Manette carioca per Facebook
- Benedetto Vecchi, 02.03.2016
Internet. La magistratura brasiliana fa arrestare uno dei vicepresidenti del social network. La
decisione presa dopo il rifiuto di collaborare all’interno di una inchiesta sul narcotraffico. Dopo
quello tra Apple e Fbi, è un nuovo capitolo dello scontro tra le major della Rete e alcuni stati
nazionali. La posta in gioco è il rispetto della privacy
Dopo Apple con l’Fbi, è la volta di WhatsApp a entrare in rotta di collisione con uno stato sovrano.
Ieri, un giudice brasiliano ha deciso di far arrestare il vicepresidente per l’America Latina di
Facebook, proprietaria di WahatsApp, per aver rifiutato di collaborare con le forze di polizia in
relazione alle richieste di accedere ai messaggi scambiati usando il servizio di messaggeria in
relazione a una inchiesta sul narcotraffico in uno degli stati del Brasile.
Tutto ha inizio con una indagine che coinvolge alcuni narcotrafficanti operanti nello Stato di Sergipe
(il Brasile è uno stato federale). Il giudice chiede a Facebook di accedere agli account per poter
verificare se il contenuto di alcuni messaggi possano far chiarezza su un traffico di droga,
contribuendo a smantellare la rete di spacciatori. Al rifiuto di Facebook, scatta una sanzione
economica. La multa è quantificata in 223mila euro (più o meno un milione di real, la moneta
brasiliana), mentre viene rinnovata la richiesta di accedere a quei dati. Tempo un mese e il giudice
decide l’arresto del vicepresidente di Facebook, l’argentino Diego Dzodan. Immediata la reazione
della società di Mark Zuckeberg, che con una dichiarazione considera «eccessiva e sproporzionata»
la decisione della magistratura brasiliana, ribadendo tuttavia la volontà di collaborare con le autorità
brasiliane a patto però che non venga messo in discussione il rispetto della privacy degli utenti sia
del social network che di WhatsApp.
Non è la primo volta che Facebook e la magistratura carioca si scontrino. Nello scorso dicembre, un
altro giudice aveva imposto la sospensione di 48 ore per il servizio di messaggistica. Anche in
quell’occasione il motivo era una richiesta di accedere ai messaggi di alcuni utenti in odore di
narcotraffico. Un eguale provvedimento aveva invece colpito Google, quando la magistrature chiese
la rimozione di alcuni video su YouTube su un candidato in una elezione locale, che si sentiva
«infamato» dai contenuti del video.
L’irrigidimento del potere giudiziario brasiliano vengono dopo che il paese latinoamericano è stato,
durante la presidenza Lula, un laboratorio per uno sviluppo di una internet aperta la sociale e alle
istanze critiche dei mediattivisti sul software proprietario usato dall’amministrazione pubblica.
Ospiti graditi di Gilberto Gil (per un breve periodo ministro della cultura) sono stati Lawrence Lessig
e Manuel Castells, due teorici che hanno da sempre proposto di imbrigliare il potere delle imprese e
subordinare il loro operato a quello del «bene comune».
Ma è nella campagna nazionale contro il narcotraffico e durante le mobilitazione antiausterity dello
scorso anno che sono cominciate le richieste della magistratura e della polizia di poter monitorare i
contenuti e controllare l’uso della Rete da parte dei narcotrafficanti e degli attivisti politici. Per il
potere giudiziario erano da considerare due manifestazioni, seppur diverse tra loro, che mettevano
in pericolo la sicurezza nazionale. Un connubio respinto dai movimenti sociali che hanno promosso
negli scorsi anni le mobilitazione contro il rincaro dei biglietti di autobus, treni e la politica di
parziale privatizzazione dei servizi sociali.
Al di là delle derive «securitarie» brasiliane, Internet sta diventando terreno di scontro tra le major
della Rete e diversi stati nazionali. E se la Cina propone di istituire una sorta di sovranità nazionale
definendo quindi leggi che potrebbero non coincidere con le regole definite dagli organismi della
cosiddetta Internet governance sulle comunicazione scambiate tra cinesi e da questi e altri utenti
della rete, sono gli Stati Uniti che hanno visto scontrarsi a suon di petizioni, prese di posizione Apple,
Google, Amazon, Facebook e l’intelligence statunitense.
È certo un’ironia della storia che imprese come Facebook, Google che sostengono da sempre che la
proprietà dei contenuti della comunicazione sia da considerare cosa loro una volta che un utente crei
un account sui loro servizi, si ergano a paladini della privacy. In ogni caso, il rifiuto di Tim Cook di
collaborare con la Fbi per accedere ai dati contenuti in un iPhone di un terrorista coinvolto negli
attacchi a San Bernardino ha visto le prese di posizione a favore di Apple di molte imprese da
sempre competitor della mela morsicata.
Su una cosa Tim Cook ha però ragione da vendere. La richiesta della Fbi costituirebbe un
precedente pericoloso per gli utenti dei suoi sistemi, preché prefigurebbe l’esistenza di una
backdoor per leggere i contenuti personali di ogni possessore di un dispositivo digitale Apple. E che
al tempo stesso creerebbe un precedente legislativo che la polizia o i servizi di intelligence possono
«attivare» in maniera discrezionale per controllare tutta la comunicazione on-line.
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