Istituto MEME: Fattori sociologici del suicidio

Istituto MEME
associato a
Université Européenne
Jean Monnet A.I.S.B.L. Bruxelles
Fattori sociologici del suicidio
Scuola di Specializzazione:
Relatore:
Tesista Specializzando:
Contesto di Project Work:
Anno di corso:
Scienze Criminologiche
Roberta Frison
Maria Elena Mungo
Agenzia Investigativa Azeta
Primo
Modena: 4 settembre 2010
Anno Accademico: 2009 - 2010
Indice dei Contenuti
1. Introduzione ........................................................................................................................ pag. 3
2. Il concetto di suicidio nelle varie epoche storiche e nelle diverse culture ................ pag. 9
2.1.Il suicidio come atto eroico o sublime ........................................................................... pag. 9
2.2 Il cristianesimo ed il suicidio …………........................................................................ pag. 14
2.3.Il suicidio romantico ……………………………………………………..................... pag. 16
2.4.Il suicidio come diritto dell'uomo di disporre della propria vita .................................. pag. 22
3. Il suicidio come prodotto della società .............................................................................. pag. 25
4. Come tentare di prevenire il drammatico fenomeno del suicidio ................................... pag. 37
5. Conclusioni .......................................................................................................................... pag. 41
6. Alcuni dati statistici riguardanti i suicidi in Italia e nel mondo ..................................... pag. 42
Bibliografica ............................................................................................................................ pag. 53
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1.Introduzione
Il suicidio è un fenomeno di vasta rilevanza sociale, la cui frequenza varia in epoche e culture
diverse. Analogamente a quanto è avvenuto per ogni altra manifestazione psicopatologica, lo studio
del suicidio si è avvalso di un duplice paradigma: da una parte il paradigma personologico, di
derivazione psicoanalitica e antropofenomenica, che, partendo dalla concezione del suicidio come
"atto insano", ha contribuito a svelarne dinamiche e significati, dall'altra il paradigma sociologico,
che ha considerato le manifestazioni umane come parte di un più vasto sistema culturale e socioeconomico.
Non voglio parlare della morte secondo le modalità tanto di moda, non entro nel merito del
testamento biologico. Sono problemi di etica, di morale, di scienza che possono essere analizzati
solo avendo delle risposte certe a domande del tipo: cosa è la vita? Cosa differenzia un umano da
una lucertola e poi da un fiore?
Il suicidio non è stato nei tempi la stessa cosa ed anche nell'antichità, senza che vi fosse una
influenza giudaico-cristiana le posizioni erano differenti.
Nell'Etica Nicomachea Aristotele definisce il suicidio un atto di viltà; del resto, già il suo maestro
Platone non ammetteva il suicidio se non per qualche necessità assolutamente ineluttabile.
Lo Stoicismo, al contrario, è forse uno degli esempi più noti di filosofia che accetta il suicidio e,
anzi, in determinate condizioni, lo descrive come un atto naturale. Seneca, filosofo che ha chiuso la
sua vita con un atto volontario (sebbene dettato da Nerone, ma va ricordo che uno stoico non fa
nulla contro il proprio volere) o tecnicamente più di un atto - successivamente: cicuta, taglio delle
vene dei polsi e dietro le ginocchia, bagni di vapore per spossare il corpo già dissanguato - spiega in
più punti della sua opera che lo stoico, quando ritenga di aver compiuto la parte che il fato gli ha
destinato, può decidere di uscire dalla vita. L'accettazione del suicidio è la conclusione di una
filosofia che insegna che i mali spesso sono tali solo in apparenza, e la morte non fa eccezione.
Bisogna però ricordare sempre che il suicidio è ammesso non come fuga, ma solo quando il proprio
dovere è compiuto, e anche in questo caso è chiaramente solo una libera scelta.
Nel III sec. d.C. Plotino scrisse un trattato riguardante il suicidio. Per via della propria impostazione
naturalistica, e in parte panteista, egli critica aspramente le posizioni dello stoicismo; ritiene infatti
necessario seguire il corso naturale della vita. La vita stessa, in quanto espressione dell'anima che
illumina una natura inferiore, è concepita infatti in senso divino, quale prodotto ultimo della
processione da Dio. "Non ti toglierai la vita, affinché l'anima non se ne vada", il suicidio provoca,
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secondo questa impostazione, un danno all'anima che viene cacciata di forza e in maniera
innaturale. Non esiste il suicidio razionale, la violenza al proprio corpo è sempre accompagnata da
"angoscia, dolore o ira". La vita è inoltre un percorso evolutivo per il filosofo, che permette di
elevarsi attraverso la legge che regola il ciclo delle reincarnazioni: "E se il rango che ciascuno avrà
lassù corrisponde alla sua condizione al momento della morte, non bisogna suicidarsi finché c'è la
possibilità di progredire".
Se il suicidio affrontato per una causa giusta, come la libertà, è giustificato da alcuni filosofi antichi,
la totale condanna di questo gesto, pur nell'umana pietà, è solitamente presente nelle filosofie
cristiane o che hanno subito l'influsso del cristianesimo. Il suicidio è infatti condannato come atto
immorale o vile di fronte alla vita: "contraddice la naturale inclinazione dell'essere umano a
conservare e perpetrare la propria vita", recita infatti il Catechismo della Chiesa Cattolica; "al tempo
stesso è un'offesa all'amore del prossimo perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la
società familiare, nazionale ed umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi".
Solo con l’avvento della Rivoluzione Francese il suicidio non è più stato considerato reato (o
meglio il tentato suicidio per ovvi motivi), è rimasta punibile severamente l’istigazione al suicidio.
Ma a tale liberismo illuminista non ha fatto seguito una analisi delle motivazioni che ne stanno alla
base. D’altronde una cultura razionalista non poteva affrontare che razionalmente il problema e
quindi intellettuali quali Voltaire non avevano il potere comprendere un qualche cosa che nascesse
dall’irrazionale.
Alfieri intende il suicidio come atto non di debolezza ma di ribellione: quando gli ostacoli della vita
diventano insormontabili e l'uomo si sente sopraffatto da un destino che lo condanna
inesorabilmente alla sconfitta, egli ricorre al gesto del suicidio, inteso come protesta a ciò che il
destino gli ha riservato.
Il protagonista delle Ultime lettere di Jacopo Ortis, romanzo di Foscolo, si suicidia, atto che è
insieme una liberazione e una protesta: liberazione dal dolore e protesta contro la natura, che ha
destinato l'uomo all'eterna infelicità.
Giacomo Leopardi fa una distinzione su quelli che potevano essere i motivi di suicidio per le genti
del passato e quelli della sua epoca. Dice che gli antichi si suicidavano “per eroismo per illusioni
per passioni violente”; mentre i suoi contemporanei si suicidano perché sono “stanchi e disperati di
questa esistenza”. Sostiene che il suicidio non può essere considerato un atteggiamento folle, ma al
contrario la conseguenza di un logico ragionamento di una fredda analisi razionale. Nonostante il
suo pessimismo cosmico definisce il suicidio "la cosa più mostruosa in natura”.
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Secondo Schopenhauer l'obiettivo per liberarsi dal dolore dell'esistenza è superare la volontà di
vivere, ma non attraverso il suicidio, il quale non è una soluzione ma una delle massime
manifestazioni della volontà di vivere. Schopenhauer sostiene che proprio perché si ama troppo la
vita e non la si vuole vivere in una condizione sgradevole ci si libera con il suicidio.
Secondo Heidegger il suicidio è una forma di anticipazione non autentica della morte; togliendosi la
vita, infatti, l'esserci umano sfugge alla progettazione di un essere-per-la-morte autentico, ovvero
alla comprensione che la sua esistenza è tale nella sua autenticità solo in quanto concepita a partire
da un riferimento costante alla propria morte, come momento estremo che definisce il tempo della
propria vita come una totalità temporale.
Solo decenni dopo si è cominciato ad intravvedere ciò che giaceva sotto la punta dell’iceberg del
cosciente. Groddek, allievo di Freud dal quale precocemente si distaccò aveva intravvisto per primo
un Es irrazionale che governava di nascosto l’Io razionale. Freud poi da bravo venditore qual’era gli
rubò il concetto e coniò la seconda topica. Negli stessi anni nascevano anche la sociologia e
l’antropologia. Uno dei fondatori di questa scienza umana è stato Emile Durkheim. Secondo questo
autore le cause del suicidio sono si psicologiche ma soprattutto sociali. Coniò il termine di anomia,
la rottura dell’equilibrio tra il soggetto e la società. Anche qui nulla di nuovo sotto il sole, bastava
rileggersi gli autori latini. Durkheim vedeva il suicido modellato in tre tipi: egoistico, altruistico,
anomico. Di queste tre tipologie, quella che ci interessa maggiormente dal punto di vista sociale è
quello anomico.
In tutta la storia del genere umano si sono alternati momenti di pensiero utopico a forme di
ridimensionamento e contestazione dello stesso. Alla “Città del Sole” si è contrapposto il Leviatano.
Ma è possibile realmente per l’uomo giungere ad un punto in cui il male sia completamente
dimenticato? L’ultima utopia che ci è stata presentata si chiama illuminismo, razionalismo,
progressismo.
La fede cieca nella ragione e nel raziocinio umano ha creduto che eliminando i fantasmi della
tradizione, della religione, del mito la società sarebbe progredita fino ad un sistema “perfetto” in cui
ogni individuo sarebbe vissuto privo di costrizioni, in cui la scienza e la tecnica ci avrebbero
liberato dalle malattie, dalla miseria ed un giorno anche dalla morte.
Ma la storia non ha letto “l’Enciclopedia” e dopo due secoli il mondo della “razionalità scientifica”
ci ha liberato di alcune malattie e ce ne ha regalate altre. Sono scomparse alcune miserie e ne sono
giunte di nuove, più nascoste.
La guerra si combatte ancora e con distruzioni di massa che coinvolgono la popolazione civile
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ancora più degli eserciti.
Hobbes è ricomparso vestito da banchiere a ricordarci che “homo hominis lupus”, Rousseau è
tornato ad essere un paragrafo marginale sui libri di scuola.
Eppure, nonostante sia più che evidente il fallimento di questa politica razionalista, continuiamo ad
essere illusi del miraggio di un mondo utopico senza reale futuro. Contemplando il “Sol
dell’Avvenire” non ci accorgiamo delle tenebre dell’oggi.
Una delle massime del buon governo confuciano recitava che: “la virtù nasce dal rispetto delle
piccole cose”. Noi occidentali abbiamo prima eliminato il rispetto per le piccole cose e poi anche
per quelle grandi.
L’orgia iconoclastica che ci perseguita continua a distruggere i templi degli dei sostituendoli con
centri commerciali. La felicità nasce dal possesso di un televisore al plasma. Ma quando hai
acquistato con 48 rate senza anticipo il televisore al plasma e ti accorgi che sei come prima a quale
oracolo ti rivolgi? Il dio del consumismo ti risponderà che non sei felice perché lo hai acquistato di
“soli” 32 pollici. Avresti dovuto averlo di 42 con il lettore di DVD e sistema Home Theatre. Così,
insoddisfatto, queste nuove rate si assommeranno a quelle del telefonino, della lavatrice, della
macchina, del viaggio alle Maldive.
L’aumento dei suicidi, caratteristica peculiare delle società industriali più “evolute” è solo un
epifenomeno del malessere che caratterizza l’uomo moderno. Il suicidio è una tendenza
autodistruttiva individuale ma esistono altri tipi di suicidio “collettivo”.
La famiglia ha assunto sempre di più i connotati di un contratto commerciale. Non un impegno
trascendente ma un accordo tra le parti.
Tu mi stiri le camice, io pago la bolletta della luce. Se un giorno non porterò più le camice allora
arrivederci.
I figli rappresentano più che un problema un peso, la natalità è in caduta verticale nel mondo
“civilizzato”. Certo avere dei figli rappresenta una gran rottura. Passi per il doverli nutrire, vestire,
mandare a scuola, al doposcuola, al dopo-doposcuola (brillantemente risolto dalla televisione), ma
trovare quando devi andare a teatro una baby-sitter che non ti rubi in casa è una impresa. Ma
soprattutto ti trovi a dover rispondere a delle domande che non sono soltanto se i bambini li trovano
sotto i cavoli o peggio ancora a dover essere di esempio.
L’uomo nell’apoteosi estrema del proprio individualismo è riuscito persino ad annullare uno dei
principali istinti animali presenti in natura: la sopravvivenza della specie.
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Anche le amicizie sono state sostituite dai soci in affari. Utili spalle per il proprio comportamento,
non più esseri con cui condividere sogni, aspirazioni, dolori, delusioni.
Il rapporto con Dio è diventato “democratico”, ma del resto quello che è diventato l’unico e vero
dio attuale è il “denaro”, ciò che più spaventa è comprendere di avere anche dei doveri.
Doveri verso il coniuge, doveri verso i figli, doveri verso gli altri. Tutti questi doveri sono dei pesi,
delle responsabilità. Ben venga quindi questo sistema che ci solleva dall’avere dei doveri e ci lascia
solo diritti.
Ma l’assenza di senso del dovere non ci ha reso più liberi, ci ha reso solo più “animali”, anzi ci ha
reso ancora meno che animali. Una bestia non butterebbe nel cassonetto il proprio figlio appena
partorito.
Generazioni private dalle norme morali, dai doveri etici di comportamento, crescono in quei paesi
ed in quegli ambienti ove la tradizione e la cultura popolare sono state sradicate.
Non dobbiamo ritenerci esenti da questo, anche da noi non si trasmettono più valori reali, la
pedagogia è diventata una scienza esatta. Nelle scuole medie ed nelle superiori non si insegna a
vivere ma l’inglese, l’informatica, il diritto d’impresa.
La grande educatrice è diventata la televisione, gli insegnanti ampiamente demotivati attendono lo
squillo della campanella ancora più degli studenti.
Ma se la televisione è strumento di penetrazione commerciale, proviamo ad immaginare quale tipo
di modello educativo possa proporre.
Da questo sistema, deluso dalle aspettative create da un liberismo positivista, in cui si è perso il
concetto di educazione improntata non solo sui diritti ma anche sui doveri, è nata una società di
infelici, disadattati, insoddisfatti cronici. Questo solamente nel contesto “fisiologico”; nel campo
della patologia si è dovuta creare una vera e propria scienza per la diagnosi e la “cura” di malattie
della psiche praticamente sconosciute nella società pre-rivoluzione industriale.
Il 60% degli statunitensi fa uso di psicofarmaci, la percentuale di suicidi si è decuplicata, il trend
demografico dell’occidente è in continua diminuzione, si fa uso di droghe e di aiuti farmacologici
per divertirsi, per fare sesso, per fare sport, per lavorare. Con queste premesse non dovrebbe essere
molto difficile intuire come non si stia poi molti meglio complessivamente rispetto al passato.
Certamente la mortalità infantile si è ridotta nettamente, ci sono ora molti più giovani che possono
morire suicidi, per droga o schiantati contro un albero a duecento all’ora il sabato notte.
Un anziano difficilmente morirà di polmonite, esistono gli antibiotici, potrà continuare a condurre
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una triste vita seduto su una panchina senza nemmeno potersi permettere il quotidiano del giorno,
considerato come un peso per la società della produzione, uno che spende poco e che si deve solo
mantenere.
Abbiamo telecomunicazioni che ci consentono di parlare con genti dell’altro pianeta ma non
conosciamo il nostro vicino di casa. Chattiamo con sconosciuti ma non parliamo con i compagni di
scuola e di lavoro. Possiamo viaggiare velocemente in aereo per raggiungere luoghi lontani e
trovare gli stessi negozi, le stesse marche, gli stessi cibi, tutto stereotipato e senza interesse alcuno.
La scienza e la tecnica hanno fatto passi da gigante, non abbiamo più paura del colera, ora abbiamo
quella della bomba atomica. La guerra oggi è programmata ancora dai militari, ma a morire sono
soprattutto i civili. Questo è forse il mondo perfetto? Se è così perfetto, perché continuiamo nel
nostro intimo a sentirci tanto male. Ma, soprattutto, se ci sentiamo così male perché continuiamo a
credere a chi continua a dirci che questo è il migliore dei mondi possibile, l’unica possibilità per il
genere umano. Se questo è il migliore dei mondi possibile, la fine della storia, perché aumentano i
suicidi? E chi sono gli artefici di questo malessere? Non è forse ancora un reato l’istigazione al
suicidio? Non sono forse colpevoli quelli che hanno tolto la vita e la speranza ad intere generazioni?
Ma questo è un argomento più scomodo da trattare nei salotti televisivi piuttosto di uno strascontato, laico, razionalista, illuminista “testamento biologico”.
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2.Il concetto di suicidio nelle varie epoche storiche e nelle diverse culture
2.1 Il suicidio come atto eroico e sublime
L’eroe nel momento della sua lotta contro il destino affronta il suicidio come conseguenza ultima
dell’eroismo: dalla gloria eroica alla gloria di un gesto che lo corona e distrugge.
La concezione eroica antica passa attraverso l'evoluzione dall’eroico arcaico all’eroico posto di
fronte alla saggezza civile.
Così l’atto eroico diviene l’atto suicida e l’atto suicida, nella visione del tragico, appare come un
atto di suprema giustizia.
Il suicidio equivale ad accettare una punizione? Esso è un affrontare la tenebra che attende gli eroi,
un volere la punizione, un rivendicarla a sé togliendola alle Erinni e alla logica oscura del fato. Il
fato non esprime qualcosa di più alto, grandioso e quasi sacrale? La morte non dev’essere affidata
ad esso, e non accettata come obbedienza a un ideale di onore?
Ma l’alternanza di cecità e lucidità, di follia e ragione, di vita e di morte è forse il nodo cruciale.
Perché l’atto eroico, anche se inteso come sacrifico, non è una vera catarsi. E’ il tormento, lo
spasimo della morte, fino al silenzio ultimo dell’eroe che sembra accostarlo a qualcosa di nuovo e
di vero, è questa la sublimità tragica di un suicidio capace di condannare la forza attraverso la forza.
In Francia, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento si sviluppò una corrente antro-psicosociologica dedicata al tema del "suicidio altruistico-eroico", cioè di quella forma estrema di
sacrificio di sé in vista di un bene supremo (coincidente in genere con un ideale religioso o
politico).
Capostipite di tale corrente fu Émile Durkheim (1858–1917), che si rifiutò d'interpretare il
fenomeno del suicidio come effetto di un mero disordine mentale individuale, spesso conseguente, a
sua volta, di determinate tare ereditarie.
Oggi è relativamente facile definire il suicidio altruistico come il tentativo di accettare passivamente
la violenza su di sé, senza reagire con la violenza e senza provocare violenza su altri, o, al contrario,
come la pretesa di trasformare attivamente il proprio corpo in un'arma letale contro il proprio
nemico-usurpatore (di proprietà o di libertà).
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Una scelta del genere, che esplode quando si ritiene che il rapporto di forze sia troppo sbilanciato a
favore del "nemico", e ovviamente quando si pensa che il gesto possa indurre, in qualche modo, il
popolo oppresso (che può anche coincidere col proprio gruppo etnico o religioso o politico) a
reagire agli abusi con maggiore solerzia e decisione. Martiri contemporanei, che rientrano in tale
visione delle cose, li abbiamo spesso visti nel conflitto palestinese, in quello ceceno, iracheno,
iraniano, libanese, tibetano; negli anni Sessanta e Settanta se ne vedevano in Cecoslovacchia,
Ungheria, Vietnam, Cambogia...; prima ancora in India, in Russia e in tutte quelle popolazioni che
nell'Ottocento combatterono per avere una propria nazione indipendente.
Durkheim però fu il primo che cercò di collegare il suicidio al contesto socioculturale
dell'individuo: confessione religiosa, famiglia, società politica, andando ben oltre la semplice analisi
dei fattori psichiatrici.
Nella sua pionieristica indagine sociologica, Il suicidio (1897), egli notò, avvalendosi di rilevazioni
statistiche, che nelle società protestantiche, così fortemente basate sull'individualismo, i tassi dei
suicidi erano nettamente superiori a quelli riscontrati nelle società di religione cattolica. I meno
tentati da questo atto estremo erano, secondo lui, gli ebrei, a motivo del fatto che avevano saputo
maturare un forte spirito di gruppo, come forma di reazione alle tante persecuzioni subite.
Le tipologie di suicidio ch'egli riuscì a individuare furono quattro:
1. il suicidio egoistico, determinato da un dislivello, percepito come incolmabile, tra i propri
desideri e la loro possibilità di realizzazione. In questo caso gli "altri" non vengono visti
come fonte d'aiuto, ma come irriducibili concorrenti. Ci si toglie di mezzo per non aver
saputo raggiungere uno standard vitale sufficientemente accettabile;
2. il suicidio altruistico è invece tipico delle società primitive o di quelle comunità in cui il
rapporto sociale è chiuso, nel senso che l'individuo dipende totalmente dal collettivo, come
p.es. il capitano d'una nave in procinto d'affondare o un militare in guerra.
L'autoimmolazione diventa quasi un gesto obbligatorio, che può anche essere caricato di
ulteriori motivazioni di tipo mistico-religioso;
3. il suicidio anomico è forse quello più interessante, nell'analisi di Durkheim, proprio perché il
più moderno, o meglio, il più "occidentale". "Anomia" significa "mancanza di valori", di
"punti di riferimento ideali". E' il gesto di chi non riesce a sopportare improvvise
perturbazioni economiche che abbassano il livello del proprio stile di vita; ma anche il gesto
di chi non riesce più a ritrovare se stesso all'interno di una società che, nel proprio benessere,
evolve troppo in fretta. La corsa continua al successo stressa psicologicamente, rende
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insicuri e non permette di affrontare con serenità i momenti di crisi;
4. il suicidio fatalistico, che Durkheim ha voluto contrapporre a quello anomico e che non ha
molto convinto i sociologici successivi. Si ha quando esiste una sorta di disciplina
caratterizzata da prescrizioni assolutamente esagerate, che impediscono all'individuo di
emergere, di farsi valere come tale. Una situazione del genere è rappresentata dalla
schiavitù.
La conclusione della sua indagine era che il suicidio dipendeva più da dinamiche sociali che da
problematiche individuali. La società non andava considerata come mera somma di individui, ma
come qualcosa di molto più complesso, dotato di una propria autonomia, con cui uomini e donne
devono saper interagire.
Questo principio, per quanto l'analisi di Durkheim sulle società primitive fosse in gran parte errata,
costituì per molto tempo un assioma su cui altri ricercatori basarono i loro studi. Notevoli, p.es.,
furono le indagini condotte da R. Hertz (1881-1915) sui Dayak del Borneo (La pratica della doppia
sepoltura, 1907) e quelle di M. Mauss (1872-1950) che utilizzò le ricerche di due etnologi: Boas e
Malinowski, per scrivere il suo capolavoro, Saggio sul dono (1923), in cui poté dimostrare che in
tutte le società primitive la continuità dei rapporti umani veniva garantita dalla triplice obbligazione
morale del dare, ricevere e ricambiare; non solo, egli arrivò anche a comprendere che azioni per noi
del tutto naturali, come p.es. il parlare, il camminare e il dormire, in quelle società diventavano
fenomeni sociali veri e propri.
Qui intanto si può notare come le tipologie scelte da Durkheim per spiegare il suicidio altruistico,
oggi si siano ulteriormente diversificate, chiamando p.es. in causa le gesta dei giovani palestinesi
contro l'occupazione israeliana. In casi del genere l'altruismo riscatta un'intenzione che altrimenti
apparirebbe come sconsiderata o, quanto meno, eccessiva. Ma c'è di più, seppur in forma negativa
(in quanto col suicidio viene comunque spezzata una vita, e anche più di una, quando esso assume
una forma di tipo terroristico): il suicidio altruistico è in grado di far percepire alla collettività
oppressa che esiste un'alternativa "sociale" ai disvalori dominanti, un'opposizione irriducibile, di
gruppo, al sistema coercitivo.
Certo è che sarebbe difficile sostenere la stessa cosa pensando ai kamikaze giapponesi durante la II
guerra mondiale, proprio perché qui il suicidio altruistico era dettato da una sorta di cieco fanatismo
instillato da uno Stato militarista e imperialista. Indubbiamente negli ambienti militari qualunque
gesto di abnegazione, fino al sacrificio di sé, viene considerato utile non solo a se stessi (in quanto
si pensa che lasci di sé una percezione eroica), ma anche all'intero gruppo di appartenenza (che si
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sente confermato nel valore della propria missione); e tuttavia, quando le forze militari sono
rappresentative di regimi autoritari, inevitabilmente il suicidio assume una connotazione
ideologizzata, dove la strumentalizzazione da parte degli organi di potere è enorme.
L'autoimmolazione è più la necessità di obbedire a un ordine autoritario che non una scelta
consapevole a favore di un ideale che va oltre la contingenza del momento. Si è talmente abituati a
obbedire che il rifiuto di accettare una richiesta del genere apparirebbe come una forma di
tradimento. Basta vedere, p.es., a come si comportarono le divisioni naziste in Russia, quando una
qualunque valutazione realistica consigliava la resa.
Non si può parlare di "martiri della libertà" quando gli apparati politico-militari di appartenenza
occupano territori altrui. Neppure quando si pensa di farlo nella convinzione di trasmettere una
superiore civiltà. La storia, prima o poi, arriva a smentire queste pretese, denunciandone la
mistificazione.
Guardando invece i martiri palestinesi della libertà (ma lo stesso discorso potremmo farlo per i
tibetani contro i cinesi), si deve constatare che il livello di istruzione di costoro non è affatto basso
né le condizioni economiche di vita sono particolarmente indigenti. Queste tipologie di martiri sono
persone comunissime, che non hanno mai manifestato sintomi di malattia mentale; è vero che
possono avere un orientamento religioso determinato, ma non pare essere la religione il fattore
fondamentale che li porta al suicidio, anche se indubbiamente essa conferisce una sacralità
particolare a ogni atto di eroismo o di sacrificio personale.
Questi "testimoni della verità" sono convinti di compiere qualcosa per il bene del paese in cui
vivono. Si sacrificano per aiutare il loro paese a liberarsi da una insopportabile oppressione. E'
molto difficile analizzare un fenomeno del genere, poiché anche il padre dell'esistenzialismo
filosofico, S. Kierkegaard, era convinto che col proprio sacrificio avrebbe contribuito a far uscire il
proprio paese da una forma di vivibilità del cristianesimo vuota di contenuto, ma il suo gesto viene
unanimemente considerato quello di un irrazionalista, e non tanto perché ammantato di religione,
quanto perché vissuto all'interno della mera individualità isolata, che si costruisce della realtà una
rappresentazione univoca.
Ora, è difficile sostenere che gesti del genere possono accampare una pretesa di razionalità soltanto
perché, come nel caso dei palestinesi, vengono compiuti all'interno di una consapevolezza
collettiva. Si tratta sempre e comunque di una forma di disperazione. I martiri volontari hanno solo
astrattamente il senso della democrazia: di fatto non credono nella forza del popolo, restano malati
di individualismo e, proprio per questa ragione, tendono a preferire i gesti estremi, spettacolari,
eccezionali, che, quando sono in gioco valori religiosi, vengono enfatizzati con un'aurea di sacralità.
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L'antropologo francese René Girard ha scritto nel suo volume La violenza e il sacro (1972), che il
suicidio non appare più oggi, a certa opinione pubblica, come un atto contro natura o contro dio,
ma, al contrario, come un atto sacro, nel senso che il martire è allo stesso tempo sacerdote e vittima
sacrificale. L'azione terroristica diventa un atto religioso di guerra. Tuttavia, questa forma di
opposizione di massa, di strati sociali oppressi, che non riescono a rinunciare al lato mistico della
loro ideologia e che restano incapaci di creare un vero movimento di liberazione nazionale, resta
sempre una forma di disperazione, che di costruttivo non ha nulla.
Anche G. Bataille (1897-1962) lavorò su questo argomento, arrivando però alla conclusione che
l'aspetto mistico non stava tanto nell'ideale supremo del sacrificio, quanto nel sacrificio stesso,
avente valore in sé o, al massimo, in rapporto alla propria, piccola, comunità d'appartenenza.
Bataille non credeva nella possibilità che interi Stati potessero portare a suicidi di massa, proprio
perché, secondo lui, ciò era incompatibile con l'individualismo dominante nei paesi del capitalismo
avanzato.
Eppure, se si guardano i totalitarismi del Novecento, bisognerebbe pensare proprio il contrario.
Governi autoritari riuscirono a indurre milioni di persone ad accettare una gigantesca follia di
massa, in cui il sacrificio di sé, concepito in maniera nazional-popolare, veniva assunto come valore
supremo, soprattutto quando si prospettava il rischio di non potersi imporre con la forza sul proprio
nemico: tutta la retorica nazifascista e nipponica ruotò attorno a questo tema.
Secondo Bataille invece l'individuo che si autoimmola ritrova la comunità contro lo Stato,
attraverso la riscoperta della dimensione del sacro, che è intrinsecamente violenta, trasgressiva,
poiché solo così sente di poter far uscire, da un inconscio istituzionalmente represso, i propri valori
di vita.
Questo modo di ragionare, per esempio, è tipico degli individui appartenenti alle comunità
islamiche, oppresse da Stati autoritari, tanto che la parola "martire" (shahid) indica piuttosto un
"testimone della verità".
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2.2 Il cristianesimo ed il suicidio
Nella Bibbia si trovano elencati sette suicidi: il più noto si trova in Matteo 27:3, ovvero il suicidio
di Giuda Iscariota dopo aver tradito Gesù. Il gruppo pro suicidio più celebre fu quello dei Donatisti,
i quali erano convinti che uccidendosi avrebbero potuto raggiungere il martirio ed andare dunque in
Paradiso. Vennero per questo ufficialmente dichiarati eretici. Nel V secolo, Sant'Agostino scrisse il
libro “La Città di Dio, in cui vi è la prima condanna del suicidio da parte del Cristianesimo. La sua
giustificazione biblica per tale condanna fu l'interpretazione del comandamento “non ucciderai”,
mentre altre giustificazioni vanno fatte risalire alla “Fedra di Platone”. Nel VI secolo il suicidio
divenne un peccato religioso ed un crimine laico. Nel 533, coloro che commettevano suicidio non
solo venivano accusati di crimine, ma si vedevano negati anche una sepoltura Cristiana. Nel 693,
persino il tentato suicidio divenne un crimine ecclesiastico, che poteva essere punito persino con la
scomunica, con le temute conseguenze civili. Tommaso D'Aquino diffamò il suicidio come atto
contro Dio.
Leggi civili e criminali vennero adottate per scoraggiare il suicidio, ma anche per negare una
sepoltura appropriata, degradando così il corpo. La proprietà e i possedimenti del defunto e della
sua famiglia venivano confiscati. Molti Cristiani credono nella santità della vita umana, un principio
che, generalmente, afferma che ogni vita umana è sacra – una meravigliosa e perfino miracolosa
creazione di Dio– e deve essere compiuto ogni sforzo per salvarla e preservarla quando Tommaso
d’Aquino possibile. Quindi, il prendere deliberatamente la propria vita sarebbe incompatibile con
questa visione globale.
Nel Cattolicesimo, la morte per via di un atto di suicidio liberamente scelto è considerata un grave
peccato mortale. Il principale argomento cattolico è che la propria vita è proprietà di Dio, e
distruggere tale vita vuol dire imporre il proprio dominio su ciò che è di Dio. Al punto 2281 del
Catechismo si afferma: ‘’Il suicidio contraddice l’inclinazione naturale dell’essere umano di
preservare e perpetuare la sua vita. È gravemente contrario al giusto amore di sé. È lo stesso che
offendere l’amore del prossimo perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la famiglia,
la nazione, e le altre società umane nei confronti dei quali continuiamo ad avere degli obblighi. Il
suicidio è contrario all’amore per il Dio vivente.’’ Il Catechismo della Chiesa Cattolica del 1997
sosteneva che la persona che commetteva suicidio poteva non essere pienamente sana di mente; e
perciò non colpevole moralmente al 100%: "Gravi disturbi psicologici, angoscia, o una seria paura
delle avversità, della sofferenza o della tortura possono diminuire la responsabilità di colui che
commette il suicidio.”
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La dottrina cristiana considera il suicida un carnefice di se stesso, in nulla e per nulla differente da
un assassino. Il sesto comandamento si riferisce quindi tanto ai propri fratelli quanto a se stessi. Il
suicidio è, come afferma S. Agostino e la Patristica, una atto di violazione della legge divina da
parte dell'uomo. Non è più interpretato come un'espressione di libertà umana, ma come un'offesa
verso il Dio che ci ha creati: Egli ci ha creati, a Lui appartiene la nostra vita e solo Lui potrà
riprenderla, quando lo reputerà opportuno. Uccidere se stessi significa quindi assumersi una libertà
su cui non si ha diritto, gettare un bene che non ci appartiene, un dono fattoci per essere conservato
e fatto fruttare, come espresso nella Parabola dei Talenti. Inoltre il suicidio può esser ritenuto un
gesto ancor più grave considerando che, secondo il punto di vista arminiano, il fulcro della salvezza
dell'uomo è il pentimento: ogni peccato deve essere confessato prima della morte. Il suicida non
può pentirsi del proprio gesto in quanto nel momento in cui lo compirà, egli naturalmente sarà
morto.
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2.3 Il suicidio romantico
Come sappiamo, il romanticismo nacque alla fine del XVIII secolo, in Germania, nella città di Jena.
I suoi maggiori esponenti furono Friedrich von e August Schlegel insieme ad altri (i nomi sono
troppo difficili da scrivere). Friedrich, dopo che si trasferì a Berlino, fondo la rivista "Athenaeum",
che rappresenta il primo documento di diffusione delle idee romantiche.
I fratelli Schlegel strinsero dei rapporti d’amicizia anche con Fitche, di cui subirono l’influsso
filosofico e considerandolo il padre del Romanticismo. Lo stesso Hegel, ebbe modo di conoscere le
dottrine estetiche e filosofiche dei due fratelli. Dopo la morte di Friedrich von, il gruppo
(conosciuto come il circolo di Jena) si sciolse, ma le sue idee si diffusero ed ebbero grande successo
in altre città tedesche, come Monaco.
Non è molto semplice poter fare un elenco di tutti i caratteri e le forme in cui il romanticismo è stato
interpretato nel corso degli anni, ma è possibile delinearne gli aspetti più comuni, come ad esempio
il rifiuto della ragione illuministica e la ricerca di altre vie d'accesso per giungere all'infinito.
Spesso si intende il romanticismo come il movimento della non-ragione, tuttavia non è esattamente
così dal momento che è vero che rifiutano la ragione, ma non in senso lato, rifiutano solo quella
illuminista dicendo che la ragione illuminista, quella ragione calcolatrice e "scientifica", poteva
cogliere solo pochissimi aspetti della realtà, e anche i più superficiali.
Inoltre i romantici intendendo la storia sotto forma di percorso guidato da Dio, vedono nella ragione
illuminista un tentativo di ribellione a questo e vedono nella rivoluzione francese, per esempio, la
conseguenza dicendo: "avete voluto voi prendere in mano il vostro destino? ecco il risultato". Ecco
che Hegel prende la ragione illuminista e la divide in intelletto e ragione propriamente detta,
addossa all'intelletto tutti i limiti sopraccitati e dice che invece è la ragione, intesa però nel modo
"dialettico", che deve essere la guida (ecco perché è sbagliato dire in toto che rifiutano la ragione).
I romantici cercavano dunque altre vie d'accesso all'infinito. Quest'ultima era per loro il sentimento
(categoria spirituale che fino ad allora si aveva sempre ignorato), interpretato come un insieme di
emozioni indescrivibili, con il quale la ragione non ha niente a che vedere (citazione: il pensiero
non è altro che un sogno del sentimento "Novalis") e viene ritenuto in grado di poter oltrepassare
quei famosi limiti di cui Kant ha tanto parlato e di poter giungere alla conoscenza primordiale. Il
sentimento è visto come l'infinito stesso.
Come strategia per giungere al sentimento e al vero sapere ecco che i romantici riscoprono la
religione e le danno una notevole importanza; in particolare, proprio con questo rifiuto così marcato
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della divinità dell'illuminismo (kant era agnostico ad esempio) loro si "scagliano" dalla parte
opposta andando proprio anche a riscoprire le fedi positive, che sono quelle religioni naturali con
l'aggiunta di tutta quella costellazioni di riti e liturgie.
Ecco, un esempio è Schlegel, il quale abbraccia il cattolicesimo (e non il protestantesimo ad
esempio) proprio perché il cattolicesimo è più coinvolgente con tutti i suoi riti, le sue liturgie, ecc...
Tuttavia questo non fu l'unica altra via per raggiungere il vero sapere:
Hegel rappresentò, per esempio, una eccezione, in quanto egli non abbracciava la religione, ma
neanche l'illuminismo bensì prendeva il discorso kantiano sulla ragione e sull'intelletto
(propriamente detti) e diceva che l'intelletto aveva le colpe ed i "difetti" che loro avevano scagliato
alla scienza mentre abbraccia la ragione, in senso dialettico arrivando a dire che è solo tramite la
ragione dialettica che arriviamo alla conoscenza vera e quindi anche all'infinito
Da una nota frase di Fichte possiamo dedurre che l'uomo non ha un'essenza immutabile e
predeterminata, ma se la crea da solo, ed ha quindi un'essenza dinamica, in continuo divenire. La
nostra essenza viene costruita attraverso l'azione e l'essenza dell'uomo non può essere altr oche la
libertà.
L'infinito è il protagonista principale del movimento romantico: con esso e in esso l'uomo può
raggiungere la Verità, andare oltre quelle che sono le barriere filosofiche dell’illuminismo e di Kant,
e avvicinarsi egli stesso alla forma perfetta e infinita di essere (dio)
Ecco che la mentalità romantica, intesa come ribelle e anticonformista (per alcuni sensi), si
concretizza nel tema dell'evasione: lo spirito ribelle romantico vuole evadere da tutto ciò che è
quotidiano e monotono, vuole abbandonare il comune "finito" quotidiano per darsi ad esperienze
uniche e travolgenti (ecco che anche la droga era un utile mezzo per fare queste esperienze);
parallelamente a ciò, viene riscoperto anche il medioevo, con tutti i usoi miti e le sue leggende,
proprio per andare alla ricerca del tenebroso, dello strano e del magico (Bram stoker per esempio,
l'autore di Dracula, era un romantico).
Ciò si lega fortemente alla figura del romantico come viaggiatore; ma, il viaggiatore non era inteso
come colui che viaggiava in mezzo alle città per conoscere costumi ed abitudini dei posti, ma come
un vagabondo infelice che vagabondava senza meta
I Romantici vedono il periodo classico: in cui tra uomo e natura e tra individuo e società vi era un
rapporto basato sulla comunione e la spontanea e immediata identificazione. l'uomo non vedeva un
nemico nella natura ma si sentiva parte di essa e viveva in armonia con essa. Stessa cosa nel
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rapporto tra individuo singolo e società, il singolo io non viveva il rapporto con gli altri con
conflittualità, ma si sentiva integrato in una società in cui aveva un suo ruolo e la sua vita aveva un
suo senso, non vi era scontro con la società. Questo periodo è identificato con quello dell'età
classica (lo stesso degli umanisti e dei rinascimentali, il mondo greco romano). In questo modo la
vita non era una lotta per la propria affermazione contro gli altri e la natura, ma la vita di ogni
individuo aveva un suo senso compiuto, ciascuno aveva un proprio ruolo e trovava negli altri e nella
natura immediato soddisfacimento alle proprie esigenze.
A questo periodo di segue uno rottura dell'unità tra uomo e natura e individuo e società. La natura
diventa un nemico, una forza da sottomettere e controllare, piegandola ai propri bisogni e questo
avviene attraverso la scienza, con cui l'uomo sottomette la natura al proprio volere e non vede più in
essa la propria dimora e non si sente più parte di essa. La natura va sottomessa con la tecnica e
piegata alla volontà dell'uomo, non è più il luogo della bellezza e dell'armonia. Stessa cosa avviene
nel rapporto con gli altri e la società. L'individuo singolo entra in conflitto con la società, questa è
quel non io che si oppone alla realizzazione dei suoi desideri e vivere significa (vedi il concetto
dialettico di esistenza come lotta tra io e non io e streben) combattere con gli altri e con le forme
dell'organizzazione sociale per affermare la propria volontà contro la volontà degli altri.
Il senso dell'unità perduta, della fratellanza con gli altri e delle proprie radici naturali diventa così
una delle esigenze che il poeta e l'artista romantico cercano di realizzare, ritornare alla natura e a un
rapporto autentico e non conflittuale con gli altri sono obiettivi della società futura. Tale riconquista
dell'armonia porta avvenire attraverso la politica (il concetto di nazione come unità di popolo basata
sulla comune storia, lingua e tradizione), attraverso la poesia e l'arte (capaci di costituire un comune
patrimonio in cui tutti possano riconoscersi, vedi romanzo storico), attraverso l'amore (visto come
fusione tra due singoli).
Amore e Morte sono un binomio classico del Romanticismo poiché l’investimento affettivo
dell’amore romantico verso la persona amata, è sì grande, ma spesso non possibile a causa di
svariati motivi, e per questo nasce quella convinzione della dolcezza narcotica della morte
romantica, la convinzione che la morte sia dolce e quasi mai dolorosa. La speculazione sul
significato e il valore della “morte felice” ha attratto da sempre l’interesse di scrittori e filosofi. Già
Platone affermava che vivere significa prepararsi alla morte, perché il distacco dell’anima dal corpo
va preparato moralmente: infatti l’anima, essendo increata, è anche eterna ed immutabile, quindi
superiore al corpo. Nella Repubblica prospetta per i giusti una felicità maggiore dopo la morte
piuttosto che in vita. Il concetto di morte “felice” così delineata dalla filosofia antica si protrae nei
secoli affascinando e seducendo l’ispirazione di innumerevoli scrittori. Prenderei in esame, ad
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esempio, il pensiero e l’opinione sulla morte che emergono da alcune opere dei tre massimi
scrittori, espressione del romanticismo italiano: Foscolo, Leopardi e Manzoni. Nelle Ultime lettere
di Jacopo Ortis la morte è fortemente sostenuta dal protagonista e concepita come unica via di
uscita dal fallimento delle due passioni che lo animano: la passione politica e quella amorosa. La
morte, intesa in termini materialistici e nichilistici, è vista come unico rimedio ai mali della vita
provocati dall’uomo e anche come distruzione totale e “nulla eterno.
La morte non è vista come annullamento totale, come risposta puramente negativa ad una situazione
storica senza via d’uscita: essa consente la sopravvivenza, un legame con il mondo dei vivi,
attraverso il ricordo affettuoso e il compianto delle persone care.
La morte è quindi vista come una forma di sopravvivenza, sia pur illusoria: l’eroe sarà compianto
dai “pochi uomini buoni.” Alla morte si sopravvive nella memoria dei cari o nella memoria civile, il
valore dell’individuo non va del tutto perduto
Nel sonetto “Alla Sera” il poeta conferma il concetto che il sonno della morte, tranquillo e senza
preoccupazioni, è più desiderabile della vita, in quanto è eterno, senza risvegli, scevro di
preoccupazioni, senza avvenire, presente o passato, senza angosce e dolori: un abbandono totale con
l’assopimento di tutte le facoltà. Il poeta gradisce la sera perché desidera la morte, non in sé, ma per
quella “eterna quiete” che essa porterà dopo lo spegnimento perpetuo di ogni facoltà intellettiva,
conoscitiva e psicologica. Le immagini simboliche sono mirabilmente fuse in unità con il tutto e
con le parti. Con le nubi estive e gli zefiri sereni, con il “nevoso aere” e con le tenebre “inquiete e
lunghe”.
Il concetto di “nulla eterno” è in parte tratto dall’illuminismo francese, dal sensismo di Condillac, in
parte è conquista propria, ma non giunge mai ad una forma di ateismo professato. Per spiegare il
mistero della vita e delle cose, come sappiamo da testimonianze e da spunti in prosa, Foscolo si
pose più volte la domanda di che cosa sia Dio e quale parte Egli abbia nelle vicende umane. Il suo
dramma, come pure quello di Leopardi, consiste nel non aver trovato nella realtà una risposta
soddisfacente alle sue esigenze di felicità. Il mito delle “illusioni” in parte svolge questo ruolo, pur
non costituendo una risposta totalizzante e pienamente soddisfacente.
Questo tema è caro a Foscolo, tanto da essere incluso nel sonetto intitolato “Il proprio ritratto,”
sonetto che funge quasi da epitaffio di se stesso. Dopo una dettagliata descrizione fisica e
psicologica di sé, Foscolo conclude il sonetto con questo verso: “Morte, tu mi darai fama e riposo.”
La morte, intesa come dispensatrice di grazie e di onori per i poeti e per gli eroi, acquista, quindi,
una dimensione mitica, ed è fortemente agognata e auspicata dal poeta tanto da diventare
inscindibile dalla sua vita e anzi da occuparne la parte più importante in quanto la suggella: la morte
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diventa mitica perché costituisce la meta finale, il punto di approdo da cui scaturiranno eventi
positivi, “fama e riposo”. Questa particolare percezione della morte accomuna Foscolo all’altro
grande poeta del romanticismo italiano, Giacomo Leopardi. Il tema della morte e del suicidio
ricorre insistentemente nello Zibaldone, considerato l’officina tematica e poetica dell'autore
recanatese. La morte desiderata è ritenuta l’ultima risposta ad una condizione di sofferenza
individuale e psicologica, questa causata da una delusione d’amore. In parte il pensiero del suicidio
è fomentato dalla lettura del Werther di Goethe, il celeberrimo modello letterario di suicidio. Il tema
del suicidio è affrontato nuovamente nel pensiero 70, nel quale Leopardi definisce il suicidio come
“effetto dell’amor proprio che preferisce la morte alla cognizione del proprio niente. Per questo
motivo, la morte è concepita come la salvezza dal nichilismo che annulla l’uomo e i suoi desideri.
Ne consegue che quanto più una persona è egoista, tanto più sarà mossa al suicidio. La
consapevolezza di non poter avere un riscontro nella realtà, il vano desiderio di bellezza e di verità,
e la cognizione della miseria della vita (il tutto elaborato nel famoso conducono Leopardi all’amara
constatazione della necessità del suicidio. Questa posizione eloquentemente è esemplificata nelle
canzoni del 1821-1822, “Bruto Minore” e“L’ultimo canto di Saffo.” In quest’ultima canzone il
suicidio è considerato l’ultima risposta non solo di fronte all’infrangersi delle illusioni d’amore, ma
anche di fronte all’avversione della natura che disprezza la nobiltà d’animo. Il suicidio di Saffo è
anche un gesto catartico.
Nel pensiero 87, Leopardi spiega che quando l’uomo giunge ad odiare la vita, l’esistenza e se
stesso, l’idea e l’atto del suicidio comunicano una terribile e quasi barbara allegrezza, l’ultima
espressione della estrema disperazione e della somma infelicità.”L’inevitabilità della sofferenza e
l’impossibilità di esser felice rendono l’uomo prima indifferente e poi disincantato rispetto alle sue
aspettative. Tale disillusione conduce all’odio dell’esistenza e alla visione antagonistica di sé.
Nelle operette morali, ed in particolare nel “Dialogo di Federico Ruyisch e delle sue mummie” la
morte è auspicata più della vita stessa, poiché è caratterizzata dall’assenza del dolore, nonché dal
piacere e diletto dai morti che conversano, per breve tempo, con lo scienziato.
Nel “Dialogo di Tristano ad un amico” Leopardi riprende lo stesso tema definendo la morte come
liberazione, come un’immaginazione piacevole. Il protagonista Tristano invoca una morte
imminente che possa porre fine al suo tormento interiore:
La dimensione eroica della morte si precisa nel passo 137 dello Zibaldone, nel quale il poeta si
descrive come un uomo “disgustatissimo della vita,” “desideroso della morte” e che “si disperava
per non poter morire.” La morte diventa immaginazione, una condizione mitica, agognata
fortemente dal poeta. Tale principio rispecchia la condizione esistenziale dei due protagonisti
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(Adelchi, figlio di Desiderio, Re dei Longobardi ed Ermengarda sua sorella) della seconda tragedia
scritta da Manzoni nel 1822: Adelchi.
Adelchi appare straziato da un dissidio interiore tra la sua anima magnanima, pura e la cruda realtà
politica, in cui dominano solo l’interesse e la legge della forza. In questa visione si rintraccia il
pessimismo del primo Manzoni che vede la storia umana, in conseguenza della caduta del peccato
originale, condannata ad una degradazione non riscattabile. In essa gli individui che si ispirano ai
valori più alti non possono trovar posto e ne sono, anzi, irrimediabilmente espulsi. Il conflitto che
strazia l’animo di Adelchi è tipicamente romantico e l’accomuna agli eroi tragici alfieriani, al
Werther di Goethe.
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2.4 Il suicidio come diritto dell'uomo di disporre della propria vita
Le autorità da cui l'intelletto umano deve affrancarsi, riconquistando la propria indipendenza, sono,
innanzitutto, la superstizione religiosa e l'intolleranza delle Chiese, il potere arbitrario ed illimitato
delle monarchie assolute, il peso opprimente dell'oscurantismo e dell'ossequio alla tradizione. Sono
questi i caratteri generalissimi dell'Illuminismo, il quale si colloca non a caso nell'arco di 2
rivoluzioni politiche: la rivoluzione liberale inglese del 1688 e la rivoluzione francese del 1789.
Pervaso dal bisogno di estendere ad ogni campo dell'esperienza umana l'analisi razionalistica,
l'Illuminismo conserva tuttavia la lezione appresa dall'empirismo inglese. Il campo d'indagine è
rigorosamente delimitato al mondo dell'uomo e della natura: assoluto e reciso è il rifiuto di
estendere quest'analisi al di là dei limiti dell'esperienza stessa. Tutto ciò che è oltre l'esperienza si
svuota di qualsiasi interesse e cessa di costituire un problema.
Il tipo di conoscenza a cui ci si richiama è quello offerto da Newton. Il modello più alto del sapere
non viene più identificato nei grandi sistemi metafisici del XVII secolo (Cartesio, Spinoza,
Malebranche, ecc.) ma nella scienza, ed in particolare nella fisica e nella chimica. L'orizzonte
intellettuale del tempo è dominato dalla meccanica. Allo «spirito di sistema» caratteristico delle
grandi costruzioni della vecchia metafisica, viene opposto lo «spirito sistematico», cioè lo spirito di
un'indagine che, pur essendo rigorosa nel metodo, resti tuttavia aperta ai continui apporti
dell'esperienza.
La teoria della conoscenza dominante è quella dell'empirismo e, più ancora, del sensismo, la cui
formulazione più compiuta e coerente è nell'opera di Condillac. Principalmente la teoria consta di
pochi ma irrinunciabili punti: tutte le idee dell'uomo si originano dai sensi; queste sono innate,
impresse nell'animo umano da Dio e perciò indipendenti dall'esperienza; l'uomo è di per sé come
una nuda statua di marmo; il principio che determina lo sviluppo di tutte le sue facoltà è la
sensazione, cioè l'azione che esercita su di lui il mondo esterno.
Ma la vera e grande filosofia dell'Illuminismo non è da cercare nella logica o nella teoria della
conoscenza, quanto nel campo della riflessione morale, politica e civile in senso lato. Il centro
dell'interesse si sposta dalla metafisica alle forme molteplici e varie dell'attività umana. Il mondo
dei commerci, dell'industria, della politica ed, in genere, di quello «spirito pubblico» in cui si
esprime la mentalità ed il costume di un'epoca, assurgono ad importanza centrale.
Al di là delle differenze fittizie indotte negli uomini dalle tradizioni locali, ciò che è fondamentale e
comune a tutti sono di alcuni diritti inalienabili, di cui nascono già provvisti, i c.d. «DIRITTI
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dell'UOMO»; in questo richiamo alla tradizione giusnaturalistica, che è il vero cemento filosofico di
tutto il secolo, ciò che l'Illuminismo tuttavia vi aggiunge di suo è la capacità di mobilitazione
intellettuale e l'accento rivoluzionario. La teoria del diritto di natura cui si richiama è quello del
«Saggio sul Governo Civile» di Locke. Gli uomini entrano in società per vedere tutelati i loro
inalienabili diritti, come la libertà, la proprietà, il diritto di riunione e di parola, la libertà di stampa e
di movimento. Con il contratto sociale essi rinunciano ad una parte della libertà incondizionata ed
assoluta di cui godevano nello “stato di natura”, ma non per divenire sudditi, bensì per vedere
tutelata e garantita dalla legge la loro sfera d'indipendenza privata, cioè la libertà di disporre di sé e
dei propri beni nella sicurezza del diritto. La legge vincola, ad un tempo, i cittadini ed il sovrano e
quando quest'ultimo tenti di violare il contratto originario trasformandosi da sovrano legittimo in
despota, i cittadini hanno il diritto di opporgli resistenza e di deporlo con un atto rivoluzionario.
L'idea è quelle che l'uomo, nato buono, sia stato corrotto dalla società e che, per il suo riscatto,
debba esserci, o il ritorno alla natura o la fondazione di una nuova società. Questi due saranno i poli
tra i quali oscillerà il pensiero politico del Rousseau, dal «Discorso sull'ineguaglianza» (in cui la
libertà si configura come libertà dalla società) al «Contratto Sociale», in cui la conquista delle
libertà è affidata invece ad una società nuova che integri organicamente gli individui «in un corpo
comune».
Lo Stato non deve avere il potere di sindacare le convinzioni morali e religiose dei cittadini, bensì
solo quello di garantire il rispetto della legge e la libera coesistenza degli arbìtri privati.
Nell'impossibilità, tuttavia, di riconoscersi più o meno in tutta l'Europa dell'epoca all'infuori che in
Inghilterra, l'Illuminismo è portato soprattutto a rivendicare, contro lo stato di cose esistente, la
libertà dello stato di natura.
L'idea è quelle che l'uomo, nato buono, sia stato corrotto dalla società e che, per il suo riscatto,
debba esserci, o il ritorno alla natura o la fondazione di una nuova società. Questi due saranno i poli
tra i quali oscillerà il pensiero politico del Rousseau, dal «Discorso sull'ineguaglianza» (in cui la
libertà si configura come libertà dalla società) al «Contratto Sociale», in cui la conquista delle
libertà è affidata invece ad una società nuova che integri organicamente gli individui «in un corpo
comune».
In questo contesto prende rilievo anche il concetto della «RELIGIONE NATURALE» e,
soprattutto, della tolleranza. La religione naturale è il deismo, cioè l'affermazione di un Essere
spirituale supremo, creatore del mondo. Ma di questo Essere, che è il Dio cristiano (anche se
liberato da ogni carattere mitologico e dalla dogmatica delle varie Chiese), ci si rifiuta di precisare
altro attributo che non sia quello della razionalità. Dio è "soltanto" l'autore nel mondo fisico, ma,
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una volta creato, il mondo procede per suo conto, in base alle proprie leggi e senza interventi esterni
o miracolistici. Le Chiese, con le loro contese teologiche e la loro intolleranza, manifestatasi
drammaticamente nelle guerre di religione, corrompono la fede naturale in superstizione, i lumi del
cristianesimo nell'oscurantismo e nel fanatismo delle sette.
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3. Il suicidio come prodotto della società
Emile Durkheim (1859-1917) è uno di quei pensatori che si trova all’incrocio di molte tensioni
sociali e ideali.
Durkheim privilegia il sociale. Il sociale ha certo origine dalle vicende dell’individuale. Ma dopo
acquista leggi proprie a livello superiore. L’individuo entra in società, facendo violenza sulla sua
natura, subendo dunque una coercizione dall’esterno.
Per Durkheim il problema è di dimostrare la necessità di tale coercizione, di legittimarla. Il compito
della sociologia è di osservare questi problemi ed offrire una soluzione stabilizzatrice.
Egli non dà come facilmente acquisibile l’individuale nel sociale. Quello che lui descrive è un
“HOMO DUPLEX”: un uomo che si muove tra due poli opposti, la sua natura individuale o
profana, e la sua natura sociale o sacra.
Come aveva osservato Gustave Le Bon la coscienza dell’uomo come individuo è diversa da quella
dello stesso in quanto membro di un organismo collettivo. Le Bon aveva osservato che il
comportamento collettivo può essere migliore, ma spesso peggiore di quello individuale. Durkheim
ritiene, invece, che la società possa rendere i comportamenti collettivi migliori nella massima parte
dei casi, purché la stessa società intervenga attivamente. Solo una costrizione esterna può portare
l'uomo ad un piano più elevato, ma una costrizione intesa come fatto costruttivo che riesca a
liberarlo dalla casualità.
Per quanto riguarda la divisione del lavoro per Durkheim non è come quella tecnica di Smith, per
lui è la divisione sociale, la divisione in classi che collaborano tra loro. Il singolo non può essere
autonomo in una società con molte specializzazioni come quella attuale, bisogna attuare l’unione
dei singoli. La macchina della società è indispensabile alla loro unità, anche a prezzo di numerose
difficoltà. Ma il “contratto” si esercita in un regime di disuguaglianza fra la società che produce una
costrizione e l’individuo. Compito della società dovrebbe essere quello di livellare le
disuguaglianze naturali in una eguaglianza artificiale (sociale) in cui a tutti è dato di partecipare alla
conduzione della stessa in eguale misura e spontaneamente. Egli spiega il concetto di divisione del
lavoro con l’esempio delle antiche società, che erano omogenee poiché fondate su una religiosità di
gruppo. Ma le società moderne sono basate sulla specializzazione, e in esse prevale una religione
dell’individuo. La divisione del lavoro cova dentro di sé, una possibile disgregazione sociale.
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L’autore pensa dunque ad una divisione non solo di natura tecnica, ma basata su una morale
collettiva. Proprio l’estrema divisione del lavoro, a cui corrisponde la massima divisione in classi,
dovrebbe portare non al conflitto, ma alla massima solidarietà fra disuguali, dunque mette in luce un
elemento che Marx aveva sottovalutato, per il quale era possibile risolvere il problema della
divisione delle classi solo abolendo la proprietà privata.
Numerose critiche sono state mosse a Durkheim, ad esempio il sociologo A. Pizzorno afferma che
la solidarietà può verificarsi, ma solo secondo le varie classi, e che la solidarietà può avvenire solo
tra eguali e cioè fra appartenenti ai diversi livelli. Dunque fra i vari gruppi, solidali all’interno, si
creeranno, conflitti esterni di classe. Durkheim tenta di dimostrare che il crescere della divisione del
lavoro, rendendo ognuno dipendente da altri, aumenta la solidarietà. Questa solidarietà diventa il
fine morale della società.
Ma per acquistare la nuova forza sociale occorrono nuove istituzioni, che possono essere date da un
sistema basato sulle professioni, o meglio su corporazioni di professioni. Per Durkheim occorre
“cercare nel passato i germi di vita nuova che esso conserva e di sollecitarne lo sviluppo”. Dentro
queste corporazioni vi stanno dirigenti e diretti, che non preoccupano Durkheim dal momento che
pensa che le ineguaglianze provochino una dinamica sociale per il raggiungimento di livelli
superiori. Ma Durkheim si rende conto che questa dinamica sociale sta provocando una “folle
corsa”, legata solo all’espansione produttiva e all’estensione del mercato. Invece per il fine deve
essere quello di un godimento collettivo. I desideri illimitati sono insaziabili e come tali possono
essere definiti morbosi, determinano una sete inestinguibile che condanna ad uno stato di perenne
scontentezza. La riforma che propone è solo quella della limitazione delle passioni, attuabile solo
dalla società (avente funzione moderatrice)di cui l’individuo ne accetta l’autorità. Ma chi stabilirà i
livelli da raggiungere e le varie remunerazioni?
Secondo Durkheim esiste un “oscuro senso” che si può occupare di ciò, compiendo una
regolamentazione in grado di armonizzare il tutto. Approdando alla codificazione dei dislivelli,
sociali ed economici, ritorna sulla necessità della coercizione sociale in grado di eliminare i
conflitti. A tal proposito sarà espresso il concetto di “anomia”: “lo stato di non regolamento si
rafforza perché le passioni sono meno disciplinate proprio quando bisognose di una più forte
disciplina”.Proprio la coercizione, la moralità e l’anima collettiva potranno diminuire la anomie e
comporre i contrasti. L’economia industriale è lanciata in una corsa senza fine, una critica che
sembra poter anticipare quella moderna di W. Mills.
Durkheim infine invece di trarre delle deduzioni da questo ragionamento, parla ancora delle
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corporazioni, in grado di disciplinare i salari, la stessa produzione, e addirittura a regolare i bisogni.
Dunque è a questo che bisogna tornare. In realtà per Durkheim come dice Jonas, “il sociale è una
natura quasi metafisica”, e la tessera fondamentale di tutta la sua metodologia è infatti il “fatto
sociale”, spiritualmente e storicamente superiore all’individuo. Durkhei dice che un fatto sociale è,
ogni modo più o meno definito dell’agire, in grado di costringere socialmente l’individuo; ma non è
un imposizione è ciò che ml’individuo riceve come essere sociale (l’educazione, il linguaggio, le
leggi…). È un modo di agire, di pensare esterno all’individuo, dotato di potere coercitivo ed
imperativo in virtù del quale si impone all’individuo, con o senza il suo consenso. Questo tessuto di
vincoli e di comportamenti in cui è immerso l’individuo, sono i fatti sociali, distinti nettamente per
Durkheim dai fatti psichici. I fatti sociali possono esser considerati come “cose”, elementi che si
contrappongono e impongono all’individuo senza possibilità di mutamenti. La causa determinante
di un fatto sociale deve essere cercata fra i fatti sociali antecedenti e non tra gli stati della coscienza
individuale. Per lui il sociale ha una natura astorica, con una funzione di costante regolazione per la
società, l’unico fatto che legittima la costrizione dell’individuo in ogni società e tempo. Ma se
coglie esattamente la funzione dell’autorità nel primo periodo della vita del fanciullo, egli estrapola
sbagliando lo stesso concetto anche per l’individuo adulto. La costrizione è valutata una modalità
naturale e costante per lo sviluppo sociale. L’individuo è forgiato dai modelli sociali, in tutte le
manifestazioni della sua vita, o meglio è fatto, (passivamente). Un concetto che si amplierà nel
tempo e che arriverà a dire che l’individuo “è parlato”, “è vissuto”... ma in tal caso non dal fatto
sociale bensì dall’inconscio. Durkheim sarà ripreso nella concezione che l’uomo non è un
protagonista ma un derivato. Egli sostiene di voler integrare l’uomo, stabilizzarlo nell’ambito della
società e di una storia in lenta modificazione.
Nella elaborazione della sua teoria del suicidio uno dei punti più rilevanti del suo pensiero è il
concetto di anomia. Egli esamina con attenzione una serie di statistiche per diversi paesi e periodi.
Dopo aver tentato una classificazione di carattere psicologico di quattro tipi di suicidio:
“maniacale”, dovuto ad allucinazioni deliranti; “melanconico”, dovuto ad estrema depressione;
“ossessivo”, legato all’idea fissa della morte; “impulsivo”, dovuto ad un momento drammatico;
osserva che il tasso dei suicidi essendo variabile con regolarità in situazioni sociali diverse, non può
essere spiegato solo con motivazioni di carattere psicologico.
Rileva che esso è più diffuso nella città che nelle campagne, che gli uomini si suicidano in media
quattro volte più delle donne, gli anziani più dei giovani,gli ebrei meno dei cattolici, e questi meno
dei protestanti. Scartata la connessione fra stati psicopatici e suicidi, confuta una serie di teorie che
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avevano attribuito le cause anche a situazioni climatiche, stagionali.
Conclusione è che l’andamento dei suicidi dipende essenzialmente da cause sociali.
Per ciò che riguarda le varie religioni, l'autore nota che il suicidio aumenta dagli ebrei ai cattolici ai
protestanti, la spiegazione è nella natura dei sistemi religiosi,nelle forme di solidarietà più o meno
forti. Passa alla classificazione dei suicidi secondo “tre modalità sociali”, da cui derivano tre tipi di
suicidio che egli definisce: “egoistico”, “altruistico”, “anomico”. In base ad una serie di dati arriva a
stabilire che: “IL SUICIDIO VARIA IN RAGIONE INVERSA AL GRADO DI INTEGRAZIONE
DEI GRUPPI SOCIALI DI CUI FA PARTE L’INDIVIDUO” (della società religiosa, della società
domestica, della società politica). In tal modo riesce a spiegare il suicidio EGOISTICO, cioè quello
che porta l’individuo ad estraniarsi dal gruppo, ad entrare in uno stato depressivo e di isolamento.
Attribuisce questo suicidio ad una “SMISURATA INDIVIDUALIZZAZIONE”.
“L’individuo è troppo poca cosa, non è un fine sufficiente alla sua attività. Egli è limitato nello
spazio ed anche nel tempo. Quando abbiamo altri obbiettivi al di fuori di noi stessi, non possiamo
sfuggire all’idea che i nostri sforzi siano destinati a perdersi nel nulla, dove finiremo anche noi”.
Il nulla ci terrorizza, e qui potremmo citare l’eco del verso di Orazio: “Non omnis moriar” riguardo
la possibilità di prolungare, forse solo attraverso la cultura, la propria personalità.
Ma Durkheim ricorda Platone, nel Fedone, quando Socrate parla amaramente del vestito che dura
oltre la vita dell'uomo che lo indossa. In termini analoghi dice che si può rimandare di qualche
generazione quel limite, ma poi verrà sempre il momento in cui non ci sarà rimasto più niente. Solo
dunque attraverso l’integrazione sociale, l’uomo può tentare di evitare il suicidio egoistico che
deriva dall’isolamento e dall’eccesso di individualismo.
Ma il suicidio ALTRUISTICO, nasce da ragioni opposte, sono la scarsa individualizzazione e la
troppa integrazione che rendono l’individuo depersonalizzato. In tal caso si avranno eccessi di
sacrifici per la comunità: vecchi che si uccidono per non essere di peso, donne che lo fanno per la
perdita del marito, soldati per la gloria dell’esercito. Ma la terza forma di suicidio, quello
ANOMICO (senza legge), è la più complessa: essa deriva dagli squilibri sociali.
Si hanno così morti nei momenti di crisi o di disastri economici, ma anche nei casi di boom e di
brusca prosperità. Il mito del progresso senza soste, porta ad anomie gravi a cui corrisponde una
cuspide di suicidi.
In tal punto Durkheim introduce il problema della famiglia e del matrimonio.
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Gli uomini, che in genere si suicidano di più delle donne, durante il matrimonio lo fanno di meno,
mentre gli scapoli hanno un tasso nettamente superiore. In caso di divorzio sono ancora gli uomini
ad essere in netto svantaggio, mentre la donna non sembra essere scossa da questo. Considera gli
aspetti contraddittori del matrimonio, e rileva che dal punto di vista del suicidio “ il matrimonio
favorisce tanto più le donne quanto più è praticato l’uso del divorzio, e viceversa”.
Nel matrimonio l’uomo trova un limite ed una disciplina, mentre la donna, che nel matrimonio è in
una situazione particolarmente repressa, vede nel divorzio una possibile liberazione. Esattamente al
contrario di quanto si pensava. Si trova dunque di fronte ad un grave problema: “Non si può
diminuire il suicidio dei mariti senza aumentare quello delle mogli”. L’uomo è avvantaggiato dalla
stabilità, la donna è svantaggiata dalla mancanza di libertà; tutto ciò poiché l’uomo è compensato
dal fatto di essere inserito attivamente nella vita sociale, mentre la donna ne è tenuta a distanza.
La conclusione Durkheim la farà in linea conservativa, affermando che poiché il numero dei suicidi
con il divorzio si eleva, è positivo confermare l’indissolubilità del matrimonio anche al prezzo di un
grave svantaggio per la donna. Una possibile soluzione potrà essere trovata solo quando con una
maggiore socializzazione della donna, diminuirà lo scarto fra le posizioni dei due coniugi. Anche se
Durkheim aggiunge che la parità giuridica non potrà essere legittima finché l’ineguaglianza
psicologica sarà tanto flagrante.
Ma è proprio la società secondo lui, quel livello generale che determina quello psicologico e
individuale.
Dunque le ineguaglianze psicologiche possono attuarsi solo attraverso l’eguaglianza sociale.
Ma Durkheim non ritiene possibile del tutto questa ipotesi., ritenendo il matrimonio uno dei fattori
dell’ineguaglianza. Chiarisce che, non si può parlare di suicidio, ma di tipi diversi di suicidio. E
vede forme in cui si combinano i tre tipi insieme. “Sono innumerevoli le circostanze che sembrano
essere le cause del suicidio perché lo accompagnano molto frequentemente; gli avvenimenti più
diversi e contraddittori della vita possono essere pretesto al suicidio”.
Solo una spiegazione sociale può mettere ordine in tutti questi casi.
Cerca inoltre di vedere altri contesti in cui il suicidio si manifesta: esaminerà, ad esempio, il
rapporto fra omicidio e suicidio, trovando che dove il primo è molto sviluppato, il secondo si
verifica in misura minore.
Ma anche qui occorre distinguere. Infatti quando prevale il suicidio egoistico, l’omicidio
diminuisce, ma quando si tratta di suicidi altruistici questi sono indipendenti dal numero di omicidi.
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Infine, in quello anomico esiste un’ambiguità fra i due, e spesso il suicidio segue un omicidio
effettuato, o il suicidio avviene dopo un mancato omicidio.
Nelle società attuali sono presenti soprattutto il suicidio egoistico e quello anomico, spesso anche a
causa di una netta divisione del lavoro.
A questo punto sarebbe per lui coerente affermare che è proprio la società industriale, e in essa la
divisione estrema del lavoro, a creare profonde deformazioni della società, ma dirotta e constata che
“non vi è società conosciuta in cui sotto varie forme non si osservi una maggiore o minore
criminalità”. “Dunque dobbiamo dire che il delitto è necessario, che non può non esistere e che
l’organizzazione sociale lo implica logicamente: e quindi è normale”. Di fronte a questa
constatazione Durkheim contrappone solo il problema della necessità delle pene, perché altrimenti
si stimolerebbe la criminalità, sbilanciando così il grado di intensità.
Ma qual’è il grado normale di delitti e suicidi?
“Fin l’anno 1930, in Francia non era possibile per un sociologo citare il nome di Freud” afferma
Monnerot, per questo resta una separazione fra lo studio sociale del suicidio e lo studio
psicanalitico. Tuttavia si possono ravvisare osservazioni di Durkheim valide anche alla verifica
Freudiana.
Freud ritiene che il suicidio sia un omicidio mancato, opinione molto vicina a quella di Durkheim
sul suicidio anomico. Nell’anomia un uomo infatti si uccide spesso rivolgendo contro sé
l’aggressività che aveva accumulato contro gli altri. La psicoanalisi va oltre e ritiene che anche il
suicidio del depresso sia un omicidio mancato.
E’ possibile interpretare così dunque il suicidio egoistico di Durkheim come un eccesso di
individualismo che porta ad una carenza di integrazione e da cui quindi nasce l’aggressività verso
gli altri che lo hanno abbandonato. Tuttavia anziché muoverla verso gli altri, l’uomo in tale stato
svilupperà un forte senso di colpa e rivolgerà questa aggressività verso se stesso.
Ma Franco Fornari chiarisce che in linea generale per la psicoanalisi il suicidio non esiste, e il suo
paradosso è proprio quello di essere una negazione della morte. Ci si suicida ad esempio per
imitazione e insieme per partecipazione emotiva. Il suicida, sul piano cosciente sembra voler negare
il proprio rapporto con il mondo, ma nell’inconscio, in realtà lo ricerca in modo disperato. Egli è un
escluso che tenta di affermare la propria presenza, di riappropriarsi dell’oggetto d’amore che non
aveva raggiunto in vita. Ma nel fare questo egli si propone di creare un lutto verso gli altri, cioè di
scaricare la propria morte all’esterno, sulle spalle altrui. Il suo gesto è un omicidio illusorio sugli
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altri, colpiti dalla sua morte.
Discordanti da Durkheim gli psicanalisti affermano che il suicidio non è un gesto decisionale
razionale bensì il gesto di un uomo disturbato, non normale.
E' interessante ricordare come Virgilio nell’Eneide riesca ad anticipare l’interpretazione
psicoanalitica moderna. Nell’Antinferno, Virgilio colloca anche i suicidi che non sono paghi
dell’essersi tolti la vita, ma, al contrario che sarebbero disposti a tornarvi ad ogni costo. Ma lo Stige
lo vieta. Dunque Virgilio non attribuisce ai suicidi la volontà di uccidersi o di accettare un aldilà
senza sofferenze, ma il desiderio di una vita anche peggiore della precedente una volta verificata
realmente la morte.
Un’altro fatto offertoci dall’epoca classica è quello del suicidio di massa degli Zeloti per non cadere
vittime dei Romani. Nelle parole del capo Zelota si troverà il netto capovolgimento di vita con
morte e viceversa. Anche il Cristo scambia vita con morte e morte con vita, e sarà proprio la morte
nella falsa vita che consentirà la resurrezione nella vera.
In linea generale tutte le religioni che postulano la vanità della vita terrestre e la verità della vita
ultraterrestre creano situazioni di suicidio immediato o suicidio differito. Il suicidio immediato è
quello della autofferta di se stesso come capro espiatorio, come martire, (Durkheim lo definisce
suicidio altruistico eroico). Il suicidio differito è quello del sacrificare la propria vita umana
attraverso la rinuncia, le sofferenze, la clausura, la denutrizione, per ottenere una seconda vita nella
pienezza paradisiaca.
Si può concludere affermando che la pratica di suicidi con ideologie religiose corrisponde a
momenti storici di forte disagio e di forti tensioni disgregatrici del tessuto sociale in cui una
seconda vita immaginaria viene vista come l’unica speranza. Ed il fatto che queste due forme di
suicidio vengano praticate in piccoli gruppi o in piccole comunità, non toglie nulla al fatto che tali
gruppi trovino la loro aggregazione per il fine di annullarsi difronte ad un mondo verso il quale essi
sono anomici, disgregati.
Le verifiche moderne della teoria di sono state numerose e va premesso che in ogni caso le
statistiche sul fenomeno sono state incerte in molti casi per occultamento, ciononostante, i risultati
a cui è giunto Durkheim vengono nel complesso confermati. Ad es., nei paesi sviluppati sono
ancora gli uomini ad uccidersi più delle donne, gli anziani più che i giovani, anche se questi ultimi
hanno più tentati suicidi. È smentita l’affermazione che la miseria protegge, i salariati agricoli si
uccidono di più dei liberi professionisti a tutte le età. Tutto ciò può essere legato alle trasformazioni
della società. Nel tempo del benessere e dell’intensità della vita urbana, essere un salariato agricolo
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vuol dire essere un emarginato, un isolato.
Invece a cavallo fra l’800 e il ‘900 era motivo di forte coesione con le altre masse rurali. Il
fenomeno dell’isolamento si è capovolto.
Tuttavia la città, oggi presenta larghi fenomeni di desocializzazione.
Fra gli aggiornamenti, gli studi di cronobiologia, (De Maio) che ci dicono come il suicidio abbia
dei cicli annuali, con preferenza nei giorni centrali della settimana e nelle ore diurne, fra le 17 e le
18, come D. aveva approssimativamente accertato.
La novità è nel fatto che De Maio pensa che in quei periodi esista una minore sensibilità ai
comandi del codice genetico del non uccidere e del non uccidersi che può provocare più facilmente
la crisi.
In ogni caso la legge durkheniana sulla proporzionalità diretta fra suicidio ed isolamento sociale è
resistita a tutte le obbiezioni, se mai è stata ampliata.
Uno dei maggiori studiosi che hanno tentato di ampliare Durkheim, Chenasis, offre divisione in tre
grandi categorie di forme di violenza:
·
La distruzione di altri (l’omicidio, la pena di morte, la tortura...).
·
L’autodistruzione di sé (il suicidio, le droghe, uso di mezzi mortali...).
·
Le due distruzioni insieme (il terrorismo politico, le guerre...).
Da questi scenari terribili emerge che la violenza, in ogni sua forma, è sempre legata al contesto
culturale, cioè all’uomo artificiale ed alla società artificiale, non all’uomo ed alle sue origini
naturali.
Approfondendo il secondo tipo, l’autodistruzione di sé, vediamo come già Durkheim aveva
strappato, alla fine dell’800, al suicidio il velo romantico di un atto rivendicativo di libertà, di
amore, secondo la linea che va da Goethe e da Shiller fino a Tolstoj.
Valutato nell’antichità classica come atto eroico o sublime (Socrate, Catone, Seneca) o come
rivendicazione di libertà suprema, il suicidio fu considerato una grave colpa dal cristianesimo, un
offesa a Dio, l’unico che può dare e togliere la vita.
Furono gli illuministi a rivendicare il diritto dell’uomo di disporre della propria vita e scesero in
campo per questo: Montesquieu, Voltaire, Rousseau.
Solo nel 1810 in Francia sarà abolita la condanna del suicida.
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Hegel ribadisce che la facoltà al suicidio è ciò che determina all’uomo di essere o di non-essere.
Ma forse la “liberalizzazione” del suicidio è stata un danno dal momento che rispetto all’epoca della
Chiesa medievale vi è stato un forte aumento di morti.
Oggi con le spiegazioni della sociologia e della psicoanalisi, che il suicidio dipende da un eccesso
di solitudine, da una propria socialità distorta, dal non saper reggere gli alti e bassi economici, dalla
speranza illusoria di avere una seconda vita immaginaria che compensi le carenze della prima... si
cerca di dar luogo ad una prevenzione rispetto al fenomeno.
Il suicidio, in definitiva, si basa su un capovolgimento del senso della vita e della morte.
Si potrebbe dire che il suicida vorrebbe togliersi il dolore di una prima vita per averne una seconda
senza dolore. L’uomo non dispone di una vita di ricambio. Ma si deve sottolineare che i più colpiti
sono gli elementi più deboli di una società. (La sequenza è: Ungheria, Germania est, Finlandia,
Austria, ...). L’isolamento è il maggior pericolo. Non risulta verificata la relazione fra suicidi ed
omicidi, ma ciò non smentisce che psicologicamente il suicidio si possa considerare un omicidio
mancato.
Dalle interpretazioni di Durkheim. fino ad oggi, si può affermare che il fenomeno del suicidio può
essere interpretato solo su tre livelli contemporaneamente:
· Sovrastrutturale(ideologie, religioni...).
· Strutturale(appartenenza a classi, gruppi, cicli economici...).
· Sottostrutturale (situazioni psichiche individuali e collettive).
Proprio tale esame a tre dimensioni, correlate tra di loro, potrebbe dare molte indicazioni sia per le
epidemie che per i casi singoli di suicidio. Ad es. per un uomo si possono individuare quali erano le
sue ideologie e quelle del suo gruppo (livello sovrastrutturale); quali le sue condizioni economiche e
sociali e quelle del suo ambiente (livello strutturale); e infine le sue tensioni psichiche correlate a
quelle collettive (livello sottostrutturale). Tutto ciò costringe ad esaminare i “contesti” del suicidio,
facilitando così anche i criteri per la prevenzione.
Dopo Durkheim che scontava il suicidio come un anomia immodificabile di ogni società, oggi
l’elemento preminente è considerare il suicidio come un fatto sventabile attraverso una presa di
coscienza, un’analisi profonda ed una modificazione dei rapporti economici e sociali. Malraux
afferma, che “se ci si uccide soltanto per esistere”resta compito della società di offrire ai suoi
membri una vita reale accettabile senza che nessuno debba avere il bisogno di trovare un altrove
inesistente. E’ corretto aggiungere che il tasso dei suicidi, sì è indice di cattivi funzionamenti
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sociali, ma non può affermare la supremazia di una società su di un’altra. La presenza del suicidio,
indicando sempre gravi disfunzionamenti all’interno di una società, ha bisogno di non esser più
giustificato in chiave romantica o misterica come di recente per Cesare Pavese e Primo Levi.
In linea generale il suicidio come fantasticazione di una seconda vita migliore della prima può
essere considerato un caso particolare di tutte le concezioni religiose che spregiano la vita terrestre.
Ma mentre le religioni affermano che il “ponte” fra la vita terrestre e quella ultramondana sia la vita
stessa, il suicida ritiene che esso sia la morte medesima, vista come scorciatoia; per far questo egli
però deve sentirsi diverso dalla massima parte degli uomini e deve vedere i valori essenziali
rovesciati. Proprio lo scambio simbolico fra morte e vita, e vita e morte, consente al suicida di
vivere la fine come il principio.
La società, come dice Durkheim deve capire, intervenire e prevenire.
Se il suicidio avviene per mancanza di integrazione sociale dell’individuo, è la società stessa che ne
rappresenta l’assenza, la disumanità, l’incapacità di partecipazione. Non è l’individuo assente
rispetto alla società, è lei che è assente rispetto ai suoi membri più deboli.
Infine resta da dire che il suicidio, nonostante tutte le sue interpretazioni resta un atto violento e
seguendo Freud, un atto violento su di sé, non riuscendo ad attuarsi contro tutta la società; altrimenti
al suo posto si avrebbero tutti omicidi. Quindi l’indice dei suicidi e dei tentativi, è un indice di
aggressività omicida.
Suicidio, violenza e potere: il suicidio allora non sarebbe che un “fatto sociale” di una
interpretazione generale dell’aggressività umana. Ma come un essere umano arriva ad uccidersi? E’
noto che il codice genetico vieta a tutti gli esseri umani di uccidere dentro la propria specie, per non
indebolirla, senza distinzioni fra omicidio e suicidio. Si uccide entro la specie umana solo quando si
riesce a considerare l’altro o se stessi come diverso da un uomo, meno di un uomo, non uomo.
Come Marx e Durkheim hanno dimostrato, l’uomo è un essere sociale; egli è i suoi rapporti sociali
dentro l’intera sua specie. Quando un uomo perde i suoi rapporti sociali, si svuota di umanità, o
aggredisce e uccide, o si annulla, arrivando in entrambe i casi alla “morte civile”. Nel caso del
suicidio, egli potenzialmente era già civilmente morto prima di uccidersi. Il potenziale suicida si
vede diverso, un non essere sociale, un non-uomo. Di qui la sua possibilità di ottenere la “licenza di
uccidersi”, aggirando il divieto del codice genetico. Il potenziale suicida, soffrendo per la sua morte
civile, scarta l’ipotesi di rivalsa concreta e proietta la colpa del suo stato sulla società, la comunità o
il gruppo che lo hanno cancellato, condannandolo a morte. Di qui il suo desiderio di devastazione.
Non potendo però uccidere l’intera società, o provando colpa per il suo desiderio omicida (Freud),
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tende a rivolgere l’arma contro se stesso. Egli potrà capovolgere il suo senso di colpa in quello che
la società dovrà provare per la sua morte. Una sorta di gratificazione post-mortem, vivendosi come
già morto, può entrare in uno stato di delirio onnipotente, vedendosi un uomo integrato solo dopo la
morte. La vicina morte reale diventa così il ponte fra la morte immaginaria presente e una vita
immaginaria futura dopo la morte reale. Il suicida dunque è colui che si toglie la vita per averla, che
la perde per trovare quella che realmente desiderava. L’atto della morte reale per lui coincide con
l’atto di rinascita sociale.
Il suicida segnando la sua assenza assoluta, riesce a far notare la sua piena presenza nel mondo
sociale: es. dialettica Padrone - Servo di Hegel. Il suicida tenta di gettare in faccia alla società
indifferente la vita solo apparente di escluso o autoescluso dai rapporti sociali.
La morte fisica del suicida diventa la clamorosa rivelazione l’oggettivazione tragica della morte
civile, già avvenuta. Si potrebbe allora confermare Freud, dicendo che il suicidio è un omicidio
mancato in forma diretta verso gli altri, ma perfettamente riuscito verso se stessi. La spiegazione
dell’elevato numero dei suicidi fra gli anziani deriva dal fatto che questi si sentono diversi,
minorati, nei corpi e nelle menti, e aventi dunque la licenza di uccidersi. Lo stesso vale per i
divorziati, i celibi, i vedovi. E in tutte le situazioni in cui si pensa ci sia una norma da seguire.
Ugualmente per i portatori di handicap, per i bambini, che non riescono a vedersi adulti. Per tutti
loro il suicidio sembra essere il passaggio immaginario verso il “normale”. Ma come afferma Hegel,
quando il Padrone diventa Servo, perde il suo potere. Ad es. Cleopatra, Hitler. Si suicidano per non
passare nella condizione di declassati, per vendetta, sottraendo al nuovo padrone il piacere di
umiliarli.
Shakespeare, più sottile, mostra che il suicidio finale del Padrone non è che la conclusione del
suicidio già predeterminato dalla scalata al potere assoluto. Così nelle sue tragedie si suicidano,
Cleopatra volendo per se l’impero Romano, ma anche Macbeth, Re Lear, Cesare, Otello,
indirettamente o direttamente perché hanno raggiunto il massimo potere.
La conclusione del suicidio dei potenti resta quella data da Hegel, che non aveva capito nulla del
suicidio individuale. Per Hegel, infatti, non è l’Antitesi che attacca e vince, ma è la Tesi (il potere)
che si suicida uscendo dalla esperienza, dal lavoro, dalla storia. Ma tale uscita è pur nella estrema
potenza determinata dalla solitudine. Si ha la morte civile in basso, attraverso l’esclusione, e la
morte civile in alto, attraverso la prevaricazione solitaria. E’ questa estraneità per vertigine, per
eccesso, che “Divide et non impera”. Viene ancora dunque riconfermata la legge di Durkheim,
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secondo cui il suicidio è direttamente proporzionale alla disgregazione dei propri rapporti con gli
altri uomini.
È per questo che il potere non soltanto è solo, ma è tanto più cieco quanto più assoluto, creatore di
gerarchie e dunque di forte divisione sociale.
Durkheim aveva già osservato che il numero dei suicidi aumenta con l’aumento della divisione
sociale. Si potrebbe concludere con una complessa ipotesi sul suicidio: (sicuramente non accettata
da Durkheim), il suicidio è direttamente proporzionale alla divisione sociale, e quindi alla quantità
di potere in alto ed alla quantità di esclusione in basso ed, in generale, al grado di disuguaglianza, di
isolamento e di separazione sia in alto che in basso fra gli uomini.
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4. Come tentare di prevenire il drammatico fenomeno del suicidio
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) riconosce il suicidio come una grave emergenza
sanitaria. Sebbene i dati relativi al fenomeno siano molto difficili da valutare, e sicuramente
sottostimati a causa del tabù che tuttora rappresenta, il suicidio si attesta tra le prime dieci cause di
morte e i tentativi di suicidio risultano da dieci a venti volte maggiori dei suicidi stessi.
Il suicidio è un fenomeno complesso, legato al dolore profondo delle persone. Nel corso della
pratica clinica psicologi e psicoterapeuti possono doversi confrontare con questo tipo di disagio,
con persone a rischio e con le loro famiglie. Come per tutti i comportamenti umani, non è
rintracciabile una causa univoca, ma si fa riferimento ad una complessa interazione tra fattori
biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali.
È un problema di grande entità, che colpisce in ogni paese ed in ogni cultura e causa all’incirca un
milione di morti l’anno. Attualmente, infatti, è tra le prime cause di morte tra i 15 ed i 34 anni.
Le più recenti ricerche dell’OMS, nazionali, regionali e la letteratura in materia concordano
nell’identificare il suicidio tra i fenomeni sociali con più elevato costo in vite umane: nelle società
occidentali ad economia avanzata il suicidio compare infatti sempre più frequentemente fra le cause
di morte violenta, ed è la nona causa per carico di disabilità e morte prematura. Il preoccupante
aumento delle dinamiche sociali e individuali che, con incidenze diverse secondo le classi di età
nelle differenti realtà nazionali, sfociano nell’atto suicidario, costituisce certamente una
manifestazione estrema di disagio e di peggioramento, dal punto di vista della salute mentale e del
benessere in genere, di un numero sempre maggiore di cittadini e si configura come un problema di
salute pubblica. Inoltre è noto che i tassi di mortalità riflettono solo la parte con esito più
drammatico di tale disagio, mentre i numeri reali dello stesso, in realtà molto più diffuso, sono da
ricercare anche nelle ideazioni e condotte suicidarie e nei tentativi di suicidio.
L’incommensurabile impatto sotto il profilo sociale e psicologico del suicidio sulla famiglia e sulla
comunità inoltre, nelle quali lascia sempre ferite e interrogativi profondi spesso indelebili, colpirà,
secondo quanto emerge dalla letteratura in materia, nei superstiti, emotivamente e in maniera
profonda.
Il fenomeno suicidario è complesso, multifattoriale, diffi cilmente comprensibile con un semplice
approccio di tipo clinico e riveste caratteristiche in cui, quasi sempre, le patologie mediche si
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correlano con una serie di fattori sociali.
Occuparsi di tale fenomeno comporta, dunque, innanzitutto la necessità di uscire dai confini ristretti
di un approccio esclusivamente clinico per entrare nell’ambito più complesso ed articolato della
salute mentale delle persone e della sua stretta connessione con la salute sociale, economica ed etica
della comunità di riferimento.
Occuparsi del fenomeno suicidario significa quindi, pur partendo dall’obiettivo di prevenirlo e
contrastarlo:
● occuparsi della qualità della vita e delle relazioni degli individui nei propri contesti vitali;
● affrontare la qualità del lavoro non solo dei servizi dedicati alla salute mentale, specificatamente
intesa, ma di tutti quei servizi che contemplano nella propria mission il lavoro di promozione della
qualità della vita delle persone, sviluppando un progetto di prevenzione e di contrasto del fenomeno
suicidario secondo i principi di un’azione a largo raggio a più livelli::
·
Primo livello: mantenere e preservare lo stato di salute mentale di tutti i cittadini.
·
Secondo livello: riconoscere, a tutte le età, i segni premonitori di un comportamento suicidario.
·
Terzo livello: contrastare la ripetizione di tentativi di suicidio.
Secondo alcuni studiosi, quali il prof. Maurizio Pompili coordinatore del Centro per lo Studio e per
la Prevenzione dei Disturbi dell'Umore e del Suicidio di Roma, il suicidio si può prevenire ed
ognuno di noi è in grado di contribuire. Ognuno, infatti, potrebbe imparare a riconoscere i segnali
d’allarme per il suicidio. La maggior parte delle persone a rischio di suicidio vorrebbe vivere, ma
non riesce a trovare un’alternativa ai propri problemi. Le richieste d’aiuto che lanciano all’esterno,
però, rimangono talvolta incomprese dagli altri, che non sanno leggere i segnali o non sanno come
rispondervi.
Spesso le persone a rischio di suicidio verbalizzano le proprie intenzioni o le esprimono attraverso i
comportamenti. Ad esempio, possono dimostrarsi tristi, ritirarsi in solitudine, esprimere una rabbia
incontrollabile, riferire dei disturbi del sonno, possono parlare di morte o pronunciare frasi come
“Vorrei essere morto”, “Non riesco a fare nulla”, “Non posso più andare avanti così”, “Sono un
perdente”, “Gli altri staranno meglio senza di me”.
Innanzi tutto sarebbe fondamentale iniziare da una pianificazione di azioni concertate atte a
38
“mantenere e preservare un buono stato di salute mentale”. Un programma di prevenzione deve
innanzitutto mirare a prevenire lo sviluppo di tendenze suicidarie, ma appaiono ancora pochi i
programmi concepiti fin dall’inizio in quest’ottica, ad eccezione di certi programmi scolastici
destinati a sviluppare negli adolescenti autostima e capacità di risoluzione dei problemi. In secondo
luogo occorre saper riconoscere i segni premonitori di una condotta autolesionista e intervenire
quando questi assumono una rilevanza preoccupante; ciò implica anche il riuscire a limitare i danni
che da tale condotta possono scaturire prevedendone per esempio, eventuali ricadute”. La
prevenzione è allora centrata sull’intervento per persone riconosciute a rischio suicidario o sull'orlo
del suicidio. Infine, di non minore rilevanza, appare la prevenzione che ha come obiettivo
l’impedire la ripetizione dei tentativi di suicidio (recidive). È necessario prendere atto che il
fenomeno suicidio rappresenta solo un aspetto parziale di un problema di “malessere esistenziale”
che concerne e tocca tutti, direttamente o meno. Non appare sufficiente proporre ed attuare delle
azioni puntuali, non inserite in una strategia (o politica) globale di prevenzione primaria, che
permetta di considerare il contesto sociale nel suo insieme, valorizzando e rafforzando le
competenze individuali e sociali. Prevenire il disagio significa promuovere situazioni di agio. I
possibili livelli di intervento per i giovani devono riguardare la famiglia, la scuola, il luogo di
lavoro, la strada, i centri di incontro e di svago.
L’obiettivo è di riuscire a intervenire sulle condizioni dalle quali nascono gli atti suicidari e questo
per tutte le fasce definite a “rischio”, alimentando progetti di vita e dando alle persone una
opportunità di sentirsi vive e partecipi. L'azione di prevenzione deve tenere conto del fatto che si
dovrà operare in una società marcata:
· da un'evoluzione sempre più incerta e ansiogena,
· da situazione di precarietà sempre più diffuse,
· da una carenza di prospettive e dall'influenza dei nuovi sistemi di comunicazione sui valori
e sulle conoscenze,
· da una selezione sempre più grande fondata sul rendimento.
Ogni periodo della nostra vita può comportare disagi legati proprio a quella particolare età, pertanto
l'azione di prevenzione ha possibilità di riuscita tanto più si svolge un'azione mirata, cercando
proprio di cogliere i punti deboli di ogni fascia di età, per esempio:
1) per quanto riguarda gli adolescenti è importante:
39

la sensibilizzazione del contesto nel quale essi vivono, attraverso campagne di informazione
con maestri di tirocinio, docenti di grado secondario e adulti in generale in contatto con
adolescenti.

Approfondimento del tema con gli adolescenti attraverso dibattiti, tavole rotonde, giornate
di studio, ecc.

Definire dei criteri di raccolta statistica dei dati e promuoverne una raccolta sistematica per
suicidio e tentativo di suicidio.

Promuovere le costituzione di una rete di intervento specialistico
L'obiettivi è quello di intendere la scuola come luogo di vita sociale. sviluppare le capacita
personali degli allievi, degli insegnanti e dei genitori in materia di salute. Rafforzare l’attitudine
delle istituzioni scolastiche a risolvere i problemi, al fine di ottenere un ambiente pedagogico e
fisico favorevole al benessere.
2) per quanto riguarda le persone anziane sono a volte vittime di pregiudizi o di una mancanza di
informazione anche tra le persone che dovrebbero occuparsene. Sembrerebbe che la società sia poco
preoccupata del fenomeno del suicidio degli anziani.
Si osserva anche una certa accettazione o giustificazione nei confronti di questi gesti ("… è normale
alla loro età essere depressi ed avere voglia di morire"). Bisogna però considerare che anche per
questa fascia della popolazione il suicidio è una reazione alla sofferenza ed alla disperazione.
Appare pertanto opportuno:

sviluppare una politica familiare globale e coordinata;

favorire la partecipazione degli anziani alla società civile
Idealmente la prevenzione diretta degli anziani dovrebbe essere centrata sull’individuazione dei
soggetti in difficoltà con l’aiuto delle famiglie ma soprattutto dei professionisti (medici, infermieri,
assistenti sociali, persone di riferimento, docenti, ecc.) che dovrebbero a loro volta collaborare con i
diversi servizi medici e psicologici, in grado di intervenire in caso di minaccia suicidaria.
40
5. Conclusioni
Nel quadro complessivo del suo pensiero per Durkheim lo studio sul suicidio è stato uno dei punti
più importanti in cui ha tentato di vedere dentro un fenomeno la complessità dei comportamenti e
delle influenze sociali.
E’ vero che ogni uomo vive individualmente la propria vita, ma come osserva Durkheim lo spazio,
il tempo e le cause collettive giocano nella sua vita un ruolo molto rilevante. Egli considera la
società come una necessità esterna e superiore agli individui, una “coscienza di coscienze”, forma
più alta della vita psichica. Al di sopra dell’uomo c’è la società, il più potente fascio di forze fisiche
esistenti.
A queste ultime considerazioni era approdato attraverso una analisi della religione. Per Durkheim
la religione laica, è l’immagine della società, dalle connessioni che la religione consente, nascono
spinte che permettono all’uomo di superare i confini della sua limitatezza individuale. La religione
laica è la scala per raggiungere il mondo sociale superiore; il passaggio dal profano al sacro, dal
privato al sociale, (Le forme elementari della vita religiosa, 1912).
Il pensiero di Durkheim da qualsiasi punto di vista converge verso un unico punto: la dimostrazione
della priorità dell’organismo sull’organo, della società sull’individuo, (Es. il corpo mano con
funzioni gerarchiche).
E a proposito dell’anomia, Durkheim dirà del delitto che anch’esso congiura a favore del sociale.
Pensa che sia spiegabile ciò che è storicamente posteriore e più complicato, con ciò che è
storicamente anteriore e più semplice.
41
6. Alcuni dati statistici riguardanti i suicidi in Italia e nel mondo
In Italia si valutano ogni anno tra 3.500 e 4.000 i suicidi ogni anno.
I dati epidemiologici sui suicidi e i tentativi di suicidio provengono dall’Autorità giudiziaria
(verbali e rapporti di Polizia e Carabinieri) o da quella Sanitaria (secondo i dati elaborati
dall’Istituto di statistica sanitaria tratti dai certificati di morte). Tali dati sono spesso non coerenti tra
loro, sono, per parere unanime degli esperti, sottostimati (soprattutto quelli forniti dall’Autorità
Giudiziaria) e vengono aggiornati con un ritardo di almeno 2-3 anni.
Nel 2004 i suicidi “ufficiali” sono stati per l’Istat 3.265 (758 donne e 2.507 uomini), con un tasso di
5,6 su 100.000 persone, con prevalenza del Nord Est e valori molto più bassi nell’Italia
Meridionale.
Nel 2004 meno del 1 per cento dei suicidi aveva meno di 18 anni, poco meno di due terzi erano in
età lavorativa (dai18 ai 64 anni) e oltre un terzo aveva superato i 65 anni. La tendenza al suicidio
aumenta in percentuale all’aumentare dell’età. Tra i principali “moventi”, così definiti dai verbali
delle forze dell’ordine, si rileva la malattia psichica, presente in circa metà dei casi, motivi affettivi,
economici, malattie fisiche e un obsoleto “motivi d’onore”.
Dal 1950 a oggi, secondo l’OMS il tasso di suicidi in Italia ha toccato il punto più basso a metà
degli anni ‘60, con il 5,4 su 100.000 abitanti e quello più alto intorno al 1985, con l’8,3 per %000.
Dal 1983 al 2004, secondo i dati Istat, l’andamento è stato altalenante. Nel 1983 si sono contati
2.851 suicidi, cresciuti fino a essere 4.081 nel 1987 e poi rimasti nei successivi 10 anni abbastanza
costanti (tra i 3.800 e i 4.100 con un “picco” di 4.119 nel 1993). Dal 1996 il numero cala invece
fino ai 2.819 del 2001 per poi risalire fino ai 3.265 del 2004. Questa la serie storica più recente
secondo l’Istat (dati di Polizia di Stato e Carabinieri):
Anno
2000
2001
2002
2003
2004
Numero suicidi
3096
2819
2949
3361
3265
Negli anni più recenti in Italia, quindi, il fenomeno del suicidio appare ancora stabile o in crescita,
mentre, grazie a campagne ad hoc, è in calo nei Paesi del Nord Europa, dove i tassi erano molto più
alti.
42
Qui di seguito si riporta il grafico che indica i dati istat relativi all'anno 2007 sul suicidio diviso per
sesso. Gli uomini sono rappresentati dal colore azzurro, le donne dal rosa. I numeri rappresentano il
numero di suicidi in Italia per anno per i maschi, le femmine ed il totale.
In Italia la regione con il numero più basso di suicidi è la Campania con 2,6 suicidi per 100.000
abitanti, e la più alta in Friuli-Venezia Giulia, (9,8 per 100.000 abitanti), nel 2007, seguita da Valle
d'Aosta (9%), Sardegna (8,9%) e Trentino-Alto Adige (8,7%). rispetto ad una media nazionale di
5,6.
Sono in ogni caso dati da trattare con cautela, come prova il fatto che l’OMS per il 2002 accredita
l’Italia di 4.069 casi di suicidio (fonti sanitarie), il 25 per cento in più rispetto ai dati forniti
dall’Istat stesso (2.949, fonti giudiziarie).
L’ “undereporting”, la sottostima dei suicidi deriva da fattori diversi: la vergogna dei sopravvissuti,
il voler celare il suicidio per motivi assicurativi, la negligenza di chi stila i rapporti. Spesso le morti
che vengono rubricate come “morte improvvisa” o “causa sconosciuta”, in realtà sono suicidi:
soprattutto in caso di anziani soli, in casa di riposo e ospedale. Mancano alle statistiche le persone
morte, magari dopo giorni, “in conseguenza” di un tentativo di suicidio.
Non sono contemplati molti casi di incidenti stradali inspiegabili, episodi di suicidio in carcere, di
overdose volontaria di tossicodipendenti, di anziani che si lasciano morire o si avvelenano.
Una ricerca della rivista Altroconsumo, datata 2004, sui comportamenti e le credenze relative al
suicidio (su un campione significativo di 3.370 persone adulte) fa emergere che il 35 per cento del
campione conosceva qualcuno che aveva tentato il suicidio e il 49 per cento una persona morta per
43
suicidio. Il 13 per cento del campione aveva avuto nell’ultimo anno idee suicide, l’8 per cento in
modo persistente.
Lo 0,43 per cento ha dichiarato di aver tentato il suicidio nell’ultimo anno. Questo corrisponde a
430 su 100.000 persone, 10 volte di più dei tassi ufficiali. Anche questo dà la misura della difficoltà
di raccogliere e interpretare i dati su questo tema. Tra le molte affermazioni con cui veniva chiesto
di concordare o meno: per il 72 per cento del campione chi tenta il suicidio è una persona che non
ha nessuno con cui condividere i propri problemi.
I MEDIA E IL SUICIDIO
Il SUPRE (Suicide Prevention) del Dipartimento di Salute Mentale dell’OMS, ha pubblicato nel
2000 le linee guida dedicate ai media in tema di suicidio. Le ricerche dimostrano infatti che i media
giocano un ruolo attivo nel suicidio: sia nel rischio di emulazione (copycat suicides), sia nella
possibile prevenzione. Ecco un breve riassunto delle “raccomandazioni” dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità ai giornalisti che trattano un caso di suicidio.
COSA FARE
- Utilizzare fonti affidabili e riconosciute, lavorare in collaborazione con le autorità sanitarie.
- Presentare solo i dati essenziali, possibilmente riportandoli nelle pagine interne.
- Parlare di un suicidio sempre come “commesso” e non come “riuscito”.
- Descrivere l’impatto dell’evento sui familiari in termini di stigma e di sofferenza psicologica.
- Descrivere le conseguenze fisiche di tentati suicidi dall’esito non fatale.
- Evidenziare le alternative al suicidio: fornire indicazioni sulle helpline, sui numeri di telefono da
chiamare e le altre risorse per la salute mentale.
- Rendere pubblici i fattori di rischio e i segni premonitori, in particolare la depressione, precisando
che è una condizione curabile, solidarizzare con i “survivors”, le persone sopravvissute.
- Usare particolare cautela nel diffondere e interpretare i dati e le statistiche sul suicido.
44
COSA NON FARE
- Utilizzare titoli a grande impatto e in prima pagina.
- Pubblicare foto della scena del suicidio o descrizioni dettagliate del metodo scelto e del luogo
dove si è svolto.
- Trattare in modo sensazionale il suicidio, soprattutto quando si tratta di una celebrità.
- Dipingere le persone suicide degli eroi o dei martiri.
- Utilizzare generalizzazioni o stereotipi culturali e religiosi, descrivere il suicidio in modo
semplicistico o inesplicabile, invece che come combinazione complessa di diversi fattori.
- Descrivere il suicidio come una possibile via di fuga da problemi personali come il fallimento
scolastico o lavorativo, i tracolli finanziari, gli abusi sessuali.
- Usare espressioni come “epidemia di suicidi”. Fare comparazioni tra Paesi e luoghi dove i sistemi
di rilevazione sono diversi. Bollare un luogo come “Paese o Regione dei suicidi”.
Condizione lavorativa dei morti per suicidio
Totale suicidi Italia – Maschi e Femmine - Anno 2004
• Occupato
981
• Ricerca nuova occupazione
227
• In cerca di prima occupazione
102
• Casalinga
243
• Studente
81
• Militare di leva
6
• Persona ritirata dal lavoro
1188
• Inabile 104
104
• Non indicata
333
Stato civile dei suicidi
Totale suicidi Italia – Maschi e Femmine - Anno 2004
• Celibi e nubili
1076
45
• Coniugati
1387
• Vedovi
430
• Separati o già coniugati
241
• Non indicato
131
Classi di età dei suicidi
Totale suicidi Italia – Maschi e Femmine - Anno 2004
• Fino a 13 anni
4
• Da 14 a 17
27
• Da 18 a 24
163
• Da 25 a 44
926
• Da 45 a 64
968
• 65 e oltre
1152
• Non indicata
25
Mezzi di esecuzione dei suicidi
Totale suicidi Italia – Maschi e Femmine - Anno 2004
• Avvelenamento
124
• Asfissia da gas
119
• Impiccagione
1168
• Arma da taglio
75
• Arma da fuoco
366
• Precipitazione
712
• Annegamento
191
• Investimento
84
• Altro
147
• Non indicato
279
46
Movente dei suicidi
Totale suicidi Italia – Maschi e Femmine - Anno 2004
• Malattie fisiche
374
• Malattie psichiche
1261
• Motivi affettivi
303
• Motivi d’onore
14
• Motivi economici
98
• Ignoto o non indicato
1215
In Italia la regione con il numero più basso di suicidi è la Campania con 2,6 suicidi per 100.000
abitanti, e la più alta in Friuli-Venezia Giulia, (9,8 per 100.000 abitanti), nel 2007, seguita da Valle
d'Aosta (9%), Sardegna (8,9%) e Trentino-Alto Adige (8,7%). rispetto ad una media nazionale di
5,6.
IL SUICIDIO NEL MONDO
I dati dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, sono eloquenti: nel mondo ogni anno circa
un milione di persone muore per suicidio. Il suicidio rappresenta circa il 3 per cento fra le cause di
morte.
Negli adolescenti sotto i 15 anni il suicidio è la prima causa di morte in alcuni Paesi: Cina, Svezia,
Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. Il suicidio è invece la prima causa di morte per le persone dai
15 ai 24 anni in moltissimi Paesi e lo è pressoché in tutti i Paesi del mondo per gli adulti tra i 25 e i
55 anni: per questa fascia di età il numero di morti per suicidio è superiore - in numeri assoluti –
della somma dei morti per guerre e omicidi.
Il SUPRE Project (SUicide PREvention Project) è l’iniziativa globale dell’Organizzazione
Mondiale della Sanità per la prevenzione del suicidio. L’OMS valuta che dal 1950 al 1995 la
percentuale di morti per suicidio sia cresciuta globalmente del 60 per cento. Nel 2000 il tasso
globale era di 16 persone ogni 100.000 abitanti.
Una stima OMS-SUPRE, che tiene conto dell’invecchiamento della popolazione (le persone in età
avanzata hanno un maggior tasso di suicidio) e di altri fattori afferma che, se non si interviene con
politiche adeguate, nel 2020 i morti per suicidio nel mondo potrebbero essere 1,53 milioni.
47
La Giornata Mondiale di Prevenzione del Suicidio, evento annuale promosso dalla Iasp,
International Association for Suicide Prevention, in collaborazione con l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, nel 2007 ha per tema “Suicide Prevention in Life Spam”, “La prevenzione del suicidio
nell’arco della vita”. Infatti, nonostante si ponga maggior enfasi sul suicidio in età giovanile e sulla
sua prevenzione, il suicidio ricorre in tutto l’arco di vita.
Il suicidio nei bambini e nei giovani adolescenti (meno di 15 anni) è raro e rappresenta il 2 per
cento di tutti i suicidi. Ricorrono nelle loro storie violenze ed abusi fisici e psicologici, dipendenze
da alcol o droghe in famiglia, depressione. Il suicidio tra gli adolescenti e i giovani adulti (dai 15 ai
24 anni) è invece un grave problema e una delle principali cause di morte fra i giovani in molti
Paesi. In un terzo dei Paesi i giovani dai 15 ai 24 anni sono il gruppo a più alto rischio. Il suicidio è
invece -come detto - prima causa di morte tra gli adulti, in particolare tra i maschi. In generale le
percentuali di suicidio crescono con l’età: in molti Paesi le percentuali di suicidio sono più alte fra
le persone anziane, in particolare oltre gli 85 anni.
In una prospettiva di genere, gli uomini si tolgono la vita in misura tre volte maggiore delle donne
(fa eccezione la Cina, soprattutto nelle aree rurali), ma le donne - in particolare in giovani età tentano il suicidio più degli uomini. Nel complesso i tentati suicidi sono da 10 a 20 volte di più dei
suicidi commessi. Gli uomini di solito usano metodi con maggiore possibilità di esito fatale, sono
meno propensi a cercare aiuto per i loro problemi emozionali e fanno maggiore uso di alcol e
droghe.
I relativi costi sociali sono enormi, stimati in miliardi di dollari e corrispondono al potenziale
economico delle vite perdute, ai trattamenti medici e psicologici dei tentati suicidi, alla sofferenza e
al carico dei familiari e degli amici.
Ogni suicidio colpisce in modo devastante altre sei persone in media.
I dati sul suicidio sono estremamente difficili da valutare e per certo sottovalutati, spesso a causa
del tabù che tuttora rappresenta e della riluttanza a rendere pubblici i casi di suicidio, soprattutto fra
gli anziani, oltre che per un “reporting” spesso sommario o inesistente.
L’ingestione di pesticidi è uno dei metodi più diffusi per il suicidio. Si stima che in tutto il mondo si
verifichino 3 milioni di casi di avvelenamento volontario da pesticidi ogni anno, per un totale di
circa 250 mila morti, prassi assai diffusa nelle aree rurali, soprattutto in alcuni Paesi asiatici, ma
anche in America centrale e meridionale.
In generale la disponibilità di strumenti per togliersi la vita, come ad esempio le armi da fuoco in
Paesi come gli Stati Uniti, influisce in modo rilevante sulla “prevalenza” del metodo utilizzato.
48
I tassi più alti di suicidio (dati Oms 2000) si riscontrano in Europa in particolare nell’Europa
dell’Est, come in Estonia, Lettonia, Lituania, Finlandia, Ungheria, Russia e in Paesi asiatici come
Cina e Giappone. Quelle più basse in America Latina, Paesi Arabi e in alcuni Paesi come Argentina,
Brasile, Kuwait e Thailandia. I Paesi africani non forniscono dati sufficienti. In numeri assoluti il
più alto numero di suicidi si trova in Cina e India che rappresentano da sole circa il 30 per cento dei
casi.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità in generale i fattori di rischio variano per
continenti e Paesi diversi, secondo variabili culturali, sociali ed economici. I disturbi psichici sono
associati al 90 per cento dei suicidi. In particolare depressione, schizofrenia, disturbi della
personalità. E poi abuso di sostanze, alcolismo (tra il 5-10 per cento di chi è dipendente si toglie la
vita), malattie fisiche croniche e dolorose, cancro e Hiv in primis, ma anche disturbi neurologici.
Tra i fattori ambientali problemi di relazione e familiari, violenze subite, lutti, divorzi e separazioni,
altri eventi traumatici recenti, solitudine. Influiscono in modo rilevante le condizioni economiche,
tracolli finanziari, povertà, disoccupazione, emigrazione. Sono fattori di rischio alcune occupazioni
che mettono in contatto con sostanze letali (medici, farmacisti, agricoltori…), e in generale la
disponibilità di mezzi a commettere suicidio, l’esposizione a comportamenti suicidi altrui, un
precedente tentativo di suicidio: il 10-14% di chi ha tentato il suicidio si toglie la vita.
I fattori di protezione riconosciuti, d’altra parte, sono le buone relazioni familiari, una forte
consapevolezza del proprio valore e la fiducia in se stessi, ma anche la capacità di chiedere aiuto, di
confrontarsi con gli altri e di imparare.
Altri fattori sono l’interiorizzazione di valori e tradizioni della propria cultura, una rete di buone
relazioni con amici, vicini, compagni di lavoro o di scuola, l’integrazione nel lavoro, nelle attività
culturali e di tempo libero, o anche fattori ambientali come l’assenza dell’uso di droghe o tabacco,
mangiare e dormire in modo corretto, una buona attività fisica e la presenza della luce del sole.
49
Alcuni dati relativi al 2009
Country
ALBANIA
ANTIGUA AND BARBUDA
ARGENTINA
ARMENIA
AUSTRALIA
AUSTRIA
AZERBAIJAN
BAHAMAS
BAHRAIN
BARBADOS
BELARUS
BELGIUM
BELIZE
BOSNIA AND HERZEGOVINA
BRAZIL
BULGARIA
CANADA
CHILE
CHINA (Selected rural & urban areas)
CHINA (Hong Kong SAR)
COLOMBIA
COSTA RICA
CROATIA
CUBA
CYPRUS
CZECH REPUBLIC
DENMARK
DOMINICAN REPUBLIC
ECUADOR
EGYPT
EL SALVADOR
ESTONIA
FINLAND
FRANCE
GEORGIA
GERMANY
GREECE
GRENADA
GUATEMALA
Year
03
95
05
06
04
07
07
02
88
01
03
99
01
91
05
04
04
05
99
06
05
06
06
06
06
07
06
04
06
87
06
05
07
06
01
06
06
05
06
50
Males
4.7
0.0
12.7
3.9
16.7
23.8
1.0
1.9
4.9
1.4
63.3
27.2
13.4
20.3
7.3
19.7
17.3
17.4
13.0
19.3
7.8
13.2
26.9
19.6
3.2
22.7
17.5
2.6
9.1
0.1
10.2
35.5
28.9
25.5
3.4
17.9
5.9
9.8
3.6
GUYANA
HAITI
HONDURAS
HUNGARY
ICELAND
INDIA
IRAN
IRELAND
ISRAEL
ITALY
JAMAICA
JAPAN
JORDAN
KAZAKHSTAN
KUWAIT
KYRGYZSTAN
LATVIA
LITHUANIA
LUXEMBOURG
MALDIVES
MALTA
MAURITIUS
MEXICO
NETHERLANDS
NEW ZEALAND
NICARAGUA
NORWAY
PANAMA
PARAGUAY
PERU
PHILIPPINES
POLAND
PORTUGAL
PUERTO RICO
REPUBLIC OF KOREA
REPUBLIC OF MOLDOVA
ROMANIA
RUSSIAN FEDERATION
SAINT KITTS AND NEVIS
SAINT LUCIA
SAINT VINCENT AND THE GRENADINES
SAO TOME AND PRINCIPE
05
03
78
05
07
98
91
07
05
06
90
07
79
07
02
06
07
07
05
05
07
07
06
07
05
05
06
06
04
00
93
06
04
05
06
07
07
06
95
02
04
87
51
33.8
0.0
0.0
42.3
18.9
12.2
0.3
17.4
8.7
9.9
0.3
35.8
0.0
46.2
2.5
14.4
34.1
53.9
17.7
0.7
12.3
16.0
6.8
11.6
18.9
11.1
16.8
10.4
5.5
1.1
2.5
26.8
17.9
13.2
29.6
28.0
18.9
53.9
0.0
10.4
7.3
0.0
SERBIA
SEYCHELLES
SINGAPORE
SLOVAKIA
SLOVENIA
SPAIN
SRI LANKA
SURINAME
SWEDEN
SWITZERLAND
SYRIAN ARAB REPUBLIC
TAJIKISTAN
THAILAND
TFYR MACEDONIA
TRINIDAD AND TOBAGO
TURKMENISTAN
UKRAINE
UNITED KINGDOM
UNITED STATES OF AMERICA
URUGUAY
UZBEKISTAN
VENEZUELA
ZIMBABWE
06
87
06
05
07
05
91
05
06
06
85
01
02
03
02
98
05
07
05
04
05
05
90
52
28.4
9.1
12.9
22.3
33.7
12.0
44.6
23.9
18.1
23.5
0.2
2.9
12.0
9.5
20.4
13.8
40.9
10.1
17.7
26.0
7.0
6.1
10.6
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