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Io e Pirandello
Riccardo Mainetti
Copyright 2013 by Riccardo Mainetti
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Sommario
Premessa
Biografia del figlio cambiato
Consapevolezza come antidoto al caos interiore
Gigi Mear e l’amico misterioso
Riscoperta del Grande Mondo
Sei personaggi in cerca d’autore
Tragedia di un personaggio
Vita che fugge via
Vitalizio che giova alla salute
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Premessa
Come avvenne che incontrai il “Genio di Girgenti”
A volta gli incontri con persone e personaggi che ci cambieranno, in un modo o
nell’altro, la vita avvengono per un puro caso.
Ed anche il mio incontro con Luigi Pirandello è avvenuto un po’ in questo modo.
Intendiamoci…
Non si è trattato propriamente di qualcosa di inaspettato visto che Luigi Pirandello
era comunque uno degli autori che avremmo dovuto trattare, secondo programma,
durante l’ultimo anno delle superiori.
La casualità è scattata allorquando mi sono accorto di quanto questo autore avesse
da comunicarmi cose che altri, sia durante quell’ultimo anno delle superiori che prima,
non avevano saputo comunicarmi.
Il primissimo incontro tra me e Luigi Pirandello avvenne grazie al suo romanzo
“Uno, nessuno e centomila” che poi è rimasto il mio preferito tra quelli scritti dal “Genio di
Girgenti”.
A quei tempi a colpirmi di quel romanzo fu la premessa, all’apparenza casuale,
fortuita e, se si vuole, anche sciocca, con rispetto parlando.
Chi mai avrebbe pensato che un “dettaglio” come la scoperta che il proprio naso
pende lievemente da una parte potesse scatenare un tale terremoto, soprattutto interiore,
portando un tranquillo uomo a interrogarsi sulla propria vera immagine portandolo alla
conclusione che ogni uomo non è un uomo solo ma rappresenta una serie infinita di
uomini diversi a seconda di chi lo vede e che, proprio per questa molteplicità di “se stesso”
che si alternano di volta in volta, l’uomo finisce poi, tragicamente, ad essere nessuno.
Fu, perdonatemi questa dichiarazione ovvia e sdolcinata, “amore a prima lettura”.
Da quel momento in avanti nacque tra me e Luigi Pirandello un rapporto “lettoreautore” piuttosto stretto.
Ho detto, anzi scritto, “piuttosto stretto” in quanto, per i cosiddetti casi della vita,
questo nostro “legame” si è un po’ allentato per alcuni anni.
Poi ho scoperto un sito che a Luigi Pirandello è dedicato ed ecco rifiorire il legame
tra me e quello straordinario autore che tanto mi aveva colpito a diciannove anni.
E così, approfittando del fatto che da qualche mese scrivo per un altro sito che si
occupa di libri, ho iniziato a scrivere alcuni dei miei “pezzi” dedicandoli a Luigi Pirandello
ed alla sua opera.
Visto poi che io raramente mi accontento di scrivere qualcosa senza nutrire, presto o
tardi, la tentazione di vederlo pubblicato in volume ecco nascere, un po’ per caso un po’,
per così dire, per scommessa, la raccolta che vi trovate tra le mani, seppure in formato
digitale!
Ma ora basta cincischiare con questa premessa. È giunta l’ora di lasciare la parola
all’opera pirandelliana che di cose da dire ne ha più di me e ben più profonde!
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Biografia del figlio cambiato
Una biografia sotto forma di romanzo del “Genio di Girgenti”
“Una nuova biografia di Luigi Pirandello?” Questa potrebbe essere la domanda che
sorge spontanea in chi viene a conoscenza del libro “Biografia del figlio cambiato” di
Andrea Camilleri. Sì! Una nuova biografia di Luigi Pirandello. Ma una biografia speciale. E
non solo perché speciale è il suo autore, Andrea Camilleri, noto per essere il “papà” del
“Commissario Montalbano”, ma anche per come questo libro è strutturato e, prima ancora
che strutturato, pensato. Si tratta infatti di un libro “per lettori più che comuni”, come dice
lo stesso Camilleri nella nota di chiusura alla “Biografia del figlio cambiato”. Il libro
comincia con alcune note storiche tanto per inquadrare per bene il quadro storico nel quale
la storia della quale questa biografia fuori dagli schemi canonici si occuperà e poi si
addentra sempre più in quella che è stata, anzi è, la biografia di Luigi Pirandello. Ce lo
presenta, come si usa dire in questi casi, “dalla culla alla tomba”. Anzi oltre la tomba visto
che il libro si chiude con un aneddoto, riferito da Stefano, il figlio maggiore di Pirandello,
riguardante l’opera che Luigi Pirandello non potè, a causa della morte sopraggiunta,
concludere, anche se alcuni dicono che il lasciarla incompiuta sia stato un “atto voluto”,
ovvero “I giganti della montagna”.
Ma prima di tutto occupiamoci di quella che è una favola popolare che da il titolo a
questa “biografia per profani”. Racconta una favola popolare che ci fosse una donna che,
avendo avuto in sorte, per così dire, un figlio con problemi si fa convinta che il suo “vero”
figlio sia stato “cambiato” dai “donni”, delle streghe che di tanto in tanto scambiano i figli
in culla, e il suo vero figlio, bello, sano e robusto, viva in un paese lontano. Il figlio
cambiato un giorno arriva, o meglio torna, al paese d’origine e la madre lo riconosce al
volo. La favola si chiude con uno scambio: il figlio cambiato decide di non far più ritorno al
paese di provenienza, dove avrebbe dovuto diventar Re e manda in sua vece, per così dire,
il figlio della donna. Questa è, a grandi linee, la favola che Luigi apprende quando è ancora
un bambino dalla serva di casa, la “criata”, favola che lo condiziona a tal punto dal farlo
convinto di essere egli stesso un “figlio cambiato”. Si riconosce infatti differente e di molto
da suo padre e farà di tutto, per buona parte della propria vita, specie d’adulto, per
“sganciarsi” da quel padre che egli è convinto non essere il suo vero padre. Però per una
serie di concause egli, pur non riconoscendosi come figlio “vero” di quel padre, ne resta
comunque strettamente dipendente in quanto la strada dell’arte che egli ha scelto di
intraprendere non è subito “piana” e “comoda”. Dovrà quindi dipendere dal padre, Don
Stefano, per quello che è il lato finanziario. Solo il matrimonio, d’interesse, tanto che nasce
come un “affare”, con Antonietta Portolano, sembra garantirgli la possibilità di tagliare
l’ingombrante e per lui fastidiosissimo cordone ombelicale con il padre. Ma a quanto pare
Luigi Pirandello non è poi il “figlio cambiato” che lui ha sempre creduto d’essere. Se infatti
è vero che tra lui e Don Stefano tante e marcate sono le differenze, tanti sono tuttavia i
punti di contatto. Infatti lui stesso eserciterà la stessa violenza, seppur sotto una forma
diversa e se si vuole più sottile sulla sua famiglia, specialmente sui figli. Prova ne è che la
da lui adorata figlia Lietta, dopo l’esilio volontario a casa degli zii per sottrarsi dai soprusi
perpetrati dalla madre ormai molto malata e sofferente, per evitare di invecchiare ed
avvizzire all’ombra, ingombrante seppur amorevolissima, del padre si sposa e parte con il
marito per il Cile. Luigi Pirandello però non si rassegna alla lontananza dell’adorata figlia e
intesse una corrispondenza pressante e caratterizzata da toni esageratamente
melodrammatici che non tengono nella dovuta considerazione quella che è la situazione,
per non dire dei sentimenti, della figlia. Non è certo meno ossessivo con i due figli maschi,
Stefano, il primogenito, e Fausto, il più giovane.
Anche con loro la sua presenza si fa sentire in maniera ossessiva cercando di
manovrarne le carriere artistiche, di scrittore a sua volta per Stefano, il quale per evitare il
confronto diretto con un cognome così “ingombrante”, sceglierà di utilizzare lo
pseudonimo di Stefano Landi, e artistica, come pittore, per il figlio Fausto.
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Sarebbe ingiusto però sottolineare solo i lati più ossessivi e vagamente egoistici di
Luigi Pirandello padre. Egli è un padre il più amoroso possibile con i propri figli, ai quali
non vuole far avvertire, come invece era successo a lui, la certezza di essere dei “figli
cambiati”. Cionondimeno ripeterà, pur come si è detto in una diversa forma, gli errori che
Don Stefano aveva compiuto con Luigi Pirandello bambino. La “Biografia del figlio
cambiato” è un libro molto “stuzzicante” in quanto, grazie alle frequenti citazioni, da
novelle, opere teatrali e romanzi, lascia al lettore la curiosità e la voglia di approfondire il
“tema Pirandello”. Non sarà una biografia classica, un testo per studiosi e conoscitori
profondi di Pirandello però è senza dubbio un testo che io consiglio di leggere a tutti coloro
che sono interessati ad una rilettura della biografia pirandelliana in chiave diversa, non
dotta forse ma fresca e “nuova”. Un altro punto forte di “Biografia del figlio cambiato” di
Andrea Camilleri è quello di fornire più di uno spunto interessante circa il legame,
profondo, profondissimo, esistente tra la biografia di Luigi Pirandello e quelle che sono le
sue opere principali, tanto nelle novelle e negli “atti unici” quanto nelle opere teatrali.
Come non riconoscere la figura della moglie di Pirandello tanto nella moglie de “L’uomo
col fiore in bocca”, che segue ossessivamente il marito nascondendosi dietro i cantoni delle
case, come faceva la stessa Antonietta Portolano quando, ormai malata, era convinta che il
marito, a quei tempi professore non di ruolo, si intrattenesse con le proprie allieve, alcune
(molte?) delle quali, va detto, per lui nutrivano più d’un debole, mai ricambiate però da
Pirandello che della fedeltà alla moglie s’era fatto, anche qui per marcare la propria
diversità rispetto al padre, il quale aveva tradito la moglie, un punto d’onore. E come non
rivedere ancora la moglie nella Madre dei “Sei personaggi in cerca d’autore”, brava donna,
madre e donna di casa ma “sorda di cervello”, incapace cioè di seguire il marito nelle sue
elucubrazioni mentali, così come Antonietta Portolano era stata incapace di essere per
Luigi Pirandello una degna compagna sulla strada dell’Arte. La biografia di Pirandello
entra ulteriormente nei “Sei personaggi in cerca d’autore” nei quali si riconosce lo stesso
Pirandello non già e non tanto nel Padre ma bensì nel Figlio Legittimo il quale, ad un certo
punto dell’opera, si ribella al Padre dicendo: “Lasciami stare chè non c’entro… Non c’entro
e non voglio entrarci”, allo stesso modo in cui lo stesso Pirandello avrebbe voluto ribellarsi
al proprio padre ribadendo che lui era un “figlio cambiato” che con quella famiglia non
c’entrava per nulla. E più volte ritorna anche il padre, quel padre lungamente “rinnegato” e
poi ritrovato quando ormai Don Stefano, rimasto vedovo, malato e mezzo cieco si
trasferisce a Roma e conclude i propri giorni, affetto da demenza senile, nella stessa casa
dell’ex “figlio cambiato”, nell’opera di Luigi Pirandello, nelle novelle ma non solo.
Insomma un’opera quella Luigi Pirandello nella quale, entra, in vario modo, in gioco la
biografia personale dell’autore. E le “chicche” presenti nella “Biografia del figlio cambiato”
sono ancora numerose; io qui ne ho nominate solo alcune, quelle che più mi hanno colpito.
Se volete scoprire quali altri “tesori” nasconda il libro che Andrea Camilleri non vi resta
che una cosa da fare. Procuratevi “Biografia del figlio cambiato” e gustatevelo!
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Consapevolezza come antidoto al caos interiore
L’ importanza della consapevolezza di sé in Pirandello
La consapevolezza di sé. Questo è certamente uno dei temi più cari a Luigi
Pirandello e uno dei più ricorrenti nelle sue opere. Consapevolezza che si esprime sia nel
senso di chi un personaggio è per sé ma anche nella consapevolezza di come gli altri lo
vedono. Due opere in particolare riflettono, chiaramente, questo dubbio interiore: “Il fu
Mattia Pascal” e “Uno, nessuno centomila”. Nella prima opera vi è, all’inizio, un passaggio
rivelatore di questo tema. Ad un certo punto il futuro “fu” Mattia Pascal dice che ogni volta
uno dei suoi amici o conoscenti gli chiedeva un qualche consiglio o suggerimento,
dimostrando a quel modo, come dice, non senso un certo senso dell’umorismo, “di aver
perduto il senno”, lui si stringeva nelle spalle e rispondeva: “Io mi chiamo Mattia Pascal.”
Una dichiarazione ovvia e, all’apparenza, senza molto peso. Il peso l’avrebbe avuto in
seguito, quando il protagonista del romanzo non può più giovarsi nemmeno di quella
piccola grande certezza.
Quanto invece al secondo aspetto, ossia la certezza di come noi siamo visti dagli
altri, è espresso appieno in “Uno, nessuno centomila”. Qui il tutto nasce da un’altra piccola
osservazione da nulla. Un giorno, guardandosi allo specchio, il protagonista del romanzo
nota un particolare nel proprio viso: il naso che gli pende da un lato. Subito va dalla moglie
e le chiede se anche lei nota questo particolare. La moglie non dimostra di notare il
particolare del naso e così Vitangelo Moscarda, così si chiama il protagonista di “Uno,
nessuno centomila” comincia a domandarsi come possa essere possibile che una persona,
in questo caso lui stesso, possa essere visto in tanti modi quanti sono gli osservatori. La
consapevolezza di chi una persona sia e di come essa sia vista dalle persone che ha intorno
e con le quali si trova a vivere e confrontarsi ogni giorno. Ecco la questione fondamentale
per poter mettere ordine nel caos personale di ognuno!
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Gigi Mear e l’amico misterioso
L’amico a sorpresa del Conte Gigi Mear
Gigi Mear “Conte di nascita ma purtroppo senza più Contea né contanti” se ne sta
tranquillo in paziente attesa del tram che lo dovrà portare in ufficio alla Corte dei Conti. Il
piccolo Gigi Mear aveva espresso al padre la volontà di andare a lavorare, quando ne
avesse avuta l’età, in quell’ufficio di Stato credendolo, nell’innocenza dell’infanzia, una
sorta di Corte nella quale ogni conte, qual era egli stesso, avesse il diritto, il diritto di
nascita, di entrare. Quella determinata mattina, la mattina nella quale ha luogo la novella
di Luigi Pirandello intitolata “Amicissimi”, novella inserita nella raccolta intitolata
“Novelle per un anno” il conte, decaduto, Gigi Mear indossa il pipistrello, un “tipo di
pastrano (cappotto pesante) con mantellina, senza maniche, in uso nel 19° secolo”,
secondo la definizione che ne da il vocabolario della Treccani, perché “eh, con la
tramontana, dopo i quaranta non si scherza più”. Finalmente “dindìn dindìn” il tram
arriva. Ma proprio mentre Gigi Mear sta per salirci si sente chiamare. A chiamarlo è un
uomo che gli si presenta subito come un amico, anzi più che un semplice amico, d’infanzia
e dei tempi dell’Università.
Gigi Mear non nega certo di conoscere il misterioso personaggio che gli si è
presentato dicendo che lui e Gigi sono da sempre amicissimi, come dice il titolo stesso
della novella pirandelliana. Anzi, è dispostissimo a credere alla cosa. Il fatto è che Gigi
proprio non riesce assolutamente a ricordare come si chiami questo suo amico. Parlano del
più e del meno lì per la strada e poi, visto che ormai la giornata di lavoro è persa, Gigi
invita l’amico che gli è “piovuto dal cielo” a casa propria e, dopo avergli fatto visitare le
cinque stanze del proprio “quartierino”, lo invita a pranzo. Il misterioso amico appare
spiantato come e forse e più del Conte d’un tempo che fu, tant’è che, parlando del più e del
meno, durante il desinare il misterioso amico fa cenno, non si sa se casualmente o di
proposito, a delle cambiali che avrebbero dovuto essere avallate ma che, per un “garbuglio”
non lo sono state riducendolo così in quella che al giorno d’oggi chiameremmo “una forte
situazione debitoria”. L’amico del mistero dice a Gigi di “essersi fatto sposare” da una
donna, per nulla piacente, alla quale ha dato, come unica cosa, il proprio cognome. Dopo
essersi “violentato la mente” dal primo momento dell’incontro e poi per tutta la durata del
pranzo, alla fine, Gigi Mear prende, come si suol dire, “il coraggio a due mani” e chiede,
persino supplica, l’amico di rivelargli il suo nome in quanto egli, Gigi cioè, non lo riesce a
ricordare pur con tutti gli sforzi possibili e immaginabili. Per tentare di convincerlo il Buon
Gigi Mear dice all’amico che il fatto di non sapere, o meglio di non ricordare, chi egli sia
non gli ha impedito di aprirgli la propria casa e di farlo sedere alla sua mensa. Ma a nulla
valgono gli sforzi del povero Gigi Mear. L’amico però rifiuta, recisamente e a più riprese, di
esaudire questa sua richiesta. Anzi, l’amico considera addirittura “un godimento” il fatto di
tener sulle spine il proprio generoso ospite (qui inteso nel significato antico di “colui che
ospita”) e se ne va per le scale ridendo e salutando con la mano il povero amico
smemorato!
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Riscoperta del Grande Mondo
Belluca e la riscoperta del Mondo
Il Mondo, l’esistenza del Mondo per noi, uomini e donne d’oggi, con le nostre vite
normali, non sembra essere una grande cosa, una grande scoperta; ma mettiamoci nei
panni di Belluca, protagonista della bellissima novella “Il treno ha fischiato”, di Luigi
Pirandello, contenuta nella raccolta “L’uomo solo” poi riunita nella raccolta “Novelle per
un anno”, che del Mondo fa la riscoperta così, d’improvviso, per un accadimento
normalissimo come un treno che fischia e ne comprenderemo appieno la portata epoca.
Belluca infatti del Mondo, il Mondo con la vita che vi scorre e le luci che sfavillando lo
fanno bello e affascinante, si era dimenticato, dimenticato sì!, avete letto bene! Tutto preso
com’era dalla sua di vita, una vita miserabile vissuta tra l’ufficio di computisteria, in cui
svolgeva un lavoro, “di concetto” si direbbe oggi, tutto immerso nelle cifre, tra libri mastri,
partite semplici e doppie ed altre “simili amenità” che di ameno hanno ben poco, e una
casa in cui lui vive, come recluso, assieme ad una torma di ragazzini e a tre donne cieche,
due, la suocera e la sorella della suocera di Belluca, per via della cataratta, la moglie di
Belluca, potremmo dire, per un “difetto congenito” chiamato nella novella “palpebre
murate”. Oltre a questa già abbondante compagnia Belluca ospita in casa anche un paio di
figlie vedove che però si guardano bene di prestare il benché minimo aiuto in casa,
limitandosi, quando gli aggrada, ad accudire la sola madre.
Capite ora che, vivendo come vive Belluca, da recluso in casa e da “bestia da soma”
all’ufficio di computisteria, il Mondo tende a diventare se non proprio una fantasia
quantomeno una cosa ben lontana e remota; una cosa per le altre persone. Dopo tant’anni
vissuti a questo modo capite come una cosa semplice qual è il fischio, per lontano che sia,
di un treno che gli faccia fare la riscoperta che vi è un Mondo sconfinato al di fuori delle
mura della sua orribile casa e al di fuori dell’ufficio di computisteria dove fatica giorno
dopo giorno allo scopo di guadagnarsi da vivere, possa sortire degli effetti a dir poco
devastanti su una persona come il nostro amico Belluca. Questa sconvolgente riscoperta
porta Belluca a inebriarsi a tal punto di libertà e di aria fresca e frizzante da fargli
abbandonare la propria usuale natura remissiva che, per lunghi e lunghi anni, l’ha portato
a tollerare qualunque tipo di angheria da parte del capo ufficio e dei colleghi e ad assumere
un tono ed un comportamento che portano tutti a credere che il povero Belluca abbia avuto
una sorta di crollo nervoso che l’abbia condotto alla pazzia. E difatti, dopo la “scomposta”,
seppur naturalissima, come scrive lo stesso Pirandello, reazione avuta nei confronti del
capo ufficio Belluca viene condotto in un ospizio per pazzi. Tanto in ufficio quanto, più
tardi, all’ospizio dei pazzi, Belluca continua a ripetere di aver sentito il treno fischiare.
Questa sorta di comportamento porta tutti quanti lo vanno a trovare all’ospizio a
concludere ch’egli sia, effettivamente, impazzito o comunque ben avviato per la strada che
conduce alla pazzia. Solamente una persona, un vicino di casa di Belluca, che ben sa come
il pover’uomo ha vissuto per tanti anni, saputo cosa Belluca seguita a ripetere, si fa
persuaso che Belluca non sia per nulla impazzito ma che si sia solamente inebriato,
eccessivamente, di vita vera e di Mondo e che a ciò e non alla pazzia sia dovuto il suo
comportamento. E inoltre viene a sapere del proposito dell’autore di tale sconvolgente
riscoperta, il Belluca appunto, di recarsi, una volta che verrà “rilasciato” dall’ospizio dei
pazzi, dal capo ufficio per scusarsi del suo comportamento e quindi dichiararsi
nuovamente pronto a riprendere il proprio ruolo all’ufficio computisteria. Solamente, dopo
aver fatto la riscoperta del Mondo e della sua poetica bellezza, chiederà al capo ufficio, di
quando in quando di “essere di manica larga” e di lasciarlo spaziare con la fantasia oltre i
confini dell’ufficio per andare, che so, in Congo o nella Foresta Nera! D’altronde da uno che
abbia fatto la riscoperta del Mondo non si può pretendere che torni a lavorare con la cieca
compostezza di un animale da soma che sia all’oscuro di quanto di bello e di grande vi sia
al di là dei propri paraocchi!
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Sei personaggi in cerca d’autore
Quando i personaggi si dimostrano più veri delle persone reali
In attesa di potermi rileggere il testo teatrale questa sera ho deciso di godermi
nuovamente lo spettacolo teatrale, in dvd, del dramma “Sei personaggi in cerca d’autore”
scritto da Luigi Pirandello; dramma che ebbi modo di vedere, per la prima volta, in teatro,
al Teatro Carcano di Milano, quando frequentavo l’ultimo anno delle superiori e che poi, io
acquistai, anni fa, allorquando uscirono in dvd alcuni spettacoli di Pirandello, in dvd
appunto.
In un teatro non bene identificato e, del resto, poco importa di quale teatro, in
particolare, si tratti, una compagnia, anche qui non ben identificata, si sta preparando a
provare la commedia di Luigi Pirandello intitolata “Il giuoco delle parti”.
Sul palcoscenico vanno in scena le piccole scenette della vita quotidiana di una
compagnia di teatro, chi arriva in ritardo, chi deve ripassare le parti che faticano ad
entrargli in testa, chi, con sufficienza, si pone a confronto con gli componenti della
compagnia, e così via.
Quando, dopo tutti gli intoppi, piccoli e grandi, la compagnia è ormai pronta a
cominciare, anzi comincia, la prova della commedia pirandelliana ecco che sulla scena
compaiono sei personaggi che paiono, o forse sono, sbucati dal nulla. Alla normale, quasi
scontata direi, domanda del capocomico su chi siano, quello che tra i sei veste i panni del
Padre rivela che essi sono personaggi.
Sì, personaggi, “vivi e reali” ai quali l’autore, dopo aver dato loro la vita ideandoli,
non ha però poi avuto il coraggio o la forza di permetter loro di mettere in scena il loro
dramma personale.
Immaginatevi la sorpresa, l’ilarità in certi casi, della compagnia di attori a vedersi
piombare lì, in scena, così, all’improvviso, quei sei strani figuri che dicono, anzi
pretendono, di essere dei personaggi e di essere più veri e reali degli attori stessi.
È infatti sempre il Padre, ad un certo punto, che, rivolto al capocomico poi assurto al
rango di autore, dichiara che sì, è vero, loro, in quanto personaggi, creati da un autore, con
un’esistenza prefissata, una vita stabilita e scritta sulla carta, sono più reali di qualunque
persona reale, financo il loro autore, che gode in una vita che può cangiare di giorno in
giorno.
I sei personaggi riescono ad intrigare con la propria vicenda il capocomico il quale
decide di accettare il ruolo di loro autore e mette in scena, o meglio permette loro di
mettere in scena, il dramma del quale essi sono portatori.
E la storia comincia a dipanarsi e, nel corso del primo atto, fa la sua comparsa, una
comparsa breve e fugace il settimo dei sei personaggi, quello tra loro che non è in cerca di
un autore ma che è il motore di tutto il primo atto: Madama Pace, una donna che, dietro la
rispettabile facciata di un negozietto di sartoria, nasconde, nel retrobottega, la realtà di una
“casa equivoca”.
Qui, nella stanza ubicata nel retrobottega del negozio di Madame Pace, si compie
l’incontro, dopo tanti anni tra il Padre e la Figliastra; incontro che, per poco, proprio per
pochissimo, non sfocia in qualcosa di molto più intimo.
Dopo questo incontro il Padre accetta di riportare sotto il proprio tetto la Figliastra,
la Madre, colei che fu sua moglie, e i due figlioletti nati anch’essi dal secondo matrimonio
di lei.
Questo improvviso piombare in casa di quei quattro “nuovi venuti” provoca la
ribellione del Figlio Legittimo il quale, con sdegno, si rifiuta di insegnare la propria parte
fino a che, costretto, non rivela quello a cui gli è capitato di assistere, e quello di cui è stato
protagonista nel giardino della casa; il ritrovamento del corpo della sorellina annegata e il
seguente suicidio del fratellino.
Dopo un vibrante battibecco, per così dire, tra il Padre e colui che, nella finzione
scenica dovrebbe vestirne i panni, nel quale il secondo, non credendo alla morte del
ragazzino, urla “Finzione!” ed il Padre che di rimando urla “Ma quale finzione? Realtà!” la
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scena si chiude con i sei personaggi, o meglio quelli che dei sei personaggi sopravvivono,
lasciano la scena e il capocomico che, dopo aver constatato che oramai si è fatto tardi per le
prove, dice alla compagnia di tornare in serata e, dopo aver ordinato il “Buio in sala!”,
lascia a sua volta il teatro.
Sulla scena, ormai buia, il sipario si riapre sui sei personaggi, in ombra, che tornano,
tutti, un’ultima volta alla ribalta per poi ritirarsi, a loro volta, dalla scena.
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Tragedia di un personaggio
Pirandello e la tragedia del personaggio capitato nelle mani
sbagliate
Luigi Pirandello è un scrittore che ha saputo padroneggiare come pochi il genere
della tragedia. È anche stato un autore che ha tratto non poche delle sue opere teatrali sul
canovaccio di novelle scritte precedentemente e poi sviluppate in testi teatrali in cui i temi
della novella in questione sono stati sviscerati completamente e “messi in bocca” a vari
personaggi. Uno degli esempi più lampanti e fulgidi di questo meccanismo pirandelliano di
trasformare una novella in un dramma, una tragedia o una commedia teatrale è, senza
alcun dubbio, quello di “La tragedia d’un personaggio”, novella facente parte delle “Novelle
per un anno”. La novella in questione inizia come una sorta di confessione di Luigi
Pirandello che ammette di “dare udienza” ai suoi personaggi ogni domenica mattina.
L’autore passa quindi in rassegna alcuni di questi personaggi, come, tanto per fare un
esempio, “il maestro Icilio Saporini, spatriato in America nel 1849 e tornato in patria per
morirci…”. Un giorno poi, mentre si appresta a dare udienza ai suoi personaggi, alcuni
scontrosi e antipatici, ecco imporsi alla sua attenzione il dottor Fileno.
Per la verità del dottor Fileno, o meglio del povero dottor Fileno, la cui tragedia
preminente era quella di esser capitato nelle mani dell’autore sbagliato, Pirandello si era
già occupato e della sua sorte sia doluto quanto era lecito e giusto. Oramai quindi per
Pirandello la “pratica Fileno” era da considerarsi chiusa. Ed invece riecco comparire il
dottor Fileno ed imporre la propria, ingombrante, presenza e accampare la pretesa di fare,
più compiutamente, partecipe Pirandello della propria tragedia o meglio di quella che il
dottor Fileno, autore del trattato “La filosofia del lontano” che il suo autore originario,
colui che lo “partorì” come personaggio vivo. E da quel punto di partenza personale il
dottor Fileno si spinge a parlare dei personaggi in generale, di coloro, cioè, che come lui
furono partoriti dalla fantasia di un autore che li creò “forse meno reali ma veri”; veri e
immortali. Infatti un personaggio, una volta creato resterà vivo e vero per l’Eternità.
Morrà l’autore che gli ha dato la vita ma lui resterà per sempre.
Nella novella “La tragedia d’un personaggio” si prefigura, nettamente, il dramma
“Sei personaggi in cerca d’autore”. Ne “La tragedia d’un personaggio” il personaggio “in
cerca d’autore che ne sia degno” è solo uno, lui, il dottor Fileno ma le tematiche trattate
sono quelle che verranno poi esplicitate nei “Sei personaggi in cerca d’autore”.
Dove nel dramma teatrale pare di scorgere Luigi Pirandello tanto nel Padre quanto
nel Figlio Legittimo qui, nella novella “La tragedia d’un personaggio” invece Pirandello
sembra vestire quelli che nel dramma saranno i panni del Capocomico, con la differenza
che dove nei “Sei personaggi in cerca d’autore” il Capocomico si farà poi persuadere a dar
voce ai sei personaggi qui, Pirandello, dopo aver dato ascolto allo “sperduto personaggio” e
dopo aver ascoltato la sua tragedia ed aver consigliato al tragico e sperduto personaggio di
applicare a se stesso ed alla sua vicenda la “teoria del cannocchiale rovesciato” di cui il
dottor Fileno tratta nel proprio saggio “La filosofia del lontano”, lo “liquida” per tornare ad
occuparsi dei suoi poveri personaggi “…i quali saranno cattivi, saranno scontrosi, ma non
hanno almeno la sua stravagante ambizione”.
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Vita che sfugge via
La vita fugge via come un treno
La vita. La vita che sfugge. Che ci sfugge di sotto il naso come un treno che non
siamo riusciti a prendere per un soffio. La vita è al centro di quella che è forse, se non
sicuramente, la mia preferita tra le “Novelle per un anno” del Genio di Girgenti, al secolo
Luigi Pirandello: “La morte addosso”. Come novella forse ai più non dirà molto, ma se vi
nomino l’opera teatrale che ne è stata tratta, ovvero “L’uomo dal fiore in bocca” forse tutto
comincerà a diventarvi più chiaro. Protagonisti di questa novella pirandelliana sono due
uomini. Due uomini senza nome, quasi a voler rimarcare il fatto che, pur essendo loro i
protagonisti “evidenti” della vicenda vi è, in fondo, nascosta in secondo piano, un’altra più
importante protagonista nella vicenda narrata ne “La morte addosso”. No! Non si tratta,
come si potrebbe essere portati a credere, della morte. Affatto! La protagonista de “La
morte addosso” è, invece, se vogliamo per assurdo, proprio la vita. La vita piena di
impegni, di commissioni e di stress dell’uomo che entra nel bar dopo aver perso il treno
per un soffio, per colpa, dice lui, dei mille pacchetti e pacchettini contenenti gli acquisti che
aveva dovuto fare per moglie, figlie e amiche di moglie e figlie. E la vita che sfugge via, pian
piano ma inesorabilmente, giorno dopo giorno, al proprietario del bar, in una delle
versioni teatrali dell’opera interpretato da Vittorio Gassman.
Vita che il proprietario del bar vive, potremmo quasi dire “per procura”, osservando
la vita e l’agire quotidiano delle altre persone. Non però, lo dice lui stesso con grande
enfasi, la vita delle persone a lui legate, che conosce. No! La vita che egli ama vivere, in
quanto la sua gli sta venendo meno, strappata via, come i fili d’erba di un cespuglietto ai
lati della strada, da un male inesorabile ma dal nome “più dolce di una caramella”,
l’epitelioma, “il fiore in bocca” dell’opera teatrale, appunto. Il barista, o proprietario del
bar, confessa al suo estemporaneo ascoltatore di amare intrattenersi a guardare dalle
vetrine dei negozi la gente che fa le proprie spese, ammirando al contempo la maestria dei
ragazzi di bottega. Gli confessa anche gli scontri, aspri e talvolta violenti, che egli ha con la
moglie che, ben sapendo che il marito è malato vorrebbe tenerlo “imprigionato” dentro
casa. Lui invece sente la necessità, una necessità fisica, di evadere da quella che lui vede
come una prigione. Questa confessione-monologo spazia in vari meandri e si conclude con
una richiesta che non può non far provare tenerezza nel lettore. L’uomo del bar, “L’uomo
dal fiore in bocca”, chiede al suo ascoltatore, l’uomo che a breve lascerà il locale per
rituffarsi nella propria vita quale che sia, di scegliere un cespuglio, al lato della strada che
verosimilmente si troverà a percorrere la mattina seguente per recarsi dalla stazione fino al
paesello dove lui con la sua signora e le sue figlie sono in villeggiatura, e di contarne i fili
d’erba. “Quanti saranno i fili tanti saranno i giorni che ancora io vivrò”, dice l’uomo del
bar ed aggiunge di scegliere un cespuglio bello grosso, segno questo che, nonostante tutto,
egli la propria vita vorrebbe, anzi vuole, viverla ancora a lungo. Se possibile!
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Vitalizio che giova alla salute
Novella su come un vitalizio possa, in certi casi, allungare la vita
A sentire nominare, al giorno d’oggi, il termine vitalizio vien quasi l’orticaria. Infatti
questo termine porta alla mente, ai nostri giorni, l’importo, molto cospicuo, percepiti dai
nostri Onorevoli Parlamentari e affini. Nel nostro caso, o meglio nel caso narrato
magistralmente dal grande Luigi Pirandello nella sua novella intitolata, per l’appunto, “Il
vitalizio”, il termine sta ad indicare, per usare le parole del vocabolario online della
Treccani, il “contratto per cui un soggetto (il vitaliziante) è tenuto a corrispondere a un
altro soggetto (il vitaliziato) una rendita per tutta la durata della vita sua o di uno o più
altri beneficiarî: può costituirsi a titolo oneroso in seguito all’alienazione di un bene
mobile o immobile, a titolo gratuito in seguito all’alienazione gratuita di un immobile o
alla cessione gratuita di un capitale, o anche per testamento (legato di rendita v.) e per
sentenza del giudice, come forma di liquidazione di danni permanenti procurati a una
persona.” Nel caso de “Il vitalizio” pirandelliano il contratto deriva dalla cessione, da parte
di Zi’ Marabito, un anziano agricoltore della piana di Girgenti, del proprio podere a
Michelangelo Scinè, detto “il Maltese”, un ricco possidente del luogo, il quale ha costruito
la propria grazie all’usura, il quale fa lavorare il terreno del vecchio Zi’ Marabito, come già
quello dell’ormai defunto Ciuzzo Pace, da un mezzadro di nome, o meglio di cognome,
Grigoli.
Il vecchio Zi’ Marabito, poco prima di lasciare il proprio podere, al quale aveva
dedicato lunghi anni di lavoro, amore e fatiche, si raccomanda con i nuovi proprietari che
“il fondo non abbia a patire”. In cambio del proprio terreno Zi’ Marabito riceve un vitalizio
di due lire al giorno. L’affare pare più che buono al Maltese, memore com’è del fatto che il
precedente vitaliziato, il defunto Ciuzzo Pace, aveva riscosso la propria rendita, per altro
inferiore a quella spettante al vecchio signor Marabito, per soli sei mesi. Tra l’altro lo
stesso Zi’ Marabito dice, sempre al momento di lasciare il proprio podere, che prenderà
presto “la via di Ciuzzo Pace”, così intendendo che non graverà per molto sulle spalle e
sulle tasche di Don Michelangelo Scinè. Le cose però vanno diversamente e, nonostante
una grave forma di polmonite, che le vicine di casa del vecchio signor Marabito,
“invogliate” in questa credenza dalla Malanotte, una specie di strega di paese, addebitano
ad una qualche fattura lanciata, presumibilmente, al vecchio dal nuovo proprietario del
fondo, ovvero il Maltese, il vecchio campa lunghi anni, seppellendo in quel frattempo,
tanto il Maltese stesso quanto Nocio Zagara, il non troppo onesto notaio, incaricato, prima
dal Maltese quindi in proprio in quanto subentrato egli stesso nella proprietà del fondo, al
pagamento del vitalizio.
E dire che il vecchio Zi’ Marabito, abituato a non pesare sulle spalle di nessuno e
insofferente all’idea di “dover campare alle spalle” del Maltese prima e, come s’è detto
sopra, del notaio Nocio Zagara poi, le tenta tutte per abbreviare questo suo stato di
beneficiario di vitalizio. Esce incurante del maltempo, dorme in una soffitta in mezzo a topi
e umida da matti. Insomma fa di tutto per aver ben poca cura di sé. Ma, a quanto pare, una
“entità superiore” ha deciso che lui campi a lungo per vendicare tutti quelli che quella
“Sanguisuga dei poveri”, al secolo Don Michelangelo Scinè aveva, soprattutto nella sua
poco edificante professione di usuraio, vessato e lo stesso Ciuzzo Pace che il proprio di
vitalizio l’aveva potuto godere solo per sei mesi.
La novella “Il vitalizio” si conclude con il vecchio Zi’ Marabito che ritorna, in quanto
tornato, a seguito della morte del notaio, proprietario del suo vecchio podere, alla sua tanto
amata campagna. Stavolta però, date le sue ormai centocinque primavere, vi torna come
“supervisore” e nonno. Il fondo infatti è gestito e mandato avanti da Grigoli e da Annicchia,
una orfana che il rione nel quale Zi’ Marabito si era ritirato, aveva adottato. In conclusione
val proprio la pena di dire che, in certi casi, “un vitalizio allunga la vita”!
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