servizio di quel ristorante. In genere utilizziamo le regole della specificità, del consenso e della congruenza per l’attribuzione delle cause dei comportamenti degli altri. Alcuni autori (Weiner et al. 1979), tuttavia, hanno sollevato qualche perplessità sull’utilizzo di questo processo inferenziale così preciso e dettagliato nell’attribuzione delle cause. Supponiamo che dopo avere usato le regole indicate da Kelley concludiamo che un complimento che abbiamo ottenuto da un amico per un esame sostenuto con successo sia attribuibile più che alla facilità del nostro amico a fare complimenti, alle nostre reali capacità dimostrate durante l’esame: il nostro amico si è congratulato con noi e con nessun altro (regola della specificità), molti altri colleghi si sono congratulati con noi (regola del consenso ed accordo intersoggettivo), la versione scritta dell’esame ha ottenuto lo stesso successo della versione orale per cui abbiamo avuto le congratulazioni (regola della congruenza della causa), in questo caso potremmo veramente essere soddisfatti di noi stessi e credere che il successo ottenuto sia frutto di “cause interne”? Questa è la domanda che si sono posti Weiner e i suoi collaboratori (1979) dopo avere applicato il modello di Kelley. Secondo questi autori non è sufficiente avere stabilito di essere causa dei propri successi poiché occorre, inoltre, decidere se il proprio successo è frutto di impegno, oppure di specifiche capacità. Se il fallimento viene attribuito a scarse capacità (fattori disposizionali stabili) si potrà pensare ad un fallimento come a una situazione immodificabile e duratura, se invece si ritiene che il proprio fallimento o successo sia dipeso da scarsa applicazione (impegno appunto) probabilmente l’impegno nella prova successiva sarà maggiore. Weiner e collaboratori sottolineano il ruolo della motivazione 26 come fattore dinamico che si manifesta sotto forma di spinta soggettiva a competere, a cimentarsi in certi compiti e a perseverare anche di fronte a ostacoli difficili. In questo caso questa spinta motivazionale è strettamente dipendente: a) dall’attribuzione del “locus of control” (Rotter, 1966) (il luogo del controllo interno o esterno richiama un principio secondo cui le persone possono distinguersi per una prevalente attribuzione dei fenomeni a cause interne o per l’abitudine o la prevalenza ad attribuire ciò che accade a cause esterne); b) dalla stabilità della causa; c) dalla controllabilità, che attiene al grado in cui la persona crede che la propria prestazione cada sotto il controllo volontario. Per fare un esempio i fattori causali abilità e sforzo sono considerati entrambi interni, ma se il primo è ritenuto stabile ed incontrollabile, il secondo risulta instabile e controllabile. Sul piano psicologico questi tre elementi possono incidere profondamente sul modo di percepirsi e di percepire gli altri. Il locus per esempio incide sull’autostima: più sento che gli eventi che mi circondano sono fuori dal mio controllo più bassa sarà la propria autostima o l’immagine positiva che si ha di sè. La stabilità agisce sulle aspettative di successo o insuccesso in una prospettiva futura. La controllabilità, quando, è riferita a fallimenti personali produce emozioni di colpa e vergogna. Come abbiamo potuto vedere in questi modelli di spiegazione dell’attribuzione di causa, e soprattutto nel modello dei Kelley, si concepisce la persona tanto razionale da individuare i processi attraverso cui si dovrebbero compiere le attribuzioni causali accurate. In pratica, l’evidenza empirica ha mostrato che i soggetti percepienti non seguono la logica dello scienziato, usando modello formali e dettagliati nell’attribuzione di causa. Piuttosto fanno attribuzioni in modo rapido, impiegando molto meno informazione e mostrando evidenti tendenze a servirsi di spiegazioni semplificate. Nei processi attributivi entrano, infatti, in gioco errori o bias capaci di distorcere i processi che dovrebbero essere, o che vorremmo che fossero, lineari e logici. Tra questi bias ricordiamo l’errore fondamentale di attribuzione, già menzionato, in cui si sopravvalutano le disposizioni e si sottovalutano le influenze situazionali come cause del comportamento (Ross, 1977); le divergenze attore-osservatore intesa come la tendenza diffusa che porta gli attori sociali ad attribuire il proprio comportamento a fattori situazionali, mentre gli osservatori spiegano le stesse azioni nei termini di caratteristiche stabili e disposizionali (Jones e Nisbett, 1971); il falso consenso che si fonda sul presupposto che le altre persone si comportano come il soggetto percepente (Ross, Greene e House, 1977); i giudizi tendenziosi in favore di sé che inducono le persone ad ascrivere il proprio successo a disposizioni interne, come la capacità personali, e i fallimenti alle caratteristiche della situazione, come la difficoltà di un compito o di un esame. Quante volte gli studenti attribuiscono alla difficoltà dell’esame o alle difficoltà relazionali con il proprio docente, gli insuccessi attribuibili alla mancanza di impegno personale nella preparazione dell’esame finale di un corso? Quasi tutti siamo abituati ad attribuire il merito per i nostri risultati positivi ed evitiamo di rimproverarci per quelli negativi al fine di preservare, aumentare e proteggere la nostra autostima, o presentare un’immagine favorevole agli altri o semplicemente conservare il controllo sull’ambiente. Ed infine un ultimo bias è relativo a giudizi tendenziosi in favore del proprio gruppo, secondo il quale i membri di un gruppo di successo tendono a assumere la responsabilità di prestazione del gruppo in misura superiore a coloro che si trovano all’interno di un gruppo che ha fallito in un compito (Schlenker e Miller, 1977). 27 Il ruolo degli atteggiamenti nelle interazioni Il concetto di atteggiamento ha sempre avuto un ruolo determinante nella psicologia sociale. L’importanza attribuita a questo concetto ha origine nella convinzione che i comportamenti umani sono strettamente influenzati dagli atteggiamenti delle persone. Gli atteggiamenti sociali costituiscono pertanto degli indicatori attraverso i quali è possibile prevedere le azioni delle persone. Oltre a ciò è opinione diffusa che per modificare un comportamento di un individuo un punto di partenza consista nel cambiare i suoi atteggiamenti. Al fine di spingere il consumatore ad acquistare un particolare prodotto la pubblicità cerca di fare cambiare atteggiamento nei confronti di qual prodotto attraverso la costruzione di un’immagine positiva del prodotto stesso o attraverso la comunicazione dell’esperienza che tale prodotto promette al consumatore; per essere rieletto un politico cerca di suscitare nei suoi elettori atteggiamenti ed opinioni positive su di sé e possibilmente sui propri programmi (anche se l’attenzione sui programmi sembra cha abbia avuto in questi ultimi anni un ruolo meno determinante nel “condizionare” i comportamenti degli elettori). Il concetto di atteggiamento, de resto, è largamente usato anche nei discorsi e nelle conversazioni quotidiane. Tutti noi facciamo riferimento agli atteggiamenti positivi o negativi che i nostri amici hanno verso una persona o un evento, verso l’ambiente o verso certe ideologie o partiti politici. Il concetto di atteggiamento sembra essere un elemento determinante, per questo è stato studiato e approfondito per diversi anni. Tuttavia a differenza di altri concetti delle scienze sociali, questo rischia di essere un concetto astratto, privo di significato o di una definizione che sia assoluta e corretta. Esaminando i testi a disposizione si possono trovare molte definizioni degli atteggiamenti. Proviamo a definire cosa intendiamo per atteggiamento? Il problema che molti studiosi si sono posti è da una parte provare a dare una definizione di un concetto tanto usato da renderlo quasi come un’entità prototipica di indiscutibile rilevanza, uno di quei concetti che sembrano vivere di vita propria, e dall’altra provare a individuare il modo migliore di misurare gli atteggiamenti per potere predire i comportamenti sociali. Di fatto questa stretta relazione di dipendenza tra atteggiamento e comportamento è stata oggetto di analisi e di dibattiti non solo metodologici ma anche concettuali. L’atteggiamento originariamente ha fatto riferimento alla dimensione individuale: è stato infatti considerato una proprietà dell’individuo, un suo modo di considerare gli oggetti, gli eventi e le persone con cui entra in relazione. L’atteggiamento infatti indica il grado di piacevolezza o meno che si prova verso un oggetto. Tuttavia questa definizione incide significativamente sul modi di vedere l’atteggiamento, poiché sembra sottolineare la dimensione valutativa che l’individuo fa nel momento in cui esprime un giudizio nei confronti di un oggetto. Come vedremo più avanti, provando a definire scientificamente il termine atteggiamento che questo concetto è tanto complesso da non potersi limitare ad un’espressione di giudizio nei confronti di un oggetto. Una cosa è certa: il concetto di atteggiamento ha avuto un grande successo in termini di attenzioni e di ricerche negli Stati Uniti a partire dagli anni Trenta con un’accezione prevalentemente individuale. Siamo infatti in un contesto sociale in cui le scelte individuali di consumo e di investimento assumono un’importanza determinante. Non è un 28 caso che tale macro concetto caratterizzato da una particolare valenza individuale abbia trovato il suo naturale terreno di sviluppo giusto negli Stati Uniti. “Solo in società “democratiche” poteva svilupparsi un interesse così profondo per la conoscenza di atteggiamenti e un’altrettanto curiosità per le modalità in cui essi possono essere modificati, specie attraverso quei mezzi di comunicazione di massa come la stampa, la radio, il cinema, e la televisione da cui la società statunitense dipendeva e tuttora dipende per immaginarsi come efficace comunità ideale e pratica” (Mantovani, 2003). Lo studio degli atteggiamento e le loro definizione hanno per lungo tempo fatto riferimento a questa dimensione individuale che tanto ha caratterizzato la società occidentale. Solo al termine del secolo scorso la stessa definizione di atteggiamento ha lasciato spazio ad una riflessione più collettivista considerando questo concetto non solo come il risultato di una valutazione e di una espressione dell’individuo ma il risultato di una più profonda influenza culturale e sociale. Proviamo ad andare con ordine per analizzare gli aspetti determinanti relativi agli atteggiamenti: la loro definizione, la loro funzione e il loro rapporto con il comportamento dell’individuo. Il termine atteggiamento sociale fu introdotto in psicologia sociale da Thomas e Znaniecki nel 1918 per spiegare la differenza riscontrata nel comportamento dei contadini polacchi emigrati in America con quello dei loro connazionali rimasti in patria. In quell’occasione Thomas e Znaniecki definirono l’atteggiamento come quel “processo mentale individuale che determina le risposte effettive e potenziali di ogni individuo al suo mondo sociale”. In questa definizione risalta in primo piano la disposizione che l’individuo avrebbe nei confronti di un oggetto come elemento caratterizzante il concetto di atteggiamento. Un’altra interessante definizione che sembra calcare le orme di questi autori fu la definizione che ne diede Gordon Allport (1935) che descrisse l’atteggiamento come “uno stato mentale o neurologico di prontezza, organizzata per mezzo dell’esperienza, che esercita un’influenza di controllo o dinamica sulle risposte dell’individuo nei confronti di ogni oggetto o situazione con cui entra in rapporto”. A partire da queste definizioni è possibile adottarne una che rispecchia quelle già riportate e che è stata data da Eagly e Chaiken (1993) secondo la quale “l’atteggiamento è una tendenza psicologica che viene espressa valutando una particolare entità”. Ciò significa che perché una persona possa avere un atteggiamento è necessario che essa entri in contatto direttamente o indirettamente con uno specifico oggetto ed esprima una forma di valutazione nei suoi confronti che può essere manifesta o nascosta, implicita o esplicita, automatica o intenzionale. A partire da queste definizioni, ed altre ancora, è possibile individuare nel concetto di atteggiamento le seguenti caratteristiche fondamentali degli atteggiamenti: • essi si riferiscono a persone o oggetti che fanno parte dell’ambiente dell’individuo; • essi formano una parte del modo in cui l’individuo percepisce e reagisce al suo ambiente ed incidono sui modi con cui attingiamo informazioni dall’ambiente e di conseguenza influenzano la percezione delle mete che vogliamo raggiungere, in questo senso hanno un carattere motivazionale; • gli atteggiamenti vengono appresi e sono relativamente duraturi, il loro mutamento avviene in genere molto lentamente; • gli atteggiamenti implicano valutazioni e sentimenti. 29 L’importanza del valore conoscitivo degli atteggiamenti ci viene dimostrata dal ruolo che gli atteggiamenti hanno nella stessa selezione delle informazioni. Come abbiamo visto nella prima parte del capitolo il modo di elaborare le informazioni è strettamente legato all’utilizzo di particolari filtri cognitivi ed emotivi. Per cercare di semplificare la realtà e di difendere anche il proprio sistema di credenze e di valori le informazioni vengono selezionate, anche inconsapevolmente. Gli atteggiamenti influenzano infatti sia la ricerca attiva dell’informazione pertinente per l’atteggiamento, il processo di codifica dell’informazione (i processi percettivi e di giudizio), il recupero stesso di tale informazione dalla memoria. In una vecchia ricerca (Gollin, 1954) venne mostrato ad alcune persone un fil nel quale una donna si comportava in maniera palesemente contraddittoria da una scena all’altra. In alcune scene si mostrava gentile e generosa, dedita all’assistenza di un aziano malato. In altre appariva equivoca e “dura”: poteva per esempio apparire come una prostituta in strada. Chiedendo alle persone di mettere per iscritto una descrizione complessiva del personaggio si evidenziò che la maggior parte delle persone (il 58%), allo scopo di fornire un’immagine coerente ignorò diverse scene, se le loro descrizioni erano pressoché positive, tendevano a tralasciare le immagini in cui appariva una figura discutibile e viceversa. Alcuni autori ritengono che insieme all’aspirazione ad una coerenza logica e razionale un altro aspetto che sembra giocare ubn ruolo determinante è l’esigenza di avere sentimenti coerenti ed emozioni uniche verso una persona o evento. La gente non ama avare sentimenti misti (Anderson, 1978). Tenendo conto del bisogno di coerenza si dovrebbe concludere che la gente sviluppi un’immagine coerente di ogni persona conosciuta e che sia portata a trascurare tutte le successive informazioni contraddittorie. In altre parole ci sarebbe un effetto di primacy secondo cui la prima informazione ricevuta è quella più importante per la costruzione di un’impressione. Ma non sempre è così. L’effetto recency, infatti, prevede l’influenza dell’ultima informazione ricevuta per la costruzione di un’immagine o di un’impressione. Quale di questi due effetti è il più frequente? Diversi autori hanno provato a dare una riposta. Buona parte delle prime ricerche indicava nell’effetto primacy l’elemento più importante. Nel classico esperimento di Asch (1946) sulla costruzione dell’immagine di una persona a partire da alcuni aggettivi descrittivi. Se quelli positivi venivano posizionati all’inizio della lista le impressioni iniziali positive avevano un’influenza maggiore tanto da persistere senza che si tenesse conto delle informazioni negative successive. L’effetto primacy risulta quindi dominante. Tuttavia questo risultato è stato messo in discussione non appena veniva chiesto alle persone di prestare più attenzione alle nuove informazioni o quando il tempo che intercorre dalla prima analisi al suo recupero mnemonico passa un certo periodo di tempo (Miller e Campbell, 1959). Il coinvolgimento e il tempo sembra che spingano le persone a lasciarsi influenzare dalle ultime informazioni. I risultati di alcune ricerche (Miller e Campbell, 1959). dimostrarono che l’informazione più recente influenzava fortemente la memoria. La ricerca attiva delle informazioni pertinente all’atteggiamento al fine di garantire il rispetto del principio della coerenza, è stata particolarmente studiata da Festinger (1957) per la definizione della teoria della dissonanza cognitiva di cui abbiamo già parlato. Gli effetti 30 prodotti dall’esposizione selettiva delle informazioni sono stati ampiamente documentati da diversi studiosi tra cui le ricerche di Frey (1986) dove si sottolinea anche le condizioni in cui le persone non mostrano gli effetti dell’esposizione selettiva ricercando al contrario informazioni contrastanti sia perché hanno (o percepiscono di avere) un sistema cognitivo tanto stabile da consentire loro di integrare informazioni discordanti o di rifiutarle con una certa capacità di argomentazione e controllo sia perché l’atteggiamento è ancora poco consolidato al punto che l’individuo può ritenere di modificarlo. Diverse ricerche hanno dimostrato come in molti casi le persone cerano di ignorare l’informazione che contrasta il proprio atteggiamento. Non stiamo più considerando il grado di esposizione e selezione delle informazione, ma la valutazione che ne viene fatta. Nell’elaborazione delle informazioni, come abbiamo già visto, la ricerca della coerenza assume un ruolo importante. Il principio della coerenza introdotto da Heider (1946) assume che tutte le persone si sforzano di organizzare le proprie cognizioni in modo tale da evitare contraddizioni ed incoerenze. Tale principio mostra l’incapacità del soggetto percepente, nel formarsi un’impressione, di utilizzare tutte le informazioni di cui dispone. L’assunzione di base che gli atteggiamenti guidano il processo di valutazione e di elaborazione delle informazioni cercando di rispettare tale coerenza si ritrova tra le teorie del giudizio sociale come quella della teoria dell’assimilazione e contrasto descritta da Sherif e da Hovland (1961). Secondo questi autori l’atteggiamento del soggetto costituisce una sorta di ancora di giudizio, rispetto alla quale sono confrontati tutti gli altri atteggiamenti possibili. Si fa l’ipotesi che gli atteggiamenti che si collocano in una posizione relativamente vicina a quella del soggetto sul continuum attitudinale, saranno percepito come simili ai propri, più di quanto non sia nella realtà, mentre quelle più distanti verranno rifiutati perché percepiti maggiormente divergenti di quanto effettivamente non siano. Queste tendenze a distorcere il processo di percezione e a fornire valutazioni tendenziose è alla base di giudizi stereotipati e di errori di attribuzione di cui spesso non ci rendiamo conto. Soprattutto in situazioni particolari come la testimonianza in un processo o nella valutazione dei comportamenti di gruppi etnici diversi dal nostro questo processi inducono gli individui a commettere gravi errori di distorsione che sarebbe bene controllare o comunque esserne consapevoli. In pratica la teoria del giudizio sociale suppone che l’atteggiamento costituisca una sorta di schema di riferimento on base al quale vengono interpretate le nuove informazioni: una volta che si è formato un determinato giudizio verso una marca o un gruppo le successive esperienze vengono interpretate in base ad esso. 31 In questo caso l’atteggiamento inteso prevalentemente nella sua dimensione cognitiva sembra essere organizzato secondo un vero e proprio continuum in cui possono essere individuate tre aree di diversa ampiezza in funzione della storia dell’individuo e dell’atteggiamento preso in considerazione: un’area dell’accettazione che contiene tutte le affermazioni che la persona accetta o condivide sul quel particolare oggetto o situazione; un’area del rifiuto che contiene tutte le affermazioni che la persona rifiuta e l’area dell’indifferenza che contiene le affermazioni nei confronti delle quali la persona è indifferente. Se la nuova informazione ricade nell’area dell’accettazione o vicina ad essa l’informazione subirà un vero processo di assimilazione e verrà percepita come più “accettabile” di quanto effettivamente e oggettivamente non sia. Così le l’affermazione ricade nell’area dle rifiuto la forza di rinnegare l’accettazione di quella informazione sarà maggiore di quanto effettivamente non meriti, poiché l’informazione viene percepita maggiormente distante dai propri punti di vista. Questa distorsione percettiva assume un ruolo importante nella valutazione dei messaggi finalizzato al cambiamento degli atteggiamenti. Il rischio che il messaggio ricada nell’area del rifiuto è quello di incrementare una posizione di oppositiva nei confronti dell’oggetto o prodotto del messaggio promozionale più di quanto effettivamente non sia lecito pensare. In questo caso se la nuova affermazione è percepita come discrepante dall’atteggiamento preesistente della persona il messaggio rischia di produrre un cambiamento di atteggiamento nella direzione opposta a quella sostenuta dal messaggio determinando un vero e proprio effetto boomerang (Mannetti, 2003). Questa interessante teoria deve però fare in conti con due elementi importanti: la dimensione affettiva ed emotiva che sembra non essere pienamente compresa nel modello e il ruolo del coinvolgimento del Sé. Il coinvolgimento del Sé infatti ha un ruolo determinante nell’ampiezza delle aree per cui atteggiamenti caratterizzati da un elevato coinvolgimento dell’Io hanno un’area di rifiuto più ampia ed un’area dell’indifferenza più ridotta; così come il rischio di distorsioni maggiori per quelle informazioni che ricadono nell’area dell’accettazione quando queste contribuiscono significativamente a rafforzare l’atteggiamento preesistente ritenuto importante per l’individuo. Malgrado questa teoria non sia stata supportata da dati significativi, è ritenuta utile per avere posto l’attenzione a questa dimensione del coinvolgimento e del ruolo che 32 possono avere le influenze sociali e le “appartenenze” nei processi di persuasione e nell’elaborazione delle informazioni. Le definizioni di atteggiamento L’atteggiamento sembra essere una forma di predisposizione, determinata da esperienze dirette o semplicemente da influenze da parte di altri, verso una classe di stimoli caratterizzata dalla possibilità di rispondere a questa con una specifica classe di risposte. Sotto la spinta dello sviluppo della psicologia cognitiva che si affermò negli anni Sessanta il concetto di atteggiamento venne considerato prevalentemente come costituito dalla dimensione cognitiva ovvero dalle credenze. In quest’accezione l’atteggiamento sembra essere una forma di riassunto delle credenze che una persona possiede riguardo ad un certo oggetto. Il termine credenza designa in questo caso l’informazione che una persona ha a proposito di altre persone, oggetti e questioni. La centralità delle credenze è alla base del modello di Fishbein e Ajzen (1975) che spiega in termini cognitivi la formazione delle valutazioni che ritroviamo negli atteggiamenti. In questo caso l’atteggiamento è la risultante delle convinzioni personali ovvero la probabilità con cui un individuo si aspetta che una data informazione sia vera; e i valori che sono determinati da tutto ciò che una società considera buono o cattivo. Questa relazione è stata espressa dalla teoria aspettativa-valore secondo cui gli atteggiamenti sono una funzione della somma delle credenze verso un oggetto, dove ciascuna credenza è considerata come costituita dall’aspettativa in termini di probabilità che l’oggetto possieda una determinata caratteristica (per esempio che il politico che vogliamo eleggere sia onesto, competente, e sincero) moltiplicata per il valore che la persona stessa attribuisce a quelle caratteristiche e in che misura le ritiene positive o negative. Per prevedere l’atteggiamento è necessario in questo caso moltiplicare ciascuna aspettativa relativa ad una caratteristica dell’oggetto per il valore ad essa attribuito e sommare questi prodotti (Mannetti, 2002). Come è possibile intuire questo modo di intendere gli atteggiamenti rientrano perfettamente nella logica razionalistica con cui è stato studiato l’individuo nell’età moderna. Il modello prevede infatti di potere misurare concretamente il grado di positività o negatività verso un particolare oggetto secondo un modello tipicamente razionalistico. Vedremo che tale modo di intendere gli atteggiamenti è alla base di studi e riflessioni che ne sottolineano i rischi e le limitatezze. Secondo il modello tripartito di Rosemberg e Hovland (1960) l’atteggiamento è stato studiato come formato da tre diverse componenti, interagenti tra di loro: la componente cognitiva, quella affettiva e quella conativa ( comportamentale). emozione Stimoli Atteggiamenti Risposte del sistema nervoso simpatico, Dichiarazioni verbali delle emozioni cognizione Risposte percettive. Dichiarazioni verbali di opinioni comportamento Azioni manifeste. Dichiarazioni verbali riguardanti il comportamento 33 La componente cognitiva è costituita dall’insieme di credenze, pensieri, opinioni ed idee nei confronti di un particolare oggetto. Queste credenze possono avere diversi gradi di positività o negatività. La componente affettiva comprende i sentimenti e le emozioni che si provano verso un particolare oggetto. Anche in questi elementi affettivi vi può essere un massimo di positività o di negatività. Infine la componente comportamentale comprende tutti i comportamenti espliciti nei confronti dell’oggetto e anche le intenzioni non ancora espressi in azioni e comportamenti manifesti. Questa descrizione strutturale degli atteggiamenti che prevede questa distinzione formale in tre componenti, anche se non ha avuto negli ultimi anni un forte supporto empirico, è stata ritenuta utile per la capacità descrittiva di un concetto assai complesso come l’atteggiamento. Inoltre è stata ritenutile utile come schema operativo che spinge a considerare la valutazione dell’atteggiamento attraverso diversi caratteristici elementi (Mannetti, 2002). Le ricerche che hanno cercato di verificare la struttura correlazionale delle componenti dell’atteggiamento hanno, tuttavia, prodotto risultati contraddittori. Alcuni autori sono giunti alla conclusione che, allo stato attuale, non esistono evidenze empiriche a supporto della teoria delle tre componenti poiché le analisi fattoriali adottate in queste ricerche di verifica non hanno prodotto risultati significativi. La visione multidimensionale proposta sottolineando la compresenza di diversi fattori nella definizione dell’atteggiamento si differenzia dalla descrizione unidimensionale che vede l’atteggiamento esclusivamente come sentimento positivo o negativo, generale e durevole nei confronti di una certa persona, oggetto o argomento (Petty e Cacioppo, 1987). Secondo il modello unidimensionale il concetto di atteggiamento deve essere distinto da quello di credenza da un lato e dalle azioni e intenzioni dall’altro. In questo caso il termine atteggiamento si riferisce alle emozioni connesse con l’oggetto di atteggiamento da distinguere dalle credenze, dalle intenzioni e dai comportamenti manifesti. Queste quattro distinzioni concettuali – credenze, atteggiamenti, intenzioni e comportamenti – sono state racchiuse in un modello teorico che descrive il rapporto tra atteggiamenti e comportamento e sviluppato da Fishbein e Ajzen (1975). Il modello dell’azione ragionata di Fishbein e Ajzen rappresenta la concezione più illustre ed aggiornata dei modelli descrittivi dell’atteggiamento definiti modelli aspettative – valore secondo cui gli atteggiamenti sono funzione delle credenze, dell’aspettativa in termini di probabilità che un oggetto, evento o persona possieda una determinata caratteristica moltiplicata per il valore che la stessa persona attribuisce a quella specifica caratteristica: Atteggiamento uguale a Somma delle Aspettative moltiplicata per il Valore ad esse attribuito. Nelle sue prime formulazioni il modello detto anche multi-attributo è risultato particolarmente utile per “misurare” l’atteggiamento verso un oggetto (un prodotto o una marca per esempio). Il primo contributo sul questo versante fu dato da Fishbein (1967) che permise la valutazione dei singoli attributi riconosciuto ad un oggetto o un prodotto ponderando tale valutazione con l’importanza ad essi attribuiti e la probabilità che l’oggetto in questione avesse quegli attributi. L’atteggiamento è il risultato dell’intensità della convinzione che l’oggetto possieda particolari attributi per la valutazione di ogni singolo attributo. Per esempio proviamo a calcolare la probabilità che un elettore voti un particolare candidato. Questa previsione secondo il modello di Fishbein può essere fatta analizzando la valutazione 34 e la stima relativa alla presenza assenza degli attributi di un prodotto e la loro valutazione: per esempio se volessimo misurare l’atteggiamento verso un nuovo PC, si procede all’individuazione degli attributi che caratterizzano un Computer; la velocità, il prezzo, l’assistenza, l’inaffidabilità della macchina; successivamente si procede alla stima di ciascun attributi in termini di importanza per l’acquirente e in termini di probabilità che quel particolare prodotto abbia quegli attributi al fine di sommare i prodotti relativi alle singole aspettative per avere il punteggio dell’atteggiamento complessivo: • Aspettativa 1 (l’intervistato è sicuro al 90% che il PC sia veloce) x valutazione 1 (valuta la velocità in modo molto positivo su una scala da –10 a + 10 =9) • Aspettativa 2 (l’intervistato è sicuro al 50% che il PC abbia un prezzo accessibile) x valutazione 2(valuta il prezzo in modo positivo su una scala da –10 a + 10 =6) • Aspettativa 3 (l’intervistato è sicuro al 30% che A abbia una buona assistenza) x valutazione 3(valuta l’assistenza in modo positivo su una scala da –10 a + 10 =4) Aspettativa 4 (l’intervistato è sicuro al 90% che il PC ha una elevata inaffidabilità della macchina) x valutazione 4(valuta l’inaffidabilità in modo molto negativa su una scala da –10 a + 10 = -9). In questo caso l’atteggiamento verso il PC èquivale alla somma dei prodotti delle singole aspettative e delle valutazioni. Il modello multi attributo ha il vantaggio di indicare quali attributi siano importanti per il consumatore nel determinare l’atteggiamento verso l’oggetto al fine di fornire una base per determinare il posizionamento nel mercato o individuare gli attributi su cui fare affidamento per una campagna promozionale. • Così se volessimo migliorare l’atteggiamento verso il nuovo PC da questo tipo di analisi potrebbe risultare che le possibili aree di intervento sono: • progettare specifiche comunicazioni persuasive volte ad aumentare il grado di sicurezza con la quale si ritiene che il prodotto in questione possieda gli attributi valutati più positivamente; • progettare messaggi che contengano informazioni che accrescono la sicurezza delle aspettative circa attributi positivi, riducendo quella relativa ad attributi ritenuti negativi; • promuovere comunicazioni persuasive volte a ridurre il grado di sicurezza con la quale si ritiene che il prodotto possieda l’unico attributo valutato negativamente; • progettare messaggi che contengano riferimenti agli attributi ritenuti salienti (identificati preventivamente) Tuttavia è bene sottolineare che i problemi che caratterizzano questa tecnica sono relativi, da una lato, alla possibilità di scegliere tutti gli attributi realmente importanti per i consumatori e dall’altro al modo in cui gli intervistati interpretarono i criteri di importanza nella tecnica di misurazione impiegata nella parte valutativa dell’indagine. Un altro aspetto critico è che il modello presuppone che esista una correlazione positiva tra atteggiamento e comportamento: se il consumatore valuta positivamente un prodotto allora manifesterà una determinata intenzione d’acquisto ad essa coerente. In pratica ci si attende che i consumatori acquistino i prodotti e le marche valutate meglio. Di fatto in questo tipo di analisi il rischio è quello di 35 valutare l’atteggiamento nella sua astrattezza e non il comportamento che è sempre contestualizzato. In effetti questo modello ci permette di avere una prima valutazione approssimativa per affrontare il problema del comportamento di acquisto. Una soluzione per risolvere questo problema è stata proposta da Ajzen e Fishbein (1980). In questa formulazione gli autori proposero di misurare l’atteggiamento verso il comportamento (e non la misurazione dell’atteggiamento verso un prodotto, situazione, persona). Viene, pertanto, valutato l’atteggiamento del consumatore nei confronti di uno specifico comportamento relativo all’oggetto, analizzando la relazione tra comportamento e le conseguenze del comportamento, secondo quanto indicato dai principi della psicologia comportamentale. Ciò comporta lo spostamento dell’attenzione del ricercatore dalla valutazione delle caratteristiche dei prodotti e delle situazioni alla valutazione delle conseguenze pratiche dei comportamenti e al valore attribuito al comportamento in sé. Resta, comunque, il limite di un modello basato sui resoconti e sulle opinioni degli intervistati, ed ancora un modello che rischia di proporre un’analisi degli atteggiamenti decontestualizzata ed astratta. Un ulteriore passo è stato fatto con lo sviluppo della teoria dell’azione ragionata di Fishbein e Ajzen (1975), nello specifico, focalizza l’attenzione su tre componenti principali: l’atteggiamento dell’individuo, l’influenza dei gruppi di riferimento e la maggiore o minor propensione del soggetto a permettere che le influenze esterne incidano sulle proprie scelte. Queste tre aspetti e la loro valutazione sottolineano la centralità della dimensione razionale e delle credenze nella formazione delle valutazione che caratterizzano un atteggiamento. Secondo Fishbein e Ajzen oltre alla valutazione delle credenze relative agli attributi di un particolare oggetto o evento e alla probabilità percepita che quel particolare evento o oggetto abbia realmente quegli attributi, per riuscire a valutare il grado di coerenza tra atteggiamento e comportamento è necessario considerare e valutare la dimensione sociale, l’influenza del contesto e del gruppo di appartenenza sulle valutazioni del soggetto. Sapere che un particolare oggetto, persona o evento ha alcuni attributi con una certa probabilità non permette di valutare quanto importante sia manifestare un comportamento coerente con tale atteggiamento se non si valuta come questo venga percepito dal gruppo e dal contesto sociale cui si appartiene. Per esempio la valutazione positiva dei dispositivi di protezione individuale (i famosi DPI: caschi, lenti protettive, maschere antipolvere, guanti, ecc.) che la normativa sulla sicurezza sul lavoro 626 del 1994 e del loro grado di utilità per la salvaguardia della salute non sembra essere un elemento forte nel determinare i comportamenti di sicurezza e ridurre quelli di rischio. Se nello stesso contesto lavorativo il comportamento degli altri, le abitudini, le regole sociali condivise non “prevedono” l’utilizzo dei sistemi di sicurezza come i DPI molto probabilmente gli individui non adotteranno l’sudo dei dispositivi di protezione se non in caso della presenza di ispettori o capi reparto. Soprattutto se l’appartenenza al gruppo dio lavoro è ritenuta dall’individuo un aspetto importante per la propria autostima e per la buona e sana convivenza sociale in quel posto di lavoro. Questo è un problema particolarmente sentito in quei contesti lavorativi dove la sicurezza sul lavoro e le regole che essa prevede vengono viste più come un imposizione normativa o della direzione. Il campo della sicurezza sul posto di lavoro infatti è ritenuto da molti lavoratori come un’area in cui è possibile, in maniera consapevole o inconsapevole, agire le conflittualità con la direzione stessa. In altri contesti, l’uso dei dispositivi può essere 36 percepito come un segnale di mancanza di virilità o di inesperienza (quante volte i lavoratori infortunati sono proprio quelli con maggiore esperienza o coloro che volevano mostrare a sé e agli altri di essere invulnerabili, o più abili di coloro che suggeriscono di utilizzare i dispositivi di protezione individuale?). Fishbein e Ajzen hanno introdotto le “norme sociali” rappresentate dagli altri significativi che suggeriscono quali siano i comportamenti più corretti e quelli accettati in una particolare situazione e contesto sociale. ecco quindi che accanto alla valutazione della presenza di particolari attributi e il valore ad essi dato questo modello integra una nuove complessa dimensione che è quella della motivazione all’adattamento e che si riferisce alla maggiore o minore propensione dell’individuo ad adattarsi alle aspettative dei gruppi di riferimento. Secondo questo modello le singole persone possono, inoltre, essere viste come più o meno propense o condizionate dalle altrui aspettative, distinguendo in questo caso tra soggetti ad alta sensibilità normativa (soggetti molto attenti ed influenzati dalle aspettative altrui) e soggetti a bassa sensibilità normativa (soggetti poco influenzati dalle aspettative altrui). L’intenzione di agire un particolare comportamento è strettamente influenzato dalla valutazione soggettiva e dalla dimensione sociale. L’analisi delle intenzione secondo questo processo permetterebbe una migliore comprensione del comportamento dell’individuo e garantirebbe, secondo Fishbein e Ajzen (1975), sia una maggiore rilevanza del concetto di atteggiamento in psicologia sociale che la “razionalità” delle condotte umane (Mantovani, 2003). La Theory of Reasoned Action ha dato prova di certo potere predittivo a condizione che il comportamento sia sotto il controllo volitivo, cioè rientri nella sfera delle azioni possibili praticamente e concretamente, azioni nelle quali il soggetto ha margini di manovra. L’applicabilità del modello sembra valere solo esclusivamente per quei comportamenti che possono ritenersi ragionevolmente intenzionali. Come tutti sappiamo bene, però, nella nostra vita quotidiana la maggior parte delle nostre intenzioni sono tanto immediate da non essere paragonabili ad un processo lento e consapevole né tanto meno fondato un attenta analisi dei costi e benefici. Molte volte (ma non sempre) di fronte alle situazioni della vita quotidiana la dimensione emozionale sembra essere quella predominante nel guidare il nostro comportamento: ci lasciamo trasportare dall’emozione connessa ad un 37 oggetto, prodotto o persona per poi razionalizzare tutto ciò che ci è successo. Il significato affettivo che hanno le cose per noi è alla base delle nostre azioni, diventando poi la base per una spiegazione razionale e consapevole di ciò che abbiamo fatto. Il modello dell’azione ragionata, come dice il termine stesso, era anch’esso figlio del suo tempo: proponeva un’idea di uomo quasi esclusivamente razionale, caratterizzato da processi decisionali coscienti e razionali, come la tradizionale visione dell’uomo promossa dai teorici dello Human Information Processing. Questo modello infatti non teneva in considerazione che buona parte delle nostre decisione sono guidate dall’emotività, dagli stati d’animo, dagli umori, anzi questi aspetti sembrano influenzare in maniera determinante tutto il processo di significazione della realtà circostante, promuovendone una valutazione ex post da parte dei processi razionali. Almeno per quel che riguarda alcuni processi decisionali. Questi, a volte, non sono il risultato di processi consci ma aggiustamenti automatici alle situazioni in cui le persone si trovano (Mantovani, 2003). A questa critica lo stesso Ajzen nel 1988 rispose inserendo all’interno del suo modello una terza dimensione capace di influenzare strettamente l’intenzione ad agire un particolare comportamento: la percezione del controllo. Secondo Ajzen (1988) anche una persona motivata può non agire se percepisce scarso controllo sui fattori ambientali esterni e sulle sue capacità di azione. Quando lo sforzo connesso all’acquisto risulta oltre la portata percepita, il cliente evita di agire seppure tentato dalle promesse di risultato che l’acquisto può produrre. Ad esempio, posso essere molto tentato da una proposta di partecipare ad un corso di formazione informatica, ma pensare che “tanto non ce la farò mai ad usare il computer”, mi spinge a non iniziare l’azione. Questa condizione crea la paradossale situazione della profezia che si autoavvera, di cui abbiamo già parlato. Per superare le limitazioni della teoria dell’azione ragionata, Ajzen ha proposto una revisione al primo modello: la Theory of Planned Behavior), o teoria del comportamento pianificato. Il modello è stato sviluppato per prevedere i comportamenti nei quali il soggetto non dispone del completo controllo volitivo, perché qualche barriera interna od esterna influenza l’azione stessa. La maggiore differenza tra il primo modello e questo del comportamento pianificato è l’addizione della variabile “controllo comportamentale percepito” ovvero il risultato di quanto vengono visti difficili i comportamenti, in termini di attuazione pratica (Control Beliefs) e la percezione del grado di successo che l’individuo sente di avere,sull’attuazione del comportamento (Perceived Power ). 38 Anche con questa modifica il comportamento umano e il suo rapporto con il concetto di atteggiamento richiama l’attenzione su un processo di pianificazione razionale e cognitiva delle azioni dell’individuo. La percezione del controllo della situazione certamente introduce una maggiore attenzione alla dimensione emotiva, ma di certo non limita la funzione cognitiva di predisposizione di piani di piani di azione in cui la dimensione della cognizione aveva sempre un ruolo determinante. Questa concezione dei piani, di fatto, è stata messa in discussione poiché la quotidianità è spesso caratterizzata da imprevedibilità difficilmente inquadrabile all’interno di schemi ed algoritmi che non fanno altro che misurare e prevedere ciò che noi “riteniamo” sia misurabile e prevedibile. Gli stessi programmi dei computer si rilevarono imprecisi ed inaffidabili soprattutto di fronte alla complessità ed imprevedibilità della realtà e della quotidianità. Tale sfiducia verso i programmi e gli schemi interpretativi che la scienza cognitiva aveva prodotto fino agli anni Ottanta ha contribuito significativamente allo spostamento dell’attenzione degli studiosi sui processi di significazione che ogni singolo individuo o gruppo adotta per dare senso alla quotidianità e all’analisi del ruolo adattivo che ha l’azione nei confronti di un ambiente imprevedibile. (Clancey, 1997; Suchman, 1987; Mantovani, 2003). D’altra parte in società postmoderna sempre più capace di riconoscere la multidimensionalità dell’identità, di accettare le incoerenze e le contraddizioni che un mondo complesso comporta, capace di vedere e prevedere l’ordine nel disordine e il disordine nell’ordine, pensare di potere definire gli atteggiamenti come elementi stabili nel tempo e nello spazio senza una loro contestualizzazione e un’analisi del loro valore adattivo (e quindi individualmente cangiante) rischia di spingerci a studiare l’individuo secondo i principi paradigmatici del positivismo e secondo un modello di analisi fondato sulla razionalità e sulla prevedibilità certamente rassicurante, ma limitativo nella sua capacità esplicativa. 39 Riferimenti bibliografici Adorno, T. W., Frenkler-Brunswik E., Levinson D.J., Sanford R.N., (1950). The autoritarian personality Harper & Row: New York (trad. it. La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, Milano, 1977). 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