Catechesi sul DISCORSO DELLA MONTAGNA/3 (Mt 5, 13-20) materiale per l’animatore) Vedi commento contenuto in UCD Verona, «Siate perfetti come il Padre vostro …», EDB, Bologna 1995, pp. 41-53; 145-149. L’ incontro potrebbe svolgersi in questo modo: Preghiera iniziale Lettura del testo Viene letto il testo del Vangelo. biblico Dopo qualche minuto di silenzio, si chiede di entrare nel testo con le proprie valutazioni. Cfr. domande sul foglietto. L’immagine del sale indica una presenza nascosta, che insaporisce, ma Ripresa (1) che non ha una evidenza in se stessa (un sale che fosse evidente sarebbe sale/luce disgustoso). L’immagine della luce (e soprattutto quella della città sopra il monte) indica una diretta visibilità del cristiano… La storia della Chiesa e l’attuale modo di porsi dei cristiani nel mondo assume entrambi i modelli di presenza. Qualche decennio fa era in voga la contrapposizione fra Cristiani della presenza (luce/città visibile) e Cristiani della mediazione (sale, lievito…). Approfondimento Ripresa (2) Ogni iota della legge Non ci è dato di optare per l’una o per l’altra forma in modo definitivo, escludendo l’altra; però ognuno di noi si sente più a suo agio in una modalità. Come approfondimento può essere scelto, in tutto o in parte, uno dei due testi di E. Bianchi riportati qui sotto. Come si concilia la libertà cristiana con l’obbedienza ad ogni iota della legge? Non basta dire (come s. Agostino) “Ama e fa’ quello che vuoi”, poiché “pieno compimento della legge è l’amore” (Rom 13,10)? Che senso hanno tante minute osservanze? Risposta: Carattere pedagogico della legge (non dobbiamo presumere di noi; per esempio credere di essere animati dalla carità, se nemmeno rispettiamo la giustizia… Carattere di “culto” connesso ad una libera ed abituale disponibilità ai precetti del Signore, non nello spirito del perfezionismo, ma in quello dell’amore e del timore del Signore (cfr. testo sulla “santificazione del Nome” qui di seguito). Si termina con la lettura del PADRE NOSTRO nella forma proposta dal foglietto. Mt 5,13-20 (don Flavio Dalla Vecchia) I vv. 13-16 fanno da ponte tra le beatitudini e il resto del discorso, proclamando la responsabilità dei discepoli nei confronti del mondo. Matteo riceve dalla tradizione alcuni detti di Gesù (cfr. Mc 9,50 - il sale e 4,21 - la lampada), che per tanti aspetti risultano enigmatici; l’evangelista ne chiarisce il significato applicandoli ai discepoli, e in ultima istanza alla Chiesa. Va sottolineato che le immagini presenti nei detti hanno un chiaro sfondo in diversi contesti dell’AT, fatto questo che ne chiarisce ulteriormente significato e rilevanza. La forma dei detti è assai determinante: Gesù passa dall’indicativo (siete), all’imperativo (siate). L’imperativo non è dunque il primo elemento: decisiva è la nuova situazione nella quale sono ora collocati i discepoli (quella descritta nelle beatitudini) dalla quale deriva al loro responsabilità nei confronti dell’umanità. La prima immagine non è del tutto chiara. Sale della terra è una metafora strana, poiché non è immediatamente chiaro ciò che significa, perciò incuriosisce. Non riguarda, tuttavia, il terreno - il sale non è un concime normalmente - ma il mondo (cfr. v. 14). Il sale poteva essere usato per condire, per conservare, per purificare. La storia della ricezione mostra che varie sono state le linee interpretative: con sale è stata intesa la saggezza dei discepoli (cf. rito del battesimo), la loro predicazione, la disponibilità al sacrificio o al cambiamento di vita. La notazione che il sale potrebbe perdere il sapore (più propriamente diventare sciocco) induce a preferire l’uso del sale per condire; ma il peso cade sull’essere gettato! Il sale non è sale per se stesso, ma condimento per il cibo; così i discepoli non sono qui per se stessi ma per la terra. Così dichiara Gb 6,6: Si mangia forse un cibo insipido, senza sale? O che gusto c’è nell'acqua di malva? Dunque il compito dei discepoli è dare sapore, ma non va trascurata la funzione del sale di preservare. Si tratta di dare sapore e quindi di dare senso alla vita, ma anche di conservarne i valori preservandola dal pericolo di deteriorarsi. L’immagine invita inoltre a tener presente che il sale nella realtà non è qualcosa di separato da ciò a cui dà sapore: dare senso non è dunque creare un mondo alternativo al presente, ma dare gusto a questo. L’immagine della luce richiama numerosi riferimenti nell’AT, ma anche nel NT. Dio è luce, ma anche la legge (cfr. Sap 18,4), il popolo, Gerusalemme, il servo del Signore (cfr. Is 42,6; 49,6), la sapienza e infine Gesù (cfr. Gv 8,12). Illuminati dalla luce che è Cristo (cfr. Mt 4,16), i discepoli diventano a loro volta luce per l’umanità. Mentre il sale sembra sparire nell’amalgama dei cibi, la luce richiama l’idea di una presenza permanente, resta sempre presente, ma come ciò che fa risaltare le cose che illumina. I discepoli nel vivere la loro identità sono luce, danno gusto e senso all’umanità. Come non si mette la lampada in un vaso (il moggio è un’unità di misura - 8,75 litri - ma anche un recipiente), così i discepoli, come Gerusalemme nell’AT, sono una città collocata sul monte. In tal modo la metafora mette al centro la visibilità. Il v. 16 rappresenta poi la chiave riassuntiva di tutte queste affermazioni, sottolineando che testimonianza è connaturata all’essere Chiesa: non si può dunque essere discepoli senza essere missionari. Ciò però che deve risaltare sono le opere buone, cioè lo stile di vita realizzato secondo le beatitudini (e secondo le successive antitesi), per glorificare il Padre. La vita dei discepoli diventa in tal modo trasparenza della realtà di Dio, per cui Dio sarà glorificato attraverso la loro umanità. Come il discepolato significa il compimento dei comandamenti di Gesù, così anche nella predicazione la vita dei cristiani occupa un posto determinante. Nei vv. 17-20 incontriamo quattro detti singoli (loghia), l’ultimo dei quali potrebbe valere da titolo o da ricapitolazione anticipata delle antitesi successive. A dire il vero, i vv.17-19 non sono direttamente collegati alle antitesi: trattano della validità della legge, non della giustizia dei discepoli; ma collocando questi versetti all’inizio della sezione principale del discorso, Mt indica chiaramente che essi rivestono per lui un’importanza fondamentale. Qui è in discussione il rapporto con la legge mosaica (Torah) e perciò con il giudaismo, anche se l’interpretazione è stata sempre controversa. Nel v. 17, Mt non pensa al compimento delle profezie della legge e dei profeti; nel contesto il detto si applica a Gesù che compie gli insegnamenti di legge e profeti. Ma che significano abolire e compiere? Li si può riferire all’insegnamento di Gesù o alla sua vita: in entrambi i casi risultano comunque ambigui e ammettono diverse sfumature interpretative. Dal significato dei due verbi è tutt’al più possibile pensare a un compimento della legge grazie all’obbedienza di Gesù; ma il contesto seguente consente anche di pensare al suo insegnamento, sebbene in Mt si noti una precedenza data alla prassi. Il verbo compiere ha in Mt un riferimento esclusivamente cristologico (riferito alla missione di Cristo). Il detto del v.17, introdotto con sono venuto, è in linea con passi in cui si tratta dell’invito tutto speciale di Gesù a compiere la volontà del Padre. In tale chiave di lettura, i vv. 18-19 non fanno che trarre le conseguenze del v. 17. Nei vv.17-19, Mt ha accolto una tradizione giudeo-cristiana che pretende l’osservanza di tutti i singoli comandamenti ed esclude una critica concreta ai comandamenti della Torah. Quale differenza vi è allora tra la comunità matteana e il giudaismo? Per Mt - a partire da Gesù - è in linea di principio chiaro che il comandamento dell’amore rappresenta il comandamento principale, mentre i comandamenti rituali sono iota e apice, però i comandamenti rituali sono pur sempre parti della legge che Gesù adempie nella sua totalità. Nel v. 20 ritorna di nuovo al centro il comportamento umano, esplicitato nelle antitesi. Appunto tale esplicitazione chiarisce che la maggiore giustizia non pone l’accento sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità (il comandamento dell’amore). «I detti riguardanti la permanente validità della Torah come interpretata da Gesù (5,17-20) servono a ribadire l’idea del rapporto organico tra il giudaismo e il cristianesimo matteano. Ci ricordano che almeno alcuni cristiani della fine del primo secolo dopo Cristo non vedevano nessuna contraddizione nel seguire sia la Torah che gli insegnamenti di Gesù. Questo fatto dovrebbe servire a prevenire qualsiasi insensato attacco al “legalismo ebraico” [... Questo comporta] il rispetto per lo sfondo ebraico e per l’ambientazione in cui questi testi hanno avuto origine» (D.J. Harrington). Perchè il sale cristiano non perda sapore (Enzo Bianchi) La Stampa, 15 giugno 2008 Nel faticoso procedere del dibattito sulla presenza dei cristiani nella società, sulla loro influenza e visibilità e sulla laicità delle istituzioni si avverte a volte il rischio di un fraintendimento delle rispettive posizioni, una precomprensione di alcuni termini o l’applicazione al linguaggio dell’altro di schemi mentali che non gli appartengono. Sono le normali difficoltà di un dialogo che non sia semplice sovrapporsi di due monologhi, ma perché questo rischio congenito non trasformi il dibattito in un dialogo tra sordi è necessario l’ascolto di ciò che l’altro dice e di come si definisce, la volontà di capire in profondità anche al di là delle espressioni usate, lo sguardo capace di abbracciare ambiti e periodi storici più ampi del contingente: l’arte del dialogo è ben altra cosa della retorica raffinata. Sono difficoltà di questo tipo che mi paiono affiorare con particolare frequenza quando si riflette sulle immagini di “Chiesa” presenti nel vissuto e nell’immaginario della realtà italiana e che finiscono troppo spesso per essere contrapposte. Non mi riferisco tanto alla sbrigativa identificazione che i media normalmente fanno tra “Chiesa” e “gerarchia” o parti di essa, né intendo affrontare qui il pur importante argomento del ruolo del “laicato” all’interno della Chiesa cattolica, penso invece a un’ambiguità che ricompare sovente quando la lettura dell’impatto del cristianesimo nella nostra società evoca le esigenze radicali del vangelo. Non manca infatti chi, al solo sentirle nominare, le cataloga come pretese elitarie che si contrapporrebbero a una “buona notizia” alla portata di tutti. Ora, fin dal suo primo apparire storico e dalla sua rapida diffusione, il messaggio cristiano non è mai stato riservato a un’élite, né intellettuale né economica. Questo però non significa che non sia possibile una riflessione sulla qualità della testimonianza resa dai cristiani, sulla loro coerenza con le parole e le azioni di colui che confessano come loro Signore. Così come dovrebbero esistere dei modi più articolati di quelli desumibili dalle anagrafi parrocchiali per i battesimi e i matrimoni per “contare” e “pesare” i cristiani e il loro contributo all’edificazione di una casa comune. Quando mi accade di proseguire le mie riflessioni sulla “differenza cristiana” che deve essere visibile e leggibile nell’oggi della storia per non appiattirsi sulla mentalità mondana dominante, avverto reazioni di chi ritiene che quanti la pensano come me auspichino una Chiesa di puri e duri, una ristretta cerchia di iniziati che guarda dall’alto in basso la quotidianità della vita nelle parrocchie e nei gruppi ecclesiali o che ignora la portata di certi eventi di massa, quasi che ci si compiacesse della situazione oggettiva di minoranza in cui i cristiani si sono venuti a trovare ormai anche in Italia. Ora, non vi è nulla da rallegrarsi nel fatto che solo un quinto di quanti si dichiarano cattolici ha un legame reale e non sporadico con la comunità cristiana e la sua vita liturgica, ma non serve nemmeno vantare le cifre più incoraggianti per una lettura approfondita dell’impatto che il vangelo e la concreta comunità cristiana hanno oggi nella nostra società. Benedetto XVI non cessa di parlare di “chiamata radicale del vangelo”, di “esigenze radicali della sequela”, di “coerenza tra vissuto e fede” come caratteri distintivi della comunità cristiana che, anche in condizioni di minoranza, resta così testimone di Cristo e capace di evangelizzare proprio attraverso la “differenza cristiana”. Sì, essere “sale della terra”, come Gesù ha definito i suoi discepoli, non significa considerarsi migliori degli altri, tenersi lontani dalle espressioni più popolari della fede, diffidare del comune sentire di quanti vivono come meglio possono la coerenza con il proprio battesimo; significa, al contrario, sapersi e riconoscersi “peccatori come i nostri padri”, bisognosi di concreta e quotidiana misericordia anche da parte dei propri fratelli nella fede. Ma vuol dire anche non accontentarsi di un cristianesimo “minimo”, richiedere e favorire scelte coerenti con una vita cristiana il più possibile fedele al messaggio evangelico: quanti di noi non hanno conosciuto uomini e donne estremamente semplici, con scarsissimi strumenti culturali, eppure capaci di gesti e scelte quotidiane esemplarmente conformi alla fede professata? Ben altra cosa – questa straordinaria ordinarietà del vangelo vissuto giorno dopo giorno, con serenità e serietà – dall’attraente modello di una religione forte, incarnato in minoranze attive ed efficaci, capaci di assicurare identità e visibilità per il peso specifico che riescono ad assumere. La testimonianza della fede cristiana deve essere abitata da una esigente dinamica spirituale, da una tensione a caro prezzo verso i principi evangelici fondamentali: solo così sarà capace anche di scuotere l’assuefazione a stili di vita che, pur diffusissimi e pertanto considerati “normali”, contraddicono le istanze cristiane più autentiche. Senza questa vigilanza, senza il discernimento tra ciò che è bene e ciò che è male per me, per gli altri, per l’insieme della convivenza, i cristiani corrono il rischio di divenire sale che perde il suo sapore, di contraddire quel “tra voi non è così” che Gesù rivolse ai suoi discepoli mettendoli in guardia dall’agire come “coloro che sono ritenuti i capi delle nazioni”. Percorso esigente, certo, ma non elitario; percorso che rende possibile la complementarietà di due esigenze fondamentali per il cristiano, oggi come sempre: l’ascolto della volontà di Dio manifestata nella sua Parola e nella persona di Gesù di Nazaret e, d’altro lato, l’ascolto dei propri fratelli e sorelle in umanità; percorso non agevole, ma capace di dare e ridare senso alla propria e alle altrui esistenze e, di conseguenza, di contribuire a una vita in comune qualitativamente più umana. Il vero cristiano sa comunicare la gioia da E. Bianchi, La differenza cristiana, Einaudi, Torino 2006. Nel nostro orizzonte ci sono oggi due fenomeni con cui l'evangelizzazione si trova a fare i conti: l'indifferentismo della maggior parte degli uomini delle nostre società post-cristiane e il pluralismo religioso, dovuto soprattutto alle migrazioni di credenti di altre religioni nel nostro continente. Entrambi mettono in crisi non solo le forme e i modi, ma la stessa plausibilità dell'evangelizzazione: sono fenomeni dolorosi per la coscienza credente perché non la contestano frontalmente, non la combattono apertamente, ma affermano, con il loro stesso esserci, che il cristianesimo può essere insignificante e che si può vivere bene anche senza di esso. L'indifferenza religiosa pone la Chiesa di fronte allo spettro della propria possibile insignificanza e inutilità, mentre il pluralismo religioso fa intravedere al cristianesimo la possibilità di doversi considerare una proposta tra le altre, senza titoli di superiorità né, tanto meno, di assolutezza. L'indifferenza di chi è deluso dalla fine delle ideologie, l'indifferenza di ex credenti frustrati nella loro attesa di un rinnovamento ecclesiale, l'indifferenza dell'homo technologicus convinto di poter dominare tutto attraverso la tecnica appare ai cristiani come enigmatica e grande nemica. Eppure, li stimola a porsi domande salutari: perché il cristianesimo ha cessato di essere interessante agli occhi di molti? E i cristiani, sono essi stessi davvero «evangelizzati», così da poter essere efficaci «evangelizzatori»? Sanno davvero esprimere e comunicare la loro peculiarità, la loro «differenza»? Non dimentichiamo che l'indifferenza cresce man mano che scompare la differenza! Del resto, il cristianesimo è un'offerta, non un'imposizione, e non pretende di avere il monopolio della felicità, ma afferma di trovarla nella vita secondo Gesù Cristo. Il fatto che vi siano degli atei, allora, non fa che rafforzare la scelta di libertà che sta alla base di una vita cristiana. Il problema serio, se mai, è che non siano i cristiani stessi e le chiese a produrre atei con i loro atteggiamenti disumani e intolleranti, con la pratica dell'autosufficienza e del non ascolto. Quanto al pluralismo religioso, occorre non essere astratti: non si incontra mai l'islam o una religione, bensì uomini e donne che appartengono a determinate tradizioni religiose e per i quali questa appartenenza è un aspetto di un'identità molteplice e non monolitica. In questo «camminare accanto», in questo vivere gli uni a fianco degli altri, i cristiani non devono imboccare vie apologetiche né assumere atteggiamenti difensivi o, peggio ancora, aggressivi, ma devono saper creare spazi di vita e di accoglienza in vista dell'edificazione di una polis non semplicemente multiculturale e multireligiosa ma interculturale e interreligiosa. Qui più che mai i cristiani sono chiamati a creare spazi comunitari a partire dalla loro capacità di essere uomini e donne di comunione e a rendere le loro chiese autentiche «case e scuole di comunione» per tutti gli uomini. Il cammino di evangelizzazione richiede conoscenza dell'altro e della sua fede, capacità «pentecostale» di parlare la lingua dell'altro, di farsi prossimo in senso evangelico di chi si è fatto vicino a noi fisicamente, mostrando così di credere nell'unico Padre e di riconoscere la fraternità universale. Di fronte all'altro per lingua, etnia, religione, cultura, usi alimentari e medici, prima di evangelizzare occorre imparare l'alfabeto con cui rivolgersi a lui, manifestando concretamente una vicinanza e una simpatia «cordiali». Solo in questo modo si potrà «costruire una casa comune per l'umanità nella quale Dio possa vivere». Oggi ai cristiani è chiesto di non venir meno al loro compito di annunciare il vangelo, ma questo annuncio non può essere disgiunto da una buona comunicazione, un comportamento limpido, una pratica cordiale dell'ascolto, del confronto e dell'alterità. Sì, l'annuncio cristiano non deve avvenire a ogni costo, né attraverso forme arroganti, né con un'ostentazione di certezze che mortificano o con splendori di verità che abbagliano. Infatti, come ricordava già Ignazio di Antiochia all'inizio del II secolo: «il cristianesimo è opera di grandezza, non di persuasione». Paolo VI ha più volte chiesto alla Chiesa, in vista dell'evangelizzazione, di «farsi dialogo, conversazione, di guardare con immensa simpatia al mondo perché, se anche il mondo sembra estraneo al cristianesimo, la Chiesa non può sentirsi estranea al mondo, qualunque sia l'atteggiamento del mondo verso la Chiesa». Ecco perché occorre innanzitutto che i cristiani siano loro stessi «evangelizzati», discepoli alla sequela del Signore piuttosto che militanti improvvisati: così sapranno mostrare la «differenza» cristiana. I cristiani non cerchino visibilità a ogni costo, non rincorrano la sovraesposizione per evangelizzare, non si servano di strumenti forti di potere ma, custodendo con massima cura, quasi con gelosia, la Parola cristiana, sappiano innanzi tutto essere testimoni di quel Gesù che ha raccontato Dio agli uomini con la sua vita umana. Il primo mezzo di evangelizzazione resta la testimonianza quotidiana di una vita autenticamente cristiana, una vita fedele al Signore, una vita segnata da libertà, gratuità, giustizia, condivisione, pace, una vita giustificata dalle ragioni della speranza. Questa vita improntata a quella di Gesù potrà suscitare interrogativi, far nascere domande, così che ai cristiani verrà chiesto di «rendere conto della speranza che li abita» e della fonte del loro comportamento. Per questo servono uomini e donne che narrino con la loro esistenza stessa che la vita cristiana è «buona»: quale segno più grande di una vita abitata dalla carità, dal fare il bene, dall'amore gratuito che giunge ad abbracciare anche il nemico, una vita di servizio tra gli uomini, soprattutto i più poveri, gli ultimi, le vittime della storia? Teofilo di Antiochia, un vescovo del II secolo, ai pagani che gli chiedevano «mostrami il tuo Dio», ribaltava la domanda: «mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il tuo Dio», mostrami la tua umanità e noi cristiani, attraverso la nostra umanità, vi diremo chi è il nostro Dio. I cristiani del XXI secolo possono dire questo? Sanno mostrare una fede che plasma la loro vita a imitazione di quella di Gesù, fino a far apparire in essi la differenza cristiana? La loro vita propone una forma di uomo, un modo umano di vivere che racconti Dio, attraverso Gesù Cristo? Nella lotta di Gesù contro ciò che è inumano, nella lotta dell'amore, c'è stato spazio anche per un'esistenza umanamente bella, arricchita dalla gioia dell'amicizia, circondata dall'armonia della creazione e illuminata da uno sguardo di amore su tutte le realtà più concrete di un'esistenza umana. Perché anche le gioie e le fatiche che il cristiano incontra ogni giorno diventino eventi di bellezza occorre una vita capace di cogliere sinfonicamente la propria esistenza assieme a quella degli altri e del creato intero. Così, la vita del cristiano che vuole annunciare Gesù come «uomo secondo Dio» sarà anche, a imitazione di quella del suo Signore, una vita felice, beata. Certo, non in senso mondano e banale, ma felice nel senso vero, profondo, perché la felicità è la risposta alla ricerca di senso. Tale dovrebbe essere la vita cristiana: liberata dagli idoli alienanti come dalle comprensioni svianti della religione, contrassegnata dalla speranza e dalla bellezza. LA SANTIFICAZIONE DEL NOME I vocaboli del linguaggio cristiano "martire" e "martirio" risalgono, come è noto, alla parola greca che indica testimone e testimonianza. Ciò non accade nell'ebraismo: la parola ‘ed designa il testimone, non il martire. In ebraico c'è invece una coppia di espressioni opposte, e correlate anche concettualmente, qiddush ha-Shem e chillul haShem, che alla lettera significano "santificazione del Nome [di Dio]" e "profanazione del Nome", entrambe di origine biblica. Come si santifica il Nome di Dio? Con la preghiera, con la condotta, con il martirio; così come si profana il Nome di Dio con l'immoralità e "calpestando come la polvere della terra la testa dei poveri" (Am 2,7). Questa diversità semantica rispetto al lessico cristiano ha una sua ragione teologica: il martire cristiano è colui che muore per testimoniare la sua fede, il martire ebreo è colui che muore per non venir meno alla volontà di Dio espressa nei precetti: "è scritto (Es 20,6): 'Coloro che amano e osservano i miei comandamenti'. Rabbi Natan disse: 'Questi sono i figli d'Israele che hanno dato la loro vita per i precetti'. 'Perché sei condotto alla decapitazione?'. 'Perché ho circonciso mio figlio affinché fosse un figlio d'Israele'. 'E perché sei condotto a essere arso?'. 'Perché ho letto la Torà'. 'E perché sei condotto a essere crocifisso?'. 'Perché ho mangiato pane azzimo'. 'E perché sei flagellato?'. 'Perché ho portato il lulav [mazzo di palma, mirto e salice usato nella festa delle Capanne]. Queste piaghe mi hanno fatto amare dal Padre mio che è nei cieli"' (Mekhilta', Bachodesh 6). Di fatto, anche questo tipo di martirio è incluso nella concezione cristiana: basti pensare ai sette fratelli Maccabei, alla loro madre Anna (il suo nome è nelle fonti talmudiche), al vecchio Eleazaro, tutti personaggi del Il libro dei Maccabei (che si trova solo nella Bibbia cattolica e ortodossa), morti per non violare le leggi della kasherut, dei cibi puri e impuri, che - ironia del canone! - sono tra le leggi rituali ebraiche più spesso disprezzate dai cristiani. La coscienza di questi martiri è bene espressa dal racconto talmudico, leggermente diverso nelle motivazioni (i sette fratelli rifiutano l'idolatria): "Quando lo presero [l'ultimo fratello] per ucciderlo, sua madre disse: 'Datemelo ché lo possa baciare un momento'. Allora gli disse: 'Figlio mio, va' e di' ad Abramo vostro padre: Tu hai eretto un altare, io ho eretto sette altari'. Poi salì sul tetto, si gettò giù e morì. E una voce celeste disse: 'Madre gioiosa di figli!' (Sal 113,9)" (bGhittin 57b). Se all'origine del martirio ebraico sta l'ubbidienza e all'origine del martirio cristiano la fede, non bisogna, come appunto mostrano gli esempi citati, farne due categorie separate. Il tema della testimonianza gioca un ruolo fondamentale nella "santificazione del Nome", come appare anche dalla normativa stabilita in proposito dal sinodo rabbinico di Lod o Lidda (Il sec. e.v.). Allora, partendo dal principio che "un uomo deve vivere per la pratica dei precetti divini, e non morire a causa di essi" (Tanchuma' 81a), si decretò che "un uomo può violare tutte le leggi per salvarsi la vita, tranne queste tre: divieto di idolatria, fornicazioneincesto-adulterio, e omicidio. Ma questa regola vale soltanto se uno è solo, o sono presenti meno di dieci uomini [dieci uomini costituiscono già la comunità, l'ekklesia]. In pubblico, bisogna morire piuttosto che violare anche il più piccolo precetto" (jShev’it 35a). Questo, perché non si dia testimonianza di scandalo, cioè chillui ha-Shem: e a tale principio si erano attenuti i leggendari fratelli Maccabei. D'altro lato, nel suo codice rituale, Mosè Maimonide, prendendo posizione nella disputa sulla liceità di ricercare il martirio, sostiene che chi sceglie il martirio nei casi in cui la legge sceglie la vita, è colpevole (Jad chazaka', Jesode' haTorà 5,1). La normativa di Lod prende forma nel periodo delle due guerre giudaiche, periodo nel quale non a caso l'accezione di qiddush ha-Shem come martirio prevalse sulle altre due indicate sopra, e nel quale accanto ai numerosi casi di martirio individuale, tra cui il celebre martirio di rabbi Aqiva, si manifestarono anche casi di martirio collettivo in forma di suicidio di massa, come quello dei 960 difensori di Masada contro i romani nel 73 e.v. Sul suicidio come qiddush haShem, parecchi racconti si riferiscono alla prima guerra giudaica, e fra questi alcuni narrano di navi piene di giovani e fanciulle, o di notabili di Gerusalemme, mandati da Vespasiano a Roma per essere destinati ai bordelli. I prigionieri si annegarono durante il viaggio, per non commettere chillul ha-Shem. Allora "lo Spirito santo pianse e disse: 'Per queste cose io piango' (Lam 1,16)" (Lamentazioni Rabbà 1,45-46). Si riferisce invece alla seconda guerra giudaica il racconto del martirio di rabbi Chananjà ben Teradion. Adriano aveva proibito lo studio della Torà: Chananjà trasgredì il divieto, e fu condannato a essere arso avvolto nel rotolo della Torà che aveva con sé. E perché non morisse subito, gli misero sul cuore gomitoli di lana bagnata. I discepoli gli chiesero: "Che cosa vedi?". Rispose: "I fogli del rotolo bruciano e le lettere volano al cielo". Allora gli suggerirono di aprire la bocca per morire più in fretta, ma egli replicò: "È meglio che Colui che mi diede l'anima se la riprenda, piuttosto che io violi il precetto di non nuocere a se stessi". A questo punto il carnefice gli disse: "Maestro, se tolgo la lana bagnata e aumento il fuoco [per accelerare la morte], mi condurrai nel mondo che verrà?". Chananjà lo promise, il carnefice tolse la lana, aumentò il fuoco e il maestro morì. Subito il carnefice si gettò nel fuoco, e una voce celeste proclamò: "Rabbi Chananjà ben Teradion e il carnefice sono destinati alla vita del mondo che verrà". Rabbi (Giuda) pianse e disse: "Alcuni ottengono il mondo che verrà in un'ora, e alcuni lo guadagnano solo dopo molti anni" (cf. bAvodà Zarà 17b-18a, tr. it. citata in E.Bianchi, op. cit., pp. 114-115). È singolare in questa storia di martirio la somiglianza con il caso del buon ladrone in croce con Gesù: il martirio irradia intorno a sé una forza salvifica unica, già prefigurata nel sacrificio di Isacco, che per l'ebraismo è fonte di salvezza di generazione in generazione. Un altro momento forte nella storia bimillenana del martirio ebraico (nel quale ai persecutori romani si sostituirono quelli cristiani) è il periodo delle crociate, specialmente la prima. Le comunità ebraiche della valle del Reno furono il bersaglio delle orde caoticamente in marcia verso la Terra santa. Nel maggio del 1096 le comunità di Spira, Worms, Magonza, Colonia, Treviri, Metz e anche Praga furono distrutte: agli ebrei fu lasciata la sola alternativa del battesimo. La prima che scelse il martirio fu una donna, a Spira, il 3 maggio. Seguirono eccidi e suicidi di massa, compiuti come consapevole qiddush ha-Shem. Nonostante i tentativi dei vescovi di salvare gli ebrei, i martiri furono 5000; altri 2500, secondo l'accusa fatta da Gregorio IX ai crociati, perirono nella e dopo la terza crociata (1189-92), soprattutto in Inghilterra. Un'ulteriore stagione di martirio furono i secoli XIVXVI in Spagna; e anche allora il modello fu quello dei sette fratelli (è da ricordare che l'Inquisizione interrogava i cuochi dei marrani - gli ebrei battezzati a forza che osservavano segretamente l'ebraismo - per scoprire se mangiavano ancora kasher). Nel 1648-49 il cosacco Bogdan Chmielnicki considerato oggi l'eroe nazionale dell'Ucraina - con le sue bande massacrò 100.000 ebrei ucraini e polacchi e distrusse 300 comunità: una tragedia che l'ebraismo est-europeo definì la terza distruzione del tempio, e che fu pianta con un lutto di tre anni. È per noi difficile discernere in tali eventi le vittime dai martiri: ma proprio questo ha il suo significato nella definizione del martirio. Nel nostro secolo, il martirologio ebraico pareva ormai consegnato alle cronache e alle lamentazioni liturgiche del passato. Ma giunse qualcosa peggiore del martirio, la Shoà (in ebraico, "catastrofe"): peggiore non solo per il numero (6 milioni di vittime), ma perché alle vittime fu negato anche il martirio, in quanto fu loro negata ogni scelta. L'unica, ignara scelta fu quella dei loro genitori, di averli messi al mondo per la morte. Da allora, il fumo di Auschwitz ha nascosto a molti il Nome, che i martiri antichi invece manifestavano e glorificavano. Perché questo Nome riappaia, occorre che lo si cerchi non dalla parte di quel Dio che gradiva gli olocausti (si vede quanto sia inopportuno e quasi empio il termine Olocausto per designare la Shoà) ma da quella dei martiri nonmartiri, fra i quali, umiliato e muto, Egli patì la più grande profanazione della storia. Le parole di Dio a Giacobbe: "Ecco, io sono con te" (Gen 28,12), sono per noi, se abbiamo la forza di crederlo, la testimonianza del coinvolgimento di Dio in questo martirio. (De Benedetti, Ciò che tarda avverrà, Qiqajon, Vercelli 1992, pp. 80-86.)