Seconda pagina lunedì 26 gennaio 2004 Speciale La storia che ritorna DA FRANCOFORTE I.G. Farben: un nome che da un secolo provoca forti emozioni, prima di orgoglio per le innovazioni in campo chimico, poi di orrore per il sostegno al regime nazista nella campagna di sterminio, e infine di rabbia per le speculazioni in borsa legate alla sua eredità patrimoniale. L’“industria dei colori” venne costituita alla vigilia della prima guerra mondiale, si sviluppò sotto il mantello del regime nazista, e venne messa a nudo dagli Alleati alla fine della seconda guerra mondiale. La sua liquidazione è stato un processo martoriato, durato oltre cinquant’anni e conclusosi con una dichiarazione d’insolvenza. Ai lavoratori coatti della “I.G. Auschwitz”, rimasti a mani vuote, rimangono solo i tragici ricordi e i biglietti da visita di avvocati pronti a far valere i loro diritti, per lo più morali. Infine sono riemersi /senza troppo successo, questa volta) anche quegli avvocati in stile Ed Fagan che puntano al grande malloppo non tanto in Germania, quanto negli Stati Uniti e in Svizzera. La storia della I.G. Farben sembra non aver fine, ma soprattutto non sembra trovar pace. In Germania l’industria chimica incominciò a svilupparsi attorno al 1870. Già nel 1900 ben sei imprese dominavano il mercato mondiale nella produzione di coloranti sintetici: BASF, Bayer, Hoechst, Agfa, Cassella e Kalle. L’aspra concorrenza e gli alti costi di ricerca portarono a una svolta del settore chimico tedesco. Nel 1904 i direttori di Bayer (Leverkusen), BASF - Badische Anilin & Soda Fabrik AG (Ludwigshafen) e Agfa (Berlino) decisero di unirsi in una Interessengemeinschaft mit Gewinnausgleich IG, una “comunità d’interessi con perequazione degli utili”. Nel 1907 a questa joint venture si aggiunsero i concorrenti Hoechst (Francoforte sul Meno), Cassella (Francoforte sul Meno) e Kalle (Wiesbaden). Il 9 dicembre 1925 avvenne il passo decisivo: la fusione nella I.G. Farben, che diventò il più grande gruppo industriale del mondo con l’85% del mercato dei coloranti. Nel 1929 il gruppo registrò un fatturato di 1,4 bilioni di Reichsmark, di cui quasi il 60% in export. Il primo direttore generale della I.G. Farben fu Carl Bosch, l'uomo che mise a punto il processo di sintesi dell'ammoniaca, che gli valse il premio Nobel per la chimica nel 1931. Furono gli anni dell’orgoglio. Poi venne l’inarrestabile ascesa dei nazisti e con essa le prospettive di guadagno in guerra. L’inizio della collaborazione tra i manager del gigantesco cartello monopolistico e il nazionalsocialismo venne siglato nel momento in cui la direzione della I.G. Farben firmò uno chèque di 400 mila Reichsmark per il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (Nsdap), fondo che andò a finanziare la campagna per l'elezione di Adolf Hitler a cancelliere nel 1933. Il ringraziamento del Führer non si fece attendere. Appena divenuto Kanzler sottoscrisse il cosiddetto “contratto della benzina” con cui il ministero dell'economia del Terzo Reich e le industrie I.G. Farben si accordarono per la produzione entro il 1935 di 400 mila tonnellate di benzina sintetica all'anno fino al 1944. Lo Stato avrebbe pagato alla I.G. Farben la differenza fra il costo di produzione e il prezzo sul mercato libero della benzina, impegnandosi a comprare il combustibile eventualmente invenduto, in modo da assicurare in ogni modo un profitto, di almeno il 5%, agli azionisti del gruppo. In men che non si dica, attraverso intrecci personali e mutua dipendenza, la I.G. Farben, con sede a Francoforte sul Meno, divenne il più grande finanziatore della politica di sterminio. Senza la I.G. Farben per Hitler non sa- laRegioneTicino Nella vicenda del colosso chimico tedesco I.G. Farben, che produsse il gas Zyklon B utilizzato nei campi di sterminio, si riflette la storia delle compromissioni dell’industria tedesca nel più grande crimine del ventesimo secolo di Resy Canonica I colori dello sterminio I.G. Auschwitz Dai fasti del Reich allo smembramento • 1925 Costituzione della Interessengemeinschaft Farbenindustrie Ag (I.G. Farben) con sede a Francoforte sul Meno. Attraverso la fusione di imprese del calibro di Bayer, BASF, Agfa e Hoechst nasce il maggiore gruppo chimico del mondo con oltre 83 mila dipendenti. • 1933 “Contratto della benzina” tra I.G. Farben e regime nazista, che regola l’acquisto pubblico dei prodotti del gruppo. • 1941 Inizio dei lavori di costruzione della I.G. Auschwitz per la produzione di caucciù sintetico e di olio combustibile. • 1945 Gli Alleati sequestrano tutto il patrimonio della I.G. Farben. • 1947 Inizio del processo per i crimini di guerra nazisti a 24 manager della IG Farben. 13 dirigenti vengono condannati a pene detentive tra i 18 mesi e i 6 anni per “schiavizzarebbe stato possibile distruggere quello che ha distrutto, e senza Hitler la I.G. Farben non avrebbe potuto guadagnare quello che ha guadagnato. Nel 1939 registrò un fatturato di 821 milioni di Reichsmark, e quattro anni più tardi divennero già 1,7 miliardi. Durante la guerra contò 190 mila dipendenti e un fatturato di quasi tre miliardi di Reichsmark. Un risultato ottenuto anche mediante l’impiego di lavoratori coatti. Dal 1941 il capo delle SS Heinrich Himmler in persona esercitò sempre più pressione per aumentare la produzione di gomma sintetica (detta Buna, nome derivante dalle sillabe iniziali di due suoi ingredienti: il butadiene e il sodio, Natrium in tedesco) nei paesi occupati all’est, lontano dalle bombe degli Alleati. In Polonia, ad Auschwitz-Monowitz, venne costruita la fabbrica “I.G. Auschwitz” con il sangue dei detenuti dei campi di sterminio. Dei 40 mila internati, due terzi morirono annientati dal lavoro. Ma il nome della I.G. Farben rimane indissolubilmente legato alla produzione del gas tossico Zyklon B. Possedendo una parte- 2 zione della popolazione civile nei paesi occupati”. • 1952 Smembramento della I.G. Farben e istituzione della “I.G. Farben in liquidazione”. Bayer, BASF e Hoechst riprendono l’attività in modo indipendente. • 1958 La I.G. Farben i. l. versa alla Jewish Claims Conference 30 milioni di marchi, con cui vengono risarciti 8.000 dei 200 mila ex lavoratori coatti. • 1988 La Corte federale di giustizia respinge il ri-trasferimento alla I.G. Farben i. l. di 4,4 miliardi di marchi di beni all’estero depositati presso l’allora Società di Banca Svizzera. • 1994 La società di partecipazioni Wcm (di Karl Ehlerding), con sede a Francoforte sul Meno, fino ad allora la più grande filiale della I.G. Farben, aumenta la sua quota di capitale della I.G. Farben i. l. al 75%. Wcm ri- cipazione del 42,5% della Degesch (Deutsche Gesellschaft für Schädlingsbekämpfung), fu produttrice, assieme a Degussa, dell’arma letale usata nelle camere a gas. La I.G. Farben divenne una vera e propria fabbrica dell’orrore. Con la disfatta del Terzo Reich nel 1945 ebbe fine questo orrore, ma non la storia della I.G. Farben. Gli Alleati ordinarono lo smantellamento del gruppo per impedire che si ripetesse un’alleanza tra l’industria chimica e la politica tedesca. Il Tribunale di Norimberga decise di far ereditare il 90% del gruppo a Bayer, Hoechst e BASF e di mettere in liquidazione il restante 10%. Ognuna delle tre società tornate indipendenti e proprietarie di quasi tutte le fabbriche della Germania occidentale oggi è venti volte più grande di quanto la I.G. Farben madre fosse al massimo del suo sviluppo nel 1944. Nonostante ciò, esse non si sono mai considerate i successori nei rapporti giuridici della I.G. Farben, e non hanno mai ritenuto doveroso adempiere a risarcimenti nel nome della Horrorfabrik (per balta così la sua posizione facendo della sua società madre una sua filiale. • 1999 La I.G. Farben i. l. annuncia l’istituzione di una fondazione, con il cui reddito devono venire risarciti i lavoratori coatti. Invece del patrimonio previsto di 3 milioni di marchi, vengono raccolti solo 500 mila marchi. • 2000 Il governo federale e l’economia tedesca creano un fondo per gli indennizzi degli ex lavoratori coatti. La I.G. Farben i. l. non vi partecipa, facendo valere l’esistenza della fondazione. • 2001 Accordo per la vendita di 479 appartamenti del valore di 38,4 milioni di euro in proprietà della I.G. Farben alla Wcm per 1,5 milioni di euro. • 2003 La Wcm non effettua il pagamento. Alla I.G. Farben viene a mancare la liquidità e dichiara l’insolvenza. quasi trent'anni dopo la seconda guerra mondiale i presidenti dei rispettivi consigli di amministrazione furono ex membri del partito nazista). Per quanto riguarda il restante 10% della I.G. Farben in liquidazione, la storia non è meno triste e, anzi, suscita ancora più rabbia. Secondo una decisione degli Alleati, la società “I.G. Farben in liquidazione” avrebbe dovuto limitarsi a vendere il patrimonio residuo della I.G. Farben, versarne il ricavato ai lavoratori coatti, e poi sciogliersi. Ma la liquidazione durò più a lungo del periodo di esistenza attiva della fabbrica stessa. Ai vari amministratori importava non tanto la liquidazione della ditta, quanto la propria liquidità. E si tratta di molti milioni di marchi sottratti in vari modi: mediante la vendita di immobili sottoprezzo, mediante riparti straordinari ai soci – in tutto tre: 1967, 1986 e 1994 – e non da ultimo attraverso le speculazioni in borsa favorite dalle capriole del titolo soprattutto nel periodo della riunificazione tedesca. Solo nel 1998, con la nomina dei liquidatori Otto Bernhardt e Volker Pollehn, incominciò una vera e propria liquidazione della più grande industria tedesca dell’anteguerra. Nel 1999 venne creata una fondazione, la IG Farben Stiftung, con una filiale negli Stati Uniti, per rivendicare il risarcimento dei lavoratori coatti. Sinora la fondazione è dotata solo del capitale iniziale di 500 mila marchi (250 mila euro), ma spera ancora di poter rimpinguare il fondo riorganizzando il ri-trasferimento dei beni depositati all’estero… in Svizzera, nell’ex Società di Banca Svizzera, ora UBS. Si tratta di una vicenda simile a tante altre createsi nel periodo nazista al confine tra la Germania e la Svizzera. Infatti è a Basilea che la I.G. Farben, per questioni fiscali e di sicurezza in generale, costituì la I.G. Chemie con un capitale proprio di 290 milioni di franchi svizzeri e con una filiale negli Stati Uniti che dal 1939 si chiamò General Aniline and Film Corp. Dopo la guerra, il governo svizzero congelò beni e attività delle società tedesche, tra le qua- li anche la I.G. Chemie, che dal 1945 si chiamò Interhandel AG. Ma poi, sulla base di una serie di rapporti stilati dalle autorità elvetiche, la Interhandel venne riabilitata e nel 1959 si fuse con la SBS. In seguito, dopo anni di colloqui, venne raggiunto un accordo secondo cui l’amministrazione Usa nel 1964 concesse alla Interhandel, e quindi alla SBS, una quota (515 milioni di franchi svizzeri) derivante dal realizzo della liquidazione della General Aniline and Film Corp. Queste sono le operazioni che alimentano le discussioni attorno all’affaire I.G. Farben: la Interhandel e la General Aniline and Film Corp. erano da considerarsi ormai società svizzere, o erano invece da considerarsi ancora appendici della tedesca I.G. Farben? Da una parte l’UBS respinge ogni dubbio in questo senso affermando che la Interhandel era indipendente dalla I.G. Farben già dal 1940, facendo riferimento anche ai risultati della Commissione indipendente d’esperti Svizzera - seconda guerra mondiale (Commissione Bergier) presentati nell’estate 2001. Dall’altra parte gli azionisti della I.G. Farben in liquidazione portano avanti i propri argomenti. Già venti anni fa, l’associazione degli azionisti aveva tentato il rimpatrio dei beni, un’azione che si concluse con un fallimento alla Corte federale di giustizia nel 1988. Ora a dar man forte agli azionisti è saltato fuori di nuovo Edward Fagan, l’avvocato americano divenuto famoso con la denuncia collettiva per recuperare i fondi ebraici “dormienti” nei forzieri svizzeri. Fagan e gli azionisti, guidati da Rüdiger Beuttenmüller, affermano di poter sostenere la propria causa con nuove prove scovate in documenti degli archivi della DDR, dell’Unione Sovietica e anche della Svizzera che dimostrerebbero la malafede della SBS. In una conferenza stampa a Zurigo lo scorso 29 dicembre, Ed Fagan ha annunciato di aver consegnato un ultimatum al patron dell’UBS Peter Wuffli, chiedendogli di aprire dei negoziati per raggiungere un accordo amichevole sul dossier I.G. Farben entro il 9 gennaio… Termine scaduto e perciò Fagan continuerà la sua crociata davanti al tribunale del distretto sud di New York. Questa volta in palio ci sono 2,2 miliardi di dollari. A prescindere dall’esito della vertenza, anche in questo caso ad approfittare non saranno le vittime della persecuzione nazista. A loro non è rimasto che dimostrare la rabbia cresciuta negli anni. Come il 10 novembre scorso quando alla pretura di Francoforte la “I.G. Farben in liquidazione” ha chiesto l’avvio della procedura d’insolvenza. Uno degli ex lavoratori coatti presenti alla dimostrazione ha ammesso di potersi consolare pensando al destino della ex centrale della I.G. Farben a Francoforte: un edificio lungo 250 metri e alto sette piani dell’architetto Hans Poelzig. Finito di costruire nel 1930 – con il nome di I.G. Farben Haus – ospitò gli uffici del gruppo industriale. Alla fine della guerra – ribattezzato I.G. Farben Building – divenne il quartier generale dell’esercito Usa in Europa guidato dal generale Dwight D. Eisenhower. Qui vennero applicate le decisioni prese a Washington sulla riorganizzazione della Germania del dopoguerra. Nel 1995 il quartier generale venne trasferito ad Heidelberg, lasciando così lo stabilimento alla città di Francoforte che decise di trasformarlo in un campus universitario. Dal 2001 vi studiano i giovani della Johann Wolfgang Goethe Universität e non viene più chiamato con il nome dell’ex proprietario, bensì con il nome dell’architetto. L’inchiesta lunedì 28 gennaio 2008 Speciale Operazione pulizia di Stefano Guerra Davide Martinoni e Diego Moles Foto Ti-Press laRegioneTicino 2 Il Piano di Magadino... Ex discariche, depositi, aziende attive fuori zona edificabile sono solo alcuni dei segni tangibili del degrado paesaggistico del Piano di Magadino, un comprensorio che negli ultimi 40 anni ha vissuto un rapido e disordinato sviluppo. Ma queste situazioni abusive sono anche il frutto della negligenza e del lassismo dei Comuni (e, in minor misura, del Cantone) in ambito edilizio e pianificatorio. C’è voluto il rogo di Riazzino perché il Dipartimento del territorio decidesse di fare un po’ di pulizia richiamando gli enti locali alle loro responsabilità Trasformato da palude a territorio agricolo con l’arginatura del fiume e la bonifica, il Piano si estende su una superficie di 4 mila ettari (1’600 circa sono “verdi”), con 16 Comuni e oltre 29 mila abitanti Il Piano passato al setaccio: Una ditta di compostaggio, un’azienda di commercio legnami, un’ex discarica, diversi depositi e un oliveto Sono una quindicina gli abusi edilizi di gravità medio-elevata sul Piano di Magadino. È quanto emerge dalle segnalazioni di una dozzina di Comuni sollecitati poco meno di un anno fa dal Dipartimento del territorio (Dt) a voler trasmettere a Bellinzona un elenco di opere, impianti, depositi e attività non autorizzati e di una certa incidenza territoriale (per intenderci: non la piccola baracca per gli attrezzi su un appezzamento agricolo) situati fuori zona edificabile nei rispettivi comprensori. la Morobbia a Giubiasco. Il 20 febbraio 2007 il capo del dipartimento Marco Borradori ha scritto a 12 Comuni del Piano (Giubiasco, Camorino, Sant’Antonino, Cadenazzo, Gudo e Sementina per il Bellinzonese; Contone, Magadino, Locarno, Tenero, Gordola, e Cugnasco per il Locarnese) chiedendo loro di trasmettere all’Ufficio delle domande di costruzione (Udc) un elenco degli stabili e delle situazioni abusive di gravità medio-elevata. Dieci Comuni hanno risposto sin qui. Alcuni (pochi) per dire che non hanno nulla da segnalare. Dalle indicazioni di chi si è già fatto vivo emerge una situazione «non così catastrofica come si potrebbe credere», osservano all’Udc. Ma andiamo a vedere. Tutto cominciò a Riazzino All’indomani dell’incendio di copertoni verificatosi 14 mesi fa sul “terreno Tomasetti” a Riazzino, ai piani alti del Territorio ci si è detti che era davvero giunta l’ora di richiamare all’ordine i Comuni, di tentare di fare almeno un po’ di pulizia sul Piano di Magadino. Sull’onda delle polemiche e dell’inquietudine generate dal rogo di Riazzino, il Dt ha così intensificato l’attività di vigilanza sul comprensorio che va dalla foce del Ticino a quella del- Locarno territorio ‘sensibile’ Un po’ di pulizia nel comprensorio che va dalle Bolle di Magadino alla foce della Morobbia a Giubiasco “Affaire Compodino” e “terreno Tomasetti” a parte, i casi segnalati dal fronte locarnese del Piano di Magadino perché non conformi alla Legge edilizia cantonale o alla Legge federale sulla pianificazione del territorio sono emblematici di un certo modo di “vivere” il territorio. Locarno ha ricevuto di recente dal Cantone una proposta di incontro (per altro sollecitato dalla stessa Città) che presumibilmente avrà luogo già nella seconda metà di febbraio e darà modo di valutare alcune situazioni particolari e stabilire come procedere. Uno dei temi in discussione sarà l’ex discarica Fondeca, un fondo di circa 4 mila metri quadrati, situato fuori zona edificabile, di fianco al riale Trodo, nella fascia golenale protetta del Ticino. Recentemente i proprietari hanno provveduto a sgomberare materiale di diverso tipo, dando così seguito ad un’ingiunzione giunta a ottobre da parte della Città. Negli ultimi anni il sedime era stato utilizzato come deposito intermedio. Verrà certamente inventariato fra i siti inquinati. Sulla sponda sinistra del fiume Ticino, in direzione della Monda, c’è una seconda situazione “sensibile”: si tratta di un terreno agricolo, di 5-6 mila metri quadrati, che ha subìto importanti lavori di bonifica, per altro non completamente autorizzati. La Compodino trasloca Trasferimento ‘sostenibile’ in vista per la ditta di compostaggio Sviluppi straordinari e di grande interesse sono attesi in fondo al tunnel dell’annosa “querelle” in atto fra ente pubblico (Cantone e Città di Locarno), Compodino e privati in merito all’attività di compostaggio svolta sul Piano di Magadino, in territorio di Locarno. L’azienda, come noto, opera da anni in una sorta di limbo pianificatorio. Questo perché il sedime è adibito a centro di compostaggio, ma essendo situato in zona agricola non ha potenzialità di sviluppo edilizio che consentano di apportare tutta una serie di migliorie tecniche utili anche ad eliminare i cattivi odori – veri o presunti che siano – che sono la causa delle maggiori recrimina- ‘Poteva essere peggio’ Anche l’Unione contadini ticinesi (Uct) ha fornito a Bellinzona un elenco di situazioni non autorizzate fuori zona edificabile sul Piano di Magadino. Il segretario Cleto Ferrari non vuole dire né quante né quali né dove sono. Perché si tratta di «casi non sempre giuridicamente chiari». Tra le situazioni segnalate dall’Uct all’Ufficio domande di costruzione vi sono (ancora) il “terreno Tomasetti” a Riazzino e un fondo agricolo adiacente all’A13 in territorio di Locarno utilizzato dal gruppo Piero Ferrari nell’ambito dello smantellamento del silos e del trasloco dalle Bolle di Magadino. Ma in generale, Cleto Ferrari relativizza: «Va tenuto conto del fatto che la pianificazione del comprensorio è stata lasciata nelle mani dei 14 Comuni del Piano di Magadino, e ognuno ha sempre guardato all’interno del proprio orticello. Se poi si considera anche la crescita della popolazione, mi sembra di poter dire che poteva anche essere peggio. Abbiamo la fortuna che sul Piano di Magadino si può fare ancora qualcosa: la situazione non è compromessa come al Pian Scairolo o nella piana di San Martino a Mendrisio». Il segretario dell’Uct intravede una possibilità nell’istituzione di un fondo per sostenere i Comuni in caso di dezonamenti e al limite anche le aziende situate su terreni agricoli intenzionate a traslocare in zona artigianale. Una mozione in questo senso, sottoscritta tra gli altri dallo stesso Ferrari, è pendente al Consiglio di Stato. zioni. La Compodino è comunque, notoriamente, il centro di compostaggio del Locarnese per definizione, visto che raccoglie e smaltisce annualmente qualcosa come 8-10 mila tonnellate di scarti verdi, e i suoi maggiori fornitori sono proprio i Comuni. Ebbene, l’intera questione sta subendo una svolta improvvisa e di notevole importanza: si sta valutando l’ipotesi di un trasloco della Compodino su un terreno situato a circa tre chilometri di distanza, sul quale l’azienda intende aprire un impianto di compostaggio con valorizzazione del biogas. Il terreno per il futuro insediamento, già acquisito allo scopo, è pure situato in zona agricola, in pieno futuro Parco del Piano di Magadino, ma sembrerebbe decisamente più adatto ad un azzonamento Ap/Ep rispetto a quello che ospita attualmente il centro di compostaggio. Realizzare il progettato impianto con valorizzazione del biogas aprirebbe uno scenario del tutto nuovo e sarebbe un atto concreto di promovimento dell’energia pulita nel Sopraceneri. Il progetto specifico nasce da uno studio di varianti sottoposto al Cantone alcuni mesi fa e scaturito nella scelta di una variante pianificatoria riguardante appunto il nuovo terreno. Tramite un impianto di fermentazione (coperto) il futuro centro di compostaggio sfrutterebbe il suo bio- gas – e forse anche dell’altro, grazie a sinergie ancora da pianificare – per produrre energia elettrica pulita da poi mettere in rete in collaborazione con un fornitore. In Svizzera è già attiva una ventina di stazioni di biogas del genere previsto sul Piano di Magadino, ma quella che più si avvicina al progetto locarnese è della Kompogas, inaugurata nel giugno del 2007 a Utzenstorf, nella campagna bernese. Attualmente è al vaglio del Cantone, per preavviso, una bozza della necessaria variante pianificatoria. Dopodiché il dossier andrà sui banchi della commissione Piano regolatore del Consiglio co- munale cittadino; commissione che dovrà fornire al Legislativo tutti gli elementi utili per decidere se credere o meno nella promozione dell’energia pulita. A questo progetto, notasi bene, se ne allinea un altro per lo sfruttamento della biomassa, promosso dal Comune di Losone forse in collaborazione con la Società elettrica Sopracenerina. Ma la possibile concorrenza non spaventa i promotori della “nuova” Compodino: «Tutte le iniziative del genere sono benvenute. Abbiamo già perso troppo tempo ed è giunto il momento di accelerare nella promozione delle energie alternative». Una riga da tirare sull’espansione non autorizzata Gudo, la Giordani Sa deve fare marcia indietro. I titolari: troppo cari i terreni industriali Dino e Giuseppe, i fratelli Giordani, distribuiscono su un tavolo di legno i piani del ridimensionamento: «Ecco», fa Giuseppe puntando l’indice su una delle planimetrie. «In pratica si tratta di tirare una riga qui, tagliando quasi a metà la superficie che usiamo oggi. La parte del sedime che resta fuori verrebbe ripristinata come terreno agricolo. Sulla superficie restante invece abbiamo proposto di togliere un paio di piccoli châlets [tra cui quello dove ci troviamo, ndr] e di costruire un nuovo capannone dove c’è già la vecchia tettoia: per gestire meglio il deposito legname e per poter lavorare a tetto, non più all’esterno come abbiamo sempre fatto finora, con sole pioggia neve...». Il progetto (che verrebbe realizzato a tappe con un investimento di circa 2 milioni di franchi su una decina d’anni) non è piaciuto al Cantone. Un paio di mesi fa i funzionari dell’Ufficio domande di costruzione (Udc) hanno fatto sapere ai titolari della ditta di Gudo specializzata in commercio legnami e lavori selvicolturali che va trovata un’altra soluzione: oggi è impensabile costruire un capannone di 2 mila metri quadrati in un’area agricola, all’interno del futuro Parco del Piano di Magadino, e per di più in piena “fascia cuscinetto” di una zona palustre di importanza nazionale. Fondata a Giubiasco nel 1960 dal padre di Dino e Giuseppe, la Giordani Sa (che allora non si chiamava ancora così e che ora con una ventina di operai è una delle maggiori aziende del ramo forestale in Ticino) si trasferì agli inizi degli anni ’80 in località “Ciosse Vecchie” a Gudo. I fratelli Giordani acquistarono due sedimi: uno di 4’846 metri quadrati con un edificio-abitazione risalente agli anni ’50 e un altro, in minima parte edificato, di 10’997 metri quadrati. L’area è situata un centinaio di metri a est del ponte che immette nello “Stradonino” che collega Gudo e Sant’Antonino, lungo la strada che costeggia l’argine insommergibile sulla sponda sinistra del fiume Ticino. La ditta, con regolari licenze edilizie, costruì subito una tettoia per tenere al riparo dalle intemperie i macchinari e per stoccare il legname; successivamente sorsero altre piccole infrastrutture. Negli ultimi anni la Giordani Sa si è però estesa progressivamente verso Giubiasco, finendo con l’occupare l’intera area di oltre 15 mila metri quadrati. Dieci anni fa la Sezione agricoltura decretò che «quelli non sono fondi agricoli ai sensi dell’articolo 6 della Legge federale sul diritto fondiario rurale (Ldfr)», dicono Giuseppe e Dino mostrandoci i documenti ufficiali. «Noi abbiamo sempre fatto tutto alla luce del sole: e nessuno ci ha mai detto niente». L’area si trova in ogni caso in zona Sac (superficie per La Giordani Sa si è estesa fino a occupare tutto il sedime in zona Sac l’avvicendamento delle colture). E l’espansione dell’attività è avvenuta comunque senza la necessaria autorizzazione, sottolineano all’Udc. Sollecitati da Cantone e Comune, i fratelli Giordani hanno inoltrato una domanda di costruzione a posteriori che in sostanza ratificava la situazione attuale. Di fronte al preavviso negativo del Dipartimento del territorio e alla decisione di diniego della licenza edilizia da parte del Municipio di Gudo giunta alcune settimane fa, i titolari della ditta hanno incaricato un archi- tetto di studiare una soluzione per la riorganizzazione del sedime. Ma il progetto non rientra nei paletti fissati dal Cantone (ripristino della situazione autorizzata, più un 30 per cento circa di ampliamento previsto dalla Legge federale sulla pianificazione del territorio). Perciò è stato bloccato dall’Udc, che non ne vuol sapere di un nuovo capannone di 2 mila metri quadrati in quell’area. «Si tratta di un abuso grave. Lì non può più essere costruito nulla. Punto e basta», spiegano all’Udc. A questo punto le alternative per i titolari dell’azienda sono tre: abbandonare totalmente o parzialmente («lasciando a casa alcuni operai») l’attività “storica” del commercio della legna da ardere (che richiede superfici relativamente grandi ove depositare e lasciar stagionare per un anno i tronchi) nonostante l’accresciuto interesse per la legna quale fonte di energia (i Giordani riforniscono diversi impianti di riscaldamento innovativi, pubblici e privati, nella regione); puntare su un nuovo deposito in zona boschiva («ma avremmo grossi problemi logistici, e poi ogni spostamento costa parecchio»); oppure trovare un terreno che costa poco in zona industriale (Giuseppe: «ma i prezzi oscillano tra i 200 e i 400 franchi al metro quadrato: per noi sarebbe anti-economico»). Cosa faranno adesso Dino e Giuseppe Giordani? «Non lo sappiamo», rispondono all’unisono. Quel che è certo è che torneranno a riunirsi con il Cantone e il Comune nell’ambito dell’“operazione pulizia” sul Piano di Magadino. Nel frattempo, magari, anche lo stesso Cantone avrà dato l’esempio sgomberando un deposito temporaneo (ma di fatto ormai abusivo, perché in funzione da tempo) di materiale verde e legname situato su un terreno che i fratelli Giordani scorgono in lontananza guardando fuori dalla finestra del loro ufficio, verso Sant’Antonino... L’intervista mercoledì 27 gennaio 2010 Speciale La giornata della memoria che settimane fa, ha fatto della memoria un baluardo dalla cui sommità difendere la causa della libertà e del diritto. Le memoria può dunque essere una forza dell’azione politica? L’ultima parola Nel suo libro, lei cita Eli Wiesel che invitava (quasi intimava) al silenzio “noi” che non facemmo niente per impedire lo sterminio. Di chi è allora, in termini di patrimonio che si trasmette di generazione in generazione, la memoria della Shoah? «La prendo alla larga. È stato tradotto recentemente in italiano il libro Perché l’Olocausto non fu fermato, il cui autore, lo storico americano T.S. Hamerow, mostra che – al contrario di quanto vuole un luogo comune – negli anni ’30, ’40 cosa stesse avvenendo in Europa lo sapevano più o meno tutti. Il fatto è che decidere di muoversi per interrompere quanto stava avvenendo avrebbe significato per i diversi governi assumersi diverse responsabilità. KEYSTONE Si parla, si crede di ricordare, e perciò di sapere. Ma lo scrittore Wlodek Goldkorn ricordava, alcune settimane fa, che la scritta Arbeit macht Frei (rubata dall’ingresso di Auschwitz, e da poco ricollocata) non è il “simbolo della Shoah”, come è stato scritto su tutti i giornali, perché si trova in realtà all’ingresso del campo di prigionia in cui furono rinchiusi non solo ebrei. Lo sterminio è avvenuto non lì, ma a Birkenau, ha precisato. Parliamo tanto di Shoah e ne sappiamo ben poco, insomma? «No. Non credo che sappiamo poco. Sappiamo molte cose e forse conosciamo anche lo scenario complessivo della Shoah, ma ne abbiamo una memoria di tipo museale. Voglio dire: di una visita al Louvre ricorderò solo qualcuna delle moltissime opere d’arte che ho visto. Ciò che non ho, e sfido chiunque ad avere, è il segno complessivo del museo. Dunque dobbiamo distinguere tra ciò che sappiamo di un evento, ciò che percepiamo come senso di quell’evento, da ciò che è parte del farsi di quell’evento, ma che alla fine non è essenziale per ricostruire il tempo passato. C’è una bella frase dello storico francese Marc Bloch secondo cui se voglio ricostruire il passato devo prendere una cosa, una immagine che mi sta davanti in quel momento e poi fare scorrere indietro il rocchetto del film che mi rappresenta quell’immagine e allora ne scoprirò l’origine. Non perché necessariamente la successione degli eventi dia un risultato obbligato, ma perché ogni cosa che si produce è la conseguenza di una scelta tra diverse possibilità. Partire dall’oggi per trovare il senso di ciò che è stato, e non viceversa. Così, la scritta “arbeit macht frei” è l’oggetto che abbiamo davanti; possiamo non sapere dov’è, ma sappiamo che cosa ci evoca, la sua funzione è esattamente quella; ed è, direi, efficace: indica un evento e il posto in cui è avvenuto». 2 A colloquio con lo storico David Bidussa autore di ‘Dopo l’ultimo testimone’, saggio sul ruolo e il significato della testimonianza nella storiografia, e nella nostra coscienza, dello sterminio nazista degli ebrei d’Europa di Erminio Ferrari E quando non ci sarà più nessuno a testimoniare? Quando le parole di un sopravvissuto alla Shoah potranno essere ascoltate solo attraverso una registrazione? “Dopo l’ultimo testimone” chi racconterà ancora, mostrando ciò che resta della propria vita, che cosa è stato lo sterminio nazista degli ebrei d’Europa? Dopo l’ultimo testimone (Einaudi) è il titolo del libro che David Bidussa ha pubblicato l’anno scorso per interrogarsi sulla dolorosa e necessaria problematicità con cui la parola del testimone concorre a scrivere la storia di quell’evento. Bidussa, storico sociale e ricercatore presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha posto questa domanda tanto più urgente mentre si avvicina il giorno in cui non ci sarà più nessuno (vittima o carnefice) a poter raccontare “ciò che vide”. Quale sarà allora la memoria di cui oggi si celebra la giornata? laRegioneTicino L’ingresso di Auschwitz ‘Non uscirò vivo’ “Cari genitori […] Il campo si trova su una radura. Dal mattino presto veniamo portati nella foresta a lavorare. I piedi mi sanguinano quando mi tolgo le scarpe. Lavoriamo tutto il giorno quasi senza mangiare e la notte dormiamo per terra (ci sono stati tolti anche i cappotti). Ogni notte arrivano soldati ubriachi e ci picchiano con dei bastoni di legno. Il mio copro è nero per le macchie di sangue rappreso, come un pezzo di legno affumicato. Delle volte ci tirano un paio di carote crude o barbabietole ed è una disgrazia: ci picchiamo per acchiappare un pezzetto o una fogliolina. L’altro ieri sono evasi due ragazzini, allora ci hanno messi in fila e ogni quinto della fila veniva fucilato. Non ero il quinto, ma so che non esco vivo da qui […] Chaim” Il mittente era un figlio di contadini, nato a Sedziszow, in Galizia. Fu arrestato e portato con migliaia di giovani ebrei nel lager di Pustkow, anch’esso in Galizia, e lì ucciso in data sconosciuta. La lettera, conficcata nel filo spinato, fu trovata da un contadino e consegnata ai genitori (da Le mie ultime parole - Lettere dalla Shoah, a cura di Zwi Bacharach, ed. Laterza). La prima, riconosciuta l’impossibilità (o l’incapacità) di fermare la persecuzione degli ebrei in Europa (negli anni ’30 non era ancora in corso lo sterminio) poteva essere quella di favorire l’immigrazione verso il proprio paese. Hamerow mostra però che il tasso di disponibilità all’accoglienza delle popolazioni perseguitate era nelle opinioni pubbliche, americana, inglese e francese dell’ordine dello 0,5%, 0,7%. E uno dei motivi per cui nessun governo si offrì di accogliere i gruppi di cui la Germania voleva “liberarsi”, fu appunto l’indisposizione delle proprie opinioni pubbliche. Il secondo motivo è che gli ebrei erano percepiti come una categoria di persone che in qualche modo aveva lucrato negli anni della crisi economica. Dunque la loro condizione, almeno nella prima fase della persecuzione, veniva percepita come una sorta di contrappasso. Significativamente, du- rante la guerra, questo tasso di problematicità non diminuì, ma crebbe. Allora qualcosa di vero c’è nella frase di Wiesel, e bisogna riflettervi. Io penso ad esempio che quello stato d’animo non è necessariamente orientato nei confronti di un solo gruppo, in questo caso gli ebrei, ma fa parte del modo di pensare intemporale dei sistemi politici. L’altra cosa sorprendente rivelata da Hamerow, per noi almeno, è che il dato di riflessione sull’orrore non avvenne a campi aperti, quando si ebbe la consapevolezza delle dimensioni dello sterminio e ci si poteva attendere un atto almeno di resipiscenza. No, secondo Hamerow questo atto, sondaggi alla mano, non ci fu almeno fino alla fine degli anni ’50. Accanto a questo dato cita altri due casi, sintomatici: in paesi come Canada e Australia, il tasso di disposizione all’acco- glienza era ancora più basso dello 0,5%: parliamo di paesi con una enorme disponibilità di spazio, con una presenza ebraica sotto lo 0,3%, e che non hanno accolto nessuno». Morale? «È necessaria un’analisi di una situazione e capire come si originano le reazioni degli individui e delle comunità in condizioni di ansia e di paura. Va compreso che l’una e l’altra non si vincono affrontandole sul piano della morale; ma con una sorta di terapia di informazione, riflessione, lavorando su un dato gnoseologico, teoretico, culturale. Non con iniezioni di etica, perché queste possono produrre reazioni nell’immediato (di senso di colpa, di pudore) destinate a durare fino al sussulto successivo, ma senza impedire che si ripetano l’errore e la colpa». Mi sta parlando dell’oggi? «Sicuro, ma per dire che settant’anni fa le persone non erano per forza peggiori o più superficiali di noi. Credo piuttosto che fossero attivi meccanismi culturali ed emozionali con cui vanno fatti i conti ancora oggi. È la sola possibilità di produrre risposte che valgano anche ai nostri giorni in situazioni analoghe». Nello studio della Shoah si è passati da una storiografia “senza testimoni”, a una narrazione che si è avvalsa della testimonianza e della sua natura dinamica. Il passo successivo sarà la loro integrazione, o una delle due dovrà cedere il passo? Resterà lo scarto tra documento e voce del testimone? «Non credo che lo scarto sarà colmato. La testimonianza è una forma di narrazione in cui è fondamentale l’io. È determinata cioè da quanto la persona vuole che sia saputo di sé e ascoltato: e, specularmente, da quanto il testimone reputa che voglia essere saputo e detto da parte di chi ascolta. In una testimonianza convivono elementi di autocensura e di spostamento del peso specifico delle parole da un argomento all’altro, a seconda dell’ambiente in cui la testimonianza viene resa. Il racconto del testimone è un documento estremamente mobile; mentre quasi sempre si tende ad assumerlo così com’è. Mi sembra un errore, dovuto anche a una sorta di infingardia o di malinteso rispetto». La giornata della memoria chiede a tutti di essere partecipi e di fare tesoro dell’ammonimento che viene dalla Shoah. Ma come “ricordare” qualcosa di cui non si ha avuto esperienza? «Il problema è se il “giorno della memoria” trova un posto nel profilo delle storia di un paese, di ciascun paese. Se resta, o diventa, una data metafisica non reggerà nel tempo. Se viene trasformata in una “data etica” si consumerà, sarà vissuta come un’intrusione che pretende di dirti come vivere. Sarà intesa come un dato estraneo alla vita quotidiana. Perché rimanga nel proprio valore e nel proprio significato occorre che questa data sia proiettata lungo una storia nazionale, come esito di una vicenda di possibilità e di scelte che hanno prodotto come risultato lo sterminio». Un grande testimone come Marek Edelman (che lei conobbe bene), eroe del ghetto di Varsavia, scomparso po- «La memoria può esserlo a patto di non essere assunta come un pacco chiuso. Del passato devo ricordare che ho fatto delle scelte, e i criteri che mi hanno guidato a farle. Devo cercare di mettere a fuoco i principi che non ho salvaguardato, i compromessi a cui sono sceso. La memoria è un esercizio di riflessione; non la redazione di un manuale, né un racconto oleografico, senza asperità. Uno dei pregi di Edelman è che ha raccontato tutte le asprezze, spiegandole quando era necessario. Sapeva, e raccontava, che al momento della rivolta il primo avversario era proprio una parte del ghetto. Non tacque mai che ribellarsi ai nazisti significava anche combattere tutta quella parte di società “ibridata”, compromessa per interesse o per paura. Edelman ha insegnato a non ragionare in termini di buoni/cattivi, dentro/fuori; ma a pensare a un conflitto che era la somma di tanti microconflitti non meno importanti, tragici, dal punto di vista del processo di decisione della piega che avrebbero preso gli eventi. E, ancora, Edelman aveva chiarissimo questo meccanismo quando rifletteva sulla Polonia degli anni ’80 [quando fu attivo sostenitore delle lotte di Solidarnosc, ndr], sulla Varsavia del 1943, come sulla Sarajevo del 1992. Continuò a ragionare su che cosa vuol dire collocarsi in un luogo, conoscere che cosa vi si muove e perché; e non solo assumere una visione partigiana di un conflitto». La filosofa Hanna Arendt, da lei citata nel suo libro, scrisse che solo il racconto e i concetti che ne scaturiscono possono sottrarre alla futilità la vicenda umana. Lei, di suo, afferma che la memoria della Shoah ha un valore prescrittivo. Non è un’affermazione da poco. Ma come raccontare quando non ci sarà più l’ultimo testimone? Quale sarà il mezzo espressivo più adeguato per non perdere il patrimonio della sua parola e farne un elemento di storia? «Una volta finita la fase narrativa “pura”, dovremo assumere la Shoah come fatto storico, accertato, indiscutibile, i cui documenti si tratteranno finalmente non come ipotesi di esistenza di un evento, che ormai sarà considerato superiore a ogni dubbio. L’altro elemento su cui lavorare è che quell’evento è stato testimoniato e raccontato da tantissime fonti (scritti, fotografie, filmati), e ripreso in seguito e in maniera indiretta da tantissime persone che vi stettero intorno (né dalla parte delle vittime né dei carnefici). Questa terza serie di fonti sarà quella su cui saremo costretti a misurarci per capire una storia che comunque non sarà mai del tutto ricostruita. È come se ci trovassimo davanti a una serie lunghissima di fotografie scattate in rapida sequenza: per tante che siano non restituiranno mai il senso di continuità che dà un film. Ciò che manca, e mancherà sempre, è il pur ridottissimo spazio tra una immagine e la successiva. Tutta la documentazione sulla Shoah di cui disponiamo è come quella serie di foto. Per riempire gli spazi bisognerà far lavorare la testa, più che cercare spasmodicamente altri documenti, perché così torneremmo nella logica della dimostrabilità della sua esistenza. Dopo l’ultimo testimone direi: basta. Ora ricostruiamo tutto, basta cercare prove. Rimettiamoci finalmente al lavoro». L’intervista martedì 27 gennaio 2009 Speciale La giornata della memoria KEYSTONE Dove finisce la storia Auschwitz ne, ad esempio con una Eva Braun)». O con quell’Hitler così ben recitato da Bruno Ganz. «Sì, se si punta alle emozioni primarie si rischia di assistere a situazioni che potrebbero anche ripugnare». La Shoah e Israele La burocrazia dello sterminio tunità e la fondatezza di una formula divenuta comune: “Il dovere della memoria”. Io credo piuttosto che la memoria sia una fatica, un travaglio. Del resto Primo Levi, che tutti leggiamo come il testimone più alto della Shoah, non ha smesso di dirlo, fin dalla poesia posta in esergo di Se questo è un uomo. Nelle sue parole la memoria è molto più di un precetto, è piuttosto un problema. E da questo punto di vista, vincolarla a una data rischia di trasformarla in un appuntamento e di conseguenza toglierle complessità». Ad Auschwitz come al Colosseo Un rischio che forse si corre anche come conseguenza di quella sorta di monumentalizzazione della Shoah. La sua trasformazione in elemento quasi decorativo del paesaggio culturale, la sua iscrizione in un canone, persino estetizzante, di bon ton culturale e politico. La sua ritualizzazione. Con tutto il bene che si può dire delle visite delle scuole di (quasi) tutta Europa ai campi di sterminio, non bisognerebbe chiedersi se non si finirà di questo passo per visitare Auschwitz come si visita il Colosseo? «Capisco – conviene Luzzatto – ma non si può dare una risposta 2 Più che un dovere la memoria è un travaglio, dice lo storico Sergio Luzzatto, e da sola non basta a comprendere la natura di un evento come lo sterminio nazista Per capire bisogna rifarsi alla storia di Erminio Ferrari KEYSTONE Un giorno Adolf Hitler chiese: ma chi si ricorda più del genocidio degli armeni? Contava sull’oblio che seppellisce anche i crimini più grandi della storia, per assicurarsi un’impunità postuma. Ma si sbagliava. Il crimine da lui ordito ha prodotto una memoria colossale, persino più grande di quanto il ricordo di tutti noi messi assieme possa capacitare; più grande e dolorosa di quanto siamo in grado di capire. Per questo, quando la memoria sanguina, la storia soccorre; quando tuttavia la memoria domina, la storia soccombe. E poi: di chi sarà la memoria che si celebra nella Giornata ad essa oggi intitolata, data di liberazione del campo di sterminio nazista di Auschwitz? Esclusiva delle vittime? Del giovane soldato sovietico – il liberatore – sul cui volto Primo Levi lesse lo sgomento dell’innocente per “l’altrui colpa”? Del carnefice? Degli spettatori imbelli di quel crimine epocale? E soprattutto: che fare noi, oggi, di una memoria che siamo stati sollecitati a sentire come dovere, e che come tutti i doveri potrebbe indurre la tentazione a venire schivati? «La memoria è un travaglio», dice Sergio Luzzatto nel colloquio che pubblichiamo in questa pagina. Una fatica alla quale non ci si può sottrarre, ma a cui potrebbe essere rischioso votarsi incondizionatamente. Docente di storia moderna all’Università di Torino e storico della contemporaneità, Luzzatto ha studiato le persistenze del retaggio fascista nella società italiana, criticando a fondo, con gli strumenti della storiografia, l’impellenza revisionista di una parte sempre più estesa della pubblicistica e del ceto politico. Ferdinand Braudel scrisse di una “storia misura del mondo”; e non stupisce che a questa “misura” si richiami Luzzatto, quando la memoria – dolore e sangue pulsante – sembra ancorare un evento e il suo ricordo alla mera dimensione sensibile. Anche nel caso della Shoah, certo. Anche accettando il rischio di finire per usare parole che ancora suonano come empietà alle orecchie di sensibilità dolenti e esasperate; o di essere involontario argomento di polemica politica. Vediamo. Alla Giornata della memoria, in Italia, sono state fatte seguire quella “del ricordo”, il 10 febbraio, intitolata alle vittime delle foibe in quel supplemento di odio e vendetta che seguì la fine della seconda Guerra Mondiale alla frontiera italojugoslava; e, più recentemente, la Giornata delle vittime del terrorismo, il 9 maggio, data dell’uccisione di Aldo Moro. Parrebbe soltanto un’inflazione di giornate, ma è quasi trasparente la volontà (più o meno consapevole) di separare le memorie, orientare i ricordi: quello della Shoah per i democratici; quello delle foibe per la destra (istituito non a caso da un governo Berlusconi); quello del terrorismo, legandolo alla morte di un uomo e all’atto dei suoi carnefici, le Brigate Rosse, e dunque orientando unilateralmente il senso comune del fenomeno: perché allora non scegliere il 12 dicembre di Piazza Fontana? La memoria, professor Luzzatto, è destinata a dividere? «Penso anch’io che vi sia stata, soprattutto in Italia, un’inflazione inopportuna di date intitolate alla memoria. Un incremento di sollecitazioni di questo genere rischia di svalutare ciascuna di queste “giornate”. Aggiungerei che da qualche tempo, pur comprendendo e condividendo le motivazioni che hanno condotto a istituirla, sono perplesso anche rispetto a quella che a molti di noi appare la più importante: quella dedicata alla Shoah; se non altro per l’entità del fenomeno storico che evoca. Sono cioè dubbioso sull’oppor- laRegioneTicino univoca. Sappiamo bene quanto conti nell’animo umano il processo di identificazione. E non c’è dubbio che quando si visitano i luoghi dello sterminio la sensibilità dei ragazzi viene resa più viva rispetto a quella indotta da testi letti o immagini viste. Lo stesso Holocaust Museum di Washington ha assunto questo argomento: a chi entra nel museo viene assegnata l’identità di una figura di pari età scomparsa nella Shoah. Il processo di identificazione è quindi molto forte e può essere utile nell’avvicinare i ragazzi o le coscienze a un evento come la Shoah. Tuttavia è un meccanismo che può rivelarsi fuorviante, quando sulla messa a distanza di un fenomeno prevale l’avvicinamento, l’immersione nelle situazioni. Una prossimità emotiva che può favorire l’identificazione con le vittime, sì, ma anche con gli spettatori o con i carnefici dello sterminio». E qui, si sente, parla lo storico: «Credo la comprensione di un fenomeno è tanto più profonda quanto meno è memoria e più è storia. Siamo sufficientemente lontani dai fatti per chiedere ai ragazzi di mettere a distanza le cose, non viverle con sentimenti primari (che, nel caso della finzione cinematografica, producono anche esiti paradossali di identificazio- Dall’avvicinamento alla memoria, alla sua paternità, alla sua “proprietà”. A chi appartiene la memoria della Shoah. Recentemente, l’ex ambasciatore israeliano in Vaticano ha detto in un’intervista a Repubblica, che il Vaticano ha tentato in anni recenti di “cristianizzare” la Shoah. Al di là della polemica contingente (in risposta al biasimo vaticano per l’attacco a Gaza) la questione – storiografica o morale, fa lo stesso – è grande e non finisce di dividere. Anche l’ex presidente del parlamento israeliano Avraham Burg ha parlato di un “furto” della Shoah, ma questa volta da parte dello Stato di Israele ai danni dell’ebraismo, e più in generale dell’umanità. «L’affermazione di Burg è senz’altro pertinente – osserva Luzzatto – e riguarda le dinamiche profonde della società israeliana. E non da oggi: pensiamo al processo Eichmann e all’investimento politico e sociologico fatto sulla Shoah nel presentarsi come il popolo delle vittime, così da accreditare una politica invece aggressiva e ingiustificabile. È ben discutibile l’idea che i cristiani abbiano cercato di impossessarsi della Shoah. I passi compiuti da papa Wojtyla non possono essere intesi in questo senso, ma semmai come assunzione di una grande responsabilità storica e ideologica. Non credo cioè che sia giusto e onesto imputare alla chiesa al tempo stesso indifferenza o, al contrario, il furto della Shoah. Pur con tutte le contraddizioni e le reticenze della gerarchia, mi sembra un’accusa esagerata e incoerente». L’intervista è stata registrata prima della revoca della scomunica al vescovo lefebvriano negazionista Williamson, da parte di papa Ratzinger. Ma non si tratta della sola Chiesa. Detto diversamente: si può oggi dire che la Shoah appartiene ormai a tutti; alla storia delle vittime e dei carnefici; a quella di chi per età e provenienza non la conobbe? «Sì, possiamo considerarla tale: nell’ultimo trentennio c’è stata un’assunzione di responsabilità sempre più capillare. Un esempio per indicare i risultati di questo processo: ogni anno all’inizio dei miei corsi all’Università di Torino propongo agli studenti un test di cultura storica generale. Ecco, mi ha colpito il fatto che, in mezzo a tante risposte di una ignoranza imbarazzante, se c’è una cosa ben nota a tutti i ragazzi è la Shoah. Non la confondono con altre cose, come avviene per altri temi, e credo che questo sia un risultato. Anche se, mi rendo ben conto, il rovescio di questa medaglia è la banalizzazione della Shoah, a forza di sentirne parlare o di vederla al cinema. Significativamente, quasi tutti gli storici concordano sul fatto che fu il telefilm Holocaust, più dei libri di un Primo Levi, ad attirare l’attenzione di massa sulla Shoah». Attenzione di massa, parole per le masse. Ci fu un tempo in cui il primo ministro israeliano Menachem Begin definiva il leader palestinese Arafat una specie di Hitler reincarnato. Oggi alcuni uomini pubblici evocano l’incombente pericolo di un nuovo sterminio per motivare una politica israeliana di violenza e aggressione. Non è una forma di pervertimento della storia? E non fa lo stesso il nobel Saramago quando paragona Gaza ad Auschwitz? Non è anche questa un’offesa alla storia? Si bruciano bandiere con la stella di David assimilata a una svastica... Il pervertimento della storia Di nuovo soccorre lo storico: «Non credo sia solo una questione di banalizzazione: da un lato la confusione tra memoria e storia fa sì che il rapporto tra passato e presente esca fatalmente distorto. Se noi confondiamo la memoria di alcuni con la vicenda di tutti, allora possono prodursi cortocircuiti che prescindono dalle situazioni, facendosi sempre più diffusi e gravi. D’altra parte, lo stesso impiego strumentale di questi temi testimonia come le vicende della Shoah sono ormai diventate simboli. E, si sa, le icone si sottraggono allo specifico di una concretezza storica, cronologica, e investono una contemporaneità più spalmata sui tempi della storia». Con una precisazione: «Certo, dobbiamo rimpiangere il fatto che qualcuno voglia confrontare Gaza con Auschwitz, anche se almeno una cosa condividono questi due luoghi, quello di essere chiusi: anche da Gaza i rifugiati non possono scappare. Ed è una ironia tragica quella che ci propone il ricordo dell’apertura di un cancello, e quale cancello, mentre abbiamo ancora sotto gli occhi uomini donne bambini e vecchi a loro volta chiusi dietro confini invalicabili. Detto questo, è solo con un’approssimazione colpevole che Saramago può paragonare Gaza ad Auschwitz. Ma, di nuovo, Israele non può brandire Auschwitz come un’arma per quarant’anni dicendo “noi possiamo fare questo e quello per ciò che ci è successo ad Auschwitz”, senza mettere in conto che un giorno questi usi strumentali gli si possano ritorcersi contro». Abbiamo ricordato il processo Eichmann. Con tutte le controversie che ha generato, ha pure avuto il merito di portare in luce le responsabilità enormi di chi pure non maneggiò direttamente lo Zyklon B (oltre a quello di aver ispirato a Hanna Arendt il fondamentale La banalità del male). Lei crede che in Europa sia stato svolto a sufficienza un lavoro di storia e di memoria per portare in luce e alla coscienza la parte di chi non commise, e tuttavia non impedì? «Sappiamo del cammino percorso dalla Germania. Io posso aggiungere qualcosa delle sole realtà che conosco, Francia e Italia. La Francia ha fatto molto, non solo attraverso i processi Barbie e Touvier. È passata anche attraverso un laborioso travaglio memoriale e storico, coinciso con il passaggio dalla presidenza Mitterrand a Chirac. Coincidenza paradossale: il silenzio di Mitterrand contro il mea culpa di Chirac. La Francia, inoltre, ha fatto sicuramente molto e a tutti i livelli. Penso anche a film e libri, che hanno contribuito in modo decisivo a rendere storia propria quegli eventi». I segnali contraddittori «Dell’Italia faticherei a dire lo stesso. Al di là delle confusioni strumentali sulla vicenda propria del fascismo, nello specifico della Shoah l’Italia ha conosciuto una situazione particolare: ha avuto un Primo Levi, divenuto testimone e voce universale della Shoah, letto da generazioni di studenti; un viatico importante per una riflessione adeguata attorno all’Olocausto. È stato, diciamo così, un apprendimento partito dal basso. Dall’alto, invece, sono giunti segnali diversi e contraddittori: da una parte si è assistito a un percorso edificante di un personaggio come Gianfranco Fini (che però ha stabilito una dubbia distinzione tra leggi razziali e resto della vicenda politica del fascismo); ma l’unico processo che abbia avuto una risonanza paragonabile a quella del processo contro Touvier, è stato quello a carico di Erich Priebke. Si noti: un processo a un ufficiale tedesco, non a un ufficiale italiano. E questo non ha risolto il problema: pur con i meriti di conoscenza attribuibili a quel procedimento, ancora una volta è mancato il processo di presa di coscienza del ruolo che molti italiani hanno avuto nella macchina dello sterminio. Di fatto, la “banalità del male” che tanti paesi hanno riscontrato in loro cittadini assurti a simbolo di quel crimine, in Italia faremmo fatica a trovarla perché sostanzialmente non l’abbiamo ancora cercata». Estero sabato 27 gennaio 2007 Speciale La giornata della memoria KEYSTONE 11 Incontro con Marta Ascoli, deportata a 17 anni a Auschwitz e poi a Bergen Belsen Il valore della memoria e le necessità della storia nel confronto con una sopravvissuta di Erminio Ferrari Un treno per Auschwitz L’arrivo KEYSTONE Trieste – Man mano che gli uomini morivano, nel vagone si faceva posto. Da Trieste a Auschwitz il treno impiegò quasi una settimana; spesso era costretto a fermarsi a causa dei bombardamenti, o a deviare dal percorso perché un tratto di ferrovia era andato distrutto. I morti venivano scaricati, i vivi arrivarono ad Auschwitz e subito dopo molti di loro erano già morti. Nel marzo 1944 Marta Ascoli aveva 17 anni. Le Ss andarono a prenderla a casa. C’erano solo lei e la madre, il padre arrivò mentre lasciavano l’appartamento, chiese che cosa stava accadendo e fu portato via anche lui. Li condussero alla Risiera di San Sabba, alla periferia della città. Nello stabilimento dismesso erano detenuti partigiani, militari, ebrei (quelli jugoslavi, di ogni età, arrivati dal campo di Arbe, in Slovenia). A pieno regime la Risiera fu portata dopo l’8 settembre 1943, quando l’area di Trieste fu dichiarata Adriatisches Küstenland e amministrata direttamente dal Reich. Per gli ebrei era un campo di transito verso i lager dell’Europa centrale, ma molti vi morirono, asfissiati dai gas di scarico di camion chiusi ermeticamente, e poi eliminati nel forno crematorio edificato nel cortile della Risiera (l’unico in esercizio in Italia), che prima era un essicatoio e poi fu perfezionato secondo l’esperienza via via maturata nei campi polacchi. Per tutti gli altri era il campo definitivo. Li si uccideva in tanti modi. Chi vuole può visitare le celle in cui si praticava la tortura e vedere ancora esposta la copia della mazza che li colpiva alla nuca (l’originale è stata rubata nel 1981). E farsene un’idea. Tra i tre e i cinquemila morti, fino alla fine d’aprile, quando i nazisti in rotta fecero saltare il crematorio, la cui impronta profilata sul muro dell’edificio principale, oggi dice forse molto di più di una retorica presenza. Dopo una decina di giorni in Risiera, la madre di Marta, cattolica, venne rilasciata. Le lasciò disperazione, un asciugamani e un pettine. Lei e suo padre, invece, furono caricati dapprima su un camion e poi in un vagone blindato stipato all’inverosimile, da non potersi neppure accucciare. Fu una Ss italiana a consentirle di salire sul vagone con il padre, dopo che ne era stata separata. Il viaggio cominciò dal silos. Nell’introduzione alla sua memoria, pubblicata a oltre cinquant’anni da quel viaggio, Marta Ascoli si sentì di “dichiarare per chiunque avesse dei dubbi, che tutto quanto da me descritto corrisponde a verità”. Verrebbe da chiederle se una tale precisazione non era forse superflua, ma solo nel dicembre scorso, mentre a Teheran il presidente iraniano Mahmud Ahmadinejad inaugurava l’infame convention di negazionisti, a Trieste un ex deputato di Alleanza Nazionale dichiarava all’Ansa che la Risiera non fu un campo di morte. Non è una domanda da fare. Lei mostra l’avambraccio e ricorda, sgradevolmente. «Ad Auschwitz ci scaricarono dal treno e sulla banchina vidi mio padre per l’ultima volta». Lui fu mandato subito nella camera a gas, lei trasferita a Birkenau, dove le venne tatuato il numero 76479. Marta era giovane e in salute, e si vede che in quel momento nel campo c’era ancora posto: diversamente la selezione non ci sarebbe stata, e l’intero trasporto sarebbe stato inviato direttamente nelle camere a gas; o sarebbe stata più rigorosa, e un aspetto men che laRegioneTicino Un superstite alla Risiera decente avrebbe condannato a morte chi gli toccava. E comunque, per la maggior parte, si sarebbe trattato di una mera questione di tempo: le selezioni si succedevano. La capoblocco faceva scendere dai tavolati (le coje) e allineare tutte le detenute, nude davanti agli ufficiali delle Ss che decidevano chi eliminare. «Io ne ho superate quattro. Sono stata fortunata». Fortunata, beninteso, è una parola da spendere con parsimonia; o da lasciare a chi ci è passato, perché decida se usarla o no. Le parole contavano, infatti. Forse non più di una buccia di patata che poteva tenere in vita; ma non meno. C’erano parole da capire, quelle degli ordini dati in tedesco dalle Ss, o in polacco o ucraino dalle kapò; e c’erano parole da scambiare per tenersi in vita. Per cinque mesi, Marta non parlò. «Non c’erano italiane nel mio blocco e la sola lingua straniera che conoscevo era l’inglese». Imparò a riconoscere e a pronunciare la sua nuova identità da prigioniera: a scandire Sechsundsiebzig, vier, neunundsiebzig. Il resto silenzio. Forzato allora e poi mantenuto per più di mezzo secolo. Un’esperienza del silenzio comune a molti scampati al genocidio, che è difficile indagare nelle motivazioni, tanto sono diverse per ciascun caso: dall’impossibilità di razionalizzare un trauma che ha smascherato l’insufficienza della ragione; alla fuga da un incubo ricorrente che almeno di giorno si vuole evitare; al timore di non essere creduti (“Tanto non vi crederanno”, così le Ss irridevano i prigionieri). Per Marta Ascoli, il momento di mettere per iscritto Auschwitz venne nel 1998, nei mesi seguenti la prima operazione al cuore. «Lo dovevo a mio padre». E un altro timore: essere sì creduti, ma non capiti, forse anche per questo, a lungo, Marta tenne coperto il numero tatuato sul braccio. Perché «la gente non comprendeva, confondeva le cose, non avrebbe capito di che cosa stavamo parlando». Una situazione nota anche questa, una sorta di competizione tra le memorie: quella di chi ha subito lo spavento di un bombardamento, quella di chi ha conosciuto la paura e le ferite della battaglia; di chi è passato per un campo di concentramento; di chi è uscito vivo da dove avrebbe dovuto uscire solo morto. Ciascuno con la propria ferita, unica perché unica è la vita. «Non faccio graduatorie tra il dolore di ciascuno. Posso solo dire che la durata media di vita a Birkenau era di quattro, cinque mesi». E se c’è una differenza tra uno scampato e un sopravvissuto, forse è di quella che intende parlare. Nel dicembre 1944, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, i nazisti avevano intensificato l’eliminazione dei prigionieri, tenendo in vita solo quelli ancora in grado di lavorare. Marta era tra quelli. Un lavoro che consisteva, anche, nello smantellare l’ulti- mo forno crematorio rimasto attivo. Gli altri tre erano stati fatti saltare. I russi, ormai a Cracovia lasciavano fare. «Con altre centinaia di prigionieri sono stata messa alla demolizione del crematorio, pezzo per pezzo, ordinatamente perché lo si potesse ricostruire in territorio tedesco». Il 31 dicembre 1944 il trasferimento, prigionieri e carcerieri, a Bergen Belsen. «Le settimane passavano e non ci davano quasi più niente, ormai. Mi sono presa tutte le malattie possibili, tifo petecchiale compreso. Nessuno più si curava di noi. E noi non capivamo più da quanto tempo eravamo lì. Lo abbiamo saputo soltanto il 15 aprile, quando inglesi e polacchi sono entrati nel campo». Per tre giorni i militari si occuparono del seppellimento dei cadaveri disseminati per tutto il lager (qualcuno ricorderà il filmato girato dai militari e poi montato da Alfred Hitchcock) e solo “dopo” dei “vivi”. «Io, non so con quali forze, mi sono spostata dal mio blocco, perché morire non volevo morire in mezzo ai lamenti di chi anche stava morendo. Così ho trovato i resti di una rapa e con un piccolo temperino, impiegandoci un tempo lunghissimo, l’ho tagliata e mangiata. Penso che quella rapa mi abbia salvato la vita». Gli altri, stravolti dalla fame, si erano gettati sulle razioni di latte condensato e carne in scatola, distribuiti dagli inglesi. E morirono, tanto il loro fisico non era più in grado di assimilare. «Vicino a me è morta una che si chiamava Dora, poi una che si chiamava Stella, e una che si chiamava Mariucci...». Il ritorno in Italia non fu immediato, né lineare. Disinfezioni, campi di transito, ricerca di notizie («ma ho sempre evitato di guardare nelle file degli uomini, avevo paura di vedere mio padre nello stesso stato in cui ero io»), qualcuno che aiuta. Per Marta fu un militare triestino, reduce da un campo di prigionia. La prese con sé e «una mattina che avevo 41 di febbre siamo saliti su una tradotta russa, non sapendo che direzione seguiva». E la direzione era il nord, se La tregua vi dice qualche cosa. Si trovarono in posti ancora più lontani e sconosciuti. Nuovi campi e nuove fughe. Dopo tre mesi, finalmente Trieste. Trieste che non era il miglior posto per un ritorno. Troppe contese sulla sua storia, sul suo posto nella storia, sui morti della sua storia. «Lo so, ogni volta le foibe. Ogni volta quella contabilità assurda dei morti: chi ne ha fatti di più. La conosco questa solfa: va bene la Shoah, dicono, va bene la persecuzione degli ebrei, ma i comunisti hanno anche loro le loro infamie. Per anni i fascisti di Trieste si sono riempiti la bocca con questa storia». La bocca, i libri, le piazze, i calendari. E la politica. A chi ricorda la Risiera, ricordano la cavità di Basovizza. Come se un crimine servisse a giustificarne un altro. O se la vendetta dei titini, mettiamo, basti a ridurre a mero eccesso di zelo la denuncia del vicino di casa, che guidò le Ss a picchiare alla porta della famiglia Ascoli. Forse perché tanta è la storia e poca la sua elaborazione. Poche la volontà e la capacità di renderla un viatico per il futuro. Siamo ancora alla memoria, retaggio del passato. Traumatica, ingannevole, edulcorata, plagiata. E d’altra parte: come farne a meno? E sarebbe giusto, poi? Che differenza passa tra la memoria tatuata su un avambraccio, 76479, e la storia di quel numero? Diciamo, proviamo a rispondere, che la storia è conoscenza e la memoria è esperienza. Primo Levi arrivò a dire che i soli autentici testimoni avrebbero potuto essere soltanto i sommersi, certificando in qualche modo l’impossibilità di arrivare al fondo della questione. Una avvilita negazione della ratio, o eventualmente di un plausibile disegno divino, del male radicale di Auschwitz. Per noi, più mestamente, un ricollocamento nel posto che a ciascuno spetta, di chi ascolta e di chi racconta. Marta Ascoli tornò a Birkenau dopo più di quarant’anni. «Ho visto che cosa era restato e che cosa era cambiato. E ho capito che se non l’avessi provato, quel posto l’avrei inteso soltanto come un episodio della storia». È questa la differenza. L’approfondimento venerdì 27 gennaio 2006 Speciale Il giorno della memoria Liliana Segre ricorda le farfalle. E tutto il resto, sicuro, ma quelle farfalle. Erano esposte, fissate con uno spillo nell’addome, in un corridoio del posto di guardia di Arzo, dove aspettava di essere ricevuta da un ufficiale svizzero che le negò l’asilo. Era il 7 dicembre 1943. Ad Auschwitz si ricordò di quel giorno. E ancora oggi, giornata della memoria, benché per lei tutti i giorni siano quelli della memoria. «Fu un’esperienza tremenda», racconta oggi Liliana Segre ricordando la tredicenne di allora. Un racconto che va lasciato, per quanto possibile, intatto: «Quando riuscimmo – io, mio papà e due vecchi cugini che erano con noi – a passare da quella cava di sassi dietro Saltrio, in una giornata di inverno fredda e piovosa, a noi cittadini borghesi e impreparati a reggere il passo dei contrabbandieri e a vedere le nostre valigie gettate nel dirupo e disfarsi, quel passaggio parve un’avventura estrema. Ma appena ci sentimmo in Svizzera, ci abbracciammo, ridendo e piangendo, convinti di essere al sicuro, di non dover più avere paura. Immediatamente oltre la cava c’era un boschetto, da cui spuntarono due sentinelle svizzere, le quali, senza dire una sola parola, ci presero in consegna e ci accompagnarono fino al comando di Arzo. Era mattina presto e ricordo la nostra stanchezza, ma soprattutto di come le donne che uscivano di casa non si voltassero neppure a guardarci. Non potevamo passare inosservati, stranieri e accompagnati dalle guardie; ma eravamo come invisibili. Al posto di guardia fummo messi ad aspettare in un corridoio, nel quale erano esposte una serie di farfalle bellissime. Eravamo allegri e tranquilli, e io guardavo quelle farfalle fissate con uno spillo e quello spillo mi inquietava. Dopo ore, l’ufficiale ci accolse e fu una cosa terribile. Disprezzo, boria e furia di questo ufficiale ci rivelarono il nostro destino. Rifiutava di credere che gli ebrei fossero perseguitati; accusava mio padre di essere un imbroglione che voleva sottrarsi alla chiamata alle armi. Ci accusava di voler metterci al comodo, mentre fuori c’era la guerra. Ricordo che passai dal riso alla disperazione e mi buttai ai suoi piedi supplicandolo di tenerci in Svizzera. Mio padre gli assicurava che poteva lavorare, e gli mostrò i documenti che provavano che poteva mantenersi senza gravare sulla Confederazione. Non ci fu niente da fare. Era seccato, l’ufficiale, non aveva tempo da perdere con noi. Non solo ci rimandò indietro, ma ci fece riaccompagnare dalle sentinelle armate fino alla terra di nessuno da cui eravamo entrati. Io corsi verso un cancello che mi pareva di vedere nella rete di confine, ma appena lo toccai risuonarono le campanelle. E su quella rete fummo arrestati, sotto gli occhi delle guardie svizzere, compiaciute. La sera stessa eravamo nella camera di sicurezza della caserma di Saltrio. La prima tappa per Auschwitz. Di noi quattro solo io sono tornata a raccontare. Dei due vecchi cugini, uno è morto di stenti nel campo di concentramento di Fossoli e l’altro si è suicidato a San Vittore quando seppe che sarebbe stato deportato il giorno successivo; mio padre, che non ho mai più visto dopo l’arrivo ad Auschwitz, morì nei primissimi mesi della prigionia. La sentenza di morte fu emessa dall’ufficiale svizzero di Arzo, gli esecutori furono gli altri. Non lo dimentico. Con tutto ciò io non assegno colpe collettive nei confronti di alcuna nazione. Per questo sono una donna libera e una donna di pace». laRegioneTicino Intervista a Liliana Segre, deportata tredicenne ad Auschwitz con il padre, dopo essere stata respinta alla frontiera svizzera. Con Primo Levi ricorda: ‘Meditate perché questo è stato’ di Erminio Ferrari Né il giorno né l’ora I bambini di Auschwitz Non è facile e non le fu facile esserlo, donna di pace e donna in pace. Anche lei conobbe l’incredulità, il fastidio, il desiderio di oblio, che i reduci dai campi di sterminio si vedevano opporre a ogni tentativo di raccontare. Del resto gli stessi nazisti li avevano avvertiti: se mai uscirete vivi da qui, nessuno vi crederà. E per quarant’anni, Liliana Segre non ha parlato, serbando quel silenzio in cui si era rinchiusa la vita di moltissimi altri reduci. Quarant’anni di memoria privata prima di diventare testimone pubblica della Shoa. Perché? «Quando sono tornata da Auschwitz compivo quindici anni. Ero giovanissima, ma già molto vecchia. E nei giorni immediatamente successivi al mio rientro a Milano, mi sono resa conto che i parenti ritrovati, le amiche, pure persone che mi volevano bene, non sapevano. Non capivano, non sapevano capire quello di cui io parlavo. Era come se parlassi una lingua sconosciuta. Ero un’aliena. Così, passati i primissimi giorni, in cui cercavo di raccontare cosa mi era accaduto, mi sentivo rispondere – se andava bene, e dai migliori che incontravo, badi bene – che anche loro avevano patito così tanto. Finivano addirittura per farsi compiangere per avere perso il baule con i beni della nonna, o per aver vissuto la paura dei bombardamenti, o dell’essere stati nascosti. Il racconto corale di allora, seppelliva il racconto della ragazzina reduce tra i pochi tornati. Devo dire che nel giro di pochissimi giorni, poche settimane, ho capito che non potevo parlare, che dovevo tacere. Era un senso di isolamento morale e fisico che mi ha costretto a tacere, se non in rarissimi casi e con persone molto intime. Poi la vita ha preso il sopravvento, mi sono sposata e sono diventata madre, cosicché io stessa ho accantonato questi ricordi, che bastava tuttavia poco a far tornare: un fuoco, un cane lupo, una minima cosa o un odore che mi ricordassero quel tempo. Avevo allora la forza di respingere il 7 baratro, volevo vivere, amare e essere amata. Così, con un po’ di vigliaccheria e di desiderio di farcela nonostante tutto, e godendo la stagione bella della vita, non ho testimoniato. Una scelta che oggi posso dire colpevole, egoista. Finché, col passare degli anni e le perdite degli affetti; con il mutare della storia, e osservando i revisionismi che avanzano, arrivò l’ora di interrogarmi. Fu in occasione dei miei sessant’anni e della bellissima festa che mi prepararono i miei familiari. Ricordo che al termine della giornata avvertii un senso di insoddisfazione profondo per non aver fatto sino ad allora il mio dovere. Così, nel buio della mia stanza, decisi che sarei diventata una testimone della Shoa. Non sapevo come l’avrei fatto, né con chi. Ma con molta umiltà mi rivolsi a delle amiche insegnanti, dicendomi a disposizione, e cominciai. Dopo quasi sedici anni, sono più vecchia e mi affatico, ma continuo». Un raccontare – il suo e di chi come lei tornò – in mille modi analizzato, spiegato, ammirato, sopportato. Atto liberatorio, o sacrificio ogni volta rinnovato. Lezione politica, saggio morale, preghiera, invettiva. È possibile comunicare la Shoa, tradurre con un processo di razionalizzazione, come è il raccontare, ciò che per molti versi ha sovvertito la ragione, la comunicazione tra gli esseri umani? «Me lo sono chiesto molte volte. Soprattutto perché prima di affrontare le platee che oggi mi ascoltano mi sono chiesta se davvero fossi in grado di farlo, e la riposta è no. Né io né altri lo sono. Quello che scrisse Primo Levi è vero: noi non siamo i veri testimoni. I veri testimoni sono coloro che hanno varcato la soglia estrema e non sono tornati a raccontare. Noi raccontiamo fino a un certo punto, e loro che potrebbero dire fino a che punto è giunto l’essere umano nell’accanirsi contro un suo simile colpevole solo di essere nato, loro non hanno potuto testimoniare. Io sono una modestissima testimone. Tanto che in realtà io non racconto quasi nulla dei fatti; ma fin dall’inizio ho privile- L’estate prima della deportazione giato i sentimenti, il senso del distacco. La partenza dalla tua casa, quando ancora è una casa, e fai la valigia, cominciando a distaccarti dalle cose che erano la tua dimensione quotidiana. Poi perdi anche quella valigia, e ti sembra un’enormità, ma non hai ancora visto nulla; e poi smarrisci i riferimenti dei luoghi, della famiglia, della lingua. Io non sapevo neppure dove mi trovavo, quando ci hanno deportati ad Auschwitz. Perdi i riferimenti temporali. In un campo di sterminio non si conoscono il mese, né il giorno, né l’ora. Non parlo delle selezioni, degli appelli al gelo, degli scheletri che camminano, delle camere a gas; cerco di raccontare chi erano quelle persone picchiate e affamate, che avevano freddo, sonno, e non sapevano più dov’erano e dove sarebbero state. Questo è il perno della mia testimonianza. L’abbandono, la perdita di tutto, persino del proprio corpo, ridotto a una figura piagata, scheletrita, nuda». Ma se quello fu l’esito, ancora poco si sa, si spiega, di come avvenne che nessuno sia stato capace di riconoscere l’avanzare di tanta barbarie. Come fu possibile? «In quegli anni, il tessuto della comunità ebraica italiana era composto da persone prevalentemente borghesi e in moltissimi casi fasciste, come la gran parte della borghesia di allora. Un’adesione al regime – salvo pochi intellettuali lungimiranti, ebrei e no – proporzionalmente identica a quella del resto degli italiani. In casa, mio padre e mio zio erano stati ufficiali dell’esercito italiano nella prima guerra mondiale; si sentivano italiani a tutti gli effetti. Inoltre, la mia era una famiglia laica, niente affatto religiosa, e non si parlava di ebraismo in alcun modo. La separazione cadde come un evento incomprensibile, inatteso e incompreso. Tanto che fu considerata una situazione provvisoria, motivata politicamente ma destinata a non avere effetti né a durare. Finché si dovette prendere atto di quanto le cose stessero precipitando. Ma la stessa fuga a cui tutti si diedero dopo l’8 settembre non fu riconosciuta (se non da un ristrettissimo numero di persone) come un esito di quanto si stava preparando negli anni precedenti. Ricordo che quando il padre di Tullia Zevi venne a salutarci prima della partenza per l’America, ben prima dell’8 settembre, i miei dissero che il suo allarme era eccessivo, e che non bisognava temere. Non si capì cosa stava accadendo, e forse oggi riesco a comprendere come fu possibile quella mancanza di lucidità. I miei, ad esempio, erano tutti concentrati sulla malattia terminale di mio nonno e non si rendevano conto della gravità di quanto si andava preparando. Finì che anche il nonno, ammalato di Parkinson, fu deportato ad Auschwitz dove giunse vivo, purtroppo per lui». Si torna sempre a Primo Levi, allo stupore che vide sul volto dei soldati russi giunti nel campo di Auschwitz. Alla vergogna “l’altrui colpa” letta sul viso di uno di quei giovani. Quell’altrui colpa che fece vergognare il soldato russo, ma non abbastanza l’Europa, noi, occidentali, civilizzati, cristiani: mi è sempre parsa un’espressione cruciale della riflessione sulla Shoa. L’Europa ha saputo riconoscersi in quella colpa? «Esiste una mole impressionante di letteratura su questo tema. Si passa da un relativismo impressionante a sensi di colpa collettivi, attraverso ogni tipo di riflessione teologica, politica, filosofica, psicologica. In realtà, penso che solo pochi eletti si siano chiesti “io dov’ero?”. Ho incontrato poche persone che lo hanno fatto. Ricordo una suora, che conobbi da ragazza e ritrovai da adulta: dopo una mia testimonianza in una scuola, ha chiesto la parola e mi ha detto “io ti voglio chiedere scusa, perché non abbiamo capito”. Ho incontrato un amico che mi ha detto di aver visto sparire i compagni di scuola ebrei e di non essersi neppure chiesto come mai, né dove finissero. Non gli importava, mi ha detto, e per sempre gli è rimasto un senso di colpa per non avere fatto la cosa più semplice. E spesso la cosa più semplice è seppellita sotto saggi, arzigogoli filosofici sulla banalità del male o del bene: in realtà, credo che alla maggior parte della gente – in particolare a coloro che per ragioni di educazione o di collocazione sociale non se ne sono mai occupati – di questo argomento non importi proprio niente». Non teme dunque una banalizzazione della memoria, anche attraverso la ritualizzazione delle cerimonie (interviste comprese)? «Ogni volta che il 27 gennaio vengo invitata a rendere la mia testimonianza, mi dico che sì, avevamo ragione noi quattro disgraziati rimasti a batterci perché si istituisse il Giorno della memoria (benché per noi sia sempre il giorno della memoria), pensando che in quel giorno si onorassero i morti. Ma non è sempre stato così. Per certi versi è avvenuta un’operazione in cui i morti contano meno delle ragioni di chi li ricorda. Ma è un discorso che esula dalla mia testimonianza. A mio parere, piuttosto, in questo giorno bisognerebbe ricordare i bambini, i neonati, quelli che non hanno potuto diventar grandi. Quelli portati via dalla culla per essere uccisi. Bisognerebbe raccontare la storia di uno, perché dire sei milioni non ha più alcun effetto. Bisognerebbe parlare di uno, dargli un nome, ricordare dove abitava e quando è partito; e chiedersi, sessant’anni dopo, chi sarebbe, cosa farebbe. Vite. Vite interrotte solo perché erano nate». Signora Segre, non ha mai desiderato dimenticare? «No, il mio è un debito troppo grande con i martiri miei e con tutti quelli che non ho conosciuto. E se sono stata risparmiata – non so perché e non ho risposte su questo punto – ho il dovere di dire come Primo Levi: meditate perché questo è stato». L’intervista lunedì 2 marzo 2009 Speciale 2 Incontro con Giancarlo Bastanzetti il cui padre Pietro morì nel 1944 nel campo di concentramento di Mauthausen: ‘Il seme dell’odio, purtroppo, sta di nuovo germinando’ A fine gennaio ha incontrato gli allievi della scuola media di Bellinzona 1 a cura di Claudio Rossi Testimonianze per non dimenticare laRegioneTicino Giancarlo Bastanzetti marzo 1946, a Milano in Corte d’Assise era stato condannato a 8 anni e 4 mesi. Anche perché noi abbiamo rifiutato una possibile, cosiddetta vendetta, ma non abbiamo avuto giustizia. Nemmeno formale”. Suo padre, Pietro Bastanzetti, il 17 marzo 1944 viene arrestato e portato nel carcere di S.Vittore. Qual è stato il motivo del suo arresto? “Aver organizzato assieme a pochi altri, ma con l’adesione di tutte le maestranze, gli scioperi del dicembre 1943, del marzo 1944 e il sabotaggio della produzione bellica nella fabbrica milanese dove lavorava”. Il 5 aprile 1944 viene deportato e l’8 aprile arriva a Mauthausen, in Austria. Come erano le condizioni di vita e quali erano le attività nel campo? “Le condizioni di vita erano tali da prevedere una sopravvivenza di 90 giorni. Il campo era sostanzialmente un campo di transito verso qualcuno dei 49 sottocampi, salvo il lavoro da schiavi nella sottostante grande cava di granito”. Il 1° giugno 1944, suo padre ridotto in condizioni pietose dalla fame, dalle percosse, in fin di vita viene lasciato morire. Il 2 giugno 1944 a 42 anni “passava per il camino e andava nel vento di Mauthausen”. Chi le riferì questi terribili momenti? Suo padre ha lasciato delle lettere, degli oggetti personali? “Innanzitutto il papà “non KEYSTONE Giancarlo Bastanzetti ha settantatrè anni, per tutta la sua vita non ha fatto altro che ricordare, testimoniare, denunciare e difendere la memoria di chi non lo può più fare. Fa parte del Gruppo della Memoria, che a Saronno svolge un’intensa attività: incontri, dibattiti, conferenze, formazione nelle scuole, pellegrinaggi nei campi di sterminio nazista, per ricordare undici milioni di persone, di cui sei milioni di ebrei, sterminate nelle camere a gas e nei forni crematori durante la seconda guerra mondiale. Il 23 gennaio scorso Giancarlo Bastanzetti ha raccontato la sua storia agli allievi della Scuola media di Bellinzona 1. Primo Levi, deportato ad Auschwitz, rivolgendosi a chi visita il campo di concentramento scrisse: “Fa’ che il tuo viaggio non sia stato inutile, che non sia stata inutile la nostra morte. (…) fa’ che il frutto orrendo dell’odio, di cui hai visto qui le tracce, non dia un nuovo seme, né domani, né mai”. Lei pensa che questo “seme” potrà ancora germinare? “Io penso, purtroppo, che quel seme abbia già germinato. Tutti i giorni episodi di razzismo, antisemitismo, intolleranza, pregiudizio, fascismo e nazismo, reali, pur sotto forme diverse da quelle conosciute nel secolo scorso, sono sotto gli occhi di tutti. Almeno di chi vuole vedere. È ovvio che sarei felice di sbagliarmi”. L’eredità del Male Verso la fine della guerra, i Tedeschi si accorsero che la liberazione era imminente e distrussero molte tracce degli orrori dei lager. Quindi l’unica fonte che si ha sono le testimonianze orali e scritte di chi è sopravvissuto. Che ruolo può avere la scuola anche in un futuro lontano, affinché non si dimentichi ciò che è stato? “Un ruolo di estrema importanza, essenziale. I giovani avranno sempre il diritto di sapere, la scuola e le famiglie hanno il dovere di dare una risposta a questo diritto. Con la speranza che avendo saputo, non si ricada nei medesimi errori”. Mauthausen viene lasciato morire”, ma viene assassinato (probabilmente!) con un’iniezione di benzina o di fenolo al cuore. Ho avuto le ripetute, dolorose testimonianze di due suoi compagni di deportazione, due fra i pochissimi sopravvissuti. Si chiamavano Angelo Caserini e Bruno Bagatta e furono loro a portarlo in infermeria la sera prima del decesso. Bruno Bagatta, ritrovandomi dopo vent’anni, piangeva come un bambino, perché mio padre resosi conto che era giunto il momento della fine, gli aveva dato tutto quello che era rimasto da lasciare in eredità ai figli: due cerini. Due cerini che lui si vergognava di non avermi portato, perché un giorno li aveva barattati con una fetta di pane, dandoli a un russo che aveva una siga- retta, ma non i fiammiferi per accenderla. Il papà ha lasciato delle lettere scritte con una matita copiativa contro il muro del carcere di Bergamo: a sua madre, a sua moglie, ai suoi figli. Nonostante il tono rassicurante, quelle lettere sono un autentico testamento di un uomo che prevede di non tornare da quell’inferno”. Pietro Bastanzetti era innocente, come lo erano le migliaia di persone deportate. Lei non ha mai dimenticato? Se fosse possibile, che cosa chiederebbe alla giustizia? “Semplicemente di rimediare all’infamia della sentenza del giugno 1946, con la quale la Cassazione a Roma dichiarava innocente quel tale che era andato ad arrestare mio padre e che nel Bastanzetti in aula con gli allievi della Scuola media di Bellinzona 1 Quale messaggio sente di mandare ai giovani? “Più che un messaggio un augurio, fatto col cuore. Di crescere come donne e uomini liberi. Essere libero significa, sempre, poter scegliere. È preferibile aver sbagliato in virtù di una libera scelta, piuttosto che fare una cosa giusta, perché costretto”. La strada per Mauthausen • Gli scioperi generali del marzo 1943 e del 1944 furono il più vasto movimento di massa dei lavoratori durante la guerra, nei territori occupati dai Tedeschi. La popolazione dei centri urbani era al limite della sopravvivenza, oltre ai bombardamenti, alla fame e al freddo, i ceti a reddito fisso vedevano ridursi ogni giorno la propria possibilità di acquistare addirittura gli stessi generi razionati. Per i lavoratori dipendenti, in particolare gli operai, c’era lo spettro della disoccupazione dovuto al rischio che la produzione fosse interrotta per mancanza di materie prime, di energia, ecc. I lavoratori chiedevano l’indispensabile per vivere, di non lavorare per la guerra, di poter essere liberi nelle loro case, di non esse- re arrestati, deportati, torturati dai nazifascisti, chiedevano che i loro figli non fossero arruolati dallo straniero. Si aggiungano le retate e i trasferimenti coatti di manodopera per il lavoro in Germania. Lo sciopero si estese dal Piemonte e dalla Lombardia al Veneto, alla Liguria, all’Emilia ed alla Toscana. Due milioni di persone parteciparono al movimento. I grandi industriali si dimostrarono solidali con gli occupanti tedeschi. Lo sciopero segnò una dura sconfitta per i fascisti. La macchina da guerra nazista ricevette un serio colpo, per una settimana la produzione bellica in tutta l’Italia del Nord venne arrestata. Lo sciopero fu una battaglia vinta contro le forze fasciste-hitleriane. • Nel campo di sterminio di Mauthausen morirono 122 mila persone: socialisti, omosessuali e rom tedeschi, polacchi, jugoslavi prigionieri di guerra sovietici, ebrei, ungheresi, olandesi. Arrivavano al campo anche interi convogli di italiani, partigiani, operai provenienti dai grandi scioperi di Torino, Milano e Genova. I più numerosi furono quelli di fine marzo e del giugno 1944. I prigionieri venivano accolti a randellate, poi costretti a scendere nei sotterranei dove c’erano le docce, in seguito “depilati”, disinfettati. Poi ognuno era costretto a consegnare tutti gli oggetti personali. Mauthausen è stato considerato il massimo livello per l’annientamento dei prigionieri. Coloro che lavoravano erano costretti a turni di 12 ore, sen- za cibo, al freddo. Ciò significava la morte per fatica nel tempo massimo di tre mesi. I malati e gli inabili finivano subito nelle camere a gas. • Gli scalini della morte: i deportati dovevano estrarre le pietre dalla cava, squadrarle, salire e scendere uno dietro l’altro più volte al giorno, portando a spalla sacchi pieni di massi, i 186 gradini ripidi scavati in una parete della cava stessa. Spesso i prigionieri perdevano conoscenza cadendo addosso ad altri disperati, travolgendoli e facendoli cadere nel precipizio. Le guardie armate di mitragliatrice si divertivano a spingere o a sparare a qualche internato per vedere quanti altri venivano travolti nella caduta. Il caso Berlino – Rivive nel cyberspazio la memoria di centinaia di ex lavoratori coatti, ridotti in condizioni disumane dalla Germania nazista negli anni tra il 1939 e il 1945: le loro testimonianze si possono vedere e ascoltare oggi su un portale Internet interamente dedicato a questo capitolo della storia del paese. Il portale, dal titolo “Lavoro Coatto – 1939-1945 – Memoria e Storia”, è stato realizzato grazie a un’iniziativa del Museo Storico e della Libera Università di Berlino. Si tratta di un omaggio agli oltre 12 milioni di lavoratori coatti durante il nazionalsocialismo, che offre per la prima volta KEYSTONE Rivive sul web la storia dei lavoratori coatti del Terzo Reich La cava di Mauthausen i resoconti di quell’epoca direttamente da 590 protagonisti provenienti da 26 paesi. “Molti sopravvissuti dell’Europa centrorientale raccontano per la prima volta le sofferenze ed i tempi difficili che molti di loro hanno sofferto dopo il 1945”, ha spiegato Guenther Saathoff, membro del consiglio di amministrazione della Fondazione della Libera Università di Berlino che ha realizzato il progetto insieme al Museo Storico della capitale. Con il sostegno all’archivio online, la Fondazione “Ricordo, Responsabilità e Futuro” lavora per tenere viva la memoria di queste vittime del nazionalso- cialismo e, allo stesso tempo, per rendere accessibili le storie delle loro vite ai giovani e agli accademici, al fine di contribuire all’istruzione politica e alla ricerca. Nel complesso, l’archivio offre 398 interviste audio e 192 video di 590 ex lavoratori coatti, dei quali 341 uomini e 249 donne. Cominciato nel 2004, il progetto è stato realizzato da un team di 32 ricercatori di istituti internazionali, che hanno raccolto le testimonianze – alcune delle quali lunghe anche quattro ore – su un totale di duemila audio e video cassette. Tutte le interviste sono accessibili dal sito Internet www.zwangsarbeit-archiv.de. Seconda pagina venerdì 28 gennaio 2005 Speciale A sessant’anni da Auschwitz Varsavia – Il fischio straziante di un treno e una fitta nevicata come in quel giorno del 27 gennaio del 1945 hanno accolto ieri i reduci e i grandi della Terra che sono convenuti nel gelo del lager di Auschwitz per ricordare ancora una volta, 60 anni dopo, l’orrore dell’Olocausto. E rendere omaggio ai milioni di morti che il nazismo ha lasciato sul terreno dei campi di sterminio di mezza Europa. «Come ultimi ancora in vita tra i superstiti di Auschwitz abbiamo il diritto, anzi il dovere, di avvertirvi e di chiedervi che la sofferenza dei nostri fratelli non diventi mai più realtà» ha affermato ieri Simone Veil, 78 anni, ex prigioniera di Auschwitz con il numero 78651, ex presidente del Parlamento europeo, nel corso della solenne cerimonia. La celebrazione svoltasi sotto la neve, a circa 10 gradi sotto zero, a ridosso di ciò che resta dei quattro forni crematori del campo di Auschwitz-Birkenau, alla presenza di circa 5 mila superstiti e delle autorità di 46 paesi – per la Svizzera era presente il presidente della Confederazione Samuel Schmid – si è iniziata nel primo pomeriggio di ieri con il simbolico fischio di locomotiva ed il rumore di una frenata, in memoria di quei lunghi treni merci che, piombati, portarono per anni ad Auschwitz fra il 1940 ed il 1944 oltre 1,3 milioni di persone destinate alla morte, provenienti dai più diversi paesi d’Europa. «La mente umana non è in grado di comprendere l’orrore che regnava fra questi fili spinati» ha sottolineato il presidente d’Israele Moshe Katsav, ringraziando l’Armata Rossa e le altre forze alleate per la liberazione del campo. Prima di lui Wladyslaw Bartoszewski, 83 anni, ex prigioniero di Auschwitz ed ex ministro degli esteri polacco, ha ricordato come nessun paese del mondo abbia reagito adeguatamente alle notizie sulle fabbriche della morte sorte in territorio polacco sotto occupazione tedesca, che arrivavano da diverse fonti della resistenza polacca. «In questo luogo va detto chiaramente che ogni tentativo di riscrivere la storia e di mettere nella stessa fila i boia e le loro vittime è amorale» ha sottolineato il presidente russo Vladimir Putin rivendicando inoltre il ruolo dell’Urss nel liberare il laRegioneTicino 2 Toccante cerimonia ieri ad Auschwitz dove i reduci e i grandi della Terra (assente il presidente americano George Bush) hanno commemorato le vittime dell’Olocausto. La cerimonia si è iniziata con il fischio di una locomotiva, in memoria di quei treni che fra il 1940 e il 1944 portarono nel campo di sterminio 1,3 milioni di persone a cura di Claudio Carrer Il mondo grida mai più Vecchio Continente da Hitler, a costo di 27 milioni di sovietici caduti. E oltre a Putin tra le personalità che si sono raccolte ad Auschwitz – grande assente il presidente americano George W. Bush – hanno partecipato alle celebrazioni Jacques Chirac e la regina d’Olanda, Elie Wiesel e Viktor Yushenko, Moshe Katsav, Dick Cheney e Jack Straw e molti altri. «Perché hanno cancellato il mio nome e mi hanno dato il numero, perché hanno bruciato la mia gente?» ha chiesto una superstite di Auschwitz venuta da Israele che si era avvicinata al microfono dopo Katsav, mostrando anche il numero tatuato sulla mano sinistra. Pieno di commozione è stato anche il breve discorso del cardinale Jean-Marie Lustiger venuto ad Auschwitz in rappresentanza del Vaticano. «Il silenzio di questo luogo e delle sue vittime ci raccomanda di ri- spettare la dignità anche di un uomo solo, perché lui è l’uomo» ha detto Lustiger che ha anche letto l’accorato messaggio del Pontefice. «Il tentativo di eliminare l’intero popolo ebraico si pone come un’ombra sull’intera Europa e il mondo, e non ci può lasciare indifferenti» ha scritto Giovanni Paolo II. «Dobbiamo gridare perché l’orrore del quale Auschwitz è diventata simbolo non si ripeta più nella storia della umanità» ha detto il presidente polacco Aleksander Kwasniewski. Simone Veil e Bartoszewski hanno a quel punto firmato per primi l’atto di fondazione del Centro di educazione sull’Olocausto che avrà sede nella struttura una volta usata dalle suore carmelitane e che ora fa parte integrante del Museo del campo di concentramento. Subito dopo, al suono dello sciofar, il corno tradizionale ebraico, si è iniziata la preghiera ecumenica per i defunti in ebraico, latino e polacco, seguita dal rito delle candele. Le fiammelle, contenuto in portacandele di vetro blu, sono state raccolte dai rappresentanti di tutti i paesi presenti e deposte sulle 21 lapidi che ricordano in diverse lingue le vittime di questo luogo, che si trovano tra le rotaie che conducevano al campo i famigerati vagoni piombati. La toccante cerimonia si è conclusa con il canto El Maale Rahamim eseguita dal cantore della sinagoga di Fifth Avenue di New Jork, Joseph Malovany. Il monito di Israele Il presidente Moshe Katsav: attenzione, la Shoah può ripetersi Gerusalemme – Dopo le dure parole mercoledì del premier Ariel Sharon contro l’indifferenza con la quale il mondo 60 anni fa assistette allo sterminio degli ebrei europei, ieri è stato il presidente di Israele a lanciare un preoccupato avvertimento: attenzione, ha ammonito Moshe Katsav, l’Olocausto può ripetersi. Il capo dello stato ebraico, che ha partecipato in Polonia alla commemora- zione della liberazione di Auschwitz, ha messo in guardia il mondo contro un ritorno della barbarie. Katsav ha detto che, anche se oggi gli ebrei non sembrano in pericolo esistenziale, un nuovo Olocausto «può ripetersi nelle generazioni future». «Non c’è alcuna certezza che non possa succedere» ha affermato in un’intervista al quotidiano israeliano Jerusalem Post. «Le buone vo- lontà, la democrazia, i valori universali, nulla di tutto ciò ha potuto fermare l’antisemitismo» ha aggiunto. Il presidente israeliano ha mostrato anche preoccupazione per la crescita del nuovo antisemitismo in Europa, anche se «non mette in pericolo, ora, l’esistenza del popolo ebraico». Ma Katsav ha ricordato che «l’Olocausto è stato il risultato finale di sviluppi innescati decenni prima». Dalla ‘selezione’ alle camere a gas Ecco come funzionava la macchina dello sterminio Sfruttabile Vienna – In un punto è fallita la terribile e perversamente efficace macchina di sterminio di Auschwitz: anche per i nazisti, che con cinica precisione tatuavano un numero sul braccio di ogni nuovo arrivato, non è stato mai possibile sapere il numero esatto delle vittime, di uomini, donne, vecchi e bambini uccisi nelle camere a gas, fucilati o morti per fame, fatica, epidemie, freddo oppure in seguito ad atroci esperimenti medici. I ricercatori, in base agli elenchi dei trasporti effettuati nella Germania nazista ed alle testimonianze dei sopravvissuti, ritengono che siano stati 1,1 milioni di ebrei, 75 mila polacchi, 20 mila zingari Sinti e Rom, 15 mila prigionieri di guerra sovietici e migliaia di persone di altre nazionalità arrivate nel lager alla fine del binario che entrava attraverso il cancello, ammassati in vagoni per il bestiame. Ad aprile 1940 il capo delle Ss, Heinrich Himmler, impartì l’ordine di costruire il campo di Au- schwitz, e due mesi dopo, a giugno, fu aperto il campo centrale sull’area di un’ex caserma della monarchia austro-ungarica, nel sud della Polonia. Originariamente doveva servire per rinchiudervi gli avversari politici del regime. Dopo la conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, quando fu decisa la “soluzione finale della questione ebraica”, si cominciò ad allargare il campo, con gli edifici di Birkenau (Auschwitz II, dove ieri si sono svolte le celebrazioni). Alla fine della seconda guerra mondiale il complesso abbracciava una superficie di 40 chilometri quadrati, nei quali c’erano 48 sottocampi, per ospitare sia i prigionieri sfruttati per lavori indispensabili all’economia bellica tedesca sia quelli destinati alle camere a gas. Nel complesso c’erano per esempio una fabbrica della industria chimica IG-Farben e aziende agricole per le quali era previsto lo sfruttamento della manodopera dei prigionieri. Nel più grande di questi cosiddetti “Lager esterni” a Monowice (Monowitz), distante sei km dal campo principale, circa 10 mila prigionieri lavoravano in una fabbrica Buna-Werke producendo gomma sintetica e benzina per lo sforzo bellico. L’inizio dello sterminio di massa dei prigionieri avvenne nell’autunno del 1941, con la fucilazione di 12 mila prigionieri di guerra sovietici. Negli stessi mesi cominciarono le prime uccisioni con il gas mortale “Zyklon B”. Nel giugno del 1942 ebbe inizio nelle camere a gas lo sterminio degli ebrei deportati dai paesi occupati dal Terzo Reich. Nei primi mesi i corpi vennero gettati in fosse di massa che tuttavia furono riaperte e svuotate nel novembre 1942. Nell’inverno 194243 vennero costruiti i due grandi crematori I e II, con forni progettati nei minimi dettagli ai quali furono aggiunti poi due crematori più piccoli. Lo spietato comandante del lager, Rudolf Hoess, aveva stimato una «capacità di cremare circa 2 mila cadaveri ogni 24 ore». Tutto cominciava con la famigerata “selezione” sulla rampa di arrivo della ferrovia: appena scesa dai treni, dove doveva lasciare tutti i propri bagagli, la gente veniva divisa dai medici delle Ss tra quelli “sfruttabili per il lavoro” e quelli destinati alle camere a gas. Lo sfruttamento non si fermava nemmeno davanti ai cadaveri, ai quali venivano strappati i denti d’oro prima di essere cremati, mentre ancora quando erano vivi gli erano stati tagliati i capelli usati per imbottiture. Fino al novembre del 1944 i crematori di Auschwitz, rimasero in funzione giorno e notte, quasi ininterrottamente. All’avvicinarsi dell’Armata Rossa nell’inverno 1944-45 i nazisti cominciarono a smontare l’impianto e, per cancellare le tracce dell’orrore, le Ss fecero saltare le camere a gas e i crematori. Ma nel lager continuarono le esecuzioni, l’ultima avvenne il 6 gennaio 1945, vittime ANSA quattro donne. Estero martedì 27 gennaio 2004 Speciale La giornata della memoria Di che cosa abbiamo memoria, noi che siamo venuti “dopo”? Cosa ricordare della storia che ci ha preceduti, del secolo più sanguinoso nella storia dell’umanità, se non le parole, i volti, gli insegnamenti di chi c’era? Fatta eccezione per l’esperienza diretta (sulla cui elaborazione o rimozione, o sublimazione, da Freud in qua è stato scritto di tutto), non possiamo ricordare che per sentito dire. Ne discende che l’esercizio della memoria è un atto di volontà e di fiducia. Di storia, su un piano più “scientifico” che politico. Ma alla fine le ragioni dello stare insieme, che sono poi la politica, sono quelle che prevalgono, così che la memoria – in particolare quella dei luoghi deputati alla sua manifestazione – finisce per adeguarsi o essere suscitata da temperie storiche alterne. Da ragioni che non sempre sono le sue. I Lager, parliamo di questo, “continuano a condurre una vita che si connette in termini dinamici alle svolte della storia, ispirando sentimenti variabili, cioè influenzando e subendo i mutamenti ideologici, le viltà, gli sdegni, gli smemoramenti, i calcoli opportunistici, i travagli delle società e delle generazioni che si succedono”. Parole di Bruno Segre, storico della Shoah (era in età da deportazione quando il fascismo di Salò decise di coinvolgersi a fondo nella “soluzione finale”, ma qualcuno guardò giù...) e uomo di pace, col quale ricordiamo che il 27 gennaio in Italia è la giornata della memoria. Analogamente all’alterno culto o disuso della memoria cosiddetta collettiva, quella individuale si alimenta della dialettica conscio/inconscio. E se della prima conosciamo i meccanismi, della seconda temiamo le imboscate. Professore, è una compagna affidabile ’sta memoria? «Direi che la memoria è uno strumento indispensabile alla sopravvivenza di tutti gli esseri. I vegetali ne hanno una, funzionale al loro vivere, le piante ricordano quando mettere le foglie; i miei gatti hanno una memoria di ferro per ciò che occorre loro a sopravvivere». E se fossimo in una pagina della scienza potremmo parlare di memoria della specie, di memoria genetica... «Agli uomini la memoria è indispensabile nella stessa misura – e potrebbe con ciò essere detto tutto, ma – il nostro problema è che se ne possono fare cattivi usi. Quando la memoria diventa l’imbalsamazione o mitizzazione di una serie di fatti, se ne fa un pessimo uso. Se invece viene utilizzata per ricordare il male e progettare il bene, si fa un uso più propizio». Tuttavia Tzvetan Todorov, che a usi e abusi della memoria ha dedicato pagine importanti, si è fermato sui rischi insiti in quella forma di tentazione del bene che nasce dalla memoria del male. «Lo so e allora la risposta corretta alla sua domanda è la problematizzazione degli usi della memoria, più che la memoria in sé». Gli usi, certo. Anche dedicare una giornata alla memoria è in un certo senso farne uso, pedagogico, se non altro. Quindi possiamo chiederci se la giornata della memoria e i luoghi della memoria sono uno strumento adeguato al mantenimento del suo elemento vitale, fecondo; o ne sono la museificazione, se non, peggio, la ghettizzazione? «Vorrei essere preciso. Parlare di luoghi della memoria implica la capacità, la necessità di saperli “leggere”. Questo è un fatto di cultura, di preparazione, che non sono ancora patrimonio di tutti. «Ho visitato Auschwitz l’anno scorso, per la prima e unica volta nella mia vita. Innanzitutto, la guida ci ha condotti in cima alla torretta da cui si domina il campo di Birkenau. Vedere da lassù l’estensione e la collocazione geografica del campo mi ha fatto interrogare sulla lettura dei luoghi: sul laRegioneTicino Nella giornata della memoria, le parole di Bruno Segre, storico della Shoah, riportano ai temi meno occasionali e più profondi del ricordo e del suo rapporto con le contingenze storiche e politiche che ne condizionano l’uso. di Erminio Ferrari Il ricordo e la memoria Auschwitz, il camino fumava nostro modo di vederli oggi, e su come chi “allora” viveva lì attorno non sapesse che cosa vi stava avvenendo». E questo riguarda la capacità di interpretare un luogo, pur così pieno di significati. Mentre il lavoro di trasmissione di questa capacità è l’altro polo del nostro discorso. «Infatti. Ho visitato Auschwitz, invitato da due classi di un liceo di Bergamo, ed è stato un viaggio straordinario. Due generazioni mi separavano, anagraficamente da quei ragazzi – per spiegarmi: loro avevano un anno o due più di quelli che avevo io quando la mia famiglia è sfuggita alla deportazione – ed è stata un’esperienza ricchissima poter confrontare le mie percezioni con le loro. Ma soprattutto è stata una rivelazione conoscere il vastissimo lavoro di preparazione che aveva preceduto il viaggio. Intendo dire che, al di là della suggestione dei luoghi, della capacità maggiore o minore di “leggerli”, è fondamentale la preparazione ai luoghi, il lavoro di conoscenza e di studio che introducano alla visita». Studio, letture, conoscenza appartengono alla volontà della ragione, alla sua veglia; ma vi sono autori che sostengono l’inenarrabilità di Auschwitz. «Lo so – concorda Segre, che queste cose le ha indagate a fondo –, ma la penso al contrario. Che cosa sapremmo della Shoah senza le narrazioni? Che cosa conosceremmo di Auschwitz senza, diciamo, Primo Levi? Al di là del lavoro egregio degli storici, senza le testimonianze non ci resterebbe nulla. È fondamentale che qualcuno abbia narrato lo sterminio. E questo ha a che fare con i rapporti tra memoria e storia. Nel caso della Shoah, credo che la memoria di chi l’ha conosciuta sia stata un elemento di ricostruzione fondamentale, senza il quale anche il lavoro storiografico più accurato avrebbe avuto uno spessore ben minore». Con tutto che lo stesso Primo Levi arrivò a dire che i soli autentici testimoni furono i “sommersi”, coloro che non uscirono da quell’esperienza. E a proposito del dovere/limite del dare testimonianza scrivendo, anche Imre Kertész, Nobel della letteratura e a sua volta sopravvissuto ai campi, a proposito delle vittime del genocidio fa dire a un proprio personaggio: queste morti “troverebbero un posto degno tra i simboli dell’immaginario umano a una sola condizione: che non fos- 11 Mostar, non dimenticare sero mai avvenute. Ma siccome erano avvenute, erano difficili anche da immaginare”. Allo stesso modo, potremmo forse dire che la memoria ricorda, ma non spiega. Se nella tragica constatazione di Levi c’era il senso di impotenza del sopravvissuto a dar conto dell’abisso, il lavoro dello storico, che pure avrebbe gli strumenti per organizzare in una ricostruzione coerente ciò che accadde, deve fermarsi ancora prima, sulla soglia della domanda sul senso di tutto quel male. Storia e memoria, insomma, si giustificano, si alimentano e si interrogano a vicenda. Ma la memoria, che spesso è memoria del dolore subito – e quasi mai dei quello inferto – quanto basta a spiegare, a restituire un senso di tutto ciò? Anche lo storico si interroga. «Guardi, spiegare non credo si possa spiegare la Shoah. Ne abbiamo il compito, sì, ma è inesauribile. Esistono ricostruzioni dettagliate, di grande respiro, storiograficamente superbe; ma una spiegazione ancora non me la so- no data. È vero che la memoria non spiega, ma purtroppo non vi riesce neanche la storiografia. Ho letto, studiato, indagato; so che cosa è successo, e come, in quegli anni in Europa, ma faccio fatica a trovare una spiegazione profonda di un programma di sterminio di questa scala». Forse perché riuscire a spiegare implicherebbe l’accettazione della disumana facoltà dell’uomo di superare nei fatti la propria capacità di concepire il male. Ma tornerei all’inenarrabilità della Shoah, che forse si può collegare alla sua unicità, un concetto che divide ancora. Non è così, professore? «Credo che vi sia un aspetto mistificatorio in tutto questo discorso sull’unicità della Shoah. In realtà la storia dell’umanità è colma di stragi orrende. La Shoah, purtroppo, non è stata unica. Su scala diversa, le pulizie etniche nell’ex Jugoslavia hanno lo stesso marchio d’infamia. E, nel dettaglio, la morte di un bambino ebreo, o di Mostar o di Nablus è sempre una perdita enorme». Di nuovo, dice Segre, la que- stione è la problematizzazione dell’evento: «Direi piuttosto che la Shoah è il paradigma di come una civiltà avanzata può produrre una macchina tecnologicamente perfetta per distruggere un popolo. È stata una follia, certo, ma esplicata con avanzatissimo know how tecnologico. Anche la mole di materiali che oggi consentono agli storici di ricostruire lo sterminio di ebrei, zingari e altri “Untermenschen” è dovuta al fatto che ne è rimasta una documentazione di tipo industriale. I campi stessi erano fabbriche in cui entrava una materia prima e da cui usciva il prodotto finito, spesso attraverso il camino. Tutto registrato con tecnologica precisione; pensi solo all’efficienza del sistema di trasporti messa in atto da Eichmann. Da questo punto di vista la Shoah è paradigmatica dei tipi di guasti che la nostra civiltà è in grado di produrre». E non parla al passato Segre: «No, purtroppo. Credo cioè che l’avanzare della tecnologia farà progredire la possibilità di produrre tragedie ancora più colossali». È il paradosso tragico della modernità, mi sembra. «Certo. Non parlerei dunque di unicità ma di paradigmicità». O di un’esemplare epifania del male, che non ha insegnato molto, se solo si pensa a che cosa è avvenuto nei decenni successivi. «Appartengo – risponde Segre – a una generazione che continua ad auspicare che la storia sia maestra di vita, ma devo constatare che no, non lo è affatto. Al contrario, sembra che la storia dia ad ogni generazione, ad ogni gruppo umano la possibilità di imparare da sé a misurarsi con la propria capacità di produrre il male. Nello stesso tempo, un residuo di cultura illuminista mi impone di non rinunciare a fare uso della ragione. Il grosso della nostra aggressività origina da qualcosa di diverso dalla ragione, ma spesso gli uomini mettono l’intelligenza al servizio delle proprie pulsioni. Se fossimo capaci di razionalizzare la carica di aggressività di cui sono portatrici talune pulsioni, riusciremmo a trasferire il nostro comportamento dal piano della violenza a quello della non-violenza. D’altra parte che cos’è la democrazia se non un sistema che permette agli uomini di vivere il conflitto in modo non violento? Togliere la violenza dal mondo significa soprattutto usare la ragione invece ci affidarsi agli impulsi. Questo non spiega la Shoah, beninteso, ma è ciò che mi pare di avere appreso nei decenni in cui mi sono occupato di questa tragedia». Eppure, di nuovo, avanza un discorso storiografico, politico, pubblicistico, che ha il tratto dell’alterazione, più che della revisione del passato di cui parliamo. Una specie di deresponsabilizzazione di scelte fatte da individui, motivata dal fatto che “a giudicare sarà la storia”. Mi sembra un argomentare capzioso. O no? «Qui risponderò un po’ a spanne. Ho l’impressione che in generale la cultura politica europea non abbia fatto i conti con la Shoah. Non l’hanno fatta gli italiani, la cui cultura politica dominante è autoassolutoria, quasi che la Shoah non li riguardasse». Già, Mussolini non ha ucciso nessuno, Berlusconi dixit. «Ma è un discorso che sul piano storiografico è stato inaugurato già da De Felice. Non ha fatto i conti con la Shoah la cultura dominante francese, a dispetto dell’antisemitismo e del collaborazionismo di Vichy. Ma nemmeno gli alleati, che pure hanno avuto grandi responsabilità di omissione riguardo allo sterminio. Credo – conclude Segre – che i conti più a fondo li abbia fatti la Germania. È pur vero che sono tedeschi Ernst Nolte e diversi negazionisti, ma va riconosciuto che in Germania si è lavorato molto affinché le giovani generazioni sapessero perfettamente cosa è accaduto». Mentre c’è stata una metà d’Europa, quella sovietica, che ha usato la Shoah per giustificare una contingenza: lo sterminio come espressione massima della violenza capitalista, a mascheramento della violenza comunista... «Assolutamente, ma aggiungerei che questi conti mancati spiegano molto dell’inerzia con cui l’Europa segue e interviene nel dramma mediorientale. La tragedia di israeliani e palestinesi non nasce in Medio Oriente, ma in Europa: l’hanno prodotta i tedeschi con la Shoah e francesi e inglesi con il colonialismo. Diciamolo, infine: tutte le premesse dell’attuale catastrofica situazione mediorientale sono scritte nella storia europea. E tuttavia non c’è in Europa l’assunzione di responsabilità che potremmo attenderci, tanto che l’Europa è impotente e inetta davanti al dramma che si consuma laggiù». Bruno Segre, possiamo dirlo ora, è uno dei sostenitori più attivi di Neve Shalom, il villaggio in Israele in cui da decenni ebrei e palestinesi convivono in una riuscita esperienza di integrazione. Sa cosa dice quando parla di memoria, sappiamo che cosa intende quando parla di pace. Estero lunedì 27 gennaio 2003 laRegioneTicino 8 Speciale Il passato presente di Erminio Ferrari Milano – Becky tiene sempre a portata di mano dei cioccolatini. Un po’ sorridendo, un po’ sul serio, quei bonbon le ricordano il soldato che per confermarle che era finita in Svizzera estrasse dalle tasche della divisa dei cioccolatini e glieli diede. Ottobre 1943. «Ero terrorizzata. Mi aveva intimato l’alt in tedesco, e poi aveva un elmetto uguale a quello dei tedeschi che ci perseguitavano». E poi aveva dodici anni. Becky Behar («sposata Ottolenghi», come precisa sempre) era l’ultima figlia della sola famiglia ebrea sopravvissuta agli eccidi del Lago Maggiore del settembre 1943. La prima strage di ebrei in Italia: sedici uccisi e gettati nel lago tra il 22 e il 24 settembre. Dopo l’infamia delle leggi razziali; la vergognosa codardia dei circoli accademici; la tacita connivenza di una nazione in mano al duce; la persecuzione degli ebrei d’Italia era entrata nella fase più cruenta e spietata, quella della soluzione finale. Sessant’anni fa, sembra ieri, per chi come Becky della memoria ha fatto un dovere. «Noi stavamo a Meina, dove mio padre possedeva l’Hotel Victoria. Siamo stati presi con altre famiglie di ebrei che si trovavano nell’albergo. Gente che aveva case a Meina o erano sfollati, o clienti. Erano famiglie fuggite dalla Grecia, ma con passaporto italiano. «Quando, dopo l’8 settembre, i tedeschi sono arrivati in albergo, avevano già una lista dei presenti ebrei, fornita dal comune e da alcune spie del posto. Ricordo una signora che si era presentata pochi giorni prima e aveva chiesto alloggio per qualche giorno; ci teneva molto a frequentare gli ospiti dell’albergo, a fare amicizia con noi ragazzi e a tempestarci di domande. Dopo pochi giorni questa signora ha lasciato l’albergo e in breve arrivarono i tedeschi. «Abbiamo visto i soldati tedeschi scendere dai camion e circondare l’albergo. Uno di loro prese il mio cagnolino che scorrazzava davanti all’ingresso e lo gettò nel lago. Per me bambina fu uno choc. «Tre militari entrarono poi nella camera dei genitori, dove eravamo riuniti mamma, papà e i quattro figli. Un ufficiale chiese a mio padre se era lui il proprietario dell’albergo. Alla risposta affermativa di mio padre, disse: lei è ebreo e dà ospitalità ad ebrei nemici della Grande Germania, quindi si ricordi che da questo momento niente più le appartiene. Detto questo ci lasciarono in camera e riunirono tutti gli altri ebrei dell’albergo. Poi ci condussero tutti all’ultimo piano, i sedici ospiti più noi sei. Eravamo ragazzi, bambini, anziani. «Il giorno dopo prelevarono mio padre per portarlo al comando tedesco di Baveno. Ricordo le lacrime di mia madre e le parole di mio padre: tornerò, abbiate fede. «A salvarlo, e noi insieme a lui, fu il console turco che si trovava ospite della nostra villa, dove si era stabilito dopo i bombardamenti di Milano. Eravamo infatti di nazionalità turca e la Turchia non era ancora in guerra. Quella santa persona, informata dal personale dell’albergo, si precipitò al comando tedesco a Baveno e picchiando i pugni sul tavolo disse: non potete toccare un cittadino turco, ne farò un caso diplomatico. I tedeschi, forse sperando ancora che la Turchia si alleasse con loro, riportarono mio padre a Meina. «Restammo ancora qualche giorno chiusi all’ultimo piano dell’albergo, finché il console ottenne che la nostra famiglia venisse “liberata” dall’ultimo piano dell’albergo, senza tuttavia poterlo lasciare. «Una sera sentimmo dei passi cadenzati sulle scale. Il mattino dopo ci dissero che una parte degli ebrei era stata portata ad un interrogatorio. Poche ore dopo, un cameriere venne da mio padre e disse che erano stati pescati I sommersi Incontro con Becky Behar Ottolenghi scampata all’eccidio L’Hotel della memoria Sessant’anni fa sul Lago Maggiore la prima strage di ebrei in Italia dei cadaveri nel lago, tra Meina e Arona, e che qualcuno aveva riconosciuto gli ebrei dell’albergo. «Riuscii di nascosto dai miei genitori a uscire dall’albergo, attraverso una porticina che i tedeschi non conoscevano. In bicicletta andai sul posto a vedere e per primo riconobbi il padre dei miei amici Fernandez, poi la madre, mentre altri non riuscii a riconoscerli perché erano troppo sfigurati. Tornai in albergo e dopo poche ora salii le scale per trovare il mio amico John,figlio dei Fernandez. Mi chiese se avevo saputo che avevano portato via i suoi e un’altra famiglia, i Torres. Credeva ancora che li avrebbero ricondotti in albergo. Io avevo già visto i cadaveri dei suoi genitori e gli dissi sì, di avere fiducia. Non so come fece quella ragazzina… «Dopo due o tre giorni vennero a prelevare i ragazzi e i più anziani. John mi salutava dicendo che ci saremmo rivisti. Il nonno Fernandez, abbracciandomi mi ringraziò per il tabacco che talvolta gli procuravo: grazie Becky, non so se ci rivedremo, disse. Aveva capito. «Il giorno dopo, altri cadaveri galleggiavano sul lago. I tedeschi li uccidevano legando loro una pietra al collo e li gettavano nel lago. Solo che nella fretta non sempre riuscivano a legare bene la pietra, così che alcuni cadaveri riemersero». E c’è ancora chi dice che in Italia non è successo niente. Quell’Italia che ha fatto del 27 gennaio la Giornata della Memoria. Un bel problema la memoria: ogni giorno ne aggiunge un po’ al successivo. Strato su strato fino a essere quel che siamo e ciò che già stiamo divenendo. Ma questa è una memoria eletta a qualcosa di più di un processo di identificazione: a virtù civica. E chissà se funziona. “A chi servono le storie di un ennesimo ebreo?”, si chiede un personaggio dell’ultimo romanzo di Chaim Potok. Immaginiamo che servano, giacché sono anche le nostre. Di noi, (“che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case”) ai quali Primo Levi chiese se “questo” era un uomo. E infatti c’è Levi in un momento preciso del ricordo di Becky. «Non siamo mai stati religiosi, ebrei, sì, ma piuttosto laici. Mio padre ci aveva insegnato che esisteva Dio, ma non eravamo praticanti. Non avevamo mai sentito la nostra presunta diversità. Non mi sono mai sentita diversa. «Di esserlo, perché altri avevano deciso che lo fossi, l’ho capito Levi: è accaduto e può accadere ancora quando una sera mio padre ci radunò nel suo studio per dirci che il giorno dopo non avremmo più potuto andare a scuola. Fu un trauma. I miei genitori avevano sempre cercato di tutelarci, ci tenevano all’oscuro degli avvenimenti europei e italiani. Alle mie domande, mio padre rispondeva evasivamente. «Il mattino seguente, mio padre mi accompagnò a salutare l’insegnante e i compagni. Ricordo ancora le lacrime negli occhi di questa maestra; ma ricordo anche che alcuni dei miei più cari compagni, che frequentavano abitualmente casa nostra, non si fecero più vivi». Inizia così la complicità in uno sterminio? Tra chi insultava gli ebrei per strada e chi li rese invisibili ai propri occhi la differenza rischia di essere così labile. Tra chi firmò le leggi razziali e gli accademici che firmarono il formulario in cui si dichiaravano “non di razza ebraica”. Tra la ferocia e le mani davanti agli occhi. «I tedeschi – ricorda Becky – si comportavano in maniera sprezzante nei nostri confronti. Ricordo la faccia di disprezzo del militare che ci portava da mangiare. Era giovanissimo. Indottrinato e feroce. Con un gusto particolare nell’infierire su persone che avvertiva più istruite e colte di lui». Ma, Becky lo sa, è pur un’altra la domanda che viene – quasi che la ferocia del giovane militare tedesco abbia una sua oscena plausibilità (pur se resta lo sgomento per come una nazione civile come quella tedesca abbia potuto) nelle dinamiche di manipolazione delle masse in circostanze di crisi di valori e certezze – e cioè: nessuno si è accorto di quello che si stava preparando e poi avvenne? È ben vero che i contadini polacchi “non sapevano” di Auschwitz; i concittadini di Goethe “non sapevano” di Buchenwald, ma. «In quei giorni di Meina, non avevamo contatti con l’esterno, se non attraverso il personale e i clienti dell’albergo. Tra questi c’erano dei giornalisti, inviati a Meina perché lì c’era la villa Mondadori; ma non si interessavano più di tanto di quello che stava succedendo nelle camere superiori. Alla sera i saloni dell’albergo erano requisiti dai tedeschi per le loro feste, a cui si associavano alcune clienti. Come se niente fosse. La gente non ne faceva parola. Forse non immaginava cosa sarebbe successo, forse non se lo domandava nemmeno. Forse non voleva saperlo». Riprendiamo il ricordo. Scampati all’eccidio, i Behar dovevano pure mettersi in salvo. E fu di nuovo il console turco (una specie di sconosciuto Perlasca) la loro salvezza. «Infatti ci avvertì che di lì a pochi giorni la Turchia sarebbe entrata in guerra e a quel punto lui non avrebbe più potuto aiutarci. «Così organizzammo la nostra fuga, in barca. Di notte attraversammo il lago verso la sponda lombarda, dove ci ospitarono, a gruppi di due, alcuni amici. Poi alcuni contrabbandieri ci fecero passare in Svizzera, la nostra salvezza. Ci avevano fatto trascorrere l’ultima notte in una stalla, dalle parti di Abbiate Guazzone e il mattino presto ci fecero passare la rete, dalle parti di Ponte Tresa, mi pare. Io avevo in spalla uno zaino colmo di scatolette di viveri ed ero tutta infagottata, perché mia madre aveva una gran paura che morissimo di fame e di freddo. «Le istruzioni erano che appena passata la rete, avremmo dovuto metterci a correre per non essere presi a fucilate dai tedeschi. Io lo feci, ma ero gravata dallo zaino e caddi. Mi ritrovai davanti un militare che mi intimò l’alt in tedesco. Ero sola, non vedevo più gli altri. Quel militare aveva un elmetto come i tedeschi. Ero terrorizzata, piangevo disperata. Lui non riusciva a spiegarsi, ma per farmi capire che eravamo in Svizzera, mi allungò dei cioccolatini. «Fummo riuniti e portati a Bellinzona da cui ripartimmo per il campo di Rovio, sfilando per le vie della città e sentendo su di noi lo sguardo delle persone che si affacciavano a vedere “gli ebrei”. A Rovio abbiamo preso pidocchi e scabbia, infezioni intestinali, ma insomma eravamo vivi. Grazie alla Svizzera». Non che sia facile essere un “salvato”, di nuovo Levi, come è scritto in un libro capitale del Novecento. «No che non lo è. Ci si chiede perché “loro” no e noi sì. Mio padre, rientrato dopo la guerra, si chiuse in un mutismo totale. Non amava parlarne, anche perché c’era una grande indifferenza attorno a noi. Lo dice anche Primo Levi: quando tornò e avvertì l’indisponibilità della gente ad ascoltare certe cose. Mio padre lo sperimentava, e taceva». E per lei Becky, invece, cosa significa essere una “salvata”? «Ho vissuto questa condizione come un incarico, portando la mia esperienza in giro, parlandone di preferenza ai giovani. Penso che a loro serva: solo testimoniando tra i giovani c’è speranza. Vedo oggi ripetersi gli stessi errori di sessant’anni fa. Mi spiace per loro e mi sforzo di ripetere le parole di Levi: è accaduto e quindi potrà accadere ancora. «E constato che i giovani non sono estranei a questi discorsi. Ci ascoltano come le ultime voci di un’epoca, coscienti che ci fu un tempo in cui chi doveva parlare ha taciuto, portandosi dietro sofferenze mai dette. «Lo faccio talvolta con fatica, a causa dei miei anni, ma è questo il mio dovere della memoria». Ma senta, Becky, al processo che si celebrò venticinque anni dopo l’eccidio di Meina, gli imputati vennero sì condannati (anche grazie alla sua testimonianza), ma furono presto amnistiati, «e qualcuno fece una bella carriera; uno divenne presidente della Pepsi Cola»; e ancora oggi si avverte come del fastidio quando un ebreo racconta... «C’è ancora antisemitismo in giro, certo, ma è di nuovo lo specchio dell’odio verso il diverso. Non saprei spiegare diversamente il disprezzo verso gli immigrati più poveri, la xenofobia che si accanisce nei confronti di chi non appartiene alla nostra cultura. Quando assisto a certe aggressioni anche verbali ai danni di qualche extracomunitario (che magari qui vende accendini, ma al suo paese è una persona istruita), ciò che vedo davanti a me è il volto del tedesco che ci imprigionò». La memoria, grazie Becky, è il presente. «E c’è ancora chi dice che in Italia non è successo [non succede] niente».