Francesco Felis ITALIA UNITA O DISUNITA? Interrogativi sul federalismo ARMANDO EDITORE 3 felis.indd 3 10-07-2012 14:26:15 Sommario Introduzione Come è stata fatta l’Italia Il trasformismo Alcune conclusioni Dalla teoria alla pratica del federalismo 9 9 15 20 25 Capitolo I: Alcuni problemi del nuovo stato Questione cattolica Questione agraria, questione meridionale Il brigantaggio Malavita Unificazione giuridica 29 35 48 55 61 63 Capitolo II: Federalismo – decentramento Introduzione Considerazioni storiche B) Evoluzione storica fiscale C) Evoluzione elitaria dello stato e partecipazione politica Considerazioni comparativistiche A) Evoluzione storico-costituzionale statunitense Situazione odierna B) Diritti uniformi e federalismo americano C) La realtà politica e costituzionale statunitense D) Il razzismo – un’esperienza americana Federalismo e fisco A) Evoluzione storica del fisco B) La spesa 71 72 72 81 85 89 89 95 98 101 102 104 104 108 5 felis.indd 5 10-07-2012 14:26:15 Federalismo e amministrazione A) Evoluzione e involuzione degli assetti amministrativi B) Nuovi assetti legislativo-costituzionali Capitolo III: Federalismo fiscale Federalismo e caso greco Aspetti finanziari e fiscali del federalismo 1) Teorema di buchanan 2) Legge di wildavsky Alcuni miti Disegno costituzionale sul federalismo fiscale Federalismo municipale Scenari futuri 109 109 110 113 113 116 119 120 123 126 128 129 Capitolo IV: Particolarismo giuridico e spirito volterriano. Federalismo normativo Federalismo e diritti differenziati Esempi concreti di particolarismo Conclusioni/conflitti 131 131 141 143 Conclusioni 149 Bibliografia 167 6 felis.indd 6 10-07-2012 14:26:15 Introduzione Come è stata fatta l’Italia “Tutto cambia affinché nulla cambi”, questo il senso del discorso che Don Fabrizio di Salina, nel romanzo Il Gattopardo, fa al cavaliere Chevalley che si trova in Sicilia dopo l’Unità. Se l’affermazione del principe di Salina, forse, ha una base di verità per spiegare lo spirito della sicilianità, che si adatta ai tempi nuovi, se l’affermazione ha una base di verità per spiegare come i siciliani si sono adattati, nel tempo, agli invasori senza modificare la loro essenza (bisognerebbe capire se, in generale, si può parlare di essenza o di identità di un popolo anziché di identità al plurale formatesi per accumulazioni successive di culture e di “invasori”), se il senso del discorso del principe di Salina è sintomo di un cinico realismo misto a rassegnazione, ossia di atteggiamenti psicologici del protagonista, di sicuro queste affermazioni rese al funzionario piemontese, cavaliere Chevalley, che offre a Don Fabrizio la carica di senatore del Regno, non erano vere allora, quando si immagina siano state rese, non devono essere considerate attendibili oggi, dopo attenta analisi storica relativa alla formazione dell’Unità italiana. Essa rappresentò una svolta e una novità assoluta nel panorama europeo soprattutto per gli effetti che produsse, sia nella Penisola, sia in Europa. Di certo il fenomeno che porta all’Unità e le vicende del cinquantennio successivo ebbero dei chiaro-scuri ma si devono inquadrare nel periodo (l’Ottocento), nella situazione internazionale di allora, dominata da grossi Stati, nessuno democratico, come oggi si intende questo termine. Nemmeno l’Inghilterra, per certi versi, il più avanzato, per le caratteristiche parlamentari che presentava, in termini di democrazia, aveva i caratteri che oggi noi diamo a questo termine. Il discorso sarà ripreso ed analizzato ma è indicativo che nella stessa Inghilterra la pratica del voto palese 9 felis.indd 9 10-07-2012 14:26:15 alle elezioni (con tutte le sue storture che provocava per il processo democratico, per i condizionamenti che comportava, soprattutto ma non solo, nelle campagne) venne meno solo nel 1872. Cioè ben 11 anni dopo l’Unità d’Italia. E di recente un illustre storico, a riprova dei condizionamenti esistenti, cita quello che affermava un proprietario terriero inglese, candidato a un seggio, intorno agli anni Quaranta dell’Ottocento, per ribadire l’esistenza di relazioni clientelari e di dipendenza effettiva degli elettori verso gli eletti. Nell’appello diffuso per le elezioni diceva: “Elettori di Wareham! Ho saputo che alcuni malintenzionati hanno messo in giro la voce secondo cui io gradirei che i miei fittavoli e tutti gli altri miei dipendenti votino secondo la propria coscienza. Questa è una vile menzogna diffusa per offendermi. Io non ho desideri del genere. Io voglio e pretendo che queste persone votino per me” (A.M. Banti, 2010a, pp. 258-259). E sempre sullo stesso piano, per i caratteri della democrazia, in un altro grosso Stato formatosi, subito dopo l’Italia, cioè l’Impero tedesco, che costituiva al Centro dell’Europa un peso notevole, vi erano, oltre che le elezioni a suffragio palese, una legge dell’11 marzo 1850, rimasta in vigore sino al 1908, che proibiva ai contadini ogni genere di attività sindacale organizzata e un’altra legge del 24 aprile 1854, rimasta in vigore fino al 1918, che proibiva ai contadini gli scioperi agricoli. Attuando così un controllo delle campagne a favore dell’elemento conservatore, per cui un bracciante se riceveva una scheda elettorale andava dal suo padrone a chiedere istruzioni (A.M. Banti, 2010a, p. 297). Questi discorsi saranno ripresi ed approfonditi più oltre ma, per il paragone con la situazione italiana, è significativo come il nostro processo unitario e post unitario non possa non essere influenzato dall’epoca storica in cui si inserisce ed anzi quello italiano, per molti versi, se ne distaccò in meglio. Otto von Bismarck alla Commissione Finanze del Parlamento prussiano il 30 settembre 1862, assumendo l’incarico di Cancelliere diceva: La Germania non guarda al liberalismo della Prussia ma alla sua potenza; la Baviera, il Wuttemberg, il Baden possono abbandonarsi al liberalismo, e questo è il motivo per il quale nessuno assegnerà loro il ruolo attribuito alla Prussia; la Prussia deve conservare e concentrare la sua potenza per il momento opportuno, che le è già sfuggito diverse volte; 10 felis.indd 10 10-07-2012 14:26:15 i confini della Prussia – stabiliti dal Congresso di Vienna – non sono favorevoli ad uno Stato sano e vitale; non è con i discorsi e con le risoluzioni delle maggioranze che si decidono i grandi problemi del nostro tempo. Questo fu l’errore del 1848-49 ma col ferro e con sangue (vedi A.P. Taylor, 2004, pp. 49-65). Al contrario, Camillo Benso di Cavour, di cui ho riportato le parole al momento della morte, affermava, scrivendo alla contessa di Circourt nel dicembre 1860: Per parte mia non ho alcuna fiducia nelle dittature e soprattutto nelle dittature civili. Io credo che con un parlamento si possono fare parecchie cose che sarebbero impossibili per un potere assoluto. Un’esperienza di 13 anni mi ha convinto che un ministero onesto ed energico, che non abbia nulla da temere dalle rivelazioni della tribuna e non si lasci intimidire dalla violenza dei partiti, ha tutto da guadagnare dalle lotte parlamentari. Io non mi sono mai sentito debole se non quando le Camere erano chiuse. D’altra parte non potrei mai tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta una vita. Sono figlio della libertà: è ad essa che debbo tutto quello che sono. Se bisognasse mettere un velo sulla sua statua non sarei io a farlo. Se si dovesse riuscire a persuadere gli italiani che hanno bisogno di un dittatore, essi sceglierebbero Garibaldi e non me. Ed avrebbero ragione. La via parlamentare è più lunga ma è più sicura. (Brani riportati da A.M. Banti, 2010a, p. 299, e da D. Mack Smith, 1999, p. 494) Pertanto se il principe di Salina si sbagliava per i mutamenti in atto, di più si sbagliava per gli effetti che essi avrebbero avuto nel futuro. “Ein Volk, ein Reich, ein Furher” non fu uno slogan di Bismarck e non si possono sovrapporre diversi periodi della storia. Il federalismo tedesco del Reich del 1870 non deve essere visto come il preludio del III Reich hitleriano, nonostante l’ammirazione di Hitler per i metodi e le idee di alcuni personaggi di poco antecedenti alla Prima guerra mondiale, quali il sindaco di Vienna Karl Lueger (su queste tematiche: G.L. Mosse, 2009; 2008). Certo, però, che la nazionalizzazione delle masse, la sostituzione di una liturgia laica a quella religiosa per la loro fidelizzazione fu propria del periodo Guglielmino e della Germania, non 11 felis.indd 11 10-07-2012 14:26:15 dell’Italia dove, fino a Mussolini, non esisteva “ein Fuhrer”. Anzi molti furono i Capi del Governo. Per alcuni storici furono troppi. Il Governo, la fiducia, la doveva trovare nella Camera dove i dibattiti vi erano e a chi si ispirava ai metodi tedeschi (Francesco Crispi) si opponevano, anche in area liberale, non solo nella sinistra radicale e socialista, eminenti personalità che fecero sì che l’epoca crispina fosse superata. Dove, a seguito della denuncia della sinistra liberale, per la violazione dei diritti costituzionali, si nominò una commissione parlamentare (1863), come vedremo a proposito del “brigantaggio”, per indagare sulla natura dei problemi sociali del Sud (D. Beales, E.F. Biagini, 2005, p. 213). Il Reich federalista, per il fatto che avesse una forma di Stato, diversa da quella vigente in Italia, non era più democratico di quello che Cavour e i suoi successori, centralisti, introdussero da noi. Forse il principe di Salina avrebbe preferito il Reich del 1871 (non quello nato dagli eventi del 1933) alla nostra Italietta, ma si trovava in un’Italia dove c’era, come vedremo, chi dibatteva sulle varie soluzioni. Magari si sbagliava, ma si dibatteva. Dove alla fine, a Crispi, a Pelloux, al debole Saracco subentravano, per via parlamentare, Giolitti e Zanardelli che nonostante le polemiche salveminiane (dettate da motivi etici) erano più vicini al mondo politico estero (più evoluto dal punto di vista parlamentare) che alle idee reazionarie. Anche uomini politici stranieri (francesi o inglesi), comunque, furono a volte non immuni da comportamenti eticamente discutibili, come certe avventure coloniali dimostrano. Ma lo vedremo nei prossimi capitoli. Fu una democrazia compiuta l’Italia post unitaria? Senza far riesplodere il contrasto che oppose Parri a Croce, si può dire che lo fu con il metro dell’800. Non si possono proiettare criteri odierni in epoche diverse. Altrimenti anche la gloriosa Rivoluzione inglese del 1699 non reggerebbe alla prova. L’Italia non ha conosciuto, per la formazione di un regime costituzionale, Crowell ma Cavour. Che fosse un regime costituzionale-parlamentare dotato di anticorpi verso la pura e semplice reazione (perciò ripeto sbagliava il principe di Salina: non era rimasto tutto uguale) è testimoniato da due eventi, uno antecedente all’Unità, l’altro successivo: 1) Cavour, preso il potere, superò una crisi nel 1855 (cosiddetta crisi Calabiana) che sancì che i rapporti fra Corona e Parlamento erano tali per cui il Governo dipendeva dal voto di fiducia del secondo. Cioè, Cavour riuscì a sancire la nascita di un governo parlamentare. Forma di 12 felis.indd 12 10-07-2012 14:26:15 governo che si trasferì all’Italia unita. Si sconfissero le forze di destra reazionaria e si introdusse, in Piemonte, prima, e in Italia, dopo, una prima forma di democrazia. Che il governo dipendesse dal Parlamento e dalle maggioranze che si formavano, dal dibattito parlamentare si mostrò significativo nella crisi di fine secolo (A.M. Banti, 2004, pp. 100-101; R. Romeo, 1998, p. 302; vedi C. Ghisalberti, 2001, p. 80 che cita la legge 23 marzo 1853 n. 1485 che riguardava il controllo della Corte dei Conti, attribuendo al Parlamento la funzione ispettiva finanziaria “fondandola sul riscontro di ogni singola spesa” con conseguente responsabilità ministeriale). Gli Stati italiani preunitari, molti dei quali oggi glorificati, a cominciare dal Sud del principe di Salina, avevano forme di governo diverse (M. Meriggi, 2002, che inizia ricordando come Metternich conferì l’incarico a suoi agenti di controllare, formalmente o informalmente, gli Stati italiani, che presentavano, tra l’altro, anche divisioni normative al loro interno; per esempio oltre a residui di feudalesimo in vari Stati, in Piemonte nessuna tassa poteva valere a Genova senza l’assenso di un suo organo consultivo, a testimonianza, forse, di riguardo, ma anche di municipalismo o ostacolo all’economia). Non trascurabile il ruolo avuto dallo Statuto albertino, sopravvissuto al 1848, che nonostante i suoi limiti fu uno strumento che ha consentito all’Italia di essere una nazione unita e con le fondamenta di un sistema libero. Lo Stato borbonico del principe di Salina come gli altri Stati preunitari non avevano conservato nulla di simile. Un merito il Piemonte, per una stagione nuova, lo ebbe. I dibattiti parlamentari si potevano tenere anche grazie a questo strumento. Che aveva dei limiti, come l’avvento dell’esperienza fascista dimostrò, ma che ha contribuito alla formazione di un sistema parlamentare che non meritava la definizione di “pseudo parlamentare” che gli diede Giuseppe Maranini (come riferisce G. Rebuffa, 2003; C. Ghisalberti, 2005 pp. 163-186; sulla stessa linea di Rebuffa è D. Fisichella, 2010, pp.153 e 178 dove si mette in evidenza non solo che la monarchia piemontese e il Piemonte furono l’unica opzione possibile per l’Unità e l’indipendenza dall’Austria, dopo il 1848, ma che lo Statuto servì come opzione riformista rispetto a una opzione rivoluzionaria, impraticabile anche per le condizioni storiche, nonché servì per dare un carattere rappresentativo alle istituzioni, cioè, non rivoluzione fallita, di gramsciana memoria, ma rivoluzione moderata, in cui la monarchia si ispirava al modello di 13 felis.indd 13 10-07-2012 14:26:15 Montesquieu). Esso fu usato anche come simbolo, come l’attuale Carta Costituzionale è usata dice Rebuffa, da ultimo citato, più che come strumento vivo. Comunque proprio per l’assetto nato dopo il 1861, centralista, si è detto che era un centralismo, paradossalmente, debole, essendo mancata una decisa volontà di conquista e una spinta autonoma alla fusione. E si è anche aggiunto che si è realizzato un parlamento municipale (dove le istanze locali venivano portate dai rappresentanti e notabili locali). Certo non il massimo in termini di efficienza (P. Pombeni, 1995, pp. 73-124, parla di parlamento municipale; R. Romanelli, 1995, p. 126, parla di centralismo debole). 2) I governi italiani presero a fucilate i contadini siciliani nel 1893 e gli operai milanesi nel 1898, ma non vi fu un ritorno alla reazione (A. Monti, 1998, pp. 80-92; pp. 43-49 ove si descrive la situazione delle campagne, nonché i progetti e le iniziative di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino, espressione di critica e stimolo alla classe liberale dirigente che voleva modificare la situazione delle campagne con iniziative di tipo più dirigistico senza collegamenti con partiti o movimenti). La società borghese, in generale, era inquieta e avversa alle prime forme di socialismo ma al tempo stesso nessun governo pensava di abbandonare il regime parlamentare sia in Europa sia in Italia. Da noi, dopo i fatti di Milano del 1898, il tentativo reazionario fu impedito proprio da un Parlamento libero da cui dipendeva il Governo (che, con tutti i limiti dell’epoca, è l’essenza della democrazia). Se Crispi, prima, Pelloux, dopo, erano autoritari e il secondo tentò di far approvare provvedimenti che limitavano le libertà e opprimevano i gruppi di opposizione, il loro tentativo, in particolare quello del secondo, abortì per la tecnica dell’ostruzionismo messo in opera dalle opposizioni e dai gruppi liberalprogressisti di Giuseppe Zanardelli e Giovanni Giolitti. Lo scioglimento della Camera operato dal Governo per superare le difficoltà non ebbe esito. Le opposizioni guadagnarono seggi (perciò le elezioni non erano come si direbbe oggi “bulgare”) e, dopo un breve governo di Giuseppe Saracco, si inaugurò un periodo, quello dei governi Zanardelli prima e Giolitti dopo, agli inizi del ’900, che non erano favorevoli ad esperimenti antidemocratici. Che anticiparono di qualche anno persino la svolta democratica inglese che, solo nel 1911, riuscì a ridimensionare il potere dei Lords (con il Parliament Act approvato con enormi scontri e sacrifici). Piccolo indizio, ma significativo, fu la decisione del 20 febbraio 1900 della Corte di Cassazione di Roma che annullò il decreto Pelloux 14 felis.indd 14 10-07-2012 14:26:15 che aveva introdotto limitazioni alle libertà di stampa, di riunione e associazione. Anche se l’annullamento era motivato con aspetti formali circa il decreto legge del Governo, è innegabile che la situazione italiana fosse diversa da quella di altri Stati. Che con l’Unità si fosse introdotta una pratica di democrazia parlamentare (anche se di matrice e caratteristiche ottocentesche) è dimostrato, anche, da quel fenomeno passato sotto il nome di trasformismo. Il trasformismo Tanto è stato scritto e, per la sua importanza circa il tema della partecipazione da parte di ampi strati della popolazione al processo unitario o post unitario, che una certa pratica trasformistica avrebbe impedito, è meglio soffermarsi un po’ di più. Pur con tutti i suoi aspetti negativi, il trasformismo (presente non sono in Italia ma, ad esempio, anche in Francia ove era chiamato opportunismo, e pratiche simili erano presenti anche nei Paesi anglosassoni per un certo periodo) era la manifestazione della volontà di raggiungere una maggioranza parlamentare. Per governare. Il Trasformismo nasceva dall’esigenza di rispondere (magari male) al problema che la governabilità di un Parlamento poneva, soprattutto quando vi erano delle forze (che si ritenevano) antisistema. Poteva essere una risposta in parte sbagliata ma era un mezzo tipico di chi doveva confrontarsi con un’arena parlamentare e ottenere una maggioranza. Sicuramente negli Stati preunitari (dal principe di Salina in parte rimpianti e da altri anche oggi) il problema non si sarebbe posto. Il trasformismo era “paradossalmente” indice che vi era una democrazia parlamentare. Era indice che Cavour aveva vinto con la sua interpretazione dello Statuto che poneva l’Italia in una posizione che la Russia zarista o altri Stati, governati solo con la burocrazia e senza Parlamento, non avevano. Forse esagera Benedetto Croce nel suo “giustificazionismo” (B. Croce, 2004, pp. 11-41). Si trattava di prendere atto, dice, che erano venute meno antiche distinzioni (e in effetti la classe politica era più compatta su certi valori di quanto, successivamente, con le contrapposizioni ideologiche e/o di classe non sarebbe stata) e di accordarsi su problemi 15 felis.indd 15 10-07-2012 14:26:15 concreti. Ma hanno esagerato (con toni moralistici che spesso guardano più alla politica dell’oggi che alle condizioni storiche) quegli autori di orientamento marxista (G. Carocci, 1992; G. Candeloro, 1970, p. 161 e ss.) che vedevano il trasformismo solo come un sistema immobilista o conservatore. Hanno errato quegli autori, tipo Salvemini o Vivarelli (R. Vivarelli, 1991, p. 64 e ss.) che hanno solo messo in luce gli effetti negativi sulle istituzioni e il costume politico. Più equilibrato è il giudizio su tale elemento – che nasce proprio perché l’Italia era diversa dagli Stati preunitari e anche, nel Piemonte, il 1848 (e lo Statuto conseguente) non erano passati invano – di chi, come Giovanni Sabbatucci di recente (2003, pp. 30-32), mette il fenomeno in un’ottica di comparazione e lo considera “versione italiana – né particolarmente corretta né specialmente virtuosa – di un modello di governo, e di sistema politico, affermatosi in molti regimi parlamentari europei [si ribadisce parlamentari] del tardo ’800 (non solo in Italia e in Francia) in alternativa a quello tendenzialmente bipartitico sviluppatosi nei paesi anglosassoni”. Tendenzialmente bipartitico nei Paesi anglosassoni, perché, anche lì, le pratiche trasformistiche erano ben conosciute e praticate (non solo allora). Anche lì, il bipartitismo non fu e non è una regola. E trasmigrazioni da un gruppo all’altro si sono verificate. Tra le più note e drammatiche si ricordano le vicende che portarono nel 1845-1846 ad abolire le protezioni doganali sui cereali (Anti-Corn Law) dove Peel (primo ministro inglese conservatore) e i suoi seguaci passarono con i whig, dando vita a un governo whig guidato da Russel e poi confluirono in essi dopo un periodo di autonomia; si ricordano quelle legate alla questione irlandese della Home rule, nel 1886, che vide la scissione di 93 liberali guidati da Joseph Chamberlain che lasciarono il liberale Gladstone per unirsi ai conservatori, oltre a numerosi episodi minori e meno eclatanti casi di “mercanteggiamento” sia in Inghilterra che negli Stati Uniti (per la corruzione del sistema politico americano vedi A. Testi, 2008, p. 47; p. 50 per il sistema elettorale inquinato; pp. 77-78 dove si rievoca l’opera dei reporter investigativi definiti muekrakers, da Teddy Roosevelt, cioè rastrellatori di letame che facevano venire alla luce, tra fine XIX e inizio XX secolo, un mondo di corruzione dando l’impressione che fosse non episodico ma sistematico). Si ricorda, circa il bipartitismo che sarebbe la regola, anche la coalizione di liberali, laburisti a nazionalisti irlandesi che portò al fonda16 felis.indd 16 10-07-2012 14:26:15 mentale e storico Parliament Act del 1911 che ridimensionò e quasi fece venir meno ogni privilegio alla Camera dei Lord. Il trasformismo, quello italiano, aveva motivazioni serie (presenza di forze antisistema, bisogno di rispettabilità internazionale). Non era motivato da sola brama di potere. Dava magari in modo sbagliato una risposta a problemi reali. È stato evidenziato (L. Musella, 2003) che è stato un modo per respingere partiti e movimenti di destra e di sinistra fortemente radicalizzati e unire i moderati di centro destra e di centro sinistra. Se anche questi metodi ottenevano di comporre, in modo pacifico e diverso dalla soluzione bismarckiana, il rapporto tra aristocrazia e borghesia e di evitare che il Risorgimento sfociasse nel “Terrore” evocato Gramsci (richiamato da L. Musella, 2003, p. 13, anche se Gramsci diceva che il Risorgimento si era attuato senza “Terrore”, come “rivoluzione senza rivoluzione” e non so se non rimpiangesse questa soluzione) bisogna solo essere contenti e non il contrario. Non è il prodotto di “un carattere nazionale” (G. Sabbatucci, 2003, p. 31). Il trasformismo, comunque, è conseguenza di un regime parlamentare. Il principe di Salina (anche nella sua ottica siciliana e sudista) aveva sbagliato quando riteneva che nulla era cambiato. Vi era, anche se imperfetto, un regime parlamentare. C’è, a mio parere, quando si parla di “trasformismo” un equivoco di fondo da chiarire. Se il termine si adopera in senso stretto o no. Cioè se si adopera come lo intendeva Depretis, nel suo discorso a Stradella dell’8 ottobre 1876, poi ripreso in un nuovo discorso dell’8 ottobre 1882, che mirava solo alla “trasformazione dei partiti”, a “una concordia delle grandi parti politiche che devono alternarsi al potere”, a una trasformazione che mirava a unificare le parti liberali per dare vita “a un’idea complessiva […] vecchia come il moto, come il moto sempre nuova il progresso”, perché – diceva Depretis – siamo un “ministero di progressisti”, non mi sembra ci sia nulla di scandaloso (Discorso dell’Onorevole Depretis pronunciato l’8 ottobre 1876 in A.M. Banti, 2010a, p. 510). Soprattutto se si fa riferimento anche ad un’alternanza, nell’ambito di valori comuni, tenendo conto che quando si usa il termine “partito”, allora, al tempo di Depretis, si faceva riferimento “a un informale raggiungimento politico-parlamentare” e non a “una organizzazione strutturata” come oggi si usa dire (A.M. Banti, 2010a, p. 432 e p. 510, nota 2). 17 felis.indd 17 10-07-2012 14:26:15 Se ancora il termine trasformismo è usato in modo stretto, come strumento interno al Parlamento per avere voti di fiducia o voti su singoli progetti di legge, abbiamo visto che è un mezzo comune anche ai Paesi anglosassoni. O perlomeno neanche a loro sconosciuto (anche gli attuali presidenti USA trattano con i singoli deputati e senatori del Congresso). Se per trasformismo si intende rapporti “pericolosi o peggio illeciti” con gruppi di potere, le cronache di altri Paesi (anche anglosassoni o latini – come la Francia dell’epoca) ne sono piene. Se per trasformismo si intende qualsiasi sistema che non sia bipartitico e/o bipolare, anche in Francia o nei Paesi anglosassoni dell’epoca, la regola bipartitica o bipolare non era assoluta (abbiamo visto alcune vicende inglesi, ma anche in Francia, per esempio, a una maggioranza repubblicano-radicale, con l’appoggio socialista, nel 1905, si passa ad una nella quale i socialisti danno un appoggio esterno e poi, quando i socialisti vanno all’opposizione, i radicali cercano l’appoggio – con Georges Clemenceau – dei moderati). Se per trasformismo si intende invece, non in senso stretto, ma in senso lato ogni sistema che permette che il Governo influenzi le elezioni, che agisca per impedire o ostacolare l’arrivo di nuove forze politiche (magari espressione di classi subalterne), allora c’è un fraintendimento. Il trasformismo in senso stretto era una pratica comune a tutti i Paesi dell’800. Anche negli USA. Vedremo anche, nel capitolo II, le percentuali dei votanti in quei Paesi. Qui basta ricordare che anche negli USA, come in Inghilterra, vi fu la pratica del voto palese, poi superata. Il trasformismo in senso lato fu sicuramente una pratica italiana. Alcuni (L. Musella, 2003) lo vedono come un tratto della nostra identità ed estendono il discorso anche al periodo fascista e post fascista. Ma il fraintendimento sta qui. Il trasformismo in senso lato (cioè pratiche manipolative delle elezioni, impeditive della partecipazione di strati e ceti alternativi alla classe dirigente precedente) vi è stato in Italia sino alla Grande Guerra. Ma come in tutti gli altri Stati. Se negli altri Stati è venuto meno e da noi – si dice – è avvenuto il contrario, molto poco c’entra la classe politica precedente alla guerra mondiale. Che aveva inaugurato il trasformismo come tecnica parlamentare. Cioè interna al parlamento. Tecnica che, tra l’altro, nonostante il trasformismo, faceva perdere le elezioni, cioè faceva perdere i seggi in alcuni casi. Prima della Grande Guerra, in Francia, al pari dell’Italia, era difficile 18 felis.indd 18 10-07-2012 14:26:15 parlare di partiti, l’azione politica era basata su fluide alleanze parlamentari, guidate da singoli politici di fama nazionale (che avevano seguaci personali, con l’appoggio di giornali a diffusione locale o nazionale) ma senza struttura partitica, dove poi forte era la presenza di gruppi economici di pressione. In Francia vi era un’area repubblicano-radicale, un’area filomonarchica-neobonapartista-cattolica integralista. Poi prese forma un’area socialista. Ma si parlava di “area”. Nell’Impero tedesco nato nel 1870, il sistema costituzionale (e politico), a differenza di quello italiano, pur essendo federale, era molto meno democratico e più chiuso. Al di là delle repressioni di Bismarck contro i cattolici, prima, e i socialisti, dopo, nonostante il diverso suffragio rispetto alle regole italiane, era irrilevante (quasi) che il partito socialista (anche venute meno le leggi repressive e dimissionato Bismarck) conquistasse, nel 1890, l’8,8% dei seggi e nel 1912 il 27,7% diventando il primo partito. Il sistema costituzionale-politico faceva sì che comandassero i partiti di orientamento conservatore e liberale, che comandasse l’Imperatore. Perché? Perché non c’era stato Cavour e la sua rivoluzione parlamentare anche attraverso il “connubbio”, cioè una pratica “trasformista”. Che però aveva impedito che potesse continuare a governare l’equivalente dell’Imperatore, tipo Guglielmo II. I nostri presidenti del Consiglio dovevano trovare i voti della Camera e aver paura che i socialisti crescessero. In Germania la paura era minore. Anzi i socialisti, a un certo punto, si imborghesirono e accettarono il sistema. In Austria-Ungheria, la parte austriaca era attraversata da divisioni etniche, linguistiche, con partiti in parte anti-sistema (movimento pangermanico, partito socialdemocratico, partito cristiano-sociale) e, solo dopo accesi scontri, il ricorso ai decreti di urgenza, cioè una forma che escludeva la discussione parlamentare, si arrivò al suffragio universale nel 1906 (che non fu risolutivo). Nella parte ungherese, oltre le divisioni etniche, il suffragio ristretto continuava e nel 1910 votava il 5% della popolazione, cioè quella ungherese. Dunque se prima della guerra, a parte il trasformismo in senso stretto che mi sembra una pratica lecita e “normale” di una vita parlamentare rappresentativa, vi era in tutta Europa il trasformismo in senso lato, come quello italiano; se l’Italia, anzi, era più liberale della Germania e 19 felis.indd 19 10-07-2012 14:26:15 dell’Austria-Ungheria (non più progredita economicamente, ma anche oggi la Cina non è più liberale dell’Italia, ma ha la seconda economia del mondo); se l’Italia era solo meno liberale della Francia e dei Paesi anglosassoni (dove c’erano, però, ampiamente fenomeni simili e a proposito degli inglesi, è stato detto (A.M. Banti, 2010a, p. 482) che i loro valori valevano in Patria, a Westminster, ma non li applicavano a Dublino o in India o in Africa); se il trasformismo in senso lato era comune, non si può dire che l’Italia era una democrazia (magari “ottocentesca”) e che la classe politica usava le concezioni e le tecniche e i principi di tutti e di tutte le nazioni? Siamo sicuri che il trasformismo sia una pratica solamente italiana e che ci connota? Se poi, dopo, dopo la Grande Guerra, gli altri Paesi sono cambiati e l’Italia no, il discorso diventa politico, non storico. Riguarda l’oggi. Cioè, come per i problemi economici, non si può imputare la situazione economica odierna del Sud o di altre parti del Paese, alla scelte di allora. Come se ci fosse un’identità continuativa. Ci sono, se ci sono, comportamenti attuali, negativi e nient’altro. Che altrove, nei Paesi extra-europei ed europei, sono venuti meno (se sono venuti meno). Tra l’altro quando si imputa una presunta diversità, un carattere nazionale imperituro presente in Italia, rispetto agli altri Paesi, sia nel XIX secolo, sia nel XX secolo, bisognerebbe studiare non solo le singole norme, ma anche le prassi e altro, ancora distintamente Stato per Stato. Rimanendo al sistema elettorale, basta, pur in presenza di un sistema elettorale come quello americano, diverso da quello italiano, una pratica come il gerrymandering (cioè il ritaglio a salamandra dei collegi uninominali, così denominato dal governatore Elbridge Gerry (1774-1814) del Massachusetts che disegnava i confini dei collegi elettorali a forma di salamandra, includendo quelle parti di popolazione a lui favorevoli) per cambiare l’esito elettorale ed escludere o includere ampi strati della popolazione da una partecipazione effettiva. Alcune conclusioni Per trarre una prima conclusione di un processo storico, del quale nel prossimo capitolo vedremo alcune questioni che furono e sono scottanti, ci si può domandare quali sono le ragioni dell’Unità d’Italia? Quali erano ieri e quali sono oggi? 20 felis.indd 20 10-07-2012 14:26:15 A) Dal punto di vista politico si può dire che le difficoltà economiche e di sviluppo odierno, di parti del Paese, non dipendono da come si è formata l’Italia ma da fenomeni politici e sociali più recenti e bisogna avere il coraggio di dirlo e denunciare la cattiva amministrazione recente o di un passato prossimo, senza cercare alibi storici. B) Dal punto di vista storico-politico, le polemiche su una presunta caratteristica elitaria di formazione del nostro Stato non tengono conto che la partecipazione politica era ristretta, nell’800, in tutti i Paesi. Ad esempio in Gran Bretagna fino al 1832 votava il 3,1% della popolazione, per salire, con varie riforme, nel 1884, anno vicino e successivo all’Unità italiana, al 16,4%. Per l’Italia la ristrettezza del suffragio è cosa nota, ma a parte che essa corrispondeva a una tendenza generale, che l’Unità italiana fosse sentita e approvata è comprovato dal fatto che, dopo il 1848, con l’opera di Cavour, il Piemonte riuscì a dimostrare che la causa della libertà faceva tutt’uno con quella del progresso economico divenendo così, il Piemonte, il naturale punto di riferimento per la borghesia liberale di tutta Italia. Moltissimi esuli politici (dai venti ai trentamila), tra il 1849 e il 1860, si stabilirono nel Regno Sabaudo, dando un importante apporto alla sua vita culturale. Gli emigrati presero parte attiva alla vita politica del Regno, amalgamandosi con la classe dirigente piemontese che diventava, così, sempre più rappresentativa della futura classe dirigente italiana. Anche chi voleva una maggiore adesione popolare aveva come obiettivo l’Unità italiana (C. Ghisalberti, 2005, pp. 118-130). Una coscienza nazionale si sviluppò grazie alla pubblicazione di giornali, organizzazioni di congressi scientifici che avevano come orizzonte l’Italia, grazie alla visione cosmopolita, ai contatti con il Nord Europa di una parte della classe dirigente, grazie alla formazione di club e associazioni (D. Beales, E.F. Biagini, 2005, pp. 89-93; L. Riall, 1994, pp. 107-122). Ad esempio la Società Nazionale di Daniele Manin, che ebbe un ruolo importante nella Seconda guerra di indipendenza, ed era di ispirazione mazziniana, nel suo manifesto costitutivo dichiarava di anteporre la causa dell’Unità “ad ogni predilezione di forma politica e di interesse municipale; di ritenere necessaria al raggiungimento di tale scopo l’azione popolare e utile il concorso governativo piemontese;” di appoggiare, quindi, la monarchia sabauda finché questa avesse appoggiato la causa italiana. A comprova di una unità di intenti complessivi. Se gli analfabeti, al momento della presa di Roma erano ancora il 69% della 21 felis.indd 21 10-07-2012 14:26:15 popolazione (ma nel 1861 erano il 74%), dopo 10 anni dall’unificazione le principali aree di tensione tendevano a cessare. Il brigantaggio meridionale, di cui recentemente si è scritto molto in modo polemico verso il processo unitario, non aveva suscitato alcuna solidarietà di alcun genere nemmeno tra i contadini di altre parti d’Italia e la maggior parte dell’opinione pubblica non aveva alcun interesse per il destino dei vecchi sovrani (A.M. Banti, 2010a, p. 292). C) Dal punto di vista economico è stato giustamente notato, e il punto sarà ribadito più volte perché mi sembra elemento decisivo per dare senso e significato al processo unitario (G. Pescosolido, 1998, pp. X-XI), che il Nord e il Sud, prima dell’Unità erano piccoli Paesi subordinati politicamente e marginalizzati economicamente e che in entrambi i sensi cominciarono a contare qualcosa di più, in Europa e nel mondo, dopo l’Unità. Non solo il Sud ma anche il Piemonte era politicamente subordinato (alla Francia) e anche la Lombardia lo era (all’Impero Asburgico verso il quale dipendeva per le scelte di politica economica). L’emancipazione politica ed economica nei confronti dei grossi Stati europei confinanti arrivò con l’Unità. Il Mezzogiorno, certamente, pagò un prezzo elevato a seguito delle scelte economiche effettuate, i cui vantaggi immediati riguardarono il Nord, ma tutta la Penisola, Sud compreso, in un’età come quella dell’imperialismo, ebbe uno sviluppo. Alla fine dell’età giolittiana, con tutte le luci ed ombre che ci furono dal 1861 in poi, l’economia italiana oltrepassò il punto di non ritorno nel processo di superamento del sottosviluppo, che rimase un destino di molti Paesi del Mediterraneo, quali ad esempio Algeria, Tunisia o Libia. L’unificazione dell’Italia, cioè, fu realizzata anche grazie chi, Cavour (esprime un giudizio positivo su Cavour D. Mack Smith, 2001, p. 7: “nessun uomo politico del secolo seppe realizzare tanto muovendo così poco” e circa i suoi errori che lo stesso Cavour ammetteva, dice lo storico inglese, “la capacità di porre rimedio agli errori e di sfruttare a proprio vantaggio condizioni avverse era un ingrediente essenziale della sua suprema arte di statista”), tranquillizzando gli Stati esteri europei, che erano ostili non alla cacciata degli Austriaci ma all’Unità italiana, fece acquistare al nazionalismo, dal 1850 in poi, una rispettabilità fino a venire collegato alla stabilità politica piuttosto che ai tumulti popolari. Nel 1861 L’Italia era, per reddito pro capite, livello di vita, infrastrutture, un Paese che oggi si direbbe “in via di sviluppo”. Il Sud e il Centro 22 felis.indd 22 10-07-2012 14:26:15 erano sul piano economico più vicini all’Egitto e a parti dell’Impero Ottomano. Con il Risorgimento si crearono le condizioni di stabilità, relativa indipendenza, che erano i prerequisiti di uno sviluppo che già nel 1914 faceva sì che il PIL pro capite fosse di 2/3 superiore a quello del 1861 (D. Beales, E.F. Biagini, 2005, p. 236). Anche le campagne del Sud, nonostante tutto, tra il 1860 e il 1911 ebbero dei benefici. Nell’Italia meridionale e insulare, circa 60 mila ettari di boschi e castagneti cioè un terzo del totale là esistente, scomparse (dati da E.J. Hobsbawn, 2010, p. 219). Anche chi è decisamente critico sul processo unitario, visto come un’appropriazione coloniale del Nord verso il Sud, anche chi riecheggia critiche circa rapporto Nord/Sud che sono state, per esempio, di Salvemini, anche se lo stesso Salvemini, sia, successivamente, rettificò in parte il suo giudizio sul processo unitario, sia subì critiche e risposte dal punto di vista economico, sia di altro tipo alla sua impostazione, come vedremo, anche chi ha questa impostazione, faccio riferimento per tutti a Giordano Bruno Guerri (2011), non può non far riferimento a due elementi che, a mio parere, differenziano la situazione del Piemonte e dell’Italia rispetto a quella degli Stati preunitari. Dove la democrazia, usiamo espressioni moderne, non vi era per nulla. a) Giordano Bruno Guerri ricorda (2011, p. 108) come Vittorio Emanuele II fosse ossequiente verso il Papa, segretamente ostile a una serie di progetti cavouriani. Scrisse, in segreto, a Pio IX e si impegnava a non fare votare la legge sul matrimonio. Si opponeva a quella sui conventi. Però, il Piemonte non era il Regno del Sud e aveva un Parlamento, anche se non perfetto secondo i nostri schemi. Cavour si dimise, per gli ostacoli incontrati sulla legge dei conventi, ma il re non riuscì a formare quel governo di destra che avrebbe voluto e l’incarico tornò a Cavour. Cavour, tra l’altro con spirito di preveggenza moderno, ebbe a dichiarare, per i rapporti con la Chiesa che “nel prossimo secolo la separazione fra Chiesa e Stato sarà un fatto compiuto e accettato da tutti i partiti” (come richiama lo stesso G.B. Guerri, 2011, p. 108, vedi anche R. Balzani, 2002, pp. 83 e 94-95). Ma un altro episodio è, forse, più importante e significativo, per la differenza tra l’Italia e gli altri Stati, differenza che rendeva l’Italia più moderna, anche se rispondeva con le leggi eccezionali alle rivolte del 23 felis.indd 23 10-07-2012 14:26:16 Sud, ma erano leggi alle quali si dava precisi termini temporali di efficacia (G.B. Guerri, 2011, p. 219). b) Quando fu emanato il Sillabo, il Governo italiano lo fece distribuire nelle diocesi. Altri Stati, alleati del Papa, Stati europei importanti, di tradizioni secolari, che dovevano essere un esempio anche per la democrazia, vietarono la diffusione, come fece Napoleone III, per la Francia. In Inghilterra, Gladstone ne fece un arma per dimostrare che i cattolici non erano buoni cittadini; Bismarck riteneva che il Papa, con il suo comportamento, avrebbe fatto diventare luterani i tedeschi (G.B. Guerri, 2011, p. 237). Atteggiamenti diversi da quello dello Stato italiano, accusato di repressioni, antidemocraticità e di tante nefandezze. Atteggiamento italiano, quello verso il Papato e il fenomeno religioso, difforme da quello europeo, come vedremo. Se si volessero guardare le questioni proprio con gli occhi degli anni Duemila, si può ritenere un segnale di voler scristianizzare l’Italia ecc. l’approvazione di leggi che soppressero alcuni ordini religiosi o stabilirono l’eliminazione della giurisdizione ecclesiastica sui cimiteri o introdussero il servizio di leva per i seminaristi o il matrimonio civile accanto a quello religioso? La penetrazione e l’azione pastorale nella società della Chiesa ebbe maggiore sviluppo, libera da preoccupazioni temporali, come attestano i dati che vedremo nel prossimo capitolo. Papa Giovanni XXIII, come Ricasoli nel 1862, disse che il Risorgimento era stato un disegno della Provvidenza. Oggi Benedetto XVI il 17 marzo 2011 ha chiuso ogni polemica. Le parole del Papa hanno fatto scrivere, in modo significativo, a un grande quotidiano, il “Corriere della Sera” del 16 marzo 2011, un titolo come “Il Papa e l’Unità: Risorgimento non fu contrario alla fede”. Proprio Benedetto XVI mette in evidenza, nel suo messaggio per il 17 marzo 2011, rivolto al presidente Napolitano, che il processo di unificazione, se provocò un conflitto tra Stato e Chiesa, passato alla storia con il nome “Questione Romana”, non provocò conflitto nel corpo sociale “segnato da una profonda amicizia tra comunità civile e comunità ecclesiale”. 24 felis.indd 24 10-07-2012 14:26:16 Dalla teoria alla pratica del federalismo Non affronterò in questo libro il tema del federalismo da un punto strettamente teorico. Su questo versante una delle migliori opere (D.J. Elazar, 1998) è quella di chi, Daniel Elazar, compie un’analisi sia storica, sia comparativa, individuando nella storia dell’umanità tre esperienze federali (la Federazione tribale israelitica descritta nella Bibbia, quella elvetica e quella statunitense), e che ritiene il federalismo sia inseparabile dal repubblicanesimo democratico. Il federalismo, un po’ trascurato dai pensatori politici, almeno fino all’inizio dell’epoca moderna, avrebbe avuto uno sviluppo, secondo Elazar, anche per considerazioni di provenienza teologica che partirebbero dall’analisi di sistemi basati su di un patto (D.J. Elazar, 1998, pp. XXVI e 124). Non approfondirò questo tipo di impostazione per due motivi. A) Perché, come dice lo stesso autore che di più (e meglio) ha affrontato questo versante, si è riconosciuto che il valore intellettuale del federalismo consiste anche, per gli stessi studiosi del fenomeno, nel fatto che ogni questione teorica deve avere una dimostrazione pratica e che la teoria federale, per essere una buona teoria, deve essere valutata empiricamente. B) Dall’altra parte, partendo da un’analisi storica voglio privilegiare l’analisi concreta per verificare se una certa forma che regola i rapporti tra lo Stato e i cittadini, fra lo Stato e le sue parti, sia ancora valida. Se lo sviluppo storico di un Paese, tenendo conto dei cambiamenti sociali, demografici, economici, ecc., giustifica un certo assetto. Perché ogni teoria deve avere una “vita viva e vitale”. In questo senso applicando questi criteri tratterò dell’Italia paragonandola agli USA (Stato di riferimento per il nostro tema). Per l’Italia terrò conto delle condizioni con cui si è arrivati all’Unità (che in parte sono state volute, ma in parte sono state determinate da situazioni e modelli storicamente dominanti e poco modificabili, perché europei ed internazionali). Per l’Italia si deve partire dalla considerazione storico-teorica che la monarchia unitaria era la forma dominante in Europa 150 anni fa e il rifiuto del federalismo non si può capire se non inquadrando la questione sia nell’analisi delle questioni contingenti dell’epoca ma anche nell’analisi della concezione di fondo che vedeva, dal punto di vista teorico, predominare in Europa una forma di Stato basata sulla monarchia (e l’Italia realizzò, fatto non irrilevante, una monarchia costituzionale, per merito soprattutto di Cavour e altri). 25 felis.indd 25 10-07-2012 14:26:16 In Europa, giusto o sbagliato che sia, lo Stato (che era un’invenzione europea fin dal tempo della Pace di Westfalia del 1648) aveva assunto una certa forma. E di essa, anche per ragioni internazionali, si doveva tenere conto. Oggi, al contrario, si può vedere e verificare se questo assetto mantenga una validità. Ma la verifica è da fare in modo empirico sempre valutando gli interessi dei cittadini e l’assetto internazionale. Senza pregiudizi (in un senso o nell’altro). Per gli USA, che, in particolare, sono stati considerati un modello, si seguirà un po’ lo stesso schema dell’Italia. Un’analisi storica che tiene conto delle contingenze storiche specifiche (anche perché se fossero, molto specifiche, questo sarebbe un elemento da non trascurare) e un’analisi che, però, anche tiene conto dell’attuale globalizzazione. Perché, oramai, oggi, se mai è stato vero nel passato, nessuno può vivere in un’isola. E proprio su questo punto anche chi è, intellettualmente, a favore del federalismo non può non considerare le modifiche che negli stessi USA si sono verificate e che fanno valutare, in modo molto diverso tra loro, l’assetto di questo Paese dai suoi stessi studiosi. Cioè non si può non tenere conto che pensatori come Martin Diamond hanno detto che la Costituzione americana non era federale ma introduceva un sistema politico unitario a forte decentramento. La Costituzione creava forma di decentramento in una struttura unitaria. Era “un sistema eminentemente nazionale che è profondamente (ed efficacemente) incline al decentramento. Se dobbiamo proprio considerare federale questo sistema, allora potremmo definirlo federalismodecentralista […] un federalismo il cui fine (e la cui natura) non sono più propriamente federali, ma che tende sempre a generare nuove modalità di decentramento” (M. Diamond, 1973, pp. 135-136). Non si può non tener conto che negli USA oltre a quanto vedremo è stato detto sul federalismo consentito (William Van Alstyne) da studiosi recenti che, altri (E.S. Corwin, 1950, pp. 1-24), in un periodo più lontano, hanno individuato una serie di mutamenti intervenuti nel sistema costituzionale, altri (H. Sidgwick, 1891) hanno sin da tempo messo in evidenza la caratteristica degli Stati federali a procedere verso una sempre più completa unione (il federalismo nasce da cause storiche che faranno sì che sia una semplice fase di transizione verso una più completa unione), altri infine, proprio sulla base dell’evoluzione storica americana, hanno addirittura considerato il federalismo come morto (H. 26 felis.indd 26 10-07-2012 14:26:16 Laski, 1939, pp. 367-369) o hanno ritenuto che credere al federalismo significava essere razzisti (W. Riker, 1964). Tutte queste visioni, precedenti rispetto a quella che fa riferimento al federalismo consentito, oggi prevalente e che esporrò sono anche correttamente riportate da studiosi italiani favorevoli a questa forma di Stato (vedi L.M. Bassani, 1998, p. XIII, che cita e riporta le idee sopraindicate degli autori americani sull’evoluzione del federalismo). Per queste ragioni ho preferito e preferisco tornare ad un’analisi empirica, ad aspetti pratici che possono essere più utili. Meno polemici di quelli teorici. E soprattutto più adeguati per trovare la soluzione ai problemi di oggi. 27 felis.indd 27 10-07-2012 14:26:16