Psicogeriatria 110 SUPP Cop 1

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Direttore Editoriale
Marco Trabucchi
Comitato Editoriale
Carlo Caltagirone
Niccolò Marchionni
Elvezio Pirfo
Umberto Senin
Coordinatore Comitato Scientifico
Luigi Ferrannini
Comitato Scientifico
Fernando Anzivino
Fabrizio Asioli
Giuseppe Barbagallo
Luisa Bartorelli
Mario Barucci
Carlo Adriano Biagini
Filippo Bogetto
Placido Bramanti
Enrico Brizioli
Cecilia Amalia Bruni
Alberto Cester
Pasquale Chianura
Ferdinando Cornelio
Antonino Cotroneo
Luc De Vreese
Gerardo Favaretto
Ettore Ferrari
Antonio Maria Ferro
Giuseppe Fichera
Massimo Fini
Lodovico Frattola
Carlo Gabelli
Costanzo Gala
Walter Gianni
Gianluigi Gigli
Guido Gori
Marcello Imbriani
Maria Lia Lunardelli
Patrizia Mecocci
Massimo Musicco
Leo Nahon
Giuseppe Nappi
Alessandro Padovani
Luigi Pernigotti
Paolo Francesco Putzu
Sandro Ratto
Gianfranco Salvioli
Francesco Scapati
Carlo Serrati
Sandro Sorbi
Gianfranco Spalletta
Marcello Turno
Claudio Vampini
Alberto Zanchetti
Orazio Zanetti
Segreteria di Redazione
Angelo Bianchetti
Vincenzo Canonico
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© Critical Medicine Publishing Editore
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www.psicogeriatria.it
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
INDICE
PSICOGERIATRIA
Supplemento - Numero 1 - Gennaio/Aprile 2010
EDITORIALE
LA CULTURA E LA PRASSI PSICOGERIATRICA NELLA CURA
DEL PAZIENTE ANZIANO
Marco Trabucchi _____________________________________________________________ pag. 11
DOCUMENTI
ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOGERIATRIA E RIABILITAZIONE:
LE RAGIONI DI UN INTERESSE SPECIFICO E DI UN IMPEGNO CONCRETO
PER IL FUTURO
Giuseppe Bellelli, Gruppo di lavoro Sezione Riabilitazione Geriatrica AIP______________ pag. 21
RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI
NEL PAZIENTE ANZIANO: L’ESPERIENZA DELLA REGIONE LIGURIA
Marco Vaggi, Carlo Serrati, Luigi Ferrannini _______________________________________ pag. 24
RELAZIONI 10° CONGRESSO NAZIONALE
LA PSICOTERAPIA NELL’ANZIANO DEPRESSO
Antonio Maria Ferro, Giuseppe Servetto _________________________________________ pag. 36
IL VECCHIO NELLA LETTERATURA MODERNA
Antonio Faeti________________________________________________________________ pag. 44
LA DIAGNOSI IN PSICOGERIATRIA ED IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE:
DALLA GENETICA ALLA CLINICA
Luigi Ferrannini______________________________________________________________ pag. 45
LA NECESSITÀ DEL PATTO TERAPEUTICO CON LE FAMIGLIE
Francesco Scapati ____________________________________________________________ pag. 47
COME LA TERAPIA PUÒ INFLUIRE SULLA QUALITÀ DELLA VITA
DELLA FAMIGLIA E DEL MALATO
Vincenzo Canonico __________________________________________________________ pag. 48
L’APATIA IN RIABILITAZIONE: STUDIO DI PREVALENZA E DI RIABILITAZIONE
Dario Grossi ________________________________________________________________ pag. 49
IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA DELLA SALUTE ALLA RIABILITAZIONE
GERIATRICA: LA VALUTAZIONE DELLE RISORSE PSICOLOGICHE
Giuseppina Majani, Antonio Pierobon ___________________________________________ pag. 50
DEFINIZIONE DEGLI OUTCOME IN PSICOGERIATRIA
Renzo Rozzini _______________________________________________________________ pag. 53
NUOVI ANTIDEPRESSIVI E ANZIANI: PER UN IMPIEGO RAZIONALE
Claudio Vampini _____________________________________________________________ pag. 55
LA SOFFERENZA UMANA È LINEARE? Problemi e sfide nel campo dell’assistenza
Fabrizio Asioli _______________________________________________________________ pag. 71
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CEDE IL PASSO, SULLA SPINTA DELLE VERE EMERGENZE SOCIALI, LA “TERZIETÀ” DELL’ERMENEUTICA
MEDICO-LEGALE (ovverossia come i problemi di salute delle persone affette da demenza
costituiscono un “campo di prova” per saggiare la tenuta del nostro sistema di sicurezza sociale)
Fabio Cembrani, Veronica Cembrani ______________________________________________________________________ pag. 76
L’ARTE DELLA CONVERSAZIONE CON LA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA
Pietro Vigorelli ________________________________________________________________________________________ pag. 90
LA RIABILITAZIONE DELLA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA
Marcella Pevere _______________________________________________________________________________________ pag. 94
MALATI DA GIOVANI: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ DELLE PERSONE E DELLE LORO MALATTIE.
I DISTURBI DI PERSONALITÀ
Luigi Ferrannini _______________________________________________________________________________________ pag. 95
LA SOFFERENZA DEL PAZIENTE NELLE RESIDENZE
Melania Cappuccio ____________________________________________________________________________________ pag. 97
DOLORE DA ASCOLTARE O DA VEDERE: INTERPRETAZIONE SEMPRE DIFFICILE
NELL’ANZIANO ISTITUZIONALIZZATO
Ermellina Zanetti______________________________________________________________________________________ pag. 99
METODOLOGIE DELLE CURE ANTALGICHE IN RSA
Simone Franzoni _____________________________________________________________________________________ pag. 108
I SENZA DIMORA NELLE AREE METROPOLITANE: CHE C’ENTRA LA PSICOGERIATRIA?
Elvezio Pirfo _________________________________________________________________________________________ pag. 112
ABSTRACTS 10° CONGRESSO NAZIONALE
UTILIZZO DEGLI ANTIDEPRESSIVI NEI PAZIENTI GERIATRICI IN UNA LUNGODEGENZA;
PRIMI RISULTATI DI UNO STUDIO RETROSPETTIVO
Alberani Maurizio ____________________________________________________________________________________ pag. 114
CORRELATI COGNITIVI E NEUROPSICHIATRICI DEI DEFICIT FUNZIONALI IN FASE LIEVE
E PRECLINICA DI DEMENZA
Appollonio Ildebrando Marco, Isella Valeria, Mapelli Cristina, Ferri Francesca, Traficante Debora,
Ferrarese Carlo, Frattola Lodovico _______________________________________________________________________ pag. 115
STATO PSICO-SOCIALE E PROGNOSI DEL MILD COGNITIVE IMPAIRMENT
Ballini Elena, Massello Enrico, Caleri Veronica, Mello Anna Maria, Gullo Massimiliano, Tonon Elisabetta,
Cantini Claudia, Bencini Francesca, Simoni David, Cavallini Maria Chiara, Boncinelli Marta, Foderaro Giuseppe
Barboncini Caterina, De Villa Eleonora, Masotti Giulio, Biagini Carlo Adriano, Marchionni Niccolò _________________ pag. 116
I TRATTAMENTI NON FARMACOLOGICI PER LE PATOLOGIE PSICO-GERIATRICHE:
IL PROGETTO “DOLL THERAPY” APPLICATO NEL NUCLEO ALZHEIMER TEMPORANEO (N.A.T.)
Balzarotti Ferdinando, Ponta Ilaria, Saronni Elisa, Sovera Elisa, Tasso Irene, Torlasco Margherita ____________________ pag. 117
CONSAPEVOLEZZA DEL DEFICIT MNESICO E FUNZIONE COGNITIVA IN PAZIENTI
CON MCI AMNESTICO: STUDIO PROSPETTICO
Barbieri MariaPaola, Mazzei Debora, Dessi Barbara, Arnaldi Dario, Brugnolo Andrea, Rizza Elisa,
Ferrara Michela, Famà Francesco, Nobili Flavio, Palummeri Ernesto, Rodriguez Guido ____________________________ pag. 118
DEPRESSIONE ED INTEGRAZIONE DI VITAMINA D NELL’ANZIANO
Belvederi Murri Martino, Buffa Angela, Malavolta Nazzarena, Marcaccio Maria Luisa, Argnani Paola,
Trevisani Fausto, Costanza Giovanna, Boschi Maurizia, Bagnoli Luigi, Zocchi Donato, Iovine Roberto,
Bologna Maria, Corsino Maria Alessandra, Zanetidou Stamatula, Bertakis Klea___________________________________ pag. 119
VECCHIO E SOLO: CONSIDERAZIONI SU DUE STORIE CLINICHE
Boccadamo Annadelia, Matacchieri Bruno, Scapati Francesco ________________________________________________ pag. 120
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LA PERDITA DELLA PROTENTIO IN UN ANZIANO MALATO DI CANCRO
Boccadamo Annadelia, Matacchieri Bruno, Scapati Francesco ________________________________________________ pag. 121
EFFICACIA DELLE CURE SUI DISTURBI COMPORTAMENTALI E SULLO STRESS DEL CAREGIVER
IN UNA UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER (UVA)
Boffelli Stefano, Li Bassi Paola, Barbisoni Piera, Ferri Marco, Sleiman Intissar, Travaglini Nicola,
Giordano Alessandro, Mattanza Chiara, Piovani Luara, Rozzini Renzo, Trabucchi Marco ___________________________ pag. 122
L’ATTEGGIAMENTO EMOTIVO DELL’OPERATORE COME REQUISITO PER L’ACCESSO
AL PAZIENTE DEMENTE
Bonadiman Fabio_____________________________________________________________________________________ pag. 123
LA PALESTRA DELLA MENTE: UN PROGETTO DI RIATTIVAZIONE COGNITIVA
E DI SOCIALIZZAZIONE RIVOLTA A PERSONE AFFETTE DA DEMENZA LIEVE E MODERATA
Boni Stefano, Brunelli Simona, Nanni Rachele _____________________________________________________________ pag. 124
EREDITARIETÀ E MALATTIA DI ALZHEIMER: COME TRASFERIRE UN’INFORMAZIONE COMPRENSIBILE?
Bosco Massimiliano, Molino Ivana, Fasanaro Angiola Maria __________________________________________________ pag. 126
RUOLO DELL’UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER NELLA GESTIONE DI UN CENTRO DIURNO
Bruno Patrizia, Ariano Rosa,Cicchetti Gelsomina, Delfino Mario, Massarelli Gianfranco,Argenzio Filomena___________ pag. 127
LA PSICOEDUCAZIONE COME STRUMENTO DI SOSTEGNO ALLE FAMIGLIE DEI PAZIENTI
AFFETTI DA DEMENZA
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Calarco Francesco, Trotta Francesco,
Bruno Luigi Carlo, Mastropierro Filomena, Amilcare Marisa, De Santo Maria Pia, Lanza Gerarda ____________________ pag. 128
EFFICACIA DI QUETIAPINA NEL DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE CON MANIFESTAZIONI
PSICOTICHE NELL’ANZIANO
Buccomino Domenico, Drago Gioconda _________________________________________________________________ pag. 129
RICHIESTE DI AIUTO DEI CAREGIVER
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Calarco Francesco, Trotta Francesco,
Bruno Luigi Carlo, Mastropierro Filomena, Amilcare Marisa, De Santo Maria Pia, Lanza Gerarda ____________________ pag. 130
LA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA NELL’ANZIANO DEMENTE REALTÀ O UTOPIA?
ESPERIENZE DELL’UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER DEL C.S.M. DI ROGGIANO GRAVINA
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Trotta Francesco, Bruno Luigi Carlo ______________________ pag. 131
IL CENTRO DIURNO ALZHEIMER DI PRATO: LA CASA DI NARNALI
Calvani Donatella, Valente Carlo, Mottino Giuseppe, Mitidieri Costanza Antonio, Lundstrom Malin,
Perconti Carmela, Fagorzi Sabrina, Marchetti Sara, Magnolfi Stefano Umberto, Galassi Simonetta ___________________ pag. 132
ADEGUAMENTO DELL’ASSESSMENT NEUROPSICOLOGICO NEGLI INTERVENTI DI ATTIVAZIONE
COGNITIVA PER SOGGETTI CON MILD COGNITIVE IMPAIRMENT E PAZIENTI AFFETTI
DA DEMENZA LIEVE: UNO STUDIO-PILOTA
Cammisuli Davide, Timpano Sportiello Marco, Pinori Francesca, Verdini Caterina________________________________ pag. 133
LA CONTINUITÀ ASSISTENZIALE: DIFFERENZE EPIDEMIOLOGICHE E DISABILITÀ
TRA ANZIANI FRAGILI ACCOLTI IN UN NUCLEO RSA CON RETTA PRIVATA E QUELLI ACCOLTI
IN NUCLEO RSA SECONDO LISTA DI ATTESA
Carabellese Corrado, Appollonio Idelbrando Marco, Spassini William, Trabucchi Marco ___________________________ pag. 134
LE ALLUCINAZIONI NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER E DI PARKINSON:
DIVERSE SFACCETTATURE DI UN UNICO PROBLEMA?
Carotenuto Anna, Grossi Dario, Fasanaro Angiola Maria _____________________________________________________ pag. 135
GIS E TECNICHE DI ANALISI SPAZIALE PER L’OTTIMIZZAZIONE DEI COSTI E DEI SERVIZI
NELLA TELEASSISTENZA DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER
Celona Alessandro, Bonanno Lilla, Spadaro Letteria, Lanzafame Pietro, Bramanti Placido __________________________ pag. 136
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CORRELAZIONE TRA DIABETE MELLITO DI TIPO 2°, LIVELLI PLASMATICI DI OMOCISTEINA
E FUNZIONI COGNITIVE IN ANZIANI ISTITUZIONALIZZATI
Chiarello Antonino, Cucchi Giacomo, Nespoli Chiara, Giulivi Ivana, Gaimarri Barbara, Celi Maria Cristina ___________ pag. 137
ANALISI STATISTICA DESCRITTIVA DEI PAZIENTI VALUTATI PER ESAME NEUROCOGNITIVO
DALL’AZIENDA SANITARIA LOCALE D.S.M. SERVIZIO DI PSICOLOGIA CLINICA
E DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ ADULTA E DELL’ETÀ EVOLUTIVA DI TARANTO (studio pilota)
Chiloiro Dora, Scapati Francesco, Battaglia Daniela, Cetera Nicola, Zinzi Ettore _________________________________ pag. 138
DISORDINI GRAVI DI TIPO PSICHIATRICO IN CORSO DI DETERIORAMENTO COGNITIVO
E RISPOSTA CLINICA AL TRATTAMENTO CON ANTIPSICOTICI ATIPICI IN STRUTTURE PROTETTE
Chinni Clelia, Leuci Emanuela __________________________________________________________________________ pag. 140
VALUTAZIONE DELLA PROGRESSIONE DI MALATTIA IN PAZIENTI CON MCI
MEDIANTE SPECT CEREBRALE PERFUSIONALE E VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA
Chiovino Roberto, Carbonero Claudio, Bertuccio Giovanni, Canavese Giacomo _________________________________ pag. 141
RIABILITAZIONE COGNITIVA IN UN GRUPPO DI PAZIENTI ANZIANI AFFETTI DA DEMENZA VASCOLARE
Cianflone Debora, Malara Alba, Sgrò Giovanni, Garo Michele_________________________________________________ pag. 143
ALTERATA DISTRIBUZIONE DELLE CELLULE DENDRITICHE CIRCOLANTI IN PAZIENTI
AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER
Ciaramella Antonio, Vanni Diego, Bizzoni Federica, Salani Francesca, Caltagirone Carlo,
Spalletta Gianfranco, Bossù Paola _______________________________________________________________________ pag. 144
LA PARTECIPAZIONE ALLA RICERCA DEI SOGGETTI INCAPACI AFFETTI DA DEMENZA
È GARANTITA DALLA LEGGE ITALIANA?
Clerici Francesca, Gainotti Sabina, Fusari Imperatori Susanna, Spila-Alegiani Stefania,
Maggiore Laura, Vanacore Nicola, Petrini Carlo, Raschetti Roberto, Mariani Claudio ______________________________ pag. 145
“SOGNI E BISOGNI”: PROGETTO DI PSICOTERAPIA DI GRUPPO IN RSA
Collufio Anna Maria, Zaccari Paolo, Alvarez Ana, Fontanarosa Rosa, Maliardi Michela,
Marsiletti Francesca, Guglielmi Luisa_____________________________________________________________________ pag. 146
L’ASSISTENZA QUOTIDIANA NELLA DEMENZA FRONTALE IN PAZIENTI
CON DISINIBIZIONE O APATIA: IL CARICO ASSISTENZIALE A CONFRONTO
Conchiglia Giovannina, Frantone Caterina, Abitabile Marianna, Vitelli Alessandra,
Canonico Vincenzo, Rengo Franco ______________________________________________________________________ pag. 147
QUADRO NEUROPSICOLOGICO DI UNA PAZIENTE AFFETTA DA DEGENERAZIONE CORTICOBASALE.
ANALISI RETROSPETTIVA DELL’EVOLUZIONE IN 5 ANNI DI MALATTIA
Cornali Cristina, Badini Ilaria, Franzoni Simone, Cossu Beatrice, Pizzoni Marina, Ranieri Piera,
Bianchetti Angelo, Trabucchi Marco _____________________________________________________________________ pag. 148
STUDIO RISCHIARIL NEL DECADIMENTO VASCOLARE LIEVE (Dati preliminari)
Cotroneo Antonino Maria, Gareri Pietro, Buscati Antonino, Lacava Roberto, Monteleone Francesco,
Maina Ettore, Nicoletti Nicoletta, Fantò Fausto, Putignano Salvatore, Cabodi Sergio ______________________________ pag. 149
SINTOMI DEPRESSIVI E DISABILITÁ IN SOGGETTI ANZIANI OSPEDALIZZATI AFFETTI
DA SCOMPENSO CARDIACO
Cucinotta Despina Maria, Parisi Pina, Mazza Monica, Reitano Francesca, Femia Rosetta, Iaria Miriam,
Cama Giuseppe, Basile Giorgio _________________________________________________________________________ pag. 151
SINDROME DI PENELOPE: SINDROME DA FRAGILITÀ?
D’Amico Ferdinando, Caronzolo Francesco, Crescenti Paola, Natoli Rosaria, Grippa Alessandro ____________________ pag. 152
LA DIFFICOLTÀ NEL CARE GIVING, UNA MISURA PER LA TUTELA DELLA QUALITÀ DI VITA.
VALIDAZIONE ITALIANA DELLA CAREGIVER DIFFICULTY SCALE
De Bastiani Elisa, Dalmonego Carlo, Weger Elisabeth, Mantesso Ulrico, Gomiero Tiziano __________________________ pag. 153
CARICO ASSISTENZIALE NEI CAREGIVER DI PAZIENTI CON DEMENZA: STRESS E DEPRESSIONE
De Vito Ornella, Mirabelli Maria, Granturco Concetta, Curcio Sabrina A.M., Dattilo Teresa,
De Fazio Pasquale, Bruni Amalia C. ______________________________________________________________________ pag. 154
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IL DOLORE NELLA DEMENZA: STUDIO SU 100 PAZIENTI
Di Prima Anna, Zagone Giovanni, Picciolo Valentina, Arcoleo Vincenzo, Dominguez Ligia Juliana,
Barbagallo Mario, Belvedere Mario ______________________________________________________________________ pag. 155
“TELECARE FOR PEOPLE WHO CARE”: ACCETTABILITÀ ED USABILITÀ DEI SISTEMI DI TELECONFORTO
Digangi Giusy, Spadaro Letteria, Cordici Francesco, Lanzafame Pietro, Bramanti Placido __________________________ pag. 157
ALZHEIMER: ANALISI DELL’IMPATTO DEI DEFICIT COGNITIVI E DEI DISTURBI COMPORTAMENTALI
SULLO STRESS DEL CAREGIVER
Fisicaro Daniela, Sanfilippo Daniele, Barbagallo Sebastiano, Barbagallo Giuseppe ________________________________ pag. 159
PARTICOLARITÀ DELL’ESORDIO DI UN CASO DI DEMENZA A CORPI DI LEWY
Fuschillo Carmine, Ascoli Emilia, Bianco Stefano, Sannino Alfonso, Campana Francesco___________________________ pag. 164
USO DEGLI ANTIPSICOTICI NELLA DEMENZA
Gareri Pietro, Lacava Roberto, Ruotolo Giovanni, Cotroneo Antonino Maria, Castagna Alberto,
Marigliano Norma Maria, De Fazio Salvatore, Costantino Domenico Simone, De Sarro Giovambattista ______________ pag. 165
INTERVENTO PSICOEDUCAZIONALE DEDICATO A CAREGIVERS DI PAZIENTI AFFETTI
DA MALATTIA DI ALZHEIMER
Gazzi Lidia, Caffarra Sendy, Avanzi Stefano, Mora Fernanda, Galante Emanuela __________________________________ pag. 166
REGOLAMENTO D’ACCESSO AL CDI PER MALATI CON PATOLOGIA COGNITIVA
Gentile Simona, Gregari Adelaide, Caminati Claudia, Villani Daniele ___________________________________________ pag. 167
OUTCOME PRIMARI IN RSA: METODOLOGIA DI CURA DEL PAZIENTE AFFETTO DA DEMENZA
CON DISTURBI DEL COMPORTAMENTO
Ghianda Diego, Bertoletti Erik, Rozzini Luca, Padovani Alessandro, Trabucchi Marco _____________________________ pag. 169
LA PSICOTERAPIA CON IL PAZIENTE ANZIANO: UN PERCORSO POSSIBILE E AUSPICABILE
Ghiano Federica, Castelli Maria Angelica, Chiecchio Regina, Dalmotto Marinella, Gianara Augusta,
Ferrero Merlino Silvia, Morero Daniela, Pirfo Elvezio _______________________________________________________ pag. 170
SUPPORTO PSICOEDUCATIVO PER FAMILIARI DI PERSONE AFFETTE DA DEMENZA CON BPSD:
VALUTAZIONE DI EFFICACIA
Giannelli Giovanni, Fagioli Micaela, Zamagni Elisa, Gori Morena, Ambrogetti Rosanna, Farnedi Monia _______________ pag. 171
UNO STRANO COMA IN UNA PAZIENTE AFFETTA DA DEMENZA DI ALZHEIMER
Giordano Alessandro, Piovani Laura, Mattanza Chiara, Sleiman Intissar, Rozzini Renzo, Trabucchi Marco _____________ pag. 172
ASSISTENZA DOMICILIARE NEI DEMENTI: RISULTATO DI UN’INDAGINE CONOSCITIVA SUL GRADO
DI SODDISFAZIONE DEI CARE-GIVER
Giraldi Carlo, Floris Giulietta, Guidi Corrado, Mandoli Paolo _________________________________________________ pag. 173
MIGLIORAMENTO DELLO STATO FUNZIONALE ALLA VALUTAZIONE DIRETTA IN SOGGETTI
CON MALATTIA DI ALZHEIMER DOPO INTERVENTO DI TERAPIA DI ATTIVAZIONE COGNITIVA
Gollin Donata, Ferrari Arianna, Talassi Erika, Peruzzi Anna, Ruaro Cristina, Codemo Alessandra,
La Sala Angela, Poli Sarah, Gabelli Carlo __________________________________________________________________ pag. 174
DELIRIUM IN UNITÀ SUB-INTENSIVA GERIATRICA
Grippa Alessandro, Caronzolo Francesco, D’Amico Ferdinando_______________________________________________ pag. 175
STUDIO MULTICENTRICO ITALIANO SUI DISTURBI DEL SONNO NEI PAZIENTI CON MCI
E DEMENZA: UTILITÀ E LIMITI DEI DIARI DEL SONNO
Guarnieri Biancamaria, Musicco Massimo, Appollonio Ildebrando Marco, Bonanni Enrica, Caffarra Paolo,
Ferri Raffaele, Lombardi Gemma, Nobili Flavio Mariano, Mearelli Simonetta, Perri Roberta,
Rocchi Raffaele, Sorbi Sandro __________________________________________________________________________ pag. 177
SINTOMI DEPRESSIVI E MORTALITÀ AD UN ANNO IN PAZIENTI ANZIANI RICOVERATI
PER RIABILITAZIONE ORTOPEDICA
Guerini Fabio, Lucchi Elena, Morghen Sara, Bellelli Giuseppe, Trabucchi Marco _________________________________ pag. 179
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ANALISI BIO-PSICO-SOCIALE DI UN GRUPPO DI ANZIANI AFFETTI DA DEPRESSIONE MAGGIORE
Iandoli Ilaria, Redaelli Cristiana, Bellodi Sara, Del Torre Gaia, Imbesi Francesco, Levi Flavia,
Tombolini Beatrice, Gala Costanzo ______________________________________________________________________ pag. 180
DIFFERENZA DI OPINIONI SULLE DECISIONI DI FINE VITA TRA PSICOLOGI E GERIATRI:
LO STUDIO E.L.D.Y. (END OF LIFE DECISIONS STUDY)
Iasevoli Mario, Giantin Valter, Orrù Graziella, Limonato Matteo, Pengo Valentina, Valentini Elisabetta,
Pegoraro Renzo, Manzato Enzo, Maggi Stefania, Crepaldi Gaetano ____________________________________________ pag. 181
SCHEDA DI VALUTAZIONE E TERAPIA DEL DOLORE IN RSA
Latella Raffaele, Cappuccio Melania, Liguori Simeone, Devitis Cristina, Barcella Evelino, Rota Carla,
Baronchelli Irene, De Ponti Lucia, Franzoni Simone ________________________________________________________ pag. 183
DECADIMENTO COGNITIVO NELL’ANZIANO SOTTOPOSTO AD INTERVENTO CHIRURGICO
Lattanzio Francesco, Zito Michele, Guglielmi Marianna, Leoncavallo Anna, Di Giambattista Francesca,
Gaspari Lorenza, Abate Giuseppe _______________________________________________________________________ pag. 184
VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA E NEUROFISIOLOGICA IN UN GRUPPO DI SOGGETTI
AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER AFFERENTI ALL’ AMBULATORIO U.V.A. DELL’ASL TORINO 1
Leotta Daniela, Marchet Alberto, Capellero Barbara, Bongioanni Roberta, Balla Silvia, Simoncini Mara,
Pernigotti Luigi Maria _________________________________________________________________________________ pag. 186
TINER (Trattamento integrato neuromuscolare emozionale rilassante).
UN MODELLO DI LIFE QUALITY PROJECT NELLA MALATTIA DI PARKINSON
Lera Antonio_________________________________________________________________________________________ pag. 187
“TINER”: TRATTAMENTO INTEGRATO NEUROMUSCOLARE EMOZIONALE RILASSANTE
NEL DISTURBO LIEVE DELLA SFERA SONNO-VEGLIA DELL’ANZIANO
Lera Antonio_________________________________________________________________________________________ pag. 188
STUDIO RETROSPETTIVO IN 342 PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER
TRATTATI CON DONEPEZIL
Magnani Giuseppe, Coppi Elisabetta, Cursi Marco, Caso Francesca, Martinelli Boneschi Filippo,
Ferrari Laura, Comi Giancarlo __________________________________________________________________________ pag. 189
DIFFERENTI PATTERN PSICOPATOLOGICI NELLA DEPRESSIONE GERIATRICA
CON E SENZA DECADIMENTO COGNITIVO LIEVE
Magni Laura Rosa, Adorni Andrea, Caprioli Chiara, Geroldi Cristina, Pioli Rosaria, Rossi Giuseppe __________________ pag. 190
RELAZIONE TRA DEFICIT COGNITIVO E ASSESSMENT NUTRIZIONALE SULLA DISABILITÀ FUNZIONALE
IN UNA COORTE DI ANZIANI RESIDENZIALI
Malara Alba, Caruso Chiara, Sgrò Giovanni, Ceravolo Francesco, Renda Francesca, Rotundo Alessandro,
Spadea Fausto _______________________________________________________________________________________ pag. 191
LE STRATEGIE DEL “PASSAGGIO”
Malara Alba, Sgrò Giovanni, Garo Michele_________________________________________________________________ pag. 193
IL RUOLO DELLO PSICOLOGO NELLA UNITÀ VALUTATIVA ALZHEIMER
Malimpensa Luca, Marech Lucrezia, Cotroneo Antonino Maria, Maina Ettore, Nicoletti Nicoletta,
Cabodi Sergio _______________________________________________________________________________________ pag. 194
L’EVOLUZIONE DELL’UNITÀ VALUTATIVA ALZHEIMER VERSO UNA RETE PROFESSIONALE
MULTIDISCIPLINARE PER L’ASSISTENZA AI DEMENTI
Mancini Giovanni, Salvi Veronica, Moscardini Claudio, Muzzi Francesca, Pauletti Giovanni, Quaranta Loreta,
Trentino Domenico, Aureli Domenico, Chinni Vittorio ______________________________________________________ pag. 195
UTILIZZO DELLE “ATTIVITÀ AVANZATE DELLA VITA QUOTIDIANA” (AADL)
NELLA NORMALE PRASSI VALUTATIVA DI UN SERVIZIO DI RIABILITAZIONE DIURNA
Marelli Eleonora, Perelli Cippo Riccardo, Colombo Mauro ___________________________________________________ pag. 196
VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE DEL DOLORE IN LUNGODEGENZA:
UNA SCHEDA PER UN PROGETTO QUALITÀ
Mari Marcello, Neri Davide, Fin Ilenia, Mulone Silvana ______________________________________________________ pag. 197
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IL “COMANAGEMENT” ORTOGERIATRICO: EPIDEMIOLOGIA E BISOGNI CLINICI
DEL PAZIENTE ANZIANO CON FRATTURA DI FEMORE
Mattanza Chiara, Gotti Fabio, Piovani Laura, Giordano Alessandro, Terragnoli Flavio, Rozzini Renzo _________________ pag. 198
IL SUPPORTO ALLA FAMIGLIA CON MALATTIA DI ALZHEIMER GENETICA AD ESORDIO PRECOCE
Mirabelli Maria, Colao Rosanna, Curcio Sabrina A.M., Dattilo Teresa L., De Vito Ornella,
Frangipane Francesca, Maletta Raffaele, Puccio Gianfranco, Bruni Amalia C. ____________________________________ pag. 199
LIVELLO DI COMPROMISSIONE COGNITIVA E RECUPERO NELLA DEAMBULAZIONE IN PAZIENTI
CON FRATTURA DI FEMORE
Morghen Sara, Guerini Fabio, Turco Renato, Torpilliesi Tiziana, Ricci Eleonora, Marrè Alessandra,
Lucchi Elena, Luzzani Cinzia, Speciale Salvatore, Bellelli Giuseppe, Trabucchi Marco _____________________________ pag. 200
VALUTAZIONE E GESTIONE DEL DOLORE NEL PAZIENTE CON DEMENZA
Nardelli Anna, Pelliccioni Pio, Modugno Maria, Visioli Sandra, Saccavini Marsilio, Lauretani Fulvio __________________ pag. 202
AMBULATORIO PSICOGERIATRICO TERRITORIALE DI ORTONA. MODELLO ORGANIZZATIVO
E RELAZIONE SULLE ATTIVITÀ NELL’ANNO 2009
Nuccetelli Francesco, Di Filippo Maria Carmina, Di Donato Fiore, Ferretti Sandra _______________________________ pag. 203
LO STRESS DEL CAREGIVER PROFESSIONALE NELLA GESTIONE DEL PAZIENTE DEMENTE
ISTITUZIONALIZZATO
Nuzzo Maria Dolores, Scarafiotti Carla, Raspo Silvio, Pregliasco Fabrizio _______________________________________ pag. 204
APPROCCIO CONVERSAZIONALE E CAPACITANTE NELLA CURA DEGLI ANZIANI
AFFETTI DA DEMENZA
Peroli Paola, Vigorelli Pietro ____________________________________________________________________________ pag. 205
GENESI MULTIFATTORIALE NELLA GENESI DEL DELIRIUM: UN CASO CLINICO
Piovani Laura, Mattanza Chiara, Giordano Alessandro, Sleiman Intissar, Rozzini Renzo, Trabucchi Marco _____________ pag. 207
IL CASO DI “GIGI”: CONSIDERAZIONI SULLA DIAGNOSI DELLE DEMENZE ED IMPLICAZIONI
NELLA VITA QUOTIDIANA DEL PAZIENTE E DEI FAMIGLIARI
Pirani Alessandro, Zaccherini Davide, Tulipani Cristina, Tassinari Claudia, Anzivino Fernando ______________________ pag. 208
UN INTERVENTO COMBINATO: ATTIVITÀ SEMIRESIDENZIALE PER PERSONE AFFETTE DA DEMENZA
Ragni Silvia, Attaianese Fulvia, Bernard Cristina, Ierace Brunella, Quattropani Fabrizio, Bartorelli Luisa ______________ pag. 210
DIFFERENZE DI GENERE NELLA BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA OSTRUTTIVA
Ranieri Piera, Bianchetti Angelo, Espinoza Carmen, Cornali Cristina, Franzoni Simone, Badini Ilaria,
Pizzoni Marina, Cossu Beatrice, Trabucchi Marco __________________________________________________________ pag. 211
ALLA RICERCA DI FATTORI CLINICI E DEMOGRAFICI CHE INFLUENZINO LA RISPOSTA FARMACOLOGICA
TRA GLI ANZIANI CON DEMENZA DI ALZHEIMER: ESPERIENZA DI UN’UVA DEDICATA
Riello Fabio, Nisticò Francesca, Borgogni Tiziano, Cellai Fausto, Pierantozzi Andrea, Petri Silvia,
De Alfieri Walter______________________________________________________________________________________ pag. 213
CONOSCENZA E PERCEZIONE DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER NELLA POPOLAZIONE GENERALE:
INFLUENZA DELL’ESPERIENZA DI CAREGIVING E DI ALTRE VARIABILI SOCIODEMOGRAFICHE
IN UN CAMPIONE DI POPOLAZIONE BRESCIANA
Riva Maddalena, Vicini Chilovi Barbara, Conti Marta, Bertoletti Erik, Rozzini Luca, Padovani Alessandro _____________ pag. 215
EFFETTO DEL TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE DI GRUPPO SULLA QUALITÀ
DI VITA E SULLA SINTOMATOLOGIA NEL PAZIENTE ANZIANO AFFETTO DA DEPRESSIONE
Romano Pietra, Tombolino Beatrice, Peirone Alberto, Apa Deborah, Gala Costanzo_______________________________ pag. 216
IL SOFFRIRE PSICOPATOLOGICO E IL SOFFRIRE PSICOLOGICO (ESISTENZIALE). CASO CLINICO:
ANNA E LA SUA FAMIGLIA
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Forghieri Pierluigi _______________________________________________________ pag. 217
LA PREVENZIONE DELLE CADUTE NEI LUOGHI DI CURA NEGLI OVER-65
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Forghieri Pierluigi _______________________________________________________ pag. 218
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ALCOLISMO E TERZA ETÀ
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Perdetti Luca, Venturelli Sara, Forghieri Pierluigi ______________________________ pag. 220
IL DISTURBO COGNITIVO LIEVE NELLA PSORIASI: UN’ENTITÀ ANCORA POCO CONOSCIUTA
Sala Francesca, Gisondi Paolo, Alessandrini Franco, Avesani Virginia, Zoccatelli Giada, Beltramello Alberto,
Moretto Giuseppe, Girolomoni Gianpietro, Gambina Giuseppe ______________________________________________ pag. 222
LA CARTELLA CLINICA IN GERIATRIA: NECESSITÀ DI UN APPORTO MULTI PROFESSIONALE
Scala Giovanni, Capobianco Giovanni____________________________________________________________________ pag. 224
LE CADUTE DELL’ANZIANO FRAGILE: PROGETTO INTEGRATO DI PREVENZIONE A DOMICILIO
Scala Giovanni, Ansovini Massimo, Curcuruto Annamaria, Cinque Romano, Capobianco Giovanni __________________ pag. 226
CONTINUITÀ ASSISTENZIALE DOPO IL RICOVERO OSPEDALIERO IN ANZIANI
CON DEFICIT COGNITIVI: L’ESPERIENZA DELLO SCORSO ANNO SUL TERRITORIO PINEROLESE
Scarafiotti Carla, Gorlato Stefania, Prolasso Susanna, Beatone Ivana, Fassetta Monica, Ferrari Eliana,
Rossi Graziella _______________________________________________________________________________________ pag. 228
RUOLO DEI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE NEL MILD COGNITIVE IMPAIRMENT (MCI)
Servello Adriana, Cerra Elisabetta, Vigliotta Maria Teresa, Vulcano Achiropita, Fossati Chiara,
Ettorre Evaristo, Marigliano Vincenzo ____________________________________________________________________ pag. 229
IL VECCHIO AGGRESSIVO: MODALITÀ DI COMUNICAZIONE E DI APPROCCIO
Servetto Giuseppe, Ferro Antonio Maria __________________________________________________________________ pag. 230
APPLICAZIONE DELLA PROTEOMICA PER L’IDENTIFICAZIONE DI POTENZIALI BIOMARKERS
NELLE DEMENZE DELL’ANZIANO
Sgrò Giovanni, Malara Alba, Ferrante Pasquale _____________________________________________________________ pag. 236
ATTIVITÀ FISICA E CAPACITÀ RESIDUE NELLA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA: STUDIO PILOTA
Simoncini Mara, Gatti Antonia, Balla Silvia, Scrivo Federica, D’Agostino Sabrina, Obialero Rossella,
Pernigotti Luigi Maria _________________________________________________________________________________ pag. 238
LA PERSONALITÀ PREMORBOSA COME POSSIBILE PREDITTORE DEL PROFILO
PSICOLOGICO-COMPORTAMENTALE IN CORSO DI MALATTIA DI ALZHEIMER
Simoni David, Barboncini Caterina, Gullo Massimiliano, Boncinelli Marta, Cavallini Maria Chiara,
Mello Anna Maria, Zaffarana Nicoletta, De Villa Eleonora, Ballini Elena, Marchionni Niccolò, Mossello Enrico ___________ pag. 239
PRIMA DIAGNOSI DI MALATTIA DI ALZHEIMER: UNO STUDIO DESCRITTIVO RETROSPETTIVO
Spadaro Letteria, Cordici Francesco, Bonanno Lilla, Alagna Antonella, Sessa Edoardo, Bramanti Placido ______________ pag. 240
CARATTERISTICHE CLINICHE E PATTERN DI MIGLIORAMENTO NELLA DEAMBULAZIONE
IN UNA POPOLAZIONE DI ULTRANOVANTENNI RICOVERATI IN UN REPARTO DI RIABILITAZIONE
Torpilliesi Tiziana, Lucchi Elena, Turco Renato, Marrè Alessandra, Guerini Fabio, Ricci Eleonora,
Speciale Salvatore, Morghen Sara; Bellelli Giuseppe, Trabucchi Marco _________________________________________ pag. 241
MILD COGNITIVE IMPAIRMENT: STUDIO CORRELAZIONALE SULLE COMPONENTI COGNITIVE
COINVOLTE NELLA PRESTAZIONE AL CLOCK DRAWING TEST
Umidi Simona, Trimarchi Pietro Davide, Annoni Giorgio_____________________________________________________ pag. 243
STUDIO OSSERVAZIONALE SULL’INFLUENZA DELL’ETÀ SUL PROFILO NEUROPSICOLOGICO
DI SOGGETTI AFFETTI DA MILD COGNITIVE IMPAIRMENT
Vicini Chilovi Barbara, Caratozzolo Salvatore, Mombelli Giulia, Gottardi Federica, Rozzini Luca,
Padovani Alessandro __________________________________________________________________________________ pag. 244
LA QUALITÀ DI VITA IN SOGGETTI ANZIANI AFFETTI DA GRAVE DEMENZA:
LA STIMOLAZIONE MULTISENSORIALE IN UN NUCLEO ALZHEIMER
Viti Niccolò, Bonacina Giuliana, Barile Monica, Canedo Patricia, Fazzo Paola, Gavio Daniela, Galetti Giuseppe ________ pag. 245
LA TELEMEDICINA NELLE DEMENZE: UN AUSILIO PER CAREGIVERS E PAZIENTI
Zaccherini Davide, Pirani Alessandro, Tulipani Cristina, Lodi Simone, Anzivino Fernando__________________________ pag. 246
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EDITORIALE
La cultura e la prassi psicogeriatrica nella cura
del paziente anziano
MARCO TRABUCCHI
Associazione Italiana di Psicogeriatria
Introduzione: cultura, pazienza, compassione
Le tre parole chiave (tra le moltissime che sarebbe possibile pensare e descrivere) in ambito psicogeriatrico sono la cultura, la pazienza e la compassione. La lettura del testo che segue permetterà di capire il senso di questi termini, che sono
tra loro fortemente coesi. Infatti, solo una cultura geriatrica approfondita induce
ad esercitare la pazienza necessaria a conoscere chi ha bisogno di cure ed a seguirlo nelle strade difficili della malattia; ma, allo stesso tempo, cultura e pazienza non sarebbero adeguate al bisogno della persona che soffre se il medico non
sapesse esercitare la compassione, come mezzo per capirla, curarla ed accompagnarla nel tempo.
Come coltivare queste caratteristiche dell’atto di cura? È importante riconoscere
che sono più figlie dello spirito, che non di conoscenze contemporanee come la
demografia, la sociologia, l’epidemiologia, la clinica. La persona che cura è infatti
capace di responsabilità, e sa rispondere positivamente alla domanda aprioristica
che ha fondato la civiltà (“sono forse io responsabile di mio fratello?”); ma allo
stesso tempo è anche capace di relazioni intense, perché nel suo cervello si riflettono le sofferenze dell’altro (i neuroni specchio hanno aperto un campo del quale non conosciamo l’estensione rispetto alle potenzialità di comprensione delle relazioni tra gli umani). Partendo da qui la psicogeriatria cura: è un “impasto nobile”,
ricco di molte componenti, che copre ambiti diversi. Compito dei medici più attenti, come sono quelli che afferiscono all’AIP, è costruire le condizioni per cui questo “impasto” possa sempre meglio servire le persone fragili.
La clinica è ricerca, ogni giorno diversa, di una strada, lungo la quale il medico ha
sempre come compagno il paziente, molto spesso la sua famiglia ed anche altri
viandanti, diversamente interessati a rendere facile il percorso. Così la clinica è il
prodotto di un’esperienza spiegata dalla scienza, in una logica di pari valore, senza che l’una domini sull’altra.
L’essere nel mondo della persona di qualsiasi età è mediato dalla funzione cerebrale, che -per quanto compromessa ed ammalata-, rappresenta il ponte tra l’individuo e l’ambiente, oltre che lo strumento principale attraverso il quale la persona incontra se stessa. Si comprende quindi come nella cura di un individuo, qualsiasi sia
la problematica patologica, non si possa prescindere dal ruolo del suo encefalo; la
clinica ad ogni età deve tener conto di come il cervello dell’ammalato trasmette al
medico le proprie condizioni, di come il cervello modula la salute somatica ed infine di come il cervello “interpreta”la condizione di malattia della persona e dirige
i suoi comportamenti.Tutto ciò è particolarmente vero nel vecchio, quando l’età
avanzata rende più sensibile il rapporto tra le persone e dell’individuo con l’ambiente ed allo stesso tempo induce una condizione di progressiva fragilità. Quindi discutere di ruolo della cultura e della prassi psicogeriatrica nella cura significa affrontare un tema senza precisi confini rispetto alla medicina tradizionale, con i rischi di
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espansione indebita ed anche di genericità, ma allo
stesso tempo con la certezza di contiguità molto importanti per la comprensione delle reali possibilità
di cura.
Nel passato la visione della medicina era sostanzialmente unitaria e quindi -sebbene in modo non analitico- comprendeva anche la componente cerebrale. Poi è venuto il tempo della crisi, caratterizzato
da un progresso tecnico che è debordato fuori dai
suoi ambiti per caratterizzare tutto lo spazio clinico. Alla crisi si è risposto con le problematiche dell’umanizzazione, un’impresa mirante a recuperare
spazio per una visione corretta, ma con il limite -tipico di ogni reazione ad eccessi precedenti- di voler
rappresentare l’intera clinica, quando invece ne è
solo una parte. Adesso la storia umana (perché la
medicina rappresenta sempre un momento significativo della storia individuale e collettiva) è sulla via di
un riequilibrio, per ritornare alla visione antica e
nuova della medicina.Troppo infatti si è scritto su
questo tema e sempre con il limite di agire in una
condizione reattiva; di fronte alle evidenti crisi generali dell’atto di cura ed alle specifiche condizioni
di difficoltà, il ricorso retorico alla “medicina della
persona”, contrapposta a quella dell’organo, ha rappresentato una sorta di salvagente, un’occasione per
riaffermare il ruolo della medicina stessa, solo temporaneamente offuscato da operatori-tecnocrati, inadeguati a rappresentare una storia complessa e “gloriosa”. Ora è il tempo della riconquista di un maggiore equilibrio, seppur difficile, come viene proposto
in queste pagine; il bisogno di cura dell’anziano non
permette atteggiamenti manichei, ma invita ad una
sempre più incisiva capacità di fare sintesi, superando le resistenze che si frappongono da molte parti.
Chi si occupa dell’ammalato psicogeriatrico vive
sempre immerso nell’imperativo sintetico, un’attitudine della mente faticosa ma irrinunciabile.
Di seguito sono schematicamente rappresentate alcune tappe dell’atto della cura, in modo da esemplificare concretamente gli atteggiamenti che permettono una reale “riunificazione” della prassi clinica.
Ovviamente sarebbero molti gli spunti da riprodurre su un tema di grande importanza sia teorica che
pratica; la trattazione è invece limitata ad alcuni
aspetti psicogeriatrici (alcuni fra i molti che afferiscono ad una scienza ricca di responsabilità!).
Recentemente è stato riaffermato che “la cura dei
pazienti anziani provoca gioia e soddisfazione ai loro medici”6; è un’affermazione forte ed apparentemente in controtendenza con una cultura superficiale che si rifiuta di valorizzare la cura dei vecchi e
che ritiene scarsamente rilevante l’impegno professionale in questa direzione. Noi ovviamente non
concordiamo con questa posizione nel momento in
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cui da anni nell’AIP sottoscriviamo la frase di Albert
Camus: “C’è la bellezza e ci sono gli umiliati. Quali
che siano le difficoltà dell’impresa, vorrei non essere mai infedele né agli uni, né agli altri”; la prima rispecchia la grandezza di una cultura complessa e
difficile, che però permette di affrontare e, frequentemente, di risolvere i problemi, la seconda la realtà
di dolore e di sofferenza espressa da tante persone
molto vecchie, ma indica anche come i valori in gioco (e che vanno rispettati da chi organizza e presta
direttamente le cure) spesso sono espressione di volontà che riassumono il significato di una vita.
L’invecchiamento della popolazione è una costante
del nostro tempo che resta sullo sfondo di qualsiasi
considerazione sulla cura. Alcuni fra quelli presentati dalla pubblicistica recente talvolta in modo “urlato” sono parametri da tenere in considerazione
più di altri su questo tema: a) la spettanza di vita in
età avanzata, per cui oggi una donna novantenne ha
in media oltre 5 anni da vivere (può questo tempo
diventare solo argomento per la gestione di un fallimento o si debbono creare le condizioni per cui l’assistenza si ponga obiettivi significanti, qualsiasi sia
la condizione di salute?); b) “se il ritmo di aumento
della spettanza di vita continuerà nel 21esimo secolo con lo stesso ritmo dei precedenti, molti bambini nati dall’anno 2000 nei Paesi sviluppati sono destinati a celebrare il loro centesimo compleanno”1;
c) la prevalenza della demenza nella popolazione
molto anziana aumenta esponenzialmente; se non
verrà identificato a breve qualche intervento in grado di modificare l’andamento complessivo, nei prossimi anni tre quarti delle persone ultra-novantenni
saranno destinate ad essere colpite dalla demenza.
Sono sufficienti questi tre dati per descrivere le glorie e le tragedie che si nascondono dietro i numeri
dell’evoluzione demografica ed epidemiologica. Ma
ugualmente questi dati non devono prevalere sulla
precisa posizione di chi non vuole che i numeri
oscurino l’eterogeneità della vita delle persone che
invecchiano, in termini somatici, psicologici, relazionali. Ciò è vero in tutti gli ambiti della medicina; nel
paziente psicogeriatrico il mistero delle differenze è
ancor più accentuato, come capisce il medico attento al colloquio, per quanto difficile, e alla relazione,
per quanto primitiva.
Prima di passare all’analisi delle varie tappe della cura, è importante un’affermazione generale e cioè
che la medicina è sempre caratterizzata dalla dimensione della scelta, anche se è spesso difficile perchè
immersa in alternative non comprensibili all’anziano, o perché la persona è limitata nelle sue possibilità da un deficit cognitivo o da un disturbo dell’affettività. Tener in considerazione i limiti oggettivi
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dell’individuo è indispensabile per un corretto approccio ai problemi clinici ed alle relative decisioni; in ambito psicogeriatrico ciò è molto frequente
e carica il medico di responsabilità che non deve
sopportare nella relazione con altri pazienti. La gloria e le crisi di una scelta di campo!
Un’altra affermazione di carattere generale riguarda
una condizione che caratterizza la clinica come una
costante contrattazione tra situazioni conflittuali
(“It’always a trade-off”)10. La condizione dell’anziano, ed in particolare la fragilità imposta dalle malattie della sfera psicogeriatrica, richiedono un bilancio
continuo tra interventi che potrebbero sembrare tra
loro in contrasto, con un esercizio delicato di governo da parte del medico, il quale a sua volta deve
istruire adeguatamente gli altri componenti dell’equipe. Quindi anche le linee guida ed i protocolli, in
questa luce, assumono più il ruolo di “indicatori culturali” che non strumenti di immediata utilizzazione
clinica.Al di là di questi, la cultura del medico è premessa irrinunciabile per qualsiasi progetto di cura!
L’anamnesi: una sintesi realistica e rispettosa
La raccolta della storia della persona deve essere
realistica e rispettosa. I due termini hanno lo stesso
significato; infatti la cura che non si fonda su una
lettura della realtà costruisce un modello di intervento costruito per chi lo mette in opera e non adeguato per chi lo riceve ed è quindi profondamente
irrispettoso. La storia del paziente è alla base della
relazione e quindi il momento in cui si assemblano
varie informazioni con lo scopo di costruire un’ipotesi diagnostico-prognostica, che abbia il senso di
indicare un futuro. È l’incontro tra due memorie,
quella del medico, fatta di cultura, esperienza e sofferenza anche personale, e quella del paziente (frequentemente una lunga -ma spesso debole- serie di
ricordi, come può essere lunga la storia della malattia e del suo dolore). Sono memorie diverse, talvolta inconciliabili, talaltra ancora sbilanciate, quando la memoria di una delle due parti viene meno,
come nella demenza o è modificata dalla depressione. Il medico deve guidare questo incontro, che sarà dominato dalla compassione, dall’empatia, talvolta dal rifiuto; è il passaggio obbligato, senza il quale non vi è medicina13. Come sostiene Hillman3, il
paziente ha un duplice ruolo quando riporta la sua
storia clinica; è il protagonista degli eventi ed autore del racconto. Il medico invece è il primo lettore,
che progressivamente si trasforma in coautore
quando non solo trascrive, ma interpreta, valuta, pone in ordine temporale e logico. Maggiormente il
paziente è compromesso, maggiore è il ruolo del
13
medico come attore primario; in particolare, mai
dovrà fermare il proprio interesse di fronte all’impossibilità di un dialogo significante, perché dovrà
sempre andare alla ricerca di fonti diverse (il caregiver, la famiglia con le sue dinamiche complesse,
una lettura dell’ambiente di vita, dell’aspetto fisico
del paziente, ecc.).
La raccolta della storia talvolta induce nel medico
un’esperienza paragonabile a quella provata dagli
apostoli dopo la Pentecoste, quando il Vangelo scrive: “Parlavano tutte le lingue partendo dall’amore”.
Così il medico cerca di capire le mille lingue diverse dei suoi pazienti, quelle povere dell’ignorante e
della persona con ridotte capacità cognitive, quelle
di chi si sente istruito per le informazioni raccolte su
internet, quelle dell’ipocondriaco dalle letture ossessive, quelle di chi ha perso la speranza e riferisce quindi solo pezzi irrilevanti della sua via (che
però il medico deve essere in grado di leggere nel loro valore profondo), quelle dello straniero dominato da antiche abitudini e quelle di molti altri: a tutte
risponde perché guidato dall’imperativo soggettivo
della cura, cioè quell’insieme di circostanze delle
quali non si è ancora compresa pienamente la logica, ma che lo inducono senza incertezze all’ascolto
ed alla risposta generosa, che è appunto la costruzione di un intervento unitario.
Ma il quadro clinico non è solo dominato dalle mille lingue dei pazienti, perché con l’età aumenta la
variabilità di ogni individuo rispetto alla media e
quindi anche l’imprevedibilità dei fenomeni con i
quali il medico si incontra. Questa condizione deve
farlo trovare sempre pronto a gestire l’incertezza,
adeguando le sue conoscenze e la sua esperienza alle specifiche condizioni. È importante comprendere che “heterogeneity is not always noise”; le differenze costituiscono la realtà che va analizzata e studiata per compiere poi interventi adeguati di cura.
Non sono un rumore di fondo da trascurare. Si pensi all’intreccio di condizioni patologiche che spesso accompagnano la vita dell’anziano e l’esigenza di
indicare percorsi di cura che allo stesso tempo ne
tengano conto, senza però disperdersi in mille diversi rivoli, inutili al fine della ricerca del benessere
e talvolta addirittura pericolosi. Se “pluralitas non
est ponenda sine necessitate”, come ha insegnato
Occam, la capacità di utilizzare il “rasoio” dipende
dalla cultura e dall’esperienza, alla fine dalla capacità di interpretare quanto ascoltato dal paziente e
quanto recepito dall’esame obiettivo e dalle indagini strumentali. Certamente in questi casi la lettura
delle modalità di vita del paziente e della sua capacità di interpretare il proprio ruolo diviene importantissima. Guai se il “rasoio” tagliasse -ad esempioquella parte della storia che riguarda lo stress del
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paziente di fronte alle difficoltà della vita; nulla si
capirebbe di lui e quindi sia la lettura dei sintomi
che dei segni sarebbe alterata e la prospettiva di cura inficiata fin dall’inizio. È chiaro che questo ambito della medicina non risponde alle regole della medicina basata sulle evidenze e quindi potrebbe essere da taluno ritenuto marginale; l’errore sarebbe molto grave dal punto di vista clinico, perché il rifiuto
del mondo reale non permette nemmeno di inverare le evidenze scientifiche!
Non sempre il paziente ascolta il medico come sola fonte autorevole di indicazioni, ma questi ha il dovere morale di aiutarlo a diventare decisore autonomo e responsabile, nell’ambito delle sue capacità. È
un atto di serena e razionale attenzione, che non diminuisce la responsabilità del medico né enfatizza in
modo retorico quella del paziente, ma pone le condizioni per un rapporto che -anche nel nostro tempo “inquinato” da mille diversi messaggi- sia equilibrato ed utile alla cura5. Il rapporto con il paziente
anziano, anche quello affetto da problematiche psicogeriatriche, tenderà a mutare nei prossimi anni,
come effetto delle nuove modalità di vita in età adulta. Quale sarà l’atteggiamento delle future generazioni, il cui cervello è stato stimolato dall’uso di internet e quindi dall’influsso indotto sui circuiti neuronali che controllano il ragionamento complesso?
L’esame obiettivo, ovvero il ritorno della
medicina
L’atto di visitare il paziente è il momento centrale
della cura. Il recupero della “vecchia” semeiotica,
troppo presto abbandonata, è indispensabile. In primis perché permette di ridurre la prescrizione di
esami, evitando un’apertura a 360 gradi che è l’immagine dell’incapacità di orientarsi rispetto alla patologia, mentre la visita affina lo spirito di osservazione e la capacità di fare sintesi. Inoltre, la visita
permette un contatto fisico con il paziente che facilita la riduzione delle barriere, aprendo la strada ad
un’intimità che può essere preziosa, anche per approfondire la raccolta della storia e delle circostanze che accompagnano la vita del paziente. La sintesi delle condizioni cliniche viene compiuta, infatti,
anche attraverso un contatto che trasmette messaggi non verbali.Vi è un’autonomia del corpo nel comunicare? In confronto ad altre modalità, verbali e
non verbali, qual è il ruolo del corpo rispetto alla
soggettività della persona? La psicogeriatria è la
scienza che su questo piano -a ponte tra soma e psiche- può dare contributi di rilievo significativo.
Infine, pur senza ricorrere a rituali paramagici, non si
può dimenticare che “l’imposizione delle mani” è
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
sempre terapeutica, soprattutto se il paziente è preoccupato per la sua salute e quindi particolarmente
ansioso. Scrive Veronesi12:“La mano di una madre sulla testa del figlio rappresenta il più grande senso di
protezione che un essere umano possa trasmettere a
un suo simile, le mani di due fidanzati che passeggiano per strada racchiudono l’amore, la mano del medico che tasta ed esamina la trama della pelle, del
corpo, di un organo è la ricerca della salute, ma anche l’inizio di un dialogo, di un rapporto che a volte
è destinato a durare per sempre. Nel Vangelo, Gesù
scende dal monte seguito dalla folla quando gli si avvicina un lebbroso, gli si inginocchia davanti e lo implora. Gesù stende la mano e lo tocca, senza paura, e
lo guarisce. Per il medico ogni cura comincia proprio con la mano. La sua mano, prima di ogni altra
azione, crea un legame tra lui ed il paziente, un rapporto che può diventare un dare, un ricevere, un agire”. Sulla stessa lunghezza d’onda, Verghese11 afferma: “Quando condotto bene, il rituale della visita indica attenzione ed ispira fiducia nel medico, rafforza i legami interpersonali ed il ruolo di samaritano
del medico. Sono tutte ragioni, purtroppo raramente
discusse, per le quali dobbiamo conservare la nostra
capacità di eseguire l’esame obiettivo del paziente”.
Potremo aggiungere che un’altra ragione è il convincimento del paziente che si ricerca qualche cosa che
lo colpisce e lo interessa nel profondo.Anche per la
persona dominata dal dolore psichico o priva della
capacità di comprendere gli atti di cura l’esame
obiettivo ha un significato. Ma cosa sappiamo del vissuto di una persona affetta da demenza quando viene “toccata” da un medico? Gli anziani nella maggior
parte dei casi hanno avuto scarse esperienze di contatti fisici al di fuori di quelli affettivi; il rapporto fisico può quindi essere fonte di disagio, ma anche evocare sensazioni forti e stimolanti.
Tutto ciò non deve portare a svalutare l’importanza di un’analisi accurata dei dati clinici (laboratorio
ed imaging) letti su uno schermo di computer; si
tratta però di una tappa che viene dopo, perché “la
mappa non è il territorio”. I segni di una mappa non
vanno trascurati; il territorio si capisce anche attraverso altri strumenti oltre alla mappa, come l’osservazione dell’ambiente naturale, la relazione con gli
abitanti, le informazioni sulla storia. Ma cosa avviene quando il territorio è difficile da comprendere
perché reso muto dalla riduzione della cognitività o
alterato nel suo aspetto da un’affettività patologica
o reso artificialmente mobile da un’ansia che pervade la vita?
La diagnostica ha uno spazio critico nell’itinerario
di comprensione del paziente nella sua globalità. È
infatti un momento nel quale il medico è concentrato sui referti e potrebbe ridurre l’attenzione al-
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l’uomo. Per questo è importante che la lettura dei
dati di laboratorio e dell’imaging avvenga dopo che
è stata raccolta la storia (alla prima visita) o che si
siano ascoltate le impressioni soggettive del paziente riguardo alla malattia ed all’evoluzione della stessa e che sia stato fatto l’esame obiettivo. In questo
modo si afferma in maniera comprensibile la centralità dell’ammalato nel rapporto con il medico, ma
soprattutto si adotta un modello di comportamento che pone gli strumenti tecnologici al servizio di
tale rapporto. Il paziente è più importante dei numeri, non solo sul piano psicologico, ma anche su
quello clinico, perché è la fonte dei numeri e il punto unificante degli stessi. Quanti numeri possono essere generati in un paziente dalle procedure di imaging nelle loro varie espressioni e da quelle di chimica clinica: diventano un bosco inestricabile e fonte
di percorsi erratici se non si usa la bussola della storia, dell’esame obiettivo, della cultura clinica, delle
capacità di sintesi e intuitive del medico.
Talvolta il medico si trova nella spiacevole condizione di dover rifiutare una richiesta del paziente,
stimolata da informazioni distorte o da consigli sbagliati: si tratta di un’operazione delicata e per nessun motivo il medico deve accondiscendere, perché
porrebbe le basi per un rapporto ambiguo con il
suo paziente e quindi per una possibile condizione
di crisi in futuro. Una relazione significante deve essere in grado di assorbire momenti di tensione, nel
nome di un obiettivo di cura condiviso, che discende da una visione completa del quadro clinico. In
questo ambito la cultura psicogeriatrica contribuisce a migliorare la capacità clinica, anche attraverso una sensibilità empatica che sa comprendere le
dinamiche più complesse.
Ogni dato oggettivo tecnologico deve essere inserito nel complesso del quadro clinico, che si comprende a fondo solo attraverso la relazione con il paziente. Non è un’affermazione retorica, ma il mezzo per
avvicinarsi a capire la condizione reale dell’ammalato, la sua sofferenza, il perché è comparsa una determinata sintomatologia.
La lettura dei dati di laboratorio non deve portare a
reazioni immediate né tantomeno a etichettature
del paziente. La tentazione di concludere rapidamente sulla base dei numeri è molto forte, perché sembrano essere auto-esplicativi. Anche quando il paziente è noto o ricoverato in ospedale, l’attenzione
alla relazione ed all’osservazione dovrebbe prevalere sull’automatismo dei numeri (non solo per rispettare il dialogo, ma anche perché il quadro clinico
può evolversi senza un’immediata ripercussione sui
valori numerici degli esami di laboratorio).
Ancora una volta l’insieme deve essere considerato
prima dei singoli dati e la relazione è il mezzo attra-
15
verso il quale passa il messaggio che il paziente è un
valore per il suo medico, indipendentemente dal dato clinico in senso stretto. Il paziente -soprattutto se
in condizioni di fragilità psico-fisica- è sensibilissimo
ai gesti “liberi” del suo medico, quelli che testimoniano un’attenzione “non obbligata”, che però diviene
importante per permettere alla prassi clinica formale di raggiungere i suoi obiettivi di cura, senza sofferenze inutili per il paziente e per chi gli è vicino.
In ambito psicogeriatrico l’intero processo di analisi delle condizioni del paziente deve essere caratterizzato da un continuo ripetersi, per definire una
condizione clinica sempre mutevole, sia per una fragilità intrinseca, sia perché sensibilissima alle circostanze della vita. Questo esercizio di paziente determinazione nel seguire la vita della persona ammalata permette di essere proattivi e quindi di anticipare i possibili scenari, mettendo in piedi le necessarie
difese della salute in un quadro in continuo cambiamento. Ma permette anche di interpretare meglio
ciò che è già accaduto, sia sul piano diagnostico che
delle terapie.
Comunicare la diagnosi e il dovere di
accompagnare
La comunicazione della diagnosi è la tappa finale del
processo diagnostico, cioè di una conoscenza approfondita del paziente; non è quindi la fredda trasmissione di informazioni, ma l’inizio di un dialogo che
accompagna la vita di chi deve essere assistito. Il contenuto sarà quindi per definizione articolato, ma allo
stesso tempo legato ad una visione d’insieme dell’ammalato. Troppo spesso ai medici manca l’arte del
comunicare, sia perché non sono in grado di esprimere in modo adeguato le proprie idee sia perché
non intuiscono quali sono le priorità del paziente e
quindi quello di cui vorrebbe parlare o sui cui spera
di essere informato. Anche l’atto della comunicazione della diagnosi dovrà seguire alcune regole sul piano formale, ma soprattutto su quello della comprensione delle attese e dei bisogni del paziente, che in alcuni casi possono essere più extraclinici che non clinici. Sarebbe quindi un grave errore isterilire la comunicazione a soli aspetti tecnici, senza valorizzare
il contorno dove si possono capire le attese, le difficoltà, le incertezze dell’ammalato.
L’atto del comunicare va fatto con l’impegno a mantenere accesa la speranza e quindi deve essere tecnicamente sempre collegato ad un’ipotesi prognostica. Per il paziente una diagnosi separata dalla prognosi non ha alcun significato, se non quello di attivare paure ed angosce se la terminologia usata fa risuonare esperienze del passato o informazioni più o
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meno distorte. Ma anche per il medico la diagnosi da
sola non offre spunti per il dialogo. Il medico deve
intuire il livello di ansia della persona che gli sta di
fronte, che non sempre è pronta a ricevere una diagnosi; anzi, talvolta non vorrebbe sapere nulla, affidandosi completamente alle decisioni ed alle prescrizioni del medico di fiducia (mai come in questo
caso la dizione burocratica assume un intenso significato umano!). Il paziente “pauroso” non è criticabile, anche perché è così dipendente dal medico
che se viene adeguatamente rasserenato diventa un
attento esecutore dei consigli e delle prescrizioni.
Se la visione della condizione clinica si ispira ad una
visione unitaria, la comunicazione si colloca in una
logica che prevede attenzione anche alle capacità
del paziente di capire, accettare, metabolizzare, dare
un senso alle informazioni.
In alcune situazioni, come quelle degli anziani affetti da più malattie contemporaneamente, la prognosi richiede un’analisi multidimensionale del paziente, operazione che di per sé innesca un rapporto intenso con l’ammalato e con la sua famiglia, creando
le precondizioni per cui la comunicazione della diagnosi-prognosi diviene un atto in continuità con la
presa in carico. La separazione tra diagnosi e prognosi ha una ragione prevalentemente formale; i due
momenti sono una tappa unica nel processo di comunicazione, anche per dare il messaggio che la diagnosi non è solo un atto tecnico, ma un punto di arrivo e di partenza allo stesso tempo, sempre caratterizzato da una forte presenza del medico, con la sua
cultura e la sua sensibilità. E questi mai si laverà le
mani di fronte a passaggi difficili nella storia naturale di un paziente e nella vita della sua famiglia; mai
pronuncerà la frase “dovete decidere voi”, perché è
la dimostrazione dell’incapacità di comprendere il
dolore, le debolezze, le incertezze dell’interlocutore.
Nel caso della demenza la comunicazione dovrà essere misurata sulla capacità del paziente di comprendere il significato della diagnosi, sia rispetto alle sua
struttura psichica sia all’utilità della comunicazione;
non è un totem da onorare acriticamente, ma quando possibile è un passaggio per rispettare il paziente (non sul piano formale, ma nella sostanza delle
sue decisioni, attese, speranze, ecc.). In questa logica di interventi mirati e continuativi non trova spazio l’esigenza da taluni formulata di disporre di figure ad hoc per comunicare la diagnosi e seguire il paziente per gli aspetti psicosociali. Sarebbe un cedere al fascino della specializzazione anche in ambiti
dove interferisce con il rapporto medico-paziente,
senza apportare reali vantaggi.
Vi sono situazioni particolari nelle quali la comunicazione della diagnosi e l’indicazione dei comportamenti conseguenti è difficile, perché le condizio-
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ni di lavoro impediscono una relazione approfondita, che porti anche a verificare se il paziente ha realmente compreso i messaggi del medico, necessari per il proseguimento delle cure. Uno studio recente2 -condotto nel pronto soccorso degli ospedali nei quali si è svolta la ricerca- ha dimostrato che il
78% dei pazienti non capisce almeno uno degli argomenti dei quali ha discusso con il medico (diagnosi,
trattamento ricevuto in pronto soccorso, istruzioni
terapeutiche, i segni di allarme che dovrebbero indurre un ritorno in ospedale, ecc.). Vi sono molte
possibili spiegazioni del fenomeno, tra le quali l’ansia e le paure del paziente da una parte, la fretta e le
preoccupazioni del medico per pazienti molto gravi, dall’altra.Al fondo resta la tematica della crisi dei
rapporti; il pronto soccorso è uno dei luoghi dove si
manifesta nel modo più violento e con conseguenze più spiacevoli. Infatti in pochissimo tempo si deve costruire un dialogo tra sconosciuti, navigando
tra dati tecnici spesso difficili da comprendere, in
condizioni di stress elevato. Ma proprio la condizione di crisi imporrebbe la messa in atto di atteggiamenti concreti per superarla, con indubbi vantaggi
sia per gli operatori sia per i pazienti. Chi soffre di
più nei momenti di passaggio, come un pronto soccorso, è la persona che non riesce a comprendere la
propria collocazione, che è impressionato da rumori, voci, luci, ecc.; verso di lui la comunicazione deve essere particolarmente attenta, sia rispetto alle
grandi cose (la diagnosi), sia rispetto ai piccoli consigli utili nell’immediato o ad una mano rassicurante che si appoggia sul capo.
La cura e le cure
L’approccio alla cura di una persona anziana colpita da una malattia deve essere equilibrato tra tre momenti, come descritto in modo incisivo da Reuben7:
“a breve termine la cura deve mirare a riportare il
paziente alla sua precedente condizione di salute”
(noi diremmo che è indispensabile parametrare gli
interventi di cura sullo stato premorboso, perché
così si evitano interventismi eccessivi o astensionismi immotivati).“A medio termine la cura deve provvedere un momento preventivo, identificando le sindromi geriatriche, ed assistendo il paziente rispetto
alle sue aspettative e condizioni psicosociali” (in
questa fase le scelte del paziente devono guidare
l’intervento clinico, perché la sua volontà deve modulare le decisioni prese in base allo stato premorboso ed alla prognosi; se la persona non è in grado di
decidere dovranno essere analizzati i pezzi della vita precedente che possono aiutare a comprendere
valori, desideri, credenze, ecc.). “A lungo termine è
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necessario pianificare il declino del paziente e andare incontro ai suoi obiettivi per la fine della vita”
(ancora una volta le decisioni di un medico di fronte alla persona affetta da alterazioni della cognitività o dell’affettività assumono valenze peculiari).
Il farmaco è un momento tecnico della terapia, ma
la prescrizione non deve mai essere compiuta in maniera automatica. La stessa molecola può assumere
ruoli che cambiano nelle varie situazioni cliniche ed
umane, costruendo intorno a sé dinamiche di complessità nelle quali il medico è chiamato a muoversi in scienza e coscienza, senza lasciarsi guidare dalla tentazione di semplificare i vari aspetti del problema. Da questo punto di vista il farmaco riproduce in sé tutte le realtà della medicina moderna e le
difficoltà che essa pone al paziente, alla sua famiglia
e a chi si cura di lui.
La prescrizione farmacologica nei prossimi anni sarà sempre più parametrata sulle specificità della
struttura genica dell’ammalato. Da questo punto di
vista, il medico dovrà imparare ad usare strumenti
sofisticati che gli permettano di approfondire le conoscenze di ogni specifico paziente.
Il farmaco è un elemento oggettivo che si inserisce
tra le due soggettività, rinforzando il significato del
loro rapporto. Se alla conclusione della raccolta della storia, dell’esame obiettivo e dell’analisi dei risultati bioumorali e di imaging avviene la prescrizione
di un farmaco è come se quella serie di atti -non
sempre facilmente comprensibili da parte del paziente- avesse la propria conclusione a vantaggio del
paziente stesso. Il farmaco diviene la dimostrazione
che tutto ha avuto senso nella direzione voluta da
chi richiede le cure e che l’opera del medico è stata coronata da un risultato tangibile. In questa prospettiva la prescrizione farmacologica assume un
ruolo che deve essere compreso dal medico e reso
palese attraverso atti che lo valorizzino. Il medico
dovrà quindi spiegarne con attenzione i meccanismi, i risultati attesi, le modalità di assunzione, evitando di presentare il farmaco come un mezzo di cura
secondario o, ancor peggio, un atto tecnico dalle incerte funzioni.
Non voglio invitare ad atteggiamenti falsamente ottimistici, a negare le difficoltà; non vi è dubbio però
che più accurata è la descrizione fatta dal medico del
ruolo del farmaco, maggiore è l’effetto positivo sul
paziente che si sente curato in modo adeguato. Quindi, sul piano concreto, non sarà sprecato il tempo
dedicato alla descrizione di meccanismi ed effetti; se
il paziente intuisce che la prescrizione fa parte di un
progetto unitario sarà più soddisfatto ed allo stesso
tempo aumenterà significativamente la possibilità di
un’adeguata compliance. Infatti se non è convinto
che il farmaco sia utile perché non gli è stato pre-
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sentato in maniera adeguata, sarà sufficiente la comparsa di qualche effetto indesiderato per sospenderne l’assunzione, così come il mancato raggiungimento dei risultati attesi sarà occasione per mettere in
crisi l’intero rapporto con il medico (l’evento diventa critico se il medico non è riuscito a trasmettere
un messaggio equilibrato sulla terapia, indicando la
possibilità di effetti non soddisfacenti, allo stesso tempo però senza dare l’impressione di un tentativo solo formale). Ancora una volta si comprende come
una visione unitaria del paziente permette di trasmettere informazioni utili per la vita futura.
Tra gli atti preliminari che si devono necessariamente compiere vi è la presentazione del foglietto illustrativo e la spiegazione dei suoi limiti e dei suoi
scopi. Il paziente non deve essere lasciato da solo a
scoprirne il contenuto, senza essere stato informato
del loro scopo prevalentemente medico-legale. La
lettura di effetti indesiderati gravissimi (o di indicazioni terapeutiche lontane da quelle del paziente)
apre la strada ad ansie, incertezze, talvolta vere e proprie paure, che è più difficile lenire a posteriori,
mentre una presentazione convincente da parte del
medico al momento della prescrizione permetterebbe di evitare molte difficoltà. In alcuni casi questo
processo vede al centro la famiglia, quando il paziente si trova nella condizione psichica di non poter
comprendere gli eventuali messaggi. Spesso la famiglia è ancor più importante del paziente nel processo di informazione attorno ad una certa cura; il medico deve comprendere le eventuali dinamiche conflittuali che si muovono al suo interno, particolarmente rilevanti tra il caregiver principale (ad esempio di un anziano affetto da demenza) e gli altri componenti della famiglia, meno coinvolti nell’assistenza, ma particolarmente desiderosi di interferire (le
dinamiche dei sensi di colpa per l’abbandono sono
devastanti!). Non comprendere, o non aver interesse per questi aspetti preclude un’effettiva compliance dei trattanti prescritti, come di fatto avviene di
frequente. Per questo in ambito psicogeriatrico la
relazione con la famiglia deve essere centrale; nonostante scontri, incomprensioni reciproche, frustrazioni il medico sa che è una tappa irrinunciabile della cura, che impegna il suo agire.
Un aspetto importante del ruolo del farmaco nella
relazione medico-paziente è rappresentato dalle terapie a lungo termine, quando viene prescritto per
molto tempo spesso senza l’indicazione di un limite. In questi casi è utile un controllo periodico dei
trattamenti instaurati, sia per ovvi motivi clinici (purtroppo questo non sempre avviene, permettendo il
prolungamento di terapie rinnovate quasi automaticamente, senza porsi interrogativi sull’efficacia e
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sull’eventualità di effetti indesiderati) sia per evitare
che il farmaco possa avere una “vita” autonoma, al
di fuori del rapporto medico-paziente, perdendo
progressivamente di efficacia rispetto ad un vero
progetto di cura; solo l’inserimento della terapia prolungata all’interno di un rapporto con il curante e
la chiarezza rispetto all’unitarietà della condizione
clinica e quindi della terapia permette di recuperare appieno anche l’efficacia del farmaco e la possibilità di trattamenti non sottoposti a continue crisi.
In questi frangenti il medico dovrà porsi tappe precise nel rapporto con il paziente, ognuna delle quali caratterizzata dall’analisi della condizione clinica e
dell’efficacia del farmaco, ma tenendo in conto soprattutto la qualità della vita, la cui valutazione non
è mai assoluta, ma si raggiunge attraverso uno stretto rapporto tra medico e paziente. Ad esempio, se
un paziente iperteso ha anche seri problemi alla deambulazione, e non può quindi recarsi in posti senza un bagno facilmente accessibile perché prende
un diuretico, sarà opportuno cambiare il farmaco
per la pressione. Infatti il paziente -dopo un colloquio con il medico- può esprimere preferenza per
un farmaco che comporta un leggero maggior rischio di ictus, se ciò significa una migliore qualità
della vita (ovviamente il termine è sostanzialmente
sinonimo di visione complessiva della condizione
umana, e quindi anche clinica, della persona). Quante valenze umane, legate alla storia del paziente ed
alle sue sofferenze, entrano in gioco in questi casi; il
medico esperto della mente del suo paziente sarà
più di altri in grado di aggirarsi in meandri difficili,
per trarne indicazioni e offrire una guida utile per
chi deve essere curato.
Il tema della prescrizione farmacologica è stato arricchito di problematica dall’introduzione delle linee guida, strumenti per indurre il medico a collegarsi alle conoscenze scientifiche più accreditate
nel momento in cui decide una prescrizione. Si è
trattato per molti aspetti di un passo avanti del progresso clinico, anche se da alcune parti sono state
formulate critiche, soprattutto perché si teme possano rappresentare un ostacolo sulla strada di un
intenso rapporto medico-paziente9. Il medico potrebbe essere infatti indotto ad impostare meccanicamente il proprio rapporto con l’ammalato, lasciandolo solo nelle decisioni. Non si può escludere che
qualche medico particolarmente orgoglioso della
propria autonomia (ma soprattutto difensore esasperato del proprio potere) si comporti in questo
modo; però, è necessario che su questi temi si trovino nuovi punti di equilibrio, senza nostalgie per il
modello paternalistico del passato, ma anche senza
rinunce alle responsabilità che derivano dalla scienza e dall’esperienza che il medico ha accumulato e
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che impongono di accompagnare il paziente verso
un obiettivo decisionale, anche se questo è già scritto in una linea guida. Fortunatamente da qualche
tempo anche nell’ambito delle regolamentazioni in
ambito terapeutico si aprono spiragli di attenzione
verso le scelte del paziente. Ad esempio, si viene
proponendo la possibilità di inserirne le preferenze
nelle linee guida terapeutiche, in modo da renderle
strumenti utili anche per sviluppare il dialogo, superando la possibilità che possano diventare -come
paventato da taluno- un ostacolo allo sviluppo di relazioni intense4. In questo modo l’evoluzione del
concetto di linea guida porterà nel prossimo futuro
ad un loro adattamento sia alle reali condizioni cliniche (quali, ad esempio, l’età, il livello di autonomia, la comorbilità, i profili di rischio, ecc.) sia alle
preferenze del paziente. Si intravede un cambiamento del pensiero clinico, che alle rigidità tradizionali
sostituisce una sostanziale flessibilità, che coinvolge
profondamente la capacità del medico di comprendere le condizioni del singolo paziente, sia in termini di complessità clinica che di opzioni psicologiche e di stile di vita. Ovviamente queste tendenze
(che ci auguriamo si diffondano sempre più, superando certe tentazioni burocratico-dirigiste, sia sul
piano della ricerca che su quello della clinica) valorizzano il ruolo e le capacità del medico, ma allo
stesso tempo gli impongono un rapporto stretto
con il paziente, condizione indispensabile per scelte impegnative e complesse, che richiedono un particolare coinvolgimento intellettuale e pratico, nonché psicologico.
Una visione d’insieme del paziente per definizione
richiede decisioni in condizioni di incertezza, perché essendo molti i parametri in gioco non è sempre possibile ricorrere ad algoritmi o schematizzazioni. La patologia psicogeriatrica è un elemento
che aggrava le incertezze decisionali. Un aspetto particolare della decisione clinica condivisa riguarda il
passaggio da trattamenti curativi a trattamenti rivolti al controllo dei sintomi ed al benessere del paziente. La decisione del medico si forma da una parte sulla considerazione complessiva della condizione di salute e sull’impossibilità di modificare la storia naturale della malattia, dall’altra sull’esigenza di
migliorare la qualità della vita della persona (controllo del dolore, della respirazione, dell’alvo, ecc.).
Anche in questo caso il coinvolgimento del paziente è estremamente delicato, perché il più delle volte si tratta di persone anziane, non in grado di formalizzare le differenze tra una cura e l’altra. È sufficiente una spiegazione ex post, caratterizzata da una forte vicinanza e quindi da una relazione, nella quale
si afferma che l’eventuale cambiamento della cura è
giustificato dal desiderio di migliorare le condizio-
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ni della persona, agendo sulle sue sofferenze, senza
approfondire verbalmente la riduzione dell’approccio curativo? Se il medico -dopo un’analisi attenta
del quadro clinico- ha raggiunto il convincimento
dell’inutilità, e talvolta anche del danno, provocato
da una certa cura ha il dovere morale di procedere
su questa strada, affrontando a piccoli passi i problemi di comunicazione quando si pongono, senza
l’obiettivo di costruire a priori un quadro di riferimento complessivo. Molto spesso, però, il medico
non ha il “coraggio” di procedere in questo senso: si
lascia prendere dall’incertezza, dalla rassicurazione
che offre il fare. La medicina è per definizione intervento e quindi qualsiasi comportamento diverso
mette a disagio il medico che non riesce a comunicare serenamente con il paziente. E così il rapporto
va avanti faticosamente e spesso con dispersione di
energie. Però, nonostante tutto, anche in presenza
di una scelta palliativa, non esiste in psicogeriatria
l’allocuzione “non c’è più nulla da fare”, come premessa di un abbandono del paziente. Perché sempre vi è un bisogno di accompagnamento che non
finisce da parte di chi soffre e la fiducia nell’uomo che costruisce la relazione in qualsiasi circostanzada parte del medico.
Chi ha la responsabilità di curare alla fine è il decisore anche rispetto all’utilizzazione delle tecnologie per controllare la naturale evoluzione della vita.
Fino a quando il modificare la natura (le malattie) è
giustificato, e quando invece diviene un atto che riduce la natura ad un fantasma di se stessa? Vi sono
sempre più aree grigie nelle quali il paziente viene
a trovarsi tra la vita e la morte ed il medico non ha
alcuna possibilità di dialogo e quindi di indagine sulle scelte intime del suo paziente. È una situazione
delicata, perché il riferimento all’essere persona cosciente non è più possibile né è possibile un riferimento teorico ad una natura che ha subito troppe
modificazioni per essere una guida realistica. Non
vi saranno mai leggi in grado di guidare in questi
momenti decisioni drammatiche.
I servizi in ambito psicogeriatrico
Infine alcune considerazioni sui servizi, il cui ruolo
non è mai secondario rispetto alla possibilità di cure efficaci. La psicogeriatria è la scienza che maggiormente riconosce l’impossibilità di separare la
cura dall’ambiente nel quale essa viene prestata e
dalla sua organizzazione. In passato si utilizzava il
termine “ambiente terapeutico”; anche se non più
di moda, indica un sistema di servizi non autoreferenziali, capaci di rispetto verso le persone fragili
affette da patologie psicogeriatriche. Non è questa la
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sede per riassumere i vari livelli che dovrebbero
comporre una rete di sostegno al paziente ed alla
sua famiglia; interessa però riaffermare che deve essere qualificata de in grado di adattarsi alla specificità dei bisogni. Ad esempio, la persona affetta da demenza sarà particolarmente sensibile, quando deve
afferire ad un ospedale, alle difficoltà indotte da un
ambiente nuovo, apparentemente ostile. In generale si deve ricordare che nell’attuale situazione di restrizione economica vi è il rischio che il paziente affetto da diverse malattie, comprese quelle di ambito
psicogeriatrico, non sia considerato appropriato per
interventi tecnologici e quindi non venga ritenuto
opportuno, ad esempio, il trasferimento da una struttura residenziale ad un ospedale. In questi casi il medico con sensibilità psicogeriatrica sarà il miglior difensore del paziente, alla ricerca di un equilibrio tra
un sostanziale abbandono e la messa in atto di cure
prive di un obiettivo raggiungibile. Le soluzioni “low
care” (mai il provincialismo ha esercitato in modo
così palese la propria influenza negativa, utilizzando terminologia straniera che correttamente tradotta significa sostanzialmente abbandono!) sono profondamente ingiuste, sia per il servizio fornito sia
perché saranno prevalentemente indirizzate verso
pazienti con problemi cognitivi.
Il modello dell’assistenza alla persona anziana con
patologia psicogeriatrica non si sottrae ad una domanda di fondo: la razionalità clinica è uno strumento sufficiente per esercitare le scelte più opportune o spesso il trattamento dell’ammalato è costruito
in base alle circostanze del momento, alla disponibilità di un certo servizio, alle pressioni dei famigliari,
alla stessa disposizione d’animo del medico? Qualche osservatore esterno potrebbe meravigliarsi di
simili osservazioni; ma questa è la vita al cui interno giocano componenti diverse, ciascuna delle quali ha valore e peso e merita rispetto, perché le domande sul significato del nostro impegno non devono mai essere troppo filosofiche o etiche, ma rispondere all’interrogativo semplice (nella fattispecie riferito ad una persona molto ammalata e cognitivamente compromessa): “la sua vita ha ancora significato? E se no, tutte le cure che ha ricevuto sono state uno spreco? Io non so rispondere. Ma io so
che attraverso i suoi deliri, Deedee sembra aver raggiunto un rasserenante equilibrio: a differenza del
resto di noi, lei non ha mai lasciato andare quelli che
ama, perché li conserva nella sua mente delirante”8.
Questa è la vita e noi siamo al suo servizio, anche
quando ha perso valore oggettivo. Ma la psicogeriatria ha insegnato a curare partendo dalla soggettività del malato e mettendo quella del medico, arricchita da una cultura che cerca di avvicinarsi all’oggettività, al servizio della sua sofferenza.
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DOCUMENTI
Associazione Italiana di Psicogeriatria e
riabilitazione: le ragioni di un interesse specifico
e di un impegno concreto per il futuro
Il documento è stato steso da Giuseppe Bellelli dopo una consultazione con i
membri del Gruppo di lavoro AIP
Introduzione
L’evoluzione della demografia e dell’epidemiologia ha messo in luce l’importanza
di dedicare attenzione alle età più avanzate della vita, nelle quali sempre più frequentemente le patologie d’organo si associano a problematiche neurologiche e
psichiatriche ed alla riduzione dell’autonomia funzionale. La medicina si fa quindi sempre di più carico di persone con una rilevante spettanza di vita, per le quali è necessario mettere in atto interventi clinici e riabilitativi, tenendo conto delle condizioni di vita complessive, attraverso modalità di intervento che non segmentino un atto di cura dall’altro.
In questo contesto si colloca il presente documento, che sintetizza le motivazioni di ordine generale e specifiche in ragione delle quali l’Associazione Italiana di
Psicogeriatria ha deliberato di contribuire ad un dibattito ed alla costruzione di una
sensibilità condivisa, importanti al fine di migliorare la prassi clinica sia nell’ambito della medicina per acuti che della riabilitazione e della lungo-assistenza.
Motivazioni generali
Il primo elemento di interesse rimanda al significato più profondo del fare riabilitazione; è necessario infatti ribadire che non è soltanto la semplice rieducazione funzionale.Tanto più se la persona è anziana, l’intervento riabilitativo e rieducativo è solo uno degli strumenti tecnici, cui si aggiungono quello del medico
(che interviene sull’instabilità clinica e sulla comorbilità), dell’infermiere (si pensi ad esempio alla rieducazione della continenza vescicale), del logopedista (che
interviene sui disturbi del linguaggio e della deglutizione), del neuropsicologo
(che esamina le funzioni corticali superiori ritenute fondamentali per un’adeguata riabilitazione) e dello psicologo (che valuta gli aspetti motivazionali e psicologici sia del paziente e della sua famiglia che del personale di cura) in un’ottica di
integrazione multidisciplinare coordinata. Il lavoro riabilitativo si preoccupa anche
della fase post-dimissione, dovendo organizzare, in collaborazione con figure non
sanitarie come l’assistente sociale, il programma assistenziale al domicilio, l’educazione dei caregiver e la pianificazione dei follow-up.
In questa prospettiva,AIP ritiene necessario investire risorse culturali e professionali con il preciso scopo di valorizzare il ruolo dei vari componenti dell’equipe
e mettere a punto gli strumenti di lavoro e di comunicazione interprofessionale
opportuni.
I Corrispondenza: Giuseppe Bellelli, e-mail: [email protected]
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Una seconda motivazione è legata alla necessità
pressante di definire il peso che le problematiche
psicogeriatriche giocano nel condizionare gli obiettivi ed i risultati dell’intervento riabilitativo. Si pensi, ad esempio, alla differente traiettoria di recupero
funzionale che potrebbero avere due pazienti con
lo stesso carico di patologie somatiche, ma differenti profili cognitivi od affettivi, o ancora a quanto singoli deficit cognitivi (disfunzioni attentive od esecutive) possano condizionare i processi di riapprendimento di schemi motori. Si pensi, infine, alla struttura di personalità dell’anziano ed al suo contesto
psico-sociale, che può portare alla predisposizione o
meno verso un impegno riabilitativo. In quest’ottica
andranno riviste anche le misure di outcome tradizionalmente utilizzate che, essendo perlopiù derivate dall’ambito clinico per acuti e quindi basate sulla guarigione, lamentano scarsa specificità in riabilitazione e differente applicabilità nella pratica clinica ove l’anziano, pur recuperando in parte o in tutto, non guarisce.
Una terza motivazione è relativa al fatto che alcune
problematiche emergenti da un punto di vista dell’epidemiologia dei bisogni trovano oggi, purtroppo, ancora poco spazio o soltanto risposte frammentarie ed aspecifiche nei setting riabilitativi. Si pensi,
ad esempio, alla riabilitazione del paziente oncologico ed alle problematiche di ordine psicologico che
spesso ne complicano il trattamento e l’iter riabilitativo. Un ambito di ulteriore interesse è quello della
qualità della vita e della resilienza. Non esistono ad
oggi studi che affrontano in modo sistematico e ragionato la questione delle risorse emotive del soggetto anziano e delle sue capacità di affrontare le
avversità, mentre sono invece molteplici gli studi
che denunciano le criticità del percorso riabilitativo
e le possibili barriere ad un recupero funzionale e fisico ottimale. Eppure, la letteratura segnala con chiarezza che le risorse psicologiche del paziente adulto condizionano in misura importante l’outcome riabilitativo, e svolgono un ruolo protettivo a lungo termine, prezioso ai fini del mantenimento dei traguardi raggiunti. La loro rilevazione nell’anziano in riabilitazione merita quindi un’attenzione maggiore di
quella finora dedicata.
Un’ultima motivazione è di ordine prettamente
“ideologico”.Ancora oggi infatti vi è un atteggiamento di diffuso “ageismo”, che talora assume i connotati di un vero e proprio “nichilismo riabilitativo”, nei
confronti dei pazienti anziani ed una certa tendenza a banalizzare i problemi di natura psicologica o
cognitiva che possono caratterizzarne la gestione.
Non è infrequente sentire trattare da parte degli ope-
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ratori i disturbi dell’umore e d’ansia oppure i deficit
cognitivi come se fossero “esterni” alla problematica
riabilitativa e dunque non pertinenti al progetto di
recupero. Allo stesso modo non vi è l’abitudine a
coinvolgere il caregiver attivamente nell’iter riabilitativo (valutazione delle risorse disponibili, educazione e sostegno psicologico), con tutte le conseguenze che ciò comporta una volta che il paziente
è rientrato al domicilio.
Motivazioni specifiche
Seppure in modo schematico, è possibile delineare
una serie di condizioni che collegano le funzioni dell’encefalo con la riabilitazione motoria nella persona
anziana. Sullo sfondo vi è una problematica ancora
aperta, cioè l’interpretazione se l’atto riabilitativo sia
fondamentalmente bottom-up o top-down, se cioè i
risultati che si ottengono siano dovuti ad una modulazione della funzione cerebrale indotta dalla periferia o se l’encefalo gioca un ruolo autonomo nel guidare il processo riabilitativo. In questo contesto gli
studi sui neuroni mirror hanno aperto scenari nuovi. È stato infatti dimostrato che l’organizzazione somatotopica della nostra corteccia cerebrale è tanto
legata all’osservazione quanto all’esecuzione del movimento stesso, e che i neuroni interessati colgono il
goal dell’azione effettuata purché ci siano gli elementi con i quali ricostruire l’azione. In altre parole diventa anche fondamentale l’osservazione (oltre che
la esecuzione) del movimento e che questo movimento sia “conosciuto dal paziente” (faccia cioè parte della propria memoria procedurale). Ciò ha importanti ripercussioni sulle modalità di erogazione
del trattamento riabilitativo. Da un lato, infatti, diventa quasi essenziale che il riabilitatore sfrutti le capacità mimiche del paziente: tanto più il paziente sarà
poco compliante all’intervento riabilitativo, tanto
più sarà utile “mostrargli” come deve essere effettuato il movimento. Inoltre dovrà privilegiare movimenti già “conosciuti” dal paziente. Infine diventerà fondamentale finalizzare l’intervento riabilitativo al “senso dell’azione”: se infatti il paziente sarà ingaggiato in
attività riabilitative di cui coglie lo scopo (“goal and
person-oriented”), l’intervento sarà più efficace dal
punto di vista del risultato, non soltanto per questioni di tipo motivazionale, ma anche e soprattutto per
questioni di neuroplasticità cerebrale.
Una seconda motivazione riguarda l’apparente querelle tra riabilitazione neuromotoria e riabilitazione
cognitiva. Da tempo è presente una sorta di dualismo tra i due approcci, quasi fosse un “non sense”
pensarne un impiego combinato. Le ragioni di que-
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ASSOCIAZIONE ITALIANA DI PSICOGERIATRIA E RIABILITAZIONE
sto atteggiamento vanno ricercate nel fatto che la
riabilitazione neuromotoria è sempre o perlopiù è
stata appannaggio della scienza fisiatrica, che poco
si è interessata delle problematiche psicologiche e
cognitive, mentre la riabilitazione cognitiva è stata
perlopiù appannaggio della geriatria e della neurologia, che invece poco si interessavano alle problematiche neuromotorie. Nel corso degli anni, in Italia,
la riabilitazione neuromotoria ha finito per non occuparsi quasi mai della riabilitazione cognitiva
(escludendo dal trattamento pazienti con tali problematiche) e, viceversa, la riabilitazione cognitiva
ha finito per concentrarsi solo su pazienti con scarsi o nulli bisogni di riabilitazione neuromotoria (si
pensi, ad esempio, al fatto che la riabilitazione cognitiva -o meglio riattivazione cognitiva- in Italia è
prevalentemente effettuata su pazienti con Mild Cognitive Impairment o con demenza di Alzheimer lieve-moderata in regime di day-hospital o nei centri
diurni).Al contrario, è giunto il momento di superare queste contrapposizioni. Le evidenze sopra riportate relative ai neuroni mirror, ed altre derivanti dalle neuroscienze, supportano infatti la complementarietà degli interventi con lo scopo di preparare le
funzioni cognitive al task motorio e viceversa. Inoltre è ampiamente dimostrato che intensità degli stimoli riabilitativi ed ambienti di cura arricchiti, purché congrui alle capacità adattive dei pazienti, migliorano gli outcomes.
In questo contesto si dovrà trovare spazio anche per
una valutazione degli effetti di possibile sinergia tra
gli interventi farmacologici (per problematiche psicogeriatriche) e non farmacologici (riabilitativi).
Inoltre, che ruolo gioca in questa luce l’effetto placebo, a sua volta sotto l’influenza di fattori come la
relazione con il medico ed il terapista, la qualità dell’ambiente di cura (con le peculiarità proprie di un
ospedale, di una residenza, della casa, ecc.), il rapporto premorboso paziente-famiglia, le origini psico-sociali del malato, la sensibilità diffusa verso le
problematiche delle persone anziane?
Una terza motivazione è rappresentata dalla necessità di definire quale debba essere il rapporto tra paziente ed operatore della riabilitazione. Deve infatti
essere lamentato che, nonostante sia a tutti noto
quanto è rilevante dal punto di vista del raggiungimento dei risultati che l’operatore della riabilitazione (ed il fisioterapista in primis) sia capace di entrare in empatia con il paziente da riabilitare, tale argomento è di fatto scotomizzato nelle sedi di formazione professionale. Gli approcci riabilitativi che so-
10:28
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23
no oggetto di insegnamento nei corsi di laurea e nei
tirocini sono infatti perlopiù mutuati dai modelli di
riferimento per pazienti giovani o adulti. Ne deriva
un’evidente incapacità ad accettare pazienti che non
appaiano in grado di fornire un’adesione piena al
trattamento riabilitativo. In altri termini chiunque
non sia in grado di cooperare attivamente al recupero viene di fatto dichiarato non idoneo al trattamento e non riabilitato. I casi più eclatanti riguardano il delirium, la demenza e la depressione -singolarmente o in associazione-, ma non fanno eccezione, talora, anche altre condizioni cliniche di frequente riscontro come l’ictus o le varie forme di parkinsonismo. In questo ambito l’intero processo riabilitativo si misura con il susseguirsi di condizioni che
possono cambiare, indotte anche da eventi più o
meno stressanti, che attivano particolari stati d’animo e richiedono risposte non sempre facilmente ottenibili. Al contrario, vi sono evidenze crescenti, derivanti da metanalisi e randomized clinical trials, che
anche nei pazienti anziani affetti da gravi problematiche cognitive e psicologiche, interventi riabilitativi specifici ed orientati sono non solo possibili, ma
anche efficaci dal punto di vista dei risultati.
Infine la psicogeriatria riguarda le dinamiche che
accompagnano gli operatori di fronte ad una persona molto anziana, caratterizzata da polipatologia e
rilevanti compromissioni della funzione. Chi si cura di chi si prende cura? Tale argomento rientra nel
tradizionale campo di interesse di AIP ed è fondamentale non soltanto per fornire un supporto generico alle preoccupazioni ed allo stress di chi si occupa del paziente, ma anche, e soprattutto, per formarlo ed educarlo convenientemente. Si pensi, ad esempio, a quanto possa essere cruciale un’adeguata preparazione del(la) badante per la prevenzione delle
cadute: studi recenti hanno dimostrato che alcuni
anziani sono maggiormente predisposti alle cadute
se ricevono stimoli verbali inappropriati mentre
compiono movimenti impegnativi (“dual task interference”) oppure se accuditi da caregiver ansiosi.
Mettere in atto interventi formativi e di supporto
per l’equipe e per i caregiver, in modo che l’atto di
cura trovi fondamento in motivazioni cliniche ed
umane, evitando il rischio di ageismo o di pessimismo, diventa fondamentale. A questo proposito il
collegamento con una società scientifica come AIP
permette di costruire programmi di studio volti a
misurare i risultati degli atti clinici, per collegare specifiche modalità di intervento con l’ottimizzazione
dei risultati stessi.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
Raccomandazioni cliniche sull’utilizzo
di antidepressivi nel paziente anziano:
l’esperienza della Regione Liguria
MARCO VAGGI1, CARLO SERRATI2, LUIGI FERRANNINI1
1 Dipartimento
Salute Mentale e delle Dipendenze, ASL 3 “Genovese”
San Martino, Genova
2 Dipartimento Testa-Collo, AOU
Riassunto
Obiettivi
La depressione nella Regione Liguria ha un’incidenza di 50.000 nuovi casi di depressione l’anno con alta prevalenza nella popolazione anziana rispetto al resto
d’Italia a causa della sua particolare composizione demografica (vd rapporto Regione Liguria 2007).
In un’ottica di Sanità Pubblica, questi dati giustificano una grande attenzione per
quelle che sono le strategie organizzative, i percorsi di cura e le pratiche terapeutiche secondo criteri di buona pratica clinica.
Metodi
La Regione Liguria nel 2008 ha costituito una specifica “Sottocommissione per le
patologie psichiatriche e neurologiche” con il compito di definire raccomandazioni di buona pratica clinica nell’utilizzo di farmaci nel proprio settore di competenza. I lavori della sottocommissione hanno portato nel Dicembre 2009 alla pubblicazione di un documento di indirizzo alle Aziende Sanitarie per il trattamento
farmacologico della depressione nel paziente anziano, assunto con Delibera della
Giunta Regionale n 1878 del 22.12.09 e trasmesso per gli aspetti applicativi a tutte le Aziende Sanitarie ed Ospedaliere della Regione.
Risultati
Vengono illustrati i principi ispiratori del documento e parti specifiche riguardanti i dati relativi ai pattern prescrittivi a livello regionale.
Conclusioni
Sono auspicabili ulteriori studi specifici su pazienti anziani affetti da depressione,
nonché progetti specifici di monitoraggio clinico, che permettano di definire meglio profili di trattamento e possano favorire programmi di miglioramento della
qualità prescrittiva.
Il documento prodotto dalla Regione Liguria appare, nelle nostre intenzioni, un
primo tentativo di gettare le basi di un approccio in questo campo che tenga insieme criteri di appropriatezza metodologica (confronto con linee guida secondo un
approccio evidence based), clinica (efficacia nel real-world), etica (beneficialità per
il singolo paziente), ed economica (sostenibilità del sistema, costi/beneficio).
I Corrispondenza: Dr M.Vaggi,Via Monte Cucco 13 - 16157 Genova, e-mail: [email protected]
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RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI NEL PAZIENTE ANZIANO
Introduzione
Negli ultimi anni il termine appropriatezza è stato
il filo conduttore dei principali documenti di programmazione sanitaria per definire l’essenzialità ed
il finanziamento di servizi e prestazioni sanitarie.
La conferma definitiva arriva con il Piano Sanitario
Nazionale 2003-2005 dove si afferma che: “Le prestazioni che fanno parte dell’assistenza erogata, non
possono essere considerate essenziali, se non sono
appropriate”.
In realtà, il termine appropriatezza - riferito ad interventi, servizi e prestazioni sanitarie- si articola attraverso una serie di sfumature concettuali che richiedono
un preciso inquadramento, al fine di creare quel linguaggio comune che permetta a tutti gli attori di un
sistema sanitario (professionisti, decisori, utenti) di
capire che “stiamo parlando della stessa cosa”.
Un servizio-prestazione-intervento sanitario può essere definito appropriato secondo due prospettive
complementari:
1. professionale: se è di efficacia provata, viene prescritto per le indicazioni cliniche riconosciute ed ha
effetti sfavorevoli “accettabili” rispetto ai benefici;
2. organizzativa: se l’intervento viene erogato in
condizioni tali (setting assistenziale, professionisti
coinvolti) da “consumare” un’appropriata quantità
di risorse.
Da queste definizioni emergono subito alcune criticità:
a) robuste prove di efficacia sono disponibili solo
per una parte degli interventi sanitari erogati,
con un netto sbilanciamento verso i trattamenti farmacologici, rispetto agli interventi preventivi ed assistenziali;
b) il profilo beneficio-rischio degli interventi sanitari viene generalmente sovrastimato;
c) dalle evidenze disponibili (evidence-based medicine) per la sistematica tendenza, sia a non pubblicare gli studi negativi, sia a minimizzare gli effetti sfavorevoli degli interventi sanitari riportandoli in maniera insufficiente ed incompleta;
d) l’efficacia, la costo-efficacia e l’efficienza delle
modalità organizzative dell’assistenza, hanno a
supporto prove di efficacia limitate e difficilmente trasferibili tra i vari contesti.
Tutto ciò fa si che l’appropriatezza di innumerevoli
interventi sanitari, si articoli attraverso una scala di
grigi nella quale non è possibile tracciare nette delimitazioni.
Negli ultimi anni, nel quadro dell’Evidence-based
Medicine, viene enfatizzata la necessità che i criteri
di appropriatezza vengano definiti con riferimento
esplicito alle migliori evidenze disponibili, adeguatamente “pesate” per la loro metodologia e per la rilevanza clinica.
25
Pertanto, le linee guida cliniche, prodotte da gruppi multidisciplinari con metodologia evidence-based ed adattate al contesto locale in maniera esplicita, rappresentano lo strumento di riferimento per
definire i criteri di appropriatezza professionale e,
raramente, anche organizzativa. Dal canto loro, tutti i processi di consenso formale costituiscono solo uno strumento integrativo da utilizzare nelle numerose aree grigie dove le evidenze disponibili
(scarse o contraddittorie) non forniscono adeguate
certezze.
In Psichiatria il tema dell’appropriatezza si può giustamente considerare lo spartiacque tra un intervento
sanitario pragmatico e soggettivo ed un intervento
fondato sulle evidenze e valutabile in ogni sua fase.
Essa costituisce inoltre il punto di incrocio tra dimensione tecnico-scientifica (far bene ed al momento giusto le cose giuste) e dimensione economicogestionale (usare al meglio risorse limtate), ma anche dimensione etico-deontologica (la centralità del
principio di beneficialità per il paziente).
In questa direzione -sulla base delle precedenti considerazioni- assumono un ruolo fondamentale le Raccomandazioni cliniche, come indicazioni di comportamento rivolte ai professionisti per aiutarli ad adottare le decisioni più appropriate nelle varie situazioni cliniche. I campi di applicazione sono molteplici: definizione di un appropriato utilizzo di specifici interventi diagnostici e/o terapeutici, identificazione di strategie appropriate per la gestione di specifiche condizioni cliniche, miglioramento del rapporto costo/efficacia delle procedure sanitarie, miglioramento dell’organizzazione dei servizi e dell’uso delle risorse.
Depressione, popolazione anziana, uso di
psicofarmaci: la situazione della Regione
Liguria
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ritiene che
entro il 2020 la Depressione Maggiore costituirà la
seconda causa di disabilità nel mondo, superando
quella determinata da patologie più comuni quali
l‘artrite o l’ipertensione. In Italia si stima che ogni
anno circa un milione e mezzo di persone adulte soffrano di un disturbo depressivo (3,5% popolazione,
2% maschi e 4,8% femmine) (studio ESEMed 2005)
con una prevalenza lifetime circa del 10%.
Pur con una notevole variabilità legata a differenti
contesti socioculturali (contesto urbano vs extraurbano, indice di deprivazione sociale etc) ciò si traduce, in una Regione come la Liguria, in circa 50.000
nuovi casi di depressione l’anno (vd rapporto Regione Liguria 2007).
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È evidente che, in un’ottica di Sanità Pubblica, questi dati giustifichino una grande attenzione per quelle che sono le strategie organizzative, i percorsi di
cura e le pratiche terapeutiche volte ad avvicinare il
maggior numero di cittadini affetti da depressione
verso un sistema cure adeguate, a contenere i rischi
prognostici correlati a condizioni cliniche non trattate (cronicizzazione, disabilità permanenti, maggior
incidenza e peggioramento nel decorso di patologie somatiche, maggior rischio di suicidio) nonché
a formulare programmi volti a monitorare e migliorare l’appropriatezza degli interventi attuati (Ministero della Salute 2005).
Facendo propri gli indirizzi del Ministero, la Regione Liguria, con DGR n 66 del 15.12.2008, formalizzava la costituzione, all’interno della Commissione
Regionale per l’appropriatezza terapeutica, di una
specifica “Sottocommissione per le patologie psichiatriche e neurologiche” composta da specialisti
universitari ed ospedalieri (psichiatri, neurologi, farmacologi) e da un medico di medicina generale. La
Commissione riceveva il preciso mandato di elaborare linee guida e raccomandazioni cliniche per il
miglioramento dell’appropriatezza prescrittiva”.
Tenendo conto delle evidenze epidemiologiche e
della composizione strutturale della popolazione
nella nostra Regione con una proporzione crescente di soggetti anziani, l’attenzione della Commissione veniva prioritariamente posta sul problema del
trattamento della depressione in età senile ed in particolare di un suo corretto inquadramento e trattamento farmacologico.
I lavori della Commissione portavano all’approvazione da parte della Regione Liguria (DGR 1878 del
22.12.2009) di un documento di indirizzo alle Aziende Sanitarie ed Enti Equiparati per il trattamento farmacologico della depressione nel paziente anziano.
Il metodo seguito nella stesura del documento è stato quello di evitare di limitarsi all’analisi di pattern
prescrittivi, ma di strutturare un ragionamento che,
prendendo spunto da dati di consumo, potesse integrare informazioni ricavate da linee guida e dati di
letteratura, al fine da definire maggiormente un percorso diagnostico terapeutico.
Pur non volendo riportare in questa sede integralmente il documento, verranno illustrate di seguito
alcune riflessioni relative all’utilizzo di farmaci nel
paziente anziano
Psicofarmaci ed anziani
Esiste un’ampia letteratura sull’epidemiologia degli
psicofarmaci che, in Italia e nel mondo, ha identificato in maniera consistente come nel corso degli ul-
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
timi decenni si sia assistito ad un fenomeno di crescita delle prescrizioni di antidepressivi e antipsicotici in particolare nella popolazione anziana6. Considerando le prescrizioni nel periodo Gennaio-Novembre 2008 (calcolate con DDD per 1000 res/die) la
Liguria mostra un pattern prescrittivo nella popolazuione generale che è marcatamente superiore alla
media italiana (50 vs 32 DDD nella popolazione residente) senza grossolane differenze tra le molecole
presenti sul mercato.
L’uso di antidepressivi cresce in progressione con
l’età del paziente (6-7 soggetti di età superiore a 65
anni trattati ogni 100 abitanti contro il 4-5 su 100
nella popolazione generale) senza che questo trovi
alcun riscontro nei tassi di prevalenza (esordio prevalente della depressione tra 20 e i 40 aa). L’incrocio
dell’epidemiologia dei farmaci con quella delle malattie farebbe cioè ipotizzare che una frazione rilevante di prescrizioni sembrerebbe non seguire razionali clinici ma rispondere piuttosto a problemi
che appartengono ad aree grigie della medicina, in
cui i sintomi psicopatologici si intersecano con malattie fisiche, bisogni assistenziali e relazionali, problemi di decadimento cognitivo e conseguenti anomalie comportamentali7.
È altresì noto che una parte considerevole della popolazione affetta da depressione, malgrado tutti gli
sforzi compiuti nel campo dell’informazione sanitaria e nel miglioramento del sistema delle cure, ancora oggi non accede ad alcuna forma di aiuto sanitario e, tra quelli che arrivano all’attenzione medica, una quota considerevole di pazienti (dal 40 al
50% dei casi a seconda dei campioni) non riceve
una diagnosi corretta o, se adeguatamente diagnosticata, non riceve una terapia di dimostrata efficacia, secondo criteri di EBM (es: uso cronico di ansiolitici in monoterapia, preparati “aspecifici” come
“tonici”, polivitamici, preparati a base di “erbe” etc).
Ciò può derivare, in particolare nel paziente anziano, da una serie di pregiudizi di ordine sia culturale
che clinico, quali, ad esempio, ritenere la condizione
depressiva una conseguenza inevitabile della vecchiaia, il ricondurre la sintomatologia alla coesistenza, molto frequente, di patologie somatiche o di deficit cognitivi connessi all’invecchiamento oppure
a ritenere nell’anziano l’impiego di antidepressivi
troppo “rischioso”.
Volendo quindi affrontare il tema dell’appropriatezza prescrittiva del trattamento antidepressivo nel
soggetto anziano riteniamo che qualsiasi raccomandazione clinica debba sempre tenere presente questi diversi punti di osservazione8.
Da un lato appare ineludibile uno sforzo per limitare il ricorso a farmaci antidepressivi a situazioni ben
definite sul piano clinico e secondo attente valuta-
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RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI NEL PAZIENTE ANZIANO
zioni di rischio/beneficio; ciò significa non solo rinunciare ai farmaci quando non ci sono precise indicazioni per il loro utilizzo, ma soprattutto orientare la propria scelta seguendo rigorosi criteri di efficacia, maneggevolezza e tollerabilità; ciò appare particolarmente importante in soggetti, come gli anziani, che rappresentano una popolazione “fragile” e
vulnerabile sul piano fisiologico (modificazioni legate all’invecchiamento, diverse capacità cataboliche, diversa cinetica dei farmaci etc), spesso soggetta a politerapie.
D’altra parte appare altrettanto importante compiere ogni sforzo per avvicinare il maggior numero di
pazienti affetti da depressione a trattamenti adeguati, contrastando l’esposizione a trattamenti non sostenuti da prove di efficacia e condizionati da potenziale iatrogenicità
Trattamento farmacologico della
Depressione nel paziente anziano
La decisione di trattare farmacologicamente un paziente anziano che presenta un episodio depressivo
deve essere presa in base alla gravità delle manifestazioni cliniche che caratterizzano l’episodio stesso.
Elementi decisivi per valutare la gravità di una depressione sono:
Tabella 1
27
• presenza di sintomi patognomonici
• durata dell’episodio di almeno 2 settimane
• il grado di riduzione del funzionamento socio relazionale e dell’autonomia rispetto al periodo premorboso.
La decisione di iniziare un trattamento con AD richiede sempre un’accurata valutazione, oltre che degli aspetti psicopatologici, anche di eventuali fattori scatenanti (psicologici, relazionali, biologici, etc.)
che possono aver contribuito all’insorgenza dell’episodio. Una corretta identificazione di tali fattori può
infatti garantire un approccio terapeutico-assistenziale al singolo caso più completo ed individualizzato. Per quanto riguarda i fattori di ordine biologico, che negli anziani assumono particolare rilevanza, va considerata la possibilità che lo stato depressivo rappresenti una condizione secondaria ad una
malattia organica e/o ad una terapia farmacologica
(es antipsicotici, gastrocinetici, antivertiginosi, cortisonici, beta-bloccanti etc.)
Le linee guida NICE dell’Associazione Psichiatrica
del Regno Unito, importanti perché formulate in un
contesto che, pur con alcuni peculiari differenze, è
basato come il nostro SSN su un sistema di sanità
pubblica, offrono un utile algoritmo che definisce i
percorsi di cura secondo un modello a “gradini” di
un quadro depressivo (tabella 1).
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Dalla tabella risulta evidente il ruolo fondamentale
della Primary Care nel riconoscimento e nella gestione dei disturbi depressivi. Solo una minoranza
di casi richiede, per le sue caratteristiche cliniche,
l’intervento diretto di strutture specialistiche.
Il trattamento farmacologico appare in generale
giustificato solo in condizioni di depressione con
caratteristiche cliniche particolari, di intensità clinica moderata grave e con interferenza evidente
sul livello di funzionamento personale e sociale del
paziente.
I risultati degli studi controllati che documentano
l’efficacia degli antidepressivi nella fase acuta di episodi depressivi di intensità moderata e grave nell’anziano riportano tassi di risposta variabili dal 50 al
70% rispetto ai pazienti trattati con placebo che non
superano il 30%. Il tasso è comunque leggermente
inferiore a quello riportato negli studi effettuati su
soggetti giovani13.
Criteri di scelta di un antidepressivo
Tra i numerosi composti ad attività antidepressiva
presenti sul nostro mercato la scelta da impiegare
in un paziente anziano deve tenere conto principalmente dei seguenti parametri di riferimento:
• farmaco di provata efficacia antidepressiva
(tabelle 2 e 3): esistono farmaci che, pur proposti come antidepressivi, possiedono una documentazione scientifica poco consistente nella depressione maggiore;
• profilo di tollerabilità e sicurezza: presuppone la conoscenza del profilo farmacodinamico
della molecola ed un’attenta valutazione delle
condizioni organiche di base del paziente;
• potenziale rischio di tossicità: tenere sempre in
considerazione il rischio di un sovradosaggio per
assunzione accidentale o per volontarietà suicidaria (preferire composti a basso rischio di tossicità);
Tabella 2. Dosaggi dei farmaci antidepressivi consigliati negli anziani
Farmaco
Dosaggio iniziale (mg/die)
Dosaggio terapeutico (mg/die)
Triciclici
10/25
50-100
Citalopram
10
10-40
Fluoxetina
10
10-40
Fluvoxamina
25
50-200
Paroxetina
10
10-40
Sertralina
50
50-200
Escitalopram
5
10-20
Mirtazapina
15
15-45
Venlafaxina
37,5
75-225
Duloxetina
30
60-90
Reboxetina
2
2-4
Bupropione
75
150-300
Trazodone
50
150-450
Modificato da Vampini-Bellantono 2002, Alexopoulos 2005
Tabella 3. Farmaci con documentazione scientifica poco consistente
S-adenosilmetionina (SAMe)
Preparazioni a base di iperico
Associazioni di polivitaminici
Triptofano
Modificato da Vampini-Bellantono 2002, Alexopoulos 2005
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RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI NEL PAZIENTE ANZIANO
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Tabella 4. Criteri per la scelta dell’antidepressivo
Storia personale di risposta a precedenti trattamenti
Tipo di depressione (eventuale comorbilità)
Storia familiare di risposta a precedenti trattamenti
Profilo degli effetti collaterali
Presenza di concomitante disturbo organico
Assunzione di altri farmaci
Interferenza con lo stile di vita del paziente (eventuale collateralità)
Adesione al trattamento (es monoterapia)
Costi del trattamento
Esperienza del medico
Preferenze del paziente
• possibili interazioni farmacocinetiche: considerare il profilo farmacocinetico in pazienti frequentemente esposti a politerapie (es: preferire
molecole senza effetti di inibizione-induzione sul
sistema dei citocromi);
Accanto ai paramentri di riferimento sopra riportati, esistono altri criteri che permetto di personalizzare ulteriormente la scelta dell’antidepressivo nel
singolo paziente (tabella 4).
Gestione della terapia
Negli adulti giovani la risposta ai farmaci AD presenta tempi di latenza variabili dalle 2 alle 4 settimane.
Negli anziani spesso si osserva una risposta tardiva
agli AD che è ricollegabile a diversi fattori (modificazioni farmacodinamiche legate all’invecchiamento,
riduzione dei sistemi neurochimici coinvolti nell’azione dei farmaci, ritardato raggiungimento dello
steady state e prolungamento emivita etc) e consiglia un’attesa, se possibile, di 4-8 settimane prima di
considerare la terapia inefficace.
Vista la particolare sensibilità degli anziani agli effetti indesiderati degli AD, è opportuno seguire il
principio generale che raccomanda di iniziare con
una titolazione graduale sino a raggiungere la dose
ottimale in 7-10 giorni dall’inizio del trattamento.
Pur essendoci un range terapeutico che identifica
la dose efficace di ciascun preparato, generalmente
i dosaggi ritenuti ottimali negli anziani sono inferiori a quelli consigliati per gli adulti giovani.
Per quanto riguarda la durata del trattamento della
depressione late-onset, tenendo conto degli aspetti
prognostici sfavorevoli già evidenziati in precedenza, è opinione largamente condivisa nella letteratu-
ra internazionale che, dopo un episodio insorto per
la prima volta in età senile, il trattamento debba essere proseguito per almeno 2 anni. La presenza di
fattori quali: gravità dell’episodio, tentativi di suicidio, malattie somatiche e familiarità per i disturbi
dell’umore, suggerisce una profilassi farmacologica
che duri anche più a lungo.
Pur essendo ogni molecola antidepressiva viziata da
uno specifico profilo di collateralità che va attentamente tenuto in considerazione dal clinico, alcuni
effetti collaterali vanno tenuti in particolare attenzione nei soggetti anziani in quanto rappresentano
aree di particolare vulnerabilità (tabella 5).
Considerazioni sull’uso in Liguria
di antidepressivi
Considerando i dati complessivi di utilizzo nella Regione Liguria di antidepressivi nel periodo Gennaio-Dicembre 2008 il dato più rilevante appare un
pattern prescrittivo che è marcatamente superiore
alla media italiana (una DDD per 1000 res./die di 50
vs 32 circa a livello nazionale) per tutte le molecole presenti sul mercato. Il pattern appare però differenziato a seconda della provincia con andamento progressivamente decrescente dalla ASL 5 alla ASL
1 (per esempio per gli SSRI rispettivamente da 53 a
30 DDD/1000 residenti da Spezia a Imperia con una
media nazionale di 25).
Ciò si rispecchia in una spesa netta di SSRI per 1000
abitanti nella nostra Regione pari a 5.750,14 Euro
decisamente superiore (149%) rispetto alla media
nazionale pari a 3.850,66 pur in uno scenario in cui
il differenziale di spesa netta tra 2007 e 2008 presenta una percentuale migliore rispetto alla media
nazionale (-2,32% vs -1,50%).
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Tabella 5. Effetti indesiderati più pericolosi negli anziani
Meccanismo d’azione coinvolto
Possibili conseguenze cliniche
Anticolinergici centrali
Turbe della memoria
Stati confusionali
Anticolinergici periferici:
secchezza fauci
Caduta delle protesi dentarie
Candidosi orali
Parotiti
riduzione motilità intestinale
Malnutrizione
Ileo paralitico
ritenzione urinaria
Infezioni vie urinarie
midriasi
Disturbi accomodazione
Glaucoma angolo chiuso
tachicardia sinusale
Scompenso cardiaco
Sindrome da inappropriata secrezione
di ormone antidiuretico (SIADH)
Astenia
Crampi muscolari
Confuzione mentale e vertigini sino al delirium
Antistaminici
Sedazione
Alterazioni della performance psicomotoria e cognitiva
Adrenolitici
Ipotensione ortostatica
Sincopi con cadute (rischio fratture)
Cardiopatie ischemiche
Effetti chinidino-simili
Blocchi di branca
Blocchi A-V
Aritmie ventricolari
Blocco serotoninergico
Nausea e perdita appetito (possibile dima-gramento)
Sindromi extrapiramidali
Minor aggregabilità piatrinica (possibili sanguinamenti in soggetti a rischio)
Sindrome da “apatia cronica”
Sindrome serotoninergica
Prendendo in considerazione il consumo di alcuni
principi attivi degli SSRI (la famiglia di antidepressivi più utilizzata), spiccano alcune differenze nei
consumi che sembrano poco giustificabili da un
punto di vista clinico.
Infatti un primo dato che si evidenzia è la marcata
differenza di utilizzo tra i diversi principi attivi nelle
diverse ASL con prevalenza di prescrizioni di Sertralina e Citalopram nel Levante (Spezia - Chiavari) rispetto ad un maggior utilizzo di Paroxetina nel Centro-
Ponente (Genova - Savona) con l’ASL Imperiese che
appare in questo caso in una situazione intermedia, in
linea con i dati nazionali. Pur ad una valutazione così
superficiale queste differenze sembrerebbero rispecchiare uno “stile” prescrittivo piuttosto che la conseguenza di differenze cliniche nella popolazione trattata e meriterebbero analisi più approfondite.
Considerando le prescrizioni di SSRI, queste coprono circa l’80% delle DDD totali degli antidepressivi;
se si confronta però questo dato con il totale della
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RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI NEL PAZIENTE ANZIANO
spesa questi farmaci, in proporzione nel complesso
meno onerosi, determinano una spesa di circa il 5060% della spesa totale. Malgrado ciò esistono differenze di costo anche marcate tra singole molecole o
diverse formulazioni (es. formulazioni in gocce vs
compresse).
In generale i dati di consumo in Liguria spingono
verso la necessità di una generale attenzione da parte dei clinici sull’appropriatezza prescrittiva di antidepressivi, con l’esigenza di studi più approfonditi su popolazioni specifiche (es. anziani, giovani, situazioni di comorbilità) e sulla definizione di percorsi di trattamento maggiormente condivisi.
Altri farmaci utilizzati nel trattamento
della depressione:
Benzodiazepine (BDZ): non hanno attività depressiva. Possono essere utili nel breve periodo per il
controllo di sintomi ansiosi e dell’insonnia, ma nell’anziano possono determinare reazioni paradosse
ed indurre stati confusionali (rischio cadute). Non
giustificato l’utilizzo continuativo per il rischio di
peggiorare il quadro depressivo, la performance cognitiva e per favorire sindrome da dipendenza. Se utilizzate, usare dose minima efficace, preferire composti a breve emivita e senza metaboliti attivi ed evitare terapie “al bisogno” che favoriscono una tendenza alla auto prescrizione, senza controllo medico.
Considerazioni sull’utilizzo di
Benzodiazepine (BDZ) in Liguria
I dati prescrittivi in Liguria evidenziano l’ampio utilizzo di BDZ in assenza pressoché totale di indicazioni cliniche per trattamenti a lungo termine5; questo dato appare in parte probabilmente correlato a
problemi di autoprescrizione in assenza di adeguato controllo medico ed a conseguenti sindromi da
dipendenza.
Nel I semestre 2008 si sono prescritti il Liguria
1.460.517 Unità di ansiolitici (quasi un’unità per
abitante).
Possiamo prendere ad esempio il LORAZEPAM che
è stato prescritto nel semestre in 622.544 unità (valore superiore alla somma totale di antidepressivi
ed antipsicotici prescritti nello stesso periodo).
Malgrado questi dati per certi aspetti preoccupanti,
la tendenza prescrittiva negli ultimi anni si è avviata
verso una regolare decrescita su tutto il territorio regionale. Anche qui però permangono marcate differenze nei pattern prescrittivi con DDD/1000 abitanti che variano da 31,9 dell’ASL Genovese, sino ai 13,9
31
dell’ASL di La Spezia. La situazione appare quasi speculare rispetto a quanto sopra evidenziato nel consumo di antidepressivi e forse in parte a ciò correlata.
Permane comunque il dato di una massiccia prescrizione di ansiolitici che, sebbene non incida sul bilancio regionale trattandosi di farmaci il cui acquisto
è a totale carico del cittadino, pone numerosi interrogativi sul piano dell’appropriatezza e giustificherebbe approfondimenti specifici e strategie di monitoraggio più attente.
Antipsicotici (AP): Impiego considerato razionale
(in associazione) solo nella depressione con sintomi psicotici (allucinazioni, deliri etc), gravi stati di
agitazione, Depressione bipolare. Sono da evitare le
associazioni AD-AP predeterminate.
Gli antipsicotici atipici (SGA) sembrerebbero meglio
tollerati e possono essere utilizzati come strategia di
augmentation nelle forme depressive resistenti. Richiedono sempre attenta valutazione rischi-benefici.
Stabilizzatori dell’umore: non hanno attività antidepressiva diretta; sono utilizzati nella Depressione
bipolare in acuto ed in profilassi. Il Litio viene utilizzato nel disturbo depressivo ricorrente e come
augmentation nella Depressione resistente. Richiedono regolari monitoraggi ematochimici
Le osservazioni sin qui fornite non valgono per i soggetti affetti da Depressione Bipolare in cui gli antidepressivi vanno utilizzati con estrema cautela (e
sempre associati a stabilizzatori dell’umore) per il rischio di favorire viraggi maniacali e destabilizzazione
timica nel lungo termine (comparsa di quadri misti
dell’umore). Ciò vale anche per pazienti che, pur non
avendo o non riferendo alcun precedente anamnestico indicativo per malattia bipolare (anamnesi raccolta anche con l’aiuto dei familiari) presentano fattori
di rischio per una vulnerabilità di spettro bipolare
(familiarità positiva per disturbi bipolari, aspetti temperamentali di tipo ipertimico e ciclotimico, pregresse risposte paradosse o sviluppo di pseudoresistenza agli AD etc). Per la gestione di questi pazienti si rimanda a specifiche raccomandazioni cliniche.
Depressione resistente
La prevalenza di depressione resistente (mancata
risposta a 2 diversi trattamenti efficaci a dosi e tempi adeguati, più una strategia di augmentation) negli anziani viene stimata da vari autori tra il 18 ed il
40% dei casi. In circa il 30% degli anziani presenterebbe una risposta parziale, continuando a presentare sintomi residui spesso subsindromici, che sono però spesso fonte di grave disagio9. Più spesso i
pazienti presentano condizioni di pseudoresistenza
dovute ad un trattamento inadeguato o ad una intol-
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leranza allo stesso che ne ha condizionato una corretta assunzione.
Da un punto di vista operativo le domande a cui un
clinico dovrebbe porsi di fronte ad un paziente anziano depresso che non risponde al trattamento sono illustrate nella tabella 6.
Affrontare correttamente gli eventuali problemi posti da queste domande consentirebbe di ridurre al
50% la percentuale dei non responder15.
Esistono fattori clinici che possono comunque concorrere a determinare negli anziani affetti da Depressione una resistenza ai trattamenti (tabella 7).
Considerazioni conclusive
Sebbene gli anziani siano soggetti a particolare rischio
per l’insorgenza di disturbi depressivi a causa di molteplici eventi di perdita connessi all’invecchiamento,
la depressione ad esordio nell’età senile è spesso sotto diagnosticata o non adeguatamente trattata. Le conseguenze fisiche e psicologiche di una depressione
non trattata possano essere molto gravi (elevato tasso di ricadute, incremento di mortalità naturale e per
suicidio, prognosi peggiore di malattie organiche con
maggior ricorso a cure ospedaliere e residenziali). È
auspicabile un miglioramento del tasso di riconoscimento e del livello di adeguatezza delle cure fornite,
come suggerito da più parti1.
Lo studio dell’epidemiologia degli psicofarmaci impone altresì grande attenzione verso l’utilizzo di criteri diagnostici generici ed iperinclusivi (es. sindro-
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me ansioso-depressiva) ed un correlato ed estensivo ricorso a farmaci antidepressivi al di fuori di
chiare indicazioni cliniche.Tale cautela è giustificata a nostro avviso da ragioni etiche, tecnico-professionali e di economia sanitaria. Sono auspicabili ulteriori studi specifici su questa tipologia di pazienti, nonché progetti di monitoraggio clinico, che permettano di definire meglio profili di trattamento e
possano favorire programmi di miglioramento della qualità prescrittiva.
Appare altresì evidente come talvolta interventi volti a migliorare l’appropriatezza prescrittiva, sotto la
pressione di un maggior governo della spesa, rischino di trasformarsi in mere operazioni di contenimento dei consumi, iper-semplificando, nei fatti, fenomeni complessi. Il problema dell’appropriatezza
non può cioè essere appiattito su variabili meramente quantitative (siano esse legate ai consumi od alla
spesa complessiva), ma partendo dai problemi di covering e focusing già citati, dovrebbe arrivare a valutazioni di costo/beneficio, non solo su coorti di popolazioni selezionate (come quelle che vengono studiate negli RCT), ma secondo criteri di beneficialità
per il singolo paziente.
Il documento prodotto dalla Regione Liguria appare, nelle nostre intenzioni, un primo tentativo di gettare le basi di un approccio in questo campo che
tenga insieme criteri di appropriatezza metodologica (confronto con linee guida secondo un approccio
evidence based), clinica (efficacia nel real-world),
etica (beneficialità per il singolo paziente), ed economica (sostenibilità del sistema, costi/beneficio).
Tabella 6. Valutazione di un soggetto che non risponde al trattamento con AD
La diagnosi è corretta?
Il paziente ha ricevuto un trattamento adeguato? (dosaggio, durata, assunzione)
Come è stato valutato l’outcome?
Vi è una malattia medica o psichiatrica concomitante?
Vi sono fattori nel setting clinico o nel contesto di vita del paziente che possono interferire con il trattamento?
(personalità, stressor ambientali, etc)
Tabella 7. Fattori associati ad una scarsa risposta agli antidepressivi negli anziani
Depressione “vascolare”
Comorbilità organica
Terapie farmacologiche
Alcolismo tardivo
Isolamento sociale
Malnutrizione
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RACCOMANDAZIONI CLINICHE SULL’UTILIZZO DI ANTIDEPRESSIVI NEL PAZIENTE ANZIANO
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RELAZIONI
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RELAZIONI
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LA PSICOTERAPIA NELL’ANZIANO DEPRESSO
Antonio Maria Ferro, Giuseppe Servetto
Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, Savona
Innanzitutto proponiamo tre definizioni:
1) quella di relazione d’aiuto (r.d.a)
2) quella di psicoterapia
3) quella di empatia
Le prime due sono di Giovanni Jervis la terza é di Edith Stein.
1) Per relazione di aiuto “si intende qualsiasi rapporto tra due o più persone che sia caratterizzato da
una particolare divisione di ruoli, ove una delle due chiede aiuto, qualsiasi tipo di aiuto, e, l’altra, sia disposto a fornirlo”.
Questo tipo di aiuto può strutturarsi anche quando l’altro non chiede aiuto e questo può succedere per
esempio con i gravi psicotici, con le personalità gravemente narcisistiche, ma anche con i vecchi o con le
persone che non hanno coscienza o non hanno più alcuna speranza di poter ottenere aiuto.
Questo tipo di relazione ha il suo fondamento nella originaria diade “madre-bambino”: pensiamo all’atteggiamento materno di accoglimento e di soccorso, all’importanza del contatto fisico ed emozionale presenti in una buona relazione originaria “madre-bambino”
2) “La psicoterapia é qualsiasi forma di trattamento, o anche di aiuto a chi é in disagio psicologico, che
sia basata sulla parola e sul rapporto reciproco. Anche la psicoanalisi é una psicoterapia.... potremmo dire,
in una maniera un po’ più precisa, che la psicoterapia é comunque un’ esperienza di incontro, tra due o più
persone (terapie familiari o di gruppo), di incontro teorizzato, ma pur sempre un incontro.
3) L’empatia, secondo Edith Stein é “il fondamento degli atti in cui viene colto il vissuto altrui”. L’empatia permette quindi di non rimanere chiusi all’interno della propria immagine del mondo e quindi di cogliere l’esperienza altrui.
È quindi fondamentale in qualsiasi relazione d’aiuto professionale e/o di psicoterapia, lasciare in noi (preservare) uno spazio fisico e mentale, al tempo stesso per l’ospite e per esser ospitali: l’essere ospitali é cosa che riguarda sia l’ospite che lo straniero che possono o non possono essere ospitali reciprocamente.
Per Jabes lo straniero stimola il discorso sull’altro da noi, ma anche sullo straniero che é in noi.
Ricordiamo come “l’altro da noi” richiami lo sconosciuto, l’indicibile, l’originario che potrebbe emergere in noi stessi e che potrebbe inquietarci, il “perturbante” direbbe Freud.
Analogamente per ospitare in noi i vecchi, ancor più se ammalati, depressi, insani o dementi, é necessario rendere possibile in noi lo spazio per l’ospitalità, mentre, la cultura prevalente in questo nostro mondo, fortemente individualista, non ci aiuta perché il vissuto del nostro spazio esterno-interno é già continuamente minacciato e/o colonizzato.
Allora che tipo di relazione chiede l’anziano, straniero in questo caso, perchè soffre di depressione?
La depressione
Solitamente nell’anziano emerge una peculiare area conflittuale, quando diviene depresso, che riguarda l’immagine di sé ed i mutamenti che questa immagine subisce rispetto alle modificazioni interne ed
esterne legate all’età.
I disturbi psichici che ne possono derivare, sotto forma di ansia e/o di depressione, possono essere
considerati come l’espressione di una conflittualità che, attivata dai fattori di stress propri dell’età, si focalizza sulla divergenza crescente fra immagine ideale ed immagine reale di sé.
E tra gli anziani allora, sono i soggetti con forti strutture narcisistiche della personalità ad essere maggiormente esposti al rischio di scompenso psichico nell’età involutiva.
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Se ci riferiamo allora agli elementi interni propri della personalità dell’individuo, vediamo come questi elementi, nel tempo, possano tendere ad un irrigidimento, ad una accentuazione o ad un’amplificazione ed a risultare sempre meno integrati con il sé e con l’ambiente.
La clinica ci insegna che caratteristiche antecedenti del carattere, si possono nella vecchiaia, irrigidirsi in quadri psicopatologici, testimoni di un rischio occulto, che ha accompagnato per anni la vita della persona che invecchia.
Allora un anziano, dapprima prudente, potrebbe con l’età, diventare diffidente ed avaro, un anziano
estroverso potrà diventare spavaldo o fastidioso, l’introverso, invece, si coarterà su di sé, concentrandosi sul
proprio corpo e tenderà all’ipocondria.
Come sopra ricordato come l’attitudine all’individualismo ed uno stile di vita fortemente narcisistico,
presente già prima di diventare vecchi, mortifica sia la dimensione sociale del proprio vivere, che la prospettiva di vivere attraverso gli altri, per cui il vacillare della propria individualità, (dovuta a lutti, a malattie, a problemi economici), diviene facilmente il crollo di tutto il mondo.
D’altra parte il sintomo diventa il pedaggio che si deve pagare per poter avere a disposizione una rete
di interlocutori: il medico di famiglia, i famigliari stessi, gli amici e via dicendo. Il sintomo, organico o funzionale che sia, crea un vero e proprio campo di comunicazione: dapprima con se stessi, poi anche con la
cerchia sociale allargata. Il sintomo da senso alla quotidianità, riempie le giornate, il vuoto interiore, e, soprattutto, rida potere perché consente, magicamente, di controllare il mondo, in quanto mira inconsciamente a costringere gli altri a tornare ad interessarsi dell’anziano.
Freud ci ricorda che il dolore psichico, in termini di vissuto soggettivo, é del tutto paragonabile al dolore corporeo, dove si produce un investimento elevato delle zone dolenti del corpo stesso, investimento
che egli definisce di tipo narcisistico. Accade quindi che le energie psicosomatiche tendono ad investire
di interesse prevalente una zona dolente del corpo, che diventa il tutto.
Quando, ad esempio, l’intestino viene vissuto come “pigro, fermo, bloccato”, sentiremo l’anziano ripeterci continuamente che “non va di corpo” e così l’organo interno diventa il centro della sua vita, caratterizzata
da un insieme di perdite che si susseguono e che si sommano: perdite biologiche che riguardano il corpo (sia
strutturali che funzionali), la sfera affettivo-emotiva e sessuale, perdite relazionali, sociali e della capacità economica, perdite della sfera percettivo-sensoriale e di quella psicologica, perdite nel campo degli affetti.
L’uomo anziano, allora, non vede più aspetti altri del vivere e la nostalgia é intesa soprattutto come dolore, non del ritorno, ma di ciò che si é perso per sempre.
La fenomenologia ha posto l’accento sulla dimensione soggettiva del dolore, che rappresenta la rottura della coincidenza fra corpo ed esistenza, per cui non é l’organo che soffre, ma é l’esistenza che si contrae, alterando il rapporto con il mondo, che non é più ritmato dalle intenzioni della vita, ma dal ritmo del
dolore. Il dolore fisico può essere oggettivato, conosciuto dall’esterno, individuato in un luogo del corpo
e, contemporaneamente avvertito all’interno.
Il dolore psichico, invece, ha una unica fonte: viene segnalato solo dalla percezione interna. Anche se
ne attribuiamo la causa ultima ad un oggetto esterno (per esempio ad una sciagura capitata ad una persona cara), non possiamo pensare -a meno di gravi problemi psichici in atto- che la fonte del dolore sia quella data persona, quel tale oggetto, ma solo che, in concomitanza del cambiamento nella rappresentazione
dell’oggetto (per esempio della sua morte), proviamo un dolore che sorge dentro di noi.
La depressione che ne può conseguire assume le caratteristiche di una patologia che, nella sua grandiosità negativa, ha lo scopo di evitare il confronto con la realtà che trascorre: vengono qui utilizzati meccanismi di difesa atti a proteggere l’individuo dall’idea della vita che finisce.
Il presente, così, non può essere vissuto nella sua interezza e realtà e l’anziano volge lo sguardo al passato, ad un passato che viene così idealizzato nell’espressione del sentimento della nostalgia. Quando invece il vissuto é sostenuto primariamente da un affetto depressivo profondo, anche il passato si colora di una
dimensione dolorosa dove la colpa, il rimorso, la rimuginazione e la vergogna prendono il sopravvento.
Osserviamo così un distoglimento dalla realtà ed una destrutturazione del tempo.
L’anziano depresso nega che quella realtà lo riguardi, lo interessi e rimane così ingabbiato in sé stesso
in una immobilità più o meno totale.
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È un’immobilità che corrisponde a qualcosa di morto dentro di sé, conseguenza di una identificazione
col “niente”.“Io non sono niente, Io non valgo niente” dice il depresso e così dice l’anziano depresso.
Cade così l’interesse per se stesso, ma anche l’interesse per gli altri.
L’anziano depresso si coarta sempre di più verso di sé, si ritira nel suo passato, con recriminazioni e con
accanimento verso il proprio sé.
Osserva Louis Ploton che quando le forze vitali sono vanificate dai fantasmi sempre più potenti di irreparabile solitudine e di morte imminente, l’anziano depresso può restare quasi sempre intrappolato insieme ai suoi famigliari ed ai suoi stessi curanti in una terribile trappola narcisistica dalla quale é difficile
sfuggire: deve diventare lui stesso attore della propria uscita di scena e la recita obbligata consiste, appunto, nell’elaborare un lutto che, a differenza degli altri ha ben poco di trasformativo-adattativo, in quanto rinvia alla propria scomparsa come essere vivente e senziente.
In quest’ottica la vecchiaia appare simile ed, al tempo stesso, diversa da tutti i lutti precedenti, perché ci
conduce al lutto finale che, in quanto tale, non può esser completamente elaborato e superato, anche perché
affrontato con mezzi ed energie decrescenti.
Non avviene in questo caso quanto Erikson sostiene e cioè viene a mancare in questa età della vita, quel
giusto equilibrio nel conflitto fra integrità dell’Io e disperazione. Erikson sostiene che l’integrità si porta dietro la saggezza definendola “consapevole e distaccato interesse per la vita stessa anche di fronte alla stessa morte”. L’elemento distonico dell’età senile é la disperazione ed il primo elemento sintonico é la speranza.
La possibilità di trovare un equilibrio adattivo tra disperazione ed accettazione, equilibrio che porta
ad una visione sostanzialmente pacificata della vita, richiede secondo Erikson, un’opera di revisione del passato (life review), che porti ad un bilancio positivo, o almeno ad un’accettazione serena e non ossessionata da rancori, da pentimenti, da rimpianti.
A nostro avviso, tuttavia, il modello proposto da Erikson enfatizza forse troppo l’archetipo del “Vecchio Saggio” (C.G. Jung), che sa accettare intellettualmente ed emotivamente le modifiche in lui prodotte
dai processi di invecchiamento.
Il vecchio, lungo quel continuo processo d’individuazione, tratteggiato da Jung, troverebbe addirittura
la spinta per una posizione serena e meno individualista, più alta quindi: la saggezza sarebbe l’opportunità offerta dall’invecchiamento, per una visione quindi dell’uomo anziano come potenzialmente saggio, fiducioso ed attento alla sua salute. È il mito del Vecchio Sano accanto a quello del Vecchio Saggio.
Questa posizione appare, però, molto idealizzata e costruita su difese di tipo riparativo e sulla rimozione: in realtà non prende in considerazione l’inquietudine, la rabbia -a volte omicida direbbe Davanloo- la
regressione a pericolose forme di narcisismo primario che la vecchiaia stimola anche in noi, nella dimensione contro-transferale nell’incontro con il nostro invecchiamento.
È importante chiarire questo, soprattutto per evitare semplificazioni antiterapeutiche!
Il mito del “Senex saggio” va quindi integrato con quello di Crono, dove il padre inghiottiva i figli appena raggiungevano le ginocchia della madre, uscendo dal grembo sacro. E con quello di Laio, molto più
tardi, che vuole anch’egli la morte del figlio Edipo, destinato dalla vendetta del dio contro la pederastia di
Laio ad uccidere il padre. Ecco allora che il mito del vecchio si presenta nella sua ambivalenza, da un lato
potenzialmente saggio, tollerante e collaborativo, dall’altro freddo, cupo, rancoroso, che divora i figli, ad
esempio con il pessimismo, il perfezionismo, l’immutabilità delle cose, il prevalere delle abitudini, di una
erudizione che cerca di ipnotizzare la vita evolutiva e della colpevolezza, attitudini che tutte nascono non
di rado da un’inconscia invidia omicida per chi resterà.
Guggembuchl-Craig, analista junghiano, ci ricorda che dobbiamo integrare ancora un altro mito, quello del vecchio malaccorto, scriteriato, avventato, il Vecchio Folle.
Questi é portatore di ben altra saggezza che consiste nell’accettare la follia della vecchiaia e nel respingere le proiezioni della saggezza che noi, che stiamo invecchiando, facciamo sulla vecchiaia. Questa particolare saggezza invita a sbarazzarsi del potere e liberarsi dalle responsabilità, permettendo al vecchio di esser finalmente saggio, sciocco, profondo o superficiale, di lavorare od oziare.
Guggembuchl-Craig dice che al vecchio deve essere concesso di provare terrore per la malattia e per
la morte, senza imbarazzarsi se non sceglierà atteggiamenti eroici, ricchi di saggezza.
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In realtà noi crediamo che la terapia non miri a mature e forse improbabili saggezze, ma ad aiutare l’anziano depresso a riconoscere anche le proprie follie, le debolezze ed a non rinnegare le sue rabbie e le
sue paure, ad accettare che forse anche il declino di alcune capacità intellettive influenza nel pensare, ma
che egli può finalmente essere più generoso con se stesso e con la sua storia (life review).
Note sui trattamenti psicoterapici
La valutazione clinica e l’impegno diagnostico richiedono non solo attenzione, ma anche molto tempo da dedicare al paziente.
Dedicare poco tempo può comportare un errore diagnostico, perché aumenta il rischio di interpretare l’ansia e la depressione come sintomi psicopatologici, quando invece sono espressioni degli aspetti esistenziali della vita.
Quando il disturbo viene gradualmente a strutturarsi, vediamo maggiormente gli effetti della fragilità
dell’Io nel decifrare il mondo ed il proprio atteggiamento rispetto al mondo.
Completato l’iter diagnostico, ci si pone il problema di come programmare l’intervento terapeutico
ed, eventualmente, quello assistenziale, per fornire risposte corrette ed adeguate.
Il lavoro terapeutico deve essere personalizzato ed individualizzato, ma deve anche essere condotto nel
suo complesso, con interventi integrati fra le diverse specialità, che tengano conto anche delle problematiche emerse durante l’osservazione.
Gli interventi psicologici dovranno mirare ad aiutare l’anziano ad adattarsi al nuovo assetto esistenziale,
fornendogli suggerimenti per correggere le strategie errate, per potenziare le risorse sane e quelle residue.
Il colloquio
Il colloquio, elemento fondamentale nell’approccio psicologico-psicoterapico dovrà tenere conto di
molteplici aspetti.
L’esame psichiatrico si svilupperà su due direttrici: la valutazione del paziente e quella sul terapeuta
1) sul paziente
a) l’ascolto del paziente
b) domande finalizzate al riscontro del quadro sintomatologico e dei segni caratteristici del disturbo
depressivo ipotizzato
c) l’osservazione clinica
2) da parte del terapeuta richiede:
a) capacità di auto-osservazione
b) capacità di ragionamento clinico
c) ascolto delle emozioni che si sviluppano nel rapporto col paziente.
Utilizziamo quindi un metodo di indagine clinica, simile a quello che si sviluppa nell’indagine di patologie somatiche, ma anche un metodo empatico per entrare in relazione con il mondo emotivo del paziente, con il nostro mondo emotivo, che “nasce” nella/dalla relazione terapeutica.
I pazienti depressi sollevano emozioni spesso contrastanti: desiderio di aiutare, comprensione empatica della sofferenza, ma anche noia, senso di pesantezza, sentimenti di frustrazione, irritabilità, rabbia.
Si tratta di atteggiamenti reattivi, controtransferali, che insorgono a volte nel medico di medicina generale come nello specialista, molto simili a quelli provati dai familiari, che non hanno valenza terapeutica ed accentuano nel paziente sentimenti di colpa, di inadeguatezza, di solitudine, di disperazione nel non essere empaticamente compresi nel proprio soffrire.
Riconoscere queste emozioni ci permette di comprendere meglio il paziente e soprattutto le reazioni
emotive dell’entourage familiare e le loro difficoltà, di evitare atti non pensati che non hanno alcuna valenza terapeutica, come per esempio, enfatizzare le cose che vanno comunque bene e che non giustificherebbero il suo stare male, assumere atteggiamenti “moralistici” rispetto a sintomi come l’apatia, l’anedonia, la
marcata astenia.
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L’obiettivo delle cure
L’obiettivo delle cure deve essere quello di contenere e di supportare la trama psicologico-esperenziale, di favorire l’integrità dell’Io messa in crisi dai cambiamenti, dalle fratture e dalle perdite. Il soggetto va
aiutato a ricercare un equilibrio adattivo attraverso un’azione di revisione del passato (life review) ed una
proiezione realistica del futuro. Occorre sviluppare una fiducia generativa ed una buona progettualità, contrastando per contro la sfiducia e la rassegnazione.
Caratteristiche dell’intervento
L’atteggiamento del terapeuta deve essere direttivo e protettivo. Le interpretazioni dei contenuti di
pensiero e dei vissuti devono essere adattate alla capacità di comprensione del paziente. Il setting deve essere personalizzato e meno rigido rispetto a quello utilizzato col paziente giovane. Si deve usare un linguaggio semplice che tenga in considerazione le capacità cognitive del paziente, in un contesto di intervento
che deve essere sempre individualizzato.
Il rapporto terapeutico può essere di tipo duale, oppure si può fare ricorso ad una equipe terapeutica.
Nel primo caso la relazione é indubbiamente più personalizzata, ma può favorire maggiormente la dipendenza nei confronti del terapeuta in persone che, per la loro fragilità, sono più predisposte alla dipendenza stessa. Anche per il terapeuta il rapporto duale può risultare maggiormente impegnativo sul piano emotivo, in
quanto potrebbe risentire maggiormente il peso della relazione nei confronti di una persona estremamente dipendente. Per contro l’intervento con l’equipe terapeutica può consentire una maggiore e migliore distribuzione delle forze e delle tecniche di intervento, diluire i bisogni di dipendenza, ma può risultare spersonalizzante per il paziente ed accrescere o favorire in lui la confusione.
La famiglia ed i care-giver
Dall’intervento terapeutico infine non può essere escluso il contesto famigliare e quello dei care-giver,
ricorrendo ad interventi di supporto o di counseling individuale o famigliare, con gruppi di sostegno o di
auto-aiuto
L’intervento ed il rapporto con la famiglia del paziente anziano é paragonabile a quello che si fa con i
giovani adolescenti. L’anziano, ad un certo momento della sua vita, non é più pienamente autonomo ed inevitabilmente deve affidarsi ed appoggiarsi ad altre persone per affrontare la quotidianità, persone che quindi sono estremamente coinvolte e che si assumono quindi la responsabilità delle cure (ma che a loro volta possono accusare il peso, le difficoltà e le frustrazioni che derivano dall’assistere).
È ormai noto come spesso i disturbi ansiosi e quelli dell’umore, ma anche il peggioramento dei sintomi cognitivi e comportamentali nel paziente anziano, possano essere una diretta conseguenza delle modalità relazionali ed interpersonali all’interno del suo nucleo familiare e come i sintomi siano spesso derivabili dalla relazione stessa. È importante quindi considerare le variabili extracliniche derivabili da questo
contesto, per prevenire il burn-out e l’abbandono del paziente.
In certi momenti, secondo noi, il terapeuta deve prendersi la responsabilità di decidere anche per il paziente. Questo soprattutto quando il paziente é seriamente depresso, ma anche quando, per i suoi limiti cognitivi, non é più in grado di decidere.
L’intervento deve anche tenere presente che il tempo che il paziente ha davanti a sé é breve, limitato
ed anche il terapeuta deve avere nella propria mente il limite della temporalità.
Le tecniche di intervento psicoterapico
Le tecniche di intervento psicoterapico possono essere diverse, ma tutte quante presentano limiti che
derivano direttamente dallo specifico soggetto a cui sono rivolte, cioè l’anziano.
Gli interventi possono avere un’efficacia ridotta in presenza di eventi somatici e di problemi extraclinici, quali quelli sociali, relazionali, economici.
Il paziente anziano ha maggiore difficoltà ad integrare eventi negativi improvvisi, quali ad esempio uno
squilibrio fra acquisizioni e perdite.
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La malattia scatena ambivalenti sentimenti tra il vissuto di naturalità della stessa e la ferita narcisistica
che la stessa comporta.
Infine va considerata l’entità delle energie utilizzabili per il progetto terapeutico, che nell’anziano sono inevitabilmente ridotte.
L’approccio psicodinamico
Le tempeste sono proprie della psicoterapia della terza età. L’apparato pulsionale del soggetto anziano
é talvolta “anestetizzato” per quelle cose che devono essere tenute “a distanza”.
Appena ci si avvicina, ci si confronta rapidamente con burrasche ove amore e odio si avvicendano rapidamente.
La ragione é semplice. Il vecchio prima o poi diventa geloso ed invidioso del terapeuta in quanto più
giovane. Avere sotto gli occhi una vita attiva nel momento in cui egli perde la propria, risveglia delle rivolte di collera sorda, difficile da contenere. Ugualmente obbliga se stesso a vedere vicino a sé il terapeuta di
cui ha ormai un grande bisogno. Inoltre poi, il lavoro di repressione degli affetti è molto costoso da realizzare per via dell’Io che è più debole.
È importante sapere che l’atteggiamento rivendicativo del vecchio, potrà essere contenuto, ma prima o poi
diverrà manifesto e se non sarà eclatante é perché sarà incatenato in qualche rituale. Ma le rivendicazioni potranno essere deviate sotto forma di atti mancati o di peggioramento delle lamentele somatiche.
Il lavoro psicoterapico dovrà favorire l’instaurazione di un transfert positivo, di un buon clima transferale, a partire dal quale si potrà valutare fino a che punto é possibile una evoluzione.
I pazienti che risponderanno con un’iperattività all’immagine delle loro vecchie compensazioni, oppure, all’opposto, con una condotta depressiva, mostreranno tutta la loro forza delle loro difese.
Coloro invece che apporteranno un reale calore, interesse, curiosità, il desiderio di comprendere, mostreranno di poter raggiungere il livello genitale. Sarà da questi dati che ci si orienterà sulla scelta e sulla
conduzione della terapia.
• Vantaggi dell’approccio psicodinamico
Nel trattamento individuale l’approccio psicodinamico in profondità, incoraggia il paziente a cercare
le soluzioni dentro di sé, anziché dipendere dall’esterno o da fonti estranee. Inoltre la posizione di neutra
accettazione da parte del terapeuta, assicura un attegiamento non giudicante e obiettività.
• Limiti dell’approccio psicodinamico
Per contro i limiti derivano dalla focalizzazione sui fenomeni intrapsichici che può oscurare altri fattori
(ad esempio interpersonali, ambientali). La regressione del transfert può produrre un’eccessiva idealizzazione del terapeuta ed una sottostima del proprio valore personale. Un altro fattore limitante é dovuto ai requisiti dei pazienti che possono limitare l’utilità alla popolazione predisposta in senso verbale e psicologico all’introspezione e, soprattutto, il maggior limite può essere la lunga durata della terapia.
L’approccio cognitivo-comportamentale
Si basa sulla teoria dell’apprendimento. Parte dal presupposto che la psicopatologia sia in gran parte attribuibile al modo in cui le persone apprendono a gestire il proprio ambiente psico-sociale, a modificare
il proprio umore e ad interpretare gli eventi che accadono intorno a loro. La vulnerabilità alla depressione sarebbe mediata dalla acquisizione di abilità e di apprendimento durante l’arco della vita.
Lo scopo é quello di istruire i pazienti a gestire l’umore ed a sviluppare strategie di coping, in modo da
affrontare il proprio ambiente psico-sociale.
• Vantaggi dell’approccio cognitivo-comportamentale
I vantaggi di questa tecnica derivano dalla tangibilità ed obiettività del trattamento, dalla breve o fissa durata, che é economicamente più vantaggiosa e può favorire risultati in tempi brevi, incrementare
l’aspettativa di un rapido cambiamento, incoraggiando l’ottimismo. Il terapeuta, che qui ha un compito più
attivo, può direttamente intervenire per interrompere gli schemi depressivi e suggerire alternative al pensiero errato.
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• Limiti dell’approccio cognitivo-comportamentale
Per contro, i limiti derivano dall’enfasi che può portare a trascurare le persona nel suo insieme, soprattutto a trascurare la componente affettiva. L’interesse per i sintomi trascura la storia pregressa, le aree di problemi complessi ed i conflitti nascosti.
Il suggerimento attivo e la direttività possono indebolire l’autostima del paziente attraverso l’imposizione del punto di vista e dei valori del terapeuta. Infine, la popolazione incapacitata dal punto di vista cognitivo può non trarre beneficio ed i pazienti complessi ed introspettivi possono trovare l’approccio troppo
semplicistico o superficiale.
La psicoterapia breve
Un modello cui fare riferimento potrebbe essere quello della psicoterapia breve che dal punto di vista
teorico si fonda sia su aspetti propri della psicoterapia ad orientamento cognitivo-comportamentale, sia di
quella ad orientamento psicodinamico.
La tecnica prevede una relazione “vis a vis” col paziente, caratterizzata da uno scambio verbale diretto.
Il terapeuta focalizza l’attenzione del paziente sulle aree critiche e lavora sulla “alleanza terapeutica inconscia” che rappresenta il bisogno di benessere anche nell’anziano depresso.
• I vantaggi della psicoterapia breve
Si fonda su un numero di sedute definito (da quattro a dieci sedute) con frequenza settimanale/ quindicinale o mensile. Favorisce la presa di coscienza e la drammatizzazione a vari livelli che riguardano le relazioni parentali (il ricordo del passato), le relazioni attuali e future (hic et nunc), la relazione sul proprio
corpo (la vecchiaia), la relazione con le proprie emozioni e frustrazioni (il vivere male nel mondo).
• I limiti della psicoterapia breve
Non é idonea a trattare pazienti con gravi quadri melanconici, con il rischio di passaggio all’atto e condotte autolesive, con deficit cognitivi e comorbidità somatica medio-grave, che vivono in precarie condizioni socio-economiche. Non prevede l’utilizzo associato di farmaci.
Psicoterapia breve e trattamento psicofarmacologico associato
Con un approccio integrato si può utilizzare la psicoterapia breve nella prima fase del trattamento, durante il periodo di “latenza”degli antidepressivi, con l’obiettivo di stabilire un’alleanza per la cura, migliorare la compliance, ridurre il ricorso a terapie farmacologiche specifiche e/o dannose.
La psicoterapia interpersonale
Impiega tecniche di indagine, chiarimento, rassicurazione, analisi della comunicazione e di incoraggiamento a tentare strategie alternative di coping. È attuata da operatori specializzati in grado di ridurre la sintomatologia depressiva in modo efficace, su soggetti anziani affetti anche da depressione maggiore.
Si incentra su aree problematiche prevalenti nei pazienti depressi, affrontando aspetti riguardanti prevalentemente il trattamento delle transizioni di ruolo, il trattamento dei contrasti nei rapporti interpersonali e dei deficit interpersonali che sfociano spesso nell’isolamento sociale e quando prevale una sintomatologia dolorosa anormale.
• I vantaggi della psicoterapia interpersonale
La durata del trattamento é breve, solitamente dieci sessioni, ha una maggiore efficacia nella depressione moderata-severa, rispetto alla depressione lieve, può dare migliori risultati anche in associazione con farmaco-terapia.
• I limiti della psicoterapia interpersonale
Il lavoro del terapeuta é concentrato prevalentemente sul funzionamento sociale attuale del paziente.
I meccanismi di difesa ed i sogni vengono esaminati come un riflesso di problemi interpersonali attuali.Vi
é un’enfasi nel legittimare il paziente nel ruolo di malato.
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E IL CURANTE?
È per noi difficile avvicinarci ai vecchi, é difficile fare i conti con il nostro invecchiare, dal quale ci difendiamo allontanando ed escludendo dalla nostra mente questo inevitabile passaggio. Dobbiamo imparare ad utilizzare l’empatia, come in precedenza definita, con questo vecchio/con questa vecchia, se vogliamo farci carico del nostro stato umano.
Ci serve allora quella opportunità empatica che la Woodward chiama “identificazione prospettica”.
L’identificazione prospettica ci aiuterà a smontare le tradizionali costruzioni sull’invecchiamento, a sostituire il disinteresse, la svalutazione ed il sarcasmo, con un atteggiamento tendente alla protezione ed alla
perseverazione. Si tratta di acquisire la capacità di mettersi nei panni dell’altro, di attivare le fantasie anticipatorie, sostituendo le rappresentazioni negative della vecchiaia, che sono sostenute dal mito della giovinezza, immaginandoci noi in quel “continuum” che la vita impone.
Momento centrale del trattamento é quindi l’assetto mentale del terapeuta.
Nel rapporto con i pazienti in età avanzata ed in condizione di salute compromesse, il terapeuta può
attivare meccanismi contro-transferali, atti a proteggersi dall’ansia e per preservare la propria integrità narcisistica.
È inevitabile che questi meccanismi possano presentarsi, ma é fondamentale che il terapeuta se ne renda conto, al fine di evitare agiti pericolosi o dannosi.
Come dice Giberti “senza una certa gerontofilia consapevolmente controllata é spesso difficile, o impossibile, seguire psicoterapicamente i vecchi. Il mancato superamento degli atteggiamenti di riluttanza gerontofobica, invece, é indice della presenza di problemi riguardanti i propri genitori ed il proprio invecchiamento”.
Bisogna entrare in sintonia con quel “noi diverso ma comunque nostro” che l’anziano (depresso) ci evoca.
Riteniamo infine, che l’efficacia della psicoterapia nell’anziano depresso sia inversamente proporzionale a: 1) gli accidenti somatici presenti; 2) problemi sociali, relazionali ed economici prevalenti, come l’indigenza, la solitudine, la mancanza di un’abitazione sana e sicura.
La psicoterapia é più difficile poi quando l’invecchiare (il vissuto dell’invecchiare) non avviene lungo un
processo, ma per evento, ovvero quando é improvvisa la rottura tra acquisizione e perdita: c’é una perdita di troppo che non si metabolizza più e diviene più grande la difficoltà ad integrare ancora una volta il dolore, il lutto.
Abbiamo pensato che se la salute e la tranquillità economica lo permetteranno, ci può essere anche, finalmente, un periodo più libero da molteplici ruoli che per tanti anni abbiamo interpretato (figli, padri, lavoratori ecc.) e forse si potrà tornare un po’ più liberi come da ragazzi.
Concludiamo precisando che la tarda età non deve esser mai un alibi per non provare a curare sia il corpo che la mente di una persona anziana. Non si é giustificati a non trattare la depressione nell’anziano quando può essere curata.
BIBLIOGRAFIA
Jervis G. Psicologia Dinamica. Molino Ed.2001, Bologna.
Jervis G. Il problema della psicoterapia nei Servizi psichiatrici. In “La bottega della psichiatria” a cura di Ferro AM, Jervis G, Bollati
Boringhieri,Torino, 1999.
Stein E. L’empatia. Franco Angeli Ed. Milano, 1985.
Jabes E. Il libro dell’ospitalità, Raffaello Cortina Ed. Milano, 1991.
Freud S. :“Il perturbante” 1919 Vol. IX Opera Omnia Boringhieri Edit. (1967-1980) Torino
De Beauvoir S. La terza età. Einaudi Ed.Torino, 1970.
Davanloo H. Basic principles and techniques. In Short-term dynamics psycoterapy. Harper Collins, USA, 1978.
Erikson EH. I cicli della vita: Continuità e mutamento. Armando Ed. Roma, 1984.
Erikson EH, Erikson JM, Kivinick HQ. Coinvolgimenti vitali nella terza età. Armando Ed. Roma, 1997.
Jung CG. Gli stadi della vita. Opere (1930-31) vol 8, Boringhieri Edit.,Torino.
Galimberti UIl corpo. Feltrinelli Ed. Milano, 1983.
Ploton L. La persona anziana. Raffaello Cortina Ed. Milano, 2003.
Schirrmaker F. Il complotto di Matusalemme. Mondadori, Milano, 2006.
Zeller A. A l’epreuve de la veillesse. Descléé de Brouwer, Paris, 2003.
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IL VECCHIO NELLA LETTERATTURA MODERNA
Progetto :”Una fiaba per i nonni e..... viceversa”, A.u.s.l. Bologna
Antonio Faeti
scrittore
Con l’inizio dell’età delle macchine (Inghilterra, metà del ‘700) il vecchio perde a poco a poco quello
status di patriarca indispensabile, perché di fronte alle coltivazioni era il garante del loro rinnovato prodursi, mentre i telai meccanici non tollerano la sua presenza. Dopo le guerre napoleoniche diventano fulgide
icone di un passato leggendario, la “Vecchia Guardia”, i vecchi reduci, i vecchi che erano a Jena, a Waterloo,
sulla Beresina. Nelle “nazioni romantiche”, Italia e Germania, i vecchi legittimano il diritto all’indipendenza, sono oracoli per i giovani: qui c’era la Serenissima, oggi siamo schiavi degli austriaci.
Il vecchio è un’icona anche nel romanzo novecentesco: può aver visto due guerre mondiali, c’è un misterioso perché nella sua sopravvivenza. Il vecchio è un antidoto contro l’alienazione: quando parla lui si
coglie solo la diversità. Vecchi dell’arte, come Matisse e Picasso, vecchi profeti come il centenario LèvyStrauss, vecchi che possiedono abilità artigianali scomparse. Il vecchio può rifulgere, può farsi profeta: ma
la nuova barbarie spesso ha smarrito le parole, spesso non capisce cosa dice.
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LA DIAGNOSI IN PSICOGERIATRIA ED IL RAPPORTO MEDICO-PAZIENTE:
DALLA GENETICA ALLA CLINICA
Luigi Ferrannini
Direttore Dipartimento Salute Mentale – ASL 3 Genovese
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad una crescita sempre maggiore delle conoscenze mediche, e non
solo, riguardo alla predittività dello sviluppo delle malattie. Lo scenario che si è aperto è vasto ed implica
tematiche di vario ordine (medico, psicologico, giuridico, sociale, etico): le relazioni tra la persona ed il
suo contesto, il confine tra responsabilità del singolo e la responsabilità dell’operatore sanitario, l’assunzione della complessità concetto di “consenso”, l’importanza della confidenzialità delle informazioni eventualmente raccolte e della garanzia del segreto professionale, i possibili conflitti tra i diritti delle persone
a vario titolo coinvolte, a livello reale e simbolico.
Per parlare dell’incertezza di queste condizioni, in modo incisivo Santosuosso e Tamburini (1999) parlano di “malati di rischio”: “…l’anticipo della diagnosi, la riformulazione del concetto di rischio, il coinvolgimento del soggetto non ancora paziente…comportano una radicale ridefinizione e riconcettualizzazione dell’idea stessa di malattia e di salute.”
L’esempio della consulenza genetica, soprattutto quando riguarda l’effettuazione di un test presintomatico o predittivo, ha due caratteristiche di fondo -comporta una domanda sul futuro e costituisce una richiesta per affrontare l’incertezza- che hanno a che fare con questioni di ordine esistenziale, psicologico, relazionale ed etico: la domanda agli esperti si trasforma in una domanda a se stessi, come decisione sul sapere o non sapere, capace di “mettere ordine” o di provocare un totale cambiamento.
Ma anche per i professionisti la situazione non è meno complessa1. Entrano in gioco -al di là delle competenze tecniche- persone diverse con altrettante variabili: ruolo professionale, esperienze lavorative, sistema di valori, esperienze di malattie, vissuti della malattia, meccanismi di difesa, consapevolezza delle proprie emozioni, capacità introspettive, empatiche, comunicative, uso del linguaggio, istanze identificatorie.
Anche l’operatore sanitario deve essere capace di conoscere i propri movimenti emotivi per controllarli,
elaborarli e saper essere con i pazienti contemporaneamente contenitivi e professionali, essere vicini offrendo competenze e conoscenze: diventano allora centrali i concetti di ascolto, non direttività, relazione
terapeutica ed empatia.
Si tratta di entrare in contatto e valutare le emozioni e le risorse psicologiche della persona, con
l’obiettivo di aiutarla a vivere il difficile momento decisionale. E questo processo assume particolari caratteristiche nel rapporto con il paziente anziano e nella pratica psicogeriatrica3. L’ascolto nella pratica clinica ha a che fare con una dimensione mentale, cognitiva ed affettiva, che tenga conto dell’altro (e anche
di se stessi), senza invaderlo. Inoltre, è necessario supportare il processo decisionale, che in un’ottica cognitivista è definito come passaggio dal disorientamento al ri-orientamento differenti tipologie del processo decisionale.
Alcuni autori sul problema più generale degli stili decisionali delle persone, parlano di bisogno di chiusura cognitiva5, come costrutto multidimensionale, in cui sono implicati il bisogno di ordine e strutturazione, l’intolleranza dell’ambiguità, la tendenza a prendere decisioni rapidamente, il bisogno di prevedibilità, la chiusura mentale.
Il supporto alla decisione vuol dire quindi aiutare la persona a rivalutare le sue motivazioni, a prendere coscienza delle risorse con le quali sta affrontando la situazioni, a valutare i suoi bisogni e le capacità di
tolleranza dell’incertezza, a capire soprattutto qual è il momento più idoneo per decidere.
In una lettura più psicodinamica, nel momento del “decidere nell’incertezza” e nell’incertezza che riguarda la possibilità di “ammalarsi” nel proprio futuro, entrano in gioco tanti movimenti intrapsichici, come l’attacco alla rappresentazione del sé, la dinamica del conflitto, il concetto di limite e la resistenza ad
abbandonare aspetti illusionali ed onnipotenti: l’accettazione del limite ed il confronto realistico con la pro-
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pria condizione personale ed esistenziale può consentire di accedere a soddisfazioni reali, che -proprio perché non si persegue ciò che non è possibile- possono essere sempre ulteriormente ampliate”4.
Per decidere nell’incertezza occorre tollerare l’incertezza, avviando il processo di elaborazione della perdita (della propria vulnerabilità ed immortalità), che sta dietro ogni domanda su di sé e sul proprio futuro2.
La complessità dei fattori in campo -scelta responsabile, confine tra responsabilità e diritto, rispetto
della vita e mito della perfezione ed altro ancora- gli strumenti a sostegno dei professionisti (Linee Guida,
Raccomandazioni, Codici Deontologici) risentono delle contraddizioni in campo, e quindi anche della “pericolosità delle “certezze”, anche attraverso il continuo confronto con il nostro sistema di credenze, di tolleranza del limite, per non proiettare sui nostri pazienti la nostra organizzazione mentale dell’esperienza
di malattia e di perdita.
BIBLIOGRAFIA
1
Ferrandes G, Longo E,Tempia Valenta P. Le emozioni dei malati e dei curanti, Centro Scientifico Editore,Torino, 2004.
2
Ferrandes G. I test genetici: decidere nell’incertezza, in (a cura di) Sandro Spinsanti, Decidere in Medicina, Zadigroma Editore,
Roma, 2007; 19-30.
3
Ferrandes G, Ferrannini L. Etica di fine vita ed etica della cura: riflessioni e domande, Psicogeriatria, Anno III, N. 2, Maggio-Agosto 2008; 7-10.
4
Gislon MC. Manuale di Psicoterapia Breve, Dialogos Edizioni, Bergamo, 2005.
5
Webster D, Kruglanski AW. Individual differences in need for cognitive closure, Journal of personality and social psychology. 1994;
67:1049-62.
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LA NECESSITÀ DEL PATTO TERAPEUTICO CON LE FAMIGLIE
Francesco Scapati
Direttore DSM ASL TA
Una persona affetta da demenza non può prescindere da interventi di continuità assistenziale, e programmi di attività sia domiciliari che istituzionali.
Il ruolo centrale è attribuito alla famiglia che rappresenta una risorsa determinante in fase di progettazione di un percorso di cura e di assistenza ove siano coinvolti direttamente i famigliari o caregiver. Proprio per prevenire drop-out od esiti negativi degli interventi, in fase di progettazione di un percorso assistenziale, risultano determinanti, tutte quelle variabili individuali stratificate nella storia di vita di una persona da coinvolgere nel percorso di cura e di assistenza.
1. Il patto terapeutico con le famiglie va impostato già in fase di comunicazione della diagnosi, allo scopo di prevenire comportamenti distorsivi di negazione o di rabbia, di frustrazione ed impotenza, che
innescano inevitabilmente una fuga verso l’isolamento o peggio ancora rappresentare un rischio verso condotte da maltrattamenti nei confronti dell’anziano. È di fondamentale importanza spostare le
paure e le incertezze per una diagnosi di malattia progressiva e destruente verso un modello di riferimento in grado di fornire risposte non solo teoriche, ma anche organizzative e pratiche basato
su qualità della vita e salute possibile, che faciliti l’integrazione delle risorse del territorio, attraverso la condivisone di reti e la collaborazione tra strutture diverse predisponendo percorsi assistenziali appropriati.
2. Un secondo livello di importanza strategica è rappresentato dalla prospettiva dell’adozione di un
modello di intervento ‘patient centred’ ovvero della centralità della persona all’interno del percorso di cura. L’etica della cura, in questo modello, non può prescindere da un’alleanza strategica con
coloro che si occupano sia materialmente che strategicamente dell’assistenza e cura del paziente
demente. Una simile alleanza è garanzia della partecipazione attiva ai processi di cura, e comprende livelli di informazione, attenzione alle emozioni, ascolto attivo.
3. Anche nella prospettiva di un ricorso transitorio o definitivo all’istituzionalizzazione, non si può
prescindere da un patto terapeutico con i famigliari. Ove tale intervento rappresenti solo una fase
in un percorso assistenziale più articolato, si deve inserire come parte integrante di un percorso di
cura, in un contesto di continuità emotiva ed affettiva con il contesto da cui proviene; mentre il ricorso all’istituzionalizzazione definitiva non può rappresentare un processo di espulsione, e/o di esonero da doveri assistenziali.
4. Non meno complessa è l’area di tutti i dilemmi etici e giuridici, in ambito di tutela della fragilità, circa la prospettiva di applicare misure di protezione. In assenza di un patto terapeutico esplicito e di
ruoli chiari, l’assenza di tutela, può rappresentare una fonte di conflitti, tra famigliari. A nostro parere anche tale prospettiva di tutela va inserita nel patto terapeutico con le famiglie, anzi può rappresentare un’ulteriore risorsa sotto il profilo etico e morale. La linea di tendenza che sembra prevalere in ambito giurisprudenziale, in base all’analisi di varie Sentenze (N° 13584/2006 della Cassazione, nonché di sentenze quali quella N° 2086 del 03/10/05 del Tribunale di Venezia e N° 2288 del
Tribunale di Bologna del 03/10/06) è quello che è l’amministrazione di sostegno nella maggior parte dei casi la misura più idonea per la tutela dei più deboli, attraverso anche, laddove necessario l’amministrazione di sostegno a tempo indeterminato (ex art. 405 C.C.) ed una corretta modulazione dei
poteri dell’Amministratore di Sostegno.
Per concludere l’opportunità di una stretta alleanza tra famigliari ed operatori, sancita da un patto terapeutico, condiziona positivamente gli outcome del processo di caregiving perché consente di superare
la complessità dei bisogni di cura ed assistenza.
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COME LA TERAPIA PUÒ INFLUIRE SULLA QUALITÀ DELLA VITA
DELLA FAMIGLIA E DEL MALATO
Vincenzo Canonico
Unità di Valutazione Alzheimer, Cattedra di Geriatria, Università degli Studi “Federico II” Napoli
Al giorno d’oggi non ci sono terapie efficaci, farmacologiche e non, che abbiano dimostrato la guarigione dalla malattia di Alzheimer (AD), tuttavia sono stati proposti, e vengono correntemente utilizzati, farmaci che possono migliorare il deficit cognitivo, i disturbi comportamentali e la compromissione funzionale presenti con gravità diversa in tutti i pazienti. L’effetto principale dell’utilizzo dei farmaci attualmente disponibili è quello di preservare l’autonomia funzionale del paziente, diminuire il carico assistenziale
familiare, in sintesi migliorare la qualità della vita del paziente e della famiglia.
Numerose molecole, che agiscono con diversi meccanismi d’azione, sono state proposte ed utilizzate
per il trattamento farmacologico delle demenze da alcuni anni, tuttavia nella pratica clinica due sono le classi di farmaci utilizzate prevalentemente nella AD, ma anche in altre forme di demenza: gli inibitori della
acetilcolinesterasi (AChEI), rappresentati da donepezil, galantamina e rivastigmina e l’antagonista non competitivo del recettore N-metil-D-aspartato denominato memantina (M).
Esistono differenze nel meccanismo d’azione, nella farmacocinetica e nella farmacodinamica tra le tre
molecole oggi disponibili in Italia nell’ambito degli AchEI, che, anche se non rilevanti dal punto di vista clinico, possono far preferire un farmaco ad un altro in base al tipo di demenza, alla gravità, alla concomitanza con altri trattamenti, alla risposta individuale. È stata segnalata comunque una risposta differenziata tra
i vari pazienti, infatti mentre una gran parte migliora o presenta una stabilizzazione dei disturbi con il trattamento, una piccola parte non presenta alcun effetto. Sono stati descritti in letteratura alcuni fattori che
possono influenzare l’efficacia degli AchEI, tra questi la presenza di ipertensione arteriosa non controllata, di fattori di rischio cardiovascolare e di lesioni della sostanza bianca al neuroimaging cerebrale.
L’altro farmaco utilizzato nel trattamento prevalentemente delle forme moderato-severe di AD è la M.
Il farmaco ristabilizza la normale trasmissione glutamatergica coinvolta nei processi di apprendimento e
di memoria, che risulta compromessa in diverse forme di demenza. In studi clinici controllati rispetto al placebo il farmaco ha prodotto in molti pazienti una stabilizzazione dei sintomi o un rallentamento della progressione del deficit cognitivo.
Uno degli obiettivi del trattamento sia farmacologico che non della AD è il miglioramento della qualità di vita del paziente e della famiglia. In letteratura recentemente sono sempre più numerosi i lavori che
prendono in considerazione tale parametro ed in molti centri di cura per le demenze vengono somministrate scale di valutazione specifiche per la qualità della vita, le quali attribuiscono un punteggio che può
variare in senso positivo o negativo in funzione delle condizioni cliniche del paziente, delle caratteristiche fisiche e psicologiche del caregiver ed in genere dell’ambiente familiare in cui vive il paziente.
Gli studi eseguiti in pazienti sotto terapia farmacologica con AchEI hanno dimostrato un miglioramento della qualità di vita, soprattutto quando il paziente risponde al farmaco dimostrando un miglioramento dei sintomi
cognitivi o almeno una stabilizzazione degli stessi. È necessario comunque, aspetto a volte trascurato, tentare
sempre di raggiungere le dosi più alte previste per singola molecola, in modo da raggiungere la dose ottimale
prima di decidere se continuare, sostituire con una molecola della stessa classe o sospendere il trattamento.
In tema di compliance del paziente e di miglioramento della qualità della vita della famiglia, la recente disponibilità tra gli AchEI di una nuova formulazione della rivastigmina sotto forma di cerotto da applicare ogni
24 ore ha rappresentato un grosso vantaggio in termini di comodità di somministrazione, di maggiore facilità di raggiungere i dosaggi più elevati ed in ultima analisi di minore incidenza di effetti collaterali.Tale formulazione è stata anche sottoposta al giudizio dei caregiver in alcuni studi già presenti in letteratura ed ha dimostrato un impatto positivo non solo sui sintomi, ma anche sui familiari che si occupano dell’assistenza.
In conclusione la terapia attuale dei disturbi cognitivi della AD riconosce soprattutto l’utilizzo di AchEI
e M singolarmente o in associazione, il loro effetto positivo o stabilizzante sul paziente si ripercuote sulla
famiglia che ne trae vantaggio in termini di carico lavorativo e di assistenza, in tal senso una formulazione
facile e comoda del farmaco come il cerotto può rappresentare il valore aggiunto.
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L’APATIA IN RIABILITAZIONE: STUDIO DI PREVALENZA
E DI RIABILITAZIONE
Dario Grossi
Facoltà di Psicologia, 2^ Università degli Studi, Napoli
L’Apatia è un disturbo del comportamento caratterizzato da perdita dell’iniziativa sia motoria che verbale, scarsa partecipazione emotiva agli eventi della vita quotidiana, anche quelli che riguardano la persona stessa come il proprio stato di salute, riduzione della motilità gestuale, espressione del volto amimica,
laconicità nella produzione verbale, resistenza sistematica ad agire, tendenza a rimandare scadenze e/o a
delegare impegni, difficoltà o impossibilità a selezionare scelte necessarie.
Questo quadro comportamentale può in parte sovrapporsi o talora seguire alla depressione, da cui se
ne differenzia perché il paziente depresso vive emozioni a polarità negativa, è pessimista, si sente in colpa, teme il futuro come minaccia, è angosciato dal passato, pensa al suicidio, crede di non amare nessuno,
e tutto gli dà sofferenza, il suo volto esprime dolore.
Le basi neurofunzionali dell’apatia sono identificate in alterazioni del circuito fronto-sottocorticale che
origina dal giro cingolato anteriore ed è connesso con la substantia nigra; le lesioni di queste strutture danno un tipico disturbo apatico; l’ipotesi interpretativa disregolativa ritiene che in realtà si verifichi un’eccessiva inibizione da parte delle strutture mesiofrontali sulle strutture libiche quali l’amigdala.
Le cause dell’apatia sono molteplici: lesioni delle aree pre-frontali, soprattutto nei post-traumatizzati, demenza degenerativa come nella malattia di Alzheimer od in alcune forme di demenza fronto-temporale,
nella Malattia di Parkinson, nelle demenze vascolari, nei postumi di ictus soprattutto sottocorticale, per effetto di uso cronico di neurolettici, quale evoluzione di depressioni croniche, nelle sindrome da abuso cronico di alcool.
In riabilitazione rappresenta un grave deterrente, perché il paziente apatico rinuncia alla terapia o se
giova poco per scarsa partecipazione. Mentre la depressione è suscettibile di trattamento psicofarmacologico efficace, l’apatia è di difficile trattamento medico e necessita di essere ben valutata e poi trattata con
particolari tecniche mirate a riattivare le emozioni.
Si propone un progetto multicentrico la cui prima fase consiste nella valutazione dell’apatia nei pazienti anziani in trattamento riabilitativo, e seguire in follow up a tre mesi l’evoluzione degli stessi mediante scale comportamentali e scale mirate a valutare la disabilità del paziente, oltre a brevi test neuropsicologici. Si attende che i pazienti classificati come apatici mostrino un ridotto recupero rispetto agli altri;
nella seconda fase si attiverà un programma di riabilitazione dell’apatia da attuare prima o durante il trattamento specifico per la disabilità presentata.
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IL CONTRIBUTO DELLA PSICOLOGIA DELLA SALUTE ALLA RIABILITAZIONE
GERIATRICA: LA VALUTAZIONE DELLE RISORSE PSICOLOGICHE
Giuseppina Majani e Antonia Pierobon
Servizio di Psicologia, Fondazione S.Maugeri IRCCS, Istituto Scientifico di Montescano (PV)
Cognitive impairment, depressione, criticità e fragilità costituiscono i principali parametri e paradigmi
attraverso i quali oggi viene spesso letto l’anziano malato, in base a una logica assistenziale orientata all’individuazione di problematicità e delle relative aree di intervento.
Da alcuni anni, la psicologia si sta focalizzando anche sulla rilevazione di fattori personologici, cognitivo-comportamentali ed interpersonali che favoriscono l’adattamento a situazioni di stress o di sofferenza sia fisica che mentale. Questa parte della psicologia, propriamente detta “positive psychology” sta trovando applicazione nell’ambito della gestione delle malattie croniche, iniziando un nuovo capitolo nell’interazione tra psicologia e medicina1.
In ambito geriatrico gli studi relativi all’impiego della positive psychology sono pochi e -per quanto ci
risulta- non italiani. Pertanto, un’esplorazione di alcuni costrutti della positive psychology in riabilitazione
geriatrica potrebbe aprire una nuova prospettiva di studio e di intervento.
L’insieme dei fattori favorenti un buon adattamento a situazioni stressanti come la presenza di una patologia cronica invalidante può essere sinteticamente rappresentato con il termine di “resilienza”. È un termine proprio della fisica, ed indica la capacità di un corpo di assorbire i colpi deformandosi in modo elastico ed assorbendo energia che poi restituisce quando riacquista la propria struttura originaria2. Può indicare quindi il complesso delle risorse di cui un individuo dispone a livello personale e relazionale per trovare un soddisfacente adattamento pur in condizioni avverse o circostanze problematiche. Sviluppatosi finora negli ambiti problematici dell’età evolutiva, il costrutto multicomponenziale della resilienza attende
ora un approccio conoscitivo relativamente all’età adulta, e l’anziano con patologie croniche in riabilitazione costituisce in tal senso un campo di studio significativo.
Focus sull’ottimismo disposizionale
La letteratura disponibile sull’adulto individua diversi costrutti implicati nell’adattamento funzionale alla malattia cronica, alcuni dei quali in grado non solo di permettere il fronteggiamento delle situazioni critiche, ma
anche di proteggere l’individuo compensando l’impatto negativo della malattia stessa sulla Qualità di Vita.
Tra questi: le strategie di coping, la self-efficacy, il senso di coerenza, la spiritualità, l’ottimismo, il controllo percepito, il supporto sociale ed affettivo, etc.2. Il termine resilienza si presta ad indicare la loro interazione sinergica, che può di fatto assumere configurazioni individualizzate.
Volendo operare una selezione che permetta di coniugare qualità e fattibilità dell’approccio esplorativo, può essere utile accogliere le indicazioni di alcune review di ampio respiro che individuano nell’ottimismo disposizionale, quale fonte di resilienza, una variabile sia personologica che cognitiva a monte di altri costrutti che possono esserne considerati indicatori o epifenomeni. Ad esempio, è l’ottimismo ad attivare -attraverso la formulazione di aspettative favorevoli- strategie di coping più efficaci e costanti nell’affrontare le difficoltà.
Gli elementi di base dell’ottimismo disposizionale sono infatti le aspettative che l’individuo si costruisce relativamente alle possibilità di successo o fallimento nel perseguire gli obiettivi a cui associa valore3.
In numerosi studi sull’adattamento alla malattia cronica, l’ottimismo disposizionale risulta essere associato a più bassi livelli di depressione ed ansia, a un più alto benessere, all’adozione di migliori strategie di
coping, ad affettività positiva ed a una più bassa mortalità4-7.
È tuttavia necessario precisare che l’ottimismo disposizionale non costituisce il reciproco negativo della depressione: la presenza di disturbi psicologici può ostacolare, ma non precludere emozioni, relazioni e
propositività positive4. Pertanto, non è appropriato inferire la presenza di ottimismo dalla sola assenza di
depressione, e viceversa.
Nell’anziano, l’associazione tra ottimismo disposizionale ed invecchiamento sano è stata confermata in
un recente studio8, ed è risultata solo in parte mediata dall’adozione di comportamenti sani, stimolando l’interesse ad approfondimenti.
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Altri fattori protettivi nell’adattamento alla malattia
Supporto sociale e supporto familiare sono noti fattori di stabilità e di protezione nell’adattamento alla malattia cronica. Modulano inoltre l’impatto della depressione sul decorso della malattia: a parità di depressione, la presenza di supporto familiare e sociale attutisce l’impatto negativo1. L’argomento
non è nuovo all’assistenza geriatrica e neppure al contesto riabilitativo di per sé. La presenza di supporto familiare infatti si configura come necessaria al mantenimento dell’outcome terapeutico raggiunto ed alla prevenzione della non aderenza alle prescrizioni, temibile nemico della gestione a lungo termine dello stato di salute. La riabilitazione comporta inoltre l’apprendimento o il riapprendimento di abilità cognitive o comportamentali che richiedono a domicilio un attento monitoraggio ed una puntuale
supervisione sul loro effettivo, corretto e costante svolgimento9. I caregiver dei pazienti più anziani svolgono pertanto un ruolo fondamentale nell’ottimizzazione dell’approccio terapeutico e spesso vengono integrati nella messa a punto e nell’attuazione del progetto riabilitativo individuale. I loro bisogni10
ed il loro livello di benessere/malessere richiamano da tempo l’attenzione dei clinici11,12 come pure la
qualità del loro operato: l’International Classification of Functioning, Disability and Health13 ne esplicita la doppia valenza (barriera o facilitatore) che esso può assumere nell’adattamento del paziente alla sua
patologia cronica14.
Su un piano operativo, è quindi fondamentale valutare non solo la presenza di supporto familiare, ma
la sua qualità percepita dal paziente.
Anche per il supporto sociale è necessario tenere nella dovuta considerazione non soltanto l’estensione della rete di conoscenze, ma la sua effettiva accessibilità, la sua connotazione affettiva e la concretezza
nel fornire un’assistenza mirata e tempestiva, calibrata sui reali bisogni del paziente.
Il Supporto spirituale è molto importante soprattutto negli anziani. In particolare la fede religiosa è considerata a tutti gli effetti una strategia di coping poiché permette al paziente di proteggere il senso di coerenza della propria vita, favorendo l’attribuzione di un significato esistenziale o trascendentale alla malattia. Secondo diversi studi, la pratica religiosa si associa ad una minore incidenza di patologie acute e croniche, normando lo stile di vita, introducendo quotidiane occasioni di rilassamento attraverso la preghiera o la meditazione e ampliando la rete del supporto sociale2.
A fronte di tali evidenze, sorprende la frequente omissione di domande relative alla religiosità o alla spiritualità nella maggior parte degli strumenti valutativi psicologici anche a largo spettro. Fa eccezione un questionario interamente dedicato a questi aspetti, l’SRPB (Spirituality, Religion and Personal Beliefs) messo a
punto dal Gruppo che all’interno della OMS si occupa della Qualità della Vita15. Sulla sua applicabilità la ricerca si sta interrogando, ma va senza dubbio apprezzato lo sforzo di integrare nella pratica clinica elementi così importanti per i pazienti ed al tempo stesso così poco “tangibili”.
Un ambito nel quale l’importanza di rilevare le risorse oltre alle criticità emerge con forza è quello relativo alle differenze di genere nei processi di adattamento alla malattia cronica. Notoriamente infatti le
donne riportano molto spesso punteggi più alti alle scale di depressione, dolore e sintomi. Nonostante ciò,
dimostrano una migliore resilienza dopo eventi acuti di malattia ed in presenza di patologie croniche, attivando abilità di coping orientate sul problema e sviluppando attraverso la condivisione una rete di supporto efficace e funzionale1.Anche l’alta frequenza con cui le donne verbalizzano il loro disagio può essere ricondotta ad un loro più facile accesso al proprio mondo emotivo ed a una più agile decodifica dei
propri limiti e dei propri bisogni.
Il livello socio-economico costituisce una variabile delicata, forse difficile da indagare, ma importantissima. Una o due domande caute, ma mirate, rivolte al paziente stesso od al familiare di riferimento possono essere sufficienti a collocare il paziente a livello basso, medio o alto. L’utilità di tale rilevazione poggia
su acquisizioni ormai consolidate circa il rapporto inverso che lega morbilità e mortalità all’appartenenza
agli strati più disagiati della popolazione.
Anche il livello di scolarità richiede più attenzione di quanto avvenga solitamente: al di là del suo evidente nesso con il livello socio-economico, rappresenta un immediato accessibile indice dello stato culturale del paziente, a sua volta connesso a più evolute risorse nella comprensione e gestione a lungo termine della malattia cronica.
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Implicazioni terapeutiche
La rilevazione delle risorse personali ed interpersonali di cui il paziente anziano dispone è il presupposto necessario all’applicazione di strategie terapeutiche che stanno ricevendo la dovuta attenzione da
parte del mondo scientifico e clinico. Conoscere il bagaglio esperienziale ed adattativo del paziente significa infatti potergli offrire un aiuto più mirato, qualitativamente consono alla sua natura ed al suo background e pertanto integrabile senza forzature nel sistema cognitivo individuale.
Questo è sempre fondamentale quando si appronta un intervento psicoterapeutico, ma diventa imprescindibile sulla popolazione anziana, caratterizzata da resistenza al cambiamento e quindi intrinsecamente orientata al mantenimento di schemi e pattern già appresi e consolidati. Rilevare le risorse già presenti
e potenziarne l’impiego o direzionarne meglio l’applicazione può rendere l’offerta di supporto più efficace e meno faticosa sia per il paziente che per l’operatore.
Preziosi esempi provenienti dall’applicazione dei Positive Psychology Interventions (PPI) incoraggiano a verifiche ed approfondimenti. Una recente meta-analisi segnala infatti che i trattamenti centrati sul rinforzo di sentimenti positivi, sull’incremento di comportamenti positivi e sulla stimolazione di cognizioni
positive è in grado di aumentare il benessere e di ridurre i sintomi depressivi 16. La relativa semplicità delle strategie proposte (ad es. scrivere lettere di gratitudine, praticare il pensiero ottimistico, richiamare esperienze positive, etc.) lascia intuire un positivo bilancio costo-beneficio dei PPI, a condizione che la loro
scelta segua un attento assessment delle risorse disponibili, e che rifletta una genuina volontà di guardare
al paziente anziano non più o non solo come portatore di criticità e fragilità.
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DEFINIZIONE DEGLI OUTCOME IN PSICOGERIATRIA
Renzo Rozzini
Istituto Ospedaliero-Fondazione Poliambulanza, Brescia e Gruppo di Ricerca Geriatria, Brescia
La valutazione, e quindi la definizione, degli outcome clinici (ovvero, la misura dei risultati dei benefici delle cure) è un’esigenza fortemente sentita in medicina. In area psicogeriatrica la valutazione dell’outcome clinico rimane, ad oggi, un obiettivo non completamente realizzato.
La definizione degli outcome di ogni atto clinico è l’obiettivo finale nella valutazione della qualità oggettiva: essa è fondamentale per assistere le decisioni cliniche, attuare programmi di verifica e miglioramento della qualità, consentire un’analisi economica in termini di costo/beneficio, standardizzare i risultati e
pianificare l’allocazione delle risorse, secondo i concetti innovativi della clinical governance.
In psicogeriatria la mancata definizione degli outcome non pone però necessariamente un intervento
al di fuori della razionalità; indica invece l’esigenza di una scelta di fondo, la cui utilità è tanto più comprensibile quanto più mancano modelli di riferimento. Anche se si tratta di un obiettivo significativo, l’esistenza di molte procedure delle quali non vi è una dimostrazione diretta di efficacia, non ne limita l’attuale applicabilità. Vi sono infatti una serie di problemi metodologici (la valutazione dell’efficacia degli interventi
non tiene conto del singolo caso, i gruppi studiati sono disomogenei e non rappresentano la complessità
della realtà clinica, ecc.) che devono essere superati nel prossimo futuro, senza però mettere in discussione il principio che l’efficacia (il risultato) è il parametro guida alla definizione della qualità.
Alla qualità oggettiva si associa un’altra serie di fattori, legati prevalentemente ai processi che caratterizzano le prestazioni. In questo ambito uno spazio riveste la valutazione di qualità da parte dell’utente, anche se spesso prescinde da una chiara identificazione dei risultati raggiunti. Come è intuibile infatti, l’anziano tende a privilegiare sul piano soggettivo le modalità di un servizio più immediatamente comprensibili, mentre non sempre un outcome è identificato come tale se non in maniera generica (ad esempio, una
migliore condizione di salute sarà percepita anche dal paziente, mentre, al contrario, un parametro biologico importante per la salute -senza una ricaduta soggettiva- non sarà interpretato come un risultato).
La corretta lettura della domanda è premessa indispensabile per costruire qualsiasi atto di cura progetto e per ipotizzare gli obiettivi da raggiungere. Il primo aspetto di fondo che deriva da questa impostazione
è rappresentato dalla difficoltà di cogliere il contenuto di una domanda spesso espressa in termini complessi (sia per quanto riguarda il linguaggio comunicativo, sia per l’interazione degli ambiti che determinano la qualità della vita dell’anziano). Molto è stato scritto a questo proposito, ma la difficoltà di passare dalla rilevazione dello stato di salute, attraverso la valutazione oggettiva della presenza di malattie, delle prestazioni cognitive, dello stato psico-affettivo, del livello funzionale e delle condizioni socio-ambientali, alla decisione operativa resta uno dei problemi centrali della psicogeriatria (e della geriatria nel suo insieme).
Le tecniche di valutazione abitualmente impiegate in geriatria colgono dimensioni somatiche, psicologiche, socio-relazionali in modo sufficientemente preciso; però l’esperienza insegna come anche l’analisi
più attenta non conduca in modo lineare a risultati utili per il processo decisionale. Ad esempio, i tentativi di attribuire al parametro “qualità della vita” un valore unitario, in grado di rappresentare in modo univoco la collocazione soggettiva dell’individuo rispetto al proprio ambiente, si sono scontrati con problemi di metodo, che nascondono aspetti di fondo sulla realistica possibilità di riassumere in un parametro monodimensionale la multiformità e la ricchezza della vita di un uomo che ha vissuto a lungo.
La procedura del passaggio dalla valutazione all’intervento è difficile quando la risposta è di tipo esclusivamente clinico (si pensi al collegamento tra malattie e disabilità e alla complessità di un approccio terapeutico che allo stesso tempo miri alla riduzione della disabilità -l’effetto- ed al controllo dei processi patologici sottostanti -la causa-); ma è complessa anche quando riguarda l’organizzazione di servizi, che devono tener conto delle multiformi valenze della vita della persona che invecchia. Inoltre nell’organizzazione è necessario contemperare le esigenze di attenzione al singolo con la proposizione di un progetto
che deve aver valore per gruppi più o meno ampi.
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Il raggiungimento di un outcome non può prescindere dalla sistematica lettura del “punto di partenza”. La valutazione multidimensionale resta il mezzo indispensabile per caratterizzare la qualità; il suò ruolo sembra essere oggi diffusamente riconosciuto. Per produrre gli effetti positivi, ampiamente dimostrati
in letteratura, deve essere effettuata in ogni incontro con il paziente anziano; è però erroneo confonderne il ruolo di strumento con quello di fine (come in passato qualcuno ha cercato di fare). L’outcome di un
atto medico, di un servizio, è costituito dal valore differenziale dei parametri valutati nella valutazione
multidimensionale tra il momento della presa in carico del paziente ed i momenti di valutazione successivi; se manca una metodologia il più possibile oggettiva, la valutazione è affidata al caso od alla soggettività dell’operatore.
Dal punto di vista teorico, nell’anziano è più difficile che nell’adulto definire a priori un risultato da
raggiungere. Le malattie croniche infatti non sono guaribili e l’intervento diagnostico-terapeutico è legato alla definizione di obiettivi intermedi, fondati sul controllo delle patologie intercorrenti, sul raggiungimento di un maggior grado di autosufficienza (e quindi un minor “peso” del complesso di patologie che
riducono l’autonomia dell’anziano), sul controllo clinico accurato di un processo più o meno lentamente evolutivo. Un aspetto interessante è quindi la definizione dei tempi delle osservazioni necessarie per il
raggiungimento di un determinato outcome; quando si tratta di servizi di lunga durata, gli obiettivi devono essere definiti periodicamente, ad intervalli che sono strettamente dipendenti dalle condizioni del fruitore. La cronicità della condizione non giustifica l’ipotesi di una stabilità clinica, ma anzi indica un quadro
di assieme in continua evoluzione, che deve essere compreso nelle sue specifiche determinanti. Per nessun motivo si dovrebbe accettare che non venga effettuata una rilevazione periodica, anche quando l’apparente cronicità di una situazione farebbe ipotizzare una relativa stabilità clinica e psicosociale. È stato
un significativo avanzamento quello attuato da alcuni servizi all’anziano (ad es. le UVA) l’aver fondato la
loro esistenza sulle rilevazioni ripetute; questo atteggiamento ha esaltato un’implicita visione positiva dell’utilità dell’intervento stesso, al quale si attribuisce un ruolo qualitativamente elevato, che va ben oltre la
mera assistenza.
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NUOVI ANTIDEPRESSIVI E ANZIANI: PER UN IMPIEGO RAZIONALE
Claudio Vampini
2° Servizio di Psichiatria, Ospedale Civile Maggiore, Verona
Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università di Udine
Introduzione
La depressione rappresenta un disturbo relativamente frequente in età avanzata, ma viene spesso sotto-diagnosticata e sotto-trattata per una serie di fattori di ordine clinico e culturale, quali, ad esempio, il ritenere che la tristezza sia connaturata alla vecchiaia, che l’impiego di antidepressivi (AD) negli anziani sia
rischioso e che gli anziani stessi siano troppo rigidi per poter modificare il loro stato psicologico. I dati epidemiologici che riguardano la depressione in età senile variano a seconda della popolazione studiata e del
metodo di rilevazione. Mentre la prevalenza dei disturbi depressivi formalmente diagnosticati è equivalente a quella degli adulti giovani, quella di sintomi depressivi risulta più comune negli anziani. Gli studi condotti nell’ambito della Medicina Generale evidenziano una prevalenza di Depressione Maggiore e di sintomi depressivi pari, rispettivamente, al 10% e al 20%, mentre in reparti ospedalieri i tassi risultano, rispettivamente, del 10-15% e 20-25% e in strutture residenziali del 12-16% e 15-40%6,37.
L’identificazione della depressione negli anziani può essere resa difficoltosa per manifestazioni cliniche
peculiari. I classici segni e sintomi depressivi si ritrovano anche nell’anziano, tuttavia nell’anziano l’espressività sintomatologica frequentemente si focalizza sulla dimensione somatica e/o cognitiva11. Viene quindi richiesta ai clinici un’attenzione diagnostica particolare, soprattutto in presenza di altre situazioni patologiche o malattie che possono mascherare una depressione o renderne difficile il riconoscimento.Talora
i quadri depressivi nell’anziano possono caratterizzarsi per la presenza di una noxa organica o specificamente encefalopatia, che può modulare l’espressività sintomatologica in senso subconfusionale o psicotico (specie a tematica persecutoria, ipocondriaca o di rovina). Un quadro paradigmatico di depressione senile è la cosiddetta Depressione Vascolare, nella quale la RMN documenta un quadro di iperintensità sottocorticale, caratterizzata clinicamente da deterioramento cognitivo, rallentamento psicomotorio, apatia,
deficit di funzione esecutiva, disabilità e assenza di storia familiare per depressione. La Depressione Vascolare risulta in genere scarsamente responsiva agli AD e rappresenta una quota, non quantificabile per assenza di dati specifici, delle depressioni senili “farmaco resistenti”2,28.
Sulla base di queste premesse si comprende come l’utilizzo di criteri clinico nosografici tradizionali possa sovente portare a sottostime diagnostiche della malattia depressiva, a causa della scarsa adeguatezza di
alcuni item di valutazione, quando applicati ad una popolazione anziana9. Il mancato riconoscimento porta inevitabilmente ad un mancato trattamento o comunque all’adozione di misure terapeutiche inadeguate. Le conseguenze psicologiche e fisiche di un non trattamento possono essere gravi. La depressione, intesa non solo in senso categoriale, ma anche come “carico dimensionale” di sintomi è infatti correlata ad
un incremento della mortalità naturale e per suicidio, ad una prognosi peggiore delle malattie somatiche
concomitanti e ad un incremento di utilizzo di risorse sociosanitarie16,39,56,59.
Il trattamento con antidepressivi
Un primo aspetto da considerare, quando si inizia una terapia antidepressiva nel paziente anziano, è senza dubbio un coinvolgimento del paziente stesso e dei suoi familiari nel trattamento.Anche in questo caso,
come in molti altri in campo medico, diventa basilare una corretta informazione non soltanto sul tipo di terapia, ma anche sul significato della stessa. Purtroppo persistono ancora molti pregiudizi ed informazioni distorte sugli psicofarmaci e sul risultato di un loro utilizzo. Il farmaco antidepressivo viene talora inteso come sinonimo di tossicità, di dipendenza, di riduzione di vigilanza o peggio ancora come dannoso per il cervello. Sulla base di questi presupposti, è chiaro che la terapia farmacologica possa venire accettata malvolentieri e considerata solo accessoria, con comprensibili riverberazioni sulla compliance. Sarà perciò fondamentale un intervento psico-educazionale che consista, innanzitutto, nel far comprendere al paziente ed al
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suo entourage che la depressione è una malattia curabile, non solo in termini di supporto di tipo psicologico, ma anche di intervento medico. Il concetto che la malattia depressiva nell’anziano sia un evento ineluttabile e scontato, come reazione di fronte ai tanti eventi di perdita, alla riduzione di autonomia o all’incedere dell’età, ha spesso portato a non considerare l’opportunità di un trattamento con AD.Tuttavia, sarà importante chiarire che, indipendentemente dall’eziologia, una depressione che persista nel tempo rappresenta sempre un elemento patologico che può influenzare negativamente non soltanto la sfera psichica o
la qualità di vita del paziente, ma anche la sfera somatica, slatentizzando od aggravando eventuali patologie
mediche concomitanti. Una corretta informazione a pazienti e familiari dovrà poi essere completata specificando come una terapia antidepressiva richieda una certa latenza d’azione (almeno 3-4 settimane): molto
spesso infatti, l’aspettativa del paziente di ottenere risultati immediati, parallelamente al timore di una dipendenza da AD e a possibili effetti indesiderati precoci, porta a sospensioni incongrue della terapia. Oltre a
sottolineare che gli AD non inducono dipendenza, sarà ancora più importante far comprendere come il trattamento antidepressivo non debba essere interrotto dopo la risoluzione dell’episodio, ma anzi continuato
anche per lunghi periodi di tempo, onde evitare l’elevato rischio successivo di ricadute.
Problemi generali di ordine farmacologico
Nell’ottica di un intervento psicofarmacologico non vanno trascurate modificazioni biologiche legate
all’età, corrispondenti ad una ridotta capacità funzionale dell’organismo, che si manifestano con una elevata variabilità interindividuale e, nello stesso soggetto, con diverso interessamento di vari organi e apparati. Gli anziani presentano una significativa riduzione della capacità metabolica a carico dei sistemi epatici ossidativi, mentre per le vie di glucurono-coniugazione non risultano sensibili variazioni età-correlate.
Peraltro, la riduzione del flusso ematico del fegato può determinare un globale incremento dell’emivita di
tutti i farmaci, indipendentemente dalle loro vie cataboliche. Allo stesso modo possono influire le modificazioni del volume di distribuzione del farmaco, che nell’anziano dipendono tanto da problemi vascolari
(quali la sclerosi vasale diffusa e la ridotta gittata cardiaca), quanto dalla riduzione delle albumine seriche
e dalle variazioni di massa corporea. Infatti, mentre la massa muscolare si riduce, così come il contenuto idrico globale dell’organismo, il tessuto adiposo aumenta. In tal modo i farmaci liposolubili, quali la maggior
parte degli psicofarmaci, presentano sia un accumulo che un aumento del volume di distribuzione, parametri entrambi che sottendono una durata d’azione più protratta. È noto come molti farmaci si leghino alle albumine plasmatiche e come i livelli di albumina tendano a ridursi con l’età: da tale fatto consegue un
aumento della frazione libera dei farmaci ad alto legame siero-proteico, con potenziamento dell’effetto farmacologico. L’eliminazione del farmaco è inoltre influenzata dalla riduzione del flusso ematico renale, del
filtrato glomerulare e della funzionalità tubulare: anche tali parametri possono concorrere ad aumentare
l’emivita di una sostanza.
A tali modificazioni farmacocinetiche vanno aggiunte le modificazioni farmacodinamiche, rappresentate soprattutto da una riduzione globale della trasmissione neuronale, sia in termini di riduzione quantitativa neurotrasmettitoriale, sia di riduzione di sensibilità recettoriale. Tali dati giustificano le frequenti risposte anomale dell’anziano alla terapia psicofarmacologica (esempio fenomeni paradossi) e l’ipersensibilità agli effetti indesiderati dei farmaci58. È noto infatti come in età senile possano verificarsi una riduzione del numero dei neuroni colinergici che dal tronco proiettano alla corteccia, con un conseguente calo
della disponibilità di colina a livello del SNC21; una riduzione del sistema dopaminergico, soprattutto per
la riduzione della substantia nigra e per la riduzione dell’attività di sintesi e catabolismo della dopamina;
un calo del tono noradrenergico per una sostanziale riduzione dei neuroni e dei reccetori noradrenergici
a livello del locus coeruleus25; una riduzione del numero delle terminazioni nervose nella neocorteccia e
dell’attività della triptofano idrossilasi, nonché complesse e varie modificazioni dei sottotipi recettoriali
serotoninergici60; una riduzione del sistema GABAergico in termini di riduzione dei livelli di GABA e forse di numero di recettori51.Tali modificazioni farmacodinamiche sono altresì aggravate dalla presenza di frequenti patologie mediche, in primis neurologiche, che possono alterare ulteriormente il substrato neurobiologico. Allo stesso modo patologie sistemiche (epatiche, renali, cardiovascolari, endocrine od oncologiche) possono complicare ulteriormente le variazioni farmacocinetiche tipiche dell’anziano.
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Inoltre, la presenza di politerapie può portare da un lato alla riduzione di compliance, dall’altro ad una
riduzione di tollerabilità ed efficacia degli psicofarmaci, con conseguente aumento del rischio di interazioni farmacologiche importanti. Mentre le interazioni farmacocinetiche avvengono a livello delle varie tappe metaboliche, modificando sensibilmente la concentrazione del farmaco, le interazioni farmacodinamiche possono avvenire direttamente a livello di un recettore specifico (esempio un effetto cumulativo anticolinergico), oppure indirettamente attraverso l’effetto combinato di due farmaci con effetti farmacologici simili (esempio effetto sedativo), ma con meccanismo d’azione differente. Un esempio tipico è l’interazione tra farmaci antidepressivi triciclici ed altri composti forniti di attività anticolinergica (esempio antiparkinsoniani, antispastici, antipsicotici), i quali possono concorrere a potenziare gli effetti anticolinergici centrali o periferici.Altro esempio è la riduzione di risposta dei recettori adrenergici che può contribuire all’aumento del rischio di ipotensione ortostatica, qualora si utilizzino alcuni antidepressivi in associazione con antipertensivi, con conseguente rischio di cadute, fratture, stroke o incidenti cardiovascolari.
Criteri d’impiego razionale degli AD
Non esistono a tutt’oggi regole univocamente condivise per il trattamento con AD nella popolazione
anziana, anche se si vanno delineando alcune linee generali di comportamento derivate da dati evidencebased1, 3.Vengono riassunti di seguito alcuni punti chiave che possono orientare un impiego razionale degli AD negli anziani. (Figura 1)
Figura 1
a) Indicazioni per il trattamento farmacologico
La decisione di trattare farmacologicamente un paziente anziano che presenta un episodio depressivo
deve essere presa in base alla gravità delle manifestazioni cliniche. Va tenuto presente che, a differenza di
quanto si verifica con i soggetti giovani, negli anziani le depressioni di media gravità rispondono al trattamento con i farmaci AD alla stregua delle forme più gravi, a riprova del fatto che la depressione senile è un’entità clinica diversa o almeno che necessita di una diversa valutazione rispetto alle forme depressive adulto-giovanili3. Sulla necessità di trattare un soggetto anziano con un quadro depressivo di significato clinico (Depressione Maggiore, Distimia, Depressione Minore, ecc), vi è unanime consenso. Minori certezze, soprattutto
per l’assenza di studi controllati, esistono invece sul trattamento dei disturbi depressivi sottosoglia. Coloro che
sostengono l’opportunità di trattare la depressione senile, indipendentemente dall’inclusione o meno in categorie diagnostiche formali, si rifanno all’osservazione che la malattia appare distribuita lungo un “conti-
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nuum” che va dalla presenza di sintomi minimi fino ai quadri di Depressione Maggiore14,31. Si è inoltre osservato che non esiste una soglia critica di gravità della sintomatologia depressiva, in quanto la capacità funzionale è linearmente correlata con la gravità della sintomatologia24. Elementi decisivi per valutare la gravità di
una depressione e quindi la necessità di un trattamento farmacologico vengono considerati:
a) L’entità della deflessione timica e/o dell’anedonia
b) La comparsa di segni e sintomi biologici: disturbi del sonno, dell’appetito, astenia/adinamia
c) Variazioni circadiane della sintomatologia con peggioramento al mattino
d) La presenza di agitazione o rallentamento psicomotorio
e) Una marcata riduzione del funzionamento psicosociale e dell’autonomia
f) Una durata dell’episodio di almeno 2 settimane
g) Sintomi psicotici concomitanti
b) Obiettivi del trattamento
1. Remissione dei sintomi. Il trattamento della depressione nell’anziano deve avere come obiettivo la
completa risoluzione di tutti i sintomi della depressione. I sintomi residui, benché siano sotto la soglia di
una della diagnosi categoriale, rappresentano infatti un fattore di rischio di cronicizzazione e predispongono all’insorgenza di malattie somatiche20. I pazienti con sintomi residui tendono inoltre a guarire con maggiore difficoltà in caso di malattie somatiche18.
2. Prevenzione del suicidio. Gli studi epidemiologici hanno evidenziato, nella maggior parte dei Paesi, un incremento del tasso di suicidi al crescere dell’età, con un rischio suicidario circa quattro volte più
elevato in età avanzata, ed una più stretta relazione, negli anziani, tra suicidio e presenza di depressione17,34.
La suicidalità si declina in un’ampia gamma di pensieri, vissuti e comportamenti che vanno dal taedium
vitae, alla formulazione di un piano, al compimento del gesto autolesivo. Alcuni comportamenti di insorgenza “ex novo” nell’ambito di un quadro depressivo, quali trascurare la propria salute fisica, rifiutare le cure o addirittura il cibo, vanno precocemente identificati e decodificati nel loro possibile significato di “equivalenti suicidari”. Nella prevenzione dei comportamenti suicidari negli anziani, che deve comunque realizzarsi mediante una strategia di interventi a vari livelli, il riconoscimento ed il corretto trattamento delle condizioni depressive occupano un ruolo fondamentale5, benché non esistano a tutt’oggi dati convincenti a
sostegno che l’impiego di AD possa, di per sé, determinare una riduzione dei tassi di suicidio. È nozione clinica comune che, di fronte ad un quadro depressivo con ideazione suicidaria, il trattamento con AD richieda un attento monitoraggio nelle primissime fasi, nelle quali vi può essere un’attivazione psicomotoria del
paziente prima ancora che il tono dell’umore sia migliorato e l’ideazione autolesiva scomparsa, con la temibile conseguenza di un passaggio all’atto12,52.
3. Recupero dell’autonomia funzionale. Nei criteri diagnostici della Depressione Maggiore è previsto che i sintomi siano sufficientemente severi da interferire con le attività sociali e lavorative quotidiane
del paziente. Dal momento che, anche nella Depressione Minore e sottosoglia si osserva una riduzione delle capacità funzionali, il ripristino della funzionalità fisica, sociale ed occupazionale (in senso lato) dell’anziano depresso rappresenta l’obiettivo primario dei trattamenti.
4. Prevenzione delle recidive e della cronicizzazione. La prevenzione delle recidive e della cronicizzazione è uno degli obiettivi primari del trattamento della depressione. Occorre sottolineare che un non
ottimale controllo terapeutico dell’episodio acuto e/o una inadeguata continuazione del trattamento sono
elementi che contribuiscono al fatto che nell’anziano la frequenza di recidive risulta superiore al 50%.
5. Controllo dei cofattori depressogeni. Il trattamento della depressione deve costituire anche l’occasione per intervenire su tutti quei fattori iatrogeni, fisici e sociali che possono agire da cofattori depressogeni. In particolare andranno considerate le terapie concomitanti, lo stato di nutrizione e l’alimentazione,
le malattie somatiche e il contesto sociale nel quale il paziente vive.
c) Scelta del farmaco
Prima ancora di optare per uno specifico composto si deve tenere in considerazione la storia clinica
del singolo paziente: una corretta anamnesi psicofarmacologica potrà individuare un antidepressivo al qua-
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le vi sia stata una risposta positiva in passato: in tal caso dovrebbe venire impiegato il medesimo farmaco,
tranne in casi in cui siano subentrate, nel tempo, controindicazioni all’impiego dello stesso. La storia clinica può, analogamente, evidenziare intolleranze a uno o più AD. Sulla base delle evidenze scientifiche accumulate negli ultimi 30 anni, i farmaci AD che presentano un miglior rapporto rischio/beneficio, sia pur nell’ambito di una eterogeneità intra- ed inter-classe, sono i composti II generazione, illustrati nella Figura 2.
Figura 2
All’interno della gamma di questi nuovi composti la scelta dovrà basarsi, oltre che su una conoscenza delle caratteristiche delle singole molecole, sulla tipologia del paziente e sui cluster sintomatologici
prevalenti.
Efficacia. La scelta in base all’efficacia terapeutica non può rappresentare il solo criterio, dal momento che pressochè tutte le classi di AD dispongono di un’ampia documentazione scientifica che ne conferma la potenzialità antidepressiva. Recenti metanalisi degli studi randomizzati e controllati (RCT) versus
placebo sul trattamento con farmaci AD nell’anziano hanno documentato che i composti di I e di II generazione sono superiori al placebo ed equivalenti tra di loro nell’indurre la remissione di episodi depressivi maggiori15,35,46,54,62(Figura 3).
I risultati degli RCT che documentano l’efficacia degli AD nella fase acuta della depressione dell’anziano riportano tassi di risposta variabili dal 50% al 70%, rispetto al 30% del placebo15. L’interpretazione dei
dati di letteratura non può non tenere conto di alcuni problemi metodologici che ne riducono l’applicabilità nella pratica clinica quotidiana.Anzitutto, la maggior parte degli studi clinici risultano effettuati su pazienti di età compresa tra 55 e 65 anni, mentre pochissime informazioni sono disponibili per quanto riguarda i soggetti di oltre 80 anni13,32,45. Questa carenza può dipendere dal fatto che l’età minima di arruolamento nei trial clinici viene mantenuta bassa per facilitare il reclutamento dei pazienti. Le informazioni ottenute da trial effettuati su pazienti di una generazione più giovane non sono estrapolabili alla popolazione
dei grandi anziani; a tutt’oggi non è possibile pertanto definire linee guida per un trattamento razionale con
AD nei pazienti di età superiore agli 80 anni. Inoltre, i pazienti descritti negli studi clinici sono solitamente selezionati in modo da essere liberi da malattie somatiche e da terapie farmacologiche concomitanti. In
altri termini, essi costituiscono un campione non rappresentativo della popolazione anziana depressa che
si incontra nella pratica clinica. Dati piuttosto scarsi documentano come nell’anziano sintomi depressivi concomitanti con patologie internistiche o neurologiche possano essere trattati con beneficio27,41 ed è auspicabile che la ricerche future colmino questo gap sempre più anacronistico rispetto alla pratica clinica.
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Figura 3
Infine, la maggior parte degli studi clinici richiedono la presenza di Depressione Maggiore come criterio di
inclusione; pertanto la quota rilevante di depressioni senili che presentano caratteristiche atipiche o sottosoglia non ha a tutt’oggi una valida documentazione scientifica che ne possa orientare il trattamento.
Oltre all’efficacia antidepressiva espressa dalle variazioni dei punteggi globali delle rating scale utilizzate negli RCT, nella pratica clinica assume grande rilevanza la valutazione di una eterogeneità nello spettro di efficacia da parte dei vari AD sui principali ambiti dimensionali della depressione senile. Essi rappresentano di fatto, al di là di ogni forzatura categoriale, la “declinazione psicopatologica” individuale della malattia depressiva nel singolo individuo e sono da considerarsi quindi i bersagli clinici elettivi di un trattamento mirato alla remissione sintomatologica.
La duloxetina, ad esempio, un composto appartenente alla classe degli Inibitori Selettivi del Reuptake
della Serotonina e della Noradrenalina (SNRI), ha evidenziato un’azione specifica e indipendente di miglioramento della funzione cognitiva e della sintomatologia algica in anziani affetti da depressione maggiore43. Il bupropione, un composto che inibisce il reuptake della Dopamina, si è dimostrato efficace in presenza di sintomi prevalenti quali astenia e ipovolizione23. Infine, elementi quali panico, ossessioni/compulsioni o impulsività/aggressività richiamano notoriamente l’uso di composti quali gli Inibitori Selettivi del
Reuptake della Serotonina (SSRI)8.
Terapia farmacologica della depressione psicotica. I pazienti con depressione psicotica rispondono
in modo insoddisfacente al trattamento con soli AD. In studi randomizzati controllati effettuati su adulti
giovani è stata documentata la maggior efficacia di una terapia combinata con AD triciclici ed antipsicotici tradizionali48. Questa combinazione sembra non essere così efficace nei soggetti anziani, benché i dati
di letteratura siano assai scarsi: in uno studio su 36 pazienti di età superiore a 50 anni affetti da depressione maggiore il trattamento con nortriptilina associata a perfenazina non è risultato più efficace rispetto alla somministrazione di un solo antidepressivo37. Non vi è alcuno studio controllato condotto negli anziani con antidepressivi di nuova generazione e con antipsicotici diversi dalla perfenazina. Ciò appare tanto
più sorpendente ove si pensi al dato ampiamente condiviso circa il rapporto beneficio/rischio sfavorevole dei composti tradizionali, sia AD che antipsicotici, in particolare nella popolazione anziana.Alexopoulos
et al1 nell’US Expert Consensus raccomandano la combinazione antidepressivo-antipsicotico, con indicazione a scegliere i singoli farmaci in base ad una valutazione individuale del rapporto rischio/beneficio e
consigliando una supervisione specialistica6.
La depressione resistente. Una problematica particolare può essere rappresentata dai pazienti non responder alla terapia di prima linea, con i quali è utile seguire alcune linee generali di condotta terapeutica.
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Dopo aver verificato che il farmaco sia stato assunto regolarmente e nei dosaggi adeguati, per un periodo
di tempo di almeno 4 settimane, si potrà valutarne la risposta in termini di efficacia. Se quest’ultima risulterà assente o non soddisfacente, sarà molto improbabile che un prosieguo del trattamento conduca a risultati migliori. In tal senso, prima ancora di optare per un cambiamento del farmaco, sarà opportuno verificare che non siano presenti fattori di resistenza agli antidepressivi, eventualità non rara nel paziente anziano.
È il caso, ad esempio, della co-presenza in terapia di farmaci potenzialmente depressogeni (antipertensivi, steroidi, antipsicotici di prima generazione, benzodiazepine a dosi incongrue, farmaci vasoattivi ecc.), di deficit di folati o di vitamina B12, ipotiroidismo, demenza, cerebropatie vascolari ed altri disturbi neurologici, o
altre patologie mediche non ben controllate (es. diabete).Attualmente non esistono dati derivati da studi controllati circa il corretto atteggiamento terapeutico di fronte ad una depressione resistente nel paziente anziano. Pertanto il trattamento si basa più su dati empirici od esperienziali individuali, anche se vengono suggerite alcune strategie di massima che possono orientare la gestione terapeutica in caso di non risposta ad
un primo trattamento antidepressivo26. L’ottimizzazione del dosaggio rappresenta il primo provvedimento
da adottare, adeguando le dosi al livello superiore del range terapeutico o comunque a quello massimo tollerato dal paziente in termini di collateralità. In caso di ulteriore inefficacia successive opzioni sono quelle
di un passaggio ad un composto di classe diversa (ad es. un farmaco SNRI al posto di un SSRI), o l’associazione di AD di classi differenti (es. SSRI o SNRI+ NaSSA, SSRI+Bupropione, SSRI+Nortriptilina, ecc), tenendo
presente che tutte queste strategie sono poco supportate in letteratura e comportano il rischio di incremento di effetti indesiderati e/o interazioni farmacologiche. Una possibile soluzione, risultata efficace nel 50%
dei casi di non risposta, è l’associazione con Sali di Litio, che tuttavia pone negli anziani alcuni problemi di
tossicità, tra cui la sindrome serotoninergica3,6,22. In ogni caso, di fronte ad una resistenza ad un primo trattamento sarà opportuna un’attenta revisione dell’anamnesi psicofarmacologica, ed eventualmente della diagnosi, per individuare fattori di resistenza già citati precedentemente.
Tollerabilità e sicurezza. Risulta ormai assodato come la scelta del farmaco antidepressivo debba basarsi, anche e soprattutto sul diverso profilo di tollerabilità e sicurezza e sulle possibili interazioni farmacologiche. È prassi comune ormai nota il cercare di evitare nell’anziano l’impiego di farmaci antidepressivi di vecchia generazione, quali i TCA, specie i composti aminici terziari (amitriptilina, clomipramina, imipramina, ecc.). Essi, infatti, presentano un quadro di collateralità significativo, complesso e solitamente
persistente e verso il quale sono scarsi i fenomeni di tolleranza (Figura 4)47,50. La nortriptilina, composto
aminico secondario, rappresenta il triciclico più documentato negli anziani e quello a minor collateralità
di tipo autonomico.
Figura 4
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L’orientamento moderno nella terapia antidepressiva dell’anziano è quindi indirizzato verso l’impiego
di molecole a più bassa collateralità, quali i farmaci di II generazione, in particolare gli SSRI e gli SNRI. La
buona tollerabilità, associata al fatto che la maggior parte di questi composti può essere somministrato in
monodose giornaliera, facilitando ulteriormente la compliance, rende tali classi di prima scelta nell’anziano3,22 (Figura 5).
Figura 5
Gli SSRI presentano una minima affinità per i recettori muscarinici, istaminergici, noradrenergici e dopaminergici. Gli effetti collaterali più frequenti in età geriatrica sono quelli di tipo gastroenterico (nausea,
iporessia, gastralgie, raramente vomito e diarrea), che compaiono nel 20-30% dei pazienti e risultano abitualmente transitori8. Talora può essere utile un’associazione temporanea con una benzamide, in specie
quando il paziente polarizzi particolarmente su turbe somatiche gastroenteriche o sull’iporessia come sinonimo di patologia o di fallimento della terapia. Un tipo di collateralità tanto comune, quanto poco indagata con gli SSRI, è quella riguardante la sfera sessuale, specie un ritardo nell’orgasmo ed in misura minore un deficit erettile od una riduzione della libido. In complesso, oltre il 50% dei soggetti trattati con SSRI
riferiscono, a richiesta specifica, una qualche disfunzione sessuale33; sorprendentemente, non vi sono in proposito dei dati riferiti alla popolazione anziana. Gli effetti collaterali più comuni degli SNRI (venlafaxina e
duloxetina) sono sia di tipo serotoninergico che noradrenergico (xerostomia, vertigini, ecc). Meno frequenti e rilevanti rispetto agli SSRI appaiono invece gli effetti di tipo sessuale. La collateralità cardiovascolare comprende un aumento, solitamente lieve, della frequenza cardiaca, ed un incremento persistente della pressione arteriosa, dose-dipendente. Quest’ultimo effetto risulta più frequente e marcato con venlafaxina rispetto a duloxetina. Di fatto, nella popolazione anziana studiata nell’ambito degli RCT, l’incremento pressorio indotto da duloxetina, diversamente da quanto accade negli adulti giovani, risulta mediamente sovrapponibile al placebo61. Il bupropione presenta, quali effetti collaterali più frequenti, xerostomia
ed insonnia, mentre vanno segnalati da un lato l’assenza di effetti di tipo sessuale, dall’altro l’abbassamento della soglia epilettogena, che appare dose-dipendente. L’incidenza di crisi epilettiche con bupropione
a dosi di oltre 300 mg/die (cioè al di fuori del range terapeutico approvato in Europa) è pari a 0.4% e risulta significativamente superiore rispetto agli altri AD%55.
Infine possiamo menzionare un gruppo piuttosto eterogeneo di molecole, rappresentate dagli AD eterociclici (trazodone), dagli NARI (inibitori dell’uptake della noradrenalina tra cui la reboxetina), dai NaSSA
(antagonisti dei recettori presinaptici serotoninergici e noradrenergici, tra cui la mirtazapina). Sulla base del-
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la diverse attività neurotrasmettitoriali e recettoriali, avremo caratteristiche cliniche e collateralità differenziate tra i vari composti citati57.
Oltre agli aspetti generali e più noti della collateralità è opportuno descrivere brevemente alcuni effetti indesiderati propri dei nuovi AD che, per frequenza e/o conseguenze specifiche, risultano interessare in
modo peculiare la popolazione anziana.
Modificazioni dell’aggregazione piastrinica. Le piastrine rappresentano un modello di neurone serotoninergico, per la presenza sulla loro superficie di numerosi recettori per la serotonina e di siti per la
captazione del neurotrasmettitori38. L’azione degli SSRI e degli SNRI determina, anche nelle piastrine, l’inibizione della ricaptazione di serotonina e quindi il suo depauperamento intracitoplasmatico. Le ripercussioni cliniche di questo fenomeno in termini di modificazione dei processi coagulativi rappresentano attualmente un importante oggetto di studio. Sono stati segnalati in letteratura casi di sanguinamento di varia gravità associati in particolare all’uso di SSRI. Una metanalisi di quattro studi osservazionali ha concluso che il rischio relativo di sanguinamento del tratto gastrointestinale superiore correlato all’assunzione di
soli SSRI è pari a 2.36, mentre sale a 6.33 in caso di assunzione contemporanea di SSRI e FANS30,53,63. Gli
anziani in trattamento con SSRI appaiono più a rischio per questo effetto indesiderato, sia per la possibilità di deficit coagulativi correlati a malattie somatiche, sia per una maggior probabilità di terapie farmacologiche concomitanti che intervengano a loro volta a vari livelli modificando il processo di emostasi. Nei
pazienti più suscettibili di sviluppare tale effetto può essere pertanto utile un monitoraggio dei principali parametri di coagulazione.
Sindrome da Inappropriata Secrezione di Ormone Antidiuretico. Gli AD, compresi TCA, SSRI e SNRI,
sono stati associati con la comparsa di iponatremia (livelli sierici di sodio inferiori a 130 mmol/l), talora configurabile nella sindrome da inappropriata secrezione di ormone antidiuretico (SIADH). Alcune modificazioni fisiologiche predisporrebbero gli anziani allo sviluppo di iponatriemia; la secrezione basale di ADH aumenta lievemente con l’età, così come si incrementa la risposta secretiva dell’ormone agli stimoli osmotici
a livello dei nuclei sopraottico e paraventricolare dell’ipotalamo. Gli AD, compresi gli SSRI, agirebbero a livello centrale stimolando la secrezione di ADH attraverso l’azione sui recettori 5-HT2c4. La reale incidenza
dell’iponatriemia indotta da SSRI è difficile da determinare, dal momento che mancano studi specifici eseguiti su vasta scala. Bouman et al.10, in uno studio retrospettivo su 32 pazienti anziani trattati con vari SSRI
riportano un’incidenza di iponatriemia asintomatica nel 12.5% dei casi e di SIADH in un altro 12.5%. In un
altro studio effettuato su 736 casi di iponatriemia o SIADH associate a SSRI, l’età dei pazienti era superiore
ai 65 anni nel 74.4%. Il tempo medio di comparsa dell’effetto indesiderato è risultato di 13 giorni (range: 3120 gg.). Solo il 30% dei casi hanno presentato iponatriemia oltre i 3 mesi dall’inizio del trattamento ed in
tutti i casi le condizioni dei pazienti sono tornate normali dopo la sospensione del trattamento. Non è stata riscontrata alcuna correlazione tra la dose degli SSRI e la gravità dell’iponatriemia. I pazienti con iponatriemia possono presentare sintomi aspecifici, la cui identificazione richiede una particolare attenzione da
parte dei clinici. Sintomi quali un rapido incremento ponderale, nausea, letargia, astenia, crampi muscolari,
vertigini e confusione, insorti poco dopo l’inizio della terapia con SSRI, devono indurre il sospetto di una
SIADH. In seguito ad un edema del SNC l’iponatriemia può indurre seri effetti neurologici, tra cui delirium
e crisi comiziali e può essere, sebbene molto raramente, letale. I soggetti più a rischio sono gli anziani di oltre 80 anni di età e quelli in terapia con diuretici, con prevalenza del sesso femminile. È consigliabile, specie in questi soggetti, valutare l’assetto elettrolitico prima dell’inizio della terapia con SSRI e monitorarlo
regolarmente durante il trattamento, almeno per i primi 2-3 mesi. La comparsa di una SIADH richiede la sospensione immediata di tutti i farmaci che possono causare uno squilibrio idroelettrolitico. Se la causa determinante è un antidepressivo, una volta risolto il quadro lo stesso farmaco può essere prescritto nuovamente, se indispensabile, a dosi più basse, oppure si può effettuare un passaggio ad altro composto.
Disturbi extrapiramidali. In pazienti trattati con SSRI è stata segnalata l’insorgenza di effetti extrapiramidali (EPS). La consistenza di tali dati appare comunque limitata da fatto che si tratta di case report e
che è frequente la compresenza di altri farmaci che possono contribuire alla genesi degli EPS. Il sintomo
più frequente appare l’acatisia, spesso lieve e quindi facilmente scambiata per irrequietezza o ansia, ma
possono comparire anche distonie, parkinsonismo e discinesia tardiva. L’effetto è probabilmente la conseguenza sia della riduzione della trasmissione dopaminergica correlata all’età, sia dell’inibizione del tono do-
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paminergico per l’azione serotoninergica diretta degli SSRI a livello nigrostriatale. Pazienti con storia di
disturbi extrapiramidali o in trattamento con farmaci antidopaminergici sono più suscettibili per la comparsa o l’aggravamento di EPS42.
Apatia indotta da SSRI. In numerosi pazienti trattati con SSRI per disturbi depressivi o d’ansia, sia
adulti giovani che anziani, è stata riportata negli ultimi dieci anni una sindrome caratterizzata da mancanza di motivazione, indifferenza, disinibizione e scarsa attenzione, non attribuibile ad alterazioni emotive
primarie, a deficit cognitivi o ad una riduzione del livello di coscienza.Tale condizione, definita “sindrome
da apatia da antidepressivi”, appare dose-dipendente e reversibile, spesso non viene riconosciuta, talora
viene scambiata con una non risposta al trattamento antidepressivo e quindi peggiorata da un eventuale
incremento del dosaggio7.A tutt’oggi non vi è una spiegazione univoca per questa sindrome, che viene
prevalentemente ricondotta ad una inibizione dei circuiti frontali. È stato suggerito che gli SSRI possono
modulare direttamente le attività del lobo frontale attraverso l’incremento del tono serotoninergico; in alternativa, il sistema serotoninergico attivato può inibire quello dopaminergico che dal mesencefalo proietta al lobo frontale e quindi produrre indirettamente i sintomi descritti. L’apatia da SSRI va differenziata dai
sintomi della depressione quali l’anedonia ed il ritiro relazionale. Discriminante è la presenza di ansia psichica e di turbolenza emotiva, che si contrappongono all’indifferenza di tipo iatrogeno. La gestione di questo effetto indesiderato, che è fonte di disagio soggettivo e di impairment funzionale in pazienti già gravati dai sintomi della depressione e/o dell’ansia, comporta una serie di contromisure che vanno dalla riduzione del dosaggio dell’antidepressivo responsabile della sindrome, all’associazione o alla sostituzione con
composti di profilo farmacodinamico diverso, che includa anche un incremento del tono noradrenergico
e/o dopaminergico29 (Figura 6).
Figura 6
Interazioni farmacologiche. Un elemento di differenziazione tra i vari AD nella pratica clinica è rappresentato dalle interazioni farmacocinetiche, potenzialmente frequenti nei soggetti anziani che assumono spesso politerapie.Tutti gli AD provocano, in vari gradi, un’inibizione degli isoenzimi del CYP450, con
la possibile conseguenza di un incremento anche significativo delle concentrazioni plasmatiche di altri
farmaci substrato metabolizzati da tali isoenzimi ed un conseguente aumento dei loro effetti farmacologici49 (Figura 7).
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Figura 7
Ciò appare importante nel caso di farmaci che presentano un indice terapeutico (intervallo tra livello plasmatico terapeutico e livello tossico) piuttosto ristretto. Il rischio reale di interazioni degli SSRI merita comunque di essere ulteriormente approfondito, dato che le informazioni a tutt’oggi disponibili derivano soprattutto da studi in vitro o da case report, e che alcuni studi epidemiologici ed i dati di post-marketig surveillance
non confermano che tali interazioni si traducano in una diffusa morbilità19. L‘uso combinato di AD e farmaci
potenzialmente a rischio di interazione non deve rappresentare una controindicazione assoluta al loro utilizzo nella pratica clinica. Si consiglia invece, nei casi di associazione tra AD e farmaci a basso indice terapeutico, di ridurre la dose di questi ultimi e di effettuare un monitoraggio clinico del paziente in trattamento per
evidenziare eventuali fenomeni di tossicità legati all’incremento dei livelli plasmatici di tali farmaci (Figura 8).
d) Dosaggi
Data la particolare sensibilità degli anziani agli effetti indesiderati degli AD, è opportuno seguire il principio generale che raccomanda di utilizzare all’inizio dosi basse e di incrementarle gradualmente dopo 47 giorni. Se tale prassi appare indispensabile nel caso di composti a basso indice terapeutico, come i TCA,
viene consigliata anche nel caso dei nuovi AD, come gli SSRI e gli SNRI, per i quali una titolazione graduale evita la comparsa di effetti indesiderati (es. nausea, sonnolenza, irritabilità), che compaiono prima dell’effetto terapeutico e che possono essere motivo di drop-out precoci. L’individualizzazione del dosaggio
durante la fase acuta deve sempre avvenire nell’ambito della dose terapeutica indicata per ciascun farmaco antidepressivo. Nella Figura 9 sono riportati i dosaggi degli AD ritenuti terapeutici negli anziani, che
devono tuttavia essere considerati indicativi.
e) Durata del trattamento
Negli ultimi anni le evidenze scientifiche hanno portato in generale ad un prolungamento dei tempi di
trattamento, in specie in caso di recidive. Pazienti anziani, con risoluzione della sintomatologia di un episodio depressivo maggiore, che avevano continuato la terapia antidepressiva (dotiepina) hanno infatti mostrato, in uno studio longitudinale di due anni, una riduzione di 2 volte e mezzo del rischio di ricaduta rispetto a quelli che l’avevano interrotta40. Anche il dosaggio degli antidepressivi si è dimostrato importante per un’efficacia ottimale sul lungo termine: in uno studio randomizzato controllato su pazienti anziani
in terapia di mantenimento con nortriptilina, il gruppo assegnato a mantenere più elevati livelli plasmatici di farmaco ha mostrato, nel corso di tre anni, una significativa minore occorrenza di sintomi depressivi
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Figura 8.
Lista indicativa di farmaci metabolizzati dagli isoenzimi del Citocromo P450 potenzialmente rilevanti per le interazioni con gli AD
CYP1A2
CYP2C9/10
CYP2C19
CYP2D6
CYP3A4
Antidepressivi
Miscellanea
Antidepressivi
Antiaritmici
Antiaritmici
amitriptilina
antipirina
amitriptilina
aprinidina
lidocaina
clomipramina
diclofenac
citalopram
encainide
propafenone
imipramina
fenitoina
clomipramina
flecainide
chinidina
duloxetina
tolbutamide
imipramina
mexiletina
trazodone
warfarina
moclobemide
propafenone
Antidepressivi
amitriptilina
Antipsicotici
Barbiturici
Antidepressivi
clomipramina
clozapina
esobarbitale
triciclici
imipramina
mefobarbitale
fluoxetina
sertralina
mefenitoina
paroxetina
venlafaxina
Miscellanea
antipirina
mianserina
caffeina
Benzodiazepine
venlafaxina
Antistaminici
fenacetina
diazepam
trazodone
terfenadina
b-bloccanti
Antipsicotici
Antipsicotici
propranololo
aloperidolo
clozapina
tacrina
teofillina
perfenazina
Miscellanea
risperidone
Benzodiazepine
omeprazolo
zuclopentixolo
triazolo-BDZ
diazepam
Beta-bloccanti
alprenololo
Calcio-antagonisti
bufarololo
diltiazem
metoprololo
felodipina
propranololo
nifedipina
timololo
verapamil
Oppiodi
Miscellanea
codeina
carbamazepina
destrometorfano
ciclosporina-A
tramadol
cortisolo
etilmorfina
eritromicina
etinilestradiolo
Miscellanea
debrisochina
sparteina
fenformina
“ecstasy”
testosterone
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RELAZIONI
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Figura 9
residui44. È opinione condivisa che la durata del trattamento debba essere correlata da numero, durata e gravità degli episodi depressivi. Dopo la risoluzione quanto più completa dell’episodio depressivo, la terapia
proseguirà con una fase cosiddetta di mantenimento, volta a prevenirne le recidive. In caso di un primo episodio depressivo, in assenza di precedenti anamnestici e di familiarità sarà indicato un trattamento per almeno un anno. Di solito vengono consigliati trattamenti di 2-3 anni se vi sono stati due episodi depressivi
in età avanzata, mentre in caso vi siano stati 2 o più episodi depressivi, ma siano presenti anche fattori di
rischio significativi (tentativi anticonservativi, stressor psicosociali, malattie somatiche croniche, grave disabilità ecc.) la durata di trattamento prevista si allunga a 3 o più anni, o addirittura a tutta la vita (Figura
10). È importante sottolineare come durante il trattamento a lungo termine sia consigliato mantenere i
dosaggi impiegati nella fase acuta, in quanto è stato dimostrato che una loro riduzione nella fase di mantenimento corrisponda ad una riduzione di efficacia nella prevenzione delle ricadute26.
Figura 10
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Conclusioni
La terapia farmacologica antidepressiva in fascia geriatrica presuppone una corretta individuazione
diagnostica, oltre ad un’accurata indagine anamnestica psicopatologica, somatica e farmacologica. Un riconoscimento precoce della depressione consentirebbe interventi risolutivi ed efficaci, evitando cronicizzazioni di malattia che purtroppo sono ancora molto frequenti, soprattutto per la tendenza a procrastinare
od a considerare secondario nell’anziano un intervento medico psichiatrico, a fronte magari di altre problematiche somatiche apparentemente più urgenti. Le dinamiche e le metodiche di intervento farmacologico richiedono una particolare cautela, attenzione ed esperienza individuale, che devono integrare le linee guida ed i dati di letteratura. Ogni persona anziana ha, infatti, una storia individuale che ne tipizza il quadro clinico e che richiede, di volta in volta, una atteggiamento terapeutico mirato, che includa, per un risultato ottimale, la valutazione di tutte le variabili somatiche, relazionali ed ambientali in gioco.
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LA SOFFERENZA UMANA È LINEARE?
Problemi e sfide nel campo dell’assistenza
Fabrizio Asioli
Istituto di Psichiatria, Università degli Studi, Bologna
Introduzione
Molti di noi rischiano di avere una visione inadeguata ed un po’ mitica a proposito della qualità dell’assistenza in quanto si ritiene che questa sia -sempre- direttamente proporzionale alla sommatoria di tre fattori: risorse, conoscenze e tecnologia. Per quanto importante, la questione delle risorse non risulta decisiva nei Paesi ad alto reddito, anche se -e con buone ragioni- possiamo pensare che gli anziani malati risultano meno protetti, dal punto di vista delle risorse, rispetto ad altre fasce di età. Tuttavia, nella loro globalità, le risorse destinate alla sanità sono cospicue, sebbene non equamente distribuite, e sicuramente non
utilizzate al meglio. L’Organizzazione Mondiale della Sanità sostiene che un aumento progressivo delle risorse (peraltro -oggi e per il prossimo futuro- inimmaginabile, non solo in Italia) non è correlato ad un aumento corrispondente della qualità della assistenza1.
Lo scenario che abbiamo di fronte propone quesiti e sollecita risposte la cui complessità sovrasta di gran lunga la possibilità di una soluzione attraverso un eventuale e del tutto improbabile aumento di risorse dedicate.
Una prospettiva strategica
Il problema principale è che non siamo preparati, sia dal punto di vista culturale che pratico, ad affrontare le grandi sfide che la demografia e l’epidemiologia ci propongono con sempre maggiore urgenza.”Non
vi è dubbio che le resistenze sono ancora troppe, soprattutto perché si cerca da più parti di minimizzare
il significato dei cambiamenti in corso, tentando di imporre una logica continuista che non sarà certamente in grado di reggere alle circostanze che ci attendono”2.
Ci troviamo di fronte a trasformazioni demografiche epocali che sottovalutiamo per le ricadute che
avranno sui sistemi assistenziali. Fra le tante: riduzione della mortalità, aumento della speranza di vita, riduzione della fertilità. Entro le prossime tre decadi, gli individui che avranno più di 65 anni costituiranno
della popolazione; per la prima volta nella storia dell’umanità le persone con più di 65 anni saranno più numerose dei giovani al di sotto dei 15 anni; aumenteranno in modo rilevante le persone con più di 80 anni,
così come aumenteranno i centenari. Per quanto sia augurabile un miglioramento delle condizioni generali di salute della popolazione anziana, è ineluttabile che l’ultima parte della vita continuerà a caratterizzarsi per una maggiore incidenza di malattie e di disturbi con caratteristiche di sviluppo cronico3 e per una
maggiore incidenza di comorbilità e di disabilità.
I sistemi sanitari ed assistenziali verranno messi a dura prova dall’impatto con questi fenomeni: non solo perché saranno meno finanziati a causa della diminuzione della popolazione attiva, ma soprattutto per
la profonda trasformazione che subirà (e sta già subendo) la domanda di assistenza.
Alcuni interrogativi
1) I modelli assistenziali con cui affrontiamo le necessità dei nostri pazienti sono adeguati ai loro
bisogni attuali e futuri oppure sono datati?
Molti sistemi sanitari, il nostro in particolare, sono concepiti per rispondere (principalmente) all’acuzie. Hanno un approccio (prevalente) alla mono-comorbidità; sono organizzati su un modello di tipo biomedico (prevalentemente) centrato sull’ospedale. Quando la fase acuta è risolta, se il paziente continua ad
avere necessità di assistenza prolungata -come nel caso di quasi tutti gli anziani (ma anche di altri pazienti cronici)- entra in un limbo confuso di infrastrutture, di risorse umane, di abilità, di responsabilità. A questo punto viene “invocata” la Medicina di base vale a dire, per quanto attiene all’Italia, il Medico di Medicina Generale. Desidero ricordare, per inciso, che la Primary Care dei Paesi anglosassoni è il Servizio su cui
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si basa tutto il sistema di assistenza e, per tale ragione, è il settore dotato della parte più consistente di finanziamenti e di risorse umane. Esattamente all’opposto di quanto avviene da noi, dove questo compito è
affidato ad un unico professionista, il MMG appunto, che non appartiene neppure strutturalmente al Sistema Sanitario Nazionale, ma -secondo la definizione contrattuale- è un “libero professionista convenzionato”. Il nostro problema strutturale è la povertà/inadeguatezza del Sistema di Cure primarie che dovrebbe
invece costituire la base dell’architettura del Sistema sanitario.
2) Quali sono i bisogni attuali di assistenza della popolazione? Sono prevalenti i bisogni di assistenza a
breve termine o quelli a lungo termine? Sono cioè prevalenti i casi acuti o predominano casi cronici?
Poco meno dell’80% dei pazienti non richiede un’assistenza puntiforme e limitata (acuzie), ma necessiterebbe di assistenza continuativa ed integrata. Quasi tutti i settori della medicina sono interessati
dalla questione (non necessariamente, il problema!) della cronicità. Questo fenomeno è la risultante anche
di eventi positivi: i successi della medicina nel salvare la vita a persone (neonati, traumatizzati, etc.) o a
prolungare l’esistenza di pazienti (oncologici, cardiopatici, etc.) che in passato sarebbero deceduti, l’allungamento della vita, etc.
Nonostante la profonda trasformazione dei bisogni dei pazienti nella direzione dell’aumento della cronicità e della disabilità, i sistemi sanitari tendono tuttora ad investire la parte più consistente delle risorse
e delle competenze nell’assistenza a breve termine (che si realizza, in particolare, negli Ospedali), ad ignorare l’assistenza a lungo termine oppure a delegarla a “sistemi paralleli” con risorse e competenze (non
sempre) povere, (spesso) frammentate e non integrate con il sistema di cura ospedaliero (e viceversa),
quindi sempre incoerenti ai bisogni del paziente. In ogni caso, i sistemi assistenziali territoriali,“separati”,
dedicati alla cronicità -anche quando sono inefficienti- costano.
3) Per affrontare in modo appropriato i bisogni che richiedono assistenza a lungo termine risulta più
efficace un approccio di tipo bio-medico oppure di tipo bio-psico-sociale?
Nei disturbi cronici in particolare, la dimensione sociale del disturbo richiede un’intrinseca componente
sociale del trattamento. Oggi la dimensione sociale del disturbo è accettata spesso quale semplice concessione formale ad un modello eziologico astratto. La relazione fra medico e sociale risulta largamente indipendente e queste due dimensioni non fanno parte in modo convincente di uno stesso approccio: il paziente è
sottoposto al solo trattamento bio-medico in ospedale, per brevi periodi; la risposta extraospedaliera si risolve (non sempre, ma troppo spesso!) in generiche e quasi mai coordinate prestazioni di tipo assistenziale.
La mancanza della dimensione sociale comporta un inappropriato investimento qualitativo e quantitativo nell’assistenza a lungo termine. Il persistere di uno squilibrio dell’attenzione rivolta agli aspetti bio-medici dei disturbi (sintomi, trattamenti farmacologici, etc.) rispetto al funzionamento, alla disabilità, alle condizioni reali ed alla qualità della vita del paziente comporta la mancanza di un governo (vero!) della continuità e della coerenza della cura quando il paziente non è più in ospedale.
4) L’attuale approccio prevalente alla mono-morbidità è davvero più efficace di quello alle co-morbidità?
Le condizioni reali dei pazienti sono molto più complesse delle categorie di comprensione della Medicina. Per esempio, i pazienti reali presentano comorbidità, vale a dire più disturbi che sono di pertinenza di
diverse discipline. Oggi le comorbidità di un paziente vengono affrontate (e trattate) in modo settoriale, in
tempi diversi, e con modalità indipendenti da specialisti diversi. Un paradigma orientato alla mono-morbidità è destinato a non favorire le connessioni fra i diversi trattamenti (se non per “impegno individuale ed
occasionale” dei professionisti), e ad affidare largamente gli esiti ai soli trattamenti farmacologici. La strategia “verticale” che risponde a questo paradigma disperde l’efficacia ed aumenta lo spreco: si sovrappongono, si sotto-utilizzano o si utilizzano male le risorse impiegate. La necessità di uno sguardo “orizzontale” che
abbia al centro della sua attenzione i bisogni del paziente diviene ancora più cogente se prendiamo in considerazione che la comorbidità può anche essere inter-umana: all’interno di un micro-ambiente quale la famiglia (presenza di altri problemi sanitari o sociali in altri famigliari, assenza della famiglia, etc.) o di un macro-ambiente (vita in aree urbane povere, sradicamento, mancanza di rete sociale, solitudine, etc.).
Gli interventi settoriali, dato che non possono ragionevolmente essere finalizzati alla guarigione, a che
cosa sono indirizzati e che cosa possono modificare in un paziente cronico e multi-problematico?
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Un cambio di prospettiva radicale
Acuto e cronico sono condizioni, non spazi e dobbiamo immaginare di affrontare i disturbi cronici anche e soprattutto a livello di comunità invece che (solo/prevalentemente) a livello ospedaliero, sviluppando modelli assistenziali centrati sulla dimensione temporale del cliente e che non privilegino la collocazione spaziale del provider (ospedale, ambulatorio, laboratorio di analisi, servizio di riabilitazione, etc.)4.
In questa prospettiva sarebbe necessario interrogarsi su come l’intero sistema sanitario dovrebbe trasformarsi per servire i bisogni della moltitudine dei pazienti che necessitano di assistenza protratta per
tempi lunghi rinunciando a ragioni professionalmente egoistiche che prevaricano sull’interesse dei pazienti e ci impediscono di affrontare convenientemente le sfide che abbiamo di fronte.
Quando si tratta di “accompagnare i pazienti più che di risolvere i loro problemi”, come nel caso della Medicina degli anziani, le variabili in gioco nel determinare la qualità del care non corrispondono a quelle che, in generale, vengono considerate determinanti.
La tecnologia, intesa come capacità di identificare il problema e come disponibilità di strumenti per trattarlo, ha un peso più ridotto: non sottovaluto affatto l’importanza di una buona diagnosi e del potenziale
valore di una diagnosi precoce (nel campo della schizofrenia la diagnosi precoce, quando si accompagna
a tempestivi ed adeguati interventi di cura, ha modificato radicalmente il destino di questo disturbo e la vita di questi pazienti). Nella demenza la diagnosi precoce sarà in grado di fare la differenza fino a quando
non avremo adeguati strumenti trattamentali?
Nella long-term care il peso della tecnologia è secondario, per definizione. La qualità dell’assistenza
quotidiana è soprattutto affidata ai luoghi di cura, all’organizzazione ed alla qualità dei professionisti.
Un’osservazione universale: oggi, dove è massimo il peso della tecnologia (che in genere si accompagna a
migliori luoghi ed a migliore organizzazione) le competenze dei professionisti che vengono maggiormente sollecitate sono quelle tecniche. Laddove il peso della tecnologia è ridotto, i luoghi tendono ad essere
di qualità inferiore, una buona organizzazione è più difficile da mantenere, le competenze professionali
più sollecitate, oltre a quelle tecniche, sono quelle emotive.
Long-term care, carichi e reazioni emotive non riconosciute
I professionisti che operano in queste aree sono sistematicamente sottoposti a carichi emotivi molto
importanti. In estrema sintesi: il paziente (per definizione!) non guarisce e come terapeuti “falliamo” (cioè
non possiamo ricevere la gratificazione che ci deriverebbe dal successo terapeutico).Anzi, nel corso del tempo il paziente tende a peggiorare ed a morire; i tempi di “esposizione assistenziale” si allungano non solo
per il paziente, ma anche per i professionisti: si determinano così tutti i condizionamenti -di tipo negativoinsiti in qualsiasi relazione “cronica”5; la stessa relazione medico-paziente è destinata ad incontrare ostacoli anche nel suo esercizio diretto a causa della difficoltà/impossibilità del paziente a parteciparvi; si stabilisce un rapporto ed un coinvolgimento (critico) anche con la famiglia od il caregiver; il gruppo di lavoro,
che potrebbe costituire un fattore di sostegno emotivo è esso stesso, nel suo complesso, molto instabile:
sottoposto alle emozioni dei singoli operatori; sempre più concretamente precario perchè oggetto di turn
over frequenti; costretto a misurarsi con complessità interne ed esterne (la multiprofessionalità, la multidisciplinarietà, rapporti inter-istituzionali, etc.).
I sentimenti che si determinano in noi, in particolare modo se non ne siamo sufficientemente consapevoli e capaci di riconoscerli, hanno spesso un peso nel determinare la qualità dell’assistenza fornita, ancora più delle reali condizioni dei pazienti6. Non molte ricerche si dedicano a questi aspetti misconosciuti dell’assistenza e quelle che abbiamo a disposizione ci rivelano che pregiudizi o “spinte emotive inconsapevoli” possono condizionare la nostra disponibilità (profonda) nella presa in carico, nei trattamenti e nella modalità in cui li realizziamo; che le nostre emozioni sono il fattore più importante nel determinare interventi che “si prolungano indefinitivamente” o che “finiscono troppo presto”; che le nostre paure verso
la morte, la sofferenza, il suicidio sono un ostacolo nel comprendere il paziente, offrigli un aiuto ed un intervento efficace; che sono le nostre emozioni (insieme a quelle dei colleghi) ad indurre un clima “insopportabile” nel gruppo di lavoro6.
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Dovremmo sentirci incoraggiati ad approfondire la nostre conoscenze in questa direzione perché lo
stress professionale ed il burn out sono molto più frequenti negli operatori che ignorano/trascurano le
proprie reazioni emotive. Perché questo non avviene?
I pregiudizi
Non siamo stati abituati ad osservare le nostre reazioni emotive ed i nostri sentimenti verso i pazienti
ma, al contrario, a cercare di porre una membrana impermeabile tra comportamenti personali e comportamenti professionali (il problema è che questa membrana non è impermeabile!). La stessa formazione in
qualsiasi Scuola delle professioni di aiuto, tende piuttosto ad incoraggiare questa mancanza di consapevolezza dei vissuti negativi dell’operatore. Anzi, si potrebbe dire che tende a favorirne l’occultamento attraverso l’enfatizzazione dell’“atteggiamento oggettivo”, dell’opportunità del “distacco professionale”, della
“freddezza” e della “padronanza di sé”. Ciò non deve stupirci più di tanto. Lo stesso Freud, all’inizio delle
sue scoperte e prima di sviluppare il tema del controtransfert raccomandava “distacco emotivo”, suggerendo di “mettere da parte tutte le emozioni personali”!7, 8.
Tuttavia questo atteggiamento implica conseguenze di rilievo. In tutte le Istituzioni (comprese quelle
sanitarie) esiste il mito dell’organizzazione come “impresa” solo razionale9. Di conseguenza, risultano accettate solo le emozioni positive e desiderabili (entusiasmo, fiducia, responsabilità, lealtà, ottimismo e -entro certi limiti- competitività).
Che fine fanno le altre emozioni, in particolare quelle negative, considerate “pericolose” per la sopravvivenza dell’organizzazione (amore, odio, rabbia, invidia, gelosia, colpa, rivalità, paura, etc.)? Esse vengono
bandite: considerate “inesistenti”, cioè negate; stigmatizzate quali debolezze personali (il problema esiste,
ma non è mio”); allontanate e razionalizzate (“il problema è frutto di scelte personali, gestionali o politiche errate).
Tuttavia queste “operazioni” non sono indolori ed hanno un prezzo. Tenere sotto controllo emozioni,
ansie, sentimenti (ed i meccanismi di difesa che evocano), se non riconosciuti ed affrontati, determina un
costo sensibile: emotivo (per gli operatori) inducendo disagio, disaffezione, fatica psicologica aggiuntiva,
conseguenze nella vita privata, burn out, etc.; economico (per l’Istituzione) accentuando disfunzioni, conflitti, rallentamenti nelle procedure, assenteismo, turn over, etc.10, 11. Entrambi questi costi hanno evidenti
ricadute sui pazienti.
Cosa possiamo fare?
A me pare che riceviamo sollecitazioni almeno in tre direzioni. Innanzi tutto siamo chiamati a sviluppare ed a diffondere la consapevolezza che le sfide che ci attendono hanno la potenzialità di travolgere nel
prossimo futuro i nostri Sistemi sanitari. Non penso affatto si tratti di previsioni apocalittiche, bensì di una
prospettiva che economisti, demografi ed epidemiologi accorti ci invitano già da un po’ di tempo a considerare con serietà.
Dobbiamo inoltre convincerci che è necessario indirizzare la ricerca anche sui modelli assistenziali (e
non solo sulle molecole). Investire intelligenza e risorse in questa direzione potrà fornirci indicazioni preziose su quali siano i modelli assistenziali ed organizzativi più favorevoli sia alle necessità (reali) dei pazienti e sia più efficienti rispetto ai costi.
Infine, siamo chiamati a ripensare sostanzialmente alla formazione dei professionisti: sia a quella accademica che a quella “sul campo”; all’addestramento rivolto anche alle abilità emotive senza trascurare le conoscenze più strettamente tecniche; alle modalità che permettano di diffondere la cultura delle proprie fragilità emotive, alla maggiore consapevolezza dei propri sentimenti verso il paziente ed il lavoro, alla capacità di riconoscerli fornendo contemporaneamente spazi, modi e strumenti per poterli affrontare. Si tratta di mettere a punto strategie più efficaci per formare e sostenere i professionisti nel lungo percorso accanto ai pazienti.
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Conclusioni
Oggi, ma con molta probabilità anche domani, la speranza dei pazienti è soprattutto affidata alla nostra
capacità di prenderci cura di loro nel modo più adeguato. Quando la possibilità di cura non può essere risolta solo dai farmaci è fortemente determinata dalla qualità del care. Nel campo dell’ assistenza agli anziani ed ai disturbi cronici, il contributo ed il peso della tecnologia è, per definizione, ridotto. Nella long-term
care -seppure ciò sia ancora troppo poco riconosciuto- le variabili in grado di fare la differenza sono rappresentate dalla qualità dei modelli del care, dalla qualità della organizzazione dei luoghi e dalle capacità
(tecniche, ma soprattutto emotive) dei professionisti. Modelli organizzativi e capacità dei professionisti
non costituiscono cioè una variabile indipendente rispetto alla qualità delle cure.
Siamo chiamati ad affrontare nuove domande e nuove questioni complesse ed è molto improbabile
che risposte datate o semplicistiche possano essere esaurienti per domande e questioni complesse.
La sofferenza umana non è lineare. Perché dovrebbe esserlo la risposta?1.
BIBLIOGRAFIA
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10
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2007.
11
Perini M. Leadership, responsabilità e costi emotivi.Terapia di comunità 2009, 9; 42:8-17.
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CEDE IL PASSO, SULLA SPINTA DELLE VERE EMERGENZE SOCIALI,
LA “TERZIETÀ” DELL’ERMENEUTICA MEDICO-LEGALE
(ovverossia come i problemi di salute delle persone affette da demenza costituiscono
un “campo di prova” per saggiare la tenuta del nostro sistema di sicurezza sociale)
Fabio Cembrani1, Veronica Cembrani2
1 Direttore Unità Operativa di Medicina Legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento
2 Dipartimento di Scienze della Cognizione e della Formazione, Università degli Studi di Trento
1. Premessa
Con questa riflessione ci proponiamo non già di ripresentare ad una platea privilegiata le nostre proposte
riguardo la valutazione medico-legale dell’impairment cognitivo (e, più in particolare, delle demenze) nel settore assistenziale1 ma di ricostruire, invero, i determinanti di contesto in cui esse sono avvenute, le condizioni
favorevoli che le hanno influenzate e, non da ultimo, l’ermeneutica che ha animato le soluzioni adottate.
L’obiettivo che ci proponiamo è duplice.
Da una parte intendiamo dimostrare che nel momento in cui ci si assume davvero la responsabilità di
corrispondere, come professionisti, ai bisogni di salute espressi dalle persone più deboli esistono gli spazi
tecnici su cui incamminarci in maniera non certo anarchica, ma utilizzando in maniera appropriata le conoscenze scientifiche; dall’altra vogliamo invece saggiare la tenuta di quella tradizionale “terzietà” utilizzata nella prassi medico-legale che colloca la Disciplina in un terreno per così dire “neutrale” nella sua ricercata
equidistanza tra la “regola” (=norma di legge) ed il problema cui essa genericamente si riferisce, rinviando
inevitabilmente al Legislatore la soluzione dei molti problemi a tuttoggi’ aperti nella relazione di cura.
Ci scusiamo, da subito, se il Lettore potrà sentirsi influenzato, nel corso della lettura di questa riflessione, dalla ricerca -a volte, ne siamo consapevoli, puntigliosa- di una relazione inferenziale tra i “principi” ed
i “valori”2 che animano il nostro mondo personale e la nostra dimensione professionale; non possiamo,
tuttavia, farne a meno pur essendo consapevoli della circostanza che la nostra dimensione umana, la nostra
particolare sensibilità, la nostra idea di responsabilità, il nostro modo di sentire e di essere partecipi ai molti problemi delle persone, sono spesso fonte di critica e di sospetto se agiti nella prassi professionale.
1 Sul punto ci si permetta ricordare il nostro contributo (CEMBRANI F. e CEMBRANI V., Welfare e demenza: una proposta di lavoro per un’ assunzione (forte) di responsabilità, I luoghi della cura, 2008, 2: p. 19 e ss.) e riassumere, sinteticamente, le conclusioni formulate in calce al Documento “Linee-guida per la valutazione medico-legale dei disturbi cognitivi (e delle demenze) nel
settore assistenziale” predisposto nel 2005. Con queste conclusioni si era ritenuto appropriato riconoscere, a fronte di un impairment cognitivo, il diritto all’indennità di accompagnamento in queste alterne situazioni: 1) quando la compromissione delle funzioni cerebrali superiori sia comprovata attraverso il Mini Mental state examination (MMSE) da un risultato testistico pari o inferiore
a 17/30 considerato che, in queste situazioni, gli indici di Barthel-ADL risultano gravemente compromessi non solo in relazione ai problemi cognitivi ma anche per la riduzione/perdita della capacità di organizzazione e di pianificazione dei compiti e delle azioni; 2) quando la ripercussione dei disturbi cognitivi e non cognitivi sulla vita sociale sia qualificata, secondo i criteri diagnostici della Clinical dementia rating scala (CDR), nelle ultime 4 classi (“moderata”, “severa”, “molto grave” e “terminale”), indipendentemente dai risultati dei tests psicometrici ed anche quando lo score del MMSE sia superiore a 17/30; 3) quando la ripercussione dei disturbi cognitivi e non cognitivi sulla vita sociale sia qualificata, secondo i criteri diagnostici della Global deterioration scale for assessment of primary degenerative dementia (GDS), nelle ultime 3 classi (“deficit cognitivo moderatamente grave”, “deficit cognitivo grave” e
“deficit cognitivo molto grave” molto grave”), indipendentemente dai tests psicometrici ed anche quando il risultato del MMSE siano superiori a 17/30; 4) nel caso di impossibilità di deambulare senza l’ aiuto permanente di un accompagnatore (Barthel-mobilità tra
0 e 10); 5) nel caso di impossibilità di compiere in maniera autonoma gli atti quotidiani della vita (ADL-Barthel tra 0 e 10).
2 Sull’ argomento vogliamo ricordare il pensiero di uno di noi (CEMBRANI F.: I pericoli della massimizzazione dei “valori”
nella relazione di cura (ovvero, come combattere gli stereotipi per sostenere davvero l’ alleanza terapeutica, Professione. Cultura e pratica del medico d’oggi (1: 2010; p. … ss).. Mentre i “valori” richiedono di essere massimizzati e possono vivere da soli perché portatori di una potenza totalitaria, i “principi” vivono all’ interno di una serie non (pre)-definita (o scontata) di inferenze con
le “regole” di condotta ed i “valori” e pretendono di essere costantemente relativizzati proprio perché la loro sostanza produce quella reciprocità che i valori non hanno: i valori esistono, pertanto, da soli mentre i principi vivono l’ uno nell’ altro, l’ uno con l’ altro
e l’ uno per l’ altro all’ interno di una fitta trama di relazioni, soprattutto morali, civili e sociali che guidano le azioni all’ interno di
un telos costitutivo necessariamente laico e pluralista.
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2. I determinanti di “contesto”
In questo paragrafo ci proponiamo di analizzare le peculiarità di contesto in cui sono avvenute (condizionandole) le nostre scelte tecniche che hanno trovato espressione con la redazione, nel 2005, di una prima proposta di “Linea-guida”3 in tema di valutazione medico-legale dell’impairment cognitivo nel settore
assistenziale: le colloco in due macro-aree individuandole, rispettivamente, in quelle riferibili agli aspetti demografici della Provincia autonoma di Trento ed in quelle relative al nostro peculiare assetto organizzativo.
2.1 I determinanti demografici
La Tabella 1 riassume la struttura di età della popolazione trentina alla data del 31 dicembre 2008 (Fonte: Servizio Statistica della Provincia autonoma di Trento).
Tabella 1. Età e genere della popolazione residente in Provincia di Trento
Classi di età
Maschi
Femmine
Totale
0-4 anni
13.791
12.880
26.671
5-14 anni
27.251
25.780
53.031
15-19 anni
13.160
12.372
25.532
20-54 anni
128.045
124.393
252.438
55-64 anni
31.301
30.999
62.300
65-69 anni
13.118
14.416
27.534
70-79 anni
18.298
23.924
42.222
80-90 anni
8.589
17.574
26.163
821
3.088
3.909
254.374
265.426
519.800
più di 90 anni
Totale
L’analisi della Tabella evidenzia che sul totale delle 519.800 persone residenti in Provincia autonoma di
Trento, 99.828 (19,20% vs. 16% della media nazionale) sono quelle ultra-65enni: in questa fase della vita prevalgono, analogamente ai dati rilevati dall’Istituto centrale di Statistica, le donne (59.002, 59,1%) rispetto
ai maschi (40.826, 40, 9%) e, complessivamente, gli ultra-80 (30.072) e gli ultra-90enni (3.909) costituiscono, rispettivamente, il 5,78% e lo 0,75% dell’intera popolazione trentina.
L’analisi delle caratteristiche demografiche della Provincia autonoma di Trento orienta, pertanto, per una
popolazione con un elevato indice di anzianità rispetto alla media nazionale (16%) se si considera che circa un quinto della medesima ha un’età superiore ai 65 anni, con una prevalenza, in questa fase della vita,
delle donne contrariamente a quanto osservato nelle prime fasi della vita medesima dove si osserva, invece, una prevalenza di maschi.
3 Siamo consapevole dell’enfasi retorica che si attribuisce al termine, spesso abusato, di “Linea-guida” e della circostanza che
la loro redazione spetta non già al singolo professionista ma alle Società scientifiche che, per quanto riguarda la Disciplina medico-legale, non hanno certo brillato, in questi anni, sul piano dello spirito di iniziativa e della capacità di imporre il Loro ruolo culturale nella soluzione dei problemi di salute delle persone; l’ uso del termine deve, pertanto, intendersi solo in relazione all’ obiettivo dichiarato nella premessa delle medesime, circoscritto alla necessità di individuare, anche per l’ impairment cognitivo, un setting clinico capace di rispecchiare il principio dell’ integrità (multi-dimensionalità) della persona coerente con quanto previsto
dalla Legge finanziaria del 2003 (rispetto dei criteri diagnostico-clinici previsti dal DSM-IV), mediante la valutazione strutturata di
più dominii specificatamente individuati nelle funzioni cognitive, nei sintomi non cognitivi, nella comorbilità somatica e nello
stato funzionale della persona.
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Le conseguenze del progressivo ma costante incremento dell’età della vita e dell’indice di sopravvivenza, particolarmente evidenti nel nostro contesto territoriale, sono di immediata evidenza se si utilizzano, ora, gli enunciati generali di quel fenomeno ormai noto, in epidemiologia, con il termine di “transizione epidemiologica”: al lento, progressivo e costante aumento della speranza di vita4 si associa, infatti, l’incremento delle patologie cronico-degenerative che rappresentano, al momento, la prima causa di morte registrata in tutti i Paesi industrializzati.
Ma non è sulle cause di morte che intendiamo soffermarci in questa riflessione quanto, invero, sulla circostanza che la “transizione demografica” (=graduale invecchiamento della popolazione) e la conseguente “transizione epidemiologica”(=incremento delle patologie cronico-degenerative) hanno, inevitabilmente, modificato anche l’indice ed i fattori di disabilità del nostro Paese. Sul punto, registrando ancora l’incapacità del Servizio centrale di Statistica di fornire il tesaurus completo delle persone disabili presenti nel
nostro Paese5, desideriamo richiamare all’attenzione del Lettore i dati statistici salienti contenuti in due
data-base gestiti dall’Unità Operativa di Medicina Legale dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento: ci riferiamo all’”Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trento” ed al data-base “AML”
che registra le caratteristiche demografiche delle persone che hanno attivato il riconoscimento dell’invalidità civile, della cecità civile e del sordomutismo.
Iniziamo con il primo data-base statistico dando innanzitutto atto che il flusso informativo ha registrato, tra il 1992 e il 31 dicembre 2009, 10.245 persone che hanno presentato, in Provincia di Trento, 12.782
domande finalizzate ad ottenere i benefici e le agevolazioni assistenziali previste dalla legge-quadro in materia di handicap: dunque, 1.598 in più rispetto al Report del 2008 e 3.135 in più rispetto a quello dell’ anno precedente 6. Analizzandone le caratteristiche demografiche si conferma il trend osservato negli anni
precedenti (Tabella 2) e, dunque, la prevalenza, statisticamente significativa (p<0,001), delle femmine sui maschi (56,51% vs. 43,49%).
Tabella 2. Provincia autonoma di Trento. Anagrafe dell’handicap. Soggetti notificati per sesso e classe di età.
Frequenze assolute e relative. Dicembre 1992 – 31 dicembre 2009
Maschi
Femmine
Totale
Età
N.
%
N.
%
N.
%
0-17
18-64
Ultra-65enni
804
1.843
1.809
18,04
41,36
40,6
628
1.988
3.173
10,85
34,34
54,81
1.432
3.831
4.982
13,98
37,39
48.63
I dati riportati in Tabella, confrontati con quelli dei Report degli anni precedenti, evidenziano l’ulteriore invecchiamento della popolazione contenuta nel data-base se si considera che le persone ultra-65enni
passano dal 41,3% registrato nel 2006, al 44% registrato nel 2007, al 46,93% registrato nel 2008 ed al 48,63%
registrato nel 2009 riducendosi, contestualmente, la percentuale di quelle infra-18enni (dal 16,8 del 2006
al 13,98% del 2009).
4
Si stima che dal 1951 al 2006 l’incremento della speranza di vita nel nostro Paese abbia registrato +14,3 anni per gli uomini e + 16,5 anni per le donne.
5 L’ISTAT stima il numero delle persone disabili (2.800.000) ma lo fa in maniera indiretta attraverso una proiezione dei dati ricavabili da 100 mila interviste telefoniche utilizzando indicatori, per certi versi, discutibili che pongono al primo posto le disabilità neurologiche (all’origine del confinamento individuale e della disabilità motoria) senza alcuna valorizzazione dei patrimoni informativi in
possesso delle strutture medico-legali del Servizio sanitario nazionale: sul punto ci si consenta di rinviare al nostro contributo: CEMBRANI F., CEMBRANI V., Disabili: la valorizzazione del patrimonio informativo delle A.S.L., Ragiusan, 2005; 257-258: p. 427 e ss.
6 Si vedano al proposito i nostri contributi: CEMBRANI F. e CEMBRANI V., L’Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trento: aggiornamento dei dati al 31 dicembre 2007, Rivista italiana di Medicina Legale, 2008, 4: p. 1125-e ss. e CEMBRANI F. e CEMBRANI V., L Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trento: aggiornamento dei dati al 31 dicembre
2008, Ragiusan, 2009; 299/300: p. 365 e ss.
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Nella fascia di età 0-17 anni prevalgono i disabili di sesso maschile (56,15% vs. 43,85% con un leggero
incremento rispetto a quanto registrato nel 2008: 55,52% vs 44,48%); le femmine continuano ad essere
mediamente più anziane rispetto ai maschi (fascia di età ultra-65enni: 63,69% vs. 36,31%) mentre nella fascia di età 18-64 anni non emergono grandi differenze statistiche in rapporto al genere (51,89% femmine
vs. 48,11 maschi).
Oltre che per classe d’età e per sesso, la popolazione che compone il data-base può essere esaminata
in relazione agli 11 Comprensori di residenza in cui è amministrativamente ripartita la Provincia autonoma di Trento coincidenti, in larga parte, con i Distretti sanitari.
L’analisi evidenzia una certa variabilità dei tassi grezzi per Comprensorio: i valori più elevati continuano ad essere quelli del Comprensorio della Vallagarina (14,52% vs. 12,72 e 10,2 registrato nel 2008 e nel
2007), del Comprensorio della Valle dell’Adige (14,42 vs. 13,15 registrato nel 2008), del Comprensorio dell’Alta Valsugana (13,24% vs. 10,43 e 9,81 registrati, rispettivamente, nel 2008 e nel 2007), del Comprensorio Alto Garda e Ledro (11,63vs. 10,43% registrato nel 2008) e del Comprensorio della Bassa Valsugana e
Tesino (11,58 v. 10,35 e 8,65 registrati nel 2008 e 2007) mentre i Comprensori con i tassi più bassi restano quelli del Comprensorio Ladino di Fassa (4,24% vs. 3,84 e 2,76 registrati nel 2008 e nel 2007), del Comprensorio del Primiero (5,9% vs. 5,52 e 4,37 registrati nel 2008 e nel 2007) e del Comprensorio della Valle di Fiemme (6,55% vs. 5,02 e 3,6% registrati nel 2007).
Tuttavia, se si standardizzano i tassi, eliminando l’effetto della struttura per età, si osserva un livellamento dei valori pur permanendo l’andamento rilevato dai tassi grezzi. Il tasso standardizzato più alto è, infatti, quello che si osserva nel Comprensorio della Vallagarina (14,52% vs. 12,74% e 10,3% registrati nel
2008 e nel 2007), nel Comprensorio della Valle dell’Adige (14,42% vs. 13,28 e 11,32 registrati nel 2008 e
nel 2007) e nel Comprensorio dell’Alta Valsugana (13,48% vs. 12,38 e 9,99 registrati nel 2007); i tassi standardizzati più bassi sono, invece, quelli registrati nei Comprensori di valle, in particolare in quello Ladino
di Fassa (4,34% vs. 3.84 e 2,7 registrati nel 2008 e nel 2007), nel Comprensorio della Valle di Fiemme (6,51%
vs. 5,02 e 3,6 registrati nel 2008 e nel 2007) e nel Comprensorio del Primiero (5,72% vs. 5,52 e 4,29% registrati nel 2008 e nel 2007) analogamente a quanto evidenziato nei Report degli anni precedenti5, 10, 13, 14,
15 anche se con qualche minima differenza percentuale. Ricorrendo, invece, alla standardizzazione indiretta si conferma l’eccesso, statisticamente significativo rispetto alla media provinciale, del numero dei casi
osservati tra i residenti dei Comprensori della Vallagarina, della Valle dell’Adige e dell’Alta Valsugana e quello, statisticamente inferiore, tra i residenti nei Comprensori della Valle di Fiemme, della Valle di Fassa, del
Primiero, della Valle di Non e della Valle di Sole.
Ciò conferma come, nel lungo periodo in esame, l’accesso a questa tipologia di servizio non è avvenuto in maniera omogenea sul territorio provinciale considerato che il percorso assistenziale è stato per lo
più attivato dai cittadini disabili (o dai relativi familiari) residenti nei centri urbani rispetto a quelli residenti nelle zone periferiche di valle, per motivazioni certamente diverse che non possono essere semplicisticamente ricondotte ad una diversa sensibilità e/o conoscenza rispetto ai diritti esigibili; è probabile, infatti, che la situazione evidenziata sia da ascrivere alla diversa struttura dei nuclei familiari e, soprattutto,
alla tipologia di lavoro esercitato dai familiari delle persone disabili che, nei territori di valle, è prevalentemente di tipo autonomo.
L’ulteriore elaborazione dei dati statistici permette di rappresentare altri indicatori qualitativi a cominciare dalle diverse tipologie di handicap riconosciuto dalla Commissione sanitaria prevista dall’art. 4 della Legge n. 104/927: la Tabella 3 rappresenta la situazione che emerge dall’elaborazione dei dati contenuti
nel data-base che forma l’Anagrafe dell’handicap della Provincia autonoma di Trento.
7 Deve essere precisato, al proposito, che l’handicap non è purtroppo un concetto categorialmente univoco [1, 4, 6, 7, 17] in
quanto la Legge-quadro lo segmenta in alcune pre-definite variabili tassonomiche, di ordine medico-giuridico, rappresentate: a) dall’handicap con carattere di permanenza (art. 3, comma 1); b) dall’handicap con carattere di permanenza e grado di invalidità superiore ai due terzi o con minorazioni ascritte alla categoria prima, seconda e terza della Tabella A annessa alla legge 10 agosto 1950,
n. 648; c) dall’handicap con carattere di permanenza e connotazione di gravità (art. 3, comma 3); d) dall’ handicap con carattere
di permanenza e connotazione temporanea di gravità (art. 3, comma 3).
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Tabella 3. Provincia Autonoma di Trento. Anagrafe dell’handicap. Soggetti notificati per tipologia di handicap. Dicembre 1992 –
31 dicembre 2009
Tipologia di handicap
n. soggetti
% soggetti
1.917
24,46
Handicap con carattere di temporaneità
60
0,77
Handicap con carattere di permanenza e grado d’invalidità superiore
ai due terzi o con minorazioni iscritte alla categoria prima, seconda e terza
della tabella A annessa alla legge 10.08.1950, n. 648 (art. 21 L. n. 104/92)
92
1,17
4.431
56,55
Handicap con carattere di permanenza e connotazione temporanea di gravità
(comma 3, art. 3 L. n.104/92)
974
12,43
Non handicap (c.1, art. 3 L.104/92)
363
4,64
Handicap con carattere di permanenza (comma 1, art. 3 L.104/92)
Handicap con carattere di permanenza e connotazione di gravità
(comma 3, art. 3 L. n. 104/92)
Più della metà delle persone (4.431, 56,55%) in vita alla data del 31 dicembre 2009 sono state riconosciute in situazione di handicap con carattere di permanenza e connotazione di gravità mentre altre 974
(12,43%) sono state riconosciute in situazione di handicap con carattere di permanenza e connotazione
temporanea di gravità; quasi un quarto delle stesse (1.917, 24,46%) sono state, invece, riconosciute in situazione di handicap con carattere di permanenza, 92 (1,17%) in situazione di handicap con carattere di permanenza e grado di invalidità superiore ai due terzi e, per 60 (0,77%), è stato, infine, riconosciuto uno stato di handicap (non in situazione di gravità) con carattere di temporaneità. Pochi sono stati invece i soggetti che, nel lungo periodo in esame, non sono stati riconosciuti portatori di handicap: il loro numero è
di 359 (4.48% vs. 4,67% registrato nel 2008) di tutte le persone registrate nel data-base.
La Tabella 4 analizza la distribuzione delle diverse tipologie di handicap riconosciuto secondo il genere calcolando, per le singole variabili, le frequenze assolute e quelle relative.
Tabella 4. Provincia Autonoma di Trento. Anagrafe dell’handicap. Soggetti notificati per tipologia di handicap e sesso.
Frequenze assolute e relative. Dicembre 1992 – 31 dicembre 2009
Tipologia di handicap riconosciuto
N.
maschi
%
maschi
N.
femmine
%
femmine
N.
totale
%
totale
Handicap con carattere di permanenza
830
25,79
1.087
25.56
1.917
25.66
Handicap con carattere di temporaneità
24
0,75
36
0,85
60
0,8
Handicap con carattere di permanenza
e grado d’invalidità superiore ai due terzi
o con minorazioni iscritte alla categoria
prima, seconda e terza della tabella A
annessa alla legge 10.08.1950, n. 648
33
1,03
59
1,39
92
1,23
Handicap con carattere di permanenza
e connotazione di gravità
1.923
56,65
2.605
61.25
4.431
59,31
Handicap con carattere di permanenza
e connotazione temporanea di gravità
508
15,79
466
10,96
974
13,04
3.218
100
4.253
100
7.471
100
TOTALE
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I dati elaborati non dimostrano differenze significative tra i soggetti di sesso maschile e quelli di sesso
femminile: per entrambi i generi, come per la totalità dei soggetti, oltre il 70% dei casi è rappresentato da
persone con handicap permanente in situazione permanente o temporanea di gravità.
Se si effettua, invece, l’analisi stratificata per tipologia di handicap si evidenzia un eccesso, statisticamente non significativo, di soggetti di sesso femminile correlato prevalentemente al numero delle persone riconosciute in situazione di handicap con carattere di permanenza e connotazione di gravità (61,25% vs.
56,65%: p<0,001), analogamente a quanto rilevato nei Report degli anni precedenti15, 16. Questo rapporto
si inverte, invece, nel caso dell’handicap con carattere di permanenza e connotazione temporanea di gravità riconosciuto in 508 maschi (15,79% vs. 15,21% e 13,78% del 2008 e 2007) e in 466 femmine (10,96%
vs. 11,04% e 10,45% del 2008 e 2007). Del tutto sovrapponibili sono, ancora, i dati riguardo all’handicap permanente accertato in 830 maschi (25,29%) ed in 1.087 femmine (25,56%). Una leggera prevalenza di soggetti di genere femminile, statisticamente non significativa, si riscontra, infine, tra le persone riconosciute
in situazione di handicap con carattere di permanenza e grado d’invalidità superiore ai due terzi o con minorazioni iscritte alla categoria prima, seconda e terza della tabella A annessa alla legge 10.08.1950, n. 648
(1,39% vs. 1,51% e 1,11% registrati nel 2008 e nel 2007).
La Tabella 5 evidenzia come, in relazione alle diverse classi di età dei soggetti, esistono sostanziali diversità nella distribuzione dell’handicap.
Tabella 5. Provincia Autonoma di Trento. Anagrafe dell’handicap. Soggetti notificati per tipologia di handicap e classe d’età.
Frequenze assolute e relative. Dicembre 1992 – 31 dicembre 2008
Tipologia di handicap
N.
0-17
%
0-17
N.
18-64
%
18-64
N.
ultra-65
%
> 65
N.
totale
%
totale
Handicap con carattere
di permanenza
152
14,49
1123
36,01
642
19,44
1.917
25,66
Handicap con carattere
di temporaneità
16
1,53
36
1,15
8
0,24
60
0,8
Handicap con carattere di
permanenza e grado d’invalidità
superiore ai due terzi
o con minorazioni iscritte
alla categoria prima, seconda
e terza della tabella A annessa
alla legge 10.08.1950, n. 648
1
0,1
90
2,89
1
0,03
92
1,23
Handicap con carattere di
permanenza e connotazione
di gravità
366
34,89
1.523
48,83
2.539
76,87
4.431
59,31
Handicap con carattere
di permanenza e connotazione
temporanea di gravità
514
49
347
11,13
113
3,42
974
13,04
1.049
100
3.119
100
3.303
100
7.471
100
TOTALE
Se si analizzano le singole fasce di età non trova conferma quanto evidenziato nei Report degli anni precedenti e cioè l’incremento, per le persone infra-18enni, del riconoscimento dell’handicap con connotazione permanente di gravità registrato nel 34,89% dei casi (28,1% nel 2004, 33,2% nel 2005, 41,0% nel
2006, 42,04% nel 2007 e 37,86% nel 2008): tuttavia, se si sommano i soggetti minorenni riconosciuti in situazione di handicap con connotazione permanente di gravità (366, il 34,89%) con quelli riconosciuti in
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situazione temporanea di gravità (514, il 49%) è da osservare come, in questa fascia di età, si riscontri il
maggior numero di disabili in situazioni di gravità (l’83,89% vs. 85,37% registrato nel 2008). Delle 3.119 persone registrate nella fascia di età 18-65 anni, 1.523 (il 48.83% vs. 49,41% e 50,38% registrato nel 2008 e nel
2007) sono stati riconosciuti in situazione di handicap con carattere di permanenza ed in situazione di
gravità e 1.123 (il 36,01% vs. 36,56% e 37,02% registrati negli anni precedenti) in situazione di handicap
permanente senza la connotazione di gravità; 347 di essi (l’11,13% vs. 9,79% e 8,48% registrato nel 2008 e
nel 2007) sono stati, infine, riconosciuti in situazione di handicap permanente ma con connotazione temporanea di gravità e 90 (il 2,89% vs. 3,1% vs. registrato nel 2008) in situazione di handicap permanente
con invalidità superiore al 67% e/o con minorazioni ascritte alla categoria prima, seconda e terza della
pensionistica di privilegio (Legge 10 agosto 1950, n. 648 e successive integrazioni e modifiche). Riguardo
alle persone anziane ultra-65enni, 2.539 (il 76,87) di loro sono state riconosciute in situazione di handicap
permanente ed in situazione di gravità; 642 (il 19,44% vs. 19,18% registrato nel 2008) in situazione di handicap permanente senza la connotazione di gravità e 113 (il 3,42% vs. 3,79% e 2,99% registrato nel 2008
e nel 2007) in situazione di handicap permanente con connotazione temporanea di gravità.
Analizzando, ancora, la distribuzione per età stratificata per tipologia di handicap, si evidenzia come il
58,58% (vs. 60,25% e 63,26% registrato nel 2008 e nel 2007) delle persone riconosciute in situazione di handicap a carattere permanente si collocano nella fascia d’età dei soggetti adulti (18-64 anni) mentre oltre la
metà (il 60%). L’ handicap con carattere di permanenza e connotazione di gravità trova, invece, una diversa distribuzione in relazione alla fascia di età delle persone: l’ 8,26% di loro si trova nella fascia di età 0-17
anni, il 34,37% nella fascia di età 18-64 anni ed il 57,30% (vs. 55,52% registrato nel 2008) nella fascia degli
ultra-65enni. Le persone riconosciute, invece, in situazione di handicap permanente con connotazione
temporanea di gravità sono prevalentemente distribuite nelle prime età della vita: il 52,77% di loro ha
un’età inferiore ai 18 anni (vs. 53,31% registrato nel 2008) ed il 35,63% (vs. 32% registrato nel 2008) ha
un’età compresa tra i 18 ed i 64 anni. Praticamente tutte le persone riconosciute in situazione di handicap
permanente e con grado di invalidità superiore ai 2/3 appartengono, infine, alla classe di età 18-64 anni.
Dati statistici di estremo interesse per descrivere il fenomeno della disabilità in Provincia di Trento si
desumono analizzando le diverse malattie (menomazioni) che, nel periodo di riferimento, sono state accertate all’origine dell’handicap.
La Tabella 6 riporta la distribuzione delle malattie (menomazioni) accertate nel periodo di riferimento,
segmentate per i diversi apparati organo-funzionali che, coerentemente a quanto previsto dalle normative
vigenti, sono stati individuati in quelli di cui alle Tabelle indicative delle percentuali di invalidità approvate con il Decreto del Ministero della Sanità 5 febbraio 1992 nel quale sono riportate 427 menomazioni inserite 23 in settori nosologici diversi.
Il settore nosologico prevalentemente rappresentato continua ad essere quello delle malattie del sistema nervoso centrale e delle malattie del sistema nervoso periferico (il 26,04% vs. 25,51% e 25,56% registrato nel 2008 e nel 2007) che, analogamente ai Report precedenti, sono state, per comodità di analisi dei dati, ricondotte in un unico settore nosologico; in questo settore le malattie del sistema nervoso periferico
sono, tuttavia, prevalenti rispetto a quelle del sistema nervoso centrale (16,1% vs. 15,08% registrato nel
2008). Seguono, in ordine decrescente, le malattie psichiche (il 23,67% vs. 23,7% e 23,61% registrato negli
anni precedenti), quelle neoplastiche (l’8,9% vs. 8,24% e 7,56%), quelle dell’ apparato cardio-circolatorio (il
6,11% vs. 6,39% e 6,16%), quelle dell’apparato uditivo (il 3,97% vs. 4,68% e 5,48%), quelle visive (il 4,01%
vs. 4,2% e 4,54%), quelle dell’apparato locomotore ad interessamento degli arti inferiori (il 3,44% vs. 3.44%
e 3,52%), quelle congenite-malformative (il 2,72% vs. 2,8% e 3,24%), quelle dell’apparato endocrino (il 3,43
vs. 3,18% e 3,11%) e via via tutte le altre.
Il confronto con i Report degli anni precedenti non dimostra significativi scostamenti nella prevalenza delle malattie riconosciute all’origine dell’handicap; l’unico dato di rilievo risulta essere l’ulteriore lieve incremento delle malattie neurologiche (26,04 vs. 25,51) e di quelle neoplastiche (8,9% vs. 8,24%), la sostanziale stabilità statistica di quelle psichiche (23,67% vs. 23,7%) ed il contestuale decremento delle patologie congenite/malformative nonché di quelle degli organi di senso.
Tra i deficit neurologici, quello più rappresentato è la paraparesi e, dunque, la disabilità motoria: i casi
complessivamente accertati nel lungo periodo in esame, riferibili a persone disabili in vita alla data del 31
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Tabella 6. Provincia Autonoma di Trento. Anagrafe dell’handicap. Soggetti notificati secondo il settore nosologico
delle menomazioni accertate. Dicembre 1992 – 31 dicembre 2009
Settore nosologico
n.
soggetti
%
soggetti
Apparato cardio-circolatorio
452
6,11
Apparato digerente
97
1,31
Apparato endocrino
254
3,43
Apparato fonatorio
8
0,11
Apparato locomotore (arto inferiore)
255
3,44
Apparato locomotore (arto superiore)
43
0,58
Apparato locomotore (rachide)
82
1,11
1.752
23,67
Apparato respiratorio
88
1,19
Apparato riproduttivo
74
1
Apparato stomatognatico
9
0,12
Apparato uditivo
294
3,97
Apparato urinario
116
1,57
7
0,09
Apparato visivo
297
4,01
Patologia congenita e malformativa
201
2,72
Patologia immunitaria
142
1,92
Patologia neoplastica
659
8,9
Patologia sistemica
18
0,24
Sistema nervoso centrale
736
9,94
1.192
16,1
630
8,51
Apparato psichico
Apparato vestibolare
Sistema nervoso periferico
Altro
dicembre 2009, sono 916 (il 47,56% vs. 44,57% e 40,26% degli anni precedenti) e, di questi, 566 (29,33 vs.
29,01% e 28,43%) sono stati riferiti ad una paraparesi con deficit di forza grave o ad una paraplegia associata o non a disturbi sfinterici mentre 293 (15,21% vs. 2,54% del 2008) ad una paraparesi con deficit di forza
medio (2,96%). Riguardo agli oltre 200 casi registrati di disturbi neurologici successivi a fatti cerebrali acuti vascolari e/o traumatici non si rilevano differenze statisticamente significative riguardo l’interessamento
dell’emisoma (dominante e non dominante): di questi casi, 107 (il 5,56% vs. 88 e 6,16%) sono stati ricondotti ad una emiparesi grave od emiplegia associata a disturbi sfinterici, 92 casi (il 4,78%) ad una emiparesi con
interessamento dell’emisoma dominante, 67 casi (3,48% vs. 3,56% e 3,41% degli anni precedenti) ad una
emiparesi dell’emisoma non dominante e 53 casi (2,75% vs. 3,07% e 3,19% degli anni precedenti) ad una emiparesi grave o emiplegia dell’emisoma non dominante. Un’altra disabilità statisticamente rilevante è la tetraparesi registrata in 216 (11,21% vs. 11,55% e 13,07% degli anni precedenti); di questi, 125 (6,49% vs. 6,82%
e 8,24%) sono stati classificati con il codice 7351 (tetraparesi con deficit di forza grave o tetraplegia associata o non ad incontinenza sfinterica) e 57 con il codice 7350 (tetraparesi con deficit di forza medio). I casi
di paralisi cerebrale infantile registrati al 31 dicembre 2009 sono stati 70 (il 3,63% vs. 4,43% e 5,57% degli
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anni precedenti) mentre i casi di sindrome extrapiramidale parkinsoniana o coreiforme o coreoatetosica
sono stati 136 a fronte dei 114 e degli 84 registrati, rispettivamente, nel 2008 e nel 2007: di questi, 108 (il
5,61% vs. 5,59% e 4,83%) sono stati qualificati con il codice 7346 (sindrome extrapiramidale parkinsoniana
o coreoatetosica grave) e 28 (1,45%) con il codice 7348 (sindrome extrapiramidale parkinsoniana o coreoatetosica). La patologia epilettica è stata registrata in 83 casi a fronte dei 74 e dei 57 registrati nel 2008 e nel
2007: 20 casi (1,04%) sono stati inquadrati in una malattia epilettica con crisi annuali in trattamento, 15 casi (0,78%) in un’epilessia generalizzata con crisi mensili in trattamento, 10 casi (0,57%) in una malattia epilettica localizzata con crisi pluri-settimanali o quotidiane in trattamento, 7 casi (0,36%) in una malattia epilettica localizzata con crisi annuali in trattamento e 3 casi (0,18%) in una malattia epilettica generalizzata con
crisi quotidiane. Discretamente rappresentato risulta essere anche il disturbo afasico registrato in 31 casi
(l’1,61% vs. 1,78% vs. 1,71% degli anni precedenti): di questi, 20 (1,04%) sono stati inquadrati in un disturbo afasico grave, 6 (0,31%) in un disturbo afasico lieve e 6 (0,31%) in un disturbo afasico medio.
Tra le malattie riconducibili alla sfera psichica, le più rappresentate, in termini assoluti e percentuali, sono le demenze. Non è, questa, una novità, ma una conferma rispetto a quanto evidenziato nei Report degli anni precedenti poiché nel tempo si è assistito ad un progressivo incremento statistico di questa patologia: nel 2004 i casi registrati di demenza furono 212 (36,7%), nel 2005 271 (38%), nel 2006 345 (39,7%),
nel 2007 547 (il 43,9% a cui si devono aggiungere i 13 casi registrati con il codice 1001:Alzheimer con delirio depressione ad esordio senile) che è compreso tra le malattie del sistema nervoso centrale e periferico e, nel 2008, 705 casi. Dei 798 casi complessivamente registrati al 31 dicembre 2009, 639 (36,49) sono
stati qualificati in una demenza grave (MMSE pari o inferiore a 17/30 o CDR nelle ultime 4 classi) e 159
(9,08%) ad una demenza iniziale; a questi casi dobbiamo aggiungere i 14 casi registrati nel settore neurologico con il codice 1001 (demenza di Alzheimer con deliri o depressione ad esordio senile) per un totale di 812 casi di persone dementi che fanno parte del data-base ed in vita alla data del 31 dicembre 2009.
Segue, per frequenza, l’insufficienza mentale: i casi complessivamente registrati nel periodo in esame sono stati 587 (il 33,52% vs. 32,98% registrato nel 2008) e di questi 297 (16,96% vs. 17,12% e 17,81% degli
anni precedenti) sono stati qualificati in una forma grave, 185 (10,57% vs. 10,64% e 11,58%) in una forma
media e 105 (6% vs. 5,22% e 4,63%), infine, in una forma lieve.Tra le malattie psichiatriche in senso classico prevale la sindrome schizofrenica cronica: i casi complessivamente registrati sono stati 131 (il 7,48% vs.
6,87% e 6,79% degli anni precedenti) e di questi 74 casi (4,23 vs. 3,97% registrato nel 2008) sono stati
classificati con il codice 1209 (sindrome schizofrenica cronica grave con autismo delirio o profonda disorganizzazione della vita sociale), 47 (2,68 vs. 2,31%) con il codice 1210 (sindrome schizofrenica cronica
con disturbi del comportamento e delle relazioni sociali e limitata conservazione delle capacità intellettuali) e 10 (0,57% vs. 0,59%), infine, con il codice 1208 (sindrome schizofrenica cronica con riduzione della
sfera istintivo-affettiva e riduzione dell’attività pragmatica). Seguono, in ordine decrescente, i disturbi depressivi registrati in 145 casi: di questi, la maggior parte (42 casi, il 2, 4%) è stata ascritta ad un disturbo depressivo endogeno di lieve gravità; seguono i disturbi depressivi endoreattivi di media gravità (32 casi,
l’1,83%), la sindrome depressiva endogena media (19 casi: 1,09%) ed i disturbi depressivi endoreattivi lievi (15 casi, 0,86%%). Discretamente rappresentati sono anche i disturbi ciclotimici registrati in 38 casi (il
2,17% vs. 2,08% registrato nel 2008); di questi, 14 casi (0,8%) sono stati ricondotti al codice 2201 (disturbi ciclotimici con crisi subentranti o forme croniche gravi con necessità di terapia continua), 11 casi
(0,63%) al codice 2203 (disturbi ciclotimici con ripercussioni sulla vita sociale) ed i restanti 5 casi (0,74%)
al codice 2202 (disturbi ciclotimici che consentono una limitata attività professionale e sociale). 21 (1,2%)
sono stati, infine, i casi di psicosi ossessiva e 15 (0,85%) quelli di sofferenza organica; di questi ultimi, oltre
la metà sono stati riferiti ad un disturbo della memoria che, in 9 casi (0,51%), è stato ricondotto al codice
1103 (esiti di sofferenza organica accertata strumentalmente che comporta gravi disturbi della memoria).
L’ultimo indicatore che resta da esaminare per comprendere, in tutte le sue variabili, il fenomeno dell’handicap nella Provincia autonoma di Trento riguarda il numero e la tipologia dei benefici e delle agevolazioni assistenziali che, nell’arco di tempo compreso tra il 1992 ed il 31 dicembre 2009, sono stati autorizzati dalla Commissione Sanitaria prevista dall’ art. 4 della Legge n. 104/92.
A questo riguardo il data-base registra 1.031 (vs. 1106 del 2008) benefici/agevolazioni assistenziali autorizzate alle persone disabili riconosciute in situazione di handicap permanente residenti in Provincia auto-
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noma di Trento ed in vita alla data del 31 dicembre 2009.Tra essi quelli maggiormente rappresentati sono,
in ordine decrescente: la fornitura straordinaria e la riparazione di apparecchi, attrezzi, protesi ed ausili (349
casi registrati, il 33.85% vs. il 35,9% ed il 38,24% registrati negli anni precedenti), il diritto a servizi alternativi di trasporto collettivo od individuale (179 casi, il 17,36 vs. il 17,45% ed 17,56%), il diritto a spazi riservati per la circolazione e la sosta in deroga dei veicoli al servizio delle persone disabili (126 casi, il 12,22%
del totale vs. 12,83% registrato nel 2007), l’accesso a centri socio-riabilitativi ed educativi diurni riservati alle persone le cui potenzialità residue non consentono idonee forme di integrazione lavorativa (97 casi, il
9,41% vs. 8,05% e 6,2%) ed il diritto alla scelta prioritaria tra le sedi disponibili riconosciuto alle persone in
situazione di handicap permanente con grado di invalidità superiore al 67% e/o con minorazioni ascritte alle prime tre categorie della pensionistica di privilegio (93 casi rispetto ai 72 casi del 2008, il 6,98% vs. 6,87%).
Nello stesso periodo di riferimento (1992-2009) ai soggetti riconosciuti in situazione di handicap permanente con connotazione di gravità residenti nella Provincia di Trento ed in vita alla data del 31 dicembre 2009
sono stati, invece, erogati 7.324 (vs. 6.057 del 2008) benefici/agevolazioni assistenziali: in 3.596 casi (49,1%
vs. 49,6% e 48,59% degli anni precedenti) il permesso retribuito di tre giorni per l’assistenza prestata al genitore/parente/affine non ricoverato a tempo pieno, in 1.270 casi (17,34% vs. 16,25% e 16,97%) le agevolazioni fiscali previste dalla normativa vigente, in 715 casi (9,76% vs. 9,62% e 9,64%) i permessi per il lavoratore
riconosciuto in situazione di handicap in situazione di gravità, in 429 casi (5,86%) il diritto di scelta della sede di lavoro più vicina al domicilio, in 413 casi (5,64%) il diritto del genitore o del familiare che assiste la persona disabile di non essere trasferiti in altre sede di lavoro senza il loro consenso e in 163 casi (2,23%) il permesso giornaliero retribuito di due ore per il genitore minore di tre anni non ricoverato a tempo pieno.
Riguardo a tali agevolazioni assistenziali, và osservato come il permesso retribuito per il genitore/parente/affine che assiste la persona handicappata oltre il terzo anno di vita e non ricoverata a tempo pieno sia
quello più ampiamente richiesto da chi attiva l’accertamento dell’handicap: tale agevolazione rappresenta, da sola, quasi la metà (3.596 casi registrati, il 49,1 % vs. 49,6%, e 48,59% degli anni precedenti) di tutti
i benefici complessivamente erogati nel lungo periodo di riferimento. Le donne disabili, in questa popolazione, risultano, in modo statisticamente significativo (p<0,001), in numero maggiore rispetto ai maschi.
2.154 vs. 1.442 (59, 9% vs. 59,38% e 59,1% degli anni precedenti. Stratificando le persone per classe d’età,
le agevolazioni di cui all’art. 33, comma 3, della legge-quadro sono state riconosciute in questa misura percentuale: nel 16,07% di casi a favore di soggetti minorenni di età compresa tra 0-17 anni (vs. 17,47% e
19,6%), nel 22,58% dei casi a favore di soggetti adulti di età compresa tra 18 e 64 anni (vs. 22,3% e 25,1%)
e in 2.206 casi (61,34%) a favore di soggetti anziani ultra 65-enni (vs. 60,21% registrato nel 2008 e vs. 55,3%
registrato nel 2007.Analogamente a quanto evidenziato nei Report 2008 non sono più le malattie del sistema nervoso centrale e periferico quelle all’origine del maggior numero di agevolazioni assistenziali erogate bensì quelle della sfera psichica ed, in particolare, le demenze. Questa patologia è stata accertata all’origine del diritto in 696 casi (19,35%) rispetto ai 590 casi registrati nel 2008; seguono la paraparesi (407 casi), le neoplasie a prognosi infausta (275 casi), l’insufficienza mentale (250 casi vs. 196 casi del 2008), le gravi cardiopatia (144 casi), la cecità (107 casi), la patologia diabetica complicata (104 casi), i disturbi extrapiramidali parkinsoniani (90 casi), la sindrome schizofrenica cronica (62 casi vs. 52 casi del 2008), le gravissime perdite uditive (56 casi) e via, via tutte le altre. La disabilità maggiormente rappresentata non è, dunque, in questa circostanza, la disautonomia motoria, ma i disturbi cognitivi delle persone anziane che rappresentano una vera e propria emergenza sociale: emergenza che richiede urgenti interventi di sostegno
a favore della famiglia per prevenire la non istituzionalizzazione della persona anziana e rallentare, di conseguenza, l’evoluzione della malattia.
L’altro data-base gestito dall’Unità Operativa di Medicina Legale dell’Azienda provinciale per i Servizi
sanitari di Trento è quello che è in grado di ricostruire, per ciascuna fascia di età, il numero complessivo
delle persone titolari, alla data del 31 dicembre 2008, dell’indennità di accompagnamento concessa8 a cau8 Il riferimento è all’art. 1 (Aventi diritto all’indennità di accompagnamento) della legge 21 novembre 1988, n. 508: “1-La disciplina della indennità di accompagnamento istituita con leggi 28 marzo 1968, n. 406, e 11 febbraio 1980, n. 18, e successive
modificazioni ed integrazioni, è modificata come segue. 2- L’indennità di accompagnamento è concessa: a) ai cittadini riconosciuti ciechi assoluti; b) ai cittadini nei cui confronti sia stata accertata una inabilità totale per affezioni fisiche o psichiche
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sa di “affezioni fisiche o psichiche” produttive di conseguenze individuate, alternativamente, nell’“impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore” (cod. 05) e/o nella necessità di
“un’assistenza continua … non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita” (cod. 06).
La Tabella 7 riassume la situazione che ha richiesto l’elaborazione dei dati statistici attraverso il linkage tra il data-base “AML” ed il data-base gestito dall’Agenzia provinciale per l’assistenza e la previdenza integrativa di Trento.
Tabella 7. Numero di persone titolari in Provincia di Trento dell’ indennità di accompagnamento suddivise per classi di età
Classi di età
Cod. 05
Cod. 06
Totale
0-4 anni
-
35
35
5-14 anni
20
146
166
15-19 anni
27
66
93
20-54 anni
911
374
1285
55-64 anni
384
229
613
65-69 anni
239
204
443
70-79 anni
494
1401
1.885
80-90 anni
1.118
3.520
4.638
445
1.808
2.253
3.628
7.783
11.411
Oltre 90 anni
Totale
Sul totale delle 11.411 persone riconosciute titolari di questo diritto, in netta prevalenza risultano quelle
riconosciute nell’incapacità di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita (cod. 06) rispetto a quelle (cod. 05) non deambulanti (7.783 vs. 3.628, 68,20% vs. 31.8%), le femmine rispetto ai maschi (7.850 vs.
3.561) e quelle anziane ultra-65enni: 9.219 (80,79%) sono, infatti, le persone ultra-65enni riconosciute titolari del diritto all’indennità di accompagnamento e la maggior parte di esse (4.638, 40,64%) si colloca nella fascia di età 80-90 anni. Se si eliminano, poi, i fattori confondenti legati alla struttura d’età della popolazione residente in Provincia di Trento ricorrendo alla standardizzazione risulta ancora che il 57,63% delle persone ultra-90enni è stato riconosciuto titolare di questo diritto (321 maschi vs. 1.932 femmine) e che tale percentuale scende al 17,72% nella fascia di età 80-89 anni, al 6,84% nella fascia di età 65-69 ed al 4,46% in quella 7079 anni pur osservandosi, in queste ultime due fasce di età, un netto decremento del gap riferito al genere (198
maschi vs. 245 femmine nella fascia 65-69 anni e 741 maschi vs. 1.144 femmine nella fascia 70-79 anni).
Se si procede, ancora, a scomporre la popolazione presente nel data-base suddividendola in riferimento al luogo in cui la persona si trova (distinguendo le persone al domicilio da quelle istituzionalizzate a
tempo pieno) emerge un ulteriore dato di estremo rilievo: la maggioranza delle persone riconosciute non
deambulanti e non in grado di compiere autonomamente gli atti quotidiani della vita si trova al domicilio
rispetto a quelle istituzionalizzate (7.586 vs. 3.825).
e che si trovino nella impossibilità di deambulare senza l’ aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado
di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua. 3. Fermi restando o requisiti sanitari previsti dalla presente legge, l’indennità di accompagnamento non è incompatibile con lo svolgimento di una attività lavorativa
ed è concessa anche ai minorati nei cui confronti l’accertamento delle prescritte condizioni sia intervenuto a seguito di istanza presentata dopo il compimento del 65° anno di età.4. L’indennità di accompagnamento di cui alla presente legge non è compatibile con analoghe prestazioni concesse per invalidità contratte per causa di guerra, di lavoro o di servizio. 5. Resta salva
per l’interessato la facoltà di optare per il trattamento più favorevole. 6. L indennità di accompagnamento è concessa ai cittadini residenti sul territorio nazionale”.
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Pertanto, la netta prevalenza delle persone non autosufficienti9 residenti in Provincia di Trento è assistita al domicilio (il 66,47%) e non già in struttura residenziale.
La Tabella 8 esamina la struttura d’età della popolazione non autosufficiente trentina non istituzionalizzata a tempo pieno.
Tabella 8. Numero di persone non istituzionalizzate titolari in Provincia di Trento dell’indennità di accompagnamento suddivise
per classi di età
Classi di età
Cod. 05
Cod. 06
Totale
0-4 anni
-
35
35
5-14 anni
19
145
164
15-19 anni
26
64
90
20-54 anni
696
331
1.027
55-64 anni
274
173
447
65-69 anni
175
149
324
70-79 anni
376
903
1.279
80-90 anni
799
2.112
2.911
Oltre 90 anni
307
1.002
1.309
2.672
4.914
7.586
Totale
La Tabella 9 esamina, invece, la struttura d’età della popolazione non autosufficiente trentina istituzionalizzata a tempo pieno.
Tabella 9. Numero di persone istituzionalizzate titolari in Provincia di Trento dell’indennità di accompagnamento suddivise
per classi di età
Classi di età
Cod. 05
Cod. 06
Totale
0-4 anni
-
-
-
5-14 anni
2
-
2
15-19 anni
1
2
3
20-54 anni
215
43
258
55-64 anni
110
56
166
65-69 anni
64
55
119
70-79 anni
108
498
606
80-90 anni
319
1.408
1.727
Oltre 90 anni
138
806
944
Totale
956
2.869
3.825
9 Ci rendiamo conto che questa terminologia ha una valenza equivoca anche se in questa parte della nostra riflessione essa
sarà spesso utilizzata per qualificare le persone disabili riconosciute titolari del diritto alla indennità di accompagnamento.
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Il confronto tra le due Tabelle, nel confermare che oltre il 66% % delle persone trentine non autosufficienti è assistito al domicilio, dimostra alcune caratteristiche delle due sotto-popolazioni che possiamo così identificare.
Risulta, innanzitutto, che la maggior parte delle persone trentine non autosufficienti ricoverate a tempo pieno è quella anziana ultra-65enni (3.396 vs. 3.825) e che, pertanto, il luogo dove avviene l’istituzionalizzazione è prevalentemente rappresentato dalle residenze sanitarie per l’anziano (R.S.A.).
La fascia d’età più rappresentata di questa sottopopolazione è quella compresa tra gli 80 ed i 90 anni:
il 45,15% delle persone complessivamente istituzionalizzate in trentino si colloca in questa fascia di età e
questa percentuale scende, invece, al 38,37% se si guarda alla sottopopolazione delle persone non autosufficienti inserite nel loro domicilio.
Ma c’è un ulteriore dato di rilievo che emerge dal confronto tra le due Tabelle.
La netta prevalenza delle persone istituzionalizzate non è autosufficiente nell espletamento degli atti
quotidiani della vita rispetto a quella mantenuta a domicilio (75% vs. 64.77%) a dimostrazione che il piano assistenziale richiesto da tali persone disabili è spesso fonte di un’istituzionalizzazione forzata non essendo a portata della famiglia per la sua complessità ed intensità.
Un ultimo dato statistico merita la nostra attenzione: ci riferiamo all’esame delle diverse disabilità10 accertate nei confronti delle persone non autosufficienti trentine ed all’esame della loro distribuzione, numerica e percentuale, in relazione al luogo in cui la persona disabile viene assistita.
Merita a questo proposito osservare come alle 11.411 persone non autosufficienti che, in Provincia di
Trento, percepiscono l’indennità d’accompagnamento corrispondono, sul piano statistico, 10.995 disabilità riferite in ordine decrescente ai seguenti settori nosologici: 4.512 disabilità mentali (41,04%), 2.038 disabilità riferite a limitazione dei movimenti articolari (18,54%), 1.521 disabilità intellettive (13,83%), 1031
disabilità riferite agli organi di senso (9, 37%) e via, via tutte le altre.
Il dato è di estremo interesse anche se, evidentemente, richiede un’ulteriore elaborazione statistica per
verificare la frequenza delle singole patologie accertate all’origine della disabilità perché contrasta le conclusioni a più riprese fornite dal Servizio centrale di statistica: le menomazioni che sono in Trentino più frequentemente all’origine della non autosufficienza non sono quelle neurologiche ma quelle riferibili alla sfera psichica dove, lo ricordiamo, risultano inserite le demenze.
2.2 I determinanti normativi
In questo paragrafo ci proponiamo di caratterizzare le peculiarità dell’assetto normativo che la Provincia autonoma di Trento si è data nel settore assistenziale.
Le riassumiamo nei seguenti punti richiamando l’attenzione del Lettore sulla circostanza che nel campo dell’assistenza pubblica la Provincia autonoma di Trento ha una competenza legislativa di natura primaria11 sulla base dello Statuto speciale d’ autonomia:
• attribuzione alle strutture specialistiche medico-legali del Servizio sanitario provinciale (Unità Operativa di Medicina Legale) di un forte ruolo di responsabilità e di governo in tutti gli ambiti di attività finalizzati al riconoscimento della disabilità:
• semplificazione delle procedure di riconoscimento della disabilità (l’accertamento dell’invalidità civile è in capo, dal 1998, ad un singolo medico specialista in medicina legale);
• riduzione dei costi di gestione (tutta l’attività finalizzata all’accertamento della disabilità viene svolta in orario di servizio, senza ulteriori oneri a carico del bilancio pubblico);
• ottimizzazione e trasparenza del processo valutativo (la deliberazione n. 2704 approvata dalla Giunta provinciale di Trento il 9 aprile 1999 ha fornito chiare indicazioni riguardo ai sistemi multi-assiali da utiliz-
10 Sono state, al riguardo, utilizzate le 427 menomazioni codificate nel decreto ministeriale 5 febbraio 1992 inserite in 23 in
settori nosologici elaborando i dati statistici in relazione solo alla prima disabilità codificata nei Modelli A/SAN..
11 Si tratta di una competenza piena (o esclusiva) intesa come potestà di emanare norme in armonia con la Costituzione, con
i principi dell’ordinamento giuridico dello Stato e delle riforme economico-sociali della Repubblica: sul punto si veda il contributo di uno di noi (CEMBRANI F., Il ruolo della Medicina legale nella tutela assistenziale degli invalidi civili, Provincia autonoma
di Trento Ed., 1990).
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zare nella graduazione delle “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell età”
riguardo alle persone anziane ultra-65enni e la deliberazione n. 2831 che la stessa Giunta provinciale ha
approvato il 31 ottobre 2008 ha integrato tali sistemi per la valutazione dell’impairment cognitivo);
• sostegno alle misure di conciliazione amministrativa (in capo ad una Commissione sanitaria di 2^
istanza formata, per quanto riguarda l’invalidità civile, da tre medici specialisti in medicina legale) per
contenere al minimo il contenzioso giudiziario azzerato negli ultimi anni;
• potenziamento del numero dei medici assegnati all’accertamento della disabilità (riconoscimento
dell’invalidità civile promosso dalle persone anziane ultra-65enni) affiancando ai medici specialisti
in medicina legale quelli dei Distretti sanitari previamente formati per ridurre i tempi di attesa per
la visita medica.
Tali scelte normative si sono tradotte, evidentemente, in un assetto organizzativo di chiara matrice specialistica, di tipo sovrazonale, fortemente motivato e responsabilizzato in tutte le azioni finalizzate al governo dei processi che, nel tempo, ha saputo creare le condizioni per il miglioramento continuo della qualità
avvenuto attraverso la produzione di indicatori (prevalentemente di processo), il loro periodico e costante
monitoraggio, la predisposizione di Linee-guida, la stretta collaborazione con la sfera ad indirizzo politico, la
realizzazione di piani annuali per la formazione di tutti i soggetti portatori di interesse e, non da ultimo,
l’elaborazione statistica dei dati con l’obiettivo di renderli accessibili e fruibili a tutte gli Enti ed Amministrazioni pubbliche per la pianificazione dei servizi e di testimoniare, al contempo, l’impegno che le strutture
medico-legali del Servizio sanitario nazionale dedicano alla tutela dei diritti delle persone disabili sanciti
dalla nostra Carta costituzionale (art. 38) nonché dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità
approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 13 dicembre 2006 e recentemente ratificata, dal nostro Paese, con la legge 3 marzo 2009, n. 18 (“Ratifica ed esecuzione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a New York il 13 dicembre 2006
e istituzione dell’Osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità”).
2.3 I determinanti ermeneutici
Se è indubbio che le variabili di contesto poc’anzi ricostruite hanno, di certo, influenzato positivamente -e non poteva non avvenire altrimenti- le nostre proposte in tema di valutazione medico-legale dell’impairment cognitivo nel settore assistenziale, la questione del metodo (o dell’ermeneutica) utilizzato risulta un punto nodale sul quale vogliamo soffermarci brevemente perché da questo dipende, a nostro personale giudizio, il telos costitutivo di tutte le Discipline, mediche e sociali, che si confrontano con la dimensione del territorio, con i problemi reali posti dalle persone e con le emergenze sociali che si incontrano
quotidianamente nella pratica clinica.
In questa direzione, l’ermeneutica classica della medicina legale e della formazione accademica non sembra più in grado di reggere il passo con i tempi perché i molti problemi che si incontrano anche nella prassi valutativa non possono essere inseriti, a fortiori, all’interno di quella tradizionale “terzietà neutrale” tanto cara a quel metodo di lavoro proprio della pratica forense in cui al medico legale viene chiesto di valutare, con assoluta indipendenza ed equidistanza tra le parti, fatti biologici di interesse giuridico per la corretta amministrazione della giustizia.
Non si vuole, in questa sede, rinunciare a quel metodo che conserva la sua straordinaria originalità nella ricostruzione organica degli eventi, nella loro rigorosa valutazione tecnica, nella qualità della raccolta dei
dati d’interesse biologico e nel loro collegamento inferenziale con le regole dell’ordinamento giuridico
che sempre e comunque orientano il giudizio tecnico.
No certo!
Ciò che si vuole invece rimarcare è che questa è un’ermeneutica che poco si addice ad una dimensione -quella propria del territorio- che si trova ad affrontare i problemi reali posti dalle persone umane per
ricercare, non solo sul piano dell’elaborazione astratta, quelle soluzioni che, evidentemente, non possono
tradire le “regole” ma che devono, necessariamente, trovare le possibili soluzioni ai problemi all’interno di
quella fitta trama di relazioni etiche, civili ed umane che le collegano con i “principi” (diritti fondamentali
della persona) ed i valori irrinunciabili.
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Non è, questa, una strada facile da seguire: la “neutralità” è un luogo più ospitale perché ci porta ad osservare il problema, qualche volta a segnalarlo anche suggerendo le eventuali azioni correttive, ma mai a
prendere una decisione che, in questa prospettiva, viene rinviata al legislatore e, nella pratica forense, a
chi ha l’ onere di giudicare. La neutralità finisce, in questo modo, per diventare il luogo di nessuno e la sede della burocrazia dove nessuna persona è responsabile perché la catena delle responsabilità è così debole che nessuno è chiamato a prendere mai una decisione.
È questa una corrente ermeneutica molto forte, difficile da contrastare, faticosa da combattere: ciò facendo, il rischio che si corre è l’addebito di percorsi eversivi che nulla hanno di eversivo se non il richiamo ad una forte responsabilità professionale che ci porta ad individuare le soluzione ai molti problemi
del territorio affrontandoli in maniera seria, equilibrata e trasparente per provare a dar loro una soluzione.
Il rischio che si corre -lo sappiano- è quello di esporsi sul piano professionale ed umano: ma è, questo,
un rischio che bisogna accettare e riconoscere con la consapevolezza e la serietà di sempre, con il coraggio delle azioni e con la voglia di sperimentare.
Ed è questa la luce che ha illuminato la strada percorsa quando, a fronte dell’emergenza rappresentata oggi nel nostro Paese dalla tutela assistenziale delle persone dementi, abbiamo provato a riempire di
contenuti quelle “difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie dell’ età” che risentono,
a tutt’oggi, specie nell’ambito dell’impairment cognitivo, di un’area di ampia incertezza definitoria; incertezza sostenuta da un vuoto legislativo fuorviante che, prestandosi alla libera interpretazione, finisce con
il creare fenomeni di ampia dis-equità sociale rinunciando alla soluzione dei problemi.
Lo abbiamo fatto con spirito nuovo, liberandoci per così dire dalle catene di quell’ermeneutica forense che non si addice alle esigenze del territorio non già rovesciandola, ma recuperandone, invece, i punti
di forza rappresentati dalla rigorosità del ragionamento scientifico, da un approccio clinico fortemente
orientato alla soluzione dei problemi, dalla riproducibilità del dato e dalla sua qualità.
3. Alcune (brevi) considerazioni di sintesi
Con questa riflessione abbiamo voluto condividere con il Lettore i determinanti di contesto che hanno
motivato le soluzioni a suo tempo proposte per la valutazione medico-legale dell’impairment cognitivo nel
settore assistenziale, le condizioni favorevoli che le hanno certamente influenzate e, non da ultimo, l’ermeneutica che ha animato la nostra proposta operativa; lo abbiamo fatto con obiettivi dichiarati che ci sembrano particolarmente auguranti in questa straordinaria occasione in cui si celebra il 10° Congresso Nazionale dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria per illuminare, con la luce della nostra personale esperienza, il
cammino intrapreso dalla Società scientifica di promuovere ulteriormente il dibattito con la redazione di una
“Linee-guida” che possa essere utilizzata in tutti gli ambiti valutativi del territorio nazionale.
La nostra speranza è di aver corrisposto agli obiettivi che ci eravamo proposti ed il nostro auspicio è
quello di non suscitare il biasimo del Lettore per aver messo in campo, ben oltre la riflessione tecnica,
emozioni e sentimenti che fanno parte del nostro vissuto personale e del nostro modo di essere professionisti davvero al servizio delle persone più deboli.
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L’ARTE DELLA CONVERSAZIONE CON LA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA
Pietro Vigorelli
Gruppo Anchise - Milano
[email protected], www.gruppoanchise.it
La prima conversazione
1. Come si chiama? 3. Cognome? 5. Come si chiama suo marito? 7. È sposata? 9. Signora D.?
Era il 26 novembre 1901. Con queste parole, annotate fedelmente nella cartella clinica,Alois Alzheimer
cerca di parlare con la sua paziente1.
2. Auguste. 4. Auguste. 6. Ah, mio marito? 8. Con Auguste. 10. Sì, sì, Auguste D.
Con queste altre parole la paziente cerca di rispondere, ma la conversazione non riesce ad avviarsi e
Alzheimer annota:
Alla fine non era più possibile alcuna forma di conversazione con la malata.
A distanza di un secolo possiamo interrogarci: la scarsa produzione verbale di Auguste e la sua ripetitività sono la conseguenza esclusiva della sua malattia oppure anche il conversante ha influito sul comportamento verbale della paziente?
Oggi risulta ovvio rispondere che anche l’osservatore ha influito sull’osservato, che le parole di Auguste sono influenzate anche dalle parole del dottor Alzheimer, ma questo è il frutto di un secolo di evoluzione scientifica.
Una trappola per il medico ed il paziente
Nei 10 turni verbali che compongono la prima conversazione con un malato Alzheimer possiamo riconoscere, dal punto di vista del conversante, un normale colloquio medico-paziente.
L’arte della medicina si basa sull’uso sapiente delle domande. La raccolta anamnestica, la messa a fuoco del problema del paziente, l’inchiesta sui sintomi richiede l’impiego di domande mirate e precise. Quando poi il malato ha un sospetto decadimento cognitivo, la diagnosi neuropsicologica si basa sul cimentare il paziente con domande sempre più difficili per valutare a che livello di difficoltà il paziente fallisce e
poter così porre una diagnosi corretta di malattia e di grading della malattia stessa. Ne consegue che l’atteggiamento di base del medico che si accosta ad una persona con sospetti deficit cognitivi è basato sul
fare domande e sul farle finché il paziente fallisce, finché non sa più rispondere adeguatamente.
Questo tipo di scambi verbali col medico, pur essendo utile dal punto di vista diagnostico, non è certo utile per favorire la partecipazione alla conversazione da parte del paziente. Un esempio tipico del “fare domande” nella pratica medica lo si osserva al momento della somministrazione del MMSE2. Questo test,
necessario per lo screening delle demenze, offre il vantaggio di essere standardizzato e di veloce esecuzione, ma espone il paziente ad una situazione frustrante. Una buona pratica clinica consiglia di ripeterlo solo ogni sei mesi, per il grading della demenza, ma purtroppo succede che lo stesso atteggiamento inquisitorio venga mantenuto dal medico anche in occasione degli scambi verbali routinari, durante la vita quotidiana in RSA, quando l’atteggiamento diagnostico non ha alcuna ragione di essere.
A qualcuno può sembrare inevitabile che nella realtà delle RSA e dei Centri Diurni medico e paziente
vengano a trovarsi in questa trappola in cui il medico pone domande ed il paziente non sa fornire le risposte attese; nell’articolo che segue discuterò di questa questione.
L’Approccio Conversazionale e Capacitante
Per uscire dalla trappola dell’interrogatorio, una trappola che tende a spegnere la conversazione quando sarebbe ancora possibile, ho proposto di fare ricorso ad un diverso stile conversazionale, l’Approccio
Conversazionale e Capacitante (ACC).
Le radici del metodo si trovano nel Conversazionalismo di Giampaolo Lai3-8 che è partito dall’assunto
che è la parola stessa, e non solo l’informazione da essa veicolata, che ha valore in sé e che va salvaguar-
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data attraverso lo scambio verbale. L’impiego della parola, cioè, è utile non solo per trasmettere messaggi,
ma anche per far nascere altre parole, per sentirsi persone dignitose e per cercare una felice convivenza
con i propri simili9. Ne ho scritto diffusamente in La conversazione possibile con il malato Alzheimer10.
Negli anni più recenti ho accolto numerosi altri contributi e mi sono lasciato contaminare da fonti culturali anche molto distanti, come il Capability Approach di Amarthia Sen11-14. In quest’ottica è importante
che il malato che ha difficoltà di linguaggio possa parlare così come è in grado di farlo e possa fare quello che fa così come lo fa, senza essere continuamente corretto e senza sentirsi in errore. Infatti, il costante senso d’inadeguatezza della persona malata di demenza è sicuramente fonte di sofferenza e forse è all’origine di molti disturbi psicologici e comportamentali.
L’ACC non è un metodo riabilitativo ma si propone come stile relazionale da adottare da parte di tutto il personale curante, 24 ore su 24. In tal modo si evita di creare frustrazione e reazioni avverse, si favorisce l’utilizzo della parola ed una serena convivenza all’interno delle RSA. Ne ho scritto in vari articoli1517 e nel volume Alzheimer senza paura18.
L’ACC si basa su alcune tecniche conversazionali che sono poi state elaborate e designate come “Dodici Passi”, per renderle facilmente trasmissibili attraverso incontri di formazione con il personale e con i
familiari dei malati. Ne ho scritto in I Gruppi ABC19. I primi cinque Passi si ispirano liberamente all’algoritmo delle conversazioni messo a punto dal Conversazionalismo (non fare domande, non correggere, non
interrompere, ascoltare,“accompagnare con le parole”, cioè usare tecniche quali la restituzione del motivo narrativo, la risposta in eco, la somministrazione di autobiografia); i secondi cinque s’intersecano con il
Capability Approach (rispondere alle domande, comunicare anche con i gesti, riconoscere le emozioni, rispondere alle richieste, accettare che faccia quello che fa); gli ultimi due presentano evidenti concordanze con la prassi dei gruppi Al-Anon, cioè dei familiari di alcolisti (accettare la malattia, occuparsi del proprio benessere).
Come risulta evidente da questa presentazione sommaria il metodo dei Dodici Passi comprende elementi comuni anche con altri metodi, come quello di Naomi Feil20 (la Validation), dove sottolinea l’importanza del mondo emotivo, e quello di Tom Kitwood21-23, dove sottolinea l’influenza dell’ambiente sull’espressione clinica della malattia (la psicologia sociale maligna).
Un altro mondo possibile
Dal punto di vista psicologico l’ACC guarda al medico ed al paziente dal punto di vista delle identità
molteplici:
• Il medico non è solo un professionista della diagnosi e della riabilitazione che osserva il malato e agisce su di lui. Il medico è una persona, con la propria personalità ed il proprio stile conversazionale,
che interagisce con il paziente ed influisce sulla situazione che osserva, cioè sull’espressione clinica dei danni cerebrali del paziente.
• Il paziente non è solo un malato di demenza. Il paziente è una persona con una storia, delle emozioni e delle competenze; una persona che per numerosi anni può conservare la competenza a parlare ed a comunicare, la competenza emotiva, la competenza a contrattare e a decidere sulle cose che
lo riguardano.
Medico e paziente spesso vivono in due mondi possibili che sembrano privi di punti di contatto. Compito del medico è di cercare un Punto d’Incontro Felice (PIF) tra questi due mondi, accogliendo il punto
di vista delle identità molteplici. Il PIF si può sempre trovare nel mondo delle parole e spesso fa riferimento alle emozioni che il paziente manifesta nell’hic et nunc dello scambio verbale.
L’evidenza delle parole
A distanza di un secolo dalla prima conversazione annotata da Alzheimer, oggi possiamo sostenere che
la conversazione con il malato affetto da demenza è possibile. La registrazione e la sbobinatura di centinaia di conversazioni fornisce evidenza a questa affermazione. Sul sito www.gruppoanchise.it è riportato il
testo di numerose di queste conversazioni, alcune delle quali con persone affette da demenza in stadio
severo (punteggio del MMSE: 10).
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Vari studi pilota hanno evidenziato che l’ACC riduce il disturbo anomico24, aumenta la produzione verbale e la partecipazione del paziente alla conversazione25. L’ACC può essere applicato dal personale curante anche solo dopo un’unica sessione formativa26; la partecipazione del familiare a sei incontri di gruppo
(Gruppo ABC) è in grado di modificare favorevolmente il comportamento verbale del familiare stesso e di
ridurre il suo senso di inadeguatezza27.
Studi più ampi sono necessari per la validazione del metodo, ma fin d’ora dobbiamo tenere conto dell’evidenza delle parole28 che emergono, che vengono registrate e trascritte per essere oggetto di ricerca.
BIBLIOGRAFIA
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5
Lai G. La conversazione immateriale. Bollati Boringhieri, 1995.
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Lai G. Postulati, definizioni, algoritmi, teoremi del conversazionalismo. Fondamenti dimostrativi o assiomi condizionali? Rivista
italiana di gruppo analisi 2003;1: 9-47.
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Vigorelli P. La terapia conversazionale in gruppo: la conversazione felice con pazienti dementi. G.Gerontol. 2006;5;437-9.
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11
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12
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13
Sen A. Identità e violenza. Laterza, 2006.
14
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15
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16
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cognitivi. Geriatria 2007;4:31-7.
17
Vigorelli P. La Capacitazione: un’idea forte per la cura della persona anziana ricoverata in RSA. G.Gerontol. 2007;55:104-9.
18
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19
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20
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21
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22
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23
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34
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25
Maramonti A, Vigorelli P. Il deterioramento del linguaggio nella malattia di Alzheimer. Un metodo di valutazione basato sull’Approccio Conversazionale (AC). 53° Congresso Nazionale SIGG, Firenze 26-29 novembre. 7° Corso di Riabilitazione (poster),
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26
Lacchini C, Vigorelli P. Efficacia di un intervento formativo breve sulla produzione di nomi nei malati Alzheimer. Studio basato
sull’Approccio Conversazionale. 53° Congresso Nazionale SIGG, Firenze 26-29 novembre 2008. 7° Corso di Riabilitazione (poster), 2008.
27
Guaita A, Vigorelli P, Peduzzi A. Relazione conclusiva del progetto Parole che aiutano, cofinanziato dalla Provincia di Milano.
(consultabile su www.gruppoanchise.it/bibliografia), 2009
28
Vigorelli P. L’evidenza delle parole nella malattia di Alzheimer. Gruppo di Ricerca Geriatrica - news 2/2010.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
LA RIABILITAZIONE DELLA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA
Marcella Pevere
Centro Servizi “Papa Albino Lucani”- ULSS 6, Altavilla Vicentina
Operare come riabilitatore con persone affette da demenza è un’esperienza professionale in grado di
suscitare numerosi interrogativi in chi la affronti con spirito riflessivo. In primo luogo sorgono domande
sul significato del termine “riabilitazione” e sul senso del proprio agire nel contesto geriatrico in generale
ed in quello, per così dire,“di frontiera” della persona affetta da deterioramento cognitivo in fase medio-grave. L’inestricabile intreccio tra disabilità e comorbilità che spesso si presenta nel paziente anziano fragile
fa si che non sia proponibile un approccio riabilitativo basato su un modello di cura delle malattie da un
lato e della disabilità dall’altro; la riabilitazione, anche se rivolta prevalentemente all’aspetto motorio-funzionale, non può che assumere un significato più ampio che tenga conto delle molte dimensioni dell’individuo che ci è di fronte: una persona che “gli anni, le esperienze, i compensi, i meccanismi di coping
hanno reso un sopravvissuto unico”1. Nel paziente geriatrico la riabilitazione deve saper cogliere la sfida
della complessità. Da un punto di vista epistemiologico questo significa tenere contemporaneamente presenti i valori di due approcci a prima vista antitetici: quello scientifico e quello fenomenologico che attribuisce, appunto, al “fenomeno persona” una dignità di realtà, da cogliere nella sua totalità ontologica, non
solo di apparenza cui soggiaciono i veri meccanismi di malattia.
Superato lo scoglio del primo quesito, ne restano poi altri legati all’agire quotidiano; mi soffermo in
questa sede su due che considero paradigmatici: il canale comunicativo-relazionale ed il setting.
L’attenzione genuina per l’altro, per la narrazione che egli fa della propria “storia di malattia” è l’atteggiamento di partenza della relazione tra curante e curato secondo l’orientamento delle Medical Humanities2, 3, si tratta di un ascolto professionale, basato cioè non su di un generico sentimento di partecipazione umana, ma su precise tecniche che possono essere apprese ed affinate con l’esperienza. Questo approccio è particolarmente efficace nella relazione con la persona affetta da demenza (o in quella con i
suoi caregiver) anche quando il linguaggio del soggetto presenta dei deficit; il desiderio di essere ascoltati, considerati, accettati e valorizzati come persone, in particolare nei momenti in cui ci sentiamo vulnerabili ed in difficoltà, è un sentimento comune a tutti, ed è a maggior ragione un bisogno forte per il paziente con demenza, tanto più quando fatica a comunicare. L’operatore che empaticamente si sforza di comprendere e sa facilitare la comunicazione dei vissuti che urgono dentro, ma che a causa della malattia si fanno sempre più difficili da trasmettere, saprà dunque guadagnarsi la fiducia e la collaborazione del proprio
paziente: una conquista importante per garantire il successo del percorso riabilitativo.
Caratteristica fondamentale della relazione, si è detto, è l’empatia dell’operatore sanitario, un atteggiamento che il fisioterapista può sviluppare non solo attraverso il linguaggio verbale, ma anche a partire dal
tono del proprio corpo, in relazione al tono del corpo del paziente durante il trattamento. Si tratta di un livello comunicativo più primigenio rispetto a quello verbale, ma ugualmente intenso e fruttuoso, soprattutto nei casi in cui il linguaggio più evoluto sia definitivamente compromesso4.
Infine una notazione sul setting più appropriato da scegliere per la riabilitazione del paziente affetto
da deterioramento cognitivo: la palestra, come la conosciamo e come ancora molto spesso è organizzata
nelle strutture residenziali, non sempre si rivela il contesto più comprensibile per il paziente: sono necessari fantasia e spirito di adattamento del fisioterapista che deve ricercare contesti, strumenti e proposte di
esercizio a misura del proprio paziente.
Sulla base di quanto finora esposto possiamo dire che riabilitare una persona affetta da demenza è un
compito indubbiamente complesso, da vivere come una sfida per spiriti audaci alla ricerca di forti emozioni.
BIBLIOGRAFIA
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2
3
4
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MALATI DA GIOVANI: CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ DELLE PERSONE E
DELLE LORO MALATTIE. I DISTURBI DI PERSONALITÀ
Luigi Ferrannini
Direttore Dipartimento Salute Mentale – ASL 3 Genovese
Una giovane donna mi aveva chiesto di incontrarla per discutere la possibilità di intraprendere una psicoterapia per lei stessa.“Fortunatamente” dissi,“esistono nuove ed efficaci forme di terapia che possono aiutarla -specificamente orientate sul suo tipo di problema”.La risposta fu:“Oh, e di quale tipo di problema si
tratta?”Realizzando di aver deviato in un’area di potenziale pericolo d’entità ignota, tentai di schivarlo.“Il nome non è tanto importante quanto invece lo è il fatto che esistono alcune buone idee su come lavorarci.”
“Ma si tratta di una diagnosi?” insistette lei. “Mi sono sempre chiesta se queste difficoltà che continuo ad
avere hanno un nome.”“Vengono chiamati disturbo borderline” dissi spontaneamente,“ma il trattamento è
chiamato...” Il suo volto si gelò alla parola.“Oh, no,” disse,“so che cosa vuol dire borderline -esasperante, esigente-. Ricordo le feste a cui il mio ex-marito ed i suoi colleghi scherzavano sui loro pazienti borderline, su
come sono terribili ed impossibili. Se è questo ciò che lei pensa che io abbia, non c’è da stupirsi su come
non sia mai riuscita a cavare nulla dalla terapia”. Raccolse le sue cose e si preparò a lasciare lo studio”.
Questa citazione, presa integralmente dall’Introduzione di C.Christian Beels al libro di J.G.Gunderson e
P.D.Hoffman “ Disturbo di personalità Borderline -Una guida per professionisti e familiari”2, ci è parsa fortemente rappresentativa ed evocativa della realtà umana e clinica dell’incontro tra paziente con disturbo di
personalità borderline -che è diventato il caso paradigmatico nella complessa e non sempre chiara articolazione dei Disturbi di Asse II- e terapeuta: vissuti di paura, di disperazione e di stigma, da un lato, e difficoltà di
comunicare diagnosi e di dare informazioni e ragionevoli attese sulla efficacia delle cure, dall’altro.
Spesso anche gli operatori più capaci hanno difficoltà ad “entrare” nel vissuto del paziente, e per altre ragioni dei suoi famigliari, complesso e semplice al tempo stesso:“<Che sono disturbato>. Pensavo al significato di questa parola, a che cosa volesse dire veramente, come quando si disturba la quiete o la televisione è disturbata. O quando ci si sente disturbati da un libro o da un film o dalla foresta vergine che brucia o dalle calotte polari che si ritirano. O dalla guerra in Iraq. Era uno di quei momenti in cui ti sembra di non aver mai sentito una certa parola e non riesci a credere che abbia proprio quel significato e cominci a riflettere su come
ci si è arrivati. È come il ritocco di una campana, cristallino e puro, disturbato! disturbato! disturbato!, sentivo il suono vero della parola, così ho detto, come se me ne fossi appena accorto: <Sono disturbato!>”1.
Utilizzando quindi il Disturbo borderline di personalità come esempio clinico -in quanto molte delle considerazioni valgono anche per il cd Disturbo Antisociale di Personalità, che troviamo non infrequentemente negli anziani- ricordiamo che per molti anni la psicopatologia borderline ha trovato difficile collocazione nosografica, al limite fra l’area delle nevrosi e delle psicosi. Solo con la pubblicazione del DSM - III edizione e successive, la patologia borderline è stata inquadrata tra i Disturbi di Personalità.Tuttavia, il Disturbo Borderline di Personalità rimane una delle più complesse e controverse entità nosologiche nell’ambito della psichiatria, anche per la varietà sintomatologica che lo caratterizza. Sebbene rimanga controversa
l’ampiezza dei soggetti psichiatrici che devono essere classificati come borderline, vi è un accordo generale sul fatto che il 15-20% mediamente dei pazienti incontrati nella pratica clinica facciano parte di questa categoria. Gli studi indicano che il quadro clinico si manifesta durante l’adolescenza e che la maggior
parte dei soggetti con DBP presenta, in età adulta, una sintomatologia clinica costante. Si tratta inoltre di
un disturbo a sviluppo lifetime, che si ritrova quindi anche nell’area psicogeriatrica, sommando i tratti specifici di personalità alle evoluzioni prodotte dal tempo e dalla storia della persona, nonché dalla messa in
atto di meccanismi di difesa propri della vecchiaia.
In un recente studio del nostro gruppo (Di Napoli et al., 2009) abbiamo visto come l’esordio del disturbo è avvenuto in adolescenza: la maggior parte dei pazienti (oltre l’80%) per cui è stata richiesta una prima
valutazione psicologica aveva infatti un’età compresa tra gli 11 e i 15 anni e manifestava problemi comportamentali, ma anche che nel 20% dei casi la diagnosi è stata formulata sotto i 10 anni di età del giovanissimo paziente.
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L’analisi delle caratteristiche socio-ambientali è stata indirizzata su alcuni elementi distintivi che ricorrono nel determinismo della psicopatologia del Disturbo Borderline di Personalità quali la patologia familiare, le competenze ed i comportamenti di accadimento, l’integrità del nucleo, ma soprattutto l’atmosfera familiare, che è risultata spesso correlata con una grave compromissione della qualità delle relazioni primarie. L’atmosfera familiare risulta fredda, instabile e disturbante, ed i bisogni del figlio vengono gestiti
con scarsa capacità empatica da genitori immaturi e autocentranti. L’incapacità di prendersi cura dell’altro,
l’egocentrismo e l’irresponsabilità sono, infatti, aspetti che depongono a favore di quella trascuratezza emotiva, che contraddistingue l’ambiente familiare del paziente con Disturbo Borderline.
Da quanto emerso si può ipotizzare che possibili fattori predittivi per lo sviluppo del Disturbo Borderline in età adulta siano una rilevante disfunzionalità delle relazioni familiari e l’individuazione in età evolutiva di disarmonie emotivo-comportamentali: presenta inoltre un’alta multifattorialità degli elementi di rischio (condizione neuro-biologica predisponente per discontrollo degli impulsi e disfunzionamento cognitivo, alta familiarità, storia di maltrattamenti e di abusi di vario tipo. Prodotto quindi dell’intreccio tra fattori genetici (familiarità, vulnerabilità, deficit) e fattori traumatici precoci, rappresenta un paradigma delle
correlazioni tra mente e cervello, ipotizzando anche l’esistenza di endofenotipi psicologici, quali il fallimento della mentalizzazione e la sensibilità al rifiuto, come marker genetico.Tale fallimento si manifesta attraverso stabile instabilità, senso di vuoto, incapacità a controllare il tempo e ad interiorizzare le esperienze, stato di allarme ed attesa del trauma, con restrizione campo di attenzione (“c’è sempre una vespa nella stanza”, per usare la metafora di A.Correale), caducità e sradicamento. L’alta diffusione di questo disturbo fa anche pensare a fattori socio-culturali favorenti, come l’incremento della scissionalità (dissonanza
sociale, famiglie scismatiche, influsso dei media) e la diminuzione degli assetti coesivi e riparatori (declino dell’istituzioni consolidanti, scomparsa di figure educative sostitutive, anomia sociale), come strapotenza del mondo esterno su quello interno.
Questo quadro assume particolari caratteristiche nella terza età, dove per molteplici fattori assistiamo
ad un rinforzo dei tratti di personalità e comportamentali, ben descritto anche in altri campi delle relazioni e della creatività -arte, musica, letteratura, teatro- come “stile tardo”3.
A fronte quindi dell’incidenza dei disturbi di personalità nella popolazione generale ed in particolare
in alcune fasce di età (adolescenti e giovani adulti ed anziani) i servizi psicogeriatrici si trovano di fronte
a nuovi e complessi problemi: appropriatezza diagnostica e terapeutica, definizione di percorsi assistenziali integrati, trattamento nelle varie fasi della patologia, interventi riabilitativi e trattamenti in strutture residenziali. Ereditarietà, caratteristiche temperamentali e personologiche, eventi, ambiente, modalità di attaccamento e percezione delle risposte sociali rappresentano tutti elementi da considerare nella costruzione
di un programma terapeutico-assistenziale.
Altro fattore specifico che complica le possibilità d’intervento riguarda l’aspetto di comorbilità di disturbi di personalità con altre patologie in Asse I, talvolta misconosciute o “nascoste” dalle alterazioni comportamentali sintomatiche della malattia di fondo, come i Disturbi dello spettro dell’umore ed i quadri più
o meno conclamati di deficit cognitivo, dal MCI alle Demenze.
Si tratta quindi di cogliere gli elementi di continuità e discontinuità nella storia delle persone e delle
loro malattie -che spesso costituiscono come nel caso dei Disturbi di Personalità elemento strutturante di
entrambe-, collegandoli ai fattori cronologici e di contesto, in definitiva allo “stile tardo” di ciascuno, terapeuti compresi.
BIBLIOGRAFIA
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LA SOFFERENZA DEL PAZIENTE NELLE RESIDENZE
Melania Cappuccio
Fondazione I.P.S.“Card Gusmini” ONLUS Vertova (Bg)
“Date al dolore la parola: il dolore che non parla
sussurra al cuore affranto e gli dice di spezzarsi…”
Macbeth IV,3 W.Shakespeare
Il dolore è uno dei problemi più frequenti nella persona anziana, possiamo definirlo una delle principali malattie che si incontrano quotidianamente nelle RSA. Spesso sottostimato e sottovalutato rappresenta una condizione di disagio che si riflette negativamente sulla qualità della vita e sulla sopravvivenza. La
stima è che oltre il 25% dei pazienti istituzionalizzati abbia un dolore persistente che, secondo l’OMS, potrebbe essere alleviato con successo, L’International Association for the Study of Pain - IASP, ne ha fornito
una ben nota definizione, descrivendolo come “un’esperienza spiacevole, sensoriale ed emotiva, associata ad attuale o potenziale danno d’organo”.
La vecchiaia non aumenta la tolleranza al dolore né diminuisce la sensibilità al dolore: gli studi hanno
evidenziato che i circuiti del sistema nervoso coinvolti nei processi nocicettivi non si modificano con l’invecchiamento. L’intensità e la frequenza del dolore cronico sembrano aumentare con l’età. Nella persona
anziana il dolore, poco o inadeguatamente curato, è in grado di generare una serie di complicazioni che influiscono sulla qualità della vita.
In quest’ottica si comprende come sia fondamentale, nella persona anziana, la valutazione del sintomo dolore, definito giustamente il “quinto sintomo vitale”. Tuttavia in considerazione della complessità,
non solo della problematica dolore e della malattia che lo determina, ma soprattutto del paziente geriatrico e del contesto in cui vive, non si può prescindere da un’analisi profonda della sofferenza e da una valutazione multidimensionale geriatrica, unico strumento che tiene conto in modo globale del paziente e della sua disabilità.
Diversi studi epidemiologici hanno messo in evidenza che una percentuale tra il 25 ed il 50% delle
persone anziane non istituzionalizzate presenta una sintomatologia dolorosa; i dati relativi ai malati residenti in RSA mostrano una frequenza più elevata, il sintomo viene rilevato tra il 45 e l’80% delle persone ricoverate in relazione all’età, al tipo di popolazione studiata ed al setting. Tra le patologie più frequentemente segnalate vi sono le patologie osteoarticolari (in più dell’80%) seguite dalle neoplasie in fase avanzata (fino al 60%) e dalle neuropatie periferiche, in particolare la post-erpetica. Il dolore post-erpetico aumenta progressivamente con l’età arrivando fino al 40% nelle persone ultrasettantenni. Inoltre il numero di persone
anziane terminali ricoverate in RSA è andato sempre più aumentando in questi ultimi anni con notevoli ripercussioni di gestione terapeutica del dolore neoplastico, inteso come “dolore globale”, poiché coinvolge la componente somatica, psicologica e relazionale del paziente.
Il dato certo è che la sintomatologia dolorosa aumenta con l’età per una maggiore incidenza di patologie croniche che determinano dolore persistente come appunto le patologie muscolo-scheletriche
(crampi muscolari, malattia delle gambe senza riposo) e tra il 27-83% dei pazienti istituzionalizzati hanno
dolore con riduzione delle ADL.
Il dolore di origine muscolo-scheletrica (45-80 %) comprende il dolore osseo per osteoporosi con
microfratture vertebrali (fratture da fragilità), il dolore articolare e periarticolare, il miofasciale e neurogeno. Segue il dolore jatrogeno definendo come tale quello dovuto ad un corretto od inadeguato intervento diagnostico e/o di cura (post-chirurgico, manovre invasive-endoscopiche, biopsie, epidurale, radioterapia interventiva) farmaci che causano danno ad organi e tessuti (corticosteroidi, fans, chemioterapici),
mobilizzazione, medicazione lesioni da decubito ed ustioni.
Un campo di approfondimento è rappresentato dalla iatrogenesi passiva ovvero l’intervento medico mancato o inadeguato come appunto non fornire una efficace terapia analgesica.
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La percentuale di persone affette da demenza è elevata in RSA e molto più elevata rispetto al territorio, tra il 40 ed il 78%. Considerato che il sintomo riferito dai pazienti è spesso ancora il metodo più usato per misurare il dolore, diventa intuitivo come la difficoltà delle persone con decadimento cognitivo a riconoscere e riferire un’esperienza rischia di generare una valutazione superficiale e con sottostima del loro problema clinico. Inoltre accade frequentemente che in questi pazienti il dolore ed il disagio si manifesti in modo atipico, ad esempio con una esacerbazione dei disturbi comportamentali come l’agitazione, l’insonnia l’inappetenza. Il dolore e le malattie croniche sono ugualmente presenti nei pazienti affetti da demenza, anche se rimane un pensiero comune che la rilevazione del sintomo somatico e del dolore in particolare sia un atto terapeutico di secondo livello in pazienti così fragili. La fase avanzata della demenza presenta una crescente difficoltà fino all’impossibilità della capacità di comunicazione verbale; d’altra parte i
sintomi non cognitivi possono essere presenti fino al 50%, sono sintomi psicotici (allucinazioni e deliri), agitazione, aggressività verbale e fisica, alterazioni del ritmo sonno-veglia. La loro comparsa o variazione in frequenza e gravità possono rappresentare la manifestazione “ non verbale” di un disagio sottostante. Condizioni quali la febbre, il dolore articolare, viscerale (stipsi, ritenzione urinaria), cardiaco (angina pectoris, infarto miocardico), respiratorio, possono manifestarsi esclusivamente con disturbi del comportamento.
Esiste quindi una specificità del dolore nella demenza di elevata gravità: per il personale che ha
una limitata capacità d’identificazione del dolore che si manifesta con una variazione BPSD già presenti,
per la lunga durata del dolore prevalentemente persistente (contratture muscolari, osteo-articolare, piaghe da decubito), non vi è l’ effetto placebo e ciò comporta l’uso di dosaggi maggiori (soprattutto nelle
lesioni frontali).
Senza dubbio il malato in RSA demente o no, quando è affetto da dolore o da una patologia somatica,
comunica il proprio disagio in modo “ indiretto” con ad esempio la rapida perdita della funzionalità residua, con l’accentuazione dei disturbi del comportamento a volte con un delirium.
A tutto ciò bisogna aggiungere che l’invecchiamento è caratterizzato da modificazioni fisiologiche (diminuzione dell’acqua totale, del plasma e dell’acqua extracellulare, aumento della massa grassa) che esitano in un aumento dell’emivita dei farmaci liposolubili con importanti ripercussioni in ambito terapeutico
in soggetti con comorbilità.
Peraltro il dolore condiziona la comparsa di uno stato depressivo che a sua volta aumenta la sensazione dolorosa in un’interazione bidirezionale autoalimentante che incide drammaticamente sulle sensazioni dolorose e sulle ADL.
Nonostante sia stato ampiamente dimostrato che il dolore può essere alleviato farmacologicamente in
più del 90% dei casi, diverse ricerche della letteratura documentano come la terapia antalgica nella persona anziana istituzionalizzata sia ancora troppo spesso inadeguata.
Le cause del sottotrattamento del dolore in RSA possono essere giustificate anche da aspetti organizzativi, che per lo più dipendono da scarsa sensibilità clinico-culturale, inadeguata preparazione degli operatori come il personale infermieristico per assessment, scarsa attenzione ai bisogni del malato come conseguenza del lavoro routinario, minore ricorso alla terapia con gli oppioidi per eccessiva burocratizzazione da parte dei medici. Sicuramente incide anche la minore capacità di comunicazione del disagio somatico da parte del paziente.
Le conseguenze a lungo termine di una sottovalutazione e cura del dolore determinano, oltre alla notevole sofferenza anche se non espressa del paziente, maggiori costi sanitari a causa dei ripetuti accessi agli
ospedali, del prolungamento dei tempi di ricovero e della progressione della disabilità fino alla completa
non autosufficienza.
In conclusione è necessario che nelle RSA si modifichi e si arricchisca la cultura assistenziale con lo sviluppo di una sensibilità maggiore verso il dolore nell’anziano, attraverso la formazione del personale di
assistenza, la competenza geriatrica in senso algologico, l’introduzione di metodiche oggettive e validate
di scale di misurazione del dolore in ogni setting e per ultimo con l’applicazione di protocolli terapeutici
condivisi, efficaci e con ridotti e/o nulli effetti collaterali.
Questa opera culturale deve essere inserita in un contesto di valorizzazione della persona e in un approccio olistico.
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DOLORE DA ASCOLTARE O DA VEDERE: INTERPRETAZIONE SEMPRE
DIFFICILE NELL’ANZIANO ISTITUZIONALIZZATO
Ermellina Zanetti
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia e Società Italiana di Gerontologia e Geriatria, Firenze
Introduzione
Il dolore è una condizione comune fra le persone anziane, molte infatti sono le condizioni associate a
dolore persistente che aumentano con l’età1-3. Dal 25 al 50% degli anziani cognitivamente integri che vivono a casa prova dolore4-6 e tra coloro che sono ricoverati in casa di riposo la prevalenza di dolore è del
40-80%7-9.Tra questi soggetti una percentuale rilevante, compresa tra il 50 e il 60%, è affetta da decadimento cognitivo10,11, condizione in cui è documentato un maggior rischio di sottotrattamento del dolore, principalmente per la difficoltà di valutarne la presenza12,13. In particolare il dolore cronico, che non si associa a modificazioni fisiologiche, quali aumento della frequenza respiratoria e cardiaca, della pressione arteriosa, pallore e sudorazione profusa, che sono spesso indicatori di episodi di dolore acuto è a maggiore
rischio di essere sottostimato14.
Gli ospiti con deficit cognitivo hanno 1,5 probabilità in più di non ricevere un trattamento rispetto a
coloro che sono cognitivamente integri15,16. I soggetti con demenza sottoposti ad intervento chirurgico per
frattura di femore hanno ricevuto un terzo della quantità di analgesici oppioidi rispetto a coloro che non
avevano deficit cognitivo16,17.
La valutazione del dolore: presupposti
La semeiotica classica definisce il dolore come un sintomo, il più soggettivo tra i sintomi, il più influenzato e, quindi, “sporcato”, ingigantito o ridotto da infinite variabili psichiche, personali, culturali, sociali,
ambientali. La valutazione della presenza ed intensità del dolore e del suo impatto sul singolo paziente
rappresenta la premessa indispensabile al trattamento ed è fortemente raccomandata18,19.
La valutazione del dolore si basa su due attori principali: il paziente che riferisce ed il medico o l’infermiere che ascolta ed interviene. Tutto procede per il meglio quando colui che prova dolore è in grado di
comunicarlo a colui che deve curare, ha competenza sufficiente per raccogliere la richiesta di aiuto. Cosa
succede quando uno dei due soggetti si indebolisce? In particolare, quando il paziente non è in grado di
ricordare un’esperienza, o di riferirla, o di concettualizzarla? Come si valuta la presenza e l’entità del dolore nel paziente affetto da demenza? Nel paziente che non ha memoria il più soggettivo dei sintomi torna
ad essere un segno, inducendo medici, infermieri ed operatori ad individuare e cogliere i segni, che rappresentano l’unico elemento di comunicazione del dolore nel paziente anziano affetto da demenza.
In letteratura sono state proposte scale di valutazione finalizzate alla valutazione della presenza ed
intensità del dolore nei soggetti affetti da decadimento cognitivo che dovrebbero essere comprese tra gli
strumenti a disposizione per la valutazione dei pazienti18-23.
La gravità della compromissione cognitiva è determinante per la scelta della strategia e degli strumenti
di valutazione. Nella Tabella 1 è proposto uno degli strumenti di stadiazione della demenza maggiormente
utilizzati in ambito sia clinico sia di ricerca, la Clinical Dementia Rating Scale (CDR), che permette di
stadiare la gravità della demenza in base alla compromissione cognitiva (mnesica soprattutto) e
funzionale24,25. È stata dimostrata una buona correlazione fra il grado di CDR ed il punteggio di test
neurospicologici quali il Mini Mental State Examination, almeno nei soggetti con CDR 1-2-326.
La valutazione del dolore nei soggetti con decadimento cognitivo lieve-moderato
È documentato che molti soggetti con decadimento cognitivo leggero-moderato (CDR 1-2) mantengono
l’abilità a riferire il dolore ed è quindi corretto dare loro la possibilità di riferirlo: il gold standard per la valutazione del dolore, in questi soggetti, è “il riferito” del paziente27. È importante considerare l’abilità della
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Tabella 1. La Clinical Dementia rating Scale (CDR) estesa.
NORMALE
DEMENZA
DUBBIA
DEMENZA
LIEVE
DEMENZA
MODERATA
DEMENZA
GRAVE
CDR 0
CDR 0.5
CDR 1
CDR 2
CDR 3
Memoria
Memoria
adeguata o
smemoratezza
occasionale
Lieve
smemoratezza
permanente;
parziale
rievocazione di
eventi
Perdita memoria
modesta per
eventi recenti;
interferenza
attività quotidiane
Perdita memoria
severa: materiale
nuovo perso
rapidamente
Perdita memoria
grave; rimangono
alcuni frammenti
Orientamento
Perfettamente
orientato
Perfettamente
orientato
Alcune difficoltà
nel tempo;
possibile
disorientamento
topografico
Usualmente
disorientamento
temporale, spesso
spaziale
Orientamento
solo personale
Giudizio
soluzione
problemi
Risolve bene i
problemi
giornalieri;
giudizio adeguato
rispetto al passato
Dubbia
compromissione
nella soluzione di
problemi,
analogie,
differenze
Difficoltà
moderata;
esecuzione di
problemi
complessi;
giudizio sociale
adeguato
Difficoltà severa
esecuzione di
problemi
complessi;
giudizio sociale
compromesso
Incapace di dare
giudizi o di
risolvere
problemi
Attività sociali
Attività
indipendente e
livelli usuali ne
lavoro, acquisti,
pratiche
burocratiche
Solo dubbia
compromissione
nelle attività
descritte
Incapace di
compiere
indipendentemente le attività,
ad esclusione di
attività facili
Nessuna pretesa
di attività
indipendente
fuori casa. In
grado di essere
portato fuori casa
Nessuna pretesa
di attività
indipendente
fuori casa. Non in
grado di uscire
Casa e hobbies
Vita domestica e
interessi
intellettuali
conservati
Vita domestica e
interessi
intellettuali
lievemente
compromessi
Lieve ma sensibile
compromissione
della vita
domestica;
abbandono
hobbies ed
interessi
Interessi ridotti,
non sostenuti, vita
domestica ridotta
a funzioni
semplici
Nessuna
funzionalità fuori
dalla propria
camera
Cura personale
Interamente
capace di curarsi
della propria
persona
Richiede
facilitazione
Richiede aiuto
per vestirsi,
igiene,
utilizzazione
effetti personali
Richiede molta
assistenza per
cura personale;
non incontinenza
urinaria
Richiede molta
assistenza per
cura personale;
incontinenza
urinaria
CDR 4: DEMENZA MOLTO GRAVE
Il paziente presenta severo deficit del linguaggio o della comprensione, problemi nel riconoscere i familiari, incapacità a
deambulare in modo autonomo, problemi ad alimentarsi da solo, nel controllare la funzione intestinale o vescicale.
CDR 5: DEMENZA TERMINALE
Il paziente richiede assistenza totale perché completamente incapace di comunicare, in stato vegetativo, allettato, incontinente.
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persona a rispondere a domande semplici e dirette: se l’abilità è conservata vale la pena di tentare un approccio verbale28 rivolgendo al soggetto semplici domande che indaghino i seguenti aspetti29:
• localizzazione del dolore;
• severità/intensità del dolore;
• che cosa aggrava il dolore;
• che cosa allevia il dolore.
La valutazione può essere integrata dall’utilizzo di strumenti di valutazione di self-report (Tabella 2)
che misurano ciò che il soggetto riferisce (con particolare riferimento all’intensità) e consentono sia il
monitoraggio nel tempo, sia la valutazione dell’efficacia degli interventi terapeutici ed assistenziali. La somministrazione di questi strumenti nel soggetto con decadimento cognitivo lieve-moderato e limitazione
dell’attenzione, richiede l’osservanza di alcune regole27:
1. evitare eccessive stimolazioni prima di cominciare la valutazione
2. eliminare i possibili disturbi ambientali
3. assicurare una buona illuminazione
4. disponibilità di grossi pennarelli e/o immagini
5. ripetere le istruzioni
6. utilizzare termini semplici
7. lasciare un adeguato tempo per rispondere
8. se necessario ripetere le domande utilizzando le stesse parole.
Tabella 2. Soggetti con decadimento cognitivo lieve moderato: strumenti di valutazione del dolore
VERBAL RATING SCALES
Verbal Descriptor Scale: Elenco predefinito di termini che descrivono diversi livelli di dolore, di solito sono incluse: nessun dolore, lieve, moderato o grave dolore.Viene richiesto al soggetto di scegliere quale tra i termini proposti (solitamente
da 4 a 6) è quello che più si avvicina alla sua esperienza di dolore
Gracely, McGrath e Dubner R, 1978 44
Verbal Rating Scale (VRS): Elenco predefinito di 5 aggettivi che indicano intensità diverse di dolore (es.: angoscioso)
Gracely, McGrath e Dubner R, 1978 44
VISUAL RATING SCALES
Scala delle espressioni facciali: una serie di disegni (solitamente 8) raffiguranti diverse espressioni facciali, che rappresentano le variazioni di gravità del dolore. Viene richiesto al soggetto di scegliere quale tra le espressioni facciali riportate
su un unico foglio più esprime la sensazione dolorosa provata
LeResche, 1982 45
McGill Pain Questionnaire (Short_Form): Viene richiesto al soggetto di indicare dove prova dolore mostrandogli la
sagoma disegnata del corpo umano e quindi di selezionare, da un elenco, le parole che descrivono il dolore.
Melzak, 1975 46
NUMERICAL RATING SCALES
Verbal Numerical Scale (VNS): “Se zero significa nessun dolore e 10 indica il peggiore dolore possibile, qual è il dolore
che prova ora?”
Gracely e Dubner, 1987 47
Visual Analogue Scale (VAS): è generalmente rappresentata con una linea orizzontale o verticale di 10 centimetri con o
senza tacche in corrispondenza di ciascun centimetro: un’estremità indica l’assenza di dolore, mentre l’altra rappresenta il
peggiore dolore immaginabile. Al soggetto viene chiesto di rappresentare con una linea il dolore provato, tenendo presente che l’estremità sinistra rappresenta l’assenza di dolore e l’estremità destra il massimo dolore provato.
Scott e Huskisson, 1976 48
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La valutazione del dolore nei soggetti con decadimento cognitivo grave
Nei pazienti con decadimento cognitivo più grave (CDR 3-4), per i quali gli strumenti di valutazione di
self-report sono scarsamente applicabili30, la valutazione della presenza e delle possibili cause di dolore è
affidata all’osservazione degli operatori: spesso un’agitazione improvvisa od un comportamento insolito possono rappresentare la modalità con cui il paziente cerca di comunicare la propria sofferenza. Rimane estremamente difficile in questi pazienti misurare l’intensità del dolore.
L’osservazione del paziente secondo le indicazioni dell’American Geriatric Society (AGS) dovrebbe focalizzarsi sulle seguenti sei categorie di indicatori comportamentali31,32:
1. espressioni facciali che esprimono disagio, sofferenza, paura;
2. verbalizzazione, in particolare lamento, pianto, urlo;
3. movimenti corporei finalizzati all’assunzione di posizioni antalgiche o alla protezione di parti del corpo;
4. modificazioni delle relazioni interpersonali
5. modificazioni nelle abituali attività
6. modificazioni dello stato mentale.
Nei soggetti affetti da demenza rivestono particolare importanza le modificazioni delle relazioni
interpersonali, delle abituali attività e dello stato mentale che si verificano nel breve periodo (ore o qualche
giorno) che potrebbero essere indotte dalla presenza di dolore.
Gli indicatori comportamentali proposti dall’AGS costituiscono la base di molti strumenti di valutazione
del dolore definiti “osservazionali” svilupppati allo scopo di identificare la presenza di dolore e stimarne,
seppure indirettamente, la gravità e l’intensità.
Zwakhalen19 nella sua revisione analizza la letteratura dal 1988 al 2005 confrontando 12 scale osservazionali valutate attraverso una serie di qualità psicometriche e criteri riguardanti la sensibilità e l’utilità clinica: tipo di variabile e punteggio, origine delle variabili, numero di soggetti valutati per la validazione, validità, omogeneità, affidabilità, applicabilità. La Doloplus233, la Echelle Comportementale pour Personne
Agées (ECPA)34, la Pain Assessment Checklist for Seniors with Limited Ability to Comunicate (PACSLAC)35
e la Pain Assessment IN Advaced Dementia (PAINAD)36 sono gli strumenti che meglio rispondono alle qualità ed ai criteri considerati. Nella revisione di Herr14 le scale di valutazione con maggiori qualità psicometriche sono la DiScomfort in Dementia of the Alzheimer’s Tipe (DS-DAT)37 e la Non comunicatove Patient’s Pain Assessment Instrument (NOPPAIN) 38 entrambe illustrate nella Tabella 3.
Confrontando i risultati delle due revisioni14,19 lo strumento più appropriato nella valutazione del dolore nei soggetti con decadimento cognitivo severo risulta essere la Doloplus2.
La Doloplus2 deriva da una scala di valutazione del dolore utilizzata nei bambini ed è composta da 10
item suddivisi in 3 aree che rispettivamente indagano:
1. reazioni somatiche: lamento, protezione di parti del corpo, adozione di posture antalgiche, espressioni di dolore, disturbi del sonno;
2. reazioni psicomotorie: comportamento del soggetto durante l’igiene e mentre indossa o toglie gli indumenti, ridotta mobilità;
3. reazioni psicosociali: inusuale richiesta di attenzione o rifiuto di comunicare, ridotta socializzazione
e partecipazione ad attività, anomala reattività a stimoli esterni.
I punteggi attribuiti ad ogni item possono variare da 0 (assenza del comportameno che esprime dolore) a 3 (massima espressione del comportamento che può associarsi a dolore) e la loro somma varia in un
range da 0 a 30.
Un punteggio totale uguale o maggiore di 5, indica la presenza di dolore.
Entrambi gli studi considerano Doloplus2 la scala che, pur presentando il rischio di falsi positivi, è stata maggiormente sperimentata sul campo. La versione francese è stata testata su diverse popolazioni di
anziani con demenza ricoverati in casa di riposo, centri di riabilitazione e hospice in Francia e Svizzera14.
I campioni di questi studi erano tutti compresi tra i 100 e i 500 partecipanti e l’età media era di 80 anni.
Lefebvre-Chapiro33 e Wary39 hanno inoltre compiuto studi che dimostrano la validità e l’affidabilità
test-retest, di intervalutazione e di consistenza interna della scala.
A sostegno della sua applicabilità, viene sottolineato anche il fatto che le istruzioni per l’assegnazione
del punteggio sono chiaramente descritte per ogni item.
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Tabella 3. Strumenti di valutazione osservazionali per la valutazione del dolore nei soggetti con grave deficit cognitivo
Strumento
Doloplus2
Echelle
Comportementale
pour Personne
Agées (ECPA)
Pain Assessment
Checklist for
Seniors with
Limited Ability to
Comunicate
(PACSLAC)
Obiettivo
Misurare la
presenza e la
gravità del dolore
Misurare la
presenza di
comportamenti
riferibili a
sintomatologia
dolorosa
abitualmente e
durante un
intervento
assistenziale
Misurare la
presenza di
comportamenti
riferibili a
sintomatologia
dolorosa
Descrizione
Punteggio
Istruzioni per
la compilazione
10 item suddivisi in 3 aree che
rispettivamente indagano:
1. reazioni somatiche: lamento,
protezione di parti del corpo,
adozione di posture antalgiche,
espressioni di dolore, disturbi del
sonno;
2. reazioni psicomotorie:
comportamento del soggetto
durante l’igiene e mentre indossa
o toglie gli indumenti, ridotta
mobilità;
3. reazioni psicosociali: inusuale
richiesta di attenzione o rifiuto di
comunicare, ridotta socializzazione
e partecipazione ad attività,
anomala reattività a stimoli esterni
0-30
Per ogni item sono
descritti quattro
possibili indicatori. 1
che esclude la presenza
del dolore (punteggio
0) e 3 che confermano
la presenza e la gravità
del dolore (punteggio
da 1 a 3)
Un punteggio totale
uguale o maggiore di 5,
indica la presenza di
dolore
Opportuna la
compilazione multi
professionale
Ripetere la valutazione
2 volte al giorno
Registrare il punteggio
ottenuto ad ogni
valutazione
Omettere gli item non
appropriati
Lo strumento si compone di due parti:
1. osservazione di 4
comportamenti abituali
riferibili a sintomatologia dolorosa
(espressioni del viso, posizioni
spontanee del corpo, mobilità,
interazioni con altri);
2. osservazione di 4
comportamenti riferibili a
sintomatologia dolorosa
durante l’assistenza (ansia, reazioni
alla mobilizzazione, reazioni in
riposta a manipolazione di parti
del corpo, lamentele espresse
durante la cura.
Per ciascun comportamento sono
descritte 5 possibili espressioni di
progressiva gravità cui è attribuito un
punteggio da 0 a 5: (da 0=assenza del
comportamento; a 5= massima
intensità nell’espressione del
comportamento)
0-32
Non è individuato un
cut off e non è descritto
come interpretare il
punteggio
Checklist composta da 4 sottoscale
per complessivi 60 item
1. Espressioni facciali (13 item)
2. Movimenti del corpo-attività
(20 item)
3. Socialità-personalità-umore
(12 item)
4. Indicatori fisiologici-cambiamenti
nel comportamento alimentare,
riposo e sonno- vocalizzazioni
(15 item)
0-60
Ogni item prevede una
risposta dicotomica:
presente = 1 punto
assente = 0 punti
Non è individuato un
cut off e non è descritto
come interpretare il
punteggio
Gli autori
raccomandano un
approccio individuale
per definire un
punteggio alla baseline
PASLAC deve essere
somministrata più
volte per rilevare
eventuali cambiamenti,
anche conseguenti ai
trattamenti e agli
interventi implementati
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Pain Assessment IN
Advaced Dementia
(PAINAD)
DiScomfort in
Dementia of the
Alzheimer’s Tipe
(DS-DAT)
Non comunicatove
Patient’s Pain
Assessment
Instrument
(NOPPAIN)
PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
Valuta la presenza di 5 comportamenti.
1. Respirazione
2. Vocalizzazioni negative
3. Espressioni facciali
4. Linguaggio del corpo
5. Consolabilità
Ogni comportamento
è descritto da 3 item
secondo una scala di
gravità crescente cui
corrisponde un
punteggio da 0 a 2:
0 = assenza del
comportamento che
esprime dolore,
1 = presenza
occasionale o di entità
moderata del
comportamento che
esprime dolore
2 = continua o grave
manifestazione del
comportamento che
esprime dolore.
Ogni comportamento
e ciascun item che lo
descrive sono
ampiamente spieganti
nella legenda.
Valuta 9 comportamenti ritenuti
espressione di discomfort:
1. respiro rumoroso
2. vocalizzazioni negative
3. espressione serena del viso
4. espressione del viso triste
5. espressione del viso spaventata
6. espressione corrucciata
7. corpo rilassato
8. corpo teso
9. irrequietezza
Ad ogni
comportamento se
assente viene assegnato
punteggio 0, se presente
viene valutato per
• Frequenza (durante 5
minuti di osservazione)
1 punto per ogni episodio
• Intensità
Bassa (appena
percepibile) = 0
Alta (da moderata
a forte) =1
• Durata
Inferiore a 1 minuto = 0
Maggiore di 1 minuto = 1
Punteggi totale 0-27:
a punteggio maggiore
corrisponde maggiore
discomfort.
È necessario attendere
15 minuti prima di
iniziare ad osservare
un possibile evento di
discomfort
(es mobilizzazione).
L’osservazione deve
essere protratta per 5
minuti a riposo.
Richiede una
formazione specifica
prima di essere
utilizzato.
Si compone di 4 sezioni che
rispettivamente valutano:
1. Presenza di comportamenti che
esprimono dolore durante
interventi assistenziali (bagno,
trasferimenti, vestizione).
2. 6 indicatori (parole che esprimono
dolore, espressioni del viso, suoni
onomatopeici o lamenti,
massaggiare o proteggere parti del
corpo, irrequietezza, resistenzarifiuto). Per ciascun indicatore è
richiesto al compilatore di stimare
da 0 a 6 l’intensità della
manifestazione dolorosa
3. possibili aree doloranti: viene
chiesto al compilatore di indicare
sul disegno della sagoma di un
corpo le possibili aree doloranti
4. intensità del dolore: viene chiesto
al compilatore di indicare su un
termometro l’intensità del più
elevato livello di dolore rilevato
durante l’assistenza.
Non è definita
l’interpretazione del
punteggio totale.
Il compilatore deve
effettuare almeno 5
minuti di assistenza
quotidiana all’ospite
osservando i
comportamenti che
suggeriscono dolore.
La compilazione è
affidata a chi fornisce
assistenza.
Valuta la presenza di
dolore sia a riposo sia
durante le attività.
Misurare
presenza e gravità
del dolore
Misurare la
frequenza,
l’intensità e la
durata del
discomfort
Misurare la
presenza e
l’intensità del
dolore
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Per quanto riguarda l’appropriatezza, Zwakhalen19 nella sua revisione sostiene che l’utilizzo della scala richieda una buona conoscenza del paziente: ciò la rende più adatta in contesti residenziali e di lungadegenza. Inoltre la Doloplus2 non descrive il singolo episodio doloroso in uno specifico momento, ma riflette il decorso del dolore in un periodo prolungato.
Altri punti di forza sono una buona sensibilità (minimo numero di falsi negativi) ed il fatto che la scala sia accompagnata da istruzioni per l’uso, per evitare difficoltà di interpretazione di certi item, in particolare quelli riguardanti le reazioni psicosociali 19.
Herr14, infine, osserva che la scala copre le 6 categorie di “comportamenti dolorosi” previsti dalle linee
guida dell’American Geriatrics Society31,32.
Non esiste una forma validata in italiano e questo resta un limite importante alla sua applicazione nelle nostre realtà assistenziali.
La Pain Assessment IN Advaced Dementia (PAINAD), che ha trovato anch’essa ampia considerazione nella revisione di Zwakhalen, sebbene necessiti di validazione in un campione più ampio, è disponibile in lingua italiana (in attesa della registrazione della traduzione)40.
La PAINAD è composta da 5 item:
1. respiro (indipendente dalla vocalizzazione)
2. vocalizzazione negativa (lamento, grido, pianto)
3. espressione facciale
4. linguaggio del corpo
5. consolabilità (reazione del soggetto all’intervento dell’operatore o del caregiver finalizzato a distrarre o fornire rassicurazione con le parole ed il tocco).
Ogni item è valutato con una scala di gravità dove 0 corrisponde all’assenza di comportamento che
esprime dolore, 1 alla presenza occasionale o di entità moderata del comportamento che esprime dolore,
2 alla continua o grave manifestazione del comportamento che esprime dolore. Il range della scala va da
0 a 10 (sulla base di una scala da 0 a 2 per cinque comportamenti); a punteggio maggiore corrisponde più
grave dolore: da 0 (assenza di comportamenti che esprimono dolore) a 10 (presenza continua di comportamenti che esprimono dolore).
Uno dei limiti più importanti degli strumenti di valutazione osservazionale risiede nella misurazione indiretta dell’intensità del dolore: in assenza di autovalutazione la stima dell’intensità del dolore è ottenuta
attraverso la rilevazione della gravità o frequenza del comportamento, assumendo per vero che quel comportamento sia espressione di dolore e non manifestazione del deficit cognitivo associato alla gravità della demenza. Lo stesso problema è stato affrontato dai neonatologi, i cui studi li hanno indotti a considerare negli strumenti di valutazione l’età gestazionale: l’intensità della risposta comportamentale (pianto, agitazione) al dolore è, infatti maggiore nei neonati più maturi rispetto ai più giovani.Analogamente nei soggetti affetti da demenza la gravità della malattia può modificare, attenuandola o esacerbandola, la manifestazione del comportamento che esprime la sensazione dolorosa provata dal soggetto: ulteriori ricerche sono necessarie, ma ciò suggerisce l’importanza di tener conto di questo possibile aspetto quando si utilizza uno strumento di valutazione osservazionale41. È pertanto fondamentale la conoscenza del paziente, o
le informazioni fornite dai caregiver, per discriminare un disturbo del comportamento abitualmente manifestato dal paziente da un disturbo con il quale il paziente comunica la presenza di dolore.Ad esempio un
episodio di agitazione psicomotoria può essere abituale espressione del deficit cognitivo o, se compare in
un soggetto solitamente tranquillo, una possibile modalità di risposta ad uno stimolo doloroso.
Per contro le limitazioni funzionali (causate dalla malattia e da altre condizioni cliniche concomitanti)
possono impedire alcune espressioni comportamentali del dolore. Per esempio, sebbene ci sia la presenza di dolore lancinante, strofinare o proteggere una parte del corpo (comportamento ritenuto quale possibile espressione di dolore dalle due scale descritte) potrebbe non essere possibile per la presenza di contratture o immobilità41.
L’applicazione corretta degli strumenti di valutazione osservazionali richiede una formazione specifica, che comprenda anche esercitazioni pratiche. Studi documentano che operatori formati riportano punteggi più alti e verosimilmente più vicini al livello di dolore sperimentato dai loro pazienti rispetto ad operatori non formati 42,43.
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METODOLOGIE DELLE CURE ANTALGICHE IN RSA
Simone Franzoni
U.O. Medicina Istituto Clinico S.Anna e Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
La letteratura geriatrica propone diverse linee guida e consensus per la cura del dolore persistente nel
paziente anziano che di fatto sono poco diffuse, poco applicate e poco efficaci, nonostante forniscano numerosi consigli pratici che vanno dall’identificazione del dolore fino alla gestione degli effetti collaterali degli analgesici. Le informazioni riportate esprimono la diversità e specificità del metodo di cura del dolore
negli anziani rispetto ai giovani-adulti, partendo dai principi dell’algologia classica. La rilevazione incostante del dolore e l’insufficiente uso di analgesici nei vari setting geriatrici, presente in tutto il mondo, confermano la mancata applicazione delle linee guida e la loro lontananza dal “real world”.
Data la situazione, si propongono alcune riflessioni in merito a possibili adattamenti per rendere le
metodologie di cura del dolore persistente più applicabili e fruibili nei luoghi di cura degli anziani, in particolare nelle RSA.
Se un medico-geriatra applica i dettami dell’algologia classica incontra delle difficoltà perché le procedure diagnostiche fanno capo fondamentalmente al report percettivo del paziente. Qualsiasi criterio e strumento di valutazione algologico si basa su specifiche caratteristiche del dolore riferito (fra gli oltre 140 modi differenti per descrivere il dolore nella lingua italiana) che richiedono una descrizione analitica, estesa
al passato ed attendibile. Il geriatra raramente si trova di fronte un paziente anziano capace di rispondere
perfettamente ai questionari sul dolore sia per problemi mnesici che per interferenze timiche; inoltre, gli
indicatori indiretti di gravità del dolore, come la disabilità motoria, l’insonnia, l’iporessia spesso hanno potenziali altre origini. Pertanto la misurazione del dolore con la Numeric Rating Scale (NRS, identificata come la scala più adatta per misurare il dolore nei pazienti anziani competenti) richiede un’interpretazione
da parte dell’operatore. Il riferito del paziente competente (MMSE >12/30) rimane sempre il gold standard della cura antalgica, ma la relazione dolore percepito – dolore riferito non può essere considerata lineare; in geriatria il report del paziente, escluso le difficoltà di comprensione della scala che richiedono alcuni giorni di warm-up, esprime un’intensità del dolore che deve essere sempre supportata dall’esame
obiettivo e dall’osservazione del comportamento. Non si somministra un oppioide ad un paziente anziano
che riferisce un NRS 8-10 al ginocchio e cammina tranquillamente per il corridoio, senza claudicatio. È lecito pensare che sia corretto un comportamento terapeutico antalgico difforme dall’intensità riferita dal
paziente, quando il team di cura è convinto del significato aggiunto nascosto nel report del dolore.
Le linee guida auspicano una valutazione quotidiana del dolore in ogni setting geriatrico per ovviare al
fatto che a volte l’anziano, anche se in grado di comunicare, non riferisce il dolore. Si tratta di un approccio che mal si concilia con la tipologia del dolore nell’anziano che pur essendo sostenuto da cause persistenti ha comunque un andamento a poussez e pertanto richiede una modulazione dell’attenzione e quindi della registrazione in base all’andamento clinico. Se si fa riferimento ad un setting residenziale l’ipotesi
di chiedere ogni giorno a tutti i pazienti se hanno dolore è uno spreco di energia, comporta una percezione di lavoro inutile da parte degli operatori (non accettata dagli stessi, già sottoposti a ritmi di lavoro frenetici) ed il rischio di misurare altri sintomi, soprattutto quelli ansioso-depressivi. In RSA sembra più adatta la valutazione del dolore persistente come la ripetizione nel tempo di un evento acuto, cioè con un inizio (riscontro della presenza di dolore) ed una fine (riduzione del dolore con la terapia antalgica). La valutazione andrebbe effettuata solo se il dolore viene riferito spontaneamente dal paziente, oppure se si osserva una variazione del comportamento/espressione fisica, compatibile con la presenza di dolore. La registrazione del dolore dovrebbe proseguire fino a quando si è ottenuta una riduzione del dolore o dei suoi
segni indiretti del 50%, o, in termini più geriatrici, ha ripreso le precedenti abitudini comportamentali.
Se il paziente non è in grado di riferire il dolore (MMSE <11), oppure se il paziente è afasico o non affidabile per disturbi psico-comportamentali (secondo quanto stabilito dal medico) si fa ricorso alle scale
comportamentali (NOPPAIN, PAINAD e DOLOPLUS-2 hanno il miglio rapporto sensibilità/ specificità fra le
19 disponibili in letteratura ad oggi). Il punteggio della scala dovrebbe essere il risultato del confronto fra
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gli operatori dediti all’assistenza di ogni turno. Per eliminare le differenze di interpretazione all’interno
del team è necessaria un’adeguata formazione che oltre alla parte teorica è sempre più basata sull’uso dei
videotape. La valutazione andrebbe effettuata ogni volta che si registrano equivalenti di dolore e portata
avanti fino a quando si sono ridotti i disturbi comportamentali e le relative espressioni fisiche (come un
evento acuto) o si è chiarita un’altra origine della sintomatologia. La scala, qualsiasi sia, non rappresenta il
solo strumento di valutazione del dolore perché è richiesta da parte del medico una diagnosi, o quantomeno un’ipotesi diagnostica, a cui consegue una specifica terapia. La scelta dei farmaci analgesici è fortemente condizionata non solo dall’intensità e tipo di dolore, ma anche della comorbilità (insufficienza renale, epatica e respiratoria) e uso di sedativi (neurolettici, benzodiazepine).
Nell’insieme questi limiti rendono complesso e poco efficace lo sforzo dei singoli operatori nella cura del dolore, come dimostrano i molti insuccessi, indipendenti da fattori geografici o culturali. Una possibile soluzione è rappresentata dal superamento dello scollamento fra la rilevazione (infermieri e personale di assistenza) e la cura antalgica (medico). La tendenza a non verificare l’efficacia della terapia analgesica nel tempo (prescrizioni di analgesici che si prolungano sempre uguali per settimane o mesi) ne è testimonianza. In tal senso si può ipotizzare un’unica scheda clinica, dove sono riportate tutte le fasi del processo di cura: dalla gravità del sintomo iniziale alla gravità del sintomo finale. Si tratta di una scheda di rilevazione (vedi allegato) che contemporaneamente riporta la sede, la misurazione del dolore, il suo cambiamento giornaliero (secondo i turni), la cura antalgica utilizzata, la rescue-dose, gli eventuali effetti collaterali degli antidolorifici e la variazione dell’uso di sedativi. La scheda viene compilata sia dal medico
(parte diagnostica e farmacologica) che dal personale infermieristico (parte clinico-comportamentale), ha
un andamento settimanale e consente una valutazione grafica dell’andamento del dolore. È previsto uno
spazio per eventuali note inerenti all’interpretazione dei punteggi delle scale.
Nel caso di dolore riferito l’intensità del dolore e le sue complicazioni sono la guida per la scelta della terapia antalgica (non è necessario percorrere progressivamente gli step della scala del dolore OMS),
mentre per il dolore non detto (osservato) il parametro guida non può essere l’intensità perché non è dimostrata una correlazione fra punteggio alla scala osservazionale ed entità della nocicezione. In questo caso se si sospetta la presenza di dolore, fatta l’ipotesi diagnostica, è necessario un “analgesic trial”, ovvero un
protocollo terapeutico a step che partendo da un basso livello analgesico arrivi fino ad un livello massimo,
teoricamente sufficiente per un’analgesia nelle situazioni di dolore estremo. In tal modo è possibile portare al massimo la probabilità che la mancata remissione dei disturbi comportamentali non sia dovuta ad
una insufficiente terapia antalgica, bensì a cause differenti (ad es. demenza). Nel caso di dolore non riferito viene adottata, pertanto, l’interpretazione originale della scala OMS (I, II, III, IV step), partendo dal protocollo per il dolore lieve, poi moderato, fino al dolore severo. La riduzione dei disturbi comportamentali
è la dimostrazione dell’efficacia della terapia antalgica ed a quel punto si ferma la progressione nella scala analgesica dell’OMS.Trattandosi di variazioni di comportamento la decisione di passare da uno step a quello successivo o di interrompere la terapia richiede tempi lunghi che in prima ipotesi si possono stabilire
in circa 1 settimana. È necessario un protocollo terapeutico prestabilito e concepito come una guide-path
con i vari warning per gli effetti collaterali dei farmaci antidolorifici che sono la causa principale della sospensione della terapia. Nei pazienti in RSA gli effetti collaterali degli oppioidi più significativi sono la sedazione, il delirium, l’instabilità posturale/ cadute e la stipsi. La sedazione può essere evitata o limitata iniziando con bassi dosaggi e dimezzando i neurolettici/benzodiazepine in corso. Il delirium si verifica soprattutto all’inizio della terapia e si controlla con bassi dosaggi di aloperidolo e/o con shift verso un altro oppioide. Le cadute, anch’esse prevalenti nei primi giorni, si prevengono con l’assistenza diretta del paziente (evitare di aumentare i mezzi di contenzione). La stipsi è molto frequente e tende a permanere; in genere si controlla con macrogol ed occasionalmente lassativi. Nel protocollo terapeutico gli oppioidi transdermici dovrebbero essere limitati ai pazienti disfaici, in quanto si tratta di una titolazione. Una volta trovato
il dosaggio ottimale dell’analgesico si può passare al transdermico (buprenorfina e fentanil), secondo i criteri di equianalgesia. Nel caso del dolore non riferito non è possibile eseguire la diagnosi di dolore neuropatico secondo le attuali linee guida, in quanto basate su specifiche caratteristiche della sintomatologia. Se
in base alla storia clinica ed all’esame obiettivo il medico ha il sospetto che sia presente una componente
neuropatica può applicare lo specifico schema terapeutico.
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Un altro adattamento delle attuali linee guida della cura del dolore persistente nell’anziano riguarda la
formalizzazione del ruolo del caregiver nella raccolta della storia clinica e nella valutazione dell’efficacia
della terapia.A domicilio, ma anche nelle RSA il patrimonio anamnestico dei parenti è di grande utilità per
interpretare il dolore in quanto fornisce informazioni molto utili sulla soglia del dolore, le sedi più colpite, i farmaci più efficaci, gli effetti collaterali più limitanti. Inoltre, esistono esperienze di collaborazione fra
parenti ed operatori sanitari nel monitoraggio dell’efficacia della cura antalgica. Le modalità di coinvolgimento del caregiver nella cura del dolore risentono della sua relazione con il team di cura e l’istituzione
e dovrebbero essere normate in modo tale che il suo contributo rappresenti un plus delle procedure in atto e non percepito come un sistema di controllo esterno.
Per ultimo, è auspicabile anche una revisione del ruolo delle amministrazioni delle RSA per contribuire
al miglioramento della cura del dolore. Se si considera il dolore persistente come un sintomo è lecito pensare che si possa controllare, anche se non si è in grado di curare la malattia sottostante. Come si controlla la glicemia non risolvendo le alterazione della secrezione/azione dell’insulina, altrettanto si può ipotizzare per il
dolore e l’artrosi che lo genera. Questa considerazione consente di definire il dolore come un outcome possibile da raggiungere anche in situazioni cliniche di cronicità. Si potrebbe quindi identificare il controllo del
dolore dei pazienti istituzionalizzati come un obiettivo, al pari della riduzione della contenzione fisica, delle
piaghe da decubito e delle cadute. La condivisione da parte del team sanitario con la direzione amministrativa delle RSA di questo “nuovo outcome” è potenzialmente utile al processo di cura del dolore. Lo spostamento da una posizione di disinteresse verso la considerazione del controllo del dolore come mission della struttura significa mettere a disposizione del team curante i mezzi formativi necessari per raggiungere e sostenere nel tempo le professionalità necessarie per la cura del dolore. Non che si curi meglio il dolore perchè è un
“debito di risultato” del team sanitario a fornire all’amministrazione o all’ASL, ma il loro coinvolgimento è
una ulteriore garanzia per sostenere stabilmente l’adozione di un nuovo metodo di cura.
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I SENZA DIMORA NELLE AREE METROPOLITANE:
CHE C’ENTRA LA PSICOGERIATRIA?
Elvezio Pirfo
Direttore Dipartimento Salute Mentale G.Maccacaro ASL TO 2
Gli homeless, i senza dimora, sono coloro che per diverse cause hanno perduto l’abitazione, che non
sono in grado di mantenerla o che hanno rinunciato volontariamente ad essa. Si tratta di soggetti che vivono una condizione di grave emarginazione: senza casa per periodi prolungati, oppure episodicamente nel
corso della propria vita; costretti a dormire per strada, nelle stazioni o in altri luoghi pubblici, o che occupano abusivamente dei locali.
C’è chi vive lunghi periodi in centri di accoglienza d’emergenza (dormitori, parrocchie), chi si affida ai
Servizi Sociali istituzionali e vi compie, all’interno, percorsi di “riabilitazione”, chi si affida alle istituzioni unicamente per sopravvivere, chi sceglie di non entrare in contatto neppure con le componenti assistenzialistiche della società.
Le persone identificate con questa terminologia divengono degli INVISIBILI. Non potendo infatti essere compresi dalla società, sono occultati dietro un nome che è indice, causa e soluzione morale della loro
condizione (Bonadonna F. 2001).
Si tratta fondamentalmente di un fenomeno urbano, un processo caratterizzato da quotidiane microfratture che portano a vivere in situazioni di decomposizione e abbandono del sé, privano della capacità di controllare lo spazio fisico, causano profonde rotture dei legami sociali.
In condizioni di vita come quelIe descritte, la salute della persona viene compromessa in maniera grave:
• Per l’assenza d’igiene
• Per gli ambienti ostili e poco puliti
• Per l’impossibilità a nutrirsi ed a dormire in modo adeguato
• Per la dipendenza da sostanze alcoliche e/o stupefacenti.
I senza dimora sono soggetti più facilmente a Malattie dell’apparato respiratorio, sia acute che croniche.
Stati carenziali, dovuti all’alimentazione scorretta. Problemi alla dentatura dovuti alla mancanza di igiene, a
carenze alimentari ed alle sostanze usate. Malattie psichiatriche, connesse per la maggior parte all’alcolismo
ed al disadattamento. Deprivazione di sonno causa d’irritabilità, deficit di attenzione, allucinazioni, paranoia. Patologie legate all’alcolismo. Patologie legate alla tossicodipendenza. Parassitosi esterna ed interna.
Per questi motivi i senza dimora sono vecchi molto presto. Sono vecchi, senza essere anziani e ben prima dei 65 anni, però sono sconosciuti al Sistema Sanitario Nazionale e di solito arrivano in condizioni disperate, soccorsi da polizia e servizi di emergenza, necessitando di cure specialistiche di alto livello.
L’AIP deve fare una propria riflessione su questo mondo doloroso e di confine tra sanitario, sociale e
politico.
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ABSTRACTS
10° CONGRESSO NAZIONALE
Psicogeriatria 110 SUPP B:Psicogeritria Supplemento B
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ABSTRACTS
PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
UTILIZZO DEGLI ANTIDEPRESSIVI NEI PAZIENTI GERIATRICI IN UNA
LUNGODEGENZA; PRIMI RISULTATI DI UNO STUDIO RETROSPETTIVO
Alberani Maurizio
Struttura semplice Lungodegenza Ospedale Civile Lugo, ASL Ravenna.
SCOPO
Scopo di questo studio è valutare l’uso in una Lungodegenza dei farmaci antidepressivi nei pazienti
geriatrici, intendendo con questo termine i pazienti con età maggiore di 64 anni.
MATERIALI E METODI
Abbiamo valutato retrospettivamente le cartelle cliniche relative ai pazienti ricoverati presso la struttura semplice di Lungodegenza dell’ospedale civile di Lugo negli anni 2007, 2008, 2009 e che avessero, al
momento del ricovero, più di 64 anni al fine di individuare quanti pazienti avessero assunto farmaci antidepressivi. A tal fine abbiamo valutato: terapia prima del ricovero, terapia ospedaliera, terapia alla dimissione, variazioni di dosaggio, variazioni di classe farmacologia, sospensione della terapia.
RISULTATI
Abbiamo individuato 733 pazienti; di questi 288 (39%) durante la degenza assunsero antidepressivi;
154 li assumevano già in precedenza (96 SSRI, 34 triciclici, 24 altri farmaci) (da ora identificati come gruppo 1), 134 pazienti iniziarono la terapia durante la degenza (da ora identificati come gruppo 2). La terapia
del gruppo 1 era iniziata da un minimo di 3 mesi ad un massimo di 22 anni (valore mediano 5 anni e 3 mesi); 62 pazienti erano di sesso maschile, 92 femminile, la diagnosi che aveva portato all’uso degli antidepressivi era sconosciuta a 45 pazienti, in 27 era stata posta diagnosi di depressione in età adulto-giovanile, in 31
casi la diagnosi era di depressione involutiva, nei restanti 51 casi si trattava di depressione reattiva. Nel
gruppo 2 i pazienti iniziarono la terapia in relazione sindrome depressiva reattiva al ricovero (36), neoplasia (63), ictus (35), fra questi ultimi ictus dell’emisfero destro erano 19 e 16 sinistro; i farmaci più utilizzati erano SSRI (113), triciclici (13), 15 altri farmaci (la somma è superiore a 134 perché 7 pazienti hanno cambiato terapia per scarsa efficacia).
CONCLUSIONI
I dati raccolti, seppure preliminari e meritevoli di maggiore analisi, indicano che l’uso di antidepressivi,
negli anziani, è molto diffuso, almeno nella nostra esperienza. Non abbiamo indagato l’appropriatezza o meno delle prescrizioni in questa fase perché abbiamo privilegiato un’analisi descrittiva del fenomeno. La classe degli SSRI sembra avere ormai soppiantato quella dei triciclici; certamente la maggiore maneggevolezza,
la risposta terapeutica più rapida, la percezione che si ha nella popolazione di farmaci “per sentirsi meglio”
senza che ad essi sia associata la percezione di una vera e propria terapia psichiatrica hanno favorito questo. Chi usa, invece, antidepressivi triciclici ha la percezione di utilizzare farmaci psichiatrici, più importanti e significativi nel contesto di una vera e propria condizione di patologia. Ciò spiega anche la facilità con
la quale, nell’ambiente ospedaliero, vengono prescritti. Il rovescio della medaglia potrebbe essere (ciò sarà
fonte di ulteriore studio) una minore aderenza alla terapia in maniera continua, finendo per avere, come
succede con le benzodiazepine, un uso “al bisogno”, ossia quando il paziente ritiene di assumere i farmaci).
Significativamente in ambiente ospedaliero i farmaci sono stati prescritti senza una visita specialistica psichiatrica nella quasi totalità dei casi (solo 8 pazienti ebbero una visita psichiatrica di consulenza) essendo
la prescrizione fatta principalmente dal medico del reparto. La domanda da porsi è se, in un contesto differente, ci sarebbe stato bisogno di antidepressivi; dal momento che si tratta di pazienti cronici, che entrano
per patologie già conosciute, cosa è cambiato dall’ambiente domiciliare? Probabilmente ciò che cambia è
il contesto nel quale i pazienti vivono quel particolare periodi della loro malattia. Probabilmente creare
strutture di degenza più accoglienti, avere un rapporto meno impersonale con gli operatori, avere risposte
alle proprie domande ridurrebbe di gran lunga la necessità di ricorrere agli antidepressivi.
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CORRELATI COGNITIVI E NEUROPSICHIATRICI DEI DEFICIT FUNZIONALI
IN FASE LIEVE E PRECLINICA DI DEMENZA
Appollonio Ildebrando Marco, Isella Valeria, Mapelli Cristina, Ferri Francesca,
Traficante Debora, Ferrarese Carlo, Frattola Lodovico
Università di Milano Bicocca, Dipartimento di Neuroscienze, Clinica Neurologica,
Ospedale S. Gerardo, Monza
SCOPO
L’origine della compromissione dell’autonomia funzionale in pazienti anziani con decadimento cognitivo lieve non è ancora del tutto definita: disabilità fisica, deficit neuropsicologici ed alterazioni affettivocomportamentali sono tutti fattori potenzialmente in grado di interferire con lo svolgimento di compiti
strumentali e di base della vita quotidiana, ma il loro peso relativo e ruolo specifico non sono ancora stati
chiariti.
MATERIALI E METODI
Il presente report si riferisce ad uno studio di correlazione tra compromissione funzionale, misurata con
la scala di autonomia Functional Activities Questionnaire (FAQ), ed una serie di variabili cognitive ed affettivo-comportamentali, in una casistica consecutiva di pazienti affetti da MCI o demenza lieve (definita da
un punteggio corretto al MMSE >18). Criterio d’esclusione era la presenza di significativi handicap motori o sensoriali o di patologie internistiche disabilitanti. La FAQ si compone di 10 item concernenti diverse
attività quotidiane strumentali (dagli spostamenti fuori casa alla preparazione dei pasti, dalle incombenze
finanziarie agli hobby), per ciascuna delle quali il caregiver deve attribuire un punteggio da 0 a 3 in base
al grado di autonomia del paziente (a punteggio minore corrisponde maggiore indipendenza). Il parametro considerato in fase d’analisi è stato il numero di funzioni che il paziente non era in grado di svolgere
in piena autonomia (alle quali, cioè, veniva attribuito un punteggio >0).
RISULTATI
Il campione di studio è risultato composto da 47 pazienti, 24 maschi e 23 femmine, con un’età media
di 73.1 anni +7.0, ed un punteggio medio corretto al MMSE di 25.1 +2.9. Il numero di FAQ compromesse
correlava significativamente, anche se debolmente, con il punteggio al MMSE (r di Pearson = -0.36, p=
0.013) e con quello al Neuropsychiatric Inventory (NPI) (r= 0.37, p= 0.010), mentre nessuna correlazione significativa era rilevabile per i singoli test cognitivi (pur essendovi una lieve tendenza alla significatività per il richiamo differito delle parole di Rey e la Frontal Assessment Battery). Dalla regressione lineare
eseguita inserendo come variabile dipendente il numero di funzioni compromesse alla scala d’autonomia,
e come variabili indipendenti lo score al MMSE e all’NPI emergeva che entrambi i punteggi predicevano
l’esito delle FAQ, in maniera indipendente ed equivalente (MMSE: beta standardizzato= -0.32, p= 0.019;
NPI: beta standardizzato= 0.34, p= 0.015), ma che il modello aveva comunque una scarsa capacità predittiva (R2= 0.24).
CONCLUSIONE
I presenti risultati suggeriscono che in fase iniziale di demenza (ed in assenza di rilevante disabilità somatica) i deficit nello svolgimento delle attività quotidiane sono da mettere in relazione con le manifestazioni sia cognitive che behavioural della malattia. Tuttavia, tale relazione appare piuttosto inconsistente,
perlomeno ove si utilizzi uno strumento come le FAQ per misurare l’indipendenza funzionale. Ulteriori
approfondimenti ed analisi potranno chiarire se una connessione più stretta emerga stratificando i pazienti in base alla tipologia del decadimento cognitivo.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
STATO PSICO-SOCIALE E PROGNOSI DEL MILD COGNITIVE IMPAIRMENT
Ballini Elena1, Massello Enrico1, Caleri Veronica2, Mello Anna Maria1, Gullo Massimiliano1,
Tonon Elisabetta2, Cantini Claudia2, Bencini Francesca2, Simoni David1, Cavallini Maria Chiara1,
Boncinelli Marta1, Barboncini Caterina1, De Villa Eleonora1, Masotti Giulio1,
Biagini Carlo Adriano2, Marchionni Niccolò1
1
Unità Funzionale di Gerontologia e Geriatria, Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica,
Università degli Studi di Firenze e Azienda Ospedaliera Universitaria Careggi, Firenze
2 U.O. Geriatria, Azienda USL 3, Pistoia
E-mail: [email protected]
SCOPO DELLO STUDIO
Il Mild Cognitive Impairment (MCI) rappresenta una condizione di lieve declino cognitivo, senza caratteristiche di franca patologia, di frequente riscontro in età avanzata.Tale condizione conferisce tuttavia un
aumentato rischio di sviluppare demenza; per questo motivo, nell’ultimo decennio, numerosi studi hanno
cercato di identificare marker clinici e strumentali di conversione a demenza. Lo scopo di questo studio è
valutare il ruolo della valutazione psicologico-comportamentale e dello stato sociale nel predire lo sviluppo di demenza in un campione di anziani con MCI seguiti da due Unità Valutative Alzheimer (U.V.A.).
SOGGETTI E METODI
Nella presente analisi longitudinale retrospettiva sono stati inclusi soggetti con diagnosi di MCI (criteri di Winblad et al., 2004), con almeno un follow-up tra 6 e 24 mesi. Di ciascun soggetto è stata effettuata
una valutazione neuropsicologica, funzionale globale (ADL, IADL), psicologico-comportamentale (Neuropsychiatric Inventory-NPI), sociale, delle patologie associate (Cumulative Illness Rating Scale-CIRS) e della
terapia farmacologica. I dati sono stati analizzati mediante statistiche non parametriche.
RISULTATI
Il campione era composto da 209 soggetti con età mediana 78 anni, punteggio medio al MMSE 26 e punteggio medio alla NPI 10. Il 32% dei soggetti aveva un deficit di memoria isolato (aMCI), il 31% un deficit di
memoria associato ad un altro deficit cognitivo lieve (mdMCI), il 37% presentava compromissione in aree
cognitive diverse dalla memoria (naMCI). I sintomi psicologici più frequenti erano ansia (50%), depressione
(49%), apatia (49%), irritabilità (36%); il 60% assumeva almeno uno psicofarmaco alla valutazione basale (il 41%
antidepressivi, il 23% benzodiazepine, il 5% antipsicotici). Il 28% dei soggetti viveva al proprio domicilio da
solo.Al follow-up (durata mediana 18 mesi) il 43% dei soggetti ha sviluppato una demenza (converter-C). I soggetti C, rispetto ai non-converter (NC), avevano età più avanzata (C 79 vs. NC 76, p=0.019), mostravano più
spesso un profilo tipo mdMCI alla valutazione basale (C 39% vs. NC 25%, p=0.027), manifestavano più spesso sintomi ansiosi (C 60% vs. NC 43%, p=0.015), erano più spesso in terapia psicofarmacologica (C 74% vs. NC
50%, p=0.001) e più spesso vivevano soli alla valutazione basale (C 60% vs. NC 40%, p=0.003). Non vi erano
differenze significative tra C e NC per MMSE,ADL, IADL e CIRS. In un modello di regressione logistica aggiustato per età, stato civile, durata del follow-up, MMSE e terapia psicofarmacologica alla base, sono risultati indipendentemente associati ad un maggior rischio di demenza il profilo di MCI (mdMCI OR 1.99 [1.02-3.86]),
la presenza di sintomi ansiosi (OR 1.88 [1.01-3.48]), il vivere da soli (OR 2.66 [1.10-6.42]. La combinazione
di sintomi ansiosi e solitudine abitativa alla valutazione basale (coesistenti nel 14% del campione) mostra una
specificità del 94% nell’identificare i C, con un valore predittivo positivo del 76%.
CONCLUSIONI
I dati relativi alla presente casistica di soggetti con MCI, rappresentativa della popolazione che afferisce ai servizi specialistici di diagnosi e cura della demenza, identificano la presenza di sintomi ansiosi e la
condizione abitativa di solitudine come predittori indipendenti, accanto al profilo neuropsicologico, del rischio di demenza.
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I TRATTAMENTI NON FARMACOLOGICI PER LE PATOLOGIE
PSICO-GERIATRICHE: IL PROGETTO “DOLL THERAPY”
APPLICATO NEL NUCLEO ALZHEIMER TEMPORANEO (N.A.T.)
Balzarotti Ferdinando1, Ponta Ilaria1, Saronni Elisa1, Sovera Elisa2, Tasso Irene1,
Foderaro Giuseppe1, Torlasco Margherita1
¹ Residenza Sanitaria “Leandro Lisino” – Tortona (AL)
² Centro Diurno San Carlo – Castelnuovo Scrivia (AL)
SCOPO
L’efficacia delle terapie non farmacologiche per la gestione del paziente affetto da malattia di Alzheimer
sta ottenendo ampio spazio nella letteratura scientifica. Il progetto “Doll Therapy” ha visto la realizzazione
ed il successivo utilizzo di bambole terapeutiche, studiate e create dando spazio all’immaginazione dei singoli partecipanti, che hanno scelto autonomamente le caratteristiche della “doll” (genere, nome e caratteri somatici). Scopo del progetto è stato quello di valutare gli effetti dell’oggetto bambola sui disturbi comportamentali e lo stato emozionale di pazienti inseriti nel Nucleo Alzheimer Temporaneo (N.A.T.) della Residenza Sanitaria “L. Lisino” di Tortona.
MATERIALI E METODI
Il progetto, che nella sua totalità ha avuto una durata di quattro mesi, è stato suddiviso in due fasi: laboratorio di realizzazione manuale e laboratorio di attività interattiva. Durante la prima fase otto pazienti del
Nucleo Temporaneo Alzheimer hanno partecipato alla realizzazione delle bambole in collaborazione con
sei ragazzi disabili del Centro Diurno San Carlo di Castelnuovo Scrivia. L’incontro settimanale ha evidenziato la reciproca interazione tra anziano/disabile, che si è mostrato efficace elemento di stimolazione cognitiva e di socializzazione. Nella fase successiva le bambole sono state assegnate ad undici pazienti del Nucleo Alzheimer Temporaneo che presentavano disturbi comportamentali e nello specifico wandering, affaccendamento afinalistico, agitazione psico-motoria, apatia. È stato utilizzato uno strumento, la BEHAVEAD (Behavioral Pathology in Alzheimer’s Disease Rating Scale, Reisberg, Borenstein, Salob, 1987), con somministrazione iniziale e finale, per osservare eventuali cambiamenti positivi nell’andamento delle manifestazioni comportamentali aberranti. È stata inoltre creata una scheda osservativa per monitorare in itinere gli investimenti relazionali possibili, parallelamente ad un’osservazione oggettiva dei pazienti inseriti
nel progetto terapeutico.
RISULTATI
All’interno di un’osservazione durata un mese, con una cadenza bisettimanale, si è notato dallo scarto dei
punteggi iniziali e finali della BEHAVE-AD,una seppur minima,ma significativa riduzione nella frequenza delle manifestazioni comportamentali, che lascia ben sperare risultati maggiormente rilevanti in un’osservazione più estesa nel tempo. Dalla realizzazione del grafico inerente l’osservazione diretta degli investimenti relazionali, è inoltre riscontrabile un andamento in crescendo di alcune delle voci poste al centro dell’attenzione (“la riconosce” = abilità mnestica, “le parla” = abilità relazionale, “l’accudisce” = abilità di coordinazione
motoria e di maternage,“contatto costante” = abilità attentive). Tale risultato potrebbe porre la premessa di
un’efficacia riabilitativa sulle componenti cognitive residue nel paziente affetto da malattia di Alzheimer.
CONCLUSIONE
La valenza terapeutica nell’utilizzo della “doll” con pazienti affetti da Alzheimer che presentano disturbi comportamentali importanti assume significati simbolici, in relazione alle potenzialità regressive che
l’oggetto bambola determina. Lo studio ha evidenziato le potenzialità delle bambole nella gestione ed in alcuni casi regressione dei disturbi comportamentali. Questo è importante per un’effettiva diminuzione del
carico farmacologico ed il conseguente miglioramento della qualità di vita dei pazienti.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
CONSAPEVOLEZZA DEL DEFICIT MNESICO E FUNZIONE COGNITIVA
IN PAZIENTI CON MCI AMNESTICO: STUDIO PROSPETTICO
Barbieri MariaPaola1,2, Mazzei Debora1, Dessi Barbara1, Arnaldi Dario1, Brugnolo Andrea1,
Rizza Elisa1, Ferrara Michela1, Famà Francesco1, Nobili Flavio1, Palummeri Ernesto2,
Rodriguez Guido1
1 Neurofisiologia
Clinica (DiNOG), Azienda Ospedaliera Universitaria S. Martino, Genova
(Dipartimento cure primarie e attività distrettuali, ASL 3 Genovese
2 S.C.AssistenzaGeriatrica
SCOPO
Secondo alcuni dati epidemiologici, la consapevolezza del deficit di memoria in pazienti anziani potrebbe essere un fattore di rischio per lo sviluppo di demenza, indipendentemente dalle prestazioni oggettivabili per mezzo dei tests neuropsicologici.Tale costrutto è recentemente oggetto d’indagine de i dati disponibili non consentono conclusioni definitive, perché altre esperienze hanno evidenziato addirittura il contrario,
cioè che sarebbe invece l’inconsapevolezza del deficit un fattore di rischio di futura conversione a demenza.
In questo studio prospettico stiamo cercando di verificare se la consapevolezza del deficit di memoria in pazienti con MCI amnestico (aMCI) sia un indicatore dello sviluppo di demenza tipo Alzheimer (DAT).
MATERIALI E METODI
Sono stati studiati 42 pazienti ambulatoriali consecutivi (24 donne, 18 uomini; età media: 73.5±7.5 anni),
inviati per la valutazione di un disturbo di memoria individuato dal paziente e/o dai familiari e/o dal medico
curante e che all’esame neuropsicologico avessero un deficit mnesico obiettivo (aMCI). Il deficit poteva essere isolato (singolo-dominio) o associato a deficit in altre aree cognitive (multi-dominio), ma la demenza veniva esclusa tramite il colloquio clinico e le scale formali delle ADL, IADL, CDR. Oltre ad un’estesa batteria standardizzata di test cognitivi, ai pazienti veniva anche somministrato il questionario MAC-Q per la valutazione
della percezione soggettiva del deficit di memoria. I 42 pazienti venivano selezionati dopo aver escluso il deficit cognitivo secondario a cause sistemiche, psichiatriche o a malattie neurologiche pregresse o in atto.Tutti i pazienti eseguivano la Risonanza Magnetica (o la TC in caso di controindicazioni) e si iniziava il follow-up
clinico-neuropsicologico a cadenza semestrale. I farmaci sedativi venivano sospesi, mentre gli anti-depressivi non triciclici erano consentiti. I fattori di comorbidità sistemica venivano adeguatamente trattati.
RISULTATI
In base al cut-off (<25; >25) del punteggio del MAC-Q sono stati identificati due gruppi di pazienti: 17
pazienti (9 donne; età media: 74.1±6.2) con scarsa consapevolezza del deficit (aMCI-) e 25 pazienti (15
donne; età media: 73.1±8.3) con consapevolezza del deficit (MCI+). I due gruppi risultavano non significativamente diversi per MMSE (aMCI-: 28.1±1.6; aMCI+: 28.0±1.7), scolarità (aMCI-: 9.5±3.0; aMCI+: 9.5±4.6),
GDS-15 (aMCI-: 3.5±3.0; aMCI+: 2.8±2.6), test di memoria verbale episodica (richiamo immediato, aMCI-:
24.6±3.5; aMCI+: 24.0±7.7; richiamo differito, aMCI-: 1.9±2.1; aMCI+: 2.3±1.7;), così come a tutti gli altri test
cognitivi eseguiti.Al momento attuale, il follow-up clinico-neuropsicologico è di 13.06±5.7 mesi nel gruppo aMCI- e di 16.0±6.7 mesi nel gruppo aMCI+. Si è avuto un drop-out per ciascun gruppo, mentre il follow-up minimo è di 6 mesi. La percentuale di conversione a DAT è del 40.2% per anno nel gruppo aMCIe del 21.9% per anno nel gruppo aMCI+ (p: non significativo). Infine, il punteggio al MAC-Q non risultava
correlato con il punteggio al test di memoria episodica.
CONCLUSIONE
La consapevolezza del deficit di memoria e del calo rispetto alle prestazioni in epoca giovanile, testate dal MAC-Q, non sembra quindi essere un fattore di rischio né per un più severo deficit cognitivo né per
la conversione a DAT nei pazienti con aMCI. Al contrario, una leggera prevalenza di conversione a DAT si
notava nel gruppo senza consapevolezza del deficit, sebbene in maniera non statisticamente significativa.
Nel prosieguo del follow-up questo risultato potrà essere ulteriormente verificato, così come i dati di metabolismo glucidico (FDG-PET) si stanno analizzando in un altro braccio dello studio.
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DEPRESSIONE ED INTEGRAZIONE DI VITAMINA D NELL’ANZIANO
Belvederi Murri Martino1, Buffa Angela2, Malavolta Nazzarena2, Marcaccio Maria Luisa3,
Argnani Paola3, Trevisani Fausto4, Costanza Giovanna5, Boschi Maurizia5, Bagnoli Luigi3,
Zocchi Donato3, Iovine Roberto6, Bologna Maria7, Corsino Maria Alessandra5,
Zanetidou Stamatula5, Bertakis Klea8
1
2
3
4
5
6
7
8
Istituto di Psichiatria “P. Ottonello”, Università degli Studi, Bologna
U.O. di Medicina Interna, Dipartimento di Medicina Interna, dell’Invecchiamento e Malattie
Nefrologiche, Policlinico S. Orsola Malpighi, Bologna
Dip. Cure Primarie, AUSL Bologna
Distretto Pianura Ovest, AUSL Bologna
Dip. Salute Mentale, AUSL Bologna
U.O.C Medicina Riabilitativa Nord, Dipartimento, Medico AUSL, Bologna
Dip. Salute Mentale, AUSL Reggio Emilia
Department of Family and Community Medicine, University of California, Davis, Sacramento, CA, USA
SCOPO
Gli anziani, soprattutto di sesso femminile, presentano un’alta incidenza di disturbi depressivi ed una
scarsa risposta ai farmaci antidepressivi. La stessa popolazione è a forte rischio di carenza di vitamina D. Questa sostanza gioca un ruolo importante nell’ambito di numerosi apparati e sistemi, tra cui il sistema nervoso centrale. Diversi studi hanno riscontrato un’associazione tra bassi livelli di vitamina D e maggiore sintomatologia depressiva. La somministrazione di vitamina D -un composto a bassissima tossicità- è stata associata ad un miglioramento del tono dell’umore, ma le evidenze a disposizione sono ancora ridotte specialmente per quanto riguarda popolazioni di anziani. Uno studio pilota condotto dal nostro gruppo ha
mostrato un miglioramento statisticamente non significativo associato ad un basso dosaggio di vitamina D
(100’000 UI) rispetto ai controlli, ma lo studio era condotto su un ridotto numero di pazienti. Obiettivo del
presente studio è valutare se la somministrazione di 300’000 UI vitamina D in aggiunta alla terapia farmacologica antidepressiva sia associata ad una maggiore efficacia rispetto alla monoterapia.
MATERIALI E METODI
Pazienti affetti da Depressione Maggiore di età maggiore di 65 anni sono stati reclutati attraverso il servizio di Psichiatria di Consulenza dell’Università di Bologna. In aggiunta alla terapia antidepressiva i pazienti hanno ricevuto una somministrazione orale di 300’000 UI di colecalciferolo. La severità della sintomatologia depressiva è stata valutata mediante Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) alla baseline e dopo 4 settimane dalla somministrazione di vitamina D. I punteggi sono stati confrontati con quelli di pazienti in lista d’attesa che ricevevano solo la terapia antidepressiva. Per le analisi statistiche sono stati adottati Il test T di student ed il test ANOVA per misure ripetute.
RISULTATI
Lo studio ha visto il reclutamento di 39 pazienti (età media 72.9 ± 6.3, 48.7% donne), tutti in terapia con
antidepressivi SSRI, tre (7.7%) da un periodo maggiore di un anno. Il punteggio HDRS medio alla baseline
era 21.1±4.9 per i 24 casi e 21.4±2.4 per i 15 controlli (t=0.247; df=37; p=0.806). Dopo 4 settimane i casi
presentavano un miglioramento della sintomatologia diversamente dai controlli (19.1±6.0 vs.22.7±2.9;
t=2.155; p=0.038). Il test ANOVA per misure ripetute mostrava un effetto significativo del fattore tempoXgruppo (F=7.247; p=0.011) e non del solo fattore tempo (F=0.365; p=0.549). I risultati suggerivano che la
terapia combinata con vitamina D fosse associata ad un miglioramento significativamente maggiore rispetto al solo antidepressivo. Dal punto di vista clinico si sono osservati miglioramenti particolarmente a livello di astenia, apatia ed alessitimia.
CONCLUSIONE
La somministrazione di alte dosi di colecalciferolo era associata a miglioramenti della sintomatologia depressiva a breve termine maggiori rispetto alla sola terapia antidepressiva. Limitazione principali dello studio sono la mancanza di randomizzazione e di placebo. Ulteriori studi di tipo RCT sarebbero necessari per
confermare un efficacia antidepressiva della vitamina D.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
VECCHIO E SOLO: CONSIDERAZIONI SU DUE STORIE CLINICHE
Boccadamo Annadelia1, Matacchieri Bruno1, Scapati Francesco2
1
2
Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura ASL TA, Taranto
Dipartimento Salute Mentale ASL TA, Taranto
Il diventare vecchi è un processo complesso alle cui manifestazioni individuali concorrono fattori diversi. Si può, comunque affermare che questa fase della vita in generale sia caratterizzata da situazioni di
cambiamento che ogni anziano fronteggia in modo personale a seconda dei propri tratti temperamentali
e della sua storia.
M., 65 anni, giungeva al PS con il 118: lo avevano notato alcuni passanti mentre si aggirava in piena stagione estiva e durante l’ora di punta su un ponte cittadino, talora sporgendosi dalla rete di protezione e creando, quindi, una situazione di allarme tale da necessitare dell’intervento delle forze dell’ordine. Riferiva
idee di autonocumento e mostrava una lettera di commiato indirizzata ai familiari a conferma di ciò: accettava, però, senza difficoltà il ricovero propostogli nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC). Nel
colloquio descriveva vissuti di solitudine ed abbandono conseguenti, a suo dire, all’allontanamento di qualche giorno prima della moglie e di due figli da casa: egli non sapeva dove si trovassero né come contattarli seppure solo telefonicamente.A suo dire questa decisione era derivata dall’ingratitudine e dalla stupidità della consorte che lo aveva lasciato solo per rincorrere il sogno giovanile di vivere in una città del Nord
Italia. In anamnesi emergeva un unico episodio definito “di depressione” dal paziente stesso risalente a circa 20 anni prima su cui, tuttavia, egli non forniva molte informazioni. Durante la degenza, la situazione di
“disperazione” descritta da M. non corrispondeva, però, ad un quadro timico flesso tanto che, nel corso
dei giorni, egli ammetteva di non avere avuto, veramente, alcuna intenzione reale “di farla finita” ma di avere “inscenato” il tutto per convincere la moglie a tornare a casa. Nessuno, però, della sua famiglia, nonostante a conoscenza del ricovero, era venuto in SPDC ad eccezione di un cognato. Interpellato, l’uomo descriveva M. come “uno, rispetto alla propria famiglia, molto autoritario ed invadente che, a differenza della moglie e dei figli, si riteneva sempre nel giusto in quanto dotato di maggiore intelligenza”.
Con diversa modalità e motivazione invece N., 67 anni, giungeva in SPDC per tentato suicidio: si era, infatti, procurato tagli su entrambi i polsi e casualmente era stato trovato privo di sensi in casa da una delle
sue sorelle. In pensione da qualche anno era tornato al Sud, nel proprio paese di origine, separandosi dalla moglie. Emergeva che il suo matrimonio, in crisi già da molti anni, aveva retto solo sul dovere di “un
buon padre” di restare accanto ai figli fino a quando non avessero raggiunto l’indipendenza economica. Nella sua storia emergevano due precedenti episodi depressivi trattati farmacologicamente e poi risolti. I suoi
parenti lo descrivevano come “uno preciso, attento alle esigenze degli altri, rigoroso nel lavoro”. Il recente pensionamento e la separazione con successivo cambiamento abitativo avevano però contribuito ad
accrescere la sua già difficile adattabilità alle situazioni nuove.
Le due storie descrivono diversi modi di dover affrontare la solitudine come diverso è stato il modus
vivendi di ognuno dei protagonisti: l’uno con tratti narcisistici di personalità, l’altro assimilabile al typus melancholicus. Ambedue evidenziano però come il venire meno di riferimenti sociali ed affettivi condizioni
negativamente la qualità della loro vita. In quest’ottica potrebbe essere utile il considerare con sempre
maggiore attenzione la funzione protettiva e di sostegno svolta dalle reti sociali (quali, ad es., i gruppi di auto-mutuo-aiuto).
BIBLIOGRAFIA
1
Marangelli MG, Morazzoni L, Re E. Reti sociali naturali e disagio psichico. Centro Scientifico Editore,Torino 2007.
2
Toniolo E, Grossi A. Oltre lo stigma. Strategie di prevenzione in psichiatria. Centro Scientifico Editore,Torino 2006.
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LA PERDITA DELLA PROTENTIO IN UN ANZIANO MALATO DI CANCRO
Boccadamo Annadelia1, Matacchieri Bruno1, Scapati Francesco2
1
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Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura ASL TA, Taranto
Dipartimento Salute Mentale ASL TA, Taranto
La diagnosi di cancro pone, al di là delle numerose possibilità di cura e talora di guarigione, inevitabilmente l’individuo di fronte alla paura della morte o, comunque, di non potere più essere lo stesso.
La perdita dell’integrità psichica, dell’autonomia e del ruolo sociale, sono alcuni aspetti che possono
accomunare il malato di cancro a colui che sta invecchiando, così come la crisi del potersi pro-gettare nel
futuro.
U. ha 70 anni quando viene ricoverato in oncologia per un K polmonare con piccole metastasi cerebrali: è oppositivo e reattivo verbalmente, ed è a causa di ciò che viene richiesta una consulenza psichiatrica.
Il suo umore, a tratti francamente disforico, non sembra attribuibile ad un problema derivante dalle ripetizioni cerebrali e, poiché in anamnesi emerge una diagnosi di depressione, ciò fa sì che U. sia automaticamente considerato prima di tutto un paziente psichiatrico.
In verità, emerge che in passato egli, almeno in due momenti della sua vita, è ricorso ad uno specialista psichiatra e che in tali circostanze ha necessitato di cure psicofarmacologiche non precisate: un primo
episodio si è verificato quando aveva circa 30 anni in occasione del trasferimento dalla sua città di origine, l’ultimo all’età del pensionamento.
Negli anni a seguire, però, U. non ha più manifestato alcun sintomo fino al momento del ricovero in ambito oncologico.
Al colloquio, in realtà, non si evince una flessione dell’umore che non sia ascrivibile al drammatico stato di salute di cui egli è a conoscenza.
Per ciascuno di noi l’essere-nel-mondo comporta l’integrazione di passato, presente e futuro o, meglio,
in termini di vissuti temporali di “retentio, praesentatio e protentio”.
Il cancro pone l’uomo di fronte ad una crisi della protentio così come spesso accade nell’anziano: nel
caso di U., già in passato vulnerabile di fronte ai cambiamenti, la coesistenza di cancro, vecchiaia e tratti temperamentali ha purtroppo reso ancora più drammatica la situazione, fino alla sua morte giunta dopo poche
settimane.
BIBLIOGRAFIA
1
Scapicchio PL. La depressione nell’anziano, Quaderni italiani di psichiatria 2008; XXVII: 1-8.
2
Stanghellini G. Psicopatologia del senso comune, Raffaello Cortina Editore, Milano 2006.
3
Giberti-Rossi. Manuale di psichiatria, Piccin Nuova Libraria, Padova 2005.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
EFFICACIA DELLE CURE SUI DISTURBI COMPORTAMENTALI E SULLO
STRESS DEL CAREGIVER IN UNA UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER (UVA)
Boffelli Stefano1,2, Li Bassi Paola1,2, Barbisoni Piera1,2, Ferri Marco1,2, Sleiman Intissar1,2,
Travaglini Nicola1,2, Giordano Alessandro1,2, Mattanza Chiara1,2, Piovani Laura1,2,
Rozzini Renzo1,2, Trabucchi Marco2
1 Dipartimento
2 Gruppo
di Medicina Interna e Geriatria-Ospedale Poliambulanza, Brescia
di Ricerca Geriatrica, Brescia
SCOPO
La malattia di Alzheimer (AD) è caratterizzata da disturbi cognitivi, ma anche da disturbi comportamentali che rappresentano una fondamentale fonte di burden assistenziale ed un’importante causa di istituzionalizzazione. Nelle UVA, poco è noto sulla frequenza e gravità dei disturbi del comportamento delle
persone affette da demenza che vi afferiscono e sull’efficacia del relativo trattamento farmacologico. Scopo dello studio è di valutare i disturbi del comportamento in un gruppo di pazienti affetti da malattia di
Alzheimer afferenti ad una UVA e lo stress dei caregiver, sia prima che dopo l’inizio di un intervento psicofarmacologico.
MATERIALI E METODI
Sono state valutate le persone affette da malattia di Alzheimer afferenti all’Unità di Valutazione Alzheimer
del Dipartimento di Medicina e Geriatria (Ospedale Poliambulanza di Brescia).Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una prima valutazione diagnostica clinica e ad accertamenti strumentali (TC encefalo, test neuropsicologici, esami ematochimici).Ad ogni visita sono stati inoltre valutati: funzioni cognitive (MMSE), stato funzionale (IADL e BADL, n. funzioni conservate), patologie concomitanti e terapia psicofarmacologica.
In aggiunta, ai familiari del gruppo di malati (n. 54) è stata somministrata la scala di valutazione dei disturbi
del comportamento (UCLA NPI; range 0-144) e gli item relativi allo stress dei caregiver (range 0-60). Infine,
sono stati considerati i farmaci sedativi prescritti. L’analisi statistica è stata effettuata con SPSS Rel. 17.0.
RISULTATI
I pazienti esaminati (38 femmine, 70.3%) presentavano un decadimento cognitivo di grado lieve-moderato (MMSE 19.4+4.0), con moderata-severa compromissione nelle IADL (2.5+2.3 funzioni conservate) e lieve
compromissione nelle BADL (5.3+1.4 funzioni conservate). Il 54% delle persone era già in cura con farmaci
sedativi od antidepressivi al momento della diagnosi. I pazienti esaminati presentavano,inoltre, disturbi del comportamento di grado lieve-moderato (UCLA NPI 17.4+11.7), con un punteggio più elevato nei malati in trattamento psicofarmacologico (UCLA NPI 20.5+1.5 versus 09.6+9.8). Sebbene lo stress del campione totale di
caregiver esaminato fosse già di grado lieve (UCLA NPI Stress Score: 5.6+4.9), è stata rilevata una differenza
significativa tra i caregiver di malati in trattamento psicofarmacologico e quelli di malati non trattati. Infatti,
è stato riscontrato un livello di stress minore nei primi rispetto ai secondi (UCLA NPI Stress Score: 6.4+5.0 versus 3.6+4.3). Inoltre, il livello di stress dei caregiver era minore se il familiare era supportato dalla presenza
di un caregiver informale (badante). Al follow up a sei mesi, sia i disturbi comportamentali dei pazienti in
trattamento farmacologico che il livello di stress dei loro familiari si riducono significativamente.
CONCLUSIONI
Al follow up a sei mesi, si evidenzia una riduzione dei disturbi del comportamento nelle persone affette da malattia di Alzheimer trattate farmacologicamente. Anche lo stress dei familiari si riduce nel tempo
sia grazie alla terapia sedativa che alla presenza di caregiver informali. Pertanto, l’Unità di Valutazione Alzheimer dimostra di poter gestire il malato affetto da demenza in modo globale considerando, oltre agli aspetti cognitivi e comportamentali, anche il benessere del caregiver e mantenendo così a lungo a domicilio la
persona affetta da demenza.
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L’ATTEGGIAMENTO EMOTIVO DELL’OPERATORE COME REQUISITO
PER L’ACCESSO AL PAZIENTE DEMENTE
Bonadiman Fabio
Psichiatra, consulente area psicogeriatrica “Opera Romani” – Nomi (TN)
Al di là di buone pratiche quotidiane, l’intervento degli operatori all’interno delle RSA è spesso accompagnato da sentimenti di impotenza e di pessimismo, per altro diversamente colti ed espressi; sentimenti
che -a fronte del gravissimo pregiudizio verbale e comunicativo di questi pazienti- ne influenzano il contatto interpersonale e costringono ciascuno a organizzare emotivamente pensieri e attività.
La sensibilità a riconoscere ed a risolvere questo travaglio -che si correla naturalmente agli interrogativi esistenziali e assistenziali dell’anziano decaduto- rappresenta uno snodo importante nella maturazione
professionale per esprimere poi una competenza, tecnica ed umana, aperta e meno mascherata da adattamenti difensivi.
La gravosità del rapporto con il paziente demente (e che converge in tutta la sua problematicità nei compiti assistenziali) non pone soltanto dei quesiti sanitari, che trovano risposte nelle disposizioni operative
e nelle linee guida; ma induce dei frequenti dilemmi relazionali che si amplificano per la mancanza di quei
riscontri comunicativi sui quali si regge e si misura anche l’identità professionale.
Di qui un doppio impegno psicologico per gli operatori: quello di confermarsi, spesso nell’equipe, nelle proprie motivazioni al lavoro che, se insolute o fluttuanti, possono rimanere fattore di interferenza e di
burn-out; e quello di perfezionare lo stile empatico per accedere ad un mondo disordinato e caotico altrimenti abbandonato per la sua incomprensione e frustrazione.
La consapevolezza e la rielaborazione delle questioni collegate a tali incombenze quotidiane rinsaldano le identità professionali cosi provate da interlocutori passivi ed assenti; e predispongono a prassi operative più autentiche e meno riferite a protocolli che eludono quell’indispensabile confronto umano dal
quale originano solidarietà e pietas.
Si sono così ripresi gli aspetti, le forme ed il destino di queste scadenze professionali che, attraverso una
minima introspezione, liberano la personalità da angosce nichilistiche ed agevolano il contatto con patologie cosi disorganizzate e logoranti.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
LA PALESTRA DELLA MENTE: UN PROGETTO DI RIATTIVAZIONE
COGNITIVA E DI SOCIALIZZAZIONE RIVOLTA A PERSONE AFFETTE
DA DEMENZA LIEVE E MODERATA
Boni Stefano1, Brunelli Simona2, Nanni Rachele1
1
2
U.O. Geriatria, AUSL, Ravenna
Servizio Assistenza Anziani, AUSL, Ravenna
SCOPO
La Palestra della Mente è un centro che opera in collaborazione con il Consultorio Disturbi Cognitivi, il cui scopo principale è quello di fornire trattamenti di riattivazione cognitiva rivolti a soggetti affetti da demenza. La stimolazione cognitiva è un intervento specialistico di tipo non farmacologico, che può
essere somministrato in assenza, o in presenza, delle normali terapie cui vengono sottoposti i pazienti con
diagnosi di probabile malattia di Alzheimer.
Questo articolo vuole mostrare la proposta di uno studio osservazionale per valutare gli effetti di una
stimolazione cognitiva nel breve termine in una popolazione selezionata di soggetti affetti da probabile malattia di Alzheimer ed in terapia con anticolinesterasici.
MATERIALI E METODI
I criteri diagnostici in base ai quali i soggetti sperimentali sono stati scelti sono i seguenti:
Diagnosi di probabile malattia di Alzheimer o malattia di Alzheimer con componente vascolare di livello
lieve-moderato(criteri NINDS):
– Mini Mental State Examination: 25-18
– Assenza di sintomi comportamentali indagati attraverso l’utilizzo della scala N.P.I (Neuropsychiatry
Inventoryof) che devono essere in tutti i seguenti punti della scala: deliriums, delusions (hallucinations), aberrant (abnormal) motor behaviour, lack of inhibition (loss of normal inhibitions) non sopra il punteggio di 2.
Clinicamente verranno raccolti a punteggio i seguenti dati clinici:
– INDICE VASCOLARE: 1: non lesioni, 2: leucoaraiosi, 3: lesioni della sostanza bianca, 4: lesioni compatibili con fatto ischemico (no criteria for vascular dementia)
– DIAMETRO RADIALE DEL CORNO TEMPORALE.
Durante le sedute i pazienti sono coinvolti in attività specifiche, improntate allo stimolo delle residue
capacità, mnesiche, di orientamento, di linguaggio, di attenzione attraverso un protocollo di attività precisamente definito. Gli incontri sono inoltre condotti da una psicologa esperta in modo tale da supportare
l’autostima, una buona immagine personale, favorire la socializzazione e la validazione emozionale.
Allo stesso tempo il progetto provvede interventi strutturati di formazione e supporto alle famiglie attraverso incontri di natura psicoeducativa condotti dalla psicologa del servizio in collaborazione con le figure professionali del geriatra, assistente sociale e legale.
L’efficacia del progetto viene monitorata attraverso l’adozione di strumenti testistici di natura cognitiva e psicocomportamentale somministrati al tempo T0 (prima del trattamento), dopo la fine del trattamento (T1), e a 1 anno dopo la prima somministrazione (T3).
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RISULTATI
Presentiamo di seguito i primi dati prodotti analizzando i primi 50 soggetti del campione e 15 soggetti
del gruppo di controllo così composti:
Media
d.s.
Media
d.s.
Età
75,6
5,6
62-82
74
4,9
Istruzione
(in anni)
5,7
2,73-13
5,4
1,9
Genere
Frequenza (%)
15 maschi (30%)
35 femmine (70%)
4 maschi (27%)
11 femmine (73%)
CONCLUSIONE
Ad oggi, i dati relativi ai soggetti sperimentali evidenziano la stabilità del profilo cognitivo, con tendenza al miglioramento, che risulta significativa per le prove di memoria di prosa. Una riduzione dei sintomi
psico-comportamentali, in particolare di agitazione ed irritabilità, ed un’attenuazione dello stress del caregiver, rispetto al gruppo di controllo.
BIBLIOGRAFIA
1
Frisoni GB, Beltramello A, Weiss C, Geroldi C, Bianchetti A.,Trabucchi M. Linear measures of atrophy in mild Alzheimer disease.
Am J Neuroradiol 1996; 17:913-23.
2
Ashburner J, Friston KJ. Voxel-based morphometry-the methods. NeuroImage 2000; 11:805-21.
3
Frisoni GB, Rossi R, Beltramello A. The radial width of the temporal horn in mild cognitive impairment. J Neuroimaging 2002;
12:1-4.
4
Farina, Fioravanti, Chiavari, Imbornone, Alberoni, Pomati, Pinardi, Pignatti, Mariani. Acta Neurologica Scandinavica. 2002; May,
105(5):365-71.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
EREDITARIETÀ E MALATTIA DI ALZHEIMER:
COME TRASFERIRE UN’INFORMAZIONE COMPRENSIBILE?
Bosco Massimiliano, Molino Ivana, Fasanaro Angiola Maria
U.V.A. - A.O.R.N. Antonio Cardarelli - Napoli
SCOPO
I familiari dei pazienti con malattia di Alzheimer (AD) domandano spesso quale sia la probabilità di sviluppare essi stessi la malattia ed è dunque importante fornire un’informazione comprensibile. Obiettivo del
lavoro è stato sviluppare una strategia adeguata rivolta a coloro che non hanno specifiche competenze e
misurarne l’efficacia.
MATERIALI E METODI
Abbiamo esaminato le cartelle cliniche dei 453 pazienti AD diagnosticati (criteri NINCDS-ADRDA) e seguiti nella nostra U.V.A. e trovato 435 late-onset (LO), ovvero il 96,02% del totale dei pazienti. Per quanto
riguarda l’early-onset (EO) esso è stato definito con un criterio restrittivo, ovvero come esordio di malattia prima dei 60 anni. Con questo criterio il numero di pazienti EO è risultato di 18, ovvero il 3,9% del totale dei pazienti. Nella forma LO la familiarità (un congiunto di primo grado affetto) era presente in 85 pazienti, ovvero il 24,2% del gruppo LO. Nella forma EO, invece, la familiarità era presente in 14 pazienti, ovvero nel 77,7% del gruppo EO. Solo in 2 pazienti, ovvero lo 0,4% del totale dei casi esaminati, era presente una ricorrenza della malattia in più generazioni. I dati sono coerenti con la letteratura, ed è a partire da
questi che è stata sviluppata l’informazione i cui contenuti hanno riguardato: A) il rischio di sviluppare
una malattia di Alzheimer: in età LO (10% se nessun parente affetto, 20% se un parente di primo grado affetto, 30% se soggetto portatore di ApoE, 50% se un gemello monozigote affetto); B) Il rischio di sviluppare la malattia se vi è ricorrenza in più generazioni, e C) il rischio associato alla presenza di altri markers.Tutti i contenuti sono stati esemplificati in grafici e vignette.
RISULTATI
35 su 40 soggetti (livello educativo medio 8 anni), tutti partecipanti al counseling sulla malattia di Alzheimer, hanno valutato, su un questionario multiplo, l’informazione fornita come “comprensibile e chiara”.
CONCLUSIONE
La malattia di Alzheimer è un disordine complesso ed è difficile informare sulle caratteristiche di ereditarietà. Una strategia di comunicazione che partendo da dati “reali” schematizzi il rischio attraverso vignette semplici è risultata efficace. Essa ha permesso di chiarire anche quando rivolgersi al test genetico, al
momento attuale opportuno solo per i familiari di pazienti EO in cui la diagnosi di malattia di Alzheimer
sia stata rigorosamente verificata.
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RUOLO DELL’UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER NELLA GESTIONE
DI UN CENTRO DIURNO
Bruno Patrizia1, Ariano Rosa2, Cicchetti Gelsomina3, Delfino Mario4, Massarelli Gianfranco5,
Argenzio Filomena6
1
Responsabile U.V.A., ASL NA2 Nord
Responsabile area socio-sanitaria Comune di Giugliano in Campania
3 Sociologa referente ambito ASL NA2
4 Assessore politiche sociali Comune di Giugliano in Campania
5 Responsabile Unità Operativa Assistenza Anziani distretto 37 ASL NA2 Nord
6 Direttore Sanitario distretto 37 ASL NA2 Nord
2
SCOPO
Definizione del ruolo dell’Unità di Valutazione Alzheimer, nel progetto di realizzazione di un centro
diurno per pazienti affetti da malattia di Alzheimer del comune di Giugliano in Campania.
MATERIALI E METODI
Il Comune di Giugliano in Campania vuole realizzare un centro diurno per malati di Alzheimer: l’incremento demografico che fa registrare attualmente una popolazione di circa 113.000 abitanti, e la continua collaborazione con l‘Azienda Sanitaria Locale, sono stati fattori determinanti per la scelta di una politica sociale del Comune, rivolta ad investire risorse per ammalati di demenza. Il centro diurno si configura come un servizio rivolto prevalentemente ad anziani sul territorio, con vario grado di non autosufficienza, che per il loro declino funzionale e cognitivo esprimono bisogni non sufficientemente gestibili a domicilio, ma non ancora tali da richiedere un ricovero stabile in struttura socio-sanitaria, che in tal modo viene pertanto ritardato od addirittura evitato. Il Centro Diurno è quindi una risorsa significativa per il mantenimento della qualità di vita dell’anziano, ponendosi come risorsa intermedia tra il disagio legato all’istituzionalizzazione e la serenità che può mantenere conservando il proprio domicilio.
Tale servizio è parte della rete socio-sanitaria di servizi per gli anziani. L’integrazione socio-sanitaria
presuppone un approccio unitario alla persona ed ai suoi bisogni, attraverso un’azione coordinata ed integrata dei Comuni a livello di ambito e della Azienda Sanitaria Locale. L’Unità di Valutazione Integrata
(U.V.I.) è lo strumento operativo che garantisce l’integrazione dei servizi socio-assistenziali, socio-sanitari
e riabilitativi. In questo senso, rappresenta l’unica modalità di attivazione della rete dei servizi.
RISULTATI
In questo progetto l’Azienda Sanitaria Locale del territorio, individuata nelle Unità di Valutazione Alzheimer, ha compiti decisionali nell’accesso dei pazienti nel centro diurno proponendoli all’Unità di Valutazione
Integrata (UVI) ed elaborando in essa, con l’integrazione delle varie figure professionali, gli obiettivi di cura
e di verifica dell’andamento del progetto personalizzato di assistenza. L’UVI si qualifica come lo strumento per
la valutazione multidimensionale e multidisciplinare di situazioni di bisogno socio-sanitario complesso, e per
la predisposizione e proposta all’utente del progetto assistenziale e di un piano terapeutico.L’obiettivo generale della U.V.I. consiste nell’individuare e garantire l’attuazione della migliore soluzione possibile per la persona riconosciuta in stato di bisogno sociosanitario, che incontri il gradimento della stessa e ne rispetti la libertà di scelta. Gli obiettivi specifici promuovono azioni atte a valorizzare al meglio le risorse territoriali, attuando idonee forme di coinvolgimento e di partecipazione, ottimizzano la spesa socio-sanitaria.
CONCLUSIONE
Il Centro UVA del territorio competente, acquisisce in questo progetto, altre funzioni rispetto a quelle
primarie di centro prescrittore stabilite nel 2000 dal Ministero della Salute, all’interno di un progetto denominato Cronos, che prevedeva un programma diagnostico e terapeutico per la malattia di Alzheimer
(D.M. del 20/07/2000, S.O. alla G.U. n° 204 del 01/09/2000, e D.M. del 14/03/2001, G.U. n° 86 del
12/04/2001). In realtà a dieci anni dall’attivazione, le competenze gestionali dei centri UVA non sono state mai definite, lasciando i problemi conseguenti alla gestione della malattia di Alzheimer, alla sensibilità ed
all’opportunità individuale del singolo operatore, medico, responsabile del centro prescrittore. Questo progetto vuole dimostrare che il ruolo delle UVA nel percorso clinico della patologia dementigena, non può
essere ricondotto ad un mero centro di prescrizione del farmaco, ma alla valutazione multidimensionale
della persona, dei caregiver e delle condizioni sociali di vita.
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LA PSICOEDUCAZIONE COME STRUMENTO DI SOSTEGNO
ALLE FAMIGLIE DEI PAZIENTI AFFETTI DA DEMENZA
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Calarco Francesco, Trotta Francesco,
Bruno Luigi Carlo, Mastropierro Filomena, Amilcare Marisa, De Santo Maria Pia, Lanza Gerarda
Centro di Salute Mentale e Centro U.V.A. Roggiano Gravina ASP Cosenza
La demenza è una malattia cronica ed ingravescente che coinvolge pesantemente le famiglie dei soggetti che ne sono affetti. La psico-educazione nasce dalla constatazione di come di fatto i familiari siano i
più diretti interessati nella cura del paziente in quanto sono quelli che spendono in sua compagnia la maggior parte del tempo. Purtroppo troppo spesso sono logorati dalle richieste e dalle esigenze del loro congiunto e tendono a mettere in atto modalità espulsive nei suoi confronti in quanto convivere con un malato demente è fonte di grande stress.Abbiamo offerto a 15 famiglie, con congiunti affetti da demenza, la
possibilità di partecipare ad incontri presso il Centro UVA,er addestrarli nella gestione della malattia. Le famiglie, inserite nel progetto, sono state selezionate in base al punteggio ottenuto alla CBI (Caregiver Burden Inventory). Il periodo di addestramento ha avuto la durata di sei mesi e la frequenza degli incontri è
stata settimanale nel primo periodo e quindicinale nel secondo. L’intervento ha previsto: una parte teorica finalizzata alla conoscenza della malattia e una più pratica da eseguire durante le sedute con una serie
di esercizi da svolgere al di fuori dell’incontro con l’operatore. Ogni seduta è stata seguita da dimostrazioni pratiche, assegnazione di compiti da svolgere tra una seduta e l’altra per mettere in pratica le abilità apprese nella vita quotidiana. Gli obiettivi del lavoro sono così riassumibili: fornire informazioni sulla malattia, risolvere o controllare i problemi comportamentali, promuovere il benessere della persona; ridurre lo
stress di chi assiste; ridurre l’utilizzo di mezzi di contenzione fisica e/o farmacologica.Tale training ha prodotto una positiva ricaduta sulla capacità di comprensione e di gestione della malattia del paziente affetto da demenza da parte dei familiari.
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EFFICACIA DI QUETIAPINA NEL DISTURBO DEPRESSIVO MAGGIORE
CON MANIFESTAZIONI PSICOTICHE NELL’ANZIANO
Buccomino Domenico, Drago Gioconda
Centro di Salute Mentale e Centro U.V.A. Roggiano Gravina ASP Cosenza
SCOPO
Valutare efficacia e tollerabilità di quetiapina (range terapeutico:300-600mg/die) in aggiunta all’antidepressivo nel trattamento delle manifestazioni psicotiche congrue ed incongrue all’umore del disturbo depressivo maggiore nel paziente anziano con follow up a 6 mesi.
MATERIALI E METODI
21 pazienti (13F-8M) con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore con Manifestazioni Psicotiche
(DSM IV TR), età 65-80anni, senza serie patologie organiche sono stati trattati con Quetiapina alla dose media di 450mg/die oltre all’antidepressivo SSRI a dosi standard. Efficacia valutata con BPRS, CGI, PANSS (al
basale T0, al 1, 3, 6 mese T1- T2-T3); SAS per gli EPS (T0,T6); sicurezza e tollerabilità: ECG, esami ematochimici, ematologici, rilevazione d’eventi avversi.
RISULTATI
Già al T1 si è osservata una drastica riduzione (-32%) del punteggio medio totale della BPRS, con mantenimento della risposta a 6 mesi. Non si sono verificati eventi avversi di rilievo se non un’iniziale sonnolenza. In particolare non si è registrato aumento ponderale, né iperglicemia, nè iperprolattinemia.
CONCLUSIONE
I risultati confermano il profilo d’efficacia e tollerabilità di quetiapina nel trattamento delle manifestazioni psicotiche congrue ed incongrue all’umore del disturbo depressivo maggiore nell’anziano. Emerge,
inoltre rapidità d’azione, elevata percentuale di remissione sintomatologica, ed un effetto mantenuto a 6 mesi. Inoltre, buona è stata la ripresa del funzionamento socio-relazionale.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
RICHIESTE DI AIUTO DEI CAREGIVER
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Calarco Francesco, Trotta Francesco,
Bruno Luigi Carlo, Mastropierro Filomena, Amilcare Marisa, De Santo Maria Pia, Lanza Gerarda
Centro di Salute Mentale e Centro U.V.A. Roggiano Gravina ASP Cosenza
La demenza è una condizione che interessa dall’1 al 5 % della popolazione sopra i 65 anni d’età, con
una prevalenza che raddoppia poi ogni cinque anni, giungendo quindi ad una percentuale circa del 30%
all’età di 80 anni. Per demenza si intende una condizione di disfunzione cronica e progressiva delle funzioni cerebrali che porta a un declino delle facoltà cognitive e funzionali della persona. La problematicità di
tale patologia sta proprio nella sua gestione, sempre più affidata alla famiglia che ne detiene un carico assistenziale gravoso con conseguenti ripercussioni sulla loro qualità della vita. In una prospettiva sanitaria
e socio-assistenziale sempre più orientata a favorire una gestione a domicilio del paziente demente è legittimo pensare al caregiver come seconda vittima di malattia che necessita di sostegno e di un percorso
adeguato di aiuto.A tal proposito all’interno del Centro di Salute Mentale e Centro UVA è stato avviato, in
fase sperimentale, il Centro Diurno per pazienti affetti da demenza. Il paziente come tutti sappiamo non
può essere lasciato solo nemmeno per pochi istanti ed i caregiver ci chiedono di essere sollevati almeno
per qualche ora al giorno. Il Centro aperto al momento solo due volte a settimana, ospita 10 pazienti ed offre l’occasione per sperimentare contatti positivi; è luogo di stimolazione e di riabilitazione. Gli obiettivi
possono essere così sintetizzati: recupero della funzionalità e dell’autonomia; controllo e gestione dei disturbi comportamentali; monitoraggio farmacologico; sostegno psicologico alle famiglie al fine di diminuire i livelli di ansia e ritardare l’istituzionalizzazione. Il progetto, che sta riscontrando esiti positivi tra le famiglie ed i medici di medicina generale, ha permesso di rivedere e reimpostare un rapporto di rete vacillante. Solo un lavoro di raccordo e di coordinamento tra tutte le istituzioni e non, presenti sul territorio potrà permettere di dare risposte di qualità al diritto alle cure ed ai bisogni più intimi dei pazienti e delle loro famiglie e questo progetto, sebbene ancora in embrione, è una prima risposta di aiuto.
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LA RIABILITAZIONE PSICHIATRICA NELL’ANZIANO DEMENTE REALTÀ
O UTOPIA? ESPERIENZE DELL’UNITÀ DI VALUTAZIONE ALZHEIMER
DEL C.S.M. DI ROGGIANO GRAVINA
Buccomino Domenico, Drago Gioconda, Perri Antonio, Trotta Francesco, Bruno Luigi Carlo
Centro di Salute Mentale e Centro U.V.A. Roggiano Gravina ASP Cosenza
SCOPO
Presso il centro UVA sono stabilmente seguiti 163 pazienti affetti da sospetta Demenza di Alzheimer.Abbiamo condotto uno studio su 61 pazienti di età compresa tra 60 e 85 anni, con deterioramento cognitivo
di grado medio, confrontando due gruppi: il primo di 82 pazienti, sottoposto solo a terapia farmacologica con
anticolinesterasici, il secondo di 81 pazienti sottoposto anche ad interventi di riabilitazione cognitiva.
MATERIALI E METODI
Abbiamo valutato le performances cognitive e l’autonomia nelle attività della vita quotidiana nelle due
coorti di pazienti mediante la somministrazione del M.M.S.E., Scala ADL e Scala IADL al tempo 0, a 3, 6, 12
e 18 mesi.
Ci siamo avvalsi della collaborazione dei familiari del secondo gruppo di pazienti, che sono stati addestrati all’utilizzo di semplici tecniche e strategie riabilitative. I pazienti sono stati assegnati al primo o secondo gruppo in base alla disponibilità dei caregiver a farsi carico dei compiti riabilitativi domiciliari.
RISULTATI
Nei pazienti sottoposti a riabilitazione il decremento medio del punteggio al M.M.S.E. è stato di 1,43 punti, mentre quello dei pazienti non sottoposti a trattamento riabilitativo è stato di 2,75 punti. Per quanto riguarda l’autonomia nelle attività della vita quotidiana abbiamo riscontrato che i pazienti del gruppo 2 hanno manifestato una minore perdita delle abilità rispetto al gruppo di pazienti del gruppo 1.
CONCLUSIONE
Il significato di questa nostra esperienza è che se si riescono a coinvolgere in modo fattivo i caregiver,
si rallenta il deterioramento dei soggetti affetti da demenza, si migliora la loro qualità di vita e quella dei loro familiari, con evidenti conseguenze positive anche dal punto di vista dei costi sociali.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
IL CENTRO DIURNO ALZHEIMER DI PRATO: LA CASA DI NARNALI
Calvani Donatella, Valente Carlo, Mottino Giuseppe, Mitidieri Costanza Antonio,
Lundstrom Malin, Perconti Carmela, Fagorzi Sabrina, Marchetti Sara, Magnolfi Stefano Umberto,
Galassi Simonetta1
U. O. Geriatria, Narnali
1 Assistente Sociale Responsabile RSA, Azienda USL 4 di Prato
INTRODUZIONE
Il Centro Diurno Alzheimer è nato il 25 Gennaio 1999 come servizio sperimentale per la presa in carico integrata delle persone affette da demenza con gravi disturbi del comportamento. Il Centro si prefigge
i seguenti obiettivi: mantenere il più a lungo possibile la persona malata al proprio domicilio; migliorare la
qualità di vita del malato e di chi se ne prende cura; preparare ed informare il caregiver nell’assistenza al
proprio familiare; formare il personale socio-sanitario. Destinatari sono quei malati assistiti da familiari con
i quali, pur in presenza di un elevato stress assistenziale, è possibile stipulare un “contratto terapeutico-assistenziale” che consenta di definire la temporaneità degli interventi e la loro partecipazione attiva al progetto di cura personalizzato. Uno dei maggiori punti di forza del servizio è l’ADI post-Diurno, svolta dagli
operatori del CDA, per un totale di 120 ore a malato al fine di riaccompagnarlo al proprio domicilio, sostenere il caregiver formale e/o informale e contestualizzare le strategie individuate durante la permanenza
presso la Casa di Narnali. L’obiettivo di questo studio è di verificare gli effetti di “un progetto di Centro
Diurno Alzheimer temporaneo” su: disturbi del comportamento, stress del caregiver, domanda di istituzionalizzazione permanente.
SOGGETTI E METODI
Dal 1999 al 2009 sono stati inclusi nello studio 137 ospiti (83F, 54M, ètà media 76.3± 8.2 anni), inviati alla Casa di Narnali dall’UVM territoriale con la consulenza del Centro per lo studio dei disturbi cognitivi. Gli
ospiti sono stati valutati con la seguente batteria di test e rating scales: BADL, B.A.N.S.S, IADL, Barthel Index,
CBI, CDR, CIRS, CDS, EBS, OMS, NPI, Questionario di Zarit (compresa la parte riguardante il grado di soddisfazione del programma). La valutazione effettuata all’ingresso è stata ripetuta ogni due mesi fino alla data di
dimissione. La Scala NPI è stata somministrata settimanalmente per verificare l’adeguatezza del programma.
Esiste un cartaceo strutturato per lo scambio di informazioni quotidiane fra Centro e familiari. I soggetti sono stati ospiti presso la casa di Narnali per un periodo medio di giorni 177.5± 86 giorni. L’importante variabilità rilevata nei giorni di ospitalità rispecchia la diversità dei bisogni assistenziali espressi dai pazienti.
RISULTATI
La permanenza nel Centro Diurno Alzheimer ha determinato una netta riduzione dei disturbi del comportamento valutati con NPI (valori medi all’ingresso 53.3±24.6, valori medi alla dimissione 30.8±16.7) a
cui ha fatto riscontro anche una riduzione dello stress del caregiver misurato con CBI (media dei valori all’ingresso 44.6±16,7, all’uscita 29.6±18.0). La maggior parte dei soggetti trattati è rimasta al proprio domicilio dopo la dimissione dal Centro (a 90 giorni dalla dimissione il 68% era a domicilio, il 16% in Diurno assistenziale, il 14% in RSA, il 2% è deceduto).
CONCLUSIONI
I risultati dimostrano che la temporaneità non pregiudica l’efficacia del servizio quando questo agisce
secondo un PAP (progetto assistenziale personalizzato), rispondendo a criteri di appropriatezza e flessibilità e mantenendo un collegamento con la rete dei servizi. Il trattamento dei disturbi comportamentali richiede il coinvolgimento attivo e l’educazione dei parenti intervenendo sull’ambiente di vita e sul comportamento del caregiver stesso.
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ADEGUAMENTO DELL’ASSESSMENT NEUROPSICOLOGICO NEGLI
INTERVENTI DI ATTIVAZIONE COGNITIVA PER SOGGETTI CON MILD
COGNITIVE IMPAIRMENT E PAZIENTI AFFETTI DA DEMENZA LIEVE:
UNO STUDIO-PILOTA
Cammisuli Davide1, Timpano Sportiello Marco1,2, Pinori Francesca2, Verdini Caterina2
1
Dipartimento di Psichiatria, Neurobiologia, Farmacologia e Biotecnologie, Università di Pisa
n. 5, Laboratorio di Neuropsicologia Clinica, Psicologia Ospedaliera, Pisa
2 ASL
SCOPO
A partire dagli anni Novanta, alcuni studi presenti in letteratura sono stati dedicati agli interventi di attivazione cognitiva, impiegata per contrastare il decadimento mentale di soggetti con mild cognitive impairment
e di pazienti affetti da demenza lieve. La diagnosi del deterioramento cognitivo, che costituisce il core della demenza e del mild cognitive impairment, veniva effettuata, in passato, mediante strumenti psicometrici tradizionali (scale Wechsler). Sia l’assessment psicometrico tradizionale, sia le tecniche di riabilitazione cognitiva (Validation Therapy, Reality Orientation Therapy) si basavano su un modello teorico “pre-cognitivo”, ispirato alle teorie dell’intelligenza dell’epoca (teorie multiple o basate sul “fattore g”). L’assessment di tipo neuropsicologico cognitivo, che nasce negli anni Ottanta, determina l’introduzione del rinnovamento diagnostico (dalla
psicologia alla neuropsicologia) e delle tecniche riabilitative, basate sul modello neurocognitivo. L’assessment
neuropsicologico comunemente adottato è atto dunque ad indagare il deterioramento di specifici domini cognitivi per osservare, analiticamente, il corso del declino dementigeno. Lo studio si propone di delineare il
ruolo dell’assessment neuropsicologico nella pianificazione di interventi di attivazione cognitiva.
MATERIALI E METODI
Uno studio-pilota ha valutato 10 pazienti, di età compresa tra i 72 e gli 85 anni, con diagnosi di demenza
lieve e mild cognitive impairment, mediante un’ampia batteria neuropsicologica che include: a) strumenti di
screening: Milan Overall Dementia Assessment; b) strumenti per la valutazione dell’autonomia del paziente:
Activities of Daily Living e Instrumental Activities of Daily Living; c) esame specifico dei seguenti domini cognitivi: 1. memoria:Apprendimento di Coppie di Parole, Digit Span, Span di Corsi, Memoria di Prosa immediata e differita,Apprendimento Suvra-span di Corsi e Test di Memoria Comportamentale di Rivermead; 2. attenzione: Test delle Matrici Attentive,Trail Making Test e Stroop Color Word Interference Test; 3. linguaggio: Boston Naming Test e Fluenza Verbale per Categorie; 4. prassie: Copiatura di disegni di figure geometriche; 5. gnosie visive: Street’s Completion Test, Hooper Visual Organization Test e Test delle Figure Aggrovigliate; 6. funzioni esecutive:Test delle Matrici Attentive, Stroop Color Word Interference Test, Fluenza Verbale per Categorie,
Frontal Assessment Battery, Test di Brixton, Test della Torre di Londra, Wisconsin Card Sorting Test, Test dei
Giudizi Verbali e Trail Making Test. I pazienti sono stati nuovamente valutati a distanza di 6 mesi.
RISULTATI
Lo studio-pilota suggerisce che i risultati al testing neuropsicologico forniscono elementi chiave per pianificare interventi di attivazione cognitiva. Lo studio analitico dei punteggi fornisce indicazioni per: a) la valutazione delle aree di forza e di debolezza sulle quali centrare in modo selettivo ed intensivo il trattamento; b) la formulazione da parte del neuropsicologo di diari settimanali contenenti i “compiti” che il paziente deve quotidianamente svolgere sotto la supervisione del caregiver; c) la valutazione dei risultati del programma di training cognitivo mediante follow-up.
CONCLUSIONE
Il programma di training riabilitativo deve tenere in considerazione il principio della multidimensionalità della valutazione del paziente demente che include lo screening generale delle funzioni cognitive, la valutazione dello stato funzionale del paziente, la valutazione del carico assistenziale e l’utilizzo di servizi e
risorse assistenziali. L’assessment neuropsicologico fornisce un contributo rilevante nel progettare programmi di training capaci di rafforzare i domini cognitivi danneggiati, massimizzando il funzionamento
cognitivo residuo del paziente e riducendo il rischio di progressivo declino dementigeno. Esso si focalizza sulle abilità cognitive preservate del paziente per programmare interventi specifici ed individualizzati.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
LA CONTINUITÀ ASSISTENZIALE: DIFFERENZE EPIDEMIOLOGICHE E
DISABILITÀ TRA ANZIANI FRAGILI ACCOLTI IN UN NUCLEO RSA CON RETTA
PRIVATA E QUELLI ACCOLTI IN NUCLEO RSA SECONDO LISTA DI ATTESA
Carabellese Corrado, Appollonio Idelbrando Marco1, Spassini William, Trabucchi Marco
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
1 Clinica Neurologia Università Bicocca, Monza
INTRODUZIONE
Gli anziani fragili presentano un diverso ed elevato rischio di instabilità clinica che impatta sulle capacità funzionali.
L’instabilità clinica si correla alla variazione dello stato di salute che porta al Ricovero Ospedaliero, agli
approfondimenti diagnostici o ad un invio al Dipartimento di Emergenza.
Spesso, al termine dell’acuzie il malato anziano fragile presenta una netta variazione delle condizioni
di autonomia rispetto alla fase premorbosa per cui il rientro al domicilio, specie se vive solo o con un caregiver inadeguato, si presenta complesso e ricco di difficoltà.
È ormai condivisa la necessità di disporre di percorsi che affrontino l’instabilità clinica ed i deficit funzionali intercorrenti nell’anziano fragile con l’intento del massimo recupero e della migliore stabilizzazione.
I diversi modelli organizzativi proposti dalla letteratura individuano le sedi delle cure post-acuzie a seconda dell’intensività e presso Unità Ospedaliere, Extraospedaliere, in Strutture apposite (cure intermedie) od in nuclei di RSA.
I familiari degli anziani fragili dopo un evento acuto a volte rilevano la sensazione dell’abbandono da
parte dei servizi di cura socio-sanitari.
In molte condizioni la richiesta dei familiari è l’istituzionalizzazione definitiva, ma ormai l’attesa per
un posto letto in RSA nella città di Brescia si attesta almeno intorno ad un anno di tempo.
OBIETTIVO
In una RSA operante nel territorio del Comune di Brescia è stato attivato dall’Aprile 2009 un settore con
13 posti letto con retta a totale carico della famiglia e senza inserimento in lista di attesa con drastica riduzione del tempo necessario per l’accesso al servizio (anche in giornata).
Verificare le caratteristiche epidemiologiche e di disabilità, all’ingresso, degli ospiti inseriti nel nucleo
non accreditato (RsaNA) dal 1.5.09 al 31.12.09.
Confrontare le differenze delle caratteristiche degli ospiti inseriti nel settore RsaNA e quelli inseriti
nei nuclei accreditati (RsaA).
Verificare la durata del ricovero ed il luogo di trasferimento degli ospiti fragili dopo la fase d’emergenza.
METODOLOGIA
Nel periodo dall’1.5.09 al 31.12.09 sono stati ammessi e dimessi 26 ospiti (Maschi=8; Femmine=18) per
13 posti letto, con età media 85,3.
I parametri considerati sono:
– Demografici (Età, Professione, Convivenza, Motivo della domanda, Provenienza, Durata del ricovero,
Dimissione, Invalidità civile, Classe Sosia)
– Valutazione Multidimensionale (MMSE, Barthel,Tinetti, Norton plus, Numero Diagnosi, CIRS, Lesioni
da decubito, Contenzione, Cadute, Ricovero ospedaliero)
– Partecipazione alle attività di animazione
– Trattamento intensivo in palestra finalizzato al miglioramento della funzionalità motoria.
RISULTATI E CONCLUSIONI
L’organizzazione attuale dell’accesso nelle RSA attraverso la lista d’attesa non risponde al criterio di
urgenza post-acuzia dell’anziano fragile né alla gravità e complessità clinica.
La disponibilità di posti letto di emergenza (in questo caso non accreditati) rappresenta un servizio
che risponde realmente alla gestione di condizioni urgenti di post-acuzie legate prevalentemente ad un
ricovero ospedaliero o di cambiamenti improvvisi della rete di assistenza.
L’accesso al servizio, pur se a costo elevato della retta, conferma la necessità di attivare nelle RSA settori specifici per accogliere temporaneamente anziani fragili in condizione di instabilità post-acuzia.
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LE ALLUCINAZIONI NELLA MALATTIA DI ALZHEIMER E DI PARKINSON:
DIVERSE SFACCETTATURE DI UN UNICO PROBLEMA?
Carotenuto Anna1, Grossi Dario2, Fasanaro Angiola Maria3
1
Dipartimento di Medicina Sperimentale e Sanità Pubblica, Università degli Studi di Camerino
Facoltà di Psicologia, Seconda Università degli Studi di Napoli
3 Unità Valutativa Alzheimer, AORN Cardarelli di Napoli
2
SCOPO
Le allucinazioni caratterizzano sia la malattia di Alzheimer (AD) che di Parkinson (PD). In entrambe le
allucinazioni sono state associate alla disfunzione del sistema frontale (Imamura 2008, Grossi 2005), ma
gli aspetti qualitativi del sintomo sembrano diversi. Obiettivo del lavoro è acquisire, attraverso l’analisi dettagliata della fenomenologia delle allucinazioni in PD e AD, una migliore comprensione della loro genesi.
MATERIALI E METODI
19 soggetti AD lieve moderato con allucinazioni e 18 soggetti PD con allucinazioni sono stati sottoposti ad un questionario volto a valutarne la fenomenologia.Tutti i pazienti avevano almeno due anni di malattia ed in nessuno erano presenti gravi disturbi visivi-uditivi. Il questionario ha indagato: l’ambito sensoriale interessato e la frequenza del fenomeno, la sua qualità, contenuto e durata e la reazione emotiva correlata. Lo stesso questionario è stato somministrato ai care-giver.
RISULTATI
Il 42,1% dei pazienti AD e il 38,88% dei PD riferivano allucinazioni uditive (di cui voci familiari nel
36,8% dei soggetti AD, voci sconosciute nel 33,3% dei PD). Le allucinazioni più frequenti in assoluto in entrambi i gruppi erano tuttavia visive (100% in AD, 100% in PD ) (Figura 1 Tipo di allucinazione). Le immagini percepite erano intere (100% AD; 88,9% PD), i contenuti nei pazienti AD erano persone della famiglia,
spesso la madre (94,7%) ed animali domestici (63,2%); le figure nel 63,2% dei casi erano immobili. Nei PD
le allucinazioni consistevano in persone sconosciute (61,1%), ombre (33,3%), animali sgradevoli (pulci,
ratti) (44,4%) e figure strane ed indefinite (44,4%); nel 55,5% dei casi le immagini percepite erano in movimento (Figura 2 Contenuto delle allucinazioni). Rabbia o paura erano riportate dal 10,5%, degli AD e dal
72,2% dei PD. La risposta del paziente concordava con quella del caregiver nel 100% dei soggetti del gruppo PD. La concordanza era del 21,5% nel gruppo AD (i pazienti negavano il fenomeno).
CONCLUSIONI
I risultati confermano che allucinazioni dei pazienti AD e PD sono diverse: nei primi consistono essenzialmente in immagini richiamate dalla memoria; nei secondi sono caratterizzate da scarsa definibilità e spesso
bizzarre. Proprio per queste caratteristiche, sono associate ad una forte connotazione emotiva. Suggeriamo che
la diversa fenomenologia rifletta disfunzioni diverse. Nell’AD, in cui ad immagini del passato viene data valenza di realtà, sarebbe prevalente, nella loro genesi, il danno della funzione mnesica; nel PD, in cui le immagini
sono bizzarre e poco definite, sarebbe invece prevalente la disfunzione dei processi di identificazione visiva.
Questa interpretazione delle allucinazioni nel PD è in accordo con dati recenti di Fmri,che hanno evidenziato nei PD con allucinazioni (e non nei Pd senza allucinazioni) una ridotta attivazione delle aree visive extrastriate occipito-temporali coinvolte nel processo bottom up di identificazione visiva (Meppelink A.M., 2009).
Fig. 1 Tipo di allucinazione
Fig. 2 Contenuto delle allucinazioni
90
100
90
Frequenza 80
sul
70
campione % 60
50
40
30
20
10
0
80
AD
PD
Frequenza
sul
campione %
70
60
50
AD
PD
40
30
20
10
0
ALL. VISIVE
ALL UDITIVE
ALL.
OLFATTIVE
ALL. TATTILI
ALL. MISTE
PERSONE
ANIMALI
COSE
OMBRE
MACCHIA
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
GIS E TECNICHE DI ANALISI SPAZIALE PER L’OTTIMIZZAZIONE DEI COSTI
E DEI SERVIZI NELLA TELEASSISTENZA DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER
Celona Alessandro, Bonanno Lilla, Spadaro Letteria, Lanzafame Pietro, Bramanti Placido
IRCCS Centro Neurolesi “Bonino-Pulejo” - Messina
SCOPO
La malattia di Alzheimer (MA) è una patologia cronico-degenerativa a progressione lenta e graduale con un
esordio insidioso ed un’iniziale assenza di un quadro neurologico specifico, caratterizzata da disturbi delle
funzioni cognitive, del comportamento e delle abilità di svolgere le normali attività della vita quotidiana. La condizione dei malati di Alzheimer e dei loro familiari appare per molti versi emblematica delle difficoltà del nostro sistema sanitario e socio-assistenziale nell’approntare risposte e soluzioni adeguate per la presa in carico
delle patologie croniche ed invalidanti che possono accompagnarsi alla condizione anziana. La telemedicina
può configurarsi come un intervento integrato, biomedico e psicosociale, di prevenzione secondaria, in cui
un’equipe specializzata si occupa del malato e della sua famiglia e li guida nel decorso della patologia diminuendo lo stress del caregiver e consentendo ai malati di rimanere più a lungo, se non fino alla fine della vita, a casa loro, riducendo, di riflesso, i costi diretti ed indiretti legati agli spostamenti verso l’ambulatorio specialistico. Quando il numero dei pazienti cresce, tuttavia, i costi di gestione della rete tenderebbero a bilanciare i risparmi. Lo scopo dello studio è stato identificare spots regionali che fungessero da stazioni territoriali potenziali per il servizio di telemedicina. Ogni stazione potrebbe essere collocata presso gli ambulatori dei Medici
di Medicina Generale ed usata da un gruppo di pazienti geograficamente connessi. Il servizio di teleassistenza domiciliare potrebbe essere utilizzato solo dai pazienti MA che dispongano una connessione ADSL, riducendo i costi tecnici grazie alla riduzione del numero di stazioni periferiche ed i costi indiretti di assistenza.
MATERIALI E METODI
I dati sono stati raccolti dal Registro Elettronico dei pazienti dell’IRCCS e importati nel database di Telemedicina. Questo database è stato strutturato in modo tale da rendere possibile l’accesso alla scheda anagrafica dei pazienti, al decorso della malattia, alla statistica dei casi e, attraverso il NeuroGIS, di visualizzare
la locazione dei pazienti sulla mappa. Questo sistema prende in considerazione l’indirizzo dei pazienti e lo
converte in coordinate geografiche, latitudine e longitudine, in modo da visualizzare la locazione dei pazienti, la distribuzione dei pazienti sul territorio provinciale e la partizione in cluster. Per ogni paziente è stato creato un vettore di features contenente i seguenti parametri: le coordinate di latitudine e longitudine, i
chilometri, i tempi e i costi impiegati per raggiungere l’IRCCS. Questi ultimi tre parametri sono stati calcolati attraverso il sito Viamichelin. Per la creazione dei cluster è stato usato il metodo di Poisson che ha portato, oltre alla creazione dei cluster, anche all’individuazione degli hot-spots (centroidi dei cluster) per la
pianificazione delle nuove stazioni di telemedicina. Successivamente è stato ricreato un vettore di features
sempre con gli stessi parametri, ma calcolati dal domicilio del paziente agli hot-spots.Tale vettore di feature è stato confrontato con quello creato inizialmente mediante un’analisi di Wilcoxon per dati appaiati.
RISULTATI
I pazienti considerati sono stati 149. Sono stati identificati cinque cluster. La distanza media dal domicilio di ogni paziente al relativo hot-spot è risultata significativamente più bassa rispetto alla distanza dal
domicilio all’IRCCS (16.04 Km vs 31.96 Km, p<0.0001). È stata stimata anche la riduzione dei costi per i
pazienti MA ed i caregiver associando il servizio di telemedicina in termini di ore extra lavorative.
CONCLUSIONE
La Telemedicina permette un’interazione tra i pazienti MA e lo staff medico del Centro di Riferimento
tramite il relativo hot-spot. Ciò comporta un vantaggio per i pazienti con grave disabilità e limitata autonomia che abitano lontano dal Centro. Con l’individuazione degli hot-spots è stato possibile notare una riduzione dei costi e delle distanze (p<0.0001), ma la stessa cosa non si può dire per il tempo, poiché non è stato ottenuto un risultato statisticamente significativo (p=0.332). Ciò è dovuto al fatto che la maggior parte
dei pazienti, residenti in territorio extracittadino (55.7%), percorrerebbe tragitti autostradali per raggiungere l’IRCCS; di contra i tragitti per raggiungere gli hot-spot sono risultati, tipicamente, strade statali o provinciali a ridotta velocità di percorrenza.
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CORRELAZIONE TRA DIABETE MELLITO DI TIPO 2°, LIVELLI PLASMATICI
DI OMOCISTEINA E FUNZIONI COGNITIVE IN ANZIANI ISTITUZIONALIZZATI
Chiarello Antonino1, Cucchi Giacomo1, Nespoli Chiara1, Giulivi Ivana1, Gaimarri Barbara1,
Celi Maria Cristina2
1
2
RSA Fondazione “Francesco Balicco” di Martinengo (Bg)
Medico specializzando
SCOPO
Scopo del lavoro è stato quello di dimostrare se elevati livelli plasmatici di omocisteina nel paziente diabetico anziano sono associati a deterioramento cognitivo di grado severo.
MATERIALI E METODI
Sono stati arruolati 25 ospiti affetti da diabete mellito di tipo 2°, 10 maschi (40%) e 15 femmine (60%)
di età compresa tra 67 e 98 anni (età media 83 anni), in trattamento (10) con insulina e (15) con ipoglicemizzanti orali.Tutti gli ospiti presentavano una dipendenza da moderata a totale nello svolgimento delle attività basilari della vita quotidiana, valutata con l’Indice di Barthel ed erano affetti da grave comorbilità. La
valutazione è stata effettuata nel periodo compreso tra dicembre 2009 e gennaio 2010. Le funzioni cognitive sono state valutate con i seguenti test psicometrici: Mini Mental State Examination (di Folstein et al. 1975),
corretto per età e scolarità; dove non somministrabile abbiamo usato la Bedford Alzheimer Severity Scale
(BANNS) (di Volicer et al. 1994). La stadiazione della demenza è stata determinata dalla Clinical Dementia Rating Scale (CDR) estesa (Hughes et al. 1982; Heyman et al. 1987). Inoltre, abbiamo effettuato il dosaggio plasmatici dell’omocisteina (valore normale inferiore a 13 mcM/l) insieme a glicemia a digiuno, emoglobina glicosilata, PCR, vitamina B12 ed acido folico. L’omocisteina è un amminoacido solforato, che si forma in seguito alla perdita del gruppo metilico da parte della metionina. Numerosi studi clinici hanno dimostrato una relazione tra l’iperomocisteinemia, le malattie cerebro-vascolari e la demenza di Alzheimer.
RISULTATI
I risultati dimostrano che solo 6 pazienti (24%) dei 25 hanno valori normali di omocisteina (tra 8 e 12
mcM/l); dei 6 pazienti: 2 (8%) presentano funzioni cognitive integre (MMSE: tra 24/30 e 28,3/30); 2 (8%) con
deterioramento cognitivo di grado moderato (MMSE tra 15,2/30 e 16,4/30) e CDR 2; gli altri 2 pazienti
(8%) hanno un deterioramento cognitivo di grado severo con BANNS tra 19/28 e 23/28 e CDR tra 4 e 5. I
rimanenti 19 pazienti (76%) presentano livelli plasmatici di omocisteina compresi (tra 13 e 47 mcM/l); dei
19: 14 pazienti (56%) sono affetti da un deterioramento cognitivo variabile tra lieve-moderato e grave
(MMSE tra 9/30 e 21,3/30) e CDR tra 1 e 3; 5 pazienti (20%) presentano deterioramento cognitivo di grado severo (BANNS tra 17/28 e 23/28) e CDR tra 4 e 5. Il nostro lavoro dimostra che non esiste una correlazione significativa tra elevati valori di omocisteina e severità della demenza nel paziente diabetico residente nella nostra RSA.
CONCLUSIONE
Il dosaggio plasmatico dell’omocisteina rappresenta, comunque un utile strumento di valutazione del
danno ossidativo, soprattutto nel paziente geriatrico affetto da diabete mellito, patologia in cui è elevato lo
stress ossidativo e che sicuramente contribuisce ad accelerare il declino cognitivo e funzionale; pertanto,
in ambito residenziale va incoraggiato l’utilizzo di acido folico, vitamina B12 e B6, capaci di contenere gli
elevati livelli di omocisteina.
BIBLIOGRAFIA
1
Herman W, Knapp JP. Hyperhomocysteinemia: a new risk factor for neurodegenerative disease. Clin Lab 2002; 48: 471-81.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
ANALISI STATISTICA DESCRITTIVA DEI PAZIENTI VALUTATI PER ESAME
NEUROCOGNITIVO DALL’AZIENDA SANITARIA LOCALE D.S.M. SERVIZIO
DI PSICOLOGIA CLINICA E DI PSICOTERAPIA DELL’ETÀ ADULTA
E DELL’ETÀ EVOLUTIVA DI TARANTO (STUDIO PILOTA)
Chiloiro Dora1,2, Scapati Francesco3, Battaglia Daniela2, Cetera Nicola2, Zinzi Ettore2
1
Unità di Psicologia Clinica Ospedaliera ASL Taranto
Gruppo di ricerca clinica neurocognitiva
3 Direttore Dipartimento di Salute Mentale ASL Taranto
2
SCOPO
Effettuare uno studio pilota (unico nel territorio), osservazionale e statistico di elaborazione dati su
801 utenti afferenti al Servizio di Psicologia Clinica Ospedaliera dell’Azienda Sanitaria Locale di Taranto
per sospetto di deterioramento neurocognitivo.
È stato possibile evidenziare la percentuale di pazienti visitati che risultasse affetta da un processo degenerativo dementigeno in atto; verificare e valutare le caratteristiche del campione a disposizione per far
emergere le eventuali connessioni tra variabili socio-demografiche e neuropsicologiche; individuare gli
eventuali fattori correlati alla patologia.
MATERIALI E METODI
Sono state esaminate le relazioni diagnostiche di utenti inviati al Servizio di Psicologia Clinica Ospedaliera da medici di base, neurologi e dalla commissione invalidi civili.
La richiesta con la quale gli utenti afferivano era quella di “colloquio clinico psicologico e test deterioramento cognitivo”.
Il nostro campione è composto da 801 pazienti (459 donne e 342 uomini; età media= 70.14 anni, D.S.=
10.9; anni di scolarità= 6.58, D.S.= 4.17) afferiti al Servizio nell’arco temporale che va dal Gennaio 2001 al
Luglio 2008 distribuiti su tutto il territorio di Taranto e provincia.
Il metodo utilizzato è stato quello della valutazione neuropsicologica (raccordo anamnestico, osservazione psicologica, somministrazione testistica, scoring e diagnosi) del campione a disposizione grazie al quale sono stati estrapolati i seguenti dati:
a) variabili demografiche: numero, età, sesso, provenienza, anno di valutazione, scolarità, professione lavorativa;
b) variabili diagnostiche rilevate con: B.A.D.L., I.A.D.L., M.M.S.E., M.O.D.A., A.D.A.S., Depression scale,
Scheda 8 del C.B.A.;
c) variabili di comorbidità (presenza di patologia organica o psicopatologica);
Per l’inserimento dei dati e la successiva elaborazione statistica descrittiva è stato utilizzato il Software computerizzato SPSS 15.0 per Windows.
RISULTATI
Tra gli afferenti al Servizio nel corso dei sette anni (gennaio 2001-luglio 2008) è emerso come dato
principale che il 60.85% del campione presenta un processo degenerativo primitivo dell’encefalo. Sono
emerse le percentuali demografiche del campione, risultando infatti che il maggior numero di afferenti al
servizio è di sesso femminile (57.3%); la fascia di età risulta essere compresa tra 75-84 anni (36.33%); la
diagnosi più frequente risulta essere il “deterioramento cognitivo medio” (22.10%). Sono state ricavate le
percentuali di comorbidità psicopatologica e organica; pazienti sottoposti ad esame neurocognitivo infatti presentano maggiore comorbidità di tipo psicopatologico rispetto a quella di tipo organico.
Le percentuali ricavate sono state successivamente incrociate in modo da ricavarne eventuali relazioni e fattori predittivi di rischio.
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CONCLUSIONE
Nell’ambito del gruppo dei soggetti esaminati il 77% di essi ha dimostrato nel complesso la presenza
di disturbi cognitivi per i quali sarebbe opportuna la programmazione di successivi follow-up necessari per
monitorare il decorso della patologia. In virtù di tali risultati, oltre ai programmi sperimentali di trattamento farmacologico è indispensabile l’inserimento degli stessi pazienti in uno specifico programma di training
riabilitativo di stimolazione cognitiva che, come già condiviso dalla letteratura scientifica, rallenterebbe
l’evoluzione della malattia.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
DISORDINI GRAVI DI TIPO PSICHIATRICO IN CORSO DI DETERIORAMENTO
COGNITIVO E RISPOSTA CLINICA AL TRATTAMENTO CON ANTIPSICOTICI
ATIPICI IN STRUTTURE PROTETTE
Chinni Clelia, Leuci Emanuela
CSM est AUSL Parma
SCOPO
Si valuta la risposta al trattamento di psicopatologie gravi insorte in corso di deterioramento cognitivo in soggetti anziani rispetto all’adattamento ed alla cura in case di riposo con terapie di antipsicotici atipici rispetto all’uso di neurolettici
MATERIALI E METODI
Soggetti d’età compresa tra i 70 e 98 anni, ospiti di strutture protette che presentano fenomeni psicosensoriali e tematiche deliranti, agitazione psicomotoria, abulia e anedonia concomitanti a problematiche
legate a deterioramento cognitivo nel corso di dieci anni in strutture protette vengono valutati al fine di
verificare l’effettiva utilità e necessità degli antipsicotici atipici rispetto ai neurolettici.
RISULTATI
Significativa riduzione della componente anedonica e anche della fase agitato-confusa.
Una migliore accettazione dell’istituzione tramite la consapevolezza che i problemi psichiatrici acuti e
cronici strettamente legati a problematiche mediche dello stesso tipo possono essere gestite positivamente determinando maggiore consapevolezza terapeutica e fiducia nell’equipe curante rispetto alle patologie gravi dell’anziano istituzionalizzato implementando anche attività risocializzanti, ricreative, di gruppo
che migliorano la domiciliarità istituzionale.
CONCLUSIONE
Gli aspetti più eclatanti della gestione in casa protetta del paziente anziano grave, sebbene siano anche
rapidamente gestibili con neurolettici di prima generazione risentono pesantemente degli effetti collaterali di questi farmaci; si riscontra invece un miglioramento globale del problema condiviso anche dagli
operatori (MMG, cash manager, infermieri) con l’uso di antipsicotici atipici: migliore compliance, riduzione significativa dell’anedonia, tranquillizzazione senza che ciò determini effetti collaterali, quali: cadute,
distonie, depressione, ecc.
Quanto sopraesposto sembra determinante nella terapia dei pazienti anziani istituzionalizzati in parte
legato al senso di utilità e fiducia che anche nelle malattie croniche gravi o gravissime si possa recuperare il senso d’inutilità ed abbandono.
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VALUTAZIONE DELLA PROGRESSIONE DI MALATTIA IN PAZIENTI
CON MCI MEDIANTE SPECT CEREBRALE PERFUSIONALE E VALUTAZIONE
NEUROPSICOLOGICA
Chiovino Roberto1, Carbonero Claudio2, Bertuccio Giovanni2, Canavese Giacomo2
1
2
Equipe Specialistica Ambulatoriale delle discipline neurologiche e geriatriche ASL TO 5
S.C. Medicina Nucleare Ospedale Santa Croce ASL TO 5 Moncalieri
SCOPO
Il lavoro è stato finalizzato a dimostrare il valore predittivo dello studio del flusso ematico cerebrale mediante SPECT perfusionale in Pazienti con Mild Cognitive Impairment (MCI) onde valutare precocemente quali di questi fossero soggetti ad una evoluzione in Demenza di Alzheimer.
MATERIALI E METODI
Sono stati reclutati 32 pazienti (18 maschi e 14 Femmine; età media 73 anni ±3,4) con diagnosi clinica di MCI i quali presentavano un disturbo isolato di memoria con funzionamento cognitivo sostanzialmente integro sui restanti versanti.Tutti i pazienti sono stati sottoposti a valutazione neuropsicologica e quindi ad una SPECT Cerebrale Perfusionale con 99mTC-HMPAO. È stata quindi eseguita un’analisi semiquantitativa mediante posizionamento di regioni di interesse (ROI) onde valutare specificamente il metabolismo
sui giri ippocampali e preippocampali, sulla corteccia temporale e parietale, sul precuneo e sul giro cingolato posteriore ed una ROI di background posta sul cervelletto come riferimento. I pazienti sono stati seguiti ambulatorialmente per due anni dal 2006 al 2008 e sottoposti a distanza di un anno ad una seconda
valutazione neuropsicologica e quindi ad una SPECT di controllo.
RISULTATI
Dei 32 pazienti iniziali 4 risultavano persi al follow-up. Dei restanti 28, attraverso un confronto tra i risultati della valutazione neuropsicologica e della SPECT si sono distinte due popolazioni: la prima (18 pazienti) in cui i valori risultavano sostanzialmente invariati per cui sono stati considerati “Non-Converter”
(NC), ed una seconda (10 pazienti), con variazioni significative dei valori, che sono stati definiti Alzheimer
Disease “Converter” (ADC), in quanto dimostravano un’evoluzione verso una demenza di Alzheimer. In particolare nel gruppo NC il rapporto del flusso ematico cerebrale (rCBF ratio) nelle regioni prese in esame
tra la prima e la seconda SPECT non risultava significativamente variato, così come il punteggio dei test neuropsicologici; al contrario nel gruppo ADC si assisteva ad una variazione significativa tra l’indagine SPECT
basale e quella di follow-up, in particolare a livello del precuneo e del giro cingolato posteriore, unitamente ad una riduzione dei punteggi ai test neuropsicologici (vedi tabella).
CONCLUSIONE
La SPECT cerebrale perfusionale, unitamente alla valutazione neuropsicologica, si è dimostrata un efficace strumento predittore per discriminare precocemente, in una popolazione di soggetti con MCI, quali
di questi presentassero un’evoluzione di malattia e quindi formulare una diagnosi precoce di demenza di
Alzheimer.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
CATEGORIA
NC
ADC
REGIONI DI
INTERESSE
SPECT 1
(rCBF ratio)
SPECT 2
(rCBF ratio)
Ippocampo
0,987±0,045
0,978±0,051
Temporale
1,003±0,038
0,998±0,042
Parietale
1,018±0,057
1,010±0,076
Precuneo
0,995±0,062
0,989±0,082
Giro Cingolato
0,973±0,012
0,985±0,017
Ippocampo
0,932±0,043
0,918±0,047
Temporale
0,998±0,021
0,932±0,037
Parietale
1,002±0,019
0,974±0,052
Precuneo
0,992±0,065
0,835±0,042
Giro Cingolato
0,986±0,053
0,865±0,031
MMSE 1
(media)
MMSE 2
(media)
29,2±0,065
28,9±0,058
28,7±0,036
26,2±0,098
Psicogeriatria 110 SUPP B:Psicogeritria Supplemento B
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ABSTRACTS
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RIABILITAZIONE COGNITIVA IN UN GRUPPO DI PAZIENTI ANZIANI
AFFETTI DA DEMENZA VASCOLARE
Cianflone Debora, Malara Alba, Sgrò Giovanni, Garo Michele
RSA Villa Elisabetta, Cortale, Catanzaro
SCOPO
La demenza vascolare (VaD) è la seconda forma di demenza dopo la malattia di Alzheimer. I criteri più utilizzati per la diagnosi di demenza vascolare sono quelli del NIDNDS-AIREN e il DSM IV. Elementi caratterizzanti per la diagnosi sono il deficit di memoria, una storia clinica di stroke, la presenza al neuroimaging di lesioni focali vascolari e/o multi-infartualità e/o alterazioni diffuse della sostanza bianca periventricolare, associazione temporale tra l’ictus e la comparsa della demenza. Dal punto di vista cognitivo, oltre dal deficit mnesico, è caratterizzato da disturbi delle funzioni esecutive, da rallentamento del processo delle informazioni, da
cambiamenti del carattere e del tono dell’umore. Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare l’efficacia del trattamento riabilitativo-cognitivo su un gruppo di pazienti affetti da demenza vascolare.
MATERIALI E METODI
Sono stati esaminati i 21 ospiti attualmente ricoverati presso la nostra RSA, e di questi sono stati selezionati quelli che all’ingresso avevano diagnosi di demenza vascolare, oppure di vasculopatia cerebrale associata a deterioramento cognitivo. I sei pazienti così selezionati sono stati sottoposti a rivalutazione diagnostica con l’applicazione dei criteri NIDNDS-AIREN e DSM IV. I 5 ospiti che rispettavano i criteri per VaD
sono stati sottoposti ad un periodo di trattamento della durata di due mesi, con sedute bisettimanali -individuali e di gruppo- della durata di 50 minuti. Le tecniche utilizzate sono state la ROT, il Memory Training,
Life Review Therapy, mentre la valutazione è stata fatta con il MMSE, il Test di riconoscimento delle 15 parole di Rey, il Raccontino di Babcock, la GDS, la Cornel Scale for Depression in Dementia (CSDD), la NPI.
Durante il periodo di trattamento la terapia psicoattiva è rimasta invariata.
RISULTATI
I cinque ospiti selezionati, tutte donne, avevano
un’età media di 84,8 anni. In due pazienti, prima, e in
3 pazienti dopo il trattamento non è stato possibile
somministrare la GDS. Dall’analisi si evince che il
punteggio medio ottenuto al MMSE è stato di 8,8
prima del trattamento e di 10,2 dopo il trattamento.
Il punteggio medio ottenuto alla GDS è risultato di 4
ed è rimasto invariato prima e dopo il trattamento.
Il punteggio medio ottenuto alla CSDD è stato di 5,6
prima del trattamento e di 9,2 dopo il trattamento.
Il punteggio medio ottenuto alla NPI è risultato di
30 prima e di 18,8 dopo il trattamento.
CONCLUSIONE
Dai risultati ottenuti emerge un lieve miglioramento del deficit cognitivo nei pazienti trattati mentre si
osserva un peggioramento del disturbo depressivo. Significativo il miglioramento ottenuto sui disturbi del
comportamento nel gruppo dei pazienti trattati.
BIBLIOGRAFIA
1
Roman GC et al.Vascular dementia: diagnostic criteria for reserch studies. Report of the NINDS-AIREN. Neurology 1993; 43:250.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
ALTERATA DISTRIBUZIONE DELLE CELLULE DENDRITICHE CIRCOLANTI
IN PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER
Ciaramella Antonio1, Vanni Diego1, Bizzoni Federica1, Salani Francesca1, Caltagirone Carlo1,2,
Spalletta Gianfranco1, Bossù Paola1
1
2
IRCCS Fondazione Santa Lucia, Roma
Università di Roma “Tor Vergata”, Dipartimento di Neuroscienze
SCOPO
Negli ultimi anni numerosi studi hanno evidenziato che le cellule del sistema immune ed i processi infiammatori svolgono un ruolo importante nello sviluppo e l’amplificazione della malattia di Alzheimer (AD).
Le cellule dendritiche (DC) rappresentano gli attori principali delle risposte immuni in quanto sono l’unico tipo cellulare in grado di innescare le risposte primarie. Inoltre, esercitano una notevole capacità di regolazione dei fenomeni infiammatori attraverso il contatto diretto con le altre cellule e tramite il rilascio di
mediatori solubili: principalmente citochine e chemochine. Da studi precedentemente condotti nel nostro
laboratorio sul possibile coinvolgimento delle DC nell’AD è emerso che queste cellule, quando generate in
vitro da donatori sani ed in presenza di amiloide beta 1-42, manifestano una ridotta capacità di presentare
l’antigene ed un’aumentata propensione a produrre citochine proinfiammatorie. Parallelamente, se queste
cellule vengono generate in vitro da precursori mieloidi ottenuti da pazienti AD, è stato osservato un alterato fenotipo di membrana, una ridotta capacità di presentare l’antigene ed una aumentata propensione a
produrre interleuchina-6 rispetto a donatori anziani sani. Nel loro insieme, questi studi evidenziano che i precursori mieloidi delle DC sono alterati negli AD e che l’amiloide beta esercita un importante ruolo nel dirigere il differenziamento di queste cellule. Fatte queste premesse, lo scopo di questo studio è stato quello di
verificare se, nel corso dello sviluppo dell’AD, si verifichino delle alterazioni a carico delle principali popolazioni di DC già presenti nel sangue periferico (DC mieloidi, mDC e DC plasmacitoidi, pDC).
MATERIALI E METODI
I leucociti del sangue periferico sono stati ottenuti dal sangue intero tramite prelievo venoso di donatori sani (CTR, n=50), di soggetti con deficit cognitivo lieve (MCI, n= 78) e pazienti AD (n= 60), confrontabili per età e genere. I globuli rossi sono stati rimossi tramite l’utilizzo di una soluzione lisante ed i leucociti così ottenuti sono stati marcati con anticorpi monoclonali specifici. Quindi, le cellule, lavate e risospese in PBS, sono state acquisite ed analizzate tramite citometria a flusso.
RISULTATI
Dall’analisi citofluorimetrica è stato evidenziato che la percentuale di mDC era significativamente ridotta nei donatori AD rispetto ai CTR (p=0.0031) e agli MCI (p=0.003), risultando diminuita negli AD del
27% confronto ai CTR e del 22% confronto agli MCI. Analogamente, dall’analisi delle pDC è stato osservato che la percentuale era significativamente ridotta nei donatori AD rispetto ai CTR (p=0.0035) e agli MCI
(p=0.003), risultando diminuita negli AD del 29% confronto ai CTR e del 23% confronto agli MCI.
CONCLUSIONE
Questi dati dimostrano la presenza di alterazioni nell’omeostasi delle DC circolanti in pazienti affetti da
AD ma non negli MCI, cioè nei donatori che manifestano la forma preclinica di demenza di AD. Quindi è
plausibile ipotizzare che il decremento delle DC circolanti osservato nei pazienti AD potrebbe essere dovuto ad un aumento del richiamo di queste cellule a livello cerebrale, forse indotto dagli elevati livelli di
amiloide beta accumulati nel cervello dei pazienti. Questo studio conferma che, il sistema immunitario innato dei soggetti che soffrono di neurodegenerazione cronica, presenta specifiche modificazioni fisiopatologiche anche a livello periferico, proponendo le DC circolanti quali potenziali marcatori cellulari per il
monitoraggio dei parametri infiammatori legati alla neurodegenerazione dell’AD.
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LA PARTECIPAZIONE ALLA RICERCA DEI SOGGETTI INCAPACI AFFETTI
DA DEMENZA È GARANTITA DALLA LEGGE ITALIANA?
Clerici Francesca1, Gainotti Sabina2, Fusari Imperatori Susanna1, Spila-Alegiani Stefania2,
Maggiore Laura1, Vanacore Nicola2, Petrini Carlo3, Raschetti Roberto2, Mariani Claudio1
1 Centro
per il Trattamento e lo Studio dei Disturbi Cognitivi, Clinica Neurologica, Ospedale Luigi Sacco Milano, Italia
Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute, Istituto Superiore di Sanità, Roma, Italia
3 Unità di Bioetica, Presidenza, Istituto Superiore di Sanità, Roma, Italia
2 Centro
SCOPO
In Italia la partecipazione alla ricerca dei soggetti incapaci è subordinata alla sottoscrizione del consenso informato da parte di un rappresentante legale (decreto legislativo 211/2003). Scopi dello studio sono:
indagare i tempi di nomina di un Amministratore di Sostegno (AdS) (legge 6/2004) ed individuare possibili variabili predittive di nomina dell’AdS.
MATERIALI E METODI
Dal 15/7/2007 al 15/9/2009 la legge 6/2004 è stata presentata a 172 pazienti dementi afferenti all’Ospedale L. Sacco ed ai loro famigliari. Di ogni paziente, al momento della presentazione della legge, sono state raccolte le seguenti informazioni: età, sesso, scolarità, stato civile, numero di figli, care-giver di riferimento, presenza di badante, punteggio di Mini Mental State Examination, di Activities of Daily Living e di Instrumental Activities of Daily Living, presenza di disturbi psico-comportamentali (psicosi, aggressività, insonnia),
trattamento in atto con farmaci attivi sul sistema nervoso centrale (memantina,AChE-Is, antipsicotici, antidepressivi, benzodiazepine).Ad ogni visita di controllo veniva monitorato l’avvenuto deposito dell’istanza
di nomina di AdS. In caso di nomina dell’AdS, dalla sentenza cartacea sono state desunte: data del deposito dell’istanza, data della sentenza, persona designata a ricoprire il ruolo di AdS. In caso di non attivazione
della procedura sono state raccolte le motivazioni. È stata condotta un’analisi logistica multivariata per valutare la presenza di possibili variabili predittive di nomina dell’AdS.
RISULTATI
Per 3 dei 172 pazienti inclusi nello studio la procedura di nomina dell’AdS era già in corso all’atto della nostra presentazione della legge. In 78/169 casi (46,2%) dopo la presentazione della legge, l’istanza di nomina
dell’AdS è stata depositata dai famigliari presso il tribunale.Tra la presentazione della legge e il deposito dell’istanza sono intercorsi mediamente due mesi (mediana 57 giorni). 55/78 richieste (70,5%) sono state evase dai tribunali, nominando un AdS.Tra il deposito dell’istanza e la sentenza sono intercorsi mediamente 4 mesi (mediana 121 giorni). Nella quasi totalità dei casi l’AdS è un famigliare. I pazienti per i quali la procedura è stata attivata hanno una storia più lunga di demenza rispetto a quelli per cui non è stata attivata (2.3±2.2 vs 1.6±1.8 anni; p=0.02). L’analisi multivariata evidenzia che la nomina dell’AdS ha maggiore probabilità di essere attivata nei
soggetti più giovani (<80 vs >80 anni, OR 2,40; 95%CI 1.03-5.53), con un numero minore di figli (<2 vs ≥2, OR
2,20; 95%IC 1,02-4,74) ed in coloro che sono in trattamento con memantina (OR 4.93; 95%CI 1.01-24.12).
CONCLUSIONE
L’obbligo che un rappresentante legale sia nominato dal tribunale può ostacolare la partecipazione dei soggetti dementi alla ricerca, poiché i tempi di applicazione della legge sono lunghi ed i famigliari incontrano difficoltà nella procedura. Inoltre, la nomina di un AdS ha maggiore probabilità di andare a buon fine in alcune
categorie di pazienti (quali i pazienti stabilmente agganciati al Centro dal meccanismo della rimborsabilità dei
farmaci ed i pazienti con un nucleo famigliare piccolo). Il sistema vigente in Italia non sembra in grado di bilanciare le esigenze di protezione dei soggetti incapaci con il diritto dei medesimi di partecipare alla ricerca.
Ringraziamenti: Questo studio è stato parzialmente sponsorizzato dall’Agenzia Italiana del Farmaco
(AIFA) nell’ambito del programma per la ricerca indipendente sui farmaci 2006 (contratto n.
FARM68SY5C, studio AdCare) e dalla “Associazione per la Ricerca sulle Demenze- ARD ONLUS”.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
“SOGNI E BISOGNI”: PROGETTO DI PSICOTERAPIA DI GRUPPO IN RSA
Collufio Anna Maria, Zaccari Paolo, Alvarez Ana, Fontanarosa Rosa, Maliardi Michela,
Marsiletti Francesca, Guglielmi Luisa
Fondazione Giroldi Forcella Ugoni, Pontevico (BS)
SCOPO
Nella nostra RSA abbiamo avviato dal 2008 un gruppo di psicoterapia con lo scopo di: stimolare ricordi e quindi tenere viva la memoria a lungo termine; rafforzare la memoria a breve termine; favorire la verbalizzazione di eventuali disagi e far emergere aspettative e bisogni attuali, spesso negati a livello cosciente; favorire la socializzazione.
MATERIALI E METODI
La selezione degli utenti è stata fatta in seguito ad una valutazione multidimensionale: sono state ammesse al gruppo le persone con un Mini Mental State Examination (MMSE) superiore a 18 ed un punteggio
al Neuropsichiatric Inventory (NPI) inferiore a 20. In base alla valutazione effettuata, si sono svolte 3 sedute “di approccio”, una alla settimana, della durata di circa 1 ora, per valutare la compatibilità e la coesione dei
componenti.A tali sedute preliminari erano presenti circa 14 utenti. Sulla base delle osservazioni condotte,
il gruppo è stato suddiviso in due sottogruppi: nel primo sono confluiti gli anziani con un livello cognitivo
più elevato (MMSE >25); nel secondo le persone più compromesse dal punto di vista cognitivo. Gli anziani
sono invitati durante una seduta settimanale a raccontare a tutti i presenti, seduti in semicerchio, i loro sogni, anche quelli fatti “a occhi aperti”. Durante le sedute, i partecipanti vengono invitati a fornire un’interpretazione personale o di gruppo ed a fare libere associazioni con la loro vita presente e passata. Per verificare l’efficacia dell’intervento, sono stati presi in considerazione gli item del NPI (frequenza x gravità) riguardanti depressione ed ansia, misurando tali indicatori al T0, dopo 6 mesi e dopo 1 anno.
RISULTATI
Inizialmente, da parte dei partecipanti è emersa una forte resistenza ad esternare in un contesto non familiare aspetti così intimi della propria vita. La psicoterapeuta ha dunque avviato il primo incontro leggendo un sogno di un altro gruppo di psicoterapia. Su questo spunto, gli anziani presenti hanno espresso le loro riflessioni e le libere associazioni mediate dai loro vissuti. Questo provvedimento ha permesso di “rompere il ghiaccio” e di far comprendere la metodologia di lavoro. I contributi degli utenti sono andati via, via
aumentando: i primi sogni raccontati riguardavano nella quasi totalità dei casi persone care decedute. Il clima creatosi, intessuto di emozioni forti e partecipate, è stato in alcuni momenti anche difficile da gestire. In
seguito, i temi emersi riguardavano la sfera dell’affettività, della sessualità, dell’aggressività, del narcisismo, dell’abbandono, della malattia, della morte. Sono stati raccontati sogni legati all’autostima, sogni legati a sensazione di vergogna, o quelli nei quali il soggetto mette in scena la sensazione di essere stato emarginato dai
giovani. Dallo sviluppo delle sedute successive, sono emersi anche i bisogni, non solo contingenti (di riuscire a camminare meglio, di non avere dolori, di avere maggiore presenza dei figli) ma anche ricchi di progettualità. Inoltre si è evidenziata una forte attenzione per il “mondo” e quindi per tutti gli avvenimenti di rilevanza sociale e di attualità. Per quanto riguarda gli indicatori presi in esame, a T 6mesi e T 1 anno si registra
un miglioramento sia della depressione (valori medi T0: 2,74; valori medi T1anno: 1,05) che dell’ansia (valori medi T0: 2,04; val.med.T1anno: 1,3). Per quanto riguarda i valori del MMSE, non si è evidenziato alcun miglioramento, ma solo un prevedibile lieve declino, compatibile con l’età e le patologie in atto.
CONCLUSIONE
Dopo circa due anni di attività, abbiamo potuto constatare il gradimento dei partecipanti, che non perdono una seduta e si dimostrano sempre più coinvolti. Si è registrata una riduzione dei sintomi depressivi
ed ansiosi. L’obiettivo della socializzazione è stato completamente raggiunto: nel corso delle sedute, si è creato un clima empatico, in cui gli utenti si sentono liberi di esprimersi.
BIBLIOGRAFIA
Freud S. L’interpretazione dei sogni;Totem e tabù.
Jung CG. L’analisi dei sogni (1909) Considerazioni generali sulla psicologia del sogno(1916),Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1934.
De Polo R. La bussola psicoanalitica tra individuo, gruppo e società, 2007.
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L’ASSISTENZA QUOTIDIANA NELLA DEMENZA FRONTALE IN PAZIENTI
CON DISINIBIZIONE O APATIA: IL CARICO ASSISTENZIALE A CONFRONTO
Conchiglia Giovannina1, Frantone Caterina1, Abitabile Marianna, Vitelli Alessandra,
Canonico Vincenzo, Rengo Franco
1 Alma
Mater s.p.a Fondazione Villa Camaldoli Napoli
Università degli Studi di Napoli, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Cattedra di Geriatria
SCOPO
Lesioni focali o degenerative a carico delle aree frontali possono produrre quadri clinici caratterizzati da
disfunzioni cognitive cui si associano disturbi della motivazione, quali apatia, e disturbi da disinibizione.
L’apatia può essere descritta come la riduzione dei comportamenti diretti al raggiungimento di un fine per
mancanza di motivazione, mentre il comportamento disinibito può esprimersi in maniera piuttosto eterogenea con atteggiamenti socialmente inappropriati, aggressività verbale e fisica, impulsività, irascibilità.
MATERIALI E METODI
Abbiamo messo a confronto le differenti modalità di presa in carico, da parte dei caregiver, di due pazienti maschi con pari scolarità ed età, entrambi con danno frontale, l’uno con disturbi del comportamento disinibito, l’altro con franca apatia. Abbiamo, inoltre, analizzato come tali disturbi del comportamento si ripercuotono sulla qualità di vita dei due soggetti reclutati e delle loro stesse famiglie.A tale scopo è stata utilizzata una batteria neuropsicologica costituita da uno screening cognitivo generale (M.M.S.E., F.A.B) ed una
serie di test che valutano i disturbi cognitivi di serie frontale, le abilità mnesiche, quelle prassico-costruttive e logico-astrattive. Sono state utilizzate, inoltre, alcune scale cognitivo-comportamentali quali il Frontal Behaviour Inventory (FBI) ed il Neuropsychiatric Inventory (NPI), per meglio indagare la presenza dei deficit
del controllo inibitorio, e scale comportamentali-affettive come l’Apathy Evaluation Scale (AES) ed il Beck
Depression Inventory (BDI). L’impatto sociale, emotivo e comportamentale che l’assistenza ai due soggetti
reclutati può avere sui caregiver, è stato valutato attraverso l’utilizzo dell’Inventario del Carico Assistenziale (CBI). Entrambi i pazienti, oggetto del nostro studio, sono stati sottoposti alla medesima batteria neuropsicologica e comportamentale, in modo da poter comparare i punteggi ottenuti ai test somministrati.
RISULTATI
Dalla valutazione neuropsicologica effettuata, è emerso che i due pazienti mostrano quadri cognitivi sovrapponibili per quanto riguarda la presenza di disturbi a carico delle funzioni esecutive, con particolare
compromissione delle capacità di problem solving, di ricerca lessicale ordinata per categorie e per fonemi, di pianificazione ed organizzazione visuo-spaziale. Inoltre, si evidenziano difficoltà a carico delle abilità di giudizio logico-verbale, incapacità di inibire risposte precedentemente apprese ed una severa sensibilità all’interferenza. Per quanto riguarda l’osservazione e la valutazione comportamentale, i due pazienti
presentano un quadro clinico fenomenologicamente differente e soprattutto significativamente diverso
risulta il vissuto dei caregiver.
CONCLUSIONI
Nella demenza frontale il carico assistenziale per i caregiver è differente secondo la sintomatologia
presentata dal paziente. Da un punto di vista quantitativo, infatti, confrontando le risposte dei caregiver all’item dell’NPI disagio psicologico, cioè il grado di stress che comporta l’assistenza ad un paziente con disturbi del comportamento, è possibile osservare come il punteggio totale a tale item sia significativamente maggiore nel caso del caregiver del paziente con comportamento disinibito rispetto a quello del paziente apatico. Da un punto di vista qualitativo, le differenze che emergono nella gestione dei due diversi
tipi di pazienti sono riconducibili al maggiore carico oggettivo per il caregiver del paziente con comportamento disinibito; i familiari infatti, lamentano spesso notevole diminuzione del tempo da dedicare a se stessi, ai propri interessi ed un rilevante carico emotivo legato alla presenza di sentimenti di vergogna ed imbarazzo vissuti nei confronti del proprio familiare.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
QUADRO NEUROPSICOLOGICO DI UNA PAZIENTE AFFETTA
DA DEGENERAZIONE CORTICOBASALE.
ANALISI RETROSPETTIVA DELL’EVOLUZIONE IN 5 ANNI DI MALATTIA
Cornali Cristina1,2, Badini Ilaria1,2, Franzoni Simone1,2, Cossu Beatrice1,3, Pizzoni Marina1,2,
Ranieri Piera1,2, Bianchetti Angelo1,2, Trabucchi Marco2
1
U.O.Medicina e Unità di Valutazione Alzheimer, Istituto Clinico S.Anna, Brescia
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
3 Università degli Studi di Brescia, Scuola di Specialità in Geriatria
2
PREMESSA
Sebbene siano sempre più spesso fornite evidenze scientifiche che indicano come marker biologici e
di neuroimaging possano essere di utilità nella diagnosi differenziale dei tipi di demenza, la definizione è
ancora basata quasi esclusivamente su criteri di tipo clinico.
CASO CLINICO
Donna di 73 anni, vive con il marito. Dall’età di 60 anni riferiva disturbo depressivo, caratterizzato da apatia, somatizzazione, rifiuto di eseguire le attività avanzate e strumentali della vita quotidiana, per cui aveva assunto varie terapie anti-depressive sia con SSRI sia con triciclici, senza adeguato controllo dei sintomi. Progressivamente erano riferite dal marito e dalla paziente stessa deficit di memoria e di linguaggio; pertanto nel
2003 (all’età di 66 anni) era valutata presso un’Unità di Valutazione Alzheimer. Il 1° esame neuropsicologico
rilevava un decadimento cognitivo (MMSE 18/30), caratterizzato da deficit del linguaggio, dell’attenzione, delle abilità visuospaziali, di pianificazione ed aprassia buccofacciale. Lo psicologo sottolineava che il tono dell’umore gravemente depresso (GDS 14/15) poteva inficiare alcuni punteggi ottenuti. L’esame neurologico risultava poco significativo.Venivano eseguite TC encefalo, posta diagnosi di malattia di Alzheimer possibile, iniziata terapia con AchE-inibitori e sottoposta a trattamento di Memory Training e Reality Orientation Therapy.
Il MMSE subiva nel corso di 2 anni alcune fluttuazioni: 18 → 22 →16 → 24 → 25 → 23, con un decadimento caratterizzato perlopiù da deficit di attenzione, delle capacità logico-deduttive e aprassia.
In 3-4 anni dall’esordio della malattia, si osservava perdita dell’autonomia nelle attività strumentali della vita quotidiana e nel bagno; parziale riduzione della sintomatologia depressiva (GDS 4/15) e mantenimento di insight del decadimento cognitivo-funzionale.
La rivalutazione clinica dopo 5 anni dimostrava: moderata disartria, eloquio spontaneo non fluente con
frequenti anomie, facies ansiosa-amimica, non deficit dei nervi cranici, né paralisi di sguardo, dismetria ed
aprassia arto superiore destro (come da sindrome dell’arto alieno), non deficit di forza. I test neuropsicologici rilevavano un declino cognitivo (MMSE 15/30), caratterizzato da punteggi al di sotto della norma in
tutte le prove somministrate, in particolare nelle aree del linguaggio e prassia.Alla luce dell’andamento clinico, dell’esame neurologico e della valutazione neuropsicologica, veniva ridefinita la diagnosi come Degenerazione corticobasale.
SPUNTI DI RIFLESSIONE
I sintomi depressivi d’esordio potevano essere confusi con una pseudodemenza depressiva? L’assenza
di risposta alla terapia antidepressiva poteva già far orientare verso una demenza? Quale significato ha la
limitazione della sintomatologia depressiva con l’avanzare della malattia neuropsicologica? L’assenza di
specifico deficit mnesico e la persistenza di insight di malattia potevano essere di per sé fattori di esclusione di una malattia di Alzheimer? Il pattern neuropsicologico indicava già una forma di demenza sottocorticale? Quanti colleghi avrebbero dato indicazione al trattamento con AChE-inibitori o quando avrebbero decisione per la sospensione?
CONCLUSIONI
L’analisi retrospettiva di 5 anni di evoluzione neuropsicologica di una paziente affetta da decadimento cognitivo e disturbo depressivo ha permesso di sottolineare come singoli fattori clinici e neuropsicologici siano rilevanti per la definizione nosografia del tipo di demenza. Si evidenzia l’importanza dell’osservazione nel tempo dell’andamento del deficit cognitivo e motorio per l’adeguamento della diagnosi.
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ABSTRACTS
STUDIO RISCHIARIL NEL
(Dati preliminari)
149
DECADIMENTO VASCOLARE LIEVE
Cotroneo Antonino Maria1, Gareri Pietro2, Buscati Antonino3, Lacava Roberto2,
Monteleone Francesco4, Maina Ettore1, Nicoletti Nicoletta1, Fantò Fausto6, Putignano Salvatore5,
Cabodi Sergio1
1 Ambulatorio
Geriatria ed U.V.A. Dipartimento Salute Anziani ASL TO 2
Unità Operativa Tutela Anziani Asp CZ
3 Medicina 7 Ospedale Molinette TO
4 Geriatria Ospedale N. Regina Margherita,Rom
5 Geriatra – Past President Nazionale AGE
6 Geriatria Osedale. S. Luigi di Orbassano
2
SCOPO
La finalità di questo studio osservazionale è stata quella di valutare l’efficacia e la sicurezza dell’utilizzo di integratori alimentari (nel caso specifico: colina, Vit.E, Vit. C ed ac. Alfa lipoico) in due gruppi di soggetti anziani afferenti all’ambulatorio di Geriatria e/o U.V.A. che si presentavano all’osservazione per decadimento cognitivo lieve. È sempre più frequente in tali ambulatori la presenza di soggetti con riferiti disturbi soggettivi di memoria e decadimento cognitivo lieve, senza deficit significativi al MMSE. Questa sempre
più crescente fetta di popolazione, non necessita dopo la visita e gli esami di screening di utilizzo di farmaci tipo gli inibitori delle colinesterasi, ma di un monitoraggio periodico, stabilito dai vari ambulatori, e
di un aiuto che può essere dato dagli integratori suddetti. È dimostrato in letteratura che la colina è coinvolta nell’integrità strutturale della membrana cellulare e della trasmissione dei segnali. L’ac. lipoico è un
cofattore di numerosi enzimi, controllo del glucosio e la prevenzione di patologie quali la cataratta e l’ictus. L Vit. C ed E hanno vasta risonanza in letteratura.
MATERIALI E METODI
Due gruppi di 70 soggetti ciascuno, più un gruppo di 24 soggetti di controllo (12 M e 12 F). Età media 77.4 (+- 7.8), 30 M e 40 F, con decadimento cognitivo lieve,MMSE = tra 21 e 24(gruppo A) e/o disturbi soggettivi della memoria, ma senza significativi deficit al MMSE (gruppo B). Ogni soggetto ha effettuato una TC Encefalo senza mdc, dosato Vit.B12, folati,TSH, emocromo e sideremia. La durata dello studio è
stata di 3 mesi.
Sono stati sottoposti a visita medica, raccolta anamnesi, e somministrate le seguenti Scale di Valutazione: ADL, IADL, MMSE, GDS, NPI, MNA, questionario del sonno, CIRS.
Ad un mese dalla prima visita (T1) effettuato controllo con visita medica, somministrazione delle scale di valutazione del T0.
A 3 mesi (T2) valutazione finale con nuova visita medica, somministrazione delle Scale di Valutazione
del T0 ed 1, questionario di soddisfazione somministrato al caregiver.
I soggetti dello studio sono stati trattati con 2 cpr/die pari a Colina 221,10 mg (1000 mg di colina citidina - 5’-difosfato sale sodico), ac.alfa lipoico 100,00 mg, Vit. C 60,00 mg e Vit. E 10,00 mg.
RISULTATI
Gli outcome valutati sono stati il miglioramento dell’autonomia alle ADL ed IADL, un miglioramento al
MMSE e del tono dell’umore, la valutazione di eventuali effetti collaterali importanti.
Dai dati emersi si è registrato un valida tenuta alle ADL ed IADL, sovrapponibile nei due gruppi valutati. Un miglioramento al MMSE soprattutto nel gruppo B (23 soggetti) rispetto al gruppo A (19 soggetti). Il
tono dell’umore è migliorato nei soggetti di entrambi i gruppi di studio. Sovrapponibile la misurazione al
NPI nei due gruppi. Nessun effetto collaterale importante è stato registrato.
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Da evidenziare che in 25 soggetti si è registrato il ripristino di alcune attività abbandonate come il
leggere giornali e libri, partecipare ad attività familiari lievi (fare la spesa, gite, partecipazioni a cerimonie varie).
19 soggetti hanno ripreso ad effettuare lieve attività fisica (corsi di ginnastica lieve, passeggiate, frequenza in piscina). Miglioramento della qualità del sonno nel 65% dei soggetti, in 12 casi è stato sospeso
l’utilizzo di ipnoinducente a breve emivita. Nessuna alterazione all’ecg.
I soggetti anziani hanno riferito un miglioramento soggettivo che è stato riscontrato nelle loro attività quotidiane e nel ripristino di alcune attività sociali. I caregiver di riferimento, siano essi familiari
e/o di professione, hanno evidenziato questo miglioramento. I dati confortanti e positivi, fin qui emersi, hanno fatto si che è aumentato il numero di centri coinvolti, arruolando 30 soggetti a centro con scadenza a 9 mesi dal T0.
Importante ruolo avrà la valutazione della comorbidità e dei disturbi comportamentali con conseguente miglioramento della “gestione” dei soggetti coinvolti con relativa diminuzione dei costi di assistenza e cura.
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SINTOMI DEPRESSIVI E DISABILITÁ IN SOGGETTI ANZIANI
OSPEDALIZZATI AFFETTI DA SCOMPENSO CARDIACO
Cucinotta Despina Maria, Parisi Pina, Mazza Monica, Reitano Francesca, Femia Rosetta,
Iaria Miriam, Cama Giuseppe, Basile Giorgio
Cattedra di Geriatria e Gerontologia, Università di Messina
SCOPO
Lo scompenso cardiaco (SC) è una condizione patologica molto frequente in età geriatrica la cui prevalenza ed incidenza sono in costante aumento ed una delle più frequenti cause di ospedalizzazione. I soggetti anziani affetti da SC differiscono da quelli di età inferiore per svariate caratteristiche tra cui la maggiore
comorbilità, la frequente comparsa di alterazioni cognitive e del tono dell’umore, l’elevata prevalenza di disfunzione diastolica secondaria a cardiopatia ipertensiva. Lo scopo di questa ricerca è quello di valutare la presenza di sintomi depressivi e disabilità, e loro eventuale correlazione, in pazienti anziani ospedalizzati per SC.
MATERIALI E METODI
Sono stati valutati 75 soggetti, di età media 78,36 ± 7,6 anni ricoverati presso la Clinica di Medicina
Geriatrica del Policlinico di Messina, per scompenso cardiaco. La diagnosi è stata posta in accordo alle linee guida dell’European Society of Cardiology ed alla New York Heart Association (NYHA) per la severità
clinica. Tutti i pazienti sono stati sottoposti ad esami di laboratorio, radiografia del torace, elettrocardiogramma, ecocardiogramma, valutazione multidimensionale (comprendente MMSE, GDS,ADL, IADL). L’analisi statistica è stata effettuata tramite il t-test di Student, considerando significativo un valore di p <0,05.
RISULTATI
Nei casi presi in esame il punteggio medio della GDS è di 6,66 ± 3,2; il 60% dei soggetti (45) ha un
punteggio >5. Il punteggio medio del MMSE è risultato 21,58 ± 3,9 e ben il 49,3% (37) dei pazienti ha un
punteggio di MMSE <24 e di GDS >5. Scomponendo la casistica sulla base dei valori di GDS (£5 e >5) si ottengono i risultati indicati in tabella.
GDS ≤ 5 (n° 30)
GDS > 5 (n° 45)
p
77.3
78.9
n.s.
NYHA II
50% (15)
19.5% (9)
0,009
NYHA III
43.3% (13)
28.3% (13)
n.s.
NYHA IV
6.7% (2)
52.2% (24)
<0,001
LVEF (%)
44.07±8.62
37.24 ±13.07
0,014
ADL
1.8 ± 1.6
2.89 ± 1.7
0,007
IADL
3.0 ± 2.1
4.74 ± 1.7
<0,001
MMSE
22.8 ± 4.5
20.8 ± 3.4
0,029
<3
20% (6)
17.7% (8)
n.s.
3-5
46.6% (14)
55.6% (25)
n.s.
>5
33.4% (10)
26.7% (12)
n.s.
Età (anni)
N° patologie associate:
CONCLUSIONE
La prevalenza di sintomi depressivi risulta particolarmente elevata (60%), in accordo a buona parte
della letteratura, in particolare nelle classi NYHA avanzate. I soggetti con sintomi depressivi mostrano un
maggior grado di disabilità, espressa da un elevato numero di funzioni perse nelle ADL e nelle IADL rispetto ai soggetti con GDS ≤5. Tale evenienza è indipendente dalla comorbilità, in quanto pazienti con e senza sintomi depressivi presentano un quadro di comorbilità sovrapponibile. La VMD, applicata ai pazienti con
SC, consente di identificare i soggetti con sintomi depressivi e declino cognitivo e di poter così intraprendere un trattamento specifico che va oltre il controllo emodinamico della patologia.
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SINDROME DI PENELOPE: SINDROME DA FRAGILITÀ?
D’Amico Ferdinando1,2, Caronzolo Francesco1, Crescenti Paola1, Natoli Rosaria1,
Grippa Alessandro1
1 Unità
Operativa Complessa di Geriatria e Lungodegenza, Laboratorio di Psicogeriatria, Presidio
Ospedaliero Patti, Azienda Sanitaria Provinciale Messina
2 Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli Studi Messina
OBIETTIVO
Lo studio ha valutato la prevalenza della comorbilità nella Sindrome di Penelope (F. D’Amico, 2006) in
anziani ospedalizzati. L’evidenza di sintomi somatici e affettivi definisce la Sindrome di Penelope, che si
può manifestare negli anziani allorché rifiutano di essere dimessi dall’Ospedale per problemi sociali e familiari con conseguente aumento dei giorni di degenza e quindi dei costi sanitari.
MATERIALI E METODI
Sono stati studiati in un periodo di tre anni 93 soggetti anziani (M 38, F 55, età media 78 + 6 anni) che
erano afferiti nell’Unità Operativa di Lungodegenza per malattia post-acuta e che dopo una degenza media
di 21 giorni manifestavano il rifiuto della dimissione. Il disegno dello studio prevedeva: 1) Cumulative Illness
Rating Scale (CIRS); 2) Geriatric Depression Scale (GDS);. 3) Brief Pain Invenctory (BPI). La CIRS è uno
strumento per ottenere una misura della salute somatica. e definisce la severità clinica e funzionale di 14
categorie di patologie. La GDS è impiegata per individuare i sintomi ansia-depressione, per cui un punteggio tra 0 e 5 è indicativo di normalità ed un punteggio ≥6 è indicativo di depressione. Per la valutazione delle caratteristiche quantitative del dolore è applicata la scala multidimensionale BPI costituita da 4 item
che descrivono l’intensità del dolore e da 7 item che descrivono l’interferenza del dolore.
RISULTATI
La valutazione clinica e multidimensionale degli anziani studiati ha rilevato: 1) indice di comorbilità =
3.23; 2) indice di severità = 21.7; 3) depressione nel 43.7% dei soggetti con prevalenza nel 72.7% delle
donne (p<0.05) ed ansia nel 68.7% degli anziani con prevalenza nel 81.8% della donne (p<0.01); 3) dolore nel 56.2% dei soggetti con prevalenza nel 72.7% delle donne (p<0.01).
Si è posta la correlazione tra indice di comorbilità >3 ed indice di severità>21 con ansia, dolore e genere femminile.
CONCLUSIONE
Negli anziani esaminati alla dimissione dalla U.O. di Lungodegenza è stata rilevata la correlazione più
significativa di ansia e dolore, sintomi caratterizzanti la Sindrome di Penelope, con la comorbilità più severa e con la prevalenza del genere femminile.
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LA DIFFICOLTÀ NEL CARE GIVING, UNA MISURA PER LA TUTELA
DELLA QUALITÀ DI VITA.
VALIDAZIONE ITALIANA DELLA CAREGIVER DIFFICULTY SCALE
De Bastiani Elisa1, Dalmonego Carlo1, Weger Elisabeth, Mantesso Ulrico, Gomiero Tiziano
1 Progetto DAD©, ANFFAS Trentino Onlus
SCOPO
Lo scopo del presente lavoro è quello di presentare lo studio di validazione italiana della scala Caregiver Difficulty Scale (CDS-DI), uno strumento di valutazione della difficoltà percepita, da parte dei caregiver che si occupano di persone anziane con Disabilità Intellettiva (DI). C’è una carenza di strumenti per
la misura della difficoltà percepita dai caregiver formali, mentre è confermato in letteratura come questa
possa essere predittiva di setting più restrittivi nei confronti di persone con DI e demenza primaria o secondaria e di come soggetti con patologia e caregiver condividano una “community of distress” che rischia di compromettere la qualità di vita di entrambi
MATERIALI E METODI
La CDS-DI è un questionario autosomministrato, composto da 37 item, che restituisce punteggi suddivisi
in tre scale che riguardano rispettivamente: 1) Cura quotidiana composta da 27 item riguardanti le pratiche quotidiane di cura personale; 2) risorse e conflitti costituito da nove item che affrontano sia l’eventuale mancanza di risorse sia la presenza di eventuali conflitti da parte del personale di cura; 3) famigliari costituito da due
item che indagano il comportamento dei familiari.Si compone di una semplice scala unipolare crescente a quattro punti da 1 a 4 e descrive alcuni dei comportamenti frequentemente osservati in corso d’assistenza. La ricerca ha coinvolto 58 operatori con un età media di 38,41 anni (ds ±9,45) appartenenti a diverse strutture diurne e residenziali in diversi comprensori della provincia di Trento che hanno compilato volontariamente ed in
forma anonima il questionario in due successive compilazioni a 15 giorni di distanza l’una dall’altra secondo
quanto previsto dalla procedura di test-retest per la verifica della stabilità nel tempo. I questionari sono stati compilati in contesti non disturbati ed individuali e per tutti gli operatori esaminati non vi erano state variazioni
nell’ambito del servizio prestato e delle persone seguite nel periodo di tempo considerato.
RISULTATI
I dati evidenziano un’ottima consistenza interna con un’alfa di Cronbach compreso tra 0,87 a 0,96, le correlazioni item-totale di tutte le sub-scale sono state superiori a 0,49 con una buona affidabilità intra-rater (0,77).
Questi dati permettono di sostenere che questa scala consente di avere una buona misurazione della difficoltà percepita ed offre un’opportunità di evidenziare in modo sistematico le esperienze degli staff di cura in persone con DI con o senza demenza.Nel nostro campione non sono state riscontrate differenze significative tra
i punteggi di operatori in servizio in sedi diverse, mentre abbiamo riscontrato, in un’iniziale revisione delle singole situazioni di cura, che tende ad esserci una maggiore concordanza di punteggi sulla scala CDS-ID tra i diversi operatori quando essi operano in strutture che ospitano soggetti con un livello di DI grave.
CONCLUSIONE
La validazione italiana dello strumento, avvenuta all’interno del progetto DAD© (www.validazione.eu/dad),
ha confermato la tenuta statistica dello strumento anche nel contesto del nostro Paese e pur rappresentando uno studio pilota, i risultati emersi suggeriscono che la scala è adatta ad essere applicata nei luoghi di cura dove sono inserite persone con DI che manifestano sintomi di demenza. Questo accanto ad altri indicatori, può utilmente essere impiegato per una prevenzione del burnout o più semplicemente per ridurre la
mancanza di aderenza alle linee-guida proposte per l’intervento. La maggiore risorsa a disposizione nel problema delle demenze e di tutte le malattie croniche invalidanti è rappresentata principalmente, dalla risorsauomo ed ogni tentativo che va nella direzione di supportare il personale avrà ripercussioni importanti sul benessere degli utenti che avranno a disposizione carer con maggiori risorse non solo sul piano delle conoscenza, ma anche sul piano delle risorse psicologiche ed emotive.
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CARICO ASSISTENZIALE NEI CAREGIVER DI PAZIENTI CON DEMENZA:
STRESS E DEPRESSIONE
De Vito Ornella1, Mirabelli Maria1, Granturco Concetta2, Curcio Sabrina A.M.1, Dattilo Teresa1,
De Fazio Pasquale2, Bruni Amalia C.1
1
2
Centro Regionale di Neurogenetica, ASP CZ, Lamezia Terme;
Scuola di specializzazione in Psichiatria, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università Magna Grecia
di Catanzaro
SCOPO
Sono sempre più evidenti gli elementi che rendono la patologia dementigena invalidante non solo per
il paziente, ma anche per la famiglia. Il caregiver è colui che si fa carico della cura e dell’assistenza dell’ammalato sin dall’esordio della malattia. In prevalenza è di sesso femminile (73%), coniugato con figli ed
in età attiva dal punto di vista lavorativo (età media 53,3). Rappresentare la fonte essenziale di supporto fisico ed emotivo per l’ammalato, aumenta nel 50% dei caregiver primari la probabilità di sviluppare una sintomatologia di tipo ansioso-depressiva (dati CENSIS, 2006). Lo scopo di questo studio è stato di valutare il
livello di stress in un gruppo di caregiver di pazienti dementi al fine di rilevare il carico oggettivo e l’eventuale presenza di sintomi depressivi.
MATERIALI E METODI
Lo studio è stato condotto nel contesto ambulatoriale del Centro Regionale di Neurogenetica, su un gruppo di caregiver di pazienti affetti da Demenza (n. 101). Il carico assistenziale è stato valutato attraverso il Caregiver Burden Inventory (CBI, Novak e Guest, 1989) e la scala Depression Early Staging Inventory (DESI, A.Amati, 1996-2004). Il CBI indaga la multidimensionalità dello stress assistenziale: carico oggettivo; carico evolutivo; carico fisico d’assistenza; carico sociale o lavorativo; carico emotivo; mentre il DESI valuta i sintomi depressivi. Infine, sono state considerate variabili socio-demografiche del caregiver. L’analisi statistica
utilizzata ha previsto: statistica descrittiva, test chi-quadrato, studio delle correlazioni di Spearmen.
RISULTATI
Dallo studio di questo campione si evidenziano i seguenti dati:
Il caregiver è prevalentemente un figlio (55,44%) che convive con l’assistito (57%). La salute percepita è sufficiente (42,57%) o buona (36,63%). Non si riscontrano dei punteggi superiori al cut-off (>2,5), ma
sono evidenti dei punteggi più alti nel carico assistenziale oggettivo e psicologico. Il livello depressivo riscontrato con il DESI risulta essere di grado lieve (44,55 + 35,97).
Emergono delle correlazioni negative tra i punteggi del CBI e DESI ed i dati socio-demografici (livello
di istruzione, socio-economico, salute percepita, convivenza con l’assistito). Dall’analisi della varianza è
emersa una correlazione: ad un basso livello socio-economico corrisponde un alto livello di stress e depressione, mentre ad un alto livello d’istruzione abbiamo un minore stato di stress. Inoltre, il supporto psicologico di gruppo favorisce il carico psicologico (c = 38.77, df = 20, p<0,01) e sociale (c = 27.11, df = 15,
p<0,05). Infine, il grado di salute, percepito come insufficiente ha aumentato il carico psicofisico ed i punteggi DESI.
CONCLUSIONI
Nel campione studiato, i caregiver hanno percepito un elevato livello di stress associato ad un lieve
stato depressivo; questo dato appare prevalente nei soggetti conviventi con l’assistito e con un basso livello socioculturale. In linea con i dati di letteratura si conclude che il carico assistenziale provoca nella maggior parte dei caregiver ripercussioni significative sulla qualità della vita dal punto di vista emotivo, fisico
e socioeconomico.
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IL DOLORE NELLA DEMENZA: STUDIO SU 100 PAZIENTI
Di Prima Anna, Zagone Giovanni, Picciolo Valentina, Arcoleo Vincenzo,
Dominguez Ligia Juliana, Barbagallo Mario, Belvedere Mario
Cattedra di Geriatria, U.V.A. n.6 (Direttore Prof. M. Barbagallo), Università di Palermo
SCOPO
Nei pazienti affetti da demenza può essere difficile riconoscere e definire la sede, la gravità e la natura
del dolore. Sono a volte le modificazioni dell’atteggiamento, l’aumento della confusione mentale e dell’agitazione psicofisica ad indirizzarci verso la presenza di una sintomatologia dolorosa. Il riconoscimento di
comportamenti verbali (vocalizzazione, cambiamenti nelle relazioni interpersonali) e non (espressioni facciali, movimenti del corpo, cambiamenti nelle comuni attività quotidiane e dello stato mentale) è di estrema utilità nella pratica clinica, quando ci troviamo di fronte ad un anziano ed ancor di più se l’anziano è
affetto da demenza. Sono state validate delle scale per identificare la presenza e la gravità del dolore, ma queste sono attendibili solo nelle forme di demenza lieve-moderata dove il paziente sa esprimere la sensazione dolorosa. Difficile è invece valutare il dolore nelle fasi avanzate, quando viene persa la capacità di esprimere la sensazione dolorosa e l’interpretazione è affidata all’intuito ed alla conoscenza che il medico ha del
dolore stesso. Proprio per le manifestazioni atipiche è fondamentale riconoscere le diverse sfumature che
il dolore può avere nel paziente demente al fine di migliorare l’autonomia dell’anziano con demenza, al fine di ridurre la severità del dolore, migliorare la depressione e l’ansia ad esso correlate e ridurre l’utilizzo
di farmaci impropri, di risorse sanitarie e sociali. Scopo del nostro studio è:
1. Valutare la presenza di dolore nei pazienti, affetti da demenza, che pervengono presso il nostro centro
U.V.A n° 6 e presso la nostra U.O. di Geriatra per Acuti, differenziandone la gravità e le manifestazioni.
2. Valutare il corredo sintomatologico associato al dolore.
3. Verificare quanti di questi pazienti riceve un trattamento adeguato.
4. Quanto il dolore influisca sulla qualità di vita, sull’autonomia e sull’autosufficienza.
5. Attuare se necessario un trattamento multidisciplinare per migliorare non solo la sintomatologia
dolorosa, ma anche lo stato psichico e la qualità di vita di questi soggetti.
MATERIALI E METODI
Allo studio hanno partecipato 100 pazienti di cui 80 afferenti al nostro centro U.V.A e 20 pazienti ricoverati presso la nostra UO di geriatra. Dei 100 pazienti 60 erano donne e 40 uomini. L’età media era di 84
± 4 anni. Ai pazienti venivano somministrati tests psicometrici per la valutazione dello stato cognitivo
(MMSE, ClokTest, GDS) e dello stato funzionale (ADL e IADL). Erano sottoposti anche alle scale per la valutazione del dolore; quali la Numerical Roting Scale ( NRS), la Facies Pain Scale ( FPS) e la Visual Analogue
Scale (VAS). Si sono creati dei sottogruppi in relazione al punteggio del MMSE e ad essi venivano applicate scale diverse. 1° gruppo 20<MMSE<24; 2° gruppo 19<MMSE<10.Al primo gruppo venivano applicate
la NRS e la VAS, al secondo gruppo la FPS vista la difficoltà dei pazienti a quantificare la sintomatologia dolorosa. Per i pazienti dementi ricoverati non veniva applicata nessuna scala né i tests psicometrici, dal momento che presentavano una sintomatologia acuta (delirium, vocalizzazione, agitazione psicomotoria). In
tal caso si utilizzava l’obiettività clinica come strumento di valutazione della sofferenza del paziente
RISULTATI
I primi dati preliminari dello studio dimostrano che 1/3 dei pazienti afferenti al nostro centro U.V.A e
la metà di degenti avevano una sintomatologia dolorosa. Si è osservato come nel gruppo ambulatoriale era
molto più semplice definire la prevalenza e la gravità della sintomatologia dolorosa sia con la raccolta
anamnestica sia con la somministrazione di scale. Nei pazienti ricoverati, invece, era molto più difficile valutare il dolore sia per la gravità della condizione clinica sia per l’incapacità che questi soggetti avevano nell’esprimere il dolore stesso. Venivano osservate inoltre delle manifestazioni atipiche del dolore. I degenti
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si presentavano con confusione mentale, agitazione psicomotoria ed era solo l’obiettività clinica a farci risalire alla sintomatologia dolorosa. È stato inoltre osservato che di tutti i pazienti soltanto il 27.3% riceveva una terapia analgesica adeguata e che il 53% lamentava una notevole interferenza nello svolgimento
delle attività basilari e strumentali della vita quotidiana.
CONCLUSIONE
I pazienti anziani con dolore cronico hanno una drammatica diminuzione del benessere fisico, psicologico e sociale, ma anche punteggi molto più bassi nella qualità di vita rispetto a pazienti affetti da altre
patologia mediche. Da ciò l’importanza di un trattamento per il dolore che sia più multidisciplinare (farmacologico e psicologico) possibile al fine di avere un miglioramento su diverse aree. Miglioramento in qualità autonomia ed autosufficienza, miglioramento nella riduzione del dolore, nella riduzione dei servizi medici e sociali, un miglioramento della depressione dell’ansia ed infine una riduzione nell’uso dei farmaci.
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“TELECARE FOR PEOPLE WHO CARE”:
ACCETTABILITÀ ED USABILITÀ DEI SISTEMI DI TELECONFORTO
Digangi Giusy, Spadaro Letteria, Cordici Francesco, Lanzafame Pietro, Bramanti Placido
IRCCS Centro Neurolesi “Bonino-Pulejo”, Messina
SCOPO
Prendersi cura di una persona affetta da deterioramento cognitivo cronico-progressivo, con compromissione ingravescente delle funzioni cognitive, del comportamento e delle abilità di vita quotidiana, può profilarsi come una condizione di stress cronico con costi fisici, emotivi e sociali molto evidenti nella vita del
caregiver. In letteratura ampio spazio è dedicato ad interventi di prevenzione rivolti alla cura di “chi si
prende cura”, in particolare di grande interesse sono i progetti di questa natura messi in atto attraverso l’utilizzo delle soluzioni ICT con risultati positivi soprattutto nel contenimento dello stress e del vissuto depressivo in relazione al caregiving. L’utilizzo delle ICT nel campo della prevenzione ha il pregio di allargare le
possibilità di partecipazione a chi vive in zone isolate od a chi ha difficoltà ad impegnarsi in attività fuori
casa con costi economici di gestione relativamente contenuti. Il progetto “Tele-care for people who care”,
tramite le facilities prese a prestito dal settore ICT, prefigura un intervento faccia a faccia tramite un sistema di videocomunicazione, da casa, rivolto ai caregiver ed ai pazienti affetti da deterioramento cognitivo
cronico progressivo, con la finalità di accompagnare e fornire strategie di problem solving volte alla promozione del benessere. Il duplice scopo del presente lavoro è indagare l’usabilità e l’accettabilità del sistema a un mese dall’inizio del progetto e monitorare il conforto percepito.
MATERIALI E METODI
Sono stati arruolati 10 pazienti affetti da deterioramento cognitivo medio-lieve di diversa eziologia afferenti agli ambulatori dell’IRCCS Centro Neurolesi “Bonino-Pulejo”, Messina ed il loro caregiver principale. All’inclusione pazienti e caregivers sono stati sottoposti a valutazione dello stato cognitivo, emotivo,
delle abilità quotidiane e della qualità di vita generale. Dopo un mese è stato chiesto ai caregiver di rispondere alla System Usability Scale (SUS) e ad un questionario costruito ad hoc volto a indagare l’accettabilità, il conforto ricevuto e gli aspetti di usabilità non contemplati dal SUS. Anche il team del progetto è stato sottoposto a due questionari: conforto ricevuto e qualità della vita (psicologo e neurologo), accettabilità e usabilità del sistema (operatori). Tutti i questionari erano strutturati in una scala Likert a cinque livelli con range di risposta variabile tra “Totalmente in disaccordo” al “Totalmente d’accordo”.
RISULTATI
8 caregiver su 9 (88%) hanno ottenuto, al SUS, un punteggio superiore al cut-off (60/100); il 55% degli
utenti ha ottenuto un punteggio superiore a 70. In particolare, dal SUS, si evince che tutti gli utenti concordavano nel giudicare di facile utilizzo il sistema (moda=3, range interquartile-r.i.=0). Sono state indagate le
differenze di opinione in merito agli aspetti di usabilità del questionario costruito ad hoc, tramite il test di
Kruskal-Wallis, e queste sono risultate assolutamente non significative (chi2=13.33; df=8; p=0.1).Anche gli
operatori hanno presentato un’uniformità di veduta nel ritenere il sistema usabile ed accettabile per l’utente (moda=3, r.i.=1, p < 0.001). Gli utenti complessivamente ritengono accettabile il sistema ma, in particolare per quel che riguarda la dimensione della privacy, esiste una sostanziale divergenza di giudizio come
emerso dal test di Kruskal-Wallis (chi2=42.2; df=8; p < 0.001). Neurologo e psicologo ritengono adeguato
l’intervento di supporto tramite la Telemedicina (moda=3, r.i.=0) ma per quel che riguarda la percezione
di un miglioramento della qualità della vita è stato possibile verificare, tramite il test Kappa di Cohen, solo un moderato accordo tra psicologo e caregiver in merito al miglioramento della qualità della vita di quest’ultimo (kappa=0.5152, s.e.=0.7934, 95% C.I:=[0,1]) e tra il neurologo e il caregiver in merito a quello del
paziente (kappa=0.26, s.e.=0.27, 95% C.I:=[0,0.8]).
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CONCLUSIONE
Malgrado il numero esiguo di pazienti sottoposti ai questionari, alcuni aspetti, principalmente legati all’usabilità, all’accettabilità, al conforto ricevuto ed al miglioramento delle qualità della vita sono risultati
nettamente delineati, suggerendo un’apparente maturità dei sistemi impiegati ed un incoraggiante livello
di efficacia. Anche se, in alcuni casi, l’intervento può essere percepito come un’invasione della sfera privata, questo sembrerebbe essere un costo accettabile da parte degli utenti. I risultati sono da considerarsi assolutamente preliminari ed è ancora richiesta una più approfondita analisi, possibilmente su un campione di utenti più vasto.
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ALZHEIMER: ANALISI DELL’IMPATTO DEI DEFICIT COGNITIVI
E DEI DISTURBI COMPORTAMENTALI SULLO STRESS DEL CAREGIVER
Fisicaro Daniela1, Sanfilippo Daniele1, Barbagallo Sebastiano1, Barbagallo Giuseppe1
U.O.C. di Medicina Interna P.O.“Basilotta-Nicosia” A.S.P,. Enna
SCOPO
1) Analizzare l’incidenza dei disturbi cognitivi, comportamentali e dell’umore che si manifestano nella malattia di Alzheimer,
2) rilevare, di volta in volta, la frequenza e la gravità di ogni disturbo comportamentale, cognitivo e dell’umore presente nel paziente per indagare la correlazione con il rispettivo livello di stress del caregiver
principale.
MATERIALI E METODI
Sono stati esaminati in totale, 55 caregiver di pazienti affetti tutti da Demenza di Alzheimer, afferenti al
Day Hospital di Geriatria dell’AUSL 4 di Nicosia. Un numero elevato d’intervistati (72.727%) vive con il
malato di Alzheimer. L’età media del caregiver è di 54,491 anni, con un range di variazione che va da 29 a
79, mentre l’età dei pazienti varia da 65 a 89 con una media di 78.964 anni. Secondo il sesso 41 caregiver
sono femmine (74.545%), mentre 14 sono maschi (25.455%); per quanto riguarda i pazienti, 45 sono femmine (81.818%) e 10 sono maschi (18.182%). Il livello di deterioramento, misurato con la Global Deterioration Scale13, è così distribuito: su 55 soggetti malati, 3 si trovano allo stadio 1, 5 si trovano allo stadio 2, 9
si trovano allo stadio3, 13 si trovano allo stadio 4, 11 si trovano allo stadio 5, 10 si trovano allo stadio 6 e 4
si trovano nello stadio finale, il 7. (Tabella 1).
Tabella 1. Distribuzione dei soggetti all’interno dei vari stadi misurati dalla Global Deterioration Scale
Stadio 1
Stadio 2
Stadio 3
Stadio 4
Stadio 5
Stadio 6
Stadio 7
Totale Pazienti
3
5
9
13
11
10
4
55
Per compiere la ricerca, è stato utilizzato, il “Neuropsychiatric-Inventory”, (N.P.I.)14-15 ed il “Profile Of
Mood States” (P.O.M.S.)16.
L’NPI, quindi, valuta i disturbi neuropsichiatrici inerenti a 12 aree comportamentali (Deliri,Allucinazioni,
Agitazione/Aggressività, Irritabilità/Labilità, Depressione, Apatia/Indifferenza, Ansia, ecc.) L’NPI è una scala rivolta ai caregiver principali scelti come fonte di informazione, perché spesso i malati non riescono a ricordare od a descrivere i loro sintomi, a comprendere i concetti necessari per determinare la frequenza e la gravità dei loro disturbi. Dopo la somministrazione degli item, la scala consente di valutare, per ogni area comportamentale, la frequenza e la gravità dei disturbi su una scala di tipo “Likert” rispettivamente a 4 e a 3 punti: Frequenza 1. Raramente (meno di una volta a settimana); 2.Talvolta (circa una volta a settimana); 3. Frequentemente (diverse volte a settimana); 4. Molto frequentemente (una o più volte al giorno). Gravità 1. Lievi (disturbi presenti ma innocui);2. Moderati (disturbi dirompenti e disturbanti); 3. Marcati (disturbi molto distruttivi).
Il POMS è un questionario di personalità costituito da 58 aggettivi e locuzioni attributive che definiscono sei diversi fattori con un formato di risposta a cinque posizioni (0= Per nulla, 1= Un poco, 2= Una via
di mezzo, 3= Molto, 4= Moltissimo) e rappresenta un metodo semplice e rapido per identificare e quantificare stati affettivi particolari.
Il POMS, misura sei fattori e altrettanti stati dell’umore; i sei fattori del POMS sono: Tensione-Ansia (T);
Depressione-Avvilimento (D); Aggressività-Rabbia (A); Vigore-Attività (V); Stanchezza-Indolenza (S); Confusione-Sconcerto (C); questi fattori si dimostrano particolarmente utili per valutare pazienti con disturbi
nevrotici o da stress.
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RISULTATI
Dall’elaborazione delle risposte date dai caregiver al test NPI abbiamo, inizialmente, ricavato le distribuzioni relative alla frequenza ed alla gravità per ogni singolo item relativamente a ciascuna area, dalle
quali emerge che le risposte tendono a concentrarsi verso una conferma, nei pazienti Alzheimer da noi
esaminati, della presenza dei disturbi comportamentali contemplati nel test. In particolare i disturbi che hanno un maggiore riscontro nel nostro campione sono:
– per quanto riguarda la scala A dei “Deliri” gli item 1, 6 e 8, riguardanti le credenze del paziente di essere in pericolo, di abitare in una casa non sua e di credere che immagini televisive o fotografiche siano realmente presenti in casa;
– per quanto riguarda la scala B delle “Allucinazioni” gli item 1, 2 e 3, riguardanti la sensazione del paziente di sentire delle voci, di vedere cosa che gli altri non vedono e di dialogare con persone non presenti;
– riguardo alla scala C dell’“Agitazione/Aggressività” gli item 1, 2, 3, riguardanti l’opposizione da parte del
paziente ad attività di routine, la non collaborazione/resistenza e l’ostinazione, confermando così che i pazienti Alzheimer esaminati vivono in uno stato di intensa agitazione e di aggressività molto difficile da gestire;
– per quanto concerne la scala D della “Depressione/Disforia”, gli item 1, 2, 3, 5, 6, 7 riguardanti la malinconia, il pianto, l’abbattimento, la sensazione di fallimento e di essere un peso per la propria famiglia, nonché il desiderio di morte sperimentato dai pazienti evidenziando così la marcata presenza di stati d’animo
depressi nei pazienti esaminati;
– per quanto riguarda la scala E che misura l’Ansia, gli item 2 e 5 che esplorano la tendenza dei pazienti a sentirsi deboli e tesi o essere nervosi per la mancata presenza del caregiver, ciò conferma la manifestazione di stati ansiosi nelle persone affette da demenza di Alzheimer, i quali chiaramente sconvolgono la
qualità della vita del caregiver, costretto a rimanere costantemente accanto al paziente;
– in relazione alla scala G dell’“Apatia/Indifferenza”, gli item 1, 2, 4, 6 e 7 per quanto riguarda la perdita di spontaneità, della disponibilità ad iniziare conversazioni, la perdita di interesse del paziente verso gli
amici, i parenti e verso gli hobby, e verso ciò che lo circonda in genere, confermando così la presenza di
un forte e intenso disturbo di Apatia/Indifferenza nei pazienti da noi esaminati;
– riguardo alla scala I “Irritabilità/Labilità”, gli item 1, 2, 3 e 5 riguardanti la variabilità di umore, le continue lamentele ed il nervosismo manifestati dal paziente, a conferma che l’irritabilità, in tutte le sue varianti, sia un disturbo rappresentativo della malattia di Alzheimer;
– riguardo la scala L dei “Disturbi del comportamento motorio” gli item 1, 2, 3, 4 e5 che consistono nel
ripetere particolari azioni e gesti, nell’aggirarsi per casa aprendo e rovistando cassetti e armadi confermando la tendenza del paziente a mettere in atto una coazione a ripetere spiegata dalla perdita di memoria e
dalla sensazione di insicurezza vissuta dal paziente;
– riguardo la scala M relativa ai disturbi del “Sonno” gli item 1, 4, 6 e 7 riguardanti le difficoltà nell’addormentarsi, il disturbare e tenere svegli i familiari, nonché i ritmi sonno-veglia alterati;
Ma la scala NPI ci ha permesso, inoltre, di valutare il livello di stress sperimentato dal caregiver in relazione ai disturbi in ogni singola area comportamentale.
I risultati possono essere commentati nel seguente modo:
alte percentuali di stress emotivo o psicologico “moderato” nella scala dei Deliri (45.45%) dell’Agitazione/Aggressività (47.27%), della Depressione/Disforia (50.90%), dell’Apatia/ Indifferenza (41.81%), dell’Irritabilità/Labilità (36.36%), dei “Disturbi del comportamento motorio” (36.36%), del Sonno (29.09%)
(Tabella 2).
Inoltre, abbiamo rilevato livelli di stress emotivo o psicologico “severo” e “grave”, anche se con percentuali non eccessivamente elevate nella scala dei “Deliri” (9.09%), dell’Agitazione/ Aggressività (14.54%,
9.09%), nella Depressione (16.36%, 9.09%), nella scala dell’Apatia/ Indifferenza (30.90%, 14.54%), nella scala Irritabilità/Labilità (12.72%), nella scala dei Disturbi del comportamento motorio (16.36%, 7.27%), e nella scala del Sonno (16.36%, 10.90%). Il livello di stress risulta molto elevato nella scala dell’Apatia poiché,
come abbiamo visto precedentemente, racchiude parte di quelli che possono essere considerati i tratti distintivi del comportamento del paziente e di conseguenza, manifestandosi in modo frequente e grave, richiedono, da parte del caregiver, una maggiore attenzione ed una elevata competenza di contenimento dei
pazienti nella messa in atto di questi comportamenti. Nella scala Agitazione/Aggressività, Depressione, Di-
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sturbi del comportamento motorio e Sonno, i punteggi che abbiamo riscontrato potrebbero rappresentare il peso che grava sul caregiver, che deve far fronte a questi disturbi comportamentali che sicuramente
inducono uno stress psico-fisico non indifferente. Questi dati acquistano, quindi, un importante significato ai fini della nostra ricerca in quanto ci permette di affermare che esiste una significativa correlazione tra
le variabili frequenza, gravità e stress.
Tabella 2. Relativa alle percentuali del livello di stress sperimentato dai caregiver in relazione ai disturbi racchiusi in ogni
singola scala dell’NPI
0
1
2
3
4
5
DELIRI
20.000%
0
21.818%
45.455%
9.091%
3.636%
ALLUCINAZIONI
36.364%
5.455%
27.273%
30.909%
0
0
AGITAZIONE/AGGRESSIVITÀ
10.909%
7.273%
10.909%
47.273%
14.545%
9.091%
DEPRESSIONE
7.273%
1.818%
14.545%
50.909%
16.364%
9.091%
ANSIA
30.909%
5.455%
30.909%
29.091%
3.636%
0
EUFORIA
76.364%
1.818%
7.273%
12.727%
0
1.818%
APATIA/INDIFFERENZA
5.455%
1.818%
5.455%
41.818%
30.909%
14.545%
DISINIBIZIONE
50.909%
9.091%
29.091%
9.091%
0
1.818%
IRRITABILITÀ/LABILITÀ
30.909%
5.455%
9.091%
36.364%
12.727%
5.454%
DIST. DEL COMPORTAMENTO
18.182%
1.818%
20.000%
36.364%
16.364%
7.273%
SONNO
27.273%
7.273%
9.091%
29.091%
16.364%
10.909%
DIST. DELL’ALIMENTAZIONE
32.727%
7.273%
25.455%
27.273%
1.818%
5.455%
Esaminando invece i dati della somministrazione del P.O.M.S., che analizza 6 sensazioni soggettive che
il caregiver può avere sperimentato nell’attività di cura, quali, tensione, depressione, aggressività, vigoria,
stanchezza e confusione, ciò che si può cogliere immediatamente è: innanzitutto la presenza di valori medi abbastanza significativi in ciascuno dei sei fattori, eccetto che nell’ultimo, il fattore denominato Confusione/Sconcerto, che prende in considerazione sentimenti quali il senso di sconcerto o di turbamento, ciò potrebbe essere messo in relazione con il livello di deterioramento del nostro campione, i quali si collocano
per lo più negli stadi intermedi o avanzati della malattia, questo fa si che il caregiver si trova in una fase in
cui ha superato sentimenti quali la confusione, l’indecisione su come comportarsi o cosa fare, la perplessità in genere, ecc., che possono caratterizzare, invece, l’approccio iniziale con la malattia, quando ancora il
caregiver deve trovare nuovi equilibri e strategie per fare fronte all’evento “Alzheimer” (Tabella 3).
Tabella 3. Valori medi ottenuti in ciascun fattore misurato dal P.O.M.S.
Media
Dev. Standard
Range
totale
Tensiaone/Ansia
57.764
11.050
41-80
55
Depressione/Avvilimento
53.255
9.438
41-76
55
Aggressività/Rabbia
52.655
11.446
40-89
55
Vigore/Attività
56.545
11.769
26-72
55
Stanchezza/Indolenza
57.273
10.916
37-86
55
Confusione/Sconcerto
47.927
9.195
32-78
55
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Un’analisi che ci è sembrato interessante effettuare sui nostri dati è quella che ci ha permesso di esaminare nello specifico di ognuno dei sei fattori del P.O.M.S., la variabile “Sesso”, al fine di capire se esistono sostanziali differenze tra il campione dei caregiver maschi e quello delle femmine nelle sensazioni, negli affetti e negli stati di umore provati in relazione all’esperienza di assistere un malato di Alzheimer.
Dai risultati (Tabella 4) emerge che i valori medi dei maschi non si discostano molto da quelli ottenuti nel campione delle femmine; questo è soprattutto evidente per quanto riguarda i primi due fattori: il fattore Tensione/Ansia ed il fattore Depressione/Avvilimento. Questo permette di affermare che sensazioni di
tensione, d’ansia vaga e diffusa, sentimenti di inutilità, di isolamento emotivo e di malinconia, vengono
espressi e riferiti in ugual misura sia dagli uomini che dalle donne.
La situazione cambia, però, negli altri fattori; infatti, nel fattore Aggressività/Rabbia e nel fattore Vigore/Attività le differenze si fanno leggermente più evidenti. Infatti, qui, le medie riscontrate nel campione maschile sono più alte rispetto a quelle riscontrate nel campione femminile; questo potrebbe trovare una spiegazione nel fatto che gli item di questi due fattori descrivono sentimenti e umore di rabbia, più o meno intensa ed
aperta, sensazioni di vigore o energia che forse, per natura, caratterizzano meglio il sesso maschile, specialmente nella gestione di esperienze o situazioni stressanti come può essere appunto la demenza di Alzheimer.
La situazione si capovolge invece negli ultimi due fattori del P.O.M.S.: Stanchezza/Indolenza e Confusione/ Sconcerto. In questi due fattori le medie ottenute nel campione delle femmine sono più alte rispetto a quelle ottenute nel campione dei maschi. Ciò potrebbe essere spiegato dal fatto che la maggior parte delle caregiver donne del nostro campione è composto da casalinghe e questo determina, a nostro avviso, il vivere l’assistenza 24 ore su 24, con tutte le conseguenze che ciò può avere sul piano fisico ed emotivo; e proprio questa situazione viene messa bene in evidenza dagli item di questi due ultimi fattori, che descrivono proprio sensazioni di stress, stanchezza, esaurimento psico-fisico, confusione, difficoltà di concentrazione, ecc.
Tabella 4. Valori medi calcolati sui punti “T” rispetto alla variabile “Sesso” nelle varie aree
Tensione/
Ansia
Depressione/
Avvilimento
Aggressività/
Rabbia
Vigore/
Attività
Stanchezza/
Indolenza
Confusione/
Sconcerto
Maschi
(14)
56.500%
(Dev.standard
12.519)
54.000%
(Dev.standard
11.136)
54.786%
(Dev.standard
10.282)
58.500%
(Dev.standard
12.365)
53.143%
(Dev.standard
13.289)
44.643%
(Dev.standard
11.659)
Femmine
(41)
58.195%
(Dev.standard
10.638)
53.000%
(Dev.standard
8.927)
51.927%
(Dev.standard
11.848)
55.878%
(Dev.standard
11.641)
58.683%
(Dev.standard
9.771)
49.049%
(Dev.standard
8.056)
CONCLUSIONE
Alla luce dei risultati appena esposti e discussi ed alla fine di questo contributo possiamo provare a delineare, per grandi linee, un quadro riepilogativo della ricerca, per comprendere meglio le conclusioni cui
siamo pervenuti. È importante sottolineare che naturalmente non si tratta di conclusioni definitive, che
non lasciano spazio ad ulteriori approfondimenti e confronti. Questo lavoro di ricerca è stato l’occasione
per cercare di raggiungere un livello di conoscenza del fenomeno indagato più profondo, rispetto a prima;
per questo si è cercato di acquisire quante più informazioni possibili sull’argomento per potere costruire
un’ipotesi di ricerca da potere poi realizzare. Nel quadro riepilogativo della ricerca che possiamo tracciare ci sembra che vi sia una buona approssimazione a quanto ci si era proposto di verificare. Lo stress emotivo e psicologico sperimentato dal caregiver di un parente affetto da demenza di Alzheimer sembra essere stato indagato con una certa specificità; infatti, si è cercato il più possibile di mettere in evidenza i legami con la frequenza e la gravità dei disturbi comportamentali manifestati dal paziente. Questo ci consente di affermare che i disturbi comportamentali tipici della malattia di Alzheimer sono fonte di stress nell’ambito familiare e, nello specifico, nella persona su cui grava il carico dell’assistenza.
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PARTICOLARITÀ DELL’ESORDIO DI UN CASO DI DEMENZA A CORPI DI LEWY
Fuschillo Carmine, Ascoli Emilia, Bianco Stefano, Sannino Alfonso, Campana Francesco
Area Psicogeriatria - UOSM Cercola - ASL Napoli 3 Sud
SCOPO
Viene descritto un caso clinico di demenza a corpi di Lewy esordito in modo atipico.
CASO CLINICO
Uomo di 72 anni, ex impiegato, fumatore di qualche sigaretta al giorno, non bevitore, iperteso. La moglie riferì la presenza di deliri persecutori e di riferimento, allucinazioni visive, alterazioni comportamentali (irrequietezza, episodi agitativi, affaccendamento afinalistico, insonnia) dopo un intervento chirurgico nel 2001 per dissezione dell’aorta ascendente e successivo coma pos-toperatorio di alcuni giorni. Nei
mesi successivi comparvero anche disturbi mnesici, dell’orientamento temporo-spaziale, rallentamento
psicomotorio a carattere ingravescente. Una TC cranio eseguita all’epoca evidenziò la presenza di ischemia
cronica a livello della sostanza bianca sottocorticale, paraventricolare e dei centri semiovali e lieve aumento di ampiezza degli spazi subaracnoidei della volta e della base. Durante tale periodo, e fino al luglio 2008,
fu seguito da vari specialisti con terapia neurolettica, neurotrofica e benzodiazepine.
Nel settembre 2008 il paziente giunse al nostro Centro per peggioramento del deficit mnesico-cognitivo e del rallentamento, dimagrimento progressivo, tremori diffusi, disturbo del linguaggio (disfasia motoria, anomia), persistenza della sintomatologia psicotica (terapia al momento dell’osservazione: aloperidolo 1 mg bid, lorazepam 1 mg bid, piracetam 3 g x os/die; lisonipril 20 mg/die, ticlopidina 250 mg bid).
Esame obiettivo: deambulazione incerta, rallentata, a piccoli passi; non evidenti segni neurologici focali; presenti segni di liberazione frontale (suzione), modica rigidità extrapiramidale, disturbo del linguaggio (disfasia
motoria, con talora difficoltà a comprendere il significato delle parole), attenzione labile ed incostante. ECG
ed esami ematici: nella norma. MMSE: 18.4/30;ADL: 2/6 (funzioni perse); IADL: 3/5 (funzioni perse); GDS:
8/15; NPI: 48/144; Bassa la performance al test delle matrici attenzionali: (8/60), delle matrici progressive di
Raven (8/36) e di fluenza verbale (4 parole in tre minuti).TC cranio: dilatazione degli spazi liquorali periencefalici; accentuazione dell’ipodensità della sostanza bianca, da encefalopatia vascolare.SPET cerebrale: riduzione della captazione del radiocomposto a livello parietale bilateralmente e temporale posteriore sinistra.
Fu posta diagnosi di probabile demenza variante a corpi di Lewy (la demenza vascolare sottocorticale, inizialmente considerata per la familiarità (genitori deceduti per vascolopatia) e per gli aspetti neuroradiologici, fu esclusa, anche per l’assenza di segni neurologici focali). Fu prescritta terapia farmacologica
reidratante e vitaminica (per 10 giorni), rivastigmina (4.6 mg/die), sertralina (50 mg bid), olanzapina (5
mg la sera). Dopo un mese, per la sostanziale stazionarietà clinica, fu ridotta la sertralina (50 mg/die), aumentata la rivastigmina (9.5 mg/die) ed aggiunto sodio valproato (300 mg chrono bid).
RISULTATI
Ai controlli successivi, in media ogni 2 mesi, il paziente mostrò un lieve, ma progressivo miglioramento del quadro clinico-cognitivo-comportamentale (MMSE: 22.4/30; ADL: 6/6; IADL: 1/5; GDS: 4/15; NPI:
25/144). La terapia fu ben tollerata (gli esami ematochimici di controllo risultarono nella norma, così come l’ECG, i valori pressori e gli altri parametri vitali).
CONCLUSIONI
Il caso esposto appare interessante per l’atipicità della sintomatologia all’esordio e per la buona risposta
al trattamento farmacologico. Infatti i disturbi comparvero dopo il coma seguito all’intervento chirurgico nel
2001 (lo stato ipossico/anossico cerebrale contribuì probabilmente a slatentizzare il quadro clinico). Nella fase precedente la presa in carico al nostro Centro, fu considerata principalmente la sintomatologia comportamentale-psichiatrica, con scarso beneficio terapeutico (l’aloperidolo probabilmente contribuì a peggiorare il
quadro motorio ed apatico). La rivastigmina determinò un progressivo miglioramento clinico-cognitivo a partire dal secondo mese. Il sodio valproato e l’olanzapina (tale farmaco fu scelto anche per la sua capacità di indurre appetito e contrastare il dimagrimento) migliorarono il quadro psico-patologico-comportamentale.
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USO DEGLI ANTIPSICOTICI NELLA DEMENZA
Gareri Pietro1,2, Lacava Roberto2, Ruotolo Giovanni3, Cotroneo Antonino Maria4,
Castagna Alberto2, Marigliano Norma Maria1, De Fazio Salvatore1, Costantino Domenico Simone2,
De Sarro Giovambattista1
1 Cattedra
di Farmacologia, Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica, Facoltà di Medicina e Chirurgia,
Università Magna Græcia di Catanzaro
2 Geriatria, Unità Operativa Tutela Salute Anziani, Catanzaro
3 SOC Geriatria, Azienda Ospedaliera “Pugliese-Ciaccio”- Catanzaro
4 Dipartimento Salute Anziani, Torino
Negli ultimi anni è stato ampiamente discusso l’uso di antipsicotici nei pazienti anziani affetti da demenza per le allarmanti notizie sulla loro sicurezza di impiego1,2. Per fare il punto della situazione abbiamo
eseguito una ricerca su Medline, utilizzando le parole anziano, antipsicotici convenzionali ed atipici, eventi avversi, demenza, sintomi comportamentali e psicotici nella demenza (BPSD). Gli antipsicotici convenzionali sono stati ampiamente utilizzati nei BPSD; un’efficacia superiore al placebo è stata dimostrata solo
a dosaggi elevati, mentre sono stati evidenziati numerosi e severi effetti collaterali1. Gli antipsicotici atipici hanno mostrato un’efficacia superiore al placebo in studi randomizzati nel trattamento dei BPSD, con un
migliore profilo di tollerabilità nei confronti dei farmaci convenzionali3.Tale profilo di tollerabilità è legato al peculiare meccanismo d’azione. Comunque, nel 2002, trials con il risperidone e l’olanzapina in pazienti anziani affetti da psicosi correlate a demenza hanno evidenziato il possibile incremento degli eventi avversi cerebrovascolari1. Le agenzie regolatrici del farmaco hanno redatto raccomandazioni specifiche per
sottolineare che il trattamento dei BPSD con antipsicotici atipici è “off-label”1. Gli antipsicotici convenzionali possono, al pari di quelli atipici, aumentare il rischio di morte tra gli anziani e non dovrebbero essere
utilizzati in loro vece dopo gli avvertimenti dell’FDA1. Prima di prescrivere un antipsicotico, bisognerebbe
tenere in considerazione la presenza di malattia cardiovascolare, l’intervallo QTc all’elettrocardiogramma,
gli eventuali squilibri elettrolitici, la storia familiare per torsioni di punta, l’impiego contemporaneo di farmaci in grado di allungare l’intervallo QTc. Gli antipsicotici atipici sono probabilmente ancora la migliore
opzione per il trattamento a breve termine (6-12 settimane) dell’aggressività severa, persistente e resistente ad altri trattamenti, ma i severi potenziali eventi avversi sono una controindicazione maggiore al trattamento a lungo termine4. Esaminando le cartelle cliniche dei pazienti anziani dementi afferenti al nostro Centro UVA tra l’1 gennaio ed il 31 dicembre 2009, abbiamo visto che su 452 pazienti visitati gli antipsicotici
sono stati utilizzati nel 46% dei casi (208 pazienti). L’età media di questi pazienti era di 79.5±8.5 anni. Gli
antipsicotici convenzionali sono stati utilizzati nel 27% dei casi, in particolare la promazina (23.2%), l’aloperidolo e lo zuclopentixolo (1.9%). Gli antipsicotici atipici utilizzati sono stati la quetiapina (40.4%), l’olanzapina (19.2%), il risperidone e la clozapina (5.7%). Abbiamo riscontrato quattro casi di ischemia cerebrale (1.9%), 3 casi di sospensione per sintomi extrapiramidali. In 20 casi (9.6%) è stata sospesa la terapia con
antipsicotici per sufficiente controllo dei sintomi. In conclusione, riguardo all’uso degli antipsicotici atipici nell’anziano affetto da demenza senile, è necessaria un’attenta valutazione caso per caso; il trattamento
deve essere mantenuto per tutto il periodo strettamente necessario al contenimento dei sintomi comportamentali non altrimenti controllabili con la più bassa dose efficace. Infine, bisogna tenere in considerazione le possibili interazioni farmaco-farmaco, farmaco-malattia e farmaco-alimenti.
BIBLIOGRAFIA
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INTERVENTO PSICOEDUCAZIONALE DEDICATO A CAREGIVERS
DI PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER
Gazzi Lidia1, Caffarra Sendy1,2, Avanzi Stefano1, Mora Fernanda1, Galante Emanuela1
1 IRCCS Fondazione Maugeri, Istituto Scientifico di Castel Goffredo (MN)
2 Dip. di Scienze Biomediche, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia
SCOPO
Nel corso degli ultimi 30 anni sono stati condotti numerosi studi sulle conseguenze fisiche e psicologiche del prendersi cura (care-giving) di una persona affetta da demenza. Considerando che i caregiver
sostengono l’80-90% del peso dell’assistenza, è evidente che gli interventi educazionali e di supporto rivolti alle persone che offrono assistenza devono essere considerati una parte fondamentale dei programmi di
trattamento. Scopo dello studio è stato quello di verificare l’efficacia di un corso psico-educazionale dedicato a caregiver di pazienti affetti da malattia di Alzheimer. Nei diversi incontri ci si è proposti di fare acquisire, ai partecipanti, conoscenze relative alla malattia ed alle possibili fonti di assistenza, competenze relative a tecniche di stimolazione cognitiva e tecniche per il controllo dei disturbi comportamentali applicabili al contesto di vita quotidiana; ci si è proposti inoltre di ridurre il senso di isolamento e sconforto spesso esperiti dai caregiver. Scopo generale dell’intervento è stato quindi quello di controllare l’impatto della malattia sui caregiver, posticipando la necessità di trattamento farmacologico dei disturbi comportamentali e di istituzionalizzazione dei pazienti.
MATERIALI E METODI
Hanno partecipato ad un primo corso psico-educazionale sette familiari di pazienti riconosciuti affetti da malattia di Alzheimer, in trattamento con anticolinesterasico a dose stabile da almeno 3 mesi. Nove familiari, che per diversi motivi non hanno partecipato al corso psico-educazionale, sono stati sottoposti alla somministrazione degli stessi questionari e scale, fungendo da gruppo di controllo. I caregiver sono stati sottoposti alla compilazione di scale volte ad indagare l’impatto della malattia del paziente sulla loro vita, i loro bisogni e la loro condizione psicologica: Caregiver Burden Inventory (CBI), Family-Strain Questionnaire (FSQ), Caregiver Needs Assessment (CNA), Scheda Ansia-Depressione (AD-R). Entrambi i gruppi
(partecipanti al corso e gruppo di controllo) sono stati sottoposti a somministrazione di test e scale prima
dell’inizio del corso (T0) e dopo 6 mesi (T1). Al gruppo dei partecipanti al corso è stato inoltre somministrato un questionario di gradimento.
Il corso si è articolato in 5 incontri della durata di circa due ore con cadenza mensile; durante gli incontri è stato distribuito materiale cartaceo e si è presa visione di video in grado di illustrare le migliori modalità di gestione ed assistenza della persona affetta da demenza.
RISULTATI
I partecipanti al corso hanno manifestato un elevato livello di soddisfazione (100% di risposte “molto”
o “moltissimo” alla domanda “quanto è soddisfatto di avere partecipato a questi incontri?”), in particolare,
per la possibilità di confrontarsi con i familiari di altri pazienti con la stessa malattia e per la comprensione ed il supporto ricevuto. Hanno giudicato rilevanti o molto rilevanti gli argomenti trattati nel corso; la partecipazione agli incontri è stata inoltre giudicata efficace o molto efficace nello stimolare a cambiare alcuni aspetti delle proprie attività di cura. Il confronto dei punteggi rilevati in T0 e T1 nei due gruppi (partecipanti al corso e gruppo di controllo) è in corso di elaborazione statistica e verrà discusso tenendo in
considerazione quanto già emerso dal preliminare questionario di gradimento.
CONCLUSIONI
I risultati del nostro studio sembrano supportare l’efficacia degli interventi psico-educazionali dedicati ai caregiver di pazienti affetti da demenza nel fornire informazioni sulla malattia, tecniche di stimolazione cognitiva e di controllo dei disturbi comportamentali e supporto sociale ai partecipanti.
Sono previste valutazioni di follow-up, al fine di valutare l’eventuale efficacia a lungo termine dell’intervento effettuato.
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REGOLAMENTO D’ACCESSO AL CDI PER MALATI CON PATOLOGIA
COGNITIVA
Gentile Simona, Gregari Adelaide, Caminati Claudia, Villani Daniele
Dipartimento Anziani - Fondazione Sospiro, Sospiro (CR)
SCOPO
Nel mese di marzo del 2003 la Fondazione-Sospiro ha aperto un Centro Diurno Integrato Alzheimer
(CDI). L’esperienza di questi anni ci ha fatto ritenere fondamentale, per ottimizzare l’efficacia del CDI,
l’identificazione dei pazienti che possono trarre il massimo beneficio dalla frequenza di questo servizio. Il
regolamento d’accesso diventa strumento importante per definire l’appropriatezza, rispondere ai bisogni
più urgenti ed ottenere, probabilmente, i migliori risultati. All’inizio dell’attività del CDI, l’accesso è stato
programmato seguendo un criterio di tipo temporale. Quando i posti sono stati totalmente saturati si è tenuto conto, per stilare la lista d’attesa, di criteri di tipo geografico e dello stress dei caregiver. Abbiamo
quindi utilizzato una scala di valutazione del carico assistenziale, Caregiver Burden Inventory (CBI), riproponendola poi ogni sei mesi. L’utilizzo del CBI ci ha consentito di mettere in evidenza situazioni nelle quali per l’equipe era chiara una riduzione del carico fisico e psichico del familiare, ma l’impressione non veniva confermata dalla scala in uso. Si è quindi ritenuto necessario riformulare i criteri d’accesso.
MATERIALI E METODI
Un’equipe composta dal Medico Responsabile dei Servizi Territoriali della Fondazione, dall’Assistente
Sociale e dall’Educatrice del Centro Diurno ha redatto un nuovo regolamento d’accesso, che ha tenuto
conto di tre aspetti: la tipologia dei pazienti che in questi anni hanno frequentato il CDI, i risultati ottenuti (diminuzione dei disturbi del comportamento, miglioramento del quadro funzionale, stabilizzazione o rallentamento del declino cognitivo), le caratteristiche della famiglia.Valutando l’evoluzione testistica (MMSE,
Barthel, NPI) dei pazienti transitati al CDI e la composizione dei nuclei familiari, si sono individuati i seguenti criteri: possesso di requisiti diagnostici, vicinanza topografica, valutazione di una scheda sociale.
RISULTATI
Il possesso dei requisiti diagnostici prevede:
– Diagnosi di demenza (5 PUNTI). Il CDI di Sospiro nasce dalla documentata necessità, sul territorio, di
un luogo appropriato e competente per questa patologia.
– Test di Barthel (≥ 50 → 5 PUNTI; 50-30 → 3 PUNTI; < 30 → 0 PUNTI). Pur prevedendo d’inserire pazienti non autosufficienti (Barthel<60) la maggior funzionalità è sembrata importante in un luogo dove
l’aspetto della gravità cognitiva giocava un ruolo determinante.
– Test MMSE (23-30 → 2 PUNTI; < 15 → 3PUNTI; 16-22 → 5PUNTI). L’esperienza di questi anni ha evidenziato come nei pazienti della fascia intermedia si siano visti i maggiori risultati sul piano cognitivocomportamentale e funzionale. Si è ritenuto opportuno dare un punteggio più alto a pazienti gravi, rispetto a quelli lievi, per la maggior difficoltà alla loro assistenza.
– Test Comportamento: si sono scelte le voci del NPI, dando a queste punteggi che tenessero conto dell’esigenze familiari e della compatibilità ritenuta necessaria per la vita di comunità.
– Vicinanza topografica: La vicinanza del domicilio al CDI costituisce criterio preferenziale: comune
di Sospiro punti 20; comuni limitrofi 15; comuni distanti meno di 20 km 10; oltre 20 km punti 5.
– La scheda sociale: la presenza dell’Assistente Sociale nell’equipe ha fatto sì che si potessero sempre
analizzare le situazioni delle famiglie; si è convenuto che, in questi anni, gli interventi più efficaci erano collegati alla possibilità di essere assistiti al rientro a domicilio.
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Andando a valutare schede per il punteggio sociale già presenti ed in uso nel nostro territorio, si è redatta una scheda in cui i punteggi più elevati sono attribuiti a pazienti giovani. Di particolare peso psicologico ed economico risultava essere, in questi casi, la presenza del paziente a casa. Attribuendo un punteggio più basso agli ultraottantenni, si è voluto tener conto del disagio del trasporto. Alle persone assistite giorno e notte è stato dato un punteggio alto, ritenendo che la richiesta di inserimento al CDI fosse da
intendere o come uno sgravo economico o anche come la necessità, intravista dal familiare, di inserire il
proprio caro in un luogo specializzato.
CONCLUSIONE
Il nostro CDI è nato come spazio in grado di colmare la difficoltà dell’assistenza. La valutazione del
metodo d’accesso identificato, che faremo nei prossimi mesi, servirà per individuare la tipologia di paziente che, grazie all’integrazione assistenziale del nostro servizio, possa rimanere il più a lungo possibile a casa propria.
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OUTCOME PRIMARI IN RSA: METODOLOGIA DI CURA DEL PAZIENTE
AFFETTO DA DEMENZA CON DISTURBI DEL COMPORTAMENTO
Ghianda Diego1, Bertoletti Erik3, Rozzini Luca1,3, Padovani Alessandro3, Trabucchi Marco1,2
1
Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
Università “Tor Vergata”, Roma
3 Clinica Neurologica, Universtità degli Studi di Brescia
2
SCOPO
Le Residenze Sanitarie Assistenziali (R.S.A.) sono strutture extra-ospedaliere per anziani disabili, prevalentemente non autosufficienti, non assistibili a domicilio, abbisognevoli di trattamenti continui e persistenti, finalizzate a fornire accoglienza ed erogazione di prestazioni sanitarie, assistenziali, di recupero funzionale e sociale, in cui deve realizzarsi il massimo dell’integrazione degli interventi sanitari e sociali. Sono inoltre parte integrante della rete di cura per pazienti affetti da demenza, in particolar modo nelle fasi avanzate della malattia quando compaiono disturbi del comportamento (BPSD).Al fine di valutare l’efficacia della
RSA nel trattamento del paziente affetto da demenza con disturbi del comportamento sono stati misurati l’andamento nel tempo dei BPSD e i pattern prescrittivi in un gruppo di pazienti, consecutivamente ricoverati
presso l’RSA (“Villaggio San Francesco” di Villanuova sul Clisi -BS) e rivalutati ogni sei mesi.
MATERIALI E METODI
Sono stati studiati 212 pazienti (età media 82.9±8.3 anni, 73% femmine) consecutivamente ricoverati
presso l’RSA dal Gennaio 2005 all’Ottobre 2009.Tutti i pazienti sono stati sottoposti entro la prima giornata dal ricovero ad una valutazione multidimensionale, comprendente esame obiettivo, valutazione dello
stato cognitivo (Mini Mental State Examination - MMSE), dei disturbi non cognitivi (Neuro-Psychiatric Inventory - NPI), dello stato funzionale (Barthel index), della comorbilità. Il campione è stato ulteriormente
selezionato per pazienti affetti da demenza con disturbi comportamentali (N 82).
RISULTATI
Il rate di progressione del decadimento cognitivo misurato con il MMSE e delle variabili che identificano il livello di abilità funzionale (MMSE a T0 = 15,3 + 7,4 vs MMSE a T24 = 13,7 + 7,6; BADL a T0 = 4,0 +
1,8 funzioni perse vs BADL a T24 = 4,3 + 1,6 funzioni perse; Tinetti scale a T0 = 17,3 + 8,7 vs T24 = 16,6
+ 7,9) sottolinea una sostanziale stabilità dei pazienti nel corso dei 2 anni di studio. Il trend dei BPSD, misurati con l’NPI, evidenzia un lento e graduale miglioramento dei disturbi comportamentali (NPI tot a T0
= 30,2 + 20,2 vs NPI tot a T24 = 21,9 + 16,4). Il cambiamento dei pattern prescrittivi dei principali farmaci psicoattivi (benzodiazepine:T0 = 41% vs T24 = 25%; neurolettici di nuova generazione:T0 = 30% vs T24
= 16%; neurolettici di vecchia generazione:T0 = 17% vs T24 = 4%; SSRI:T0 = 18% vs T24 = 26%) è associato alla relativa conservazione del grado di decadimento cognitivo, con un più lento rate di progressione per
anno rispetto ai dati di letteratura. L’analisi dei singoli item dell’NPI, misurati nello stesso periodo di tempo, mostra una sostanziale riduzione e/o stabilità dei singoli disturbi. La riduzione di tendenza si è verificata per i disturbi del sonno (p=.000), i disturbi alimentari (p=.000) ed i sintomi psicotici (deliri) (p=.000).
CONCLUSIONE
Il modello clinico-assistenziale complesso da noi adottato si è dimostrato efficace anche in pazienti
con decadimento cognitivo di grado avanzato e con disturbi comportamentali. La possibilità di valutare
con specifici strumenti ambiti assistenziali e clinici del paziente definito “complesso” rende l’intervento più
dettagliato e meno interpretativo. La stabilità nel tempo della cognitività e dei BPSD associata ad una ridotta prescrizione di farmaci psicoattivi, suggerisce un obiettivo perseguibile nella cura del paziente affetto
da demenza. Peraltro è rilevante il fatto che in RSA i pazienti conservino nel tempo la funzione residua, che
troppo spesso viene sacrificata in conseguenza di trattamenti incongrui.
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LA PSICOTERAPIA CON IL PAZIENTE ANZIANO:
UN PERCORSO POSSIBILE E AUSPICABILE
Ghiano Federica, Castelli Maria Angelica, Chiecchio Regina, Dalmotto Marinella,
Gianara Augusta, Ferrero Merlino Silvia, Morero Daniela, Pirfo Elvezio
Dipartimento di Salute Mentale ASL TO2
RIASSUNTO
La psicoterapia con il paziente in età senile spesso comporta maggiori difficoltà cliniche ed organizzative. Le frequenti comorbilità somatiche, l’eventuale assenza di supporto familiare, i pregiudizi sulla condizione psichica degli anziani od i timori legati al contesto sociale possono influire sulle motivazioni ad intraprendere o sostenere un lavoro di tipo psicologico.
Il servizio di Psicogeriatria del DSM “G.Maccacaro” dell’Asl Torino 2 a partire dal 2005 prevede la possibilità di trattamenti di psicoterapia breve ai soggetti cognitivamente integri, indipendentemente dall’età.
Tale attività è stata oggetto di uno studio longitudinale della durata di due anni con l’obiettivo di verificare l’efficacia degli interventi psicoterapeutici.
Il nostro campione è composto da 54 soggetti a cui è stato proposta una psicoterapia prevalentemente per problematiche di tipo ansioso depressivo.
METODI
Lo psichiatra effettua una prima valutazione della condizione psicofisica avvalendosi dei seguenti strumenti diagnostici: cartella clinica, MMSE, GDS, ADL, IADL, SF-12.
Ai pazienti, seguiti dal punto di vista psicoterapeutico, sono stati somministrati MMSE, GDS e SF-12, sia
al termine dell’intervento sia dopo sei mesi dalla conclusione dello stesso.
Il modello di psicoterapia utilizzato è breve e calibrato sul tipo di utenza.
RISULTATI
La ricerca effettuata evidenzia un generale beneficio sia a conclusione della psicoterapia sia dopo un
periodo di sei mesi. Il numero di soggetti del campione decresce nell’arco di tempo considerato: 54 pazienti sono stati presi in carico, 49 pazienti sono stati valutati al primo follow up a conclusione dell’intervento, 35 pazienti valutati sei mesi dopo la conclusione della psicoterapia. Nonostante il nostro campione sia
composto da soggetti prevalentemente integri dal punto di vista cognitivo (90,5% con MMSE > 24) e non
affetti da gravi patologie somatiche (49%), la riduzione numerica al secondo follow up può essere prevalentemente attribuibile alle difficoltà sopra citate relative agli anziani ed alla soggettiva percezione di inutilità di rivalutazione nel momento in cui non si avverte più il bisogno di un supporto.
CONCLUSIONI
I dati emersi sia dalla scala GDS sia dal questionario SF-12 evidenziano una significativa riduzione dello stato depressivo (soggetti non depressi 33% alla prima valutazione, 53% dopo l’intervento psicoterapeutico e 56% dopo sei mesi) ed un miglioramento nella percezione di benessere generale.
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SUPPORTO PSICOEDUCATIVO PER FAMILIARI DI PERSONE
AFFETTE DA DEMENZA CON BPSD: VALUTAZIONE DI EFFICACIA
Giannelli Giovanni1, Fagioli Micaela1, Zamagni Elisa1, Gori Morena1, Ambrogetti Rosanna1,
Farnedi Monia2
1 AUSL Cesena (Centro per le Demenze e i Disturbi del Comportamento)
2 Associazione CAIMA (Familiari Malati di Alzheimer)
SCOPO
I BPSD rappresentano il maggior carico di stress per i familiari di persone affette da demenza. Spesso
la sola visita ambulatoriale non costituisce una risposta esaustiva per i bisogni dell’anziano e della sua famiglia, per cui si è pensato di associare alla terapia farmacologica un supporto psicologico rivolto ai familiari. Scopo del presente studio è di verificare l’efficacia di un intervento psicoeducativo nel ridurre lo
stress del caregiver e nel migliorare la capacità di gestione dei disturbi comportamentali.
MATERIALI E METODI
Sono stati organizzati sei incontri di psicoeducazione rivolti ai familiari di persone affette da demenza
seguite presso il Centro per le Demenze ed i Disturbi del Comportamento dell’AUSL di Cesena. Hanno
partecipato all’intervento 20 familiari, selezionati, attraverso la somministrazione del NPI (Neuropsychiatric Inventory), in base alla frequenza ed alla gravità dei disturbi comportamentali nella persona affetta da
demenza ed al loro impatto sul caregiver. I BPSD emersi con maggior frequenza sono risultati l’agitazione,
l’attività motoria aberrante ed i deliri.
Per verificare l’efficacia dell’intervento sono state somministrate ai familiari scale di valutazione dell’ansia e della depressione, del carico assistenziale, del senso di competenza, della salute e delle difficoltà cognitivo-comportamentali del malato (HADS, ZARIT, SCQ, G.H.Q.12, RMBC).
RISULTATI
Da un’analisi statistica, condotta attraverso un T-Test su 13 familiari (prevalentemente donne di età media di 56 anni, che dedicano all’assistenza 21,46 ore giornaliere), sono risultate alcune differenze significative fra la condizione pre-corso e post-corso. In particolare è emersa una riduzione statisticamente significativa nei questionari che valutano il distress ed il burden ed un lieve aumento, se pur non statisticamente significativo, dei punteggi ottenuti nel test che indaga il senso di competenza.
CONCLUSIONI
Questi dati mettono in luce l’efficacia del corso psicoeducativo sugli aspetti inerenti lo stress, il carico assistenziale ed il senso di autoefficacia del caregiver piuttosto che sull’ansia e sulla depressione. I familiari hanno inoltre espresso il loro gradimento nei confronti dell’iniziativa, che è emerso sia dalla somministrazione di specifici questionari che dalla frequenza assidua agli incontri.
Le nostre osservazioni, in accordo con i dati della letteratura, suggeriscono che il sostegno psicoeducativo del caregiver rappresenta un importante aiuto nella gestione del malato di demenza riducendo il carico di stress.
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UNO STRANO COMA IN UNA PAZIENTE AFFETTA DA DEMENZA
DI ALZHEIMER
Giordano Alessandro1,2, Piovani Laura1,2, Mattanza Chiara1,2, Sleiman Intissar1,2,
Rozzini Renzo1,2, Trabucchi Marco2
1 Istituto
2 Gruppo
Ospedaliero-Fondazione Poliambulanza, Brescia
di Ricerca Geriatrica, Brescia
L’acidosi lattica, caratterizzata dall’accumulo plasmatico di acido lattico, è la causa più comune di acidosi metabolica nei pazienti ospedalizzati. Il quadro è caratterizzato da acidosi metabolica con aumentato
gap anionico e da concentrazione di lattati ematici intorno ai 4 meq/l. La patogenesi dell’acidosi lattica è
caratterizzata da stati di shock dovuti ad ipovolemia, insufficienza cardiaca o sepsi o di arresto cardiopolmonare con marcata ipoperfusione tissutale, più raramente i meccanismi responsabili dell’acidosi sono legati alla compromissione del metabolismo cellulare dovuti all’assunzione di tossine o di farmaci (ipoglicemizzanti orali, salicilati ecc.) od alla presenza di ischemie tissutali localizzate (infarto intestinale).
CASO CLINICO
Si descrive il caso clinico della sig.ra B.P di anni 72, affetta da demenza di Alzheimer di grado severo
(MMSE: 7/30) con riferiti disturbi del comportamento, ipertensione arteriosa, litiasi renale dx. La paziente
è stata ricoverata presso il nostro reparto nel Luglio 2009 per coma (GCS 1+1+1) di n.d.d. I parametri
emodinamici all’ingresso risultavano nella norma (PA 130/80, fc 70 bpm).All’esame obiettivo neurologico
non si apprezzavano segni di lato, febbre o segni di meningismo. I valori emogasanalitici mostravano un quadro di acidosi lattica: pH 7.20, PO2 102, pCo2 23, HCO3- 10 lattati 15, gli esami ematici documentavano aumento dei globuli bianchi (13.8; valori di riferimento 5-10 10^3/mmc) ed alterazione dei valori di creatinina (1.5; valori di riferimento 0.5-0.9 mg/dl). I valori di emoglobina, glicemia, gli elettroliti sierici,VES e PCR,
ed alcolemia risultavano nei range di normalità. Analogamente l’esame chimico fisico delle urine non documentava segni di infezione. La paziente eseguiva alcune indagini strumentali, quali Rx torace che non evidenziava lesioni pleuro-parenchimali in atto ed ecografia dell’addome che risultava nella norma. Posta diagnosi di coma da acidosi lattica si escludevano le principali cause di acidosi lattica (sepsi, ipovolemia e insufficienza cardiaca). Il marito negava l’eventuale assunzione inappropriata di farmaci; riferiva tuttavia che
il giorno precedente, a pranzo in occasione di una ricorrenza festosa, la paziente aveva bevuto almeno 750
cc di vino e che nel tardo pomeriggio era stata trovata con una bottiglia di liquido antigelo tra le mani. Nel
sospetto di un’eventuale assunzione della sostanza e della possibilità che l’acidosi lattica fosse correlata al
gesto, venivano richiesti i cristalli di ossalato di calcio urinari ed il dosaggio di glicole etilenico sierico ed
urinario al fine di confermare il sospetto diagnostico. Gli esami confermavano l’ipotesi, per cui si somministrava alcool per os (antidoto del glicole etilenico), idratazione, bicarbonato e.v, monitoraggio della diuresi e della funzione renale.
In seconda giornata la paziente presentava miglioramento dello stato di coscienza, fino al completo
recupero alla dimissione (GCS 4+5+6).
CONCLUSIONE
L’acidosi lattica da intossicazione da glicole etilenico è una causa rara di acidosi lattica, potenzialmente letale. I pochi casi descritti in letteratura sono attribuibili all’assunzione volontaria a scopo autolesivo oppure ad assunzione accidentale. Il ritardo della comparsa dei sintomi osservato nel caso descritto potrebbe essere giustificato dall’abuso alcolico. Questo caso evidenzia le difficoltà diagnostiche che si possono
riscontrare in pazienti affetti da decadimento cognitivo con disturbi del comportamento.
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ASSISTENZA DOMICILIARE NEI DEMENTI: RISULTATO DI UN’INDAGINE
CONOSCITIVA SUL GRADO DI SODDISFAZIONE DEI CARE-GIVER
Giraldi Carlo, Floris Giulietta, Guidi Corrado, Mandoli Paolo
Associazione “Don Franco Baroni” - Onlus, Lucca
SCOPO
L’Associazione Don Franco Baroni-onlus di Lucca ha come motto “curare a casa è meglio”. Da oltre 13
anni ha in carico l’assistenza domiciliare oncologica dell’ASL 2 di Lucca. Recentemente ha anche fatto una
convenzione con i Comuni di Lucca,Capannoni e Montecarlo (LU) per l’assistenza domiciliare geriatrica.
Dal 2008 tra l’altro sono stati seguiti, con tale modalità, 30 pazienti affetti da Demenza. Nella primavera del
2009 è stata eseguita sui caregiver un’indagine conoscitiva sul grado di soddisfazione del servizio offerto.
MATERIALI E METODI
A 30 familiari di pazienti affetti da Demenza Senile è stato somministrato un questionario composto da
9 domande a scelta multipla con 5 possibili risposte (da per nulla soddisfatto a totalmente soddisfatto). In
sede di valutazione è stato attribuito 2 punti a “per nulla soddisfatto”; 4 punti a “poco soddisfatto”, 6 punti a “soddisfatto”; 8 punti a “più che soddisfatto”; 10 punti a “totalmente soddisfatto” Sono state fatte poi 3
domande a risposta semplice (si-no) ed una domanda a risposta aperta dove il caregiver poteva suggerire
servizi od iniziative aggiuntive.
RISULTATI
Tutti gli interessati hanno risposto alle domande a scelta multipla (100%); in 28 (93%) hanno riposto alle domande semplici e solo 25 (83%) hanno dato suggerimenti. L’indice di soddisfazione sui servizi è stato calcolato sommando i punteggi “soddisfatto”,“più che soddisfatto e “totalmente soddisfatto” diviso il
numero delle risposte. La prima risposta sulla “qualità del servizio” ha ottenuto un indice di soddisfazione
pari a 9,1\10; la seconda su “professionalità” del personale 8,4\10; la terza su “disponibilità” dell’operatore
9,1\10; la quarta su “cortesia” 9,2\10; la quinta su “chiarezza delle informazioni” 7,5\10; la sesta su “capacità di risolvere problemi” 7,4\10; la settima su “tempestività” degli interventi 7,3\10; l’ottava su “puntualità
e precisione del servizio” 8,9\10, la nona su “capacità di ascolto” e rapporti con l’associazione 7,4\10. Le risposte delle domande a scelta singola hanno evidenziato soddisfazione nel servizio svolto nel 100%, adeguatezza del costo nell’89% mentre l’84% degli intervistati riteneva sufficiente il servizio svolto. I suggerimenti hanno riguardato attività ludiche (gite, caffè Alzheimer, bingo) da affiancare all’assistenza domiciliare e la richiesta di personale sanitario (medici ed infermieri) specializzato in demenze.
CONCLUSIONE
Nel complesso l’indagine ha mostrato che i caregiver ritengono che il servizio di cure domiciliari offerto sia moto positivo. I familiari hanno altresì considerato in modo positivo l’iniziativa che li ha coinvolti. I risultati hanno permesso altresì di cercare di migliorare la comunicazione da parte degli operatori e l’incisività degli interventi. Peraltro la necessità di un riscontro obbiettivo all’operare delle associazioni di volontariato è oggi ritenuto indispensabile per un corretto utilizzo delle risorse sempre più limitate. Nell’ambito poi delle Demenze,che spesso causano burn-out, la soddisfazione dei familiari è indispensabile per
tarare i servizi e le offerte di tipo socio-sanitario.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
MIGLIORAMENTO DELLO STATO FUNZIONALE ALLA VALUTAZIONE
DIRETTA IN SOGGETTI CON MALATTIA DI ALZHEIMER
DOPO INTERVENTO DI TERAPIA DI ATTIVAZIONE COGNITIVA
Gollin Donata, Ferrari Arianna, Talassi Erika, Peruzzi Anna, Ruaro Cristina,
Codemo Alessandra, La Sala Angela, Poli Sarah, Gabelli Carlo.
CRIC, Centro Regionale per lo Studio e la Cura dell’Invecchiamento Cerebrale, Ulss 5, Valdagno
SCOPO
Nel trattamento dei soggetti con AD è stato messo a punto un protocollo non farmacologico denominato Cognitive Activation Therapy (CAT) da associare alla terapia farmacologica. Scopo del presente studio
è quello di valutare l’efficacia della CAT sullo stato funzionale di soggetti con AD lieve-moderato.
MATERIALI E METODI
La CAT si ispira a tecniche già note quali la ROT, la Reminiscenza, la Rimotivazione e la Stimolazione delle funzioni cognitive basata sui principi dell’errorless learning cui si aggiunge l’animazione socio-educativa. Il trattamento è rivolto a piccoli gruppi di pazienti (3-5 persone), per 18 sedute di 4 ore ciascuna. Per
monitorare la ricaduta sulle abilità semplici e complesse della vita quotidiana è stata utilizzata una scala di
valutazione diretta, la Direct Assessment of Functional Status (DAFS) all’inizio ed al termine di ogni trattamento. Le attività valutate alla DAFS sono diverse da quelle allenate con la CAT.Viene inoltre eseguita una
valutazione cognitiva (MMSE) e della percezione della qualità della vita (SF-12). Sono stati arruolati un totale di 246 pazienti con AD lieve-moderato (MMSE range 14-24) in terapia farmacologica stabilizzata con
inibitori dell’acetilcolinesterasi. Il gruppo sperimentale di 206 pazienti ( 72%) è stato confrontato con un
gruppo di controllo di 40 pazienti ( 70%) equiparabile per età, sesso,
stato cognitivo, funzionale e terapia. L’elaborazione statistica è stata effettuata con il pacchetto SPSS.
RISULTATI
Dopo il trattamento CAT, si rileva un
significativo miglioramento al MMSE di
punti 1.4±2.6 (m±DS; p<.0001), ed alla
DAFS di punti 6.9±6.2 (m±DS; p<.0001).
Il confronto delle variazioni dei punteggi al MMSE ed alla DAFS tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo è significativamente diverso (p<0.0001); nei
controlli non si rilevano, infatti, modificazioni significative tra la prima e la seconda valutazione.
L’86.3% del gruppo sperimentale ottiene un miglioramento alla DAFS (da 1 a
24 punti), mentre solamente il 37.5% del
gruppo di controllo presenta un miglioramento (da 1 a 13 punti). Invariati i punteggi alla SF-12 in entrambi i gruppi. Il grafico mostra l’andamento della variazione
del punteggio DAFS nei due gruppi.
CONCLUSIONI
L’intervento di Cognitive Activation Therapy ha evidenziato un significativo miglioramento sia nel dominio cognitivo che in quello funzionale. Pertanto la CAT potrebbe rappresentare una strategia terapeutica aggiuntiva, rispetto ai trattamenti farmacologic,i attualmente in uso, nel rallentare la progressione della compromissione funzionale nei pazienti affetti da malattia di Alzheimer.
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DELIRIUM IN UNITÀ SUB-INTENSIVA GERIATRICA
Grippa Alessandro1, Caronzolo Francesco1, D’Amico Ferdinando1,2
1
Unità Operativa Complessa di Geriatria e Lungodegenza, Area Critica di Geriatria, Laboratorio di
Psicogeriatria, Presidio Ospedaliero Patti, Azienda Sanitaria Provinciale, Messina
2 Coordinamento Attività Geriatriche, Azienda Sanitaria Provinciale, Messina
SCOPO
Recenti studi hanno evidenziato come il Delirium sia prevalente nel paziente in condizioni critiche, associandosi spesso a maggiore comorbilità con complicazioni cliniche, elevata degenza e mortalità. Anche
nelle Unità di Terapia Subintensiva (sebbene non siano presenti soggetti in ventilazione artificiale) si è riscontrata una maggiore incidenza di Stato confusionale acuto. Pertanto in pazienti affetti da Delirium ricoverati nell’Area Critica della U.O.C. di Geriatria del P.O. di Patti, sono stati studiate le caratteristiche dei disturbi osservati, le patologie prevalenti, i fattori precipitanti, la comorbilità e la mortalità a medio termine.
MATERIALI E METODI
Sono stati studiati 233 pazienti ricoverati nell’Area Critica di Geriatria (4 posti letto) nel periodo Gennaio-Dicembre 2009. Tutti i soggetti erano sottoposti a monitoraggio continuo dei parametri vitali. A tutti
i pazienti sono state somministrate, all’ammissione e durante il ricovero, le scale CAM-ICU per la valutazione del Delirium, CIRS per la valutazione della comorbilità e MMSE per la valutazione dello stato cognitivo.
Inoltre, è stata monitorata mediante diario orario del personale infermieristico la presenza di disturbi del
sonno (deprivazione). Entro 3 mesi dal ricovero è stata verificata l’eventuale mortalità. I pazienti con Delirium sono stati trattati con Aloperidolo o Quetiapina.
RISULTATI
Sulla base della scala CAM-ICU venivano distinti 2 gruppi: Gruppo A (in cui era presente Delirium) e
Gruppo B (No Delirium).
Numero Soggetti
Delirium (Gruppo A)
No delirium (Gruppo B)
149 (M 57 F 92)
84 (M 38 F 46)
79 + 7
76 + 8
Età Media
PATOLOGIA DI INGRESSO
Deprivazione del sonno (per almeno 3 giorni)
MMSE all’ingresso (media)
Stroke
Scompenso cardiaco acuto
Insufficienza respiratoria
Shock
Aritmia cardiaca
Altro
Stroke
Scompenso cardiaco acuto
Insufficienza respiratoria
Shock
Aritmia cardiaca
Altro
73 soggetti (M 29 F 44)
31 soggetti (M15 F16)
Non somministrabile
14,9
13,1
19,2
MMSE alla dimissione (media)
Tipologia del Delirium
51
30
40
12
12
4
Ipercinetico
Ipocinetico
Misto
95
10
44
CIRS (Indice severità comorbilità-media)
3,7
2,8
Mortalità a 3 mesi
n. 58
n. 21
23
32
12
5
9
3
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I soggetti che hanno manifestato Delirium presentavano età più avanzata, maggiore grado di comorbilità, maggiore declino cognitivo. Nel confronto dei 2 gruppi le patologie prevalenti nei soggetti deliranti
erano lo Stroke e l’Insufficienza respiratoria acuta. Nei pazienti, affetti da queste patologie, è stata riscontrata una più lunga durata degli episodi ed una maggiore deprivazione del sonno con alterazione del ritmo
sonno-veglia. Indipendentemente dalla patologia d’ingresso i soggetti affetti da delirium mostravano una più
elevata mortalità a medio termine.
CONCLUSIONE
Il Delirium insorto in Unità di Terapia Sub-intensiva risulta un fattore prognostico negativo indipendente in soggetti anziani, risultando essere associato all’età, a maggiore comorbilità (specie quando prevalgono Malattia cerebrovascolare acuta ed Insufficienza respiratoria), ed a grave deprivazione di sonno. Inoltre, risulta predittivo di elevata mortalità, rispetto ad anziani con grave malattia che non hanno presentato in fase acuta stato confusionale.
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STUDIO MULTICENTRICO ITALIANO SUI DISTURBI DEL SONNO NEI
PAZIENTI CON MCI E DEMENZA: UTILITÀ E LIMITI DEI DIARI DEL SONNO
Guarnieri Biancamaria1, Musicco Massimo2, Appollonio Ildebrando Marco3, Bonanni Enrica4,
Caffarra Paolo5, Ferri Raffaele6, Lombardi Gemma7, Nobili Flavio Mariano8, Mearelli Simonetta9,
Perri Roberta5,10, Rocchi Raffaele11, Sorbi Sandro7
1 Centro
Medicina Sonno, Casa di Cura “Villa Serena”, Città S. Angelo, Pescara
CNR, Milano
3 Clinica Neurologica, Ospedale. S. Gerardo, Monza
4 Centro Medicina Sonno, Clinica Università, Pisa
5 Dipartimento Neuroscienze, Università, Parma
6 Centro Medicina Sonno, IRCCS Maria SS, Troina (EN)
7 Dipartimento Scienze Neurologiche, Università, Firenze
8 Neurofisiologia Clinica, Università, Genova
9 Dipartimento ScienzeNeurologiche, Università, L’Aquila
10 IRCCS Santa Lucia, Roma
11 Centro Medicina Sonno, Clinica Neurologica, Università, Siena
2 ITB-
Lo studio afferisce al Programma strategico del Ministero della Salute “Malattie Neurodegenerative”
OBIETTIVI
Stimare prevalenza dell’insonnia, dei disturbi del ritmo sonno-veglia e di altri disturbi autonomi del
sonno (disturbi respiratori, Sindrome delle gambe senza riposo, possibile disturbo del comportamento in
sonno REM, eccessiva sonnolenza diurna) in pazienti con MCI e demenze;
studiare relazioni tra qualità del sonno e funzioni cognitive;
valutare farmaci utilizzati in relazione ai vari disturbi del sonno;
Valutazione dell’utilità dei diari del sonno in tale popolazione clinica.
MATERIALI E METODI
Pazienti consecutivi, reclutati nell’arco di 6 mesi, affetti da MCI e demenze (AD, VaD, FT, PD-LBD) afferenti ai 10 Centri partecipanti che si occupano di demenze, ospedalieri ed universitari, alcuni affiancati
da Centri Sonno riconosciuti dall’Associazione Italiana Medicina Sonno (AIMS).
Per rilevazione informazioni e compilazione diari, coinvolti operatori sanitari e/o caregiver.
Effettuati e compilati:
1) MMSE, CDR, GDS, IADL e BDI-II
2) Intervista strutturata per insonnia ed eccessiva sonnolenza diurna, Berlin Questionnaire, questionario per RLS, questionario per identificare possibile parasonnia del REM (BD)
a) Pittsburgh Sleep Quality Index
b) Questionario di anamnesi farmacologica con particolare riferimento a farmaci usati per i disturbi del
sonno
c) Diario del Sonno da compilare nei 7 giorni seguenti la consegna.
RISULTATI
sono stati arruolati 436 pz, 192 maschi e 244 femmine, età media 71+/-16, 32,8% MCI, 46.7 % AD, 9.8%,
VaD, 5.9% FTD, 4.8% LB/PD. L’insonnia era presente nel 51% dei soggetti mentre i disturbi del sonno, globalmente presi, interessavano il 69% dei pazienti con alto rischio di disturbo respiratorio in sonno al Berlin Questionnaire in percentuali comprese tra il 30 ed il 65%. La RLS è risultata presente in percentuali
comprese tra il 4.7 e l’8%. Probabile RBD in percentuali tra il 18 e il 47%. Sonnolenza diurna rilevata in
percentuali tra 43 e 71 %. Punteggio medio BDI: 10,3 +/- 7.5. Punteggio medio al Pittsburgh 6.1+/-3.9 su
tutta la popolazione studiata.
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I diari del sonno sono stati restituiti, compilati integralmente, solo nel 30.32% dei casi dei quali il 44.27%
affetti da MCI e 55.73% da demenze (36.64% AD, 10,68 FTD, 7.63 VaD, 0,76% LB/PD ). Buona la correlazione tra risultati del Pittsburgh Sleep Quality Index e dati ottenuti con i diari del sonno.
CONCLUSIONE
In Italia, i vari disturbi del sonno sono spesso poco approfonditi dai clinici che si occupano di disturbi cognitivi.
I risultati dello studio raccomandano che tali disturbi devono essere investigati in presenza di pazienti con declino cognitivo.
Utili, a tal fine, interviste strutturate, appositi questionari validati (Berline Questionnaire, Pittsburgh Sleep Quality Index), scale di valutazione.
I diari del sonno sono,nell’insonnia, uno strumento importante di valutazione: rispetto all’intervista strutturata, il diario ha il vantaggio di far rilevare direttamente al paziente (e/o al caregiver), notte dopo notte, i dati sul proprio ciclo sonno-veglia e sulla qualità del sonno, riducendo al minimo le componenti “ricostruttive”
che influenzano l’intervista anamnestica. Nella popolazione da noi studiata, però, sono state riscontrate difficoltà di compilazione e ridotta compliance. Buona la correlazione dei dati tra diari e Pittsburgh.
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SINTOMI DEPRESSIVI E MORTALITÀ AD UN ANNO IN PAZIENTI ANZIANI
RICOVERATI PER RIABILITAZIONE ORTOPEDICA
Guerini Fabio1,2, Lucchi Elena1,2, Morghen Sara1,2, Bellelli Giuseppe1,2, Trabucchi Marco2,3
1 Clinica “Ancelle
della Carità” - Dipartimento di Riabilitazione, Cremona
di Ricerca Geriatrica, Brescia
3 Università Tor Vergata, Roma
2 Gruppo
SCOPO
Valutare l’effetto della gravità dei sintomi depressivi sulla mortalità ad un anno in una popolazione di
pazienti anziani dimessi da un Dipartimento di Riabilitazione per esiti di intervento ortopedico agli arti
inferiori.
MATERIALI E METODI
Sono stati considerati 222 soggetti, con età superiore a 65 anni e sottoposti ad intervento ortopedico
(osteosintesi/endoprotesi femore, artroprotesi anca/ginocchio), ricoverati consecutivamente nel Dipartimento dal Gennaio 2004 al Maggio 2007. I pazienti sono stati sottoposti all’ingresso a valutazione multidimensionale che ha compreso: variabili demografiche, stato cognitivo (Mini Mental State Examination), stato affettivo (Geriatric Depression Scale, 15-item), salute somatica (Charlson Index, albuminemia e colesterolemia), stato funzionale (Barthel Index, FIM). Tutti i pazienti (o i familiari) sono stati ricontattati telefonicamente a 12 mesi per effettuare follow-up relativo a stato funzionale e sopravvivenza.
RISULTATI
Dei 222 pazienti elegibili per lo studio, 14 (6.3%) sono deceduti nei 12 mesi successivi alla dimissione.
Come atteso, i pazienti deceduti sono risultati essere significativamente più anziani, avere più frequentemente frattura di femore, una peggiore performance cognitiva, maggiori sintomi depressivi, peggior stato
nutrizionale e comorbidità più elevata rispetto ai pazienti sopravvissuti. Inoltre, i pazienti deceduti erano
funzionalmente più compromessi all’ingresso nel Dipartimento, hanno recuperato meno nel corso della degenza, e sono risultati essere più disabili alla dimissione. In un modello di regressione logistica multivariata, i principali predittori di mortalità a 12 mesi sono risultati essere la presenza di sintomi depressivi severi (OR: 4.4; IC95%: 1.4-14.0; p=.013) e la comorbidità (OR: 6.0; IC95%: 1.8-20.2; p=.004).
CONCLUSIONE
Lo studio suggerisce che la presenza di sintomi depressivi severi all’ingresso predice la mortalità a 12
mesi in una popolazione di soggetti anziani dimessi da un reparto riabilitativo post-acuto dopo una riabilitazione ortopedica. A causa delle loro potenziali implicazioni cliniche, i sintomi depressivi dovrebbero
divenire parte integrante dello screening iniziale in setting riabilitativi per pazienti anziani.
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ANALISI BIO-PSICO-SOCIALE DI UN GRUPPO DI ANZIANI AFFETTI
DA DEPRESSIONE MAGGIORE
Iandoli Ilaria, Redaelli Cristiana, Bellodi Sara, Del Torre Gaia, Imbesi Francesco, Levi Flavia,
Tombolini Beatrice, Gala Costanzo
Centro per la diagnosi e la cura per la depressione dell’anziano -AO San Paolo di Milano
SCOPO
Dall’1 al 4% della popolazione generale anziana presenta depressione e tale dato raddoppia nella fascia
di età compresa tra i 70 e gli 85 anni, la prevalenza di sindromi depressive dell’anziano diviene ancor più
elevata se dalla popolazione generale ci spostiamo a setting medici dove rileviamo prevalenze del 10-12%
nell’ospedale generale e del 6-9% in medicina generale. A ragione dell’importanza del fenomeno e della
difficoltà di presa in carico di questi pazienti da parte delle strutture psichiatriche territoriali, oltre che
dall’esperienza clinica, è stato attivato un Centro per la Diagnosi e la Cura della Depressione nell’Anziano
all’interno di un Ospedale Generale che rappresenta un filtro importante per il riconoscimento e l’invio
alla cura non solo dell’anziano che mostra evidenti sintomi depressivi, ma anche di quei pazienti anziani
portatori di patologia organica che possono rappresentare una fascia a rischio. Scopo del presente studio
è fornire un’analisi descrittiva delle caratteristiche dei pazienti presi in carico dal centro dal punto di vista socio-demografico e dal punto di vista psicometrico.
MATERIALI E METODI
Il campione è costituito da 153 soggetti di età superiore ai 65 anni presi in carico da ottobre 2008 ad
ottobre 2009 presso il Centro per la diagnosi e la cura della depressione dell’anziano. Al primo contatto a
tutti i pazienti sono stati somministrati: una scheda clinico-anamnestica standardizzata, la scala degli eventi stressanti di Paykel, la Hamilton Depression Scale (17 item) e la Geriatric Depression Scale (30 item).
RISULTATI
La distribuzione in base all’età ed al sesso della popolazione afferente al nostro Centro: nella fascia di età
tra i 65 e 74 anni il 75% del campione è di sesso femminile versus il 25% di sesso maschile; tra i 75 e gli 84
anni la prevalenza femminile è 70% versus il 30% di quella maschile; sopra gli 85 anni il 61% verso il 39%. La
netta preponderanza del sesso femminile riflette sia un dato puramente demografico (la popolazione anziana femminile è più ampia di quella maschile) sia il fatto che il sesso femminile in base ai dati in letteratura rappresenta un fattore di rischio d’insorgenza di depressione. Nel nostro campione la condizione di vedovanza,
che come ci si aspetta aumenta all’aumentare dell’età e prevale nel campione di donne (il 26% delle pazienti donne versus il 9% degli uomini). La vedovanza rappresenta un altro importante fattore di rischio. (sia per
il “lutto” in sé sia per lo stato di solitudine che spesso ne consegue).Il 36% del campione vive solo mentre prevale la popolazione che vive in famiglia, ma tale evidenza, seppur di tipo puramente descrittivo, ha portato ad
un’importante riflessione vale a dire che l’anziano che vive in famiglia è più monitorato e supportato.La maggior parte degli invii è ad opera di colleghi intraospedalieri (36% dei soggetti) e dei medici di medicina generale (31% dei soggetti) a confermare che questi due setting sono attualmente i principali filtri del riconoscimento della depressione nell’anziano. In entrambi i sessi la presenza di una patologia organica rappresenta
un evento stressante importante e quindi aumenta il rischio di insorgenza di depressione, tale dato diviene
sempre più evidente con l’aumentare dell’età (al di sopra degli 85 anni gli eventi stressanti si dividono in malattia/vedovanza). Relativamente alla differenza tra depressione insorta in età giovane adulta e depressione late onset (con primo episodio dopo i 60 anni) è possibile osservare nella nostra popolazione ambulatoriale una
percentuale piuttosto elevata di primi episodi, circa il 44%, sul campione totale.
CONCLUSIONI
Inoltre verranno discusse le correlazioni tra le variabili cliniche e psicometriche e le variabili sociodemografiche per un’analisi più dettagliata del profilo degli anziani affetti da depressione.
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DIFFERENZA DI OPINIONI SULLE DECISIONI DI FINE VITA TRA PSICOLOGI
E GERIATRI: LO STUDIO E.L.D.Y. (END OF LIFE DECISIONS STUDY)
Iasevoli Mario1, Giantin Valter1, Orrù Graziella1, Limonato Matteo1, Pengo Valentina1,
Valentini Elisabetta1, Pegoraro Renzo2, Manzato Enzo1, Maggi Stefania3, Crepaldi Gaetano3
1 D.I.A.I. dell’Anziano,
Università degli Studi di Padova - Az. Ospedaliera e ULSS 16 di Padova
Lanza, Padova
3 Centro Studi Invecchiamento - CNR di Padova
2 Fondazione
SCOPI
si è voluto indagare le opinioni di Psicologi (PSY) e Medici (prevalentemente Geriatri = MG) sulle decisioni di fine vita nelle regioni Veneto e Trentino Alto Adige.
MATERIALI E METODI
È stato elaborato un questionario di valutazione che ha tenuto conto delle critiche rivolte ai precedenti studi internazionali e nazionali (in particolare EURELD ed ITALELD).
La versione utilizzata è stata selezionata, adattata ed integrata tramite un lavoro interdisciplinare, durato circa sei mesi, tra medici geriatri, psicologi, infermieri, ricercatori, statistici e bioeticisti afferenti a
diverse unità operative. Lo studio nato sotto l’egida della Sezione Regionale della SIGG (Veneto e Trentino-Alto Adige), é stato condotto nell’ambito del PRIL - Programma Regionale sull’Invecchiamento e Longevità - affidato dall’Azienda Ospedaliera di Padova al CNR - Sezione Invecchiamento. Il questionario è stato inviato a tutte le direzioni dei reparti di Geriatria, Lungodegenza, Hospice ed alle Residenze Sanitarie
Assistite della Regione Veneto e del Trentino Alto-Adige, nonché tramite internet a tutti gli psicologi iscritti all’Albo Regionale del Veneto.
RISULTATI
Il campione delle risposte dello studio è di 213 partecipanti (139 geriatri -65.3%- e 74 psicologi -34.7%).
Tra i diversi risultati emersi, i più rilevanti possono essere sintetizzati, come segue (PSY% vs MG%) rispetto alle diverse aree indagate: 1) utilizzo dei farmaci, gli PSY evidenziano opinioni meno negative rispetto ai MG sia per quanto riguarda l’utilizzo di farmaci in dosi letali (7% vs 42%) che per il fatto che tale utilizzo possa portare ad un incremento di tale uso (15% vs 43%); inoltre, la stessa discrepanza emerge considerando la disponibilità di cure palliative come prevenzione alle richieste di eutanasia o di suicidio assistito (55% vs 70%); 2) convinzioni religiose o filosofiche: gli PSY sembrano orientare meno, rispetto ai
MG, il proprio comportamento professionale sulla base delle proprie convinzioni (55.4% vs 72.5%), la situazione si inverte quando sono le convinzioni del paziente ad orientare il professionista (94.6% vs 81.1%);
3) possibilità di delegare le decisioni di fine vita: gli PSY esprimono opinioni maggiormente a sostegno
della volontà del paziente precedentemente dichiarata di anticipare la fine della vita (75% vs 60%), della possibilità di nominare un fiduciario (87% vs 39%), del coinvolgimento dei parenti nella decisione di interruzione o non attuazione dei trattamenti (87% vs 76%), rispetto a quelle che sono le opinioni dei MG; 4) valore della vita, solo una minoranza degli intervistati ritiene la vita un bene indispensabile tale da escludere un “diritto a morire” (12% vs 32%), percentuali che aumentano e si mantengono coerenti per coloro
che considerano un diritto poter decidere di anticipare la fine della propria vita (65% vs 42%); 5) sentimenti successivi ad un decesso, le maggiori differenze tra le due figure professionali si riscontrano relativamente al dialogo con i colleghi (53% vs 27%), al pensare alla propria morte (26% vs 17%), interiorizzare la sofferenza (31% vs 23%), al considerare la morte come parte della routine professionale (20% vs 46%); rispetto ai familiari, invece, è prevalente negli PSY un atteggiamento di ascolto profondo (78% vs 48%) e di condivisione (47 % vs 32%), mentre è maggiore nei MG un atteggiamento di sostegno (57% vs 71%) al fine di
far accettare la realtà (27% vs 52%); (f) valore attribuito alla morte, la quasi totalità degli intervistati (91%
vs 89%) la considera come un evento che fa parte del ciclo della vita.
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CONCLUSIONE
Dall’analisi dei risultati è possibile evidenziare la presenza di differenze, spesso importanti tra gli PSY
e MG sulle opinioni relative alle decisioni di fine vita.Tali discrepanze possono essere attribuibili ad una sostanziale diversità di approccio e formazione professionale delle due figure socio-sanitarie prese in esame.
Opinioni divergenti possono essere considerate non come un ostacolo, ma come una risorsa su cui l’equipe può contare in termini di pluralità di pensiero e confronto costruttivo, tali da migliorare sia l’approccio
al paziente che l’intera offerta curativa.
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SCHEDA DI VALUTAZIONE E TERAPIA DEL DOLORE IN RSA
Latella Raffaele1, Cappuccio Melania2, Liguori Simeone3, Devitis Cristina4, Barcella Evelino5,
Rota Carla2, Baronchelli Irene6, De Ponti Lucia7, Franzoni Simone8,9
1 RSA
Brembate Sopra - Villa della Pace, Stezzano (BG)
Card. Gusmini ONLUS, Vertova (BG)
3 USC Cure Palliative Ospedali Riuniti, Bergamo
4 RSA Madonna del Boldesico, Grumello del Monte (BG)
5 RSA P.A. Faccanoni, Sarnico (BG)
6 RSA Brembate Sopra (BG)
7 Coordinatore di progetto, Bergamo
8,9 U.O. Medicina Istituto Clinico S.Anna e Gruppo di Ricerca Geriatrica, Brescia
2 I.P.S. Fondazione
Il dolore è una delle principali “malattie” che si incontrano quotidianamente nelle RSA. Si stima che oltre il 25% dei pazienti istituzionalizzati abbia un dolore persistente che, secondo l’OMS, potrebbe essere alleviato con successo. Nelle RSA di tutto il mondo ed in particolare in Italia, la cura del dolore è inadeguata,
basti pensare alla mancanza di una rilevazione programmata del “sintomo dolore” ed al ridotto utilizzo di analgesici (rappresentati nella maggior parte dei casi dai FANS), soprattutto nei pazienti con demenza (hanno 1,5
probabilità in più di non ricevere una terapia antidolorifica rispetto ai soggetti cognitivamente integri).
La prescrizione da parte del medico di una terapia antalgica necessita di una precisa misurazione del
dolore da parte dell’equipe: premessa difficile, soprattutto nel caso dei pazienti con grave deterioramento
cognitivo (Clinical Dementia Rating Scale 3-4), ma indispensabile per il successo della cura.
L’osservazione del paziente secondo le indicazioni dell’American Geriatric Society del 2002 dovrebbe
focalizzarsi su 6 categorie d’indicatori comportamentali: 1) espressioni facciali che esprimono disagio, sofferenza, paura; 2) verbalizzazione, in particolare lamento, pianto, urlo; 3) movimenti corporei finalizzati all’assunzione di posizioni antalgiche od alla protezione di parti del corpo; 4) modificazioni delle relazioni
interpersonali; 5) modificazioni nelle abituali attività; 6) modificazioni dello stato mentale. Le scale di valutazione del dolore che s’ispirano a queste categorie sono numerose e la scelta si basa sul grado di deterioramento cognitivo e sull’attendibilità del report del paziente.
L’adozione di uno strumento di misura del dolore non è sufficiente se non supportata da una specifica formazione (teorico-pratica) del personale infermieristico e d’assistenza alla persona, responsabile della rilevazione del “sintomo/segno” dolore. Gli operatori con specifico training riportano punteggi più alti e verosimilmente più vicini al livello di dolore sperimentato dai pazienti,rispetto ad operatori senza formazione ad hoc.
Nonostante tutti questi adattamenti del metodo di valutazione del dolore al paziente anziano, la storia
della cura del dolore in RSA è fatta di molti insuccessi alcuni dei quali attribuibili allo scollamento fra la rilevazione e la terapia antalgica. In un gruppo di RSA della provincia di Bergamo, al fine di superare questo
limite, è stata adottata un’unica scheda dove sono riportate tutte le fasi del processo di cura del dolore
(dal sintomo al farmaco -compreso gli eventuali effetti collaterali- alla risoluzione).
Il principio che sta alla base della scheda consiste nella valutazione del dolore come un evento acuto:
con un inizio (riscontro della presenza di dolore) ed una fine (riduzione del dolore con la terapia antalgica). La valutazione va effettuata solo se il dolore viene riferito spontaneamente, oppure viene rilevato un
comportamento/espressione fisica compatibili con la presenza di dolore. Il termine della valutazione è
identificato nella riduzione del dolore o dei suoi segni indiretti del 50%, oppure dall’esclusione dell’origine algica dei disturbi comportamentali. La scheda di rilevazione riporta contemporaneamente la sede, la
misurazione del dolore, il suo cambiamento giornaliero (secondo i turni), i farmaci antalgici, gli eventuali
effetti collaterali e la variazione dell’uso di sedativi. La compilazione è di competenza sia del medico (principio attivo e dose totale per giorno di ogni antidolorifico, rescue-dose, effetti collaterali, variazione uso benzodiazepine e neurolettici) che dal personale infermieristico (punteggio scala valutazione del dolore ed effetti collaterali). La durata di ogni scheda è settimanale ed è configurata in modo tale da consentire una valutazione grafica dell’andamento del dolore.
Si tratta di uno strumento che dovrebbe migliorare le capacità di cura del dolore nei pazienti in RSA,
senza aumentare l’impegno di risorse assistenziali ed allo stesso tempo consentire a tutto il team di verificare l’efficacia della cura antalgica.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
DECADIMENTO COGNITIVO NELL’ANZIANO SOTTOPOSTO
AD INTERVENTO CHIRURGICO
Lattanzio Francesco, Zito Michele, Guglielmi Marianna, Leoncavallo Anna, Di Giambattista
Francesca, Gaspari Lorenza, Abate Giuseppe
Clinica Geriatrica, Università “G.D’Annunzio” Chieti-Pescara, Dipartimento di Medicina Scienze dell’Invecchiamento, Chieti
RIASSUNTO
Numerose evidenze scientifiche rintracciabili nella letteratura medica dimostrano l’aumento del rischio di declino cognitivo nel post-operatorio in pazienti di pertinenza geriatrica.Tale disturbo viene usualmente indicato come Post-Operative Cognitive Dysfunction (POCD). È ampiamente discusso a tal proposito il ruolo che l’intervento in sé gioca nella genesi di tale fenomeno, così come quello giocato dall’anestesia e da svariati altri fattori.
SCOPO
Indagare in ambito locale l’esistenza, l’incidenza e l’entità di tale disturbo neuropsicologico su una popolazione chirurgica geriatrica.
MATERIALI E METODI
Sono stati reclutati 13 pazienti, 6 donne e 7 uomini, sottoposti ad intervento chirurgico di chirurgia addominale o pelvica maggiore. L’età media del gruppo era di 71.4 anni ± 6,603. È stato stabilito un MMSE
basale di 24 per l’elegibilità. I criteri di esclusione sono riportati in tabella 1.
È stata eseguita una valutazione psicometrica pre-operatoria e due successive valutazioni di follow-up,
ad una settimana e poi a tre mesi di distanza dall’intervento. I test somministrati hanno abbracciato multipli domini cognitivi e sono stati estrapolati dalle batterie internazionali standardizzate.
Tabella 1. Criteri di esclusione dallo studio
•
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•
•
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•
Interventi di chirurgia toracica e/o
cardiochirurgia
Interventi di chirurgia vascolare
Interventi di neurochirurgia
Anamnesi positiva per ictus cerebri
Malattie neurologiche di rilievo
Demenza di qualunque origine
Sindromi psichiatriche
Utilizzo di farmaci attivi sul SNC
Anamnesi positiva per abuso di alcool e/o stupefacenti
RISULTATI
L’analisi dei dati del nostro studio ha consentito di rilevare modificazioni evidenti a carico dei test per
la memoria (15 parole di Rey - rievocazione differita), verosimile espressione del deficit nelle funzioni di
fissazione della traccia mnesica, con un decremento percentualmente più elevato alla rilevazione a distanza di una settimana dall’intervento (-12%), ma confermato nel suo andamento discendente dalla rilevazione a tre mesi, con un decremento complessivo rispetto al valore basale pari al 15,8%.
Un analogo trend peggiorativo è altresì emerso anche per ciò che riguarda le funzioni frontali, analizzando i punteggi ottenuti nel Trail Making Test-A e B.Altra evidenza emersa è stata quella di un significativo trend modificativo a “V” nell’esecuzione dei test che esplorano l’area del linguaggio.
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CONCLUSIONE
Il nostro studio documenta, in accordo con quanto già noto in letteratura, come il POCD rappresenti
uno dei maggiori problemi per i pazienti anziani, a breve e media distanza rispetto all’esecuzione di un intervento chirurgico maggiore.
La sfida attuale è rappresentata dalla necessità di applicare delle metodiche di prevenzione, diagnosi precoce e trattamento del POCD, considerando tuttavia l’esigenza di ampliare le nostre conoscenze eziopatogenetiche su tale disturbo, conoscenze che ancora oggi appaiono essere lacunose ed a tratti frammentarie.
In tal modo potrebbero essere, in futuro, delineate con precisione le caratteristiche dei paziente più ad alto rischio ed essere prese dunque delle misure preventive, in modo da minimizzare il rischio che pazienti peraltro in discreto stato di salute sviluppino una patologia dementigena, con conseguenze tristemente
note tanto in campo medico quanto in campo sociale.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
VALUTAZIONE NEUROPSICOLOGICA E NEUROFISIOLOGICA
IN UN GRUPPO DI SOGGETTI AFFETTI DA MALATTIA DI ALZHEIMER
AFFERENTI ALL’AMBULATORIO U.V.A. DELL’ASL TORINO 1
Leotta Daniela1, Marchet Alberto1, Capellero Barbara1, Bongioanni Roberta1, Balla Silvia2,
Simoncini Mara2, Pernigotti Luigi Maria2
1
2
S.C. Neurologia ASL Torino 1
Dipartimento Lunga Assistenzae Anziani ASL Torino 1
SCOPO
Scopo del nostro studio è stato quello di confrontare i risultati della valutazione neuropsicologica di pazientii con diagnosi di malattia di Alzheimer con le caratteristiche dell’EEG quantitativo per evidenziare una
correlazione fra grado del decadimento cognitivo ed alterazioni neurofisiologiche.
MATERIALI E METODI
Sono stati studiati 124 pazienti con diagnosi di malattia di Alzheimer afferenti all’Ambulatorio U.V.A. dell’ASL Torino 1: tutti i pazienti sono stati sottoposti ad una valutazione neuropsicologica comprendente test
di screening per il deterioramento cognitivo (MMSE e MODA) ed una batteria di test per le funzioni di
memoria, linguaggio, attenzione, esecutive. Inoltre tutti i pazienti sono stati sottoposti all’esecuzione di
EEG quantitativo, la valutazione del quale è stata eseguita in cieco, rispetto alla diagnosi di demenza.
I soggetti valutati sono stati suddivisi per grado di gravità di compromissione cognitiva (lieve, moderata, grave) in base ai punteggi ottenuti ai test di screening per il deterioramento cognitivo (MMSE e MODA).
Il grado di gravità è stato confrontato con l’analisi quantitativa dei tracciati EEG in relazione all’incremento delle frequenze lente (theta e delta) ed al conseguente decremento delle frequenze rapide (alfa e beta).
RISULTATI
I dati ottenuti mediante l’analisi statistica dimostrano un’elevata sensibilità dell’eeg quantitativo nel discriminare tra soggetti con deterioramento cognitivo tipo Alzheimer e controlli sani, nonché una correlazione statisticamente significativa fra grado di compromissione neuropsicologica ed incremento delle frequenze lente all’eeg.
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TINER (Trattamento integrato neuromuscolare emozionale rilassante)
UN MODELLO DI LIFE QUALITY PROJECT NELLA MALATTIA DI PARKINSON
Lera Antonio
DSM TERAMO - Unità Operativa Psichiatria - Ospedale Civile di Giulianova
SCOPO
Abbiamo sottoposto a studio 30 soggetti affetti da M. Parkinson, di cui 15 trattati con un approccio
multidisciplinare, basato sull’integrazione della terapia farmacologica con terapie non farmacologiche (TINER) e 15 trattati con sola terapia farmacologica. Il Protocollo riabilitativo della malattia di Parkinson è
stato essenzialmente funzionale. L’aumento del grado di life quality accanto a quello dell’autonomia nelle
attività della vita quotidiana, sono gli scopi che ci siamo prefissati ed abbiamo ricercato nei pazienti che hanno svolto il programma riabilitativo.
MATERIALI E METODI
Il protocollo di riabilitazione sul gruppo in studio basato su sedute di TINER, in add-on alla terapia farmacologica, in maniera specifica, a cadenza settimanale, per la durata di tre mesi, con successive sedute di
mantenimento, a cadenza quindicinale per altri tre mesi, mentre il gruppo controllo di pari numero effettuava solo terapia farmacologica.Al termine dei sei mesi, sia il gruppo studio che il gruppo controllo, cioè
tutti e 30 i soggetti, sono stati sottoposti a rivalutazione clinica.
Il protocollo integrato impiegato mirava al massimo miglioramento possibile, delle prestazioni psicomotorie del paziente.Abbiamo utilizzato questa tecnica, mirando al mantenimento e/o recupero della coordinazione, al miglioramento della fluidità e della precisione del movimento e al miglioramento dell’equilibrio.
RISULTATI
I risultati, hanno mostrato nei soggetti trattati con un approccio multidisciplinare, progressi riguardo
alla Valutazione motoria e le Attività di vita quotidiana. Restavano invece inalterate le Attività di vita quotidiana, nei soggetti trattati con un approccio solo farmacologico, con miglioramenti minori di Capacità cognitive, comportamento e umore, rispetto al campione, nel quale, per quanto riguarda la rigidità, il risultato migliore si è ottenuto per l’arto superiore sinistro ed anche per quanto attiene i movimenti rapidi alternati delle mani. Infine, sempre e solo nel campione in studio, per i movimenti delle mani e destrezza digitale le percentuali di miglioramento sono state identiche sia sul lato destro che sinistro ed inoltre, un buon
risultato si è ottenuto anche per la bradicinesia e l’ipocinesia.
CONCLUSIONE
Non esistono terapie che da sole guariscano o blocchino l’evoluzione della M. Parkinson. La terapia farmacologica, fatta eccezione per i farmaci più recenti, ha dato risultati abbastanza soddisfacenti solo inizialmente, soltanto sui sintomi motori della malattia ma non sui sintomi non motori, non garantendo da sola una
qualità di vita apprezzabile, soprattutto se si tiene conto degli effetti collaterali più evidenti nel tempo. Il TINER, sembra poter svolgere un ruolo positivo nell’ottica di un miglioramento della life quality nei pazienti
affetti da M. Parkinson ed in ogni caso sembra poter integrare positivamente l’intervento farmacologico.
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“TINER”: TRATTAMENTO INTEGRATO NEUROMUSCOLARE EMOZIONALE
RILASSANTE NEL DISTURBO LIEVE DELLA SFERA SONNO-VEGLIA
DELL’ANZIANO
Lera Antonio
DSM TERAMO - Unità Operativa Psichiatria - Ospedale Civile di Giulianova
OBIETTIVI
Abbiamo sottoposto a studio sessanta pazienti affetti da Disturbo lieve della sfera sonno-veglia, di cui
20 soggetti con riferiti nell’arco di tre mesi, sei episodi di Insonnia di tipo iniziale, 20 soggetti con riferiti
nell’arco di tre mesi, cinque episodi di Insonnia di tipo centrale e 20 soggetti con riferiti nell’arco di tre mesi, sei episodi di Insonnia di tipo terminale. La metà dei soggetti in studio sono stati inseriti nel trattamento con TINER, metodica di rilassamento psicocorporeo, valutandone l’eventuale ruolo positivo sullo stato
affettivo dei pazienti in studio.
MATERIALI E METODI
I pazienti sono stati reclutati all’interno dell’Unità Operativa Psichiatria di Giulianova. Questi soggetti,
non sono risultati affetti da Depressione, essendo stati sottoposti prima dell’arruolamento allo studio, a valutazione psicologica, con Test HAM-D, avendo riportato un punteggio medio compreso tra 4 e 7 e nessuno di loro è stato sottoposto ad alcuna terapia con Ipnotici. Quindi il gruppo studio di trenta soggetti, di
cui 10 con episodi Insonnia di tipo iniziale, 10 con episodi di Insonnia di tipo centrale ed infine 10 con episodi di Insonnia di tipo terminale, è stato sottoposto a sedute di TINER in maniera specifica, a cadenza settimanale, per la durata di tre mesi, con successive sedute di mantenimento, a cadenza quindicinale per altri tre mesi, mentre il gruppo controllo di pari numero non effettuava alcuna terapia. Al termine dei sei
mesi, sia il gruppo studio che il gruppo controllo, cioè tutti e venti i soggetti, sono stati sottoposti a rivalutazione clinica e psicologica.
RISULTATI E DISCUSSIONE
Sul piano clinico, abbiamo osservato una riduzione degli episodi d’Insonnia, in tutti e tre i gruppi, passando dai sei ai due, nell’arco dei primi tre mesi, fino ad evidenziarsi un solo episodio per sette soggetti con
insonnia di tipo terminale e nessun episodio per tutti gli altri. I punteggi ottenuti nel confronto tra l’HAMD iniziale e quello di verifica, hanno mostrato un decremento di 4 punti nel 40%, di 2 punti nel 25%, di 1
punto nel 25%, per i soggetti sottoposti a TINER. Nel gruppo di controllo invece, i punteggi ottenuti nel confronto tra l’ HAM-D iniziale e quello di verifica non hanno mostrato alcun decremento. Il risultato è stato
quindi, solo per i soggetti sottoposti a TINER, di migliorare lo stato affettivo.
HAM-D
HAM-D
Gruppo pazienti
baseline
9 Mesi
40%
4-7
4 punti
25%
4-7
2 punti
35%
4-7
1 punto
CONCLUSIONE
In base ai risultati ottenuti, nel gruppo studio sottoposto a TINER, oltre ad essere migliorata seppur in
misura minima la performance affettiva, valutata attraverso l’ HAM-D, dato che acquista valore soprattutto
riguardo al rapporto con il bilancio immodificato del gruppo controllo, l’aspetto che appare più significativo è la netta riduzione degli episodi d’insonnia. Il TINER, sembra poter svolgere un ruolo positivo nell’ottica di un miglioramento nei pazienti affetti da Disturbo lieve della sfera sonno-veglia.
BIBLIOGRAFIA
1
2
Dvorak & Dvorak. Medicina Manuale, ed. Verduci.
Chaitow L. Massoterapia neuromuscolare, ed. Red.
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STUDIO RETROSPETTIVO IN 342 PAZIENTI AFFETTI DA MALATTIA
DI ALZHEIMER TRATTATI CON DONEPEZIL
Magnani Giuseppe, Coppi Elisabetta, Cursi Marco, Caso Francesca, Martinelli Boneschi
Filippo, Ferrari Laura, Comi Giancarlo
Dipartimento di Neurologia, INSPE-Università Vita e Salute-IRCCS Ospedale San Raffaele, Milano
SCOPO
Obiettivo dello studio è stato valutare l’efficacia del donepezil in un campione di pazienti con malattia di Alzheimer (MA) afferenti al Centro UVA HSR.
METODI
Abbiamo studiato un gruppo di 342 pazienti con MA, la cui età media di esordio di malattia era 73,5 anni. I pazienti sono stati valutati in 5 tempi:T0 (diagnosi e inizio della terapia),T1 (6-9 mesi dopo T0),T2 (1215 mesi dopo T0),T3 (18-24 mesi dopo T0) e T4 (36 mesi dopo T0). In ogni seduta sono stati somministrati il Mini Mental State Examination (MMSE), corretto per età e scolarità, ed una serie di test quali le matrici attentive, il breve racconto, il test delle funzioni fonemiche e semantiche, le matrici di Raven ed il test
di Rey. I pazienti sono stati poi suddivisi in due sottogruppi:“lievi” (MMSE alla diagnosi >20) e “moderati”
(MMSE alla diagnosi <20). Il dosaggio medio di farmaco raggiunto è stato di 8,84 mg/die.
RISULTATI
Dall’analisi dei dati è emerso un incremento significativo del punteggio di MMSE dopo 6 mesi di terapia con donepezil rispetto al momento della diagnosi (p=0,003), più evidente nei pazienti “moderati”
(p=0,02) rispetto ai “lievi” (p=ns).Tale risultato non si replica nei follow-up successivi, dove al contrario il
MMSE risulta significativamente ridotto rispetto a quello della seduta precedente e, in particolare, a 36 mesi di trattamento si assiste ad un decremento complessivo di circa 4 punti rispetto a T0 (p<0,001). Il confronto dei risultati degli altri test somministrati evidenzia un miglioramento delle prestazioni dopo 6 mesi di terapia, ma tale differenza non è significativa; al termine dei 36 mesi invece tutti i test, ad eccezione
della copia di Rey, mostrano un peggioramento significativo rispetto al T0 (matrici attentive p=0,001; breve racconto p=0,002; fluenze fonemiche p=0,004; fluenze semantiche e matrici di Raven p<0,001).
CONCLUSIONI
Tali risultati suggeriscono che l’efficacia del donepezil nella MA è massima nei primi 6 mesi di trattamento, durante i quali si assiste addirittura ad un miglioramento delle performance cognitive tanto più
evidente quanto maggiore è il grado di compromissione all’inizio della terapia. Tale efficacia non sembra
mantenersi nel lungo termine.
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DIFFERENTI PATTERN PSICOPATOLOGICI NELLA DEPRESSIONE
GERIATRICA CON E SENZA DECADIMENTO COGNITIVO LIEVE
Magni Laura Rosa, Adorni Andrea, Caprioli Chiara, Geroldi Cristina, Pioli Rosaria, Rossi Giuseppe
IRCCS Centro S. Giovanni di Dio, Fatebenefratelli, Brescia
SCOPO
La Depressione Geriatrica ed il Decadimento Cognitivo hanno un notevole impatto sul Sistema Sanitario
Nazionale con importanti risvolti socio-economici (Steffens, 2006). La Depressione, infatti, aggrava le condizioni mediche, peggiora il funzionamento globale della persona e determina ricadute sul versante cognitivo
(Charney et al, 2003). Sebbene numerose ricerche abbiano dimostrato un’associazione tra Depressione e Decadimento Cognitivo, queste si sono distinte in due differenti filoni d’indagine; infatti negli studi sulla Depressione sono spesso esclusi i pazienti che mostrano Decadimento Cognitivo, ed analogamente negli studi
sul Decadimento Cognitivo non vengono inclusi soggetti con Depressione (Steffens, 2008).Tuttavia recenti
studi evidenziano come i sintomi ansioso-depressivi in pazienti con Decadimento Cognitivo Lieve (MCI) spesso differiscano da quelli con funzionamento cognitivo integro (Rosenberg et al, 2008; Wilkins et al, 2009).
Sulla base di queste evidenze e dall’esperienza clinica maturata nell’Ambulatorio per la Depressione Geriatrica dell’IRCCS Fatebenefratelli-Brescia nasce questo studio, che ha lo scopo di confrontare la sintomatologia
depressiva in pazienti con Sindrome ansioso-depressiva con/senza Decadimento Cognitivo Lieve.
MATERIALI E METODI
Durante la prima visita (T0) i pazienti sono stati sottoposti ad un Protocollo Strutturato comprendente: un’accurata raccolta anamnestica e dei fattori di rischio bio-psico-sociale ed una batteria di scale comprendenti: Mini Mental State Examination (MMSE) (Folstein, 1975);Test dei tre luoghi e tre oggetti; Clock
Drawing Test (Shulman,1993); Geriatric Depression Scale (GDS) (Brink,Yesavage, Lume et al., 1982); StateTrait Anxiety Inventory (STAI-Y) (Spielberg et al., 1983). Le diagnosi sono state effettuate dallo psichiatra
secondo i criteri ICD-10. Gli approfondimenti delle condizioni di Decadimento Cognitivo sono stati svolti presso l’Ambulatorio Traslazionale della Memoria dello stesso Istituto, mediante un’approfondita valutazione neuropsicologica e la Risonanza Magnetica Encefalica.
I soggetti sono stati seguiti farmacologicamente e sono stati rivalutati con le scale GDS e STAI dopo 36-12 mesi dalla prima visita.
RISULTATI
Sono stati valutati 162 soggetti e sono stati inclusi 72 soggetti con Sindrome ansioso-depressiva (N=34)
e Sindrome ansioso-depressiva con Decadimento cognitivo Lieve (N=38). I due gruppi, omogenei per caratteristiche socio-demografiche e per fattori di rischio bio-psico-sociali mostrano differenze significative
dal punto di vista sintomatologico. Il gruppo con MCI differisce per la presenza di Episodi Depressivi Maggiori presentandosi in maniera significativamente più frequente rispetto al gruppo senza MCI, dove prevalgono Episodi Depressivi minori (p<.05). I punteggi totali alla scala GDS al T0 differiscono in modo significativo (p<.05), mostrando che anche dal punto di vista del paziente la gravità della sintomatologia depressiva è peggiore in presenza di Decadimento Cognitivo.Analizzando distintamente i fattori che costituiscono la scala GDS (Adams et al, 2004), risulta che 4 fattori su 5 sono significativamente peggiori in questo secondo gruppo di pazienti (Umore disforico p<.05; Carenza di energie mentali e fisiche p<.05; Decadimento cognitivo p<.05 e mancanza di speranza p<.05; ansia-preoccupazione non-sign).
CONCLUSIONE
La presenza di Decadimento Cognitivo in comorbidità con Sindrome mista Ansiosa-depressiva sembra
peggiorare la sintomatologia depressiva mostrata dai pazienti.Tale risultato preliminare potrebbe concorrere ad individuare caratteristiche psicopatologiche specifiche di tale condizione di comorbidità. L’individuazione di tale pattern potrebbe fornire utili indicazioni diagnostiche e prognostiche e favorire l’individuazione di trattamenti più mirati.
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RELAZIONE TRA DEFICIT COGNITIVO E ASSESSMENT NUTRIZIONALE SULLA
DISABILITÀ FUNZIONALE IN UNA COORTE DI ANZIANI RESIDENZIALI
Malara Alba, Caruso Chiara, Sgrò Giovanni, Ceravolo Francesco, Renda Francesca,
Rotundo Alessandro, Spadea Fausto
Coordinamento Scientifico ANASTE Calabria
SCOPO
Circa il 78,43% degli ospiti residenti nelle strutture residenziali Anaste (Associazione Nazionale Strutture terza Età) Calabria è affetto da deterioramento cognitivo di varia eziologia e gravità, di questi il 50%
circa ha una demenza di grado severo. La severità della demenza è associata alla compromissione dello
stato nutrizionale, ad una crescente comorbilità con inevitabile impatto sulla disabilità funzionale e sul
fabbisogno assistenziale. L’interazione tra demenza e stato nutrizionale è tutt’oggi complessa, difatti mentre è ancora controversa la relazione causale dei fattori nutrizionali nel determinismo dei processi neurodegenerativi o vascolari alla base delle sindromi demenziali è frequente il riscontro della malnutrizione
come complicanza della demenza sia nelle forme moderate che severe1,2. Lo scopo dello studio è stato
quello di valutare l’associazione tra deficit cognitivo e stato nutrizionale in una coorte di anziani residenziali nell’influenzare lo stato funzionale ed il carico assistenziale.
MATERIALI E METODI
Sono stati esaminati 174 soggetti (122 donne e 52 uomini), di età compresa tra 63 e 103 anni, ricoverati presso le Strutture residenziali Anaste Calabria. Tutti i pazienti sono stati sottoposti alla valutazione multidimensionale geriatrica. In particolare lo stato cognitivo e quello affettivo sono stati valutati somministrando il MMSE e la GDS, lo stato funzionale con le scale ADL, delle IADL e l’indice di Barthel; la comorbilità è stata esaminata in accordo agli indici di severità e di comorbilità complessa della
CIRS ed il fabbisogno assistenziale è stato rilevato in termini di minuti di assistenza attraverso la valutazione con RUG III (Resource Utilitation Group). Lo stato nutrizionale è stato valutato con il Mini Nutritional Assessment (MNA) che ha permesso di valutare i pazienti in ben nutriti (score di 24-30), a rischio di malnutrizione (score 23,5-17) e malnutriti (score <17). Sono stati inoltre valutati i seguenti parametri nutrizionali: albuminemia, colesterolemia, sideremia, emoglobina. I pazienti sono stati rivalutati a distanza di sei mesi.
RISULTATI
Il 49,71% dei pazienti presenta un deficit cognitivo grave al MMSE, il 39,88% mostra un deficit medio,
il 6,94% lieve e solo il 3,47% non presenta deficit cognitivo. Al MNA il 14% non presenta problemi nutrizionali, oltre la metà (56%) è a rischio di malnutrizione, mentre il 30% presenta una compromissione dello stato nutrizionale. La malnutrizione è presente nel 42% dei pazienti affetti da deficit cognitivo grave e
nel 10% dei pazienti affetti da deficit cognitivo moderato. L’analisi della regressione lineare ha evidenziato una correlazione statisticamente significativa tra MNA e MMSE (p<0,001), MMSE e ADL (p<0,001), tra
Indice di Barthel e MMSE (p<0,05) e MNA (p<0,001). Non sono state riscontrate correlazioni significative tra deficit cognitivo, stato nutrizionale, parametri ematochimici e comorbilità. Esiste una correlazione
negativa tra deficit cognitivo grave, malnutrizione e fabbisogno assistenziale. La rivalutazione a sei mesi
ha evidenziato una stretta correlazione tra peggioramento dei livelli cognitivi e peggioramento dello stato nutrizionale (p‹0,005) e dello stato funzionale (p‹0,05) con una maggiore incidenza di mortalità (p‹0,01)
nei soggetti con grave deficit cognitivo e malnutrizione. Mentre il miglioramento dello stato nutrizionale si accompagna ad un miglioramento delle funzioni cognitive (p‹0,05) sia nelle demenze severe, ma soprattutto nelle forme lievi-moderate.
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CONCLUSIONE
La malnutrizione potrebbe giocare un ruolo importante nella progressione del declino cognitivo, il riconoscimento precoce e la presa in carico di situazione di malnutrizione o a rischio di malnutrizione rappresentano importanti interventi di prevenzione per ridurre i fattori di rischio di fragilità dei pazienti affetti da demenza con atteso incremento della qualità e della speranza di vita.
BIBLIOGRAFIA
1
Salerno-Kennedy R, Cashman KD. Relationship between dementia and nutrition-related factors and disorders: an overview. Int
J Vitam Nutr Res. 2005 Mar;75(2):83-95.
2
González-Gross M, Marcos A, Pietrzik K. Nutrition and cognitive impairment in the elderly. Br J Nutr. 2001 Sep; 86(3):313-21.
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LE STRATEGIE DEL “PASSAGGIO”
Malara Alba, Sgrò Giovanni, Garo Michele
Centro di Riabilitazione Estensiva a Ciclo Continuativo “San Domenico”, Lamezia Terme(CZ)
INTRODUZIONE
“La demenza è il risultato di una complessa interazione tra la personalità, la biografia, la salute fisica, l’ambiente psico-sociale ed il danno neurologico di quella specifica persona: unica e irripetibile”(Tom Kitwood).
L’assistenza al paziente affetto da demenza è un cammino lento di maturazione morale e crescita professionale imprevedibile e nonostante l’aiuto offerto dalla corposa letteratura esistente, la relazione di cura medico-demente severo segue leggi ancora poco note. In particolare c’è una fase del decorso clinico della malattia che è particolarmente fragile e difficile da gestire ed è la fase del “passaggio”: quel periodo di
tempo variabile da persona a persona in cui il furto “incompleto” della coscienza lascia una parziale consapevolezza dei propri limiti e dei propri deficit. È la fase in cui frustrazione, ira, ansia, depressione, rifiuto
della malattia sfociano nei cosiddetti “eventi catastrofici” legittima realizzazione di una volontà che si ribella prima di spegnersi del tutto nella beatitudine dell’inconsapevolezza. Si configura il fenotipo sindromico
del disturbo comportamentale frequente causa di ricovero in residenza e dell’inevitabile ricorso alla contenzione farmacologica. Non è ancora chiaro quale sia il ruolo che il farmaco svolge nel modificare la storia naturale della malattia, ma in assenza di metodologie alternative, resta l’unica risposta terapeutica ritenuta efficace. l presente, è un esempio di come la relazione di cura con uno straordinario paziente affetto
da Malattia di Alzheimer nella fase del suo “passaggio”, abbia permesso di maturare un modello assistenziale basato sull’osservazione, comprensione e legittimazione del bisogno.
MATERIALI E METODI
Medico di 51 anni affetto da malattia di Alzheimer geneticamente determinata da 7 anni. Il padre è deceduto per malattia di Alzheimer all’età di52 aa, ed un fratello di 46 aa ne è affetto da due anni. È sposato con
due bambini piccoli. Ha vissuto a casa, amorevolmente accudito dalla moglie, sino a quando in seguito a
violente crisi di agitazione psicomotoria si è reso necessario il ricovero residenziale. In trattamento con
Quetiapina 150mg/die, Promazina 30 gtt/die, Clonazepan 16 gtt/die,Trazodone 100mg/die,Valproato di Sodio 500 mg 2/die, Donezepil 10 mg cp, Memantina 1 cp/die. Grave il deficit cognitivo con grave compromissione del linguaggio. Soporoso al momento del ricovero e per i primi due giorni, tanto da rendere necessaria terapia idratante per via parenterale e la sospensione della terapia antipsicotica.Tre sono state le crisi di
agitazione psicomotoria dopo il suo risveglio: violente, sconvolgenti per lui e per tutto il personale (prevalentemente femminile). L’ipotesi iniziale era che le crisi fossero scatenate da fenomeni dispercettivi, invece
l’attento ascolto di quelle urla, l’osservazione di quel volto distorto, e quello sguardo risoluto tipico di chi
ha deciso di farla finita dichiaravano una lucida e terrificante consapevolezza del proprio destino …e lui è
doppiamente consapevole perché da medico si è preso cura del padre sino alla fine. È cominciato così un
percorso assistenziale basato su una relazione edico-paziente al di la delle nette competenze cliniche, che
partendo dal rispetto e dalla condivisione di emozioni ha consentito di accedere al suo mondo e decodificare nuovi modi di intervento estesi successivamente a tutta l’equipe transdisciplinare ed alla sua famiglia.
RISULTATI
Sono trascorsi due mesi ed il “passaggio”non è ancora avvenuto completamente. È vigile, ironico, scherzoso, necessita di assistenza costante e frequenti aggiustamenti terapeutici -attualmente solo Quetiapina 25
mg,Valproato di sodio 500 mg, Clonazepam 10 gtt -ed ogni tanto si riaccende quella luce di protesta e quando la sofferenza è troppo forte non si negano 10 gtt di Alprazolam a placare il tumulto nella sua mente.
CONCLUSIONI
La metodologia assistenziale basata sulla relazione terapeutica ed improntata sulla codifica dei bisogni inespressi della singola persona, è fatta di umiltà intellettuale, dubbi, intuizioni, fatica fisica e morale ma rappresenta un’alternativa valida per un’assistenza diversa alla persona affetta da demenza, e rappresenta la possibilità di
costruire un nuovo modello di studio della storia naturale della malattia nelle sue molteplici e variegate fasi.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
IL RUOLO DELLO PSICOLOGO NELLA UNITÀ VALUTATIVA ALZHEIMER
Malimpensa Luca, Marech Lucrezia, Cotroneo Antonino Maria, Maina Ettore,
Nicoletti Nicoletta, Cabodi Sergio
UVA Dip. Salute Anziani (DSA) – ASL TO2
SCOPO
Nell’ambito dell’UVA che ha sede presso il Dip. Salute Anziani dell’ASL TO2 operano per una media di
4 ore settimanali due psicologi psicoterapeuti collaboratori. Lo scopo del presente lavoro è presentare l’attività svolta in questi anni ed i risultati preliminari. Le competenze richieste allo psicologo, che opera nel
contesto delle demenze, riguardano diversi ambiti: l’approccio al paziente, l’approccio e l’intervento ai familiari, il supporto agli altri operatori. Per le attuali forze in campo, attualmente, riusciamo ad operare valutazioni ai pazienti ed a supportare, seppur in una fase iniziale, i familiari attraverso interventi di gruppo.
MATERIALI E METODI
Attualmente operiamo un esame formale con strumenti quantitativi standardizzati di primo livello
(MMSE e MODA) a cui si aggiunge un colloquio clinico con osservazione diretta del paziente ed esame informale. Durante il momento della valutazione la competenza dello psicologo si realizza attraverso la messa a punto delle migliori condizioni per la raccolta delle informazioni in particolare puntando l’attenzione su: la modalità di somministrazione dei test neuropsicologici, del setting, della capacità e della modalità del colloquio interpersonale, della capacità di non interferire sulle prestazioni fornite in modo tale da non
inficiare i risultati.
Per quanto concerne i familiari abbiamo attivato finora 2 moduli suddivisi in 8 incontri a cadenza quindicinale della durata di 120 minuti.
RISULTATI
I risultati preliminari attesi dal presente lavoro riguardano principalmente la possibilità di ridurre l’ansia e lo stress nei caregiver, aumentandone al contempo le strategie di coping. Si presuppone che, sostenendo i caregivers da un punto di visto psicologico di tipo supportivo, possano migliorare le loro abilità di far
fronte alle situazioni stressanti che possono verificarsi nelle diverse fasi della malattia del congiunto, anche
attraverso un lavoro più profondo di analisi dei meccanismi difesa con l’obiettivo di renderli più adattativi nella gestione del malato grazie ad una riduzione della rabbia e del senso di colpa. Ci si aspetta quindi
che il carico assistenziale percepito, e di conseguenza il livello di stress e di affaticabilità, possa correlare
in modo significativo con le strategie di coping e con i livelli di ansia e di depressione.
CONCLUSIONE
I risultati, in atto in fase di verifica, dovrebbero confermare l’utilità della presenza dello psicologo nelle Unità Valutative Alzheimer, in un doppio ruolo caratterizzato sia da competenze neuropsicologiche, essenziali
per l’utilizzo di strumenti testistici idonei alla valutazione dell’anziano affetto da deterioramento cognitivo, sia
da competenze più prettamente psicologiche e psicoterapiche da utilizzare nel lavoro diretto con i caregiver,
nella convinzione di quanto sia fondamentale il loro ruolo nella gestione del malato a domicilio. Solo se il caregiver vive una situazione di benessere personale può di conseguenza avere un ruolo attivo nel promuovere il benessere del malato.Al fine di valutare l’utilità degli interventi abbiamo pensato di somministrare questionari (BDI, STAI-X, SCL-90) che valutano il benessere psicologico dei caregiver partecipanti al gruppo all’inizio ed alla fine del percorso. Attendiamo di concludere almeno 10 moduli per raccogliere dati sufficienti all’indagine. Per quanto concerne la somministrazione testistica ed i colloqui con i pazienti si potrebbe ricorrere all’uso del questionario “The general satisfaction questionnaire”:è una “Rating Scale” validata e affidabile, creata da P. Huxley e H. Mohamad nel 1991. Il questionario dovrà essere compilato dal caregiver dopo le
prime valutazioni diagnostiche. In merito attendiamo di raccogliere almeno 100 questionari.
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L’EVOLUZIONE DELL’UNITÀ VALUTATIVA ALZHEIMER VERSO UNA RETE
PROFESSIONALE MULTIDISCIPLINARE PER L’ASSISTENZA AI DEMENTI
Mancini Giovanni1, Salvi Veronica1, Moscardini Claudio1, Muzzi Francesca1, Pauletti Giovanni1,
Quaranta Loreta1, Trentino Domenico2, Aureli Domenico1, Chinni Vittorio3
1 UOC
Neurologia, Ospedale G.B. Grassi, ASL Roma D
Diurno per pazienti dementi “Il Pioppo”, Via Portuense 220, Roma
3 Direttore Sanitario f.f. Distretto XIII° Municipio, ASL Roma D
2 Centro
INTRODUZIONE
Con il progressivo invecchiamento della popolazione, la prevalenza della demenza sta rapidamente aumentando nella popolazione anziana (circa il 5-6% dei soggetti al di sopra dei 65 anni nei Paesi occidentali, una media stimata del 3,5% in tutto il mondo), con una stima attuale di circa 24 milioni di pazienti nel
mondo ed una stima futura di 42 milioni nel 2020 e 81 milioni nel 20401. Questi dati allarmanti obbligano
i sistemi sanitari e la società civile a riorganizzare l’assistenza socio-sanitaria ai dementi per far fronte al gran
numero di persone che perderanno la loro autosufficienza.
SCOPO
Tenendo ben presente questo problema e rispettando le limitazioni imposte dalla istituzione delle Unità Valutative Alzheimer (UVA), nella nostra ASL Roma D abbiamo aumentato il numero di specialisti che si
prendono cura dei pazienti dementi prevedendo un allargamento della nostra UVA intra-ospedaliera al territorio e creando una rete di centri in connessione con quello Ospedaliero, sebbene autonomi nella diagnosi e nelle scelte terapeutiche.
MATERIALI E METODI
La deliberazione n. 604 del 7 Agosto 2008 della ASL Roma D2 ha istituito una rete professionale allargata a diversi presidi ambulatoriali di Neurologia e Geriatria del territorio e, in accordo con le Linee guida della Società Italiana di Neurologia3, ha indicato un algoritmo diagnostico per il paziente presunto demente,
in modo da poter entrare nel sistema assistenziale da più parti (6 nuovi centri con Neurologi o Geriatri in
cooperazione con operatori del Coordinamento Assistenza Domiciliare) invece che presso il solo Ospedale come avveniva in precedenza.
RISULTATI
Dopo un breve periodo di perfezionamento dell’organizzazione con incontri tra gli specialisti coinvolti, dal Novembre 2008 l’UVA allargata ha iniziato l’arruolamento di 246 nuovi pazienti fino a Dicembre
2009, oltre ai 198 nuovi pazienti studiati presso la Neurologia dell’Ospedale Grassi nello stesso periodo, permettendo così un incremento del 124% (più del doppio) di nuovi pazienti, accorciando la lunga lista di attesa per la prima visita e soprattutto permettendo la prescrizione dei piani terapeutici per i vari farmaci anche a domicilio per i pazienti non mobilizzabili.
Sono state tenute riunioni periodiche (ogni 3 mesi) dell’equipe coinvolta in questo progetto, allargate
agli assistenti sociali ed ai CAD distrettuali, per scambiarsi i dati e discutere le criticità assistenziali.
CONCLUSIONE
Il nostro intento è quello di promuovere questa iniziativa di allargamento della UVA come un esempio
di reale integrazione Ospedale-Territorio, uscendo dall’ottica di accentramento dei servizi come centri di
autoreferenzialità, per essere preparati a fronteggiare la grande epidemia di dementi dei prossimi anni.
BIBLIOGRAFIA
1
2
3
Lancet 2005; 366(9503):2112-7.
Deliberazione ASL RM D n. 604 del 7/8/2008.
Neurol Sci 2004;25:154-182.
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UTILIZZO DELLE “ATTIVITÀ AVANZATE DELLA VITA QUOTIDIANA”
(AADL) NELLA NORMALE PRASSI VALUTATIVA DI UN SERVIZIO
DI RIABILITAZIONE DIURNA
Marelli Eleonora1,2, Perelli Cippo Riccardo1, Colombo Mauro1,2
1 Istituto Geriatrico “Camillo Golgi”, Abbiategrasso (Mi)
2 Fondazione “Golgi Cenci”, Abbiategrasso (Mi)
SCOPO
Il servizio di Riabilitazione Diurna dell’Istituto Golgi di Abbiategrasso da alcuni anni ha introdotto le “Attività Avanzate della Vita Quotidiana” (Advanced Activities of Daily Living: AADL)1 nel protocollo di valutazione funzionale di base dei suoi utenti, per cogliere le prime avvisaglie di deflessione dell’autonomia.
Questo per ovviare al possibile “effetto soffitto” conseguente all’utilizzo delle comuni scale di valutazione.
Nel servizio sono contemplati tre tipi di degenza riabilitativa (Ciclo Diurno Continuo, Day Hospital Generale/Geriatrico, Day Hospital Specialistico) con caratteristiche crescenti di attività sanitaria. Scopo dello studio è stato quello di valutare l’interrelazione tra le AADL e le altre scale di valutazione multidimensionale,
e con una variabile sociale (il tipo di convivenza).
MATERIALI E METODI
È stata studiata la popolazione con età superiore ai 65 anni afferita al servizio negli anni 2007 e 2008.
Strumenti di valutazione: scala AADL [ambito: 6 = massima partecipazione – 24 = minima partecipazione],
scala di Tinetti (Equilibrio e Marcia), Indice di Barthel (BI), Instrumental Activities of Day Living (IADL: normalizzate tra 0 = completa dipendenza e 1 = completa indipendenza), Geriatric Depression Scale (GDS),
Mini Mental State Examination (MMSE), Cumulative Illness Rating Scale (CIRS), analogo visivo relativo al dolore ed auto-percezione dello stato di salute. L’elaborazione statistica è stata condotta utilizzando SPSS 11.0.
Sono stati effettuati confronti tra medie (test “t”) e tra ranghi o distribuzioni, correlazioni bivariate ed analisi di varianze, prevalentemente mediante test non parametrici.
RISULTATI
Nei 568 pazienti, di età media di 77,86 ± 6,45 anni (minimo = 65 - massimo = 96), la partecipazione nelle AADL è risultata di livello intermedio = 15,69 ± 3,23 (ambito = 7 - 24).All’ingresso è stata evidenziata una
discreta autonomia nelle attività di base e strumentali della vita quotidiana (BI = 91,01 ± 11,35/100, IADL
0,66 ± 0,28/1). Discrete anche le prestazioni motorie (Tinetti Equilibrio = 11,70 ± 3,24/16,Tinetti Marcia
= 8,85 ± 2,60/12) e cognitive (MMSE = 25,31 ± 4,12/30). Esaminando le correlazioni fra le AADL e le scale di valutazione effettuate all’ingresso si evidenziano dati statisticamente significativi, anche se con bassi
coefficienti di correlazione, per BI (r≈-0,2), IADL (r≈-0,2),Tinetti Equilibrio e Marcia (r<-0,2), GDS (r≈0,25),
MMSE (r<-0,2) ed auto-percezione dello stato di salute (r<-0,2). Non emergono invece dati significativi per
la CIRS e per l’analogo visivo per la valutazione del dolore.
Gli utenti che vivono con figli non coniugati svolgono meno AADL rispetto a coloro che vivono soli, col
coniuge o con figli coniugati (17,96 ± 2,86 vs. 15,56 ± 3,2).
Utilizzando la regressione multipla, è stato possibile costruire un modello statistico che seleziona BI e
MMSE di ingresso.Tale modello determina solo il 21% della varianza delle AADL.
CONCLUSIONI
Il nostro studio conferma, come già evidenziato da Reuben1, che, nella popolazione esaminata, lo svolgere attività piacevoli nel tempo libero risente sia pure modestamente dello stato funzionale, cognitivo e -ancor
più limitatamente- affettivo; mentre, in modo inaspettato, risulta indipendente dalle condizioni di salute dei
soggetti. La relativa debolezza del modello sembra indicare le AADL come attività per un verso parzialmente
condizionate dalle capacità funzionali e cognitive, ma peraltro relativamente “libere” dalle costrizioni derivanti dallo stato sociale, auto-percettivo ed affettivo, ed ancor più dalle condizioni cliniche e dal dolore.
1
David B. Reuben et al. A hierarchical exercise scale to measure function at the Advanced Activities of Daily Living (AADL) level.
JAGS 1990;38(8):855-61.
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VALUTAZIONE MULTIDIMENSIONALE DEL DOLORE IN LUNGODEGENZA:
UNA SCHEDA PER UN PROGETTO QUALITÀ
Mari Marcello1, Neri Davide2, Fin Ilenia3, Mulone Silvana4
1 Geriatra,
U.O.S.D. Lungodegenza Ospedale di Valdagno (VI), ULSS 5 Ovest Vicentino
U.O.S.D. Lungodegenza Ospedale di Valdagno
3 Coordinatore Infermieristico, U.O.S.D. Lungodegenza Ospedale di Valdagno
4 Geriatra, U.O.S.D. Lungodegenza Ospedale di Valdagno
2 Infermiere,
SCOPO
La Lungodegenza di Valdagno assiste pazienti con polipatologia cronica affetti da sintomatologia dolorosa di natura oncologica, osteoarticolare, vascolare o neuropatica ed alcuni di questi pazienti sono in fase terminale di malattia e vengono seguiti con modalità di accompagnamento al fine vita. L’anziano fragile affetto da declino cognitivo od il paziente in stato di alterata coscienza o tracheostomizzato non riesce a verbalizzare il grado e l’intensità del suo dolore secondo la scala numerica NRS (0-10) o visiva VAS;
per tale motivo in aggiunta alla scala NRS, adottata in tutti gli ospedali del Veneto secondo una delibera regionale, nel nostro reparto viene utilizzata la scala PAINAD (0-10) per i pazienti che non riescono a verbalizzare o comunicare, scala già validata in Italia e assimilabile alla NRS per la misurazione dell’intensità del
dolore nei pazienti affetti da demenza.
Al momento del ricovero del paziente un’accurata valutazione della sintomatologia dolorosa è essenziale perché può evidenziare problemi correlati al dolore e rendere possibile la pianificazione di una più
efficace terapia; a tale scopo ogni paziente ricoverato nel reparto di Lungodegenza viene valutato attraverso uno strumento per un accertamento multidimensionale del dolore.
MATERIALI E METODI
Abbiamo elaborato in equipe (medica ed infermieristica) una scheda multidimensionale di valutazione del dolore all’ingresso in reparto che permette poi di giudicare alla dimissione l’efficacia del Protocollo del Trattamento Dolore già in uso.
Oltre alla misurazione del dolore secondo le scale NRS e PAINAD, la scheda di valutazione multidimensionale del dolore permette di rilevare altri parametri correlati al sintomo-segno dolore: peso, dieta, sede
ed irradiazione del dolore, tipologia, durata e caratteristiche temporali, fattori scatenanti/ aggravanti, fattori allevianti, effetti derivanti dal dolore sulla qualità della vita ed eventuali trattamenti precedenti.
La scheda viene compilata dal medico di reparto durante la prima visita del paziente, viene evidenziata l’intensità del dolore riferito nelle prime 48 ore dal ricovero e nelle ultime 48 ore prima della dimissione per poter valutare l’obiettivo di ridurre dell’80% l’intensità del dolore entro 48 ore dal suo picco massimo, secondo le linee guida del corretto trattamento del dolore proposte dall’OMS.
RISULTATI
I pazienti vengono valutati sotto molteplici aspetti e quindi la terapia può essere più mirata ed efficace. Sono messi in evidenza e trattati sintomi correlati alla sintomatologia dolorifica come insonnia, diminuzione dell’appetito, astenia, deterioramento dei rapporti con gli altri e labilità emotiva. La misurazione del
dolore secondo la nuova scheda di valutazione del dolore è iniziata il 1 gennaio 2010 secondo un Progetto Qualità Aziendale approvato in sede di Budget con la Direzione Generale dell’ULSS 5. Stiamo raccogliendo le schede dei pazienti dimessi o deceduti per l’analisi dei dati che terminerà il 31.12.2010.
CONCLUSIONI
La misurazione del dolore è diventata una metodica ormai standardizzata e rientra fra gli obiettivi di una
corretta assistenza al paziente anziano ricoverato in Ospedale. Con l’utilizzo della presente scheda possiamo indagare più facilmente l’esperienza globale rappresentata dal dolore. L’accertamento accurato permette inoltre di offrire al paziente una risposta più rapida e specifica.
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IL “COMANAGEMENT” ORTOGERIATRICO: EPIDEMIOLOGIA E BISOGNI
CLINICI DEL PAZIENTE ANZIANO CON FRATTURA DI FEMORE
Mattanza Chiara, Gotti Fabio, Piovani Laura, Giordano Alessandro, Terragnoli Flavio, Rozzini Renzo
Istituto Ospedaliero-Fondazione Poliambulanza, Brescia
L’ortogeriatria è la modalità di cura dei pazienti anziani affetti da patologia ortopedica che si fonda sull’integrazione tra ortopedia e geriatria. Obiettivi clinici dell’ortogeriatria sono: garantire assistenza al paziente ortopedico anziano con patologie internistiche, ridurre le complicanze, migliorare la qualità complessiva della gestione clinica e favorire una ripresa precoce dell’autonomia quotidiana.
Lo scopo del nostro lavoro è quello di valutare le modificazioni della prevalenza di frattura di femore
nella popolazione anziana ricoverata nel nostro ospedale nel periodo 2003-2009; valutare la complessità clinica dei pazienti, le caratteristiche dei problemi medici attivi e la durata della degenza ospedaliera.
METODI
Secondo un protocollo specifico divenuto formale dal 2006 ogni paziente ricoverato in Ortopedia per
frattura di femore viene visitato dal geriatra che, attraverso una valutazione multidimensionale rileva i problemi clinici, funzionali, psichici e sociali, rivede i trattamenti farmacologici, definisce i possibili rischi peri-procedurali e tratta le eventuali complicanze intra-ospedaliere nel modo più tempestivo possibile. I dati dello studio relativi a caratteristiche anagrafiche, stato sociale e complessità clinica (DRG) provengono
dal data base amministrativo. Per la finalità dello studio i pazienti anziani sono stati suddivisi in tre gruppi
di età a) 65-74 anni, b) 75-84 anni e c) ultra 85enni.
RISULTATI
Il numero di ricoveri per frattura di femore dal 2003 al 2009, stratificato per età, è riportato in tabella. Il
peso del DRG è risultato più elevato nei pazienti nel gruppo di età compreso tra 75 e 84 e in quello degli ultra 85enni rispetto ai pazienti più giovani (gruppo compreso tra 65 e 74 anni). Nel periodo considerato si è
osservata una riduzione delle giornate di degenza nel gruppo di pazienti ultra 85enni (da 9,3 a 7,7 giorni).
I problemi clinici attivi maggiormente significativi sono risultati il delirium e le patologie infettive respiratorie. Come atteso la loro prevalenza aumenta con l’aumentare dell’età (nel 2009: infezioni respiratorie e delirium sono risultati del 6% e 6%, 8% e 22%, 8 e 48% rispettivamente nei pazienti 65-74enni, 7584enni e ultra85enni).
CONCLUSIONI
L’aumento del numero di fratture di femore con l’aumento dell’età comporta la necessità di una maggiore integrazione tra ortopedico e geriatra. In particolare si rende necessario l’acquisizione di una sensibilità e capacità specifica nella prevenzione e nella terapia del delirium rappresentando questa condizione la principale complicanza rilevata durante il ricovero.
Tabella. Numero e percentuale dei pazienti con frattura di femore ricoverati in Ortopedia stratificati per età (2003-2009)
età
65-74
75-84
85+
2003
N=68
2004
N=88
2005
N=110
anno
2006
N=115
2007
N=97
2008
N=129
2009
N=137
N (%)
15 (22,1)
26 (38,2)
27 (39,7)
N (%)
22 (25,0)
37 (42,0)
29 (33,0)
N (%)
12 (10,9)
43 (39,1)
55 (50,0)
N (%)
21 (18,3)
47 (40,9)
47 (40,9)
N (%)
12 (12,4)
44 (45,4)
41 (42,3)
N (%)
18 (14,0)
44 (34,1)
67 (51,9)
N (%)
19 (13,9)
56 (40,9)
62 (45,3)
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IL SUPPORTO ALLA FAMIGLIA CON MALATTIA DI ALZHEIMER GENETICA
AD ESORDIO PRECOCE
Mirabelli Maria, Colao Rosanna, Curcio Sabrina A.M., Dattilo Teresa L., De Vito Ornella,
Frangipane Francesca, Maletta Raffaele, Puccio Gianfranco, Bruni Amalia C.
Centro Regionale di Neurogenetica, ASP CZ, Lamezia Terme
SCOPO
La famiglia rappresenta la principale fonte di assistenza al paziente affetto da malattia di Alzheimer
(Censis-AIMA, 2006). Le ricadute psicologiche, socio-economiche e fisiche del ruolo di caregiving investono i membri del nucleo familiare con un oneroso impegno cognitivo, emotivo e comportamentale che è
fonte di stress.Tale situazione è maggiormente evidente all’interno di nuclei familiari dove la malattia si trasmette con modalità autosomico-dominante e si manifesta in soggetti giovani implicando una rielaborazione dei ruoli e delle dinamiche relazionali. Nasce, pertanto, l’esigenza di attivare un supporto psico-educativo ad un gruppo di caregivers(mogli) di pazienti affetti da malattia di Alzheimer genetica ad esordio precoce con figli in età scolare e pre-scolare.
MATERIALI E METODI
Incontri a cadenza settimanale per il primo anno ed a cadenza bisettimanale per i successivi anni. Il gruppo è composto da cinque mogli (range 33-50 anni), di soggetti affetti da malattia di Alzheimer genetica ad
esordio precoce (range 38-51 anni). Il gruppo è stato seguito presso il nostro Centro che è Unità Valutativa Alzheimer (UVA) da un’equipe multidisciplinare (Psicologo, Neurologo, Assistente Sociale ed Operatore Sociale). L’equipe conosceva la storia, l’espressività clinica, lo stadio di malattia e la personalità di ogni
paziente precedentemente diagnosticato con esame clinico e neuropsicologico (Mental Deterioration
Battery Gainotti-Caltagirone), ADL e IADL, CDR, NPI, neuroimaging e genetica molecolare.Il carico assistenziale è valutato attraverso il Caregiver Burden Inventory (CBI) in condizioni di base (T0), a sei mesi
(T1), a dodici mesi (T2) e a 24 mesi (T3).
Gli incontri sono stati caratterizzati da una prima ricognizione dei bisogni individuali a vari livelli (affettivo-relazionale, formativo e socio-assistenziale) e, successivamente, sono state elaborate tematiche relative alla gestione emotiva ed assistenziale del familiare ammalato. La valutazione della soddisfazione della
qualità del servizio erogato è misurata al termine del progetto.
RISULTATI
Dall’osservazione di questo gruppo, dopo 30 incontri, si evidenzia:
– l’esistenza di un’effettiva necessità di aiuto confermata dalla costante ed elevata partecipazione (80%);
– riduzione della “dimensione 4” (social burden) del CBI al T1 rispetto al T0. La “dimensione 4” (social burden) e la“dimensione 5” (emotional burden) del CBI, ridotte dopo un periodo di 6 mesi (T1),
tendono ad aumentare nella valutazione effettuata a distanza di 12 mesi (T2), (T3 in corso).
CONCLUSIONI
Il sostegno psicologico di gruppo rappresenta uno strumento valido per canalizzare il carico emotivo,
lo stress e l’ansia che un caregiver deve sostenere nella gestione di un familiare ammalato. Il lavoro di gruppo ha rafforzato l’identità di ognuno, ridimensionando il rischio dell’annullamento del Sé, frequentemente presente nel ruolo di caregiver. La differenza dei bisogni e dei vissuti individuali, in relazione allo stadio
della patologia, è stata affrontata comunque con strategie personalizzate frequentemente suggerite anche
dal gruppo stesso.
Inoltre, il continuo confronto tra familiari ed operatori, ha facilitato la migliore presa in carico del paziente e favorito una maggiore conoscenza delle risorse assistenziali finalizzate al malato ed ai suoi familiari consentendo una rimodulazione del contesto socio-familiare e lavorativo.
Il supporto psico-educativo al caregiver si traduce così, in una componente indispensabile del percorso che vede il malato di Alzheimer al centro di un progetto di cura complesso ed articolato.
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LIVELLO DI COMPROMISSIONE COGNITIVA E RECUPERO
NELLA DEAMBULAZIONE IN PAZIENTI CON FRATTURA DI FEMORE
Morghen Sara1,2, Guerini Fabio1,2, Turco Renato1,2, Torpilliesi Tiziana1,2, Ricci Eleonora1,2,
Marrè Alessandra1,2, Lucchi Elena1,2, Luzzani Cinzia1,2, Speciale Salvatore1,2, Bellelli Giuseppe1,2,
Trabucchi Marco1,3
1 Casa
di Cura “Ancelle della Carità”, Cremona
di Ricerca Geriatrica, Brescia
3 Università degli Studi Tor Vergata, Roma
2 Gruppo
SCOPO
Valutare se il livello di deterioramento cognitivo (DC) interferisce con il recupero nella deambulazione, in una popolazione selezionata di pazienti trattati chirurgicamente per frattura di femore.
MATERIALI E METODI
Tutti i pazienti con età >64 anni sottoposti a trattamento chirurgico per frattura di femore, ricoverati
consecutivamente presso il nostro Dipartimento di Riabilitazione da gennaio 2003 a gennaio 2008, sono
stati sottoposti a valutazione multidimensionale geriatrica (variabili socio demografiche, biologiche, cliniche, cognitive e funzionali). Sono stati inclusi nelle analisi solo i pazienti che non erano in grado di camminare all’ingresso (Item deambulazione Barthel Index = 0). I pazienti sono stati poi suddivisi in 4 gruppi
in base al DC (severo, moderato, lieve, assente), definito all’ingresso con il MMSE. Il recupero nella deambulazione è stato definito come il raggiungimento alla dimissione di un punteggio >12/15 all’item deambulazione del Barthel Index.
Tabella. Caratteristiche di 335 pazienti con frattura di femore, stratificati in base al livello di compromissione cognitiva
DC severo
(MMSE
0-10)
(n=42)
DC moderato
(MMSE
11-18)
(n=93)
DC lieve
(MMSE
19-24)
(n=92)
Non DC
(MMSE
>24)
(n=108)
Età, anni
85.9 ± 6.3
84.8 ± 6.9
83.4 ± 6.7
78.9 ± 6.3
<.0001
Sesso femminile, n (%)
33 (78.6)
78 (83.9)
77 (83.7)
92 (85.2)
.807
Charlson Comorbidity Index
2.0 ± 1.7
1.8 ± 1.8
1.7 ± 1.4
1.6 ± 1.6
.598
BMI ingresso
21.5 ± 3.8
22.6 ± 4.8
23.2 ± 5.3
23.8 ± 4.4
.058
Albumina (gr/dl)
2.7 ± 0.3
2.7 ± 0.3
2.8 ± 0.3
2.7 ± 0.3
.490
Delirium, n (%)
32 (78.0)
51 (58.6)
35 (43.2)
16 (16.0)
<.0001
Item deambulazione Barthel
Index pre-frattura (0-15)
10.2 ± 4.3
12.1 ± 2.9
13.0 ± 2.7
13.6 ± 2.7
<.0001
Item deambulazione Barthel
Index dimissione (0-15)
4.7 ± 4.3
7.8 ± 4.8
10.4 ± 4.0
11.5 ± 3.8
<.0001
Durata degenza
28.6 ± 8.7
29.0 ± 10.5
28.9 ± 9.6
27.4 ± 10.0
.639
7 (16.7)
37 (40.2)
56 (61.5)
81 (75.0)
<.0001
Autonomia nel cammino
alla dimissione, n (%)
I dati sono espressi come valori medi ± DS, qualora non diversamente specificato.
P
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RISULTATI
I pazienti con DC più severo sono risultati più vecchi, con una peggiore abilità nella deambulazione prima della frattura, e più frequentemente soggetti a delirium durante il ricovero. I gruppi sono risultati invece simili per quanto riguarda comorbilità, stato nutrizionale e durata della degenza.Alla dimissione, il 16.7%
dei pazienti con DC severo, il 40.2% di quelli con DC moderato, il 61.5% di quelli con DC lieve e il 75.0%
dei pazienti senza DC è risultato autonomo nella deambulazione.
CONCLUSIONI
La percentuale di pazienti autonomi nella deambulazione alla dimissione decresce all’aumentare del DC.
Tuttavia, è rilevante osservare che una quota significativa di pazienti con DC severo riesce comunque a recuperare l’autonomia del cammino in seguito al trattamento riabilitativo.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
VALUTAZIONE E GESTIONE DEL DOLORE NEL PAZIENTE CON DEMENZA
Nardelli Anna, Pelliccioni Pio, Modugno Maria, Visioli Sandra, Saccavini Marsilio, Lauretani Fulvio
UO Geriatria, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma
SCOPO
Il dolore non viene riconosciuto e trattato in modo adeguato negli anziani e specialmente in quelli
con severo deterioramento cognitivo a causa della difficoltà delle persone anziane a comunicare adeguatamente le loro esperienze del dolore1.
Per tali motivi l’UO di Geriatria ha proposto, nel 2006, all’interno del progetto “Ospedale senza dolore”, l’effettuazione della compilazione di una scheda del dolore dedicata (NOPPAIN- NOn communicative
Patient’s Pain Assessment Instrument), con lo scopo di incrementare la competenza professionale nella rilevazione e conseguente trattamento del sintomo dolore in ambiente geriatrico, in special modo nei pazienti cognitivamente compromessi.
MATERIALI E METODI
A tutti i pazienti ricoverati in UO di Geriatria viene somministrato lo Short Portable
Mental Status Questionnaire (SPMSQ): da 0 a
2 errori (memoria normale) e da 3 a 4 errori
(deficit cognitivo lieve), il Medico compila la
scala VAS; da 5 o più errori (deficit cognitivo
moderato-severo) l’Infermiere Professionale
completa la scheda NOPPAIN che valuta indirettamente il dolore del paziente presente
nelle attività quotidiane (cure igieniche, mobilizzazione a letto, spostamento in poltrona,
deambulazione, alimentazione).
In caso di rilevazione di sintomatologia
dolorosa, s’imposta la terapia antalgica personalizzata (secondo protocolli standardizzati) e si verifica quotidianamente, durante la visita medica, la risposta alla terapia.
RISULTATI
Nell’anno 2008 sono stati valutati 115 pazienti ricoverati nel reparto di Geriatria. Di questi 27 (23%) presentavano un deterioramento cognitivo di grado moderato-severo. Dei 27 pazienti affetti da demenza di grado avanzato, 14 di essi ( ~ 60%) presentavano dolore durante la mobilizzazione nel letto e/o esprimevano
dolore al volto.
CONCLUSIONE
La scala NOPPAIN si è dimostrata una scala di valutazione efficace per identificare il dolore nei pazienti affetti da demenza di grado moderato-severo. L’utilizzo di questa scala dovrebbe essere applicato routinariamente in questi pazienti, anche per poter prevenire episodi di delirium acuto dolore-indotto.
BIBLIOGRAFIA
1
Zwakhalen SM, Hamers JP, Abu-Saad HH, Berger MP. Pain in elderly people with severe dementia: a systematic review of behavioural pain assessment tools. BMC Geriatr. 2006; 6:3.
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AMBULATORIO PSICOGERIATRICO TERRITORIALE DI ORTONA.
MODELLO ORGANIZZATIVO E RELAZIONE SULLE ATTIVITÀ
NELL’ANNO 2009
Nuccetelli Francesco1, Di Filippo Maria Carmina1, Di Donato Fiore1, Ferretti Sandra2
1 Dipartimento
2 Distretto
di Salute Mentale Chieti ASL 2
di Ortona ASL 2
SCOPO
l’Ambulatorio Psicogeriatrico di Ortona ha iniziato la propria attività nel secondo semestre dell’anno
2000, dopo l’individuazione da parte delle Regioni delle Unità Valutative Alzheimer. Fin dall’inizio dell’attività, l’Ambulatorio Psicogeriatrico di Ortona ha adottato un modello organizzativo che prevedeva l’integrazione fra diverse figure professionali individuate nel CSM di Ortona e nel DSB di Ortona e la collaborazione con l’Ente d’Ambito Sociale di riferimento. La missione è stata individuata nella risposta, prossimale
all’utenza, ai bisogni di salute delle persone ultrasessantacinquenni affettE da patologie psicogeriatriche sia
cognitive che psichiatriche.
MATERIALI E METODI
Le attività dell’Ambulatorio Psicogeriatrico sono rivolte all’utenza ultra-65 anni, del Distretto di Ortona, che esprime bisogni assistenziali per patologie della sfera cognitiva e comportamentale. Le attività sono governate da specifiche procedure dirette a regolamentare le modalità di accesso e di presa in carico.
I dati di attività dell’Ambulatorio vengono costantemente rilevati da un Sistema Informatico di Servizio.
Nell’anno 2009 è stato organizzato un Convegno Aziendale:“Ambulatorio Psicogeritrico Territoriale: Quali strategie di cura e di assistenza sanitaria nella attuale e futura organizzazione sanitaria”.
RISULTATI
Nell’anno 2009 sono stati accolti complessivamente 384 utenti di cui 111 nuovi accoglimenti; 68 sono i pazienti inseriti nel monitoraggio per l’assunzione di farmaci rientranti nella nota 85 AIFA. Verranno
descritti grafici e tabelle inerenti la popolazione assistita, le attività svolte, la conoscenza espressa dai partecipanti al convegno aziendale delle problematiche psicogeriatriche.
CONCLUSIONE
La psichiatria dell’anziano è una branca della psichiatria, e nello stesso tempo rappresenta una componente costitutiva della rete multidisciplinare di servizi per la salute mentale nella tarda età. È auspicabile
che la mole di conoscenze e competenze raggiunte nell’ambito psicogeriatrico incoraggino operatori ed
amministratori ad avviare, sviluppare e migliorare i servizi territoriali in questo settore.A tal proposito non
si potrà prescindere da un’integrazione tra l’aspetto sanitario, erogato dalle Aziende Sanitarie, e quello sociale, erogato dagli Enti d’Ambito Sociale; inoltre non si potrà non tener conto che l’emancipazione degli
utenti e dei loro familiari produrrà nuove richieste al sistema sanitario (già definiti nei Principi Generali di
Community Care individuati da E. Murphy), che possono essere soddisfatti da un Servizio Psicogeriatrico
prossimale all’utenza (Centro Spoke).
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LO STRESS DEL CAREGIVER PROFESSIONALE NELLA GESTIONE
DEL PAZIENTE DEMENTE ISTITUZIONALIZZATO
Nuzzo Maria Dolores1, Scarafiotti Carla2, Raspo Silvio3, Pregliasco Fabrizio1,4
1 Fondazione
Istituto Sacra Famiglia, Cesano Boscone (MI)
Geriatrica ASL 3, Torino
3 S.C. Geriatria ASO S.CROCE - Carle, Cuneo
4 Dipartimento Sanità Pubblica, Microbiologia e Virologia dell’Università Degli Studi di Milano
2 Unità Valutativa
SCOPO
Il benessere mentale del caregiver professionale ha ricadute importanti sulla gestione dell’anziano affetto da Alzheimer ricoverato in RSA. Un caregiver abile nell’affrontare i problemi comportamentali e gli
imprevisti della cura riesce a valorizzare le risorse residue del paziente demente ed a trasmettere fiducia,
sicurezza e serenità alle persone che assiste.
Questo lavoro utilizza i dati di una ricerca sulle situazioni potenzialmente stressanti nei servizi per anziani non autosufficienti.
MATERIALI E METODI
Il campione oggetto di studio comprende 51 caregiver (15 infermieri e 36 addetti all’assistenza) che lavorano in tre RSA della Fondazione Istituto Sacra Famiglia di Cesano Boscone (MI). Sono stati raccolti in maniera anonima su un questionario appositamente predisposto alcuni dati anagrafici e familiari e su formazione ed esperienza lavorativa, motivazioni alla scelta del lavoro, livello di stress percepito (Nursing Stress Scale)1, livello di autostima (Rosemberg’Self-esteem Scale)2. I carichi di lavoro in termini di impegno assistenziale sono stati quantificati applicando ai ricoverati l’Indice di Barthel3 ed il Neuropsychiatric Inventory4.
I dati sono stati raccolti su un foglio di calcolo utilizzando il programma Microsoft Excel; l’elaborazione dei dati è stata effettuata mediante SPSS versione 9.0 per Window. Le variabili quantitative continue sono state analizzate mediante test T di Student, mentre quelle discrete con il test Chi Quadrato. Per i confronti è stata considerata significativa una probabilità minore o uguale al 5%.
RISULTATI
Sebbene nella nostra casistica il livello medio di stress percepito dal caregiver professionale non sia
alto (punteggio medio alla NSS 37,5 ± 13,4), esso è direttamente correlato ai carichi di lavoro, al vissuto di
morte ed alla mancanza di supporto. Inoltre, nella RSA Nucleo Alzheimer i livelli di stress sono risultati più
elevati rispetto ai reparti che curano pazienti non autosufficienti per altre patologie (35,1 ± 8,6 vs 44,3 ±
18,4 p<0,05) ed il livello di autostima è significativamente più basso nel gruppo che lavora con i pazienti
dementi (50,5 ± 8,4 vs 60,8 ± 8,2, p<0,001). Di rilievo ai fini della soddisfazione lavorativa è la motivazione che gli operatori hanno indicato per la scelta del lavoro: coloro che l’hanno scelto volontariamente risultano più gratificati e meno soggetti a burn-out. È interessante sottolineare come i caregiver professionali con figli presentino minore suscettibilità allo stress ed ai conflitti in ambito lavorativo, evidenziando anche un livello di autostima più elevato rispetto ai colleghi senza figli.
CONCLUSIONE
Questo studio conferma la necessità di sostenere e potenziare le caratteristiche umane e professionali del personale che assiste i pazienti non autosufficienti, in particolare quelli affetti da patologie degenerative con problemi comportamentali, tramite provvedimenti quali la formazione permanente, la presenza di supporto e supervisione del lavoro, l’utilizzo di tecniche di condivisione e di gestione dello stress.
BIBLIOGRAFIA
1
2
3
4
Gray-Toft P, Anderson JG.The Nursing Stress Scale: Development of an Instrument, J Behav Assess. 1981; 3:11-23.
Merill JM, Lorimor RJ, Thornby JI, Woods A, Vallbona C. Self-esteem and caregivers’ attitudes toward elderly persons, Psychol
Rep. 1996; 79:1349-50.
Shah S, Vancclay F, Cooper C. Improving the sensitivity of the Barthel Index for stroke riabilitation, J. Clin Epidemiol. 1989; 42:703.
Cummings JL, Mega M, Gray K, Rosemberg-Thompson S, Carusi DA, Gornbei J.The Neuropsychiatric Inventory comprehensive
assessment of psychopathology in dementia, Neurology. 1994; 44:2308-14.
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APPROCCIO CONVERSAZIONALE E CAPACITANTE NELLA CURA
DEGLI ANZIANI AFFETTI DA DEMENZA
Peroli Paola1, Vigorelli Pietro2
1 1^Geriatria, Azienda
2 Gruppo Anchise,
Ospedaliera Universitaria Integrata Verona
Milano
RIASSUNTO
La Capacitazione è una tecnica d’intervento che cerca di creare le condizioni per cui la persona anziana con deficit cognitivi possa svolgere le attività di cui è ancora capace, così come è capace, senza sentirsi in errore. L’obiettivo della Capacitazione è che la persona possa essere felice, per quanto possibile, di fare quello che fa, così come lo fa, nel contesto in cui si trova, prescindendo dalla correttezza dell’azione da
svolgere. Gli interventi capacitanti sono le azioni che il curante mette in atto a questo scopo1. La Capacitazione si basa sul riconoscimento delle Competenze Elementari del paziente (la competenza emotiva, a
parlare, a comunicare, a contrattare e a decidere) eD utilizza come strumenti l’ascolto e l’uso consapevole della parola2. Le Competenze Elementari sono necessarie per l’acquisizione, il mantenimento e l’impiego di competenze di grado superiore (Competenze per le attività di base della vita quotidiana, Competenze Complesse). L’Approccio Capacitante intende contrastare il circolo vizioso che parte dalla malattia e, attraverso l’eclissi delle Competenze Elementari, porta ad un peggioramento delle manifestazioni della malattia stessa ed a uno scadimento della qualità di vita del paziente e dei suoi familiari3. L’impiego di alcune
Tecniche Conversazionali favorisce l’espressione ed il mantenimento delle Competenze Elementari4. I
principali riferimenti culturali dell’Approccio Conversazionale e Capacitante sono il Conversazionalismo
di G.Lai5, così come è evoluto nell’ambito del Gruppo Anchise4, e il Capability Approach di A. Sen6.
SCOPO
Valutare l’efficacia di alcune Tecniche Conversazionali nel tener vive le Competenze Elementari delle
persone anziane affette da demenza.
MATERIALI E METODI
Riportiamo l’esempio dello studio del testo registrato di una conversazione. Nel testo si sono ricercati i segni dell’emergere delle Competenze Elementari e si sono messe in evidenza le Tecniche Conversazionali impiegate per farle emergere.
RISULTATI
Abbiamo analizzato il testo del colloquio cercando di individuare 1) i segni dell’emergere delle Competenze Elementari (la competenza emotiva, a parlare, a comunicare,a contrattare, a decidere);2) le Tecniche Conversazionali che hanno preceduto il manifestarsi delle Competenze Elementari (non fare domande, seguire
il discorso del paziente, accompagnarlo nel suo mondo possibile, restituire il tema del suo discorso, fare eco
alle sue parole, focalizzare l’attenzione sul tema più importante, ampliare il discorso restando vicino al tema
principale, mettersi nei panni del paziente, parlare di sé, fare la sintesi del suo discorso).
DISCUSSIONE
La relazione tra conversante e paziente è fortemente asimmetrica sia per quanto riguarda le competenze cognitive (un medico ed una paziente con malattia di Alzheimer), sia per quanto riguarda le circostanze della conversazione (il medico convoca la paziente per una conversazione, la paziente si adegua al progetto del medico). Quando la relazione tra adulti è fortemente asimmetrica c’è il rischio che la relazione
contribuisca all’eclissi delle Competenze Elementari. Per contrastare tale asimmetria e per favorire l’emergere delle Competenze Elementari abbiamo fatto ricorso all’impiego consapevole di alcune Tecniche Conversazionali che sono risultate utili allo scopo.
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CONCLUSIONE
Alcune Tecniche Conversazionali utilizzate dal conversante sono risultate utili per tener vive le Competenze Elementari della paziente.
BIBLIOGRAFIA
1
Vigorelli P. La Capacitazione: un’idea forte per la cura della persona anziana ricoverata in RSA. G. Gerontol. 2006; 55:104-9.
2
Vigorelli P. La Capacitazione come metodologia di empowerment nella cura del paziente affetto da demenza di Alzheimer.
I luoghi della cura 2006 n.4.
3
Vigorelli P. Il Gruppo ABC: un metodo di auto-aiuto per i familiari di malati Alzheimer. Franco Angeli, 2010.
4
Vigorelli P.Alzheimer senza paura. Perché parlare, come parlare. Rizzoli, 2008.
5
Lai G. Conversazionalismo. Bollati Boringhieri, 1993.
6
Sen A. Lo sviluppo è libertà. Mondatori, 2001.
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GENESI MULTIFATTORIALE NELLA GENESI DEL DELIRIUM:
UN CASO CLINICO
Piovani Laura1,2, Mattanza Chiara1,2, Giordano Alessandro1,2, Sleiman Intissar1,2, Rozzini Renzo1,2,
Trabucchi Marco2
1 Istituto
2 Gruppo
Ospedaliero-Fondazione Poliambulanza, Brescia
di Ricerca Geriatrica, Brescia
Il delirium è il più comune disturbo comportamentale negli anziani ospedalizzati, circa il 30% di pazienti ricoverati nei reparti medici vanno incontro a delirium, mentre in quelli chirurgici il rischio varia dal 10
al 50%; un’elevata incidenza di delirium è dimostrabile anche nelle unità di terapia intensiva (70%), in pronto soccorso (42%) e nei reparti di riabilitazione (16%). I fattori di rischio per il delirium sono l’età avanzata, la polifarmacoterapia, i deficit sensoriali (ipovisus o ipoacusia), l’immobilità, la privazione del sonno, le
malattie neurologiche, le infezioni, i disturbi metabolici e la disidratazione. L’elevata incidenza è associata
alla fragilità del paziente, ma anche alla complessità delle procedure a cui è sottoposto.
CASO CLINICO
Si descrive il caso di una donna di 83 anni affetta da encefalopatia vascolare, ipertensione arteriosa,
pregressa duodenocefalopancreasectomia per pancreatine cronica, diabete mellito secondario, insufficienza renale cronica di grado lieve da nefroangiosclerosi e anemia secondaria.
Religiosa, è stata missionaria in Oceania per più di 50 anni. Attualmente vive in una comunità per suore anziane in condizioni di discreta autonomia funzionale (Barthel Index 90/100); le consorelle riferiscono decadimento cognitivo moderato.
Giunge presso il pronto soccorso dell’ospedale Poliambulanza (Brescia) nel febbraio 2010 per repentino aggravamento dello stato di coscienza (GCS 4+4+1). Da una settimana la paziente è confusa, confabulante, agitata ed insonne. Nel sospetto di stroke viene effettuata TC encefalo che non rileva lesioni ischemiche di nuova insorgenza. Gli esami ematochimici evidenziano una severa insufficienza renale (creatininemia 9.19 mg/dl range di normalità 0.50-0.90), iperkaliemia (8 mmol/l range di normalità 3.5-5.0), acidosi metabolica (pH 6.9, HCO³¯5.9 mmol/l), anemizzazione grave (HB 6.4 mg/dl range di normalità 12.016.0); non leucocitosi. Per la gravità clinica viene ricoverata in Terapia Intensiva dove è intubata, vengono
posizionati catetere vescicale, sondino naso-gastrico, catetere venoso centrale ed accessi vascolari. Inizia
l’emofiltrazione con CVVH;. Nei giorni successivi si ottiene un lento miglioramento della funzione renale,
dell’acidosi metabolica e dello stato di coscienza. Dopo trial di CPAP viene estubata. Rimosso il sondino naso-gastrico, già in seconda giornata inizia ad alimentarsi autonomamente. In seconda giornata è vigile (GCS
4+6+5), discretamente collaborante, ma manifesta disorientamento temporo-spaziale e disturbi comportamentali quali allucinazioni e agitazione (tenta di rimuovere gli accessi venosi, il catetere vescicale, ecc.) Per
la stabilità emodinamica ed il miglioramento dei parametri di funzionalità renale (creatininemia 2.2 mg/dl,
Ph 7.38, HCO³¯23.1 mmol/l) la paziente, in terza giornata, viene trasferita in Geriatria. In reparto si rimuovono gli accessi vascolari e viene mobilizzata. Migliorano progressivamente, sino alla scomparsa, i sintomi
ed i segni di delirium.
Dopo l’interruzione dell’emofiltrazione, si osserva l’aumento graduale della creatinina fino a valori di
8.2 mg/dl (lieve acidosi metabolica: Ph 7.33). A questo non si associa invece la ricomparsa di disturbi del
comportamento. La paziente ritorna al domicilio con valori che indicano grave insufficienza renale; Barthel
Index: 40/100, MMSE: 15/30.
Il caso evidenzia come sia la comparsa che la risoluzione di delirium nel paziente possano avere genesi
multifattoriale: la risoluzione dei disturbi comportamentale della paziente descritta non può essere attribuito al solo miglioramento della funzionalità renale, né indici di grave insufficienza renale possono da soli giustificarne l’insorgenza. Nella cura di un paziente affetto da delirium devono essere presi in considerazione tutti i possibili fattori che concorrono alla sua genesi, tra i quali gli aspetti ambientali e le modalità relazionali.
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IL CASO DI “GIGI”: CONSIDERAZIONI SULLA DIAGNOSI DELLE DEMENZE
ED IMPLICAZIONI NELLA VITA QUOTIDIANA DEL PAZIENTE E DEI FAMIGLIARI
Pirani Alessandro1, Zaccherini Davide1, Tulipani Cristina1, Tassinari Claudia2, Anzivino Fernando3
1 Gruppo di Ricerca Geriatrico Interdisciplinare Operativo - Centro Delegato per i Disturbi Cognitivi - Distretto
Ovest - AUSL Ferrara
2 Avvocato, Cento, (FE)
3 Responsabile Area Programma Anziani e Responsabile Progetto Demenze - Ausl Ferrara
SCOPO
Dimostrare come, nella pratica quotidiana, non sia sempre agevole attuare il decalogo di impegni dell’AIP1 a tutela del paziente con demenza e come il “diritto costituzionale” a ricevere la giusta e tempestiva diagnosi sia un problema che coinvolge non solo la popolazione e la medicina generale, ma parimenti
gli specialisti. Gli specialisti possono dimostrare una disomogeneità di competenza culturale che può rallentare la diagnosi tempestiva e la stadiazione funzionale. Questi elementi sono importanti per il trattamento precoce e per determinare la competenza psicologica2 e la relativa competenza decisionale3.
MATERIALI E METODI
Gi.Gi., maschio, vedovo, 1 figlio, di giorno vive con il figlio, di sera con convivente. 2001 (69 anni): inviato al neurologo per disturbi mnesici= MMSE: 26,3; ADL e IADL normali; EEG: onde theta temporali sinistra; TC encefalo: normale. Diagnosi: depressione. 2001-2004: all’insaputa del figlio, GiGi fornisce ingenti somme di denaro alla convivente tra l’altro per acquisto immobile. 2004 (72 a.): inviato a UVA= MMSE 24,3;
GPCOG.It: 1/9 (vn: 9/9)4;ADL e IADL normali; CDR: 0,5; GDS= 10/15;TC encefalo: normale. Diagnosi: lieve
compromissione cognitiva in evidente s. ansioso depressiva5. 2005 (73 a.)= MMSE 19,3; ADL e IADL normali; CDR: 1; = lieve deterioramento cognitivo probabile degenerativo.Apparente vita normale, guida; il figlio scopre casualmente che la gestione delle finanze non è fatta con normale competenza decisionale:
viene revocata patente e nominato ADS. Terapia: donepezil 10 mg poi switch con rivastigmina 12 mg die
fino a 76 anni (CDR: 4). 2009 (77 a.): decesso per Demenza tipo Alzheimer (AD) terminale (CDR 5). Il figlio,
prima di intentare causa legale alla convivente, valuta la possibilità di successo sottoponendo separatamente ad alcuni specialisti (2 neurologi, 3 geriatri ) il caso e la seguente domanda:“Gli atti di disposizione
del patrimonio compiuti da mio padre tra 2001 e 2005, sono stati compiuti nel pieno delle sue capacità o
invece si può anche solo sospettare una diminuita capacità?”
RISULTATI
Le risposte sono così raggruppabili: 1) (ger/neu) “GiGi non era in condizioni di incapacità di
intendere/volere...la diagnosi era solo depressione con episodi di perdita di memoria, assenza di MCI o
demenza. 2) (ger/ger) “Decorso clinico tipico di AD, la 1^ visita neurologica (2001) è l’esordio di “AD lieve e depressione di corteo”6, confermato da esame dei test psicometrici (UVA-2004) positivi per gravi deficit abilità visuo-spaziali e rievocazione7. Pertanto il paziente poteva non disporre sempre della normale
competenza decisionale”. 3) (neu) “Depressione e MCI con episodi di perdita di memoria, non demenza.
Non è possibile accertare che fosse in condizioni di incapacità di intendere/volere.. è probabile avesse
preservate condizioni di capacità di intendere/volere”.
CONCLUSIONE
Il figlio non procede. Le risposte evidenziano una difformità di conoscenze culturali tra specialisti con
ripercussioni diagnostiche, cliniche e sempre più spesso medico-legali sulla vita di pazienti e famigliari.
Non esiste un minimum data set, comune per la diagnosi ambulatoriale quotidiana specialistica, che integri la scarsa sensibilità nella demenza iniziale di MMSE, ADL, IADL con test psicometrici e scale funzionali
veloci, ma più specifici e sensibili nei casi dubbi.
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BIBLIOGRAFIA
1
http://www.psicogeriatria.it/usr_files/home/decalogo-alzheimer2009.pdf
2
Pellegrino F. Malattia di Alzheimer: rapporto medico-paziente e tutela giuridica. SIMG, 2009; 6:56-7.
3
Cembrani F. Persona, dignità e competenza decisionale in geriatria; alcune brevi note in margine al documento approvato dall’AIP. Psicogeriatria, 2009; 3:7-13.
4
Pirani A, Brodaty H, et al.. The validation of the Italian version of the GPCOG (GPCOG-It): a contribution to cross-national implementation of a screening test for dementia in general practice. Int. Psychog., 2010; 1:82-90.
5
Gazzetta Ufficiale del 13-10-2009: Nota 85 AIFA.
6
Trabucchi M. Le Demenze. 4° edizione. Utet, 2005,Torino.
7
Johnson DK, et al. Longitudinal study of the transition from healthy aging to Alzheimer Disease. Arch Neurol, 2009; 66:1254-9.
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UN INTERVENTO COMBINATO: ATTIVITÀ SEMIRESIDENZIALE
PER PERSONE AFFETTE DA DEMENZA
Ragni Silvia, Attaianese Fulvia, Bernard Cristina, Ierace Brunella, Quattropani Fabrizio,
Bartorelli Luisa
Centro Alzheimer Fondazione Roma, Centro Diurno ‘La Cornucopia’, Roma
SCOPO
L’efficacia di strategie non farmacologiche nel trattamento delle demenze viene confermata da più par1,2
ti nella letteratura recente. Il centro diurno è luogo di cure privilegiato poiché permette la proposta di interventi di tipo multidisciplinare integrato.Attraverso più proposte vengono stimolate aree cognitive motorie, affettive e sociali, che coinvolgono globalmente il paziente. Questo studio osservazionale presenta un approccio combinato tra riattivazione cognitiva, motoria, musicoterapia, drammatizzazione e terapia assistita
con animali. Ogni ambito d’intervento mantiene la propria peculiarità e specificità di obiettivi, all’interno di
una visione unitaria della persona, delle sue risorse e dei suoi deficit, al fine di rallentare il decorso di malattia e per il miglioramento della qualità di vita percepita dal paziente e dal suo nucleo familiare.
MATERIALI E METODI
due gruppi di pazienti affetti rispettivamente da demenza di grado lieve (gruppo B) e di grado moderato con disturbi del comportamento (gruppo A) hanno usufruito di interventi combinati per sei mesi.
Gruppo B: 9 pazienti (4 donne e 5 uomini) di età media 72, scolarità media 10, MMSE medio 18.05: 1) psicodramma con incontri settimanali di un’ora e mezzo per l’integrazione di vissuti psichici ed espressione dell’emotività; 2) stimolazione cognitiva attraverso la realizzazione di un fumetto che illustra una giornata al centro diurno con foto e didascalie, per sollecitare l’orientamento spazio-temporale eD il rinforzo dell’identità.
Gruppo A: 9 pazienti (7 donne e 2 uomini) di età media 80, scolarità media 8, MMSE medio 12.4: 1)
musicoterapia con sedute bisettimanali di quarantacinque minuti: L’utilizzo del mediatore sonoro aiuta la
comunicazione non verbale e l’espressività psico-corporea; 2) terapia assistita con animali: una seduta settimanale con animali (coniglio, porcellino d’india, raganella, cane), per stimolazione sensoriale, affettiva e
della memoria autobiografica.
Entrambi i gruppi: riattivazione motoria con sedute trisettimanali di 40 minuti per il recupero della
mobilità, percezione del sé corporeo, riduzione del rischio di caduta, mantenimento dell’autonomia. La
scelta degli interventi è stata coerente con i livelli di patologia e le potenzialità dei gruppi. Le attività, condotte da operatori dedicati, sono state filmate e valutate attraverso griglie osservazionali costruite ad hoc
per ogni intervento. Interviste ai familiari valutano la ricaduta a domicilio delle attività.
RISULTATI
Presentazione di filmati e dati relativi alle attività eD ai report dei familiari. Dalle prime osservazioni si
rileva: per il gruppo B la validità di attività che coinvolgono il pensiero astratto e la creatività; per il gruppo A l’importanza di stimoli sensoriali e non verbali che favoriscono l’espressione affettiva e controllano
i disturbi del comportamento.
CONCLUSIONE
si conferma il valore del Centro diurno Alzheimer, quale luogo strategico per la proposta combinata di
interventi. In particolare la loro contiguità e la loro integrazione in un ambiente protetto potenzia le singole attività, in un contesto che mantiene il contatto con la comunità esterna. Infatti un setting che valorizza l’espressività ed il ruolo attivo del paziente può favorire l’emergere di capacità inespresse o sottovalutate. Tale situazione è favorevole anche per gli operatori: arricchisce la loro esperienza, dà la possibilità
di conoscere aspetti del paziente che non emergono in interventi singoli e contribuisce a vincere i pregiudizi sulle abilità dei pazienti, prevenendo anche il burn-out.
BIBLIOGRAFIA
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2
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Jones M. GentleCare, Un modello positivo di assistenza all’Alzheimer, Carocci Faber, 2005.
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DIFFERENZE DI GENERE NELLA BRONCOPNEUMOPATIA CRONICA
OSTRUTTIVA
Ranieri Piera1,2, Bianchetti Angelo1,2, Espinoza Carmen1, Cornali Cristina1,2, Franzoni Simone1,2,
Badini Ilaria1,2, Pizzoni Marina1,2, Cossu Beatrice1,2, Trabucchi Marco2
1 U.O.Medicina,
2 Gruppo
Istituto Clinico S. Anna, Brescia
di Ricerca Geriatrica, Brescia
RIASSUNTO
La prevalenza, la morbilità e la mortalità della Bronco-Pneumopatia Cronica Ostruttiva (BPCO) nelle
donne sta significativamente aumentando. Nel 2000, per la prima volta, la mortalità per BPCO nelle donne è stata superiore che negli uomini. L’incremento dell’utilizzo del tabacco probabilmente spiega solo
parte dell’incremento di questa prevalenza. I dati della letteratura suggeriscono, infatti, che le donne potrebbero essere a maggior rischio di danno funzionale polmonare indotto dal fumo di sigaretta, con più severa dispnea e peggior stato di salute rispetto all’uomo. Non è attualmente noto se le differenze di genere osservate dipendano da fattori biologici, psicologici o sociologici, ed in che misura tale differenze potrebbero avere implicazioni sull’impostazione terapeutica della BPCO.
SCOPO
Questo studio descrive le caratteristiche cliniche, funzionali, affettive e cognitive di pazienti anziani
ambulatoriali affetti da BPCO e di analizzare le differenze genere-correlate.
MATERIALI E METODI
La popolazione di studio, pazienti afferenti all’Ambulatorio di Fisiopatologia Respiratoria del nostro
Istituto, è stata sottoposta ad un protocollo standard di valutazione multidimensionale, comprendente variabili correlate alla BPCO, cliniche, cognitive (MMSE), affettive (GDS), funzionali (Barthel index) e di comorbilità (Charlson index). La stadiazione della gravità della BPCO è stata eseguita in accordo alle linee guida
GOLD. Sono state quindi analizzate le differenze esistenti tra il genere maschile e femminile.
RISULTATI
Durante 9 mesi di attività ambulatoriale sono stati valutati 525 pazienti ultra65enni, di cui 283 (53,9%)
è risultata affetta da BPCO (età media 76.2±6.4, M 63,3%). La gravità della BPCO secondo GOLD era così
suddivisa: GOLD 1: 33%, GOLD 2: 48%, GOLD 3: 18%, GOLD 4: 3%, in assenza di differenze significative di
gravità tra maschi e femmine. La Tabella mostra le caratteristiche della popolazione di studio.
CONCLUSIONE
I dati del “mondo reale” confermano che nella BPCO esistono rilevanti differenze di genere. Sebbene le
donne presentino un minore grado di ostruzione bronchiale e di comorbilità somatica rispetto agli uomini, esse riferiscono maggiore dispnea a riposo e da sforzo. Inoltre, nelle donne è maggiore la prevalenza di
depressione del tono dell’umore, con un maggior utilizzo di farmaci antidepressivi ed ansiolitici. Se tali
differenze riflettono differenze psicologiche, d’intensità dei sintomi e di qualità della vita correlata alla malattia cronica, o di comorbilità psichica, ad esempio un disturbo d’ansia, non è ancora noto. È evidente
quindi quanto sia importante l’analisi di queste differenze per l’impatto che potrebbero avere sull’espressione clinica, la progressione e la risposta alla terapia nella BPCO.
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Maschi
(n=179, 63%)
Femmine
(n=104, 37%)
p*
Età (anni)
75.9±6.4
76.6±6.6
n.s.
Anni di fumo
35.1±16.5
32.5±18.5
n.s.
Fumatore pregresso
68
27
Fumatore attuale
14
15
Non-fumatore
18
57
.000
Spirometria accettabile secondo ATS
92
93
n.s.
67.6±20.4
72.3±24.1
.08
GOLD 1
30
38
GOLD 2
49
41
GOLD 3
18
18
GOLD 4
3
2
n.s.
53.5±9.6
57.4±10.1
.006
2
9
.007
1.9±1.1
2.5±1.2
.000
Dispnea a riposo
30
41
.03
Dispnea da sforzo
89
90
n.s.
Body Mass Index (Kg/m2)
27.9±6.7
27.0±5.5
n.s.
Barthel index (BI)
0.5±1.3
0.5±1.2
n.s.
Charlson Index
2.9±1.9
2.3±1.5
.009
Mini Mental State Examination (MMSE)
25.3±3.6
26±3.8
n.s.
Geriatric Depression Scale (GDS)
0.5±1.0
0.7±0.9
n.s.
Depressi (n°)
29
43
.04
Utilizzo benzodiazepine (n°)
9
27
.02
Utilizzo antidepressivi (n°)
6
12
n.s.
FEV1 (% of pred.)
Indice di Enfisema
Ossigeno-terapia continuative domiciliare
Scala della dispnea (MRC)
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ALLA RICERCA DI FATTORI CLINICI E DEMOGRAFICI CHE INFLUENZINO
LA RISPOSTA FARMACOLOGICA TRA GLI ANZIANI CON DEMENZA
DI ALZHEIMER: ESPERIENZA DI UN’UVA DEDICATA
Riello Fabio1, Nisticò Francesca1, Borgogni Tiziano1, Cellai Fausto1, Pierantozzi Andrea2,
Petri Silvia1, De Alfieri Walter1
1 UO
2 UO
Geriatria, Az. USL 9, Grosseto
Geriatria, Ospedale Israelitico, Roma
SCOPO
Verificare se tra i pazienti anziani afferenti all’UVA, l’analisi dei dati demografici e clinici possa permettere di distinguere uno o più sottogruppi, eventualmente da considerare idonei a trattamenti differenziati
e/o alternativi agli Inibitori delle Acetilcolinesterasi (AChE-I).
MATERIALI E METODI
Sono stati esaminati i dati dei pazienti anziani afferenti all’UVA (Unità di Valutazione Alzheimer) della
UO Geriatria di Grosseto. Tutti avevano una diagnosi di Demenza di Alzheimer (DA), associata o meno ad
una diagnosi coesistente di demenza vascolare (DA + DV), con un punteggio al Mini Mental State Examination (MMSE) >11/30, alla loro prima valutazione. Erano considerati solo quelli che erano stati sottoposti
a trattamento a dosi terapeutiche con Acetilcolinesterasi inibitori (AChE-I) -uno tra donepezil, galantamina,
rivastigmina- e visite di controllo successive, ad intervalli semestrali, con valutazione cognitiva e funzionale (MMSE, Geriatric Depression Scale, ADL, IADL). Il trattamento prevedeva l’uso di AChE-I, fino a che il
MMSE restava ≥10, secondo indicazioni ministeriali; gli altri trattamenti, compresi antidepressivi ed antipsicotici, erano prescritti ex novo, sospesi o mantenuti, basandosi sul giudizio clinico.
RISULTATI
145 pazienti consecutivi erano considerati per l’analisi. L’età media totale era molto elevata (78,6 aa),
con una netta prevalenza di ultra75enni (77%). Il follow-up medio è stato di 2,5 aa. In tabella sono riportati i dati alla prima valutazione (t0).Alcune differenze significative sono state rilevate tra i pazienti con DA
DA
(n=58)
DA+DV
(n=87)
p
79,6 + 4,6
77,2 + 4,3
0.003
sesso (M/F)
15/43
42/45
0.009
75+ anni (M/F)
9/28
35/40
0.025
Scolarità, 0-5 anni
47
70
Scolarità, 6-11 anni
8
9
Scolarità, 12+anni
3
8
Diabete (no/sì)
56/2
69/18
0.000
Antidepressivi (no/sì)
46/12
56/31
0.064
Antipsicotici (no/sì)
49/9
83/4
0.036
MMSE
20.49 + 4.5
20.80 + 3.8
0.662
ADL
5.19 + 1.19
5.24 + 1.38
0.804
IADL
4.98 + 2.78
4.04 + 2.74
0.046
Età (anni)
0.578
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e quelli con DA+DV. In 39 pazienti con almeno 3 anni di follow-up, il punteggio al MMSE mostrava una caduta con differenze significative tra i periodi (v. Figura), come pure i punteggi nelle ADL e nelle IADL, ma
l’analisi della varianza tra soggetti non mostra nessuna differenza significativa distinguendo per età, sesso,
livello d’istruzione, diabete, uso di farmaci antidepressivi o antipsicotici. Nessuna differenza significativa nei
dati demografici e clinici era rilevabile, anche distinguendo, nel gruppo dei 145 pazienti, tra coloro che si
mostravano più o meno compromessi alla valutazione basale (MMSE <21 vs MMSE >21) e tra quanti mostravano un decadimento cognitivo più o meno rapido nel primo anno (differenza tra MMSE al t0 e a 1
anno: <2; uguale a 2 o a 3; >3).
CONCLUSIONE
Nella pratica clinica, i pazienti anziani con DA sembrano comportarsi come un gruppo omogeneo riguardo alla risposta cognitiva e funzionale al trattamento con AChE-I.
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CONOSCENZA E PERCEZIONE DELLA MALATTIA DI ALZHEIMER
NELLA POPOLAZIONE GENERALE: INFLUENZA DELL’ESPERIENZA
DI CAREGIVING E DI ALTRE VARIABILI SOCIODEMOGRAFICHE
IN UN CAMPIONE DI POPOLAZIONE BRESCIANA
Riva Maddalena, Vicini Chilovi Barbara, Conti Marta, Bertoletti Erik, Rozzini Luca,
Padovani Alessandro
Clinica Neurologica, Università degli Studi di Brescia
SCENARIO
La complessità dell’impatto sociale della malattia di Alzheimer (AD) ha portato allo sviluppo di un crescente interesse verso l’analisi della conoscenza e della percezione di questa patologia nei pazienti, nei loro caregiver e nella popolazione generale.Tuttavia si avverte la necessità di individuare quali fasce della popolazione siano meno informate e quali fattori possano influenzarne la conoscenza.
OBIETTIVI
Lo scopo dello studio è di analizzare quali variabili siano in grado di rendere disomogeneo il livello di
conoscenza tra le diverse fasce di popolazione, suddivise per caratteristiche socio-demografiche (sesso,
età, scolarità, categoria professionale, reddito annuo) e per esperienza personale con la malattia di Alzheimer (caregiver o non caregiver AD).
MATERIALI E METODI
1111 soggetti (234 caregiver e 877 non-caregiver AD) sono stati invitati a rispondere ad un questionario composto da 35 domande. I questionari sono stati compilati autonomamente ed in forma anonima dai
partecipanti, reclutati nelle sale d’attesa di ambulatori specialistici degli Spedali Civili di Brescia e negli
ambulatori di Medicina Generale.
Il questionario indaga molteplici argomenti, tuttavia, per quest’analisi, sono state considerate solo le
prime dieci domande. In particolare è stata focalizzata l’attenzione sulla conoscenza generale della malattia, l’individuazione dei sintomi patognomonici e dei fattori di rischio, la presenza di servizi territoriali dedicati e l’accessibilità delle informazioni a riguardo. Per ultimo è stata valutata l’adeguatezza delle informazioni, relativamente alla disponibilità di cure farmacologiche ed alla loro efficacia.
RISULTATI
Non vi sono differenze significative tra le risposte fornite dai caregiver e dai non caregiver, sia per
quanto concerne le caratteristiche della malattia che gli aspetti riguardanti la cura e la gestione dei malati. Indipendentemente dall’essere caregiver, il genere maschile e gli anziani sono le categorie di popolazione meno informate sulla malattia e sulle problematiche ad essa correlate.
CONCLUSIONI
La malattia di Alzheimer è certamente conosciuta dalla popolazione generale, ma questa conoscenza è
spesso poco adeguata. Esistono in particolare delle fasce di popolazione che dovrebbero essere raggiunte
in modo più capillare da programmi d’informazione e sensibilizzazione mirati.
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EFFETTO DEL TRATTAMENTO COGNITIVO-COMPORTAMENTALE
DI GRUPPO SULLA QUALITÀ DI VITA E SULLA SINTOMATOLOGIA
NEL PAZIENTE ANZIANO AFFETTO DA DEPRESSIONE
Romano Pietra, Tombolino Beatrice, Peirone Alberto, Apa Deborah, Gala Costanzo
Centro per la Diagnosi e la Cura della Depressione nell’Anziano. Azienda Ospedaliera San Paolo, Milano
e-mail: [email protected]
SCOPO
La depressione è uno dei disturbi psichiatrici prevalenti nella popolazione anziana (Alexopulos 2005).
Le recenti linee guida indicano che la psicoterapia deve essere il trattamento d’elezione nella depressione
lieve e moderata dell’anziano. Numerosi studi supportano l’utilizzo della terapia cognitiva sia in setting individuale o di gruppo (Wilkinson 2009), nel paziente anziano affetto da depressione (Scoring 2009,Wilson
2009). I risultati di questi studi hanno evidenziato che comparata al placebo la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è più efficace nel ridurre la sintomatologia depressiva nell’anziano. La terapia cognitiva
da sola ha mostrato un’efficacia sovrapponibile a quella farmacologica, dimostrandosi una valida alternativa per le persone anziane, che spesso seguono già politerapie farmacologiche (Laidlaw 2008). Questo
studio si propone di valutare l’esito del trattamento di una terapia cognitiva comportamentale di gruppo
sulla Qualità di vita (QoL) e sulla sintomatologia depressiva nei pazienti anziani affetti da depressione.
MATERIALI E METODI
Verranno reclutati 120 pazienti sulla base dei seguenti criteri d’inclusione: età maggiore di 65 anni;
buone capacità di comprensione della lingua italiana; firma del consenso informato; diagnosi di Depressione fondata sulla Mini International Psychiatric Interview (MINI); Mini Mental Status Examination, superiore a 22. Prima dell’inizio della ricerca (T0), verrà somministrata, a tutti i pazienti, una batteria di test psicologici. La batteria di test sarà composta da: MINI, World Health Organization Quality of Life-Bref, Hamilton
Rating Scale for Depression; Beck Depression Inventory II; Geriatric Depression Scale. I pazienti intraprenderanno un trattamento efficace per la depressione secondo un disegno randomizzato; un gruppo effettuerà solo il trattamento farmacologico, uno solo il trattamento cognitivo-comportamentale, ed un gruppo intraprenderà una terapia combinata di entrambi gli interventi; l’assegnazione al gruppo avverà in modo randomizzato e verrà generata da un programma statistico. I pazienti parteciperanno ad un trattamento manualizzato di CBT (Gallagher-Thomson, 2010). Tutti i pazienti verranno ritestati con la batteria di test psicologici, da uno sperimentatore in cieco, ad un mese dall’inizio delle terapie (T1), al fine di valutare l’efficacia dell’intervento e le possibili differenze nella velocità di miglioramento della sintomatologia depressiva. I pazienti verranno rivalutati al termine dell’intervento di CBT (T2) ed a distanza di 6 mesi (T3), al fine di verificare e confrontare l’efficacia dell’intervento di CBT sola o combinata sulla condizione psichiatrica e psicologica dei soggetti e il mantenimento dei risultati nel tempo.
RISULTATI
Nella presentazione verranno esposti i risultati del lavoro.
CONCLUSIONE
Nella valutazione degli esiti della psicoterapia, ci si è resi conto che i cambiamenti sintomatici, correlati alla depressione, costituiscono per il soggetto anziano soltanto una parte del quadro generale delle sue
condizioni di vita (Sibilia 1995). L’assesment clinico psichiatrico risulta imprescindibile dalla valutazione
della QoL (Huppert, 2004). In letteratura scientifica vari studi documentano come, in accordo con il DSM,
il decremento della QoL è spesso sia causa sia conseguenza importante di psicopatologia, e come sia pertanto importante includere la misurazione di questo parametro in un piano globale di trattamento (APA,
1994) e che questa deve, come in questo studio essere messa in associazione, dopo l’applicazione di specifici trattamenti terapeutici, con l’efficacia degli stessi sul miglioramento della qualità di vita nei pazienti
anziani affetti da depressione. Inoltre la considerazione della qualità di vita nel paziente anziano ci sembra
di fondamentale importanza per un’altra questione, essa rappresenta, a nostro parere, una via d’accesso
alla sua sofferenza, a ragione del fatto che l’espressività della depressione nell’anziano è spesso non direttamente evidenziabile dai consueti strumenti psicodiagnostici, ma è necessario, indagarla approfondendo
il livello della qualità di vita del nostro paziente.
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IL SOFFRIRE PSICOPATOLOGICO E IL SOFFRIRE PSICOLOGICO
(ESISTENZIALE). CASO CLINICO: ANNA E LA SUA FAMIGLIA
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Forghieri Pierluigi
Ospedale Privato Accreditato Villa Rosa di Modena
RIASSUNTO
La presentazione di questo grave caso clinico, per il quale sono stati necessari più ricoveri nell’Ospedale Privato Accreditato Villa Rosa, con una sintomatologia depressiva resistente alla terapia farmacologica e
con la presenza di deficit cognitivi tali da ipotizzare l’esordio di una demenza, vuole sottolineare l’importanza determinante del “soffrire psicologico”; che per non affrontare problematiche familiari, coniugali, di convivenza, di rapporti con la figlia depressa, si stringe in un atteggiamento di chiusura, quasi catatonico, da
presentare un quadro di non autosufficienza, facendo così accentrare l’attenzione sul soffrire patologico.
Anna è una paziente di 72 anni, di origine ferrarese che vive a Modena con il marito 72enne ancora in
buone condizioni di salute e con la figlia maggiore che, a seguito della separazione, è rientrata in casa, é già
conosciuta ai Servizi psichiatrici per depressione e idee autolesive.Anna è diabetica e ipertesa, in trattamento farmacologico da anni. Dagli inizi del 2007 inizia un pellegrinaggio presso i vari ospedali modenesi ed
i diversi servizi: accusa dimagrimento, riduzione dell’appetito, stitichezza di lunga durata, insonnia con risvegli precoci, che la spingono ad aggirarsi senza meta e a non accudire più la propria casa.Apatica e senza interessi, presenta anche disturbi cognitivi.
L’ipotesi diagnostica è: Late-onset depression? Depressione vascolare? MCI?
Il profilo neuropsicologico è caratterizzato da un danno relativo alla capacità di apprendimento di materiale verbale (amnesia anterograda verbale). La RMN del cervello e tronco encefalo rileva iniziali segni di sofferenza della sostanza bianca periventricolare bilateralmente, come da patologia vascolare cronica. Ai colloqui colpiscono la limitazione, la lentezza e la scarsità delle sue espressioni, improntate a tristezza, disinteresse ed abbandono. Le relazioni con l’esterno praticamente inesistenti. La paziente parla di problematiche familiari: i suoi disturbi vengono interpretati dalla figlia e dal marito talora come prova di cattiva volontà, talaltra come segni iniziali di demenza: viene perciò continuamente redarguita ed intensamente stimolata.
Gli interventi terapeutici.Terapia farmacologica per diabete, ipertensione e depressione. Colloqui individuali con il marito e la figlia. Colloqui di sostegno alla paziente con psicologa ed operatori. Emerge che
la conoscenza delle scappatelle del marito, che continua a frequentare una straniera più giovane di lei
(scappatelle che il marito ha sempre minimizzato), ha spinto la signora a non assumere più farmaci per il
diabete e l’ipertensione, con idee di lasciarsi andare giorno dopo giorno. Emerge soprattutto un conflitto
con la figlia, paziente psichiatrica, intenzionata ad istituzionalizzare la mamma in qualche struttura per anziani con lo specifico intento di usufruire della casa con il nuovo compagno.
La signora partecipa ad alcune attività di reparto, di gruppo e di atelier. Sia pur a piccoli passi recupera la capacità di raccontarsi, di riflettere sulla propria condizione e situazione. Un lavoro di sostegno, riadattamento (psicoterapia dell’anziano?) degli operatori (medici e non) della Casa di Cura, che riescono ad
ottenere partecipazione ed alleanza, in un percorso di comprensione e cambiamento. Mentre persiste il conflitto con la figlia, la paziente per così dire “recupera” un diverso rapporto con il marito. E migliora…
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LA PREVENZIONE DELLE CADUTE NEI LUOGHI DI CURA NEGLI OVER-65
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Forghieri Pierluigi
CaposaIa, Infermieri Professionali e Oss Reparto 1
Ospedale Privato Accreditato Villa Rosa di Modena
RIASSUNTO
Le cadute sono uno fra i problemi più seri dell’età geriatrica; sono associate ad una elevata mortalità e
mobilità con la riduzione della funzionalità, sia l’incidenza che le complicanze ad essa correlate aumentano in maniera esponenziale dopo i 65 anni.
Ci sono innumerevoli fattori, oltre all’età ed allo stato mentale, che incidono sulla probabilità che il paziente possa cadere, essi possono essere distinti in: fattori farmacologici, fattori correlati alle patologie organiche del paziente e fattori ambientali.
I luoghi ed i momenti nei quali avvengono più frequentemente le cadute nei pazienti ricoverati sono:
la camera, il bagno, le scale ed i luoghi comuni.
Per cercare di prevenire le cadute è importante individuare quali sono i pazienti a rischio.
L’obiettivo iniziale è stato quello di elaborare una modalità di valutazione del rischio soggettivo ed ambientale applicabile ai diversi pazienti, cercando di identificare fin dall’ingresso in ospedale i fattori soggettivi e favorire la prevenzione di tali eventi.
MATERIALI E METODI
Presso il Reparto 1 dell’Ospedale Accreditato Villa Rosa di Modena è stato condotto uno studio osservazionale mediante la compilazione di un protocollo compilato all’ingresso nei pazienti psichiatrici over 65.
Questo protocollo è stato elaborato dal personale medico e paramedico volto ad identificare sia i fattori intrinseci-soggettivi che quelli estrinseci-ambientali, mediante l’analisi di tutti i fattori che intervengono nell’evento caduta.
L’età dei pazienti è quella superiore ai 65 anni, le problematiche cliniche sono di tipo psichiatrico
con eventuali comorbidità organiche lievi-moderate e talora deficit cognitivi lievi, ma non dementi. Il periodo di degenza medio dei nostri pazienti è di circa trenta giorni. Il periodo di osservazione ha abbracciato un periodo di dieci mesi (aprile 2009-gennaio 2010).L’indagine ha preso in considerazione un campione di 107 pazienti over 65 ricoverati presso il nostro ospedale nel periodo sopraindicato.All’ingresso
viene somministrata a tutti i pazienti over 65 la Scala di Conley che riteniamo essere la più sensibile per
la nostra tipologia di paziente e di facile somministrazione, per valutare preventivamente il rischio caduta di ogni paziente.
Ad ogni evento “caduta” viene compilata dall’infermiere la Scheda Post Caduta che contiene in modo
dettagliato tutti i possibili fattori intrinseci ed estrinseci che possono avere determinato l’evento.
RISULTATI
Dalla valutazione delle schede compilate dal personale paramedico dopo ogni caduta emerso che ogni
evento è determinato dalla compresenza di più fattori (fino ad un massimo di cinque) per ogni evento. I
fattori estrinseci, per un totale di 9, sono rappresentati da: mancanza di calzature (3), calzature inadatte
(3), ambiente poco luminoso (2), pavimento bagnato (1). I fattori intrinseci, per un totale di 17, sono rappresentati da: stato confusionale e agitazione psicomotoria (5), deficit motori e della coordinazione lievi (7),
deficit sensoriali visivi (1), capogiri (3), terapia farmacologica (1).
CONCLUSIONI
La rilevazione che circa 11,21% dei pazienti ricoverati abbia avuto un evento caduta, senza conseguenze significative, conferma la necessità di riflettere sui modelli terapeutico-assistenziali da adottare in questa classe di pazienti.
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In ogni paziente il medico deve operare con l’obiettivo di ridurre al minimo l’interferenza farmacologica e dovrebbe possedere la capacità di trasferire tutte le informazioni raccolte in decisioni terapeutiche
individualizzate. Su tali eventi si ritiene però che il livello d’intervento da adottare debba essere differenziato: infatti in alcuni pazienti gli interventi sui fattori ambientali-estrinseci sono importanti ed hanno un’alta probabilità di essere efficaci.
Il nostro studio vuole essere uno stimolo continuo alla ricerca di strategie significative per la gestione
dei pazienti psichiatrici over 65 in sicurezza durante la degenza nel nostro ospedale.
BIBLIOGRAFIA
1
Molinelli S. Il rischio di caduta nel paziente geriatrico. Analisi dei principali strumenti di valutazione utilizzati in ambito internazionale; 2008.
2
Ariano L, Zanasi MD, Russo A, Fiore P. Le cadute nell’anziano. Importanza della prevenzione.
3
Corbari L, Beltrame S. Le cadute negli anziani, 2005.
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ALCOLISMO E TERZA ETÀ
Rosi Antonella, Valgimigli Simona, Perdetti Luca, Venturelli Sara, Forghieri Pierluigi
Ospedale Privato Accreditato Villa Rosa di Modena
RIASSUNTO
L’ interesse per la popolazione anziana pare al momento più centrato sugli aspetti involutivi e senili, sulle condizioni mediche e psicologiche, non vi è pari considerazione della dipendenza/abuso di alcolici nell’età geriatrica. Tutto ciò potrebbe essere correlato a diversi motivi fra i quali: la patologia alcol-orrelata nell’anziano non assume aspetti così clamorosi dal punto di vista clinico; i sintomi dell’intossicazione possono essere scambiati per espressioni di senilità (soprattutto alcolisti tardivi); le conseguenze dell’abuso si riflettono in maniera meno intensa sull’ambiente sociale e familiare; l’elevata mortalità degli alcolisti cronici non permetteva loro di raggiungere l’età avanzata; esiste una difficoltà di rilevamento sul consumo di alcol negli anziani non istituzionalizzati.
Gli anziani alcol-dipendenti vengono classicamente distinti in due gruppi:
a) gli alcolisti precoci, soggetti con lunga storia di alcolismo, con problemi di personalità, o di adattamento sociale, sono i cosiddetti “etilisti anziani” che hanno alle spalle una lunga storia di etilismo che prosegue quindi fino a tarda età;
b) gli alcolisti tardivi (late-onset) sono coloro che diventano alcolisti in tarda età e che si possono definire “anziani etilisti”. Questi ultimi sviluppano un abuso etilico in risposta a fattori di rischio, fisici, familiari e socio-ambientali.
Lo scopo del nostro lavoro è stato quello di valutare l’incidenza dell’alcolismo nella popolazione degli
ultrasessantacinquenni ricoverati presso il nostro ospedale nell’anno 2009.
MATERIALI E METODI
A tale scopo abbiamo considerato tutti i pazienti ricoverati presso il nostro ospedale accreditato nell’anno 2009, che possiede un modulo ospedaliero di alcologia, selezionando i dati relativi ai ricoveri di pazienti con abuso alcolico sia di prima diagnosi che di seconda diagnosi.
L’indagine è stata condotta su un totale di 784 pazienti ricoverati per problematiche psichiatriche. Le
diagnosi sono state effettuate secondo il Manuale DSM-IV TR.
RISULTATI
I risultati dell’indagine condotta hanno evidenziato che su un totale di 784 pazienti, gli etilisti erano 212.
Li abbiamo suddivisi in due gruppi:
A) In un primo gruppo sono raccolti 154 pazienti con prima diagnosi di alcolismo (Dipendenza da alcol), di questi 8 soggetti sono ultrasessantacinquenni (3 maschi e 5 femmine).
B) Nel secondo gruppo sono compresi i pazienti con seconda diagnosi di alcolismo (Dipendenza da alcol) e su un totale di 58 dipendenti gli over 65 sono 3 (1 maschio e due femmine). In questo secondo raggruppamento la prima diagnosi era un disturbo depressivo maggiore, ricorrente. Nell’anno 2009 a Villa Rosa sono stati ricoverati 116 ultrasessantacinquenni, soltanto il 9,48% soffre di una patologia alcol-correlata. Nella
popolazione di età inferiore a 65 anni ricoverata a Villa Rosa nel 2009 invece la problematica alcol-correlata
incide nel 30% dei casi. Si può affermare che nei nostri pazienti il consumo patologico di alcol decresce con
l’aumentare dell’età come confermato dai dati di letteratura. Questi pazienti hanno un basso livello di scolarità con prevalenza di licenza di scuola elementare, sono tutti coniugati ad esclusione di due vedovi.
I trattamenti di cura e riabilitazione, prevedono in base alle necessità cliniche una gamma possibile
d’interventi quali: trattamenti intensivi di disintossicazione, disassuefazione e di diagnosi e cura delle patologie correlate, interventi socio-educativi, psicoterapie individuali, colloqui periodici coi familiari, inserimento in gruppi di auto-aiuto, percorsi di inserimento in strutture diurne o residenziali, in collaborazione con la rete dei Servizi Alcologici, Psichiatrici e Sociali del territorio.
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CONCLUSIONI
Nell’ambito del lavoro da noi svolto, è stato possibile osservare che, indipendentemente dalla durata e
dalla condizione di abuso, gli over sessantacinque tendono a completare con maggiore impegno rispetto
ai giovani i programmi di trattamento ospedaliero. L’importanza di una diagnosi corretta e tempestiva rappresenta un elemento prognostico favorevole per gli etilisti tardivi. Alcuni aspetti rendono difficile l’identificazione della dipendenza alcolica negli over 65, come ad esempio l’isolamento più frequente nell’anziano e la mancanza di evidenti “indicatori sociali” tipici di altre fasce di età, oppure la tendenza da parte dei
familiari talora a non problematizzare l’alcolismo in età senile adottando un atteggiamento più benevolo,
considerandolo come “ l’ultimo piacere”.
BIBLIOGRAFIA
1
DSM-IV TR, Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali.Text Revision,American Psychiatric Associatrion. Masson, 2002.
2
Manuale di NEUROPSICHIATRIA GERIATRICA (Seconda Edizione) Ed.: C.Edward Coffey, Jeffrey L., Cummings.
3
Furlan PM, Picci RL. Alcol Alcolici Alcolismo. Bollati Boringhieri,Torino, 1990.
4
Ceccanti M. Alcol e dintorni. Momento Medico, Roma, 1989.
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IL DISTURBO COGNITIVO LIEVE NELLA PSORIASI:
UN’ENTITÀ ANCORA POCO CONOSCIUTA
Sala Francesca1, Gisondi Paolo2, Alessandrini Franco3, Avesani Virginia1, Zoccatelli Giada3,
Beltramello Alberto3, Moretto Giuseppe1, Girolomoni Gianpietro2, Gambina Giuseppe1
1 SSO
Interaziendale Centro Alzheimer e Disturbi Cognitivi, UO Neurologia, OCM, Verona
di Scienze Biomediche e Chirurgiche, Sezione di Dermatologia, Università degli Studi di Verona
3 UO Neuroradiologia, OCM, Verona
2 Dipartimento
INTRODUZIONE
La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica della cute frequentemente associata a comorbilità di
tipo metabolico e cardiovascolare. Tali comorbilità sono dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari, ma anche per il deterioramento cognitivo e per la malattia di Alzheimer.
OBIETTIVO
Studiare nei pazienti affetti da psoriasi moderato-grave: 1) le funzioni cognitive -in particolare memoria e funzioni frontali-; 2) l’imaging morfologico e di tensore di diffusione (DTI) mediante RM cerebrale; 3)
verificare eventuali modificazioni cognitive e/o strumentali al follow-up.
CASISTICA
78 soggetti (età: 50-65 anni) di cui: 41 soggetti affetti da psoriasi moderata-grave e 37 soggetti di controllo. I due gruppi differiscono significativamente per la presenza nei pazienti di comorbilità vascolare e
metabolica.
METODI
1) Valutazione cognitiva: eseguita utilizzando la Batteria per il Deterioramento Mentale di Gainotti e
Caltagirone (BDM) ed altri test che esplorano l’efficienza funzionale di svariati ambiti cognitivi tra cui le
funzioni esecutive.
2) Neuroimaging: 7 pazienti affetti da psoriasi moderata-grave sono stati sottoposti ad indagine RM con
apparecchiatura ad alto campo dotata di bobina da encefalo a 4 canali. È stata inoltre acquisita in fase precontrastografica sequenza DTI per analisi di tensore di diffusione e trattografia, con valutazione di diffusione secondo 30 direzioni.
ANALISI DEI DATI
I calcoli statistici sono stati eseguiti con il software STATA (versione 10.0 Stata-Corp LP, College Station, TX). Le differenze tra casi e controlli per ogni test cognitivo sono state analizzate mediante l’analisi
della varianza per variabili continue ed il test del chi quadro per variabili categoriche.Tutti i test per la stima della p sono stati calcolati a 2 code e sono state considerate differenze statisticamente significative
quelle con p < 0.05.
RISULTATI
1) Valutazione cognitiva: La prevalenza di deficit cognitivo nei pazienti è stata del 56%. Nessun controllo ha presentato deficit cognitivo (p=0.001). In particolare i pazienti hanno presentato dei punteggi (corretti per età e scolarità) inferiori ai controlli nei seguenti test: Rievocazione Differita del Test delle 15 parole di Rey: (p=0,053); Span Numerico Inverso (p=0,038);Weigl’s Sorting Test (p=0,039);TMT-B (p=0,038).
2) Neuroimaging: In tutti i pazienti (n. 7/7) sottoposti ad indagine RM non sono state rilevate anomalie morfologiche cerebrali. Nessuno dei pazienti presenta alterazioni di tipo degenerativo o segni di atrofia sovra-sottotentoriale. Unico denominatore comune è stato il riscontro di focolai di vasculo-ialinosi in am-
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bito periventricolare da ambo i lati, senza evidenza di alterazioni della diffusione o enhancement patologico tissutale dopo sommistrazione mdc. In tutti i pazienti (n. 3/3) sottoposti ad indagine RM attraverso
l’Imaging di Tensore di Diffusione (DTI) Voxel-Based Morphometry e Voxwl-Based Analisys si sono evidenziate variazioni strutturali statisticamente significative rispetto alla norma dello spessore della sostanza grigia e bianca in particolare nell’emisfero sx a carico del giro paraippocampale, del giro temporale superiore e del giro frontale superiore.
COMMENTO
Questi risultati indicano la presenza di un disturbo cognitivo associata ad una variazione strutturale
dello spessore degli encefali nei soggetti affetti da psoriasi moderata-grave. Il follow-up clinico permetterà di valutare l’evoluzione nel tempo del deficit cognitivo ed il rischio di evolvere verso la demenza.
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LA CARTELLA CLINICA IN GERIATRIA:
NECESSITÀ DI UN APPORTO MULTI-PROFESSIONALE
Scala Giovanni, Capobianco Giovanni
Ospedale S. Eugenio ASL RMC, UOC Geriatria per Acuti
SCOPO
Studi epidemiologici hanno dimostrato come per molte patologie il semplice contrasto dell’agente
eziologico o la riduzione del danno già prodotto non sono risolutori della situazione quando non accompagnati da idonei interventi agiti sul contesto ambientale del malato. Alla presa d’atto dell’interdipendenza dell’ambito medico con quello sociale si è aggiunta la necessità di individuare gli approcci e gli ambiti
assistenziali più appropriati per il singolo individuo. Nelle società occidentali, la transizione demografica
e la sempre maggiore rilevanza delle patologie croniche degenerative ad effetto invalidante hanno fatto
emergere sempre più l’anziano come il soggetto portatore per antonomasia di bisogni molteplici e complessi (situazione abitualmente riassunta con il termine di “frailty”,“fragilità”).
È quindi sempre necessaria una reale valutazione multidimensionale che coniughi la ricerca dell’appropriatezza clinica con quella dell’appropriatezza organizzativa, e sancisca l’irrinunciabilità di un approccio
globale al paziente complesso, in vista di una personalizzazione dell’intervento che richiede spesso una compartecipazione attiva di una serie di professionisti e attori, anche esterni al mondo sanitario.
MATERIALI E METODI
Per tali ragioni presso l’UOC Geriatria per Acuti dell’Ospedale S. Eugenio di Roma è stata predisposta
una cartella clinica specifica per i pazienti che accedono al reparto H24 o al Day Hospital, basata sulla valutazione multidimensionale e sull’apporto multi-professionale. In questa cartella oltre alla classiche informazioni di tipo sanitario (anamnesi familiare, fisiologica, patologica remota e prossima, indagini strumentali recenti, terapie in atto, allergie note, esame obiettivo generale), vi è l’indicazione dell’eventuale fragilità del paziente secondo il fenotipo biologico-fisiologico di Fried o secondo il fenotipo clinico di Rockwood, e la valutazione da tenere sempre in considerazione nel soggetto anziano della comorbidità mediante
tre misure: l’Indice di Charlson, l’Apache (Acute Physiology Score), e l’Indice Geriatrico di Comorbidità
(G.I.C.).Vi sono anche:
– una parte sociale che si interessa della vita relazionale, istruzione, situazione socio-economica, indici del bisogno assistenziale, di disponibilità assistenziale carer, e di risorse sociali;
– una parte che valuta l’autonomia mediante l’indice di Barthel, le attività quotidiane di base (A.D.L.),
e quelle strumentali della vita quotidiana (I.A.D.L.);
– ed una che valuta gli aspetti psico-cognitivi mediante tre semplici test facilmente somministrabili:
Mini Mental State Examination (M.M.S.E.), Short Portable Mental Status Questionnaire (S.P.M.S.Q.), Geriatric Depression Scale (G.D.S.).
Completano la cartella la compilazione da parte del fisioterapista della scala di Tinetti per l’equilibrio
e l’andatura con la valutazione motoria globale e l’eventuale piano di trattamento fisioterapico, e la somministrazione infermieristica dell’Indice di Brass (Blaylock Risk Assessment Screening) ai fini dell’identificazione dei pazienti a rischio di ospedalizzazione prolungata o di dimissione difficile.
RISULTATI
Le sperimentazioni condotte nell’unità valutativa geriatrica dimostrano una significativa riduzione di
mortalità, una minore istituzionalizzazione, un decadimento minore dello stato funzionale e psicologico, oltre che minori costi assistenziali. La valutazione multidimensionale ed il lavoro in équipe rappresentano lo
strumento ottimale per affrontare queste situazioni di complessità organizzativa clinica (instabilità, fragilità, complessità, rischio di disabilità), con l’obiettivo di definire in modo complessivo lo stato di salute di
una persona, e di permettere un’analisi accurata delle capacità funzionali e dei bisogni che la persona an-
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ziana presenta ai vari livelli: biologico e clinico (stato di salute, segni e sintomi di malattia, livelli di autonomia, ecc.); psicologico (tono dell’umore, capacità mentali superiori, ecc.); sociale (condizioni relazionali,
convivenza, situazione abitativa, economica, ecc.); e funzionale (disabilità, ovvero la capacità di compiere
uno o più atti quotidiani come lavarsi, vestirsi, salire le scale ecc.).
CONCLUSIONE
La nostra cartella clinica ha in più due elementi base: i test ed il modello. I test rappresentano la parte
che permette la misurazione degli aspetti riguardanti la vita dell’anziano e la sua condizione psico-fisica.
Ogni test misura un aspetto relativo ad un certo ambito: ad esempio le capacità cognitive della persona interessata, o la sua condizione fisica vera e propria. I test danno dei risultati numerici, o valori inquadrati in
una scala (fragilità, autonomia, mobilità, funzioni cognitive ed emotive, ecc.). I risultati vengono poi elaborati all’interno di un modello (sintesi valutativa), che in base alle sue caratteristiche definirà quale posizione avrà quel certo soggetto nella classificazione da esso prevista, risultando cioè un profilo della situazione dell’anziano considerato. La valutazione multidimensionale rappresenta sicuramente il punto di partenza per una corretta lettura dei bisogni dell’utente ai fini della definizione di appropriati percorsi di cura e di assistenza. La nostra proposta di cartella clinica specifica considera questo ruolo della valutazione
multidimensionale, e rappresenta un momento fondamentale per l’integrazione delle diverse figure professionali, e nello stesso tempo uno strumento per il monitoraggio di indicatori di stato, di processo e di esito secondo una logica di effettiva centralità della persona.
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LE CADUTE DELL’ANZIANO FRAGILE:
PROGETTO INTEGRATO DI PREVENZIONE A DOMICILIO
Scala Giovanni, Ansovini Massimo, Curcuruto Annamaria, Cinque Romano,
Capobianco Giovanni
Ospedale S. Eugenio ASL RMC, UOC Geriatria per Acuti/Day Hospital, Roma
SCOPO
Il progressivo e costante invecchiamento della popolazione, ed il dover convivere sempre più a lungo
con una popolazione definita “anziana fragile”, fa si che gli incidenti domestici e le relative conseguenze in
termini di disabilità, rappresentino un problema di grande interesse per la sanità pubblica.Tra gli incidenti
domestici, le cadute rappresentano la voce più importante; questo fenomeno ha un rilevante impatto sociale, sanitario ed economico, a causa della loro frequenza, per il ricorso all’istituzionalizzazione, per l’elevata
probabilità di aggravare o causare disabilità e per l’elevata mortalità. In particolare le cadute da interazione
soggetto-ambiente rappresentano una sindrome ben precisa, spesso sono una combinazione di più fattori
come il risultato dello squilibrio tra le richieste dell’ambiente e le capacità del soggetto.A tal proposito negli ultimi anni in campo riabilitativo ci si è indirizzati verso interventi di tipo ecologico che prevedono un
assessment della caduta, al fine di poter valutare le cause ambientali, funzionali ed organiche, le dinamiche
e le conseguenze fisiche, sociali e psicologiche, in modo da definire un progetto riabilitativo globale.
MATERIALI E METODI
La ASL RM/C, a seguito delle indicazioni presenti nel Piano Nazionale per la prevenzione 2005-2007 e
le Linee Guida nazionali e regionali, nell’ambito dei progetti di collaborazione tra Ospedale e territorio,
ed in rispetto del Piano Regionale della Prevenzione (PRP) degli incidenti domestici, ha previsto un progetto di valutazione e prevenzione del rischio di caduta da interazione soggetto-ambiente rivolto agli “anziani fragili”. Il progetto si compone di due fasi ben distinte. La prima fase ha previsto l’ingresso presso il
DH geriatrico di 50 pazienti a rischio di caduta o con dei precedenti episodi di caduta. Questi sono stati
sottoposti a Valutazione Multidimensionale da parte di un team multidisciplinare (geriatra, fisioterapista, psicologo, infermiere ed assistente sociale) e sono stati inseriti in training riabilitativi individuali e di gruppo,
della durata di 5 settimane, con incontro bisettimanale, e quindi sottoposti nuovamente a valutazione funzionale. La seconda fase prevede la visita a domicilio degli stessi pazienti per un intervento atto a ridurre
il rischio di caduta. Fino ad oggi sono stati effettuati n. 17 accessi domiciliari.
Il protocollo operativo consiste in:
1) Selezione della popolazione target (anziani fragili secondo Fried);
2) Informazione del MMG (medico di medicina generale);
3) Appuntamento per il sopralluogo congiunto;
4) Visita domiciliare che si propone l’obiettivo conoscitivo, educativo e di promozione degli eventuali interventi, il personale tecnico del SISP effettua la valutazione del rischio abitativo utilizzando una
check-list condivisa nel tavolo tecnico regionale, il personale della UOC Geriatria effettua una valutazione funzionale secondo strumenti validati sul rischio di caduta;
5) Counselling all’anziano e nota informativa al MMG, viene lasciato a casa dell’anziano, e discusso, un
opuscolo informativo dell’ASP del Lazio “Cosa posso fare per evitare di cadere?” ed una lettera sintetica per il Medico di Medicina generale dell’assistito sulle possibili azioni per migliorare la sicurezza
dell’anziano;
6) Valutazione in itinere: a tempi definiti e programmati il gruppo di lavoro si riunisce per discutere i
casi e per valutare i bisogni;
7) Follow Up, è previsto infine un controllo a tre/sei mesi e ad un anno di distanza con un nuovo accesso presso il DH di geriatria dell’Ospedale Sant’Eugenio. Nel caso in cui anche dopo un semplice
contatto telefonico il paziente dovesse avere un nuovo episodio di caduta, sarà prevista un’anticipazione del controllo.
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RISULTATI
Fino ad oggi sono state effettuate n.17 accessi domiciliari. I primi risultati indicano come le abitazioni
prese in esame appartengano prevalentemente a due categorie: poco pericolosa o abbastanza pericolosa,
in nessun caso molto pericolosa.
Sulla base di un’analisi dei dati attualmente raccolti, riguardo ai pazienti, segnaliamo un miglioramento degli indici funzionali motori, una riduzione delle richieste di intervento medico e di consumo di farmaci, oltre ad un “trend” positivo dello stato psico-affettivo sia degli stessi pazienti che dei loro familiari. Nel
corso dell’anno si prevede la visita domiciliare con il monitoraggio di tutti i soggetti presi in carico, che ci
permetteranno di poter completare il progetto.
CONCLUSIONE
In definitiva, nella nostra esperienza si stanno dimostrando efficaci interventi multifattoriali, con programmi di esercizio fisico individualizzati, associati ad interventi prescritti a domicilio da personale sanitario appositamente addestrato, diretti ai soggetti ad alto rischio di disabilità, che combinino la valutazione dei fattori di rischio e le conseguenti modificazioni ambientali, in modo tale da poter fornire una possibile e corretta risposta alle difficoltà funzionali-motorie e psico-affettive di questi pazienti.
Infine ci sembra doveroso sottolineare, data l’enorme frequenza delle cadute nei soggetti anziani, il
ruolo dell’informazione e di una corretta educazione sanitaria, rivolta direttamente al paziente ed ai suoi
familiari e di come questa sia necessaria, affinché le cadute rivestano un ruolo sempre meno importante
nell’ambito sanitario, sociale ed economico.
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CONTINUITÀ ASSISTENZIALE DOPO IL RICOVERO OSPEDALIERO
IN ANZIANI CON DEFICIT COGNITIVI:
L’ESPERIENZA DELLO SCORSO ANNO SUL TERRITORIO PINEROLESE
Scarafiotti Carla1, Gorlato Stefania1, Prolasso Susanna2, Beatone Ivana2, Fassetta Monica2,
Ferrari Eliana3, Rossi Graziella4
1 Geriatra,
UVG Distretto di Pinerolo, ASL3 Torino
Sociale, Distretto di Pinerolo, ASL3 Torino
3 Infermiera Professionale, UVG Distretto di Pinerolo, ASL3 Torino
4 Responsabile SC Geriatria, Distretto di Pinerolo, ASL3 Torino
2 Assistente
SCOPO
Il ricovero ospedaliero dell’anziano fragile, specie se affetto da demenza, è frequentemente associato
ad un peggioramento dell’autonomia e delle funzioni cognitive, che determina un incremento delle difficoltà di gestione nel rientro a domicilio dopo la dimissione. Ci siamo proposti di valutare l’utilizzo dei Servizi di Continuità Assistenziale (DGR 72/04 della Regione Piemonte) nel percorso di convalescenza del
paziente anziano con gravi disturbi cognitivi.
MATERIALI E METODI
Per attivare la continuità assistenziale, i reparti ospedalieri segnalano all’Unità Valutativa Geriatrica i
pazienti che, dopo il ricovero in acuzie, necessitano di un ulteriore periodo di gestione protetta, effettuabile a domicilio con l’intervento di personale dell’ASL o presso strutture residenziali convenzionate. Per ogni
paziente viene effettuata una valutazione geriatrica multidimensionale in ospedale all’inizio del percorso,
ed una rivalutazione (a domicilio o in struttura) al termine del periodo di dimissione protetta, della durata massima di 60 giorni.
RISULTATI
Nel 2009 la Continuità Assistenziale è stata utilizzata da 539 anziani, 216 maschi e 323 femmine, di cui
l’82% di età superiore ai 75 anni, in prevalenza provenienti dai reparti di Ortopedia (19,3%), Medicina
(13,7%), DEA (12,8%) e Neurologia (10,8%); di essi, alla valutazione UVG, 88 (16,3%) erano affetti da demenza di grado avanzato (MMSE ≤10/30).Al termine del percorso, 20 anziani (25%) erano deceduti; 31 (35,2%)
sono rimasti presso le strutture residenziali in cui avevano effettuato la dimissione protetta, mentre 16
(18,2%) sono rientrati o rimasti a domicilio. La percentuale di anziani dementi seguiti o rientrati a domicilio è risultata più elevata (26,3%) tra i pazienti provenienti dal reparto di Geriatria.
CONCLUSIONI
La Continuità Assistenziale post-ricovero è un elemento importante nella rete delle cure per l’anziano
fragile, anche quando affetto da demenza di grado avanzato. L’efficacia di tale percorso non può però prescindere da una presa in carico del paziente da parte del Reparto di degenza, come avviene per la Geriatria che, oltre a dimettere l’anziano, promuove un progetto, sia con la struttura ospitante, sia con la famiglia, per fornire i supporti necessari al successivo rientro a domicilio. Quando non viene proposto un progetto concreto, la maggioranza dei pazienti rimane ricoverata in struttura residenziale, con importanti ripercussioni sulla disponibilità di altri posti nelle case di riposo e sui costi a carico delle famiglie.
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RUOLO DEI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE
NEL MILD COGNITIVE IMPAIRMENT (MCI)
Servello Adriana, Cerra Elisabetta, Vigliotta Maria Teresa, Vulcano Achiropita, Fossati Chiara,
Ettorre Evaristo, Marigliano Vincenzo
Università La Sapienza, Policlinico Umberto I- Dipartimento di Scienze dell’Invecchiamento, Roma
SCOPO
Allo stato attuale sono veramente poche le opzioni terapeutiche capaci di migliorare la prognosi dei pazienti affetti da Demenza di Alzheimer. Sono invece sempre più numerose le evidenze che suggeriscono come il controllo dei fattori di rischio cardiovascolare possa essere un efficace intervento in grado di modificare il decorso della malattia. Questo studio si propone di esaminare il possibile ruolo dei fattori di rischio
cardiovascolare sul decorso clinico di un gruppo di soggetti con diagnosi di Mild Cognitive Impairment
(MCI) e valutarne l’influenza sulle alterazioni cognitive e comportamentali, e sulla progressione del Mild
Cognitive Impairment verso una condizione di demenza di Alzheimer manifesta.
MATERIALI E METODI
Sono stati arruolati nello studio 50 soggetti con diagnosi di Mild Cognitive Impairment, suddivisi in
due gruppi, il I gruppo costituito da 25 soggetti con Mild Cognitive Impairment e fattori di rischio cardiovascolare ed il II gruppo costituito da 25 soggetti affetti da MCI senza fattori di rischio cardiovascolare;
ogni soggetto è stato sottoposto a valutazione clinica generale e valutazione cognitiva di I e II livello sia al
tempo di arruolamento nello studio che ai controlli programmati semestralmente per un tempo di osservazione totale di due anni.Tutti i pazienti sono stati inoltre sottoposti a RM encefalo al momento della prima valutazione.
RISULTATI
Dall’analisi dei dati è emerso come primo dato fondamentale che sul totale dei soggetti arruolati nello studio, alla fine dei due anni il 60% di quelli appartenenti al gruppo con comorbidità cardiovascolare ha
mostrato un’evoluzione verso demenza di Alzheimer ed il 40% ha, invece, mostrato un quadro cognitivo invariato nel tempo. Nel secondo gruppo, costituito da soggetti senza comorbidità cardiovascolare, solo il 32%
ha mostrato una conversione verso la demenza. Inoltre lo studio con RM Encefalo nella fase preliminare ha
permesso di evidenziare un altro dato rilevante e cioè che tutti i soggetti appartenenti al I gruppo presentavano alterazioni patologiche dei tessuti cerebrali, in particolar modo atrofia cerebrale corticale associata o meno ad alterazioni ischemiche cortico-sottocorticali, mentre la maggior parte dei pazienti appartenenti al II gruppo di osservazione presentava un normale quadro di neuroimaging.
CONCLUSIONE
I dati emersi dallo studio mostrano un ruolo chiave dei fattori di rischio cardiovascolare nel determinare l’evoluzione clinica del deficit cognitivo nei pazienti con diagnosi di Mild Cognitive Impairment. I
pazienti con comorbidità cardiovascolare presentano alterazioni cognitive non solo più gravi, ma anche più
frequentemente associate ad alterazioni comportamentali e del tono dell’umore ed una maggiore disabilità funzionale. Il dato sicuramente più rilevante emerso è che il gruppo con comorbidità cardiovascolare
presenta una più rapida conversione verso la demenza di Alzheimer rispetto al gruppo di controllo, con una
durata media di periodo libero da malattia inferiore al gruppo senza fattori di rischio di circa tre mesi.
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IL VECCHIO AGGRESSIVO: MODALITÀ DI COMUNICAZIONE
E DI APPROCCIO
Servetto Giuseppe, Ferro Antonio Maria
Dipartimento di Salute Mentale e delle Dipendenze, Savona
La demenza senile principia assai spesso in forza di un’eccitazione generale la quale persevera per più
o meno tempo. Così sono gli individui i “quali, prima di diventare dementi, assumono una grande suscettibilità, s’irritano per la minima cosa; sono attivissimi, vogliono tutto intraprendere, tutto fare. Altri provano
desiderj venerei che erano estinti da lungo tempo e che li spingono a modi di procedere, ad azioni contrarie alle loro abitudini di continenza.Alcuni altri, molto sobri, hanno un appetito disordinato per i cibi conditi con aromi e di fino gusto, pel vino, per i liquori.Tali sintomi di eccitazione generale sono i primi segni
della demenza senile. Non si confonderà questo eccitamento con la mania che si appalesa in una età avanzatissima...”
(“Delle Malattie Mentali considerate in reazione all’igiene e alla medicina legale” J.E. Esquirol,
1846)
Quando la situazione clinica di una persona anziana é di difficile comprensione, o appare “strana”, o
quando ancora compaiono turbe del comportamento e, soprattutto, manifestazioni di aggressività, é inevitabile che colleghi, famigliari, istituzioni, si rivolgano allo psichiatra.
Questi, da un lato, non deve sottrarsi ad una committenza ambigua e non piacevole sul piano professionale, dall’altro deve evitare di divenire un mero e solo strumento di controllo o di repressione comportamentale.
Compito dello psichiatra allora, sarà quello, partendo dalla situazione proposta, pur drammatica ed urgente che sia, di cercare di comprendere, di dare un senso a quanto sta avvenendo nella relazione tra il paziente e il suo entourage, vuoi famigliare, vuoi istituzionale.
L’intento sarà quello di aiutare i committenti a trovare “un senso” anche provvisorio, agli accadimenti,
trovare un senso “clinico”, relazionale o istituzionale, che solo può permettere una progettualità anche
“minima”.
La sofferenza si può esprimere con manifestazioni di aggressività e di agitazione psicomotoria in diversi quadri clinici che possono essere sostenuti da problematiche organiche, funzionali o relazionali.
Ricordiamo alcune importanti patologie neurologiche come, ad esempio, la Malattia di Parkinson, la
Corea di Huntington e le diverse forme di demenza nelle loro varie espressioni cliniche, ma anche il “Delirium” che può essere sostenuto da condizioni somatiche particolarmente stressanti o da squilibri metabolici e, ancora, gli stati confusionali, sia a genesi psicogena che organica.
Poi ci sono i disturbi funzionali nei quadri depressivi, nella melanconia involutiva, gli episodi di mania
nell’anziano, i disturbi ansiosi e quelli ipocondriaci, i quadri psicotici nell’anziano, ad insorgenza senile o
espressione di un disturbo già manifestatosi in età giovanile.
Infine i “vecchi folli”, ancora “sessuati” e desideranti, spesso “iracondi” e “prepotenti”: essi non sono solitamente troppo malati, ma non di rado sono poco tolleranti e poco tollerati, ritenuti quasi indecenti per
quella che é la nostra immagine culturale prevalente della vecchiaia.
Ne “ Il vecchio stolto e la corruzione del mito”, Guggembuchl-Craig, analista junghiano, ci ricorda che,
accanto a quella del “vecchio saggio”, dobbiamo integrare ancora un altro mito, quello del vecchio malaccorto, scriteriato, avventato, il Vecchio Folle.
Costui é portatore di ben altra saggezza che consiste nell’accettare la follia della vecchiaia e nel respingere le proiezioni della saggezza che noi, che stiamo invecchiando, facciamo sulla vecchiaia; questa particolare saggezza invita a sbarazzarsi del potere e di liberarsi dalle responsabilità, permettendo al vecchio di
essere finalmente saggio o sciocco, profondo o superficiale, lavorare od oziare.
Guggembuchl-Craig dice che al vecchio deve essere concesso di provare terrore per la malattia e per
la morte, senza imbarazzarsi se non sceglierà atteggiamenti eroici, ricchi di saggezza.
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Ci ricorda Simone De Beauvoir in “ La terza età” che il vecchio viene visto o come soggetto malato e/o
farneticante, o come saggio equilibrato, per cui se gli anziani manifestano desideri, sentimenti, rivendicazioni più abituali per i giovani, suscitano scandalo.
Il medico psichiatra, il neurologo, ma perché no, il medico di famiglia o soprattutto il geriatra, sono così chiamati a comprendere e verificare i nessi tra il grave disagio individuale e le reazioni ambientali, evitando linearità causalistiche, ma privilegiando letture sistemiche attente alle azioni, ma anche alle retroazioni (bio -feed back) di quel particolare sistema.
L’ipotesi sulla quale torneremo verso la fine del lavoro, é che talvolta può essere l’altro, il caregiver, la
famiglia, i medici, l’istituzione di cura, più o meno inconsapevolmente, a stimolare, talvolta, più spesso a favorire tale espressione dei sintomi, che sono forme di comunicazione, attraverso l’aggressività.
Ricordiamo brevemente dapprima i principali “fattori individuali” e, successivamente, quelli “ambientali e relazionali” che possono sottendere modalità comportamentali patologiche.
Fattori individuali
I quadri patologici in cui possono manifestarsi comportamenti aggressivi possono essere diversi:
– la depressione e i disturbi dell’umore, con conseguente ridotta tolleranza alle frustrazioni
– i disturbi cognitivi su base degenerativa o vascolare
– le neoformazioni cerebrali su base tumorale o da ematomi
– le crisi epilettiche
– le intossicazioni ed in particolar modo l’etilismo
– le manifestazioni psicotiche con deliri e allucinazioni
– gli stati confusionali
– la sindrome delle apnee del sonno
– le manifestazioni di angoscia, quale ne sia la causa
– gli aspetti conseguenti ad una patologia del carattere, ove in luogo dei sintomi, vi può essere un’accentuazione, talvolta caricaturale dei tratti del carattere, tale che una persona, invecchiando diventa “intollerabile”
– l’atteggiamento di legittima, sana opposizione, che testimonia il rifiuto di un handicap, di una sistemazione istituzionale, dei comportamenti dell’ambiente familiare o di quello terapeutico.
Dal punto di vista pratico nella quotidianità clinica possiamo distinguere sintomi psicologici e sintomi
comportamentali che possono risultare più o meno frequenti e più o meno penalizzanti a seconda delle
caratteristiche e del contesto in cui si verificano.
Osserviamo quindi sintomi prevalentemente psicologici quali, i deliri, le allucinazioni, l’umore depresso, l’ansia ecc. e sintomi prevalentemente comportamentali, quali, l’aggressività, il vagabondaggio, l’irrequietezza, l’agitazione, la disinibizione, la mancanza d’iniziativa, ecc.ecc.
Fattori ambientali e relazionali
È forse questo l’aspetto più trascurato sebbene sia determinante quanto gli aspetti individuali.
È indubbio che l’ambiente, il contesto familiare, il care-giver, l’istituzione, possano, nella prassi quotidiana, risultare sia come fattori protettivi che provocanti la crisi.
Una relazione calorosa con l’assistito favorirà un rapporto coinvolgente e rassicurante, mentre, per contro, una relazione fredda e “troppo professionale”, sarà spersonalizzante e non potrà che scatenare reazioni negative.
La diagnosi di demenza mette in crisi la famiglia e ne consegue spesso un cambiamento drastico che
rende inefficace il sistema sino a poco tempo prima funzionale.
I ruoli e le responsabilità consolidati negli anni, subiscono grandi cambiamenti e quando i ruoli e le responsabilità cambiano, si modificano anche le aspettative reciproche.
Sarà allora chi avrà la “responsabilità del malato” cioè il care-giver, che dovrà mediare fra famiglia e rete sociale ed al contempo dominare la situazione di stress che ne potrà derivare.
Il care-giver quindi, potrà essere sottoposto ad una serie di tensioni sempre più pressanti derivanti direttamente sia dal lavoro di assistenza al malato, sia dalla incapacità, reale o percepita, di farvi fronte.
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La condizione di stress che ne potrà derivare, provocherà sentimenti d’isolamento e di tensione, lo esporrà a comportamenti errati che non potranno non avere che un effetto negativo sulla salute del malato.
I luoghi di cura della geriatria, non di rado spazi di separazione, se non di segregazione, possono divenire luoghi di cura se investiti di una concezione medico-scientifica del sapere geriatrico, che presupponga progettualità terapeutica, fiducia nella positività dei percorsi di cura che andiamo costruendo per e con
i nostri pazienti, ma anche, forse, per noi stessi... in futuro.
Scrive Moyra Jones nel suo libro “Gentelcare”:“ come ci sentiremmo noi seduti nella nostra stanza, se
una persona totalmente estranea, e non di rado di sesso opposto, venisse ed insistesse per farci spogliare
e fare il bagno in un ambiente pubblico? Come risponderemmo se uno sconosciuto ci svegliasse durante
la notte e insistesse per accompagnarci al bagno? Cosa faremmo, se ci trovassimo chiusi a chiave in un posto sconosciuto con una dozzina di altre persone malate e se ci dicessero che questa è ora la nostra casa?
Naturalmente saremmo infuriati in qualsiasi di queste situazioni, e la resistenza che ne conseguirebbe (anche l’eventuale reazione aggressiva) ci sembrerebbe appropriata, date le circostanze”.
I comportamenti aggressivi possono quindi essere l’espressione di un malessere grave di un individuo,
ma essere anche l’espressione di “reazioni all’ambiente” o ad una somma delle due, dove l’ambiente può
essere fattore protettivo o precipitante. (Peraltro dobbiamo sempre ricordare che la gestione di una situazione critica, appunto anche con espressività aggressiva, risulta nell’anziano più difficile che nell’adulto: come nella prima fase dell’adolescenza, le manifestazioni possono essere più “esplosive”. Infatti, le passioni,
come nell’adolescente, sono più intense e le emozioni sono meno modulabili e la difficoltà deriva non poco dalla perdita od indebolimento del controllo corticale sulla nostra parte più antica del cervello (talamo,
ipotalamo, amigdala), per una minore efficacia quindi dei meccanismi cerebrali inibitori). (Chi lavora in
campo geriatrico è esposto a forme di sofferenza molto frequenti, quasi inevitabili, in quanto sono
alimentate proprio dall’inevitabile, intimo e prolungato contatto con persone che presentano condizioni umane di grande sofferenza fisica e mentale e per le quali la speranza di un cambiamento è rara
mentre sempre vicina resta la certezza della morte.)
Per ospitare in noi vecchi ammalati, persone disabili, malati mentali gravi, malati affetti da patologie
organiche croniche e progressive, vecchi, ammalati, depressi, insani o dementi, è necessario rendere possibile in noi lo spazio per l’ospitalità mentre la cultura prevalente, gli stessi assetti istituzionali, non ci aiutano perché il vissuto del nostro spazio esterno-interno è già continuamente minacciato e/o colonizzato,
in questo nostro mondo fortemente individualista.
Quando poi ci sentiamo aggrediti, tendiamo a rispondere in modo difensivo, con l’indifferenza, l’estraneità, talvolta anche con la stupidità, spesso con l’individualismo più esasperato.
Insomma nel nostro operare potremo trovarci, quindi, in situazioni che evocano il timore dello sradicamento e la minaccia al nostro privato spazio fisico e mentale: in questi casi sarà facile restare chiusi,
estranei, divenire inospitali in modo irritante o addirittura violento.
Allora come rendere possibili gli spazi mentali e fisici dove ospitare l’altro che ci passa accanto, anonimo, non amico intimo ma straniero accolto? E che tipo di relazione chiede chi si trova in una situazione di bisogno?
Ricordiamo ancora come “l’altro da noi” richiami lo sconosciuto, l’indicibile, l’originario che potrebbero emergere in noi stessi e che potrebbero inquietarci.
È utile ricordare qui lo scritto di Freud sul perturbante dove egli ci mostra come l’elemento perturbante (unheimliche) non è niente di nuovo, di estraneo, ma è piuttosto qualcosa di famigliare alla vita psichica dei tempi più antichi (heimliche): il perturbante è allora l’accesso, il rischio dell’accesso all’antica patria dell’uomo, alle nostre prime(i) (tive) modalità di essere nel mondo.
È una relazione che può nascere anche quando l’altro non chiede aiuto e questo può succedere con i
vecchi, le persone che non hanno coscienza o non hanno più alcuna speranza per poter chiedere aiuto.
Questo tipo di relazione ha fondamento nell’originaria relazione “madre-bimbo”: pensiamo all’atteggiamento materno d’accoglimento e di soccorso, all’importanza del contatto fisico ed emozionale presenti in una buona relazione originaria “madre-bimbo”.
Tuttavia in questa relazione, abitualmente, il reciproco piacere, gustoso piacere, piacere addirittura carnale, è presente in entrambi i partecipanti alla relazione: essi, infatti sono reciprocamente soddisfatti, ed in
modo generoso, nelle aspettative di contraccambio.
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Se riflettiamo sulla relazione d’aiuto professionale col paziente anziano, osserviamo una certa innaturalità in questa “disponibilità quotidiana” che, soprattutto con i pazienti affetti da patologie di lenta risoluzione o croniche o addirittura tendenti alla morte, può rischiare di divenire senza tempo o rimanere legata al tempo angoscioso del morire: quanto dico riguarda sia gli operatori (care-provider) che familiari che
mantengano un alto e prolungato interfaccia con questi pazienti (care-giver).
È facile quindi che nell’operatore nasca un “costo psicologico” per la sua mente.
Questa problematica può ulteriormente amplificarsi quando l’operatore sta a contatto più ore con il paziente, come in una Casa di Riposo, in un Centro Diurno per dementi, in una RSA. (Dobbiamo inoltre tenere presente che, quelli che vivono troppo a lungo ai margini, senza risorse ‘non solo economiche, ma anche cognitivo-affettive’, non si lasciano aiutare facilmente e raramente entrano in tempi brevi in una posizione di reciprocità).
Gli operatori, i care-giver dovrebbero quindi avere animo solido, un discreto equilibrio interno, un’adeguata immagine della propria efficacia, addirittura una vita extralavorativa sufficientemente positiva
– per tollerare il poco riconoscimento delle loro relazioni d‘aiuto, non solo da parte dei pazienti e dei
familiari ma spesso anche da parte dei datori di lavoro e degli amministratori: abitualmente nella sanità sono viste come più importanti, più scientifiche, le pratiche diagnostiche, le terapie intensive e quindi soprattutto il trattamento delle acuzie;
– per evitare di identificarsi troppo con i pazienti, talvolta utilizzandoli più o meno inconsciamente
per “curare” le proprie sofferenze,
– per evitare alibi pessimistici (sono malattie incurabili, non c’è niente da fare, non capiscono niente)
che sono giustificazioni per la nostra eventuale, ma non rara, insipienza o stupidità.
Occorrono quindi degli antidoti per non cadere nel nostro operare, nella meccanicità, nella freddezza,
nel pessimismo autogiustificatorio o addirittura nel sadismo, possibilità meno rara di quanto si creda nelle istituzioni caratterizzate da una relazione d’aiuto molto asimmetrica
Dobbiamo quindi saper valorizzare:
a) il sentire di essere membri di una squadra che può fare bene;
b) l’avere un forte senso della propria professionalità percependo come ogni ruolo di una equipe sia
necessario per creare una relazione d‘aiuto, aiuto integrata, necessaria ormai nella maggior parte
delle nostre cure per i pazienti più gravi;
c) l’ottenere il riconoscimento per quanto si fa positivamente attraverso premi e miglioramenti della
propria professionalità;
d) infine sentire di lavorare in un’istituzione efficiente ed efficace per sentire noi stessi di essere efficienti ed efficaci.
Quando questo non è garantito, le cose di solito tendono ad andare male, non solo per gli operatori, per
i care-giver, ma soprattutto per i pazienti, perché aumentano gli acting-out e gli agiti aggressivi, mentre per
gli operatori compaiono le situazioni di sofferenza soggettiva fino a forme di burn-out: può così comparire una pericolosa tendenza a “scaricare” sugli assistiti la propria insoddisfazione.
È fondamentale quindi che un responsabile di un servizio, di un reparto, di un RSA, di una casa di riposo, o di un Centro Diurno Alzheimer sappia garantire ai propri collaboratori una sana e temperata gratificazione, nell’operare, che li risarcisca a sufficienza del dolore mentale che procura inevitabilmente lavorare in modo empatico con queste persone così fragili e con i loro familiari.
Evitare lo squilibrio percepito tra il “dare” e il ”ricevere” è un’operazione fondamentale di un responsabile di uno staff, ed anche una funzione etica di sostegno e protezione mentale, non solo per i suoi collaboratori, ma anche per gli assistiti che devono essere preservati dalle azioni iatrogene di una relazioni di
aiuto mal temperata. Gli operatori devono essere aiutati a muoversi nelle relazioni d’aiuto, ovvero nella loro attività terapeutica e di assistenza con professionalità ed attenzione ai meccanismi non consapevoli che
spesso interagiscono nel lavoro stesso, meccanismi che non riconosciuti possono produrre danni non indifferenti, come prima ho già ricordato.
Ci permettiamo di insistere che, se non si ha attenzione a tutto questo, inevitabilmente ricompare il “manicomio”, soprattutto inteso come cultura che lo sosteneva e lo può sostenere, perché il “manicomio”, prima di un luogo è stato ed è ancora una cultura, un’ideologia mentale che mortifica l’umano sentire. (La re-
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lazione d’aiuto può essere invece quindi un’alleanza, un’esperienza di prossimità foriera di senso, capace
di far crescere gli interlocutori insieme, di istruire la loro coscienza affinché sia ancora possibile vivere e
possibilmente vivere meglio).
Col paziente anziano già visto come in queste relazioni, così come di fronte alle patologie incurabili e/o
con prognosi infausta, l’operatore sanitario si confronti con sentimenti di impotenza difficilmente sostenibili, perché procurano un’angoscia che, può rischiare di essere gestita ed affrontata con la fuga dalla relazione stessa o con l’indifferenza o con la stupidità o addirittura con l’aggressività agita, vuoi verbale vuoi
fisica (vedi le forme del sadismo terapeutico). (Ricordiamo ora come i sentimenti personali del terapeuta
sulla propria vulnerabilità fisica, la capacità di elaborare perdite e/o lutti, influenzino la relazione col paziente anziano e la possibilità di vivere con empatia sentimenti di fragilità e solitudine del paziente). È evidente allora come solo una relazione ben temperata permetta, allora di riconoscere non solo gli aspetti gradevoli nell’incontro, ma anche quelli sgraditi, nostri e degli altri, che in genere facciamo fatica a riconoscere.
Scrive Marco Trabucchi:“la persona vecchia più di altri è colpita negativamente da un ambiente poco rispettoso della sua dignità, poco attento alla sua sofferenza soggettiva”. Egli scrive ancora: “…é strutturale al
successo della cura il fornire un’assistenza -un habitat direi io in senso più ampio- che rispettino il senso
della vita, che diano speranza, che offrano vicinanza...”. L’adozione di un atteggiamento di rispetto verso il
paziente -verso l’anziano in generale diremmo- di partecipazione per le sue difficoltà dovrebbe appartenere al senso etico non solo di ogni operatore sanitario serio e capace, ma di un urbanista, di un sociologo,
di un amministratore. Ma, allora perché tanta stupidità nel creare ambienti di vita, ambienti di cura spesso
assurdi, così impossibili per i vecchi? Perché tante disattenzioni, grossolanità, atteggiamenti, al massimo
provvidenziali o caritatevoli, che possono solo offendere il vecchio? Forse perché la relazione d’aiuto, forse perché una dimensione empatica con una persona vecchia sono difficili, sono razionalmente anche cercate, ma al tempo stesso, inconsciamente negate in mille modi! Vi sono molte difficoltà nell’aiutare gli altri, in questo caso i vecchi, i vecchi malati, depressi, addirittura dementi, vecchi aggressivi, addirittura talvolta violenti, vecchi impauriti, vecchi rancorosi, egoisti, ma anche vecchi simpatici, interessanti, deboli,
ma talvolta forti, talvolta forse troppo prepotenti La difficoltà di una relazione empatica necessaria per attivare relazioni d’aiuto rispettose ed efficaci ha a che fare con meccanismi psichici di difesa e di negazione ed a questo proposito ricordo che il sociologo tedesco Schirrmacher ipotizza in “Il complotto di Matusalemme” che sia veramente “perturbante” per le nostre generazioni di “baby boom” il confronto con il
nostro invecchiare e che questa nostra resistenza influenzi non poco come le generazioni “baby boom”
(non) programmino con intelligenza e lungimiranza adeguate le politiche per gli anziani. Possiamo così
vedere la situazione dei nostri pazienti, degli anziani, la loro frequente solitudine, ed anche quella dei loro familiari, anche la loro eventuale tumultuosità comportamentale, come la punta di un iceberg, che
rivela un fenomeno che interessa in realtà la società nel suo complesso. Allora dobbiamo cominciare a rifiutare con più convinzione modelli che assimilano il declino fisico e mentale al deterioramento perché in
“assenza di demenza senile”, la capacità di scambio sensato di nuove informazioni, come presupposto per
partecipare intellettualmente alle vicende del mondo esterno, viene mantenuta fino alla massima età!” Forse dobbiamo cambiare prospettiva e liberarci di tante idee preconcette -e quante ne abbiamo noi psichiatri, geriatri e medici in generale- sulla vecchiaia. Dobbiamo, rifiutando caricature e stereotipi, fare la nostra ennesima Rivoluzione Culturale perché per quello che ci prepariamo a vivere non ci sono modelli! Noi
potremo fare finalmente qualcosa di buono per i vecchi, qualcosa che lenisca i nostri sentimenti di colpa
nel volere vivere così a lungo negando l’invecchiamento, qualcosa che ci aiuti a non essere troppo stupidi, pensando che così stiamo preparando bene la nostra casa futura: uno spazio mentale, fisico, urbano, sanitario vivibile piuttosto che un manicomio, un luogo di disperata solitudine.
Storia clinica
Cesarina ha 64 anni ed é affetta da un grave e rapido declino cognitivo che investe molte aree funzionali. Ormai non é più in grado di stare sola e deve essere costantemente assistita. Da alcuni giorni é agitata, non dorme, non ha quiete e reagisce in modo aggressivo ai tentativi dei famigliari di starle vicino e di
accudirla. Per alcuni anni, prima della comparsa dei deficit cognitivi, ha sofferto di depressione, che come
talvolta succede, a questa età, precede l’esito in demenza. L’accentuarsi dell’aggressività e dei comportamen-
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ti incontrollabili induce il medico di famiglia a chiedere una consulenza psichiatrica.Vengo chiamato in
quanto conosco Cesarina perché é seguita dal nostro ambulatorio UVA. La trovo in camera sua, in un continuo affaccendamento, é molto agitata; sale e scende dal letto continuamente, emette vocalizzi, urla, non
vuole essere toccata. Riesco ad avvicinarmi e le stringo dolcemente le mani tra le mie. Risponde positivamente al mio approccio e si tranquillizza. Provo a farle qualche domanda, ma non é in grado di farsi capire. Il marito mi dice che la terapia sedativa consigliata dal medico di famiglia non ha funzionato, anzi,“con
quelle medicine”, Cesarina é peggiorata. Riesco a conquistare la sua fiducia semplicemente standole vicino. Si lascia visitare. Ha un colorito normale, non è febbrile, non è sudata. L’esame neurologico è negativo,
le funzioni cardiocircolatorie nella norma. Il segno di Giordano é positivo a destra. Mi metto in contatto col
medico del Pronto Soccorso, per informarlo dell’invio e del mio sospetto clinico. Dopo qualche giorno
torno a trovarla. È ricoverata in ospedale, in nefrologia. Ha una pielonefrite acuta.
“L’attenzione clinica, nelle demenze, è rivolta alla parte psichica, facendo correre il rischio di sottovalutare quello che accade nel soma.
Nelle persone con demenza occorre un’attenzione specifica al riconoscimento de al trattamento
delle patologie associata.
È un’attenzione per impedire che la demenza divenga una condizione che “copre tutto, per cui
ogni sintomo viene attribuito alla patologia psichica, senza più attenzione alle situazioni trattabili che
spesso l’accompagnano”.
(Antonio Guaita, Demenze, 2005; 2;37-43)
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APPLICAZIONE DELLA PROTEOMICA PER L’IDENTIFICAZIONE
DI POTENZIALI BIOMARKERS NELLE DEMENZE DELL’ANZIANO
Sgrò Giovanni1, Malara Alba1, Ferrante Pasquale2
1 Coordinamento
2 Università
Scientifico ANASTE Calabria
di Milano, Dipartimento Sanità Pubblica-Microbiologia-Virologia
SCOPO
Per proteoma s’intende la totalità delle proteine espresse da un genoma durante l’arco dell’intera vita di una cellula o di un tessuto, il set di proteine espresse in un compartimento biologico in un determinato momento e sotto particolari condizioni1. Lo scopo della proteomica è l’identificazione e la quantificazione di proteine presenti in cellule e fluidi biologici, l’analisi dei cambiamenti dell’espressione proteica in cellule normali e malate, la caratterizzazione delle modificazioni post-traduzionali e lo studio delle interazioni proteina-proteina2. La ricerca che utilizza la proteomica è finalizzata alla caratterizzazione
dei complessi networks tra proteine diverse e della loro alterazione, alla scoperta di biomarkers proteici
usati per l’identificazione e la diagnosi di patologie ed alla ricerca di target per trattamenti terapeutici3.
Un biomarker può essere definito come un parametro anatomico, fisiologico, biochimico o molecolare associato alla presenza ed al grado di severità di una malattia. È considerato un indicatore di un normale processo biologico o patologico, o di una risposta farmacologica ad un trattamento terapeutico4. Ad oggi un
approccio proteomico viene seguito in molti campi della biologia per capire i meccanismi alla base di fenomeni molecolari, come avviene nello studio dei tumori, delle malattie infettive, e recentemente nell’Alzheimer e nella Sclerosi Multipla dove viene usata per ottenere un valido mezzo diagnostico e prognostico. Le conoscenze relative ai cambiamenti cerebrali che precedono ed accompagnano le prime fasi
della malattia sono molto scarse, ma la comprensione dei processi biologici che si verificano durante
l’esordio e/o la progressione della malattia potrà portare al miglioramento della diagnosi e del trattamento terapeutico5. L’obiettivo principale del nostro progetto di ricerca -inserito nel più ampio network ANADEM (ANASTE-DEMENZE)- è quello di individuare nuovi marcatori molecolari in grado di dare una diagnosi precoce ed aumentare l’accuratezza diagnostica, in grado di predire l’evoluzione del MCI, di valutare l’effetto di terapie specifiche.
MATERIALI E METODI
Le fasi principali di cui si compone l’analisi proteomica di base sono tre. La prima consiste nell’individuare il tipo di campione da analizzare, per decidere quali proteine vogliamo separare e caratterizzare.
Nella seconda fase, la miscela di proteine da analizzare viene risolta nelle sue componenti mediante la tecnica di separazione elettroforetica bidimensionale. La terza fase del processo consiste nell’identificazione
delle proteine separate mediante tecniche di spettrometria di massa. I criteri adottati per la definizione
del biomarker ideale per la malattia di Alzheimer (AD) sono quelli proposti dal National Institut of Aging
(NIA)6. Il progetto di ricerca avrà una durata iniziale di 12 mesi. Si procederà con lo screening del proteoma del siero di soggetti affetti da AD. Per l’analisi del proteoma sierico saranno utilizzate le tecniche di
elettroforesi bidimensionale e spettrometria di massa MALDI-TOF. Saranno arruolati 20 pazienti suddivisi
in gruppi di 5 in accordo con il livello di deficit cognitivo e così suddivisi: 5 pazienti con AD, 5 con deficit
cognitivo severo, 5 con deficit cognitivo lieve-moderato e 5 senza deficit cognitivo, di età, e altre caratteristiche alla baseline comparabili.
RISULTATI ATTESI
Marcatori biologici specifici di malattia ottenuti su campione di siero -quindi facilmente reperibile
con un prelievo di routine- sui soggetti con diagnosi di AD e su una percentuale di quelli con solo deficit cognitivo.
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CONCLUSIONE
La proteomica nello studio della Malattia di Alzheimer può fornire importanti notizie sulle proteine
coinvolte nell’insorgenza e nella progressione della malattia. Questo permetterà di stabilire una relazione
tra segni patologici tipici della malattia ed anormalità strutturali e metaboliche, o farmaco indotte, che sono strettamente dipendenti da alcune proteine significative.Attraverso una diagnosi precoce, una maggiore comprensione dei meccanismi fisiopatologici della malattia e degli effetti del trattamento farmacologico, sarà possibile una maggiore specificità della presa in carico della persona affetta da Demenza.
BIBLIOGRAFIA
1
Wasinger WC et al. Progress with gene-product mapping of the Mollicutes: Mycoplasma genitalium. Electrophoresis 1995;
16:1090-4.
2
Westermeier R. et al. La tecnologia protemica. Journal of Clinical LigandAssay 2002; 25:250-60.
3
Beranova-Giorgianni S. Proteome analysis by two-dimensional gel electrophoresis and mass spectrometry: strengths and limitations. Trends Anal Chem 2003; 22:273-81.
4
Elrick MM et al. Proteomics: recent applications and new tecnologies. Basic Clin Pharmacol Toxicol 2006; 98:432.
5
Ho L et al. From proteomics to biomarker discovery in Alzheimer’s disease. Brain Research Review 2005; 48:360.
6
Song F et al. Plasma biomarkers for mild cognitive impairment and Alzheimer’s disease. Brain Reserch Reviews 2009;61:69.
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ATTIVITÀ FISICA E CAPACITÀ RESIDUE NELLA PERSONA
AFFETTA DA DEMENZA: STUDIO PILOTA
Simoncini Mara1, Gatti Antonia1, Balla Silvia1, Scrivo Federica2, D’Agostino Sabrina1,
Obialero Rossella, Pernigotti Luigi Maria1
1 Geriatria Territoriale, Dipartimento Integrato di Lungoassistenza, ASL TORINO 1, Torino
2 Istituto di Psicologia, Università degli Studi di Torino
SCOPO
Valutare l’impatto di un programma di ginnastica dolce sul declino funzionale, cognitivo-comportamentale e sul compartimento metabolico del paziente affetto da demenza.
MATERIALI E METODI
Sono stati arruolati 24 pazienti affetti da demenza di Alzheimer di tipo probabile secondo i criteri
NINCDS-ADRDA di grado lieve moderato (CDR 1-3) afferenti al nostro Centro Diurno di via Spalato 14, di
età compresa tra i 60 e 92 anni con un rapporto M/F 11/13. Di questi 12 hanno partecipato al programma
di ginnastica dolce (sedute da 45 minuti 2 volte a settimana condotte da dottori in scienze motorie). Sono
stati inclusi pazienti autonomi nel trasferimento sedia stazione eretta ed in grado di percorrere almeno 6
metri senza assistenza, non affetti da patologie cardiovascolari (NYHA 1 e 2) od osteoarticolari severe che
possano controindicare l’esercizio fisico. I pazienti sono stati valutati all’inizio dello studio (T0) annotando: anamnesi patologica (CIRS: indice di severità e comorbilità) e farmacologica (assunzione di antipsicotici, AchI, BDZ, SSRI); stato funzionale e performance fisica (ADL, IADL, Barthel Index, scala di Tinetti); stato cognitivo-comportamentale ed insight (MMSE,ADAS-Cog,TMT A-B, CIRs, CDR, NPI, BDI) e grado di stress
del caregiver (CBI). Stessa valutazione è stata effettuata a 3 mesi (T1) e a 6 mesi (T2). È stato inoltre registrato in 2 misurazioni, al T0 e al T2, tramite Holter metabolico attraverso apposito dispositivo di rilevazione elettronica (ArmbandÒ) il dispendio calorico totale giornaliero.
RISULTATI
Tra maggio e novembre 2009 si sono tenute 56 sedute di ginnastica dolce (esercizi aerobici, di allungamento e di equilibrio a corpo libero e con attrezzi) in cui i soggetti in studio hanno partecipato con un
indice di ritenzione del 98%. L’analisi statistica è stata condotta mediante ANOVA, utilizzando in particolare il t di Student per campioni appaiati. Il declino cognitivo dei pazienti sottoposti al programma è risultato significativamente meno rapido sia al MMSE (p<0,005) che all’ADAS-Cog (p<0,005) rispetto ai controlli; inoltre, si è visto che chi partecipava al programma di esercizi pareva, a parità di farmaci, sviluppare una
riduzione significativa dei disturbi comportamentali dopo 6 mesi (NPI p=0,003).Anche l’aspetto funzionale, in particolare il declino dell’autonomia nelle attività strumentali della vita quotidiana (IADL) pare essere meno rapido nei soggetti in studio; appare invece non significativa la differenza tra i due gruppi nell’autonomia nelle attività elementari (ADL). Nel gruppo in studio è aumentata in modo significativo la consapevolezza di sé valutata attraverso la Clinical Insight Rating Scale (CIRs). Infine, attraverso la misurazione metabolica è emerso che il dispendio energetico è immodificato al T1 rispetto al T0.
CONCLUSIONI
L’attività di ginnastica dolce attraverso sollecitazioni sensoriali e stimoli alla comprensione dell’ambiente nel quale si esplica, può essere utile nel migliorare lo stato funzionale oltre ad incrementare o mantenere le abilità residue complessive, non ultimo favorendo anche gli aspetti di relazione sociale. Da quanto emerge dai dati di questo studio pilota, il fenomeno evidenziato non sembra essere correlato all’attività fisica intesa come dispendio energetico e/o impegno aerobico, quanto piuttosto ad altri meccanismi
che potrebbero comprendere anche l’attivazione di vie neuronali deputate alla coordinazione ed alle funzioni esecutive. In particolare, l’utilizzo di canali universali ed istintuali come la musica ed il contatto corporeo, può determinare la riattivazione di orientamento spazio-temporale e rafforzare capacità complesse ed espressive che si traducono nel decorso della malattia in un rallentamento del declino funzionale, del
deterioramento cognitivo e del controllo non farmacologico dei disturbi comportamentali. Sulla base di questi dati, si rendono necessari ulteriori e più estesi studi randomizzati e controllati per meglio quantificare
la verosimile importanza dei risultati preliminari emersi, che potrebbero avere un impatto favorevole nel
trattamento integrato dei pazienti affetti da demenza.
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LA PERSONALITÀ PREMORBOSA COME POSSIBILE PREDITTORE
DEL PROFILO PSICOLOGICO-COMPORTAMENTALE IN CORSO
DI MALATTIA DI ALZHEIMER
Simoni David, Barboncini Caterina, Gullo Massimiliano, Boncinelli Marta, Cavallini Maria
Chiara, Mello Anna Maria, Zaffarana Nicoletta, De Villa Eleonora, Ballini Elena,
Marchionni Niccolò, Mossello Enrico
Unità Funzionale di Geriatria e Gerontologia, Dipartimento di Area Critica Medico Chirurgica,
Università degli Studi di Firenze, Azienda Ospedaliero-Universitaria di Careggi.
Complesso Edilizio Polivalente, Viale Pieraccini 6, Firenze
E-mail: [email protected]
SCOPO
È dimostrato in letteratura che la malattia di Alzheimer (AD) si associa a modificazioni della personalità dei soggetti affetti, mentre altri dati suggeriscono che il profilo di personalità premorboso influenzi la
manifestazione dei sintomi psicologici e comportamentali (BPSD). Abbiamo pertanto valutato, in un campione di soggetti con AD afferenti alla nostra UVA, le modificazioni di personalità verificatesi a seguito dell’insorgenza della malattia e se la presenza di BPSD sia associata a tratti di personalità premorbosi.
MATERIALI E METODI
Sono stati arruolati 48 soggetti (67% femmine) affetti da AD (età media 80 anni, MMSE medio 21.1). Sono stati valutati mediante MMSE, valutazione neuropsicologica completa, Neuropsychiatric Inventory (NPI),
Geriatric Depression Scale (GDS). Ogni caregiver ha compilato il Big Five Questionnaire (BFQ) per descrivere sia la personalità attuale che premorbosa del proprio familiare. I dati sono stati analizzati mediante statistiche non parametriche.
RISULTATI
Con la comparsa di AD si osserva una riduzione significativa di Energia (p=0,001), Coscienziosità (p<0,001)
ed Apertura Mentale (p<0,001). Maggiori livelli di Energia premorbosa correlano con minori sintomi depressivi alla GDS (rs -0,371), minore apatia (rs -0,288) e maggiore irritabilità (rs: 0,522).Tra le sottodimensioni del
costrutto sia Dinamismo che Dominanza correlano in maniera inversamente proporzionale con la GDS (rs 0,345; rs -0,367) e direttamente proporzionale con l’irritabilità (rs 0,625; rs 0,343), mentre il Dinamismo correla direttamente con l’ansia (rs 0,317) e la Dominanza correla inversamente con l’apatia (rs -0,320). Maggiori livelli di Coscienziosità premorbosa mostrano una correlazione con maggior agitazione (rs 0,313), spiegata da una correlazione diretta con il sottofattore Perseveranza (rs 0, 327), e con maggiori deliri (rs 0,420), spiegata dalla sottodimensione Scrupolosità (rs 0,289). Il fattore Stabilità emotiva correla in maniera inversamente proporzionale con la presenza di ansia (rs -0,349) e disinibizione (rs -0,310); in particolare la sottodimensione Controllo delle Emozioni correla con la presenza di ansia (rs -0,439), mentre il Controllo degli Impulsi
con la disinibizione (rs -0,387). L’analisi dell’etero-descrizione della personalità effettuata dai caregiver, correlata con la tendenza a esagerare o sminuire i tratti dei propri assistiti (scala “Lie”), conferma una discreta affidabilità del familiare come fonte di informazione relativa alle caratteristiche personologiche dei pazienti.
CONCLUSIONE
Il presente studio conferma, in accordo con la letteratura internazionale, che l’insorgenza di AD si associa a modificazioni della personalità. Inoltre i dati qui presentati supportano l’ipotesi che tratti di personalità presenti prima dell’insorgenza della patologia possono incidere sull’insorgenza di uno piuttosto che
di un altro disturbo neuropsichiatrico a seguito dello sviluppo di malattia. In particolare i livelli di energia
sembrano influire sullo stato affettivo, quelli di coscienziosità sullo sviluppo di agitazione e deliri e quelli
di stabilità emotiva su ansia e controllo degli impulsi. L’analisi della personalità premorbosa può quindi
essere utile nell’individuare precocemente soggetti a rischio di sviluppare sintomi psicologici e comportamentali. Resta da valutare il suo potenziale impatto nell’influenzare la scelta e la risposta ai trattamenti
farmacologici e non farmacologici.
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PRIMA DIAGNOSI DI MALATTIA DI ALZHEIMER:
UNO STUDIO DESCRITTIVO RETROSPETTIVO
Spadaro Letteria, Cordici Francesco, Bonanno Lilla, Alagna Antonella, Sessa Edoardo,
Bramanti Placido
IRCCS Centro Neurolesi “Bonino-Pulejo”, Messina
SCOPO
Questo studio descrittivo retrospettivo vuole delineare il profilo cognitivo, emotivo e funzionale di un
campione di soggetti con prima diagnosi di Probabile malattia di Alzheimer (MA) per evidenziare quali
sintomi sono percepiti come primi “segnali di patologia” dalla persona che si rivolge al medico specialista
e dalla sua famiglia. Le linee guida sulla gestione di questa patologia a livello nazionale ed internazionale
evidenziano, infatti, l’importanza di una diagnosi precoce per rispettare l’autonomia del paziente nel predisporre piani per il futuro, per aiutarlo a comprendere le ragioni dei cambiamenti cognitivi ed emotivi che
sta vivendo e rallentare attraverso la terapia farmacologia e non il decorso della malattia supportando il paziente e chi si prende cura di lui nel percorso della malattia con l’obiettivo di migliorare quanto più possibile la qualità di vita.
MATERIALI E METODI
256 soggetti afferenti all’Unità di Valutazione Alzheimer (UVA) dell’IRCCS Centro Neurolesi “Bonino-Pulejo”, negli anni compresi tra il 2005 ed il 2009, sono stati sottoposti ad una valutazione multidimensionale: a 220 (85,3%) è stata fatta diagnosi di “Malattia di Alzheimer Probabile” (MA) secondo i criteri NINCDSADRDA. Di questi pazienti (uomini 63, donne 157; età media 76,71+/-6,52) abbiamo considerato la valutazione cognitiva globale effettuata attraverso il Mini Mental State Examination (MMSE) e l’Alzheimer Disease Assessment State-Cognition (Adas-Cog), il livello di ansia e di depressione attraverso rispettivamente
l’Hamilton Anxiety Rating Scale (HRSA) e l’ Hamilton Rating Scale for Depression (HRSD), e le autonomie
della vita quotidiana strumentali (IADL) e non (ADL) al momento della prima diagnosi.
Le analisi statistiche sono state condotte utilizzando il software SPSS.16.
RISULTATI
I dati ottenuti al MMSE (16,76+/-4,62) e all’Adas-Cog (27,71+/-10,63) evidenziano nel campione un
deterioramento cognitivo di grado moderato e la presenza di sintomi di ansia (19,09+/-7,23) e depressione (18,45+/-6,58) di grado lieve. Le autonomie strumentali (3,73 +/-2,2) e non (4,60 +/-1,50) di vita quotidiana sono già deteriorate al momento della prima diagnosi. Nel nostro campione il livello cognitivo correla significativamente (p>0,001) con i punteggio di ansia, rappresentando un fattore predittivo delle disautonomie (p>0,001), e dei punteggi di depressione (p=0,021). Da un’analisi condotta anno per anno si
osserva un decremento dei punteggi medi al MMSE (2005: MMSE 16,40; 2006: MMSE 17,99; 2007: MMSE
16,41; 2008: MMSE 16,93; 2009: MMSE 15,97); nell’ultimo triennio esaminato diminuiscono anche i punteggi medi alle scale che valutano ansia (2007: HRSA 21,81; 2008: HRSA 19,69; 2009: HRSA 15,48) e depressione (2007: HRSD 20,16; 2008: HRSD 17,87; 2009: HRSD 16,86). Non si rilevano differenze rilevanti per altre variabili prese in esame.
CONCLUSIONE
I dati raccolti evidenziano che i pazienti ed i loro familiari richiedono per la prima volta la consulenza
del medico specialista quando cominciano a manifestarsi dei problemi nella vita quotidiana. L’esordio della sintomatologia cognitiva ingravescente caratteristica della MA è probabilmente ancora correlata, erroneamente, ai cambiamenti sottesi al normale invecchiamento. A questo proposito è interessante osservare
che, nel campione in esame, l’analisi anno per anno non rileva nessun cambiamento di tendenza rilevante nel primo accesso dei pazienti all’UVA.
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CARATTERISTICHE CLINICHE E PATTERN DI MIGLIORAMENTO NELLA
DEAMBULAZIONE IN UNA POPOLAZIONE DI ULTRANOVANTENNI
RICOVERATI IN UN REPARTO DI RIABILITAZIONE
Torpilliesi Tiziana1,2, Lucchi Elena1,2, Turco Renato1,2, Marrè Alessandra1,2, Guerini Fabio1,2,
Ricci Eleonora1,2, Speciale Salvatore1,2, Morghen Sara1,2, Bellelli Giuseppe1,2, Trabucchi Marco2,3
1 Dipartimento
di Riabilitazione“Ancelle della Carità”, Cremona
di Ricerca Geriatrica, Brescia
3 Università degli Studi Tor Vergata, Roma
2 Gruppo
SCOPO
Valutare le caratteristiche cliniche, biologiche, cognitive e funzionali ed il pattern di miglioramento nella
deambulazione in una popolazione di pazienti ultranovantenni che accede ad un reparto di riabilitazione.
MATERIALI E METODI
Tutti i pazienti con età ≥90 anni, ricoverati consecutivamente presso il nostro Dipartimento di Riabilitazione dal 1° Gennaio 2006 al 31 Dicembre 2007, sono stati sottoposti a valutazione multidimensionale
geriatrica (variabili demografiche e biologiche, Mini Mental State Examination, presenza di delirium, lunghezza della degenza, Barthel Index, scala di Tinetti, Cumulative Illness Rating Scale). Sono stati esclusi i pazienti che avevano una prognosi stimata all’ingresso inferiore ai 6 mesi.
RISULTATI
È stato studiato un campione di 146 pazienti ultranovantenni suddivisi in base all’autonomia nell’item
deambulazione del Barthel Index all’ingresso (autonoma se punteggio ≥ 12/15, non autonoma se punteggio ≤ 8/15).All’ingresso in reparto 104/142 pazienti (73,2 %) non erano in grado di deambulare autonomamente. La tabella 1 riporta le caratteristiche descrittive dei 104 pazienti non autonomi, stratificati in 2
Tabella 1. Caratteristiche di 104 pazienti ultranovantenni non autonomi nella deambulazione all’ingresso,
stratificati in 2 gruppi in base al recupero di almeno 3 punti al BI riguardante l’item deambulazione (delta Barthel).
Totale (n 104)
Gruppo A (n 70)
Gruppo B (n 34)
p
Età, anni
92.6±2.41
92.6±2.4
92.8±2.6
.684
Sesso femminile, n (%)
93 (89.4)
62 (88.6)
31 (91.2)
.487
Viveva solo
32 (32.3)
25 (36.8)
7 (22.6)
.121
Cumulative Illness Rating scale
IDC (Index Comorbility Disease)
IDS (Index Severity Disease)
2.83±1.35
1.79±0.31
2.89±1.38
1.77±0.29
2.71±1.31
1.83±0.34
.528
.397
Albumina (gr/dl)
3.0±0.4
3.1±0.4
2.9±0.4
.047
Proteina C reattiva (PCR)
3.4±4.1
3.0±3.5
4.3±5.2
.132
Mini Mental State Examination (0-30)
17.3±5.7
18.1±5.7
15.3±5.0
.028
Barthel Index all’ingresso (0-100)
29.0±19.3
32.9±19.1
21.0±17.2
.003
Scala di Tinetti all’ingresso (0-28)
5.3±5.6
6.0±5.8
3.4±4.7
.045
Durata della degenza
29.5±12.5
29.6±10.6
29.4±16.0
.939
Delirium, n (%)
39 (37.5)
21 (30)
18 (52.9)
.600
I dati sono espressi come valori medi ± DS, qualora non diversamente specificato.
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gruppi in base al guadagno di almeno 3 punti nell’item deambulazione del Barthel Index tra ingresso e dimissione (Gruppo A= guadagno; gruppo B = mancato guadagno). I pazienti del gruppo B sono risultati significativamente più compromessi per quanto concerne il MMSE, i punteggi nella scala Tinetti e nel Barthel Index all’ingresso e nei valori di albumina serica rispetto ai pazienti del gruppo A.
CONCLUSIONE
I dati suggeriscono che i soggetti ultranovantenni ricoverati in riabilitazione sono eterogenei dal punto di vista delle caratteristiche cliniche, biologiche e funzionali. Inoltre, va sottolineato che in una quota significativa di loro (67,3 %) un intervento riabilitativo di tipo intensivo è in grado di determinare un miglioramento nel pattern della deambulazione alla dimissione.
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MILD COGNITIVE IMPAIRMENT: STUDIO CORRELAZIONALE
SULLE COMPONENTI COGNITIVE COINVOLTE NELLA PRESTAZIONE
AL CLOCK DRAWING TEST
Umidi Simona1, Trimarchi Pietro Davide1,2, Annoni Giorgio1
1 Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento di Medicina Clinica, Prevenzione e Biotecnologia
Sanitaria, Divisione di Geriatria, Ospedale San Gerardo, Monza
2 Università degli Studi di Milano-Bicocca, Dipartimento di Psicologia, Milano
SCOPO
La precoce identificazione di quadri cognitivo-comportamentali prodromici di un possibile sviluppo in demenza (es. Mild Cognitive Impairment- MCI) è una tematica di grande rilevanza. In tale contesto, un ruolo
fondamentale compete ai test di screening cognitivo (tra cui Clock Drawing Test- CDT e Minimental State
Examination- MMSE), che hanno evidenziato un buon potere discriminatorio nelle varie forme di demenza (Pinto et al, 2009; Rouleau et al, 1992; Libon et al, 1996; Cahn-Weiner et a,l 1999), ma incerti risultati, se utilizzati
singolarmente, nello screening dell’MCI (Beinhoff et al, 2005; Woodard et al, 2005). Alcuni studi sembrerebbero invece dimostrare l’utilità dell’uso combinato di CDT e MMSE nell’identificare con adeguata accuratezza soggetti sani da pazienti affetti da MCI (Ravaglia et al, 2005; Umidi et al, 2009). In tale contesto si può citare un nostro recente studio del 2009 (Umidi et al, 2009) in cui si è valutata l’utilità dell’uso congiunto di CDT
e MMSE nel discriminare soggetti affetti da MCI da soggetti cognitivamente integri o affetti da demenza; in tale studio si è evidenziato che ad ogni gruppo risultava associato uno specifico ‘profilo di screening’, inteso come una specifica combinazione di performance normale o patologica a ciascun test utilizzato (normale CDT
e MMSE nei soggetti sani, normale MMSE e CDT patologico in soggetti affetti da MCI, CDT e MMSE patologico nei soggetti affetti da demenza). La comprensione delle componenti cognitive coinvolte nella performance al CDT nei soggetti affetti da MCI risulta utile per meglio definire le ragioni di tale fenomeno, e quindi avvalorarne ulteriormente la rilevanza pratica. Scopo del nostro lavoro è pertanto di indagare, in soggetti affetti da MCI, le correlazioni tra prestazione al CDT e prestazione ad altri test neuropsicologici.
MATERIALI E METODI
La ricerca è stata condotta analizzando 53 soggetti (M 18, F 35, età media 78,24 ± 5,2, scolarità media
anni 7,7 ± 3,9), di età uguale o superiore a 65 anni, con diagnosi clinica, strumentale e neuropsicologica
di MCI (Winblad et al, 2004), effettuata c/o l’ambulatorio dell’UO di Geriatria dell’Ospedale San Gerardo
di Monza. Di tali soggetti si è valutata la prestazione al CDT (correzione secondo scala a 5 punti di Shulmann,
Shulmann et al, 1993) e ad una batteria di test neuropsicologici, che hanno indagato l’attenzione, le funzioni esecutive, la memoria a breve e lungo termine, il ragionamento logico-astratto, il linguaggio, la conoscenza semantica e le funzioni visuo-costruttive. Attraverso il metodo statistico delle correlazioni di Pearson si è poi valutata la relazione tra la performance al CDT ed ai test neuropsicologici.
RISULTATI
Dai risultati si evidenzia che quattro aree cognitive sono correlate alla performance al CDT: attenzione, funzioni esecutive, ragionamento logico-astratto e capacità visuo-costruttive. Nessuna correlazione è stata invece evidenziata tra CDT e MMSE, e tra CDT e test che valutano la memoria a breve o lungo termine
e le conoscenze linguistiche o semantiche.
CONCLUSIONE
Le capacità attentive, le funzioni esecutive, le abilità visuo-costruttive ed il ragionamento logico astratto
hanno dimostrato una correlazione con la prestazione al CDT. Questo dimostra empiricamente che un complesso sistema di abilità cognitive, che opera simultaneamente, sembra essere coinvolto nell’esecuzione di questo test di screening nei pazienti affetti da MCI; in tale contesto le abilità di controllo (attenzione ed abilità esecutive) sembrano svolgere un ruolo rilevante. In conclusione tali risultati, anche a fronte della recente evidenza che soggetti affetti da MCI mostrano deficit nelle funzioni di controllo esecutivo (Brandt et al, 2009), suggeriscono che lo specifico ‘pattern di screening’ associato all’MCI potrebbe essere spiegato dal differente carico cognitivo richiesto per completare con successo il MMSE o il CDT. Infatti, a differenza del MMSE, la corretta esecuzione del CDT comporta l’uso combinato e simultaneo di più capacità cognitive.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
STUDIO OSSERVAZIONALE SULL’INFLUENZA DELL’ETÀ SUL PROFILO
NEUROPSICOLOGICO DI SOGGETTI AFFETTI DA MILD COGNITIVE
IMPAIRMENT
Vicini Chilovi Barbara, Caratozzolo Salvatore, Mombelli Giulia, Gottardi Federica, Rozzini Luca,
Padovani Alessandro
Dipartimento di Neurologia, Università degli Studi di Brescia
SCOPO
Valutare se l’età del soggetto al momento della valutazione influenza il profilo clinico, funzionale o cognitivo in un campione di pazienti affetti da Mild Cognitive Impairment-MCI.
METODI
Sono stati valutati i dati relativi a 167 pazienti ambulatoriali afferiti al centro Unità di Valutazione Alzheimer degli Spedali Civili di Brescia.Tutti i soggetti soddisfacevano i criteri clinici per MCI e sono stati classificati in tre gruppi: MCI amnesici singolo dominio, MCI amnesici multi dominio; MCI non amnesici. Ogni
paziente è stato valutato tramite una batteria testistica neuropsicologica standardizzata e per ognuno è
stata effettuata la raccolta dei dati clinici e demografici.
RISULTATI
I soggetti sono stati suddivisi sulla base dell’età al momento della valutazione in tre gruppi: 58 soggetti MCI sono stati classificati come giovani (< 69 anni), 89 come vecchi (70 -79 anni) e 20 come molto vecchi (> 80 anni). I tre gruppi sono risultati omogenei nelle caratteristiche demografiche, nel funzionamento cognitivo globale e nella gravità del disturbo di memoria.Tuttavia i soggetti MCI molto vecchi hanno mostrato maggiore compromissione dei soggetti MCI più giovani nei domini cognitivi non mnesici che coinvolgono le funzioni esecutive. Inoltre i soggetti MCI molto vecchi sono risultati più frequentemente classificati nel gruppo MCI amnesici multi dominio.
CONCLUSIONE
I risultati di questo studio mostrano che il profilo cognitivo dei soggetti affetti da MCI è influenzato dall’età del paziente al momento della valutazione: i soggetti più vecchi (> 80 anni) mostrano peggiori prestazioni ai test rispetto ai soggetti più giovani, in particolare nelle funzioni esecutive. Riteniamo che alla luce
di questi dati sia importante considerare l’età del soggetto al momento della valutazione nel valutare il valore predittivo della valutazione neuropsicologica. A completamento delle osservazioni fatte nel presente
studio saranno necessari studi longitudinali per valutare in quale modo l’età influenzi l’evoluzione clinica
dei soggetti con Mild Cognitive Impairment.
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LA QUALITÀ DI VITA IN SOGGETTI ANZIANI AFFETTI DA GRAVE DEMENZA:
LA STIMOLAZIONE MULTISENSORIALE IN UN NUCLEO ALZHEIMER
Viti Niccolò, Bonacina Giuliana, Barile Monica, Canedo Patricia, Fazzo Paola, Gavio Daniela,
Galetti Giuseppe
Istituto Palazzolo, Fondazione Don Carlo Gnocchi- Onlus, Milano
SCOPO
In questo lavoro sono state considerate alcune tecniche di stimolazione multisensoriale impiegate per
contrastare la progressiva compromissione delle abilità residue e per migliorare la qualità di vita dei soggetti anziani con grave demenza e ricoverati in un Nucleo Alzheimer (N.A.).
MATERIALI E METODI
Sono stati valutati, a partire dal mese di ottobre 2005 sino al mese di dicembre 2009, 65 soggetti anziani assistiti nella Residenza Arcobaleno - Nucleo Alzheimer, RSA dell’Istituto Palazzolo Fondazione Don Carlo Gnocchi - Onlus di Milano, di età compresa tra i 69 ed i 93 anni (età media 83 ± 6.7), di cui 36 donne e
29 uomini. Il punteggio medio al Mini Mental State Examination era di 5/30 ed il punteggio medio della
Clinical Dementia Rating Scale era di 3/5. Le principali attività di stimolazione multisensoriale effettuate durante il periodo analizzato sono state: 1) visive (cineterapia), 2) uditive (musicoterapia), 3) gustative (assaggio alimenti), 4) olfattive (profumi), 5) motorie e di equilibrio (FKT individuale), 6) affettive (feste di reparto), 7) grafiche (disegno libero), 8) tattili e manuali (gestione dell’orto nel giardino Alzheimer), 9) benessere personale (massaggi e cura del corpo), 10) attività esterne al reparto (uscite e passeggiate).
RISULTATI
L’analisi dei risultati ha rivelato un discreto miglioramento del tono dell’umore, con una maggiore socializzazione (punteggio medio alla scala di Cornell all’ingresso 25 - a sei mesi 18), una riduzione dei disturbi comportamentali (punteggio medio alla NPI all’ingresso 58 - a sei mesi 41), un incremento nell’autonomia e nella deambulazione (punteggio medio alla Tinetti all’ingresso 12 - a sei mesi 15) ed anche nell’igiene (punteggio medio alla Barthel all’ingresso 34 - a sei mesi 37).
CONCLUSIONE
Gli interventi effettuati nella maggioranza degli anziani con grave demenza, seppur in minima parte
e per un certo periodo di tempo, hanno contrastato la progressiva compromissione delle abilità residue,
favorito l’inserimento nel reparto, evitato l’isolamento e l’aggravamento della depressione, ridotto i disturbi comportamentali, facilitato l’incremento di alcune strategie adattive necessarie ad affrontare quotidiane situazioni stressanti (ad esempio l’igiene corporea del mattino). L’aspetto positivo di questi risultati consiste nell’aver raggiunto un certo aumento della performance cognitiva e funzionale anche in quei soggetti, con grave demenza, per i quali solitamente si esclude un qualsiasi margine di miglioramento. In alcuni casi sono stati proprio i familiari ad avvertire un possibile lieve miglioramento della qualità di vita
dei propri cari.
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PSICOGERIATRIA 2010; I - SUPPLEMENTO
LA TELEMEDICINA NELLE DEMENZE: UN AUSILIO PER CAREGIVERS
E PAZIENTI
Zaccherini Davide1, Pirani Alessandro1, Tulipani Cristina1, Lodi Simone2, Anzivino Fernando3
1 Gruppo
di Ricerca Geriatrico Interdisciplinare Operativo - Centro Delegato per i Disturbi Cognitivi Distretto Ovest - AUSL Ferrara
2 Cup 2000 E-care, Ferrara
3 Responsabile Area Programma Anziani e Responsabile Progetto Demenze - Ausl Ferrara
SCOPO
Dimostrare la fattibilità e l’efficacia di un servizio di TeleMedicina (TM) a supporto della gestione domiciliare per i pazienti con demenza e loro famigliari. Le demenze sono un modello di patologia cronica
invalidante ingravescente in cui si embricano problematiche sanitarie e socio-assistenziali che richiedono una co-gestione domiciliare integrata tra medici curanti (MMG), specialisti e servizi assistenziali. Il
Centro Delegato per i Disturbi Cognitivi ha integrato l’attività ambulatoriale con un Centro d’Ascolto Telefonico (CAT) “on demand” per caregiver, funzionante con personale professionale (geriatra e psicologo)
rivolto ai famigliari/caregivers1 per aiutarli nelle quotidiane difficoltà assistenzali2. Il follow-up telefonico
è un modello assistenziale che sostiene la compliance al trattamento assistenziale3-4, identifica il burnout nel caregiver e facilita l’accesso alle rete dei servizi. È riconosciuta l’importanza del personale non professionale nei servizi di follow-up telefonico5 ma non esistono prove certe che sia efficace anche nel controllo della compliance del paziente/caregiver e nell’adeguatezza al ricorso ai servizi delle rete territoriale. Questo studio ha sperimentato la fattibilità della trasformazione del CAT in servizio di TeleMedicina
(TM) con personale non professionale ed eventuali conseguenti modificazioni della qualità di vita di paziente e caregiver6.
MATERIALI E METODI
Casistica. 99 dementi lievi-moderati (MMSE: 14-26, al domicilio, anche con BPSD) con caregiver, suddivisi in due gruppi bilanciati per: 1) tipo di demenza; 2) comorbidità; 3) presenza di BPSD; 4) contesto socio-assistenziale-abitativo. Architettura. 1° Gruppo (sperimentale = casi 49; F = 37): i caregiver sono stati
formati ad interagire con il Call Center (CC) del servizio di TM fornito da Cup 2000, a sua volta formato a
rispondere con modalità standardizzate e check-list sanitarie e socio- assistenziali. 2° Gruppo (controllo =
casi 50; F = 36): i caregiver continuano a rivolgersi direttamente al CAT. Durata. 1 anno. Strumenti. Il Centro ha valutato al T0,T6 e T12 le aree: a) clinica/cognitiva (CIRS; MMSE); b) funzionale (ADL; IADL); c) comportamentale (NPI); d) qualità di vita (Caregiver Burden Assessment e scala Qualità di Vita); e) uso delle risorse (check-list per numero e tipologia interventi espletati dal Consultorio, da MMG, dalla rete, episodi di
acuzie, ospedalizzazione, etc). Prestazioni. 1) Funzione Call Center. lunedì-venerdì (8–18); sabato (8-13),
per i caregivers del 1° gruppo e, quando necessario, trasferimento agli operatori del Centro Delegato (geriatra, psicologo), del nucleo cure primarie (MMG, infermieri domiciliari) e dei Servizi Sociali. 2) Funzione
Follow up: contatti telefonici settimanali ai caregiver del 1° gruppo da parte del CC per monitoraggio della situazione assistenziale, supporto relazionale, informazione mirata ai bisogni specifici, orientamento alle risorse della rete territoriale.
RISULTATI
I valori medi di BPSD (NPI) si sono mantenuti stabili nei due gruppi a fine ricerca. Nel gruppo sperimentale, i caregiver ed i pazienti hanno evidenziato un miglioramento della qualità di vita anche se non significativo. Inoltre i caregiver hanno mostrato un miglioramento significativo in due sottoscale del CBA:
“disagio oggettivo” e “gratificazione assistenziale” rispetto al gruppo di controllo. Per quanto riguarda i
MMG, la TM si è dimostrata un valido supporto nell’ottimizzare l’assistenza ai loro pazienti.
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CONCLUSIONE
La TeleMedicina può costituire una valida modalità di aiuto per caregiver e MMG per migliorare la gestione domiciliare dei pazienti dementi, mostrando di influenzare positivamente la qualità di vita caregiver
e dei loro famigliari con demenza.
BIBLIOGRAFIA
1
Mace NL, Rabins PV. Un giorno di 36 ore. Il Pensiero Scientifico. Roma, 1987.
2
Florenzano F. La vita quotidiana con il demente, EdUP Edizioni, Roma, 1994.
3
Centro Ascolto Solidalmente. SAA Comune di Modena - AUSL Modena.
4
http://serdom.comune.modena.it/solidalmente.shtml
5
Lewin SA et al.,The Cochrane Library, 2005.
6
Pirani A, Marchesini L, Romagnoli F,Tulipani C, Zuccherini D, Bastelli C, De Togni A, Anzivino F. Misurare la Qualità di Vita del Caregiver: Un Progetto Ferrarese. Convegno “Alzheimer: la Qualità di Vita del Caregiver”. Atti Convegno “Alzheimer: qualità di vita
del Caregiver” 13 Dicembre, 2006, Palazzo Bonacossi, Ferrara.
Psicogeriatria 110 SUPP B:Psicogeritria Supplemento B
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Finito di stampare nel mese di marzo 2010
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