Rassegna stampa
A cura dell’Ufficio Stampa
FIDAS Nazionale
Mercoledì 01 marzo 2016
Rassegna associativa
2
Rassegna Sangue e emoderivati
6
Rassegna sanitaria, medico-scientifica e Terzo settore
Prima pagina
11
16
Rassegna associativa
Rassegna
sangue e emoderivati
Corriere di Verona (01 marzo)
È una reazione eccessiva di globuli bianchi a
causare la fibrosi cistica
VERONA Volete sconfiggere la fibrosi cistica? Mirate ai globuli bianchi. La scoperta, ai non
addetti ai lavori, può apparire una «banale» questione di classificazione. Niente farmaci
miracolosi né cure che cambieranno la vita di chi soffre di questa malattie genetica. Almeno per il momento. I ricercatori dell'università e dell'Azienda ospedaliera hanno fatto qualcos'altro, hanno dato un altro nome alla patologia: non più (o meglio, non solo) fibrosi cistica, ma anche «sindrome da deficit di adesione leucocitaria di tipo quattro». Un semplice
lavoro da dizionario medico? Tutt'altro. Dietro lo studio del team scaligero c'è una specie
di «rivoluzione copernicana» nei confronti della malattia: non viene più vista come qualcosa in cui a «funzionare male» è il polmone, l'organo più colpito nelle persone (in Italia una
su 2900) che ne soffrono. La vera ragione dietro ai sintomi (infezioni polmonari ricorrenti,
insufficienza pancreatica, cirrosi epatica e ostruzione intestinale) va trovata in alcuni linfociti, ossia le cellule che, funzionando normalmente, proteggono il corpo dagli attacchi
esterni. In particolare, sotto la lente dei ricercatori, sono finiti i monociti, i globuli bianchi
di dimensioni maggiori. Secondo lo studio, pubblicato dall'American Journal of Respiratory
and Critical Care Medicine, rivista di riferimento del settore, è una loro reazione eccessiva
a danneggiare, nella fibrosi cistica, l'apparato respiratorio. «Un loro difetto di funzionamento - spiega Claudio Sorio, direttore laboratorio dipartimentale di ricerca applicata alla
fibrosi cistica "Daniele Lissandrini", una delle struttura di ricerca che firma lo studio - a
sua volta causato da un altro difetto in gene già identificato, può contribuire all'alterata
risposta infiammatoria nel polmone del paziente con fibrosi cistica. I monociti, in questa
situazione, vengono intrappolati e si accumulano facilitando così un eccessivo richiamo di
un altro tipo di globuli bianchi, i polimorfonucleati neutrofili, che vanno a infiltrare il polmone e si riversano nelle vie aeree producendo il tipico espettorato purulento, altamente
lesivo verso i tessuti broncopolmonari». La novità assoluta dello studio è l'accostamento
della fibrosi cistica ad un'altra classe di malattie, quelle da adesione leucocitaria (Lad, secondo l'acronimo in inglese). «Ne esistono altri tre tipi - prosegue Sorio - note in letteratura perché impediscono ai leucociti di aderire bene ai tessuti: di conseguenza causano
infezioni batteriche. Nella fibrosi cistica, lo stesso fenomeno ottiene risultati opposti,
un'eccessiva adesione, con la conseguente risposta infiammatoria».Ci potranno essere
conseguenze anche sulle cure? Difficile da dire. «Certamente - conclude Sorio - lo studio
indica che, nella fibrosi cistica bisogna "guardare" anche ai monociti. Una possibile strada
è farlo con la terapia genetica, finora focalizzata a guarire i polmoni». Allo studio, durato
cinque anni ha preso pa+rte anche il Laboratorio di ricerca sui Sistemi di trasduzione del
segnale e Traffico Leucocitario, diretto da Carlo Laudanna, e ha collaborato inoltre, Paola
Melotti del Centro fibrosi cistica di Borgo Trento. Davide Orsato
Oggi Scienza
(01 marzo)
CONTAGIO DA HIV IN LABORATORIO, “IL PRIMO CASO AL MONDO”
Il paziente X ha scoperto la sieropositività andando a donare il sangue. Il caso, senza precedenti, è stato
presentato alla Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections
Nel laboratorio erano al lavoro altri ricercatori e a oggi non sembrano essersi verificati incidenti tali
da far pensare a un rischio di contagio.
CRONACA- Un contagio accidentale da HIV avvenuto in laboratorio, lavorando con dei ceppi del virus teoricamente non infettivi. Il caso è stato presentato al congresso CROI (Conference on Retroviruses and Opportunistic Infections) di Boston pochi giorni fa da un gruppo di scienziati italiani,
aprendo la strada a una serie di interrogativi.
L’italiano/a è stato/a contagiato/a in un laboratorio europeo -come riferisce l’inviata a Boston del
Corriere– e avrebbe scoperto la sieropositività tramite una donazione di sangue all’ospedale. Tuttavia, dopo aver sequenziato il virus gli scienziati hanno scoperto che si tratta di uno creato in laboratorio, non umano. È “il primo caso al mondo” ha commentato ad AdnKronos Andrea Gori, il direttore del reparto Malattie infettive dell’ospedale San Gerardo di Monza che ha parlato a Boston.
“Pensavamo fosse impossibile”.
A riportare il caso è stato proprio un gruppo di scienziati italiani, con l’obiettivo di spingere a una
riflessione sul livello di biosicurezza nei laboratori. Quello dove sarebbe avvenuto il contagio è a
media sicurezza e vi si creano i cosiddetti HIV-1 ricombinanti, virus considerati non infettivi costruiti
a partire dai plasmidi (molecole di DNA a doppia elica). Le tecniche sono le stesse “che si utilizzano
per la ricerca sui vaccini per l’HIV e alla base di tutte le terapie geniche”, ha detto Gori. Nel medesimo laboratorio erano al lavoro altri ricercatori e a oggi non sembrano essersi verificati incidenti tali
da far pensare a un rischio di contagio. Ma laddove il contagio c’è stato, il come resta ignoto.
L’italiano/a contagiato, quando si è presentato al San Gerardo dopo aver scoperto la sieropositività, non riferiva alcun errore accidentale, nessuna puntura, rottura di guanti o tagli che potessero
averlo esposto al contagio durante le sue ricerche. Infatti “il problema è che dalla sua anamnesi
non risultava alcun fattore di rischio”, ricostruisce Gori nell’intervista all’agenzia. Poi il personale
medico ha scoperto che era stato all’estero in un laboratorio che lavora con i costrutti dell’HIV e,
da lì, ha cominciato a sospettare che potesse essersi verificato un errore.
Sequenziare il virus ne ha rivelato le caratteristiche genetiche derivanti proprio dai costrutti HIV-1
ricombinanti usati in laboratorio. “È emerso che questi costrutti si sarebbero dovuti utilizzare in
una situazione di sicurezza diversa”. I livelli di biosicurezza sono 4 in tutto e, pensando di usare
vettori non replicanti per i quali è sufficiente un livello 2, il paziente si è infettato con un plasmide,
il vettore replicante che richiede un livello 3.
Il virus sequenziato dal paziente, oltre a non essere umano, esprime una proteina chiamata nef, che
secondo gli scienziati sarebbe in grado di aumentare l’infettività del virus HIV. Il gene nef non è presente nei costrutti iniziali, perciò rimane un’incognita anche come abbia fatto il suo ingresso nel virus
ricombinante. Il paziente ha lavorato con materiale genetico molto pericoloso in condizioni di sicurezza non corrette, ma come si è infettato? Una delle ipotesi risiede nelle elevate concentrazioni dei
costrutti sui quali stava lavorando: nel laboratorio “si utilizzava la glicoproteina del Vsv come ‘cavallo
di Troia’ per entrare nelle cellule e, se veicolata da quel vettore, avrebbe potuto espandere in maniera esponenziale le capacità infettiva del costrutto”.
Il paziente si occupava proprio di questi esperimenti ed è arrivato a maneggiare un costrutto estremamente pericoloso, il vettore che, una volta legato a una glicoproteina, riesce a entrare in molte
delle cellule del nostro organismo e non solamente in quelle che sono normalmente considerate
bersaglio del virus HIV. L’intervista su AdnKronos si conclude con la promessa di nuovi dati, che arriveranno a breve in una pubblicazione, e un’ipotesi su come sia avvenuto il contagio. “Noi pensiamo
a livello respiratorio. Il fatto che fosse legato alla glicoproteina del Vsv può in parte spiegare la maggiore contagiosità di questo costrutto. Contagio che potrebbe per ipotesi arrivare per via respiratoria”.
CATANZAROINFORMA.IT
SANITA' E SALUTE
Riconoscimento europeo per il centro emofilia del
Pugliese Ciaccio
La nota di congratulazioni e compiacimento dell'ematologo Muleo
Martedì 01 Marzo 2016 - 17:32
Ho appreso con grande soddisfazione la notizia che il Centro Emofilia, Emostasi e
Trombosi dell’AO “Pugliese-Ciaccio” di Catanzaro è stato certificato dalla European Haemophilia Network (EUHANET) come European Haemophilia Comprehensive Care Centre. Un riconoscimento che colloca la struttura, oggi diretta dalla dottoressa Rita Santoro, tra le eccellenza italiane ed europee per il trattamento
globale dell'emofilia e delle coagulopatie emorragiche ereditarie. Basti pensare
che, a livello nazionale, i Centri certificati sono in tutto nove, solo sei dei quali
con certificazione di secondo livello (offrono cioè assistenza completa e non di base) e tra questi ultimi, unico da Firenze in giù, proprio il Centro dell’AO catanzarese.
La notizia è per me motivo di orgoglio sincero e legittimo: come cittadino catanzarese, come medico ma anche, se mi è concesso, come ex direttore del Centro. Mi
piace pensare che tutto il lavoro fatto, tutto ciò che insieme con i colleghi abbiamo
seminato negli anni, approdi oggi a un risultato che non esito a definire straordinario, ottenuto grazie a chi ha saputo raccogliere il testimone di quell’impegno,
continuando a tenere altissimo il livello delle prestazioni sanitarie erogate. Voglio
per questo esprimere le mie più affettuose felicitazioni alla collega Santoro e a tutto il personale che con lei collabora e che ha concorso a tagliare il prestigioso
traguardo.
Il programma EUHANET è finanziato dalla Commissione Europea attraverso l’Executive Agency for Health and Consumers, che ha tra i suoi obiettivi la definizione di standard europei per i Centri Emofilia, con lo scopo di creare una rete di
strutture che lavorino insieme al miglioramento della qualità delle cure fornite ai
cittadini dell’UE, affetti da malattie emorragiche ereditarie. Da tutto questo si intuiscono facilmente la portata e il significato della certificazione ottenuta dal Centro Emofilia dell’azienda ospedaliera del capoluogo di regione, che viene così
proiettata, come merita, in una dimensione di respiro internazionale.
Rassegna
Politica sanitaria,
Medico-scientifica e
Terzo Settore
Prima pagina