“…..le molecole sono, dopotutto, strutture nanometriche naturali” 1. Introduzione Gli sviluppi tecnologici che più hanno influenzato la vita di questo secolo sono sicuramente la microelettronica e le materie plastiche. La prima, nata da applicazioni della fisica dello stato solido ai materiali semiconduttori, con il transistor (Shockley,1949) ha dato inizio a quel lungo cammino che ha portato ai computer e ad Internet. La seconda, con il nylon (Hill e Carothers, 1937), ci ha dato i polimeri sintetici e poi tutte le materie plastiche. Il passaggio dalle valvole a vuoto ai transistor a stato solido ha permesso la miniaturizzazione sempre più spinta dei dispositivi elettronici: mediante le tecniche di litografia e di drogaggio controllato di semiconduttori è possibile oggi arrivare a strutturare i materiali attivi dei dispositivi fino alla scala dei 250 nm, per produrre industrialmente i famosi chips che a milioni riempiono un’area di circa 1 cm2 (per esempio il processore Pentium III contiene 25 Milioni di transistors; il primo Pentium ne conteneva circa 4 milioni). Fig. 1 Immagine fatta con il SEM (Scanning Electron Microscope) di un NMOS di ultimissima generazione, prodotto dalla INTEL. La dimensione globale della struttura è circa 130 nm. Si distingue chiaramente la porta ("gate") di 70 nm; le due "orecchie" laterali sono il source e drain rispettivamente . Il canale ("channel") si apre nel substrato (dove c'è la scritta 70 nm). Nella figura 1 mostriamo lo stato dell'arte nella miniaturizzazione delle strutture elettroniche tradizionali. Recentemente poi, l’invenzione (Rohrer e Binnig, 1982) della microscopia a scansione (a effetto tunnel e poi a forza atomica) ha permesso in particolare l’imaging e la manipolazione a livello atomico e molecolare delle superfici e degli strati dei materiali che costituiscono il cuore dei dispositivi elettronici; come vedremo, ha avuto e ha un ruolo essenziale nei processi e nella manipolazione dei materiali molecolari. Fig. 2 La figura illustra il funzionamento dei microscopi STM e AFM. Nella parte sinistra viene presentato uno schema per il microscopio a effetto tunnel. In basso a destra è una schematizzazione ingrandita della puntina; i cerchi colorati sono i singoli atomi, la zona grigia fra gli atomi viola indica il passaggio del 90% della corrente; fra gli atomi azzurri passa un altro 8%, il resto fra gli altri atomi. Nello schema in alto a destra viene illustrato il funzionamento del micrscopio AFM. La forza che si esercita fra gli atomi della puntia e quelli della superficie del campione fa deflettere a sottilissima leva su cui la puntina è montata. Mediante la leva ottica tale flessione viene amplificata e registrata da un fotodiodo a quadrante. Per ambedue i tipi di microscopio il sengale poi viene usato per i meccanismi di correzione, stabilizzazione dei piezo etc. mediante feedback. La Chimica organica, nella sua ricerca di sempre nuovi materiali sintetici, si è evoluta verso quella che potremo chiamare ingegneria molecolare: la progettazione e successiva sintesi di molecole nuove, che rispondano a determinati prerequisiti che portano alle funzionalità desiderate: questo sia nell’ambito dei materiali strutturali (come il Kevlar) che di quelli funzionali (i polimeri elettroluminescenti o quelli conduttori). Fig. 3 Struttura chimica di alcune unità del polimero conduttore polipirrolo. Notare il susseguirsi di legami coniugati che caratterizzano il processo di conduzione in questo tipo di macromolecole. Queste due strade parallele si sono incontrate negli ultimi anni, dando luogo ad una nuova disciplina, quella delle nanostrutture molecolari. E’ sintomatico che i premi Nobel per la chimica e fisica di quest’anno siano stati dati proprio per il lavoro fatto in questi due campi: per la Fisica sono stati premiati tre ricercatori (il russo Alferov e gli americani Kremer e Kilby) le cui scoperte hanno dato il maggior impulso alla nascita della microelettronica e dell’optoelettronica; per la Chimica, il premio è andato agli americani Heeger e Mac Diarid, e al giapponese Shirakawa per la sintesi dei polimeri conduttori, di materiali cioè che, avendo tutte le caratteristiche delle plastiche (lavorabilità, leggerezza, economia di produzione, proprietà meccaniche etc) sono però diversi in un aspetto fondamentale: al contrario delle materie plastiche usuali, che sono degli isolanti elettrici, questi materiali, opportunamente trattati, possono essere semiconduttori o addirittura metallici. Un altro passo fondamentale nell’ingegneria molecolare è stato fatto quando ci si è accorti (Lehn, Cram, Pedersen, Premi Nobel per la Chimica 1987) che le architetture molecolari complesse (supramolecolari) potevano “farsi da sole” (vedi Whitesides 1995, autoassemblaggio molecolare): il ricercatore doveva solo intuire quali erano le condizioni al contorno e mescolare ovviamente le molecole giuste; poi le varie componenti molecolari si aggiustavano le une rispetto alle altre in strutture spaziali che avevano la funzionalità voluta. Fig. 4 Alcune strutture supramolecolari originate per autoassemblaggio dalla molecola in alto a sinistra. Questo è un esempio di processi “bottom up” in cui si parte dal semplice per arrivare al complesso. La microelettronica tradizionale invece può essere invece vista come un processo “top down”, in sui si arriva alle dimensioni microscopiche o nanoscopiche tramite successivi “tagli” di strutture macroscopiche. Resta da introdurre un ultimo ingrediente, che è la biologia. Chiaramente la Natura da sempre usa processi di autoassemblaggio di componenti molecolari per arrivare a superstrutture complesse che hanno funzionalità molto specifiche. E’ dunque ai materiali biologici che molti hanno guardato, sia per ispirazione, per “vedere come si fa”, sia per l’utilizzazione diretta delle macromolecole biologiche. L’elettronica sostanzialmente è un modo di creare, trasmettere e ricevere segnali, ossia informazione. Dalla scoperta di Crick e Watson (1962) della struttura del DNA (vedi Edelson (2000)), è quasi diventato luogo comune che le molecole biologiche “codificano”, “replicano”, “trasportano” informazione, ossia i segnali chimici, elettrici che fanno funzionare l’organismo vivente. E dunque, perché non pensare di utilizzare queste molecole, come ad esempio le metalloproteine, “chiavi in mano”, come componenti attive di circuiti elettronici? Naturalmente, oltre all’insopprimibile curiosità della mente umana, la voglia di andare sempre più avanti nella conoscenza dei meccanismi della natura e nello spingere le frontiere di “quello che si può fare”, ci sono anche motivi molto pratici per esplorare alternative ai processi di miniaturizzazione della microelettronica classica. Fermo restando che sia utile e necessario arrivare a calcolatori sempre più potenti e veloci, a sistemi di elaborazione e trasmissione dati sempre più intricati e complessi, a una ulteriore “computerizzazione” della nostra vita. Ci sono due problemi grandi nell’arrivare al mondo nanometrico con la microelettronica dei semiconduttori inorganici: uno è il travaso non voluto di elettroni da una struttura ad un'altra del nanodispositivo, dovuto a ineliminabili effetti quantistici, quando le dimensioni sono inferiori alla decina di nm; questo problema è poi complicato dalla presenza, anche quella ineliminabile, di difetti nella struttura che, ricordiamo, è “tagliata” dalle forbici della litografia. L’altro, ancor più sostanziale, è la fondamentale differenza fra atomi e molecole. L’atomo infatti non è assolutamente il materiale: pensiamo all’atomo di carbonio che porta normalmente alla grafite, più raramente al diamante: chi potrebbe immaginare due materiali cosi diversi fra loro! Eppure, sono tutt’e due carbonio purissimo. La molecola invece è per definizione la particella più piccola di un materiale che ne riproduce il comportamento fisico-chimico. Dunque, nell’elettronica basata sul silicio o il GaAs, la particella più piccola deve comunque avere un numero di atomi, e dunque dimensioni sufficienti perché l’aggregato sia a tutti gli effetti un cristallo del materiale macroscopico, con tutte le sue proprietà; e questo cristallo dovrebbe essere sempre lo stesso, per tutti i 25 Ml di transistors del processore Pentium III! Si stima che difficoltà di questo tipo porteranno la nanotecnologia del silicio al muro invalicabile dei 50 nm intorno al 2005. Una molecola invece è sempre la stessa, e nella sintesi se ne producono trilioni di trilioni, tutte uguali, senza difetti, e di dimensione naturalmente nanometrica. Connesso con le differenze fondamentali fra i nanomateriali inorganici e le molecole è anche il problema della dissipazione di energia, che può diventare insormontabile per le strutture ad altissima densità di componenti nel caso dei semiconduttori tradizionali. Infine, ma dal punto di vista pratico potrebbe essere il fatto dirimente, non è da trascurare il costo: la nanoelettronica fatta sui materiali tradizionali verrebbe ad avere un costo enorme, che crescerebbe esponenzialmente con la riduzione di scala (quintuplica per ogni riduzione di scala di un fattore 2). Anche se si trovasse il modo di passare attraverso il muro del Silicio, ci si dovrà arrestare (si stima attorno al 2015) di fronte al costo di circa 200 Miliardi di dollari per una singola struttura industriale per la produzione dei chips. Ci sono dunque limitazioni fondamentali e pratiche alla miniaturizzazione cui si può arrivare con i semiconduttori tradizionali. In quel che segue illustreremo brevemente come, sostituendo il silicio con opportuni sistemi e architetture molecolari, e utilizzando fino in fondo gli effetti quantistici che dominano la scala nanometrica, si possa in linea di principio sormontare queste ed altre difficoltà, per arrivare a dispositivi in cui l’elemento attivo possa al limite essere una singola molecola! 2. L’elettronica molecolare Definiamo subito un po’ meglio di cosa si tratta. Ci sono infatti due aspetti che vanno sotto questo nome: l’elettronica fatta con materiali organici, e l’elettronica fatta con singole molecole. Un esempio di questa differenza lo possiamo vedere nel caso del transistor a effetto di campo tipo MOSFET. Fig.5 Schema di un MOSFET basato sul Silicio. L'elettrodo di gate controlla l'apertura o meno di un canale di conduzione nel substrato di silicio di tipo p, controllando così la corrente che fluisce dall'elettrodo di source a quello di drain, ambedue fatti con silicio di tipo n. Lo strato isolante è SiO2; questo è l'ossido naturale che comunque copre la superficie del silicio, ed è uno dei migliori isolanti che si conosca. Da questo discende in larga parte il successo del silicio nella microelettronica. Nel caso della tecnologia basata sul silicio, il canale si forma nel wafer di silicio di tipo p e/o n con un opportuno livello di drogaggio. Lo strato isolante è ossido di silicio; i materiali del source e drain sono Si di tipo n o p. Lo stesso MOSFET può essere costruito come struttura ibrida inorganico-organica, oppure in linea di principio come struttura completamente organica. In questi casi abbiamo a che fare con una struttura di dimensioni standard, solo che le componenti sono organiche. Tranne casi particolari, è evidente che questo tipo di elettronica “molecolare” è principalmente utile come banco di prova di metodi e materiali. E’ comunque un passo essenziale e necessario per arrivare all’ elettronica su scala molecolare, o nanoelettronica molecolare che rappresenta il vero limite ultimo delle dimensioni dei dispositivi nanoelettronici e nanooptoelettronici. Fatte queste precisazioni, vediamo ora brevemente un po’ di storia, cominciando dal lavoro seminale di Aviram e Ratner (1974), che proposero un diodo molecolare basato su una molecola che avesse la caratteristica di avere due gruppi accettore (A) e donore (B) connessi da un ponte di legami covalenti saturi, costituiti ad esempio da uno o più gruppi metilenici CH2. Questa catena funge da barriera di potenziale per gli elettroni (di dimensione variabile a piacere). Questa molecola ipotetica, depositata fra due elettrodi, avrebbe l’orbitale occupato di più alta energia (HOMO) della parte D vicino al livello di Fermi di uno degli elettrodi mentre la parte A avrebbe il suo LUMO (orbitale a più bassa energia) nelle vicinanze del livello di Fermi dell’altro elettrodo. In questo modo si avrebbe una asimmetria sostanziale che porta al diodo molecolare. Per alcuni anni vari gruppi hanno cercato di realizzare l’idea di Aviram e Ratner, finchè, nel 1997 il gruppo di R. M. Metzger annunciò rettificazione in una struttura il cui elemento attivo era costituito da uno strato di hexadecylquinolinium tricyanoquinodimethanide (HDQ-TCM). Questo lavoro fu preceduto dalle prime misure del passaggio della corrente elettrica attraverso specifiche molecole, come ad esempio il C60 (Joachim 1995) oppure il benzene-di-tiolato; in quest’ ultimo caso la misura fu fatta con la deposizione delle molecole su un nanoporo, su cui viene depositato l’elettrodo di oro. Il sistema autoassemblato poteva poi contenere miscugli delle molecole attive e molecole “inerti”; l’altro elettrodo era la puntina di un microscopio STM ( L.A. Bumm 1996), o una puntina modificata (M. Reed, 1996) che poteva essere posizionata sulla molecola “giusta”, che era dispersa in mezzo alle molecole che non potevano condurre, e quindi interferire con il segnale. Dalla misura quantitativa della corrente (0.2 microamperes) si potè desumere un flusso di circa 1012 elettroni/sec attraverso la molecola, uno alla volta, e con dissipazione termica trascurabile! Sostanzialmente con questi lavori si è dimostrato che l’elettronica con materiali molecolari è possibile, e dunque si può procedere verso una vera e propria elettronica su scala molecolare. Da questo punto di vista è stato determinante l’apporto delle microscopie a scansione, in particolare quella a effetto tunnel (STM) . In parallelo con questi sviluppi la ricerca ha seguito anche altre strade: una è quella dei nanocristalli di semiconduttori, l’altra quella delle biomolecole. Nel primo caso si è voluto affrontare il problema del leakage di elettroni quando le dimensioni diventano così piccole (25 nm) che gli effetti di tunnelling quantistico indesiderati diventano non più trascurabili. Qui il trucco è di costringere gli elettroni a traversare la zona semiconduttrice non più di uno alla volta; dato che comunque il cammino più probabile è quello “giusto”, in pratica non si ha “leakage”. Se infatti molti elettroni fossero presenti, allora sicuramente qualcuno se ne andrebbe in parti sbagliate del dispositivo. Si arriva perciò ai transistor ( o più in generale dispositivi) a singolo elettrone, il cui passaggio attraverso il nanocristallo induce un caratteristico salto nella caratteristica corrente-tensione (Coulomb staircase, scala di Coulomb (Devoret 1992)). Vari sono i metodi di produzione di nanocristalli; è però importante che siano prodotti con poca dispersione nelle dimensioni , come strato sottile, se non ordinato, possibilmente omogeneo. Più avanti descriveremo un metodo che, unendo i due mondi (fisica dei semiconduttori e chimica delle nanostrutture) ci sembra particolarmente interessante. Qui mostriamo i risultati ottenuti su nanocristalli di CdS: è chiaramente visibile nella caratteristica corrente-tensione la scala di Coulomb, che indica il comportamento da singolo elettrone della giunzione basata sul nanocristallo (fig. 6). Fig. 6 Andamento corrente tensione di una junzione formata da un nanocristallo di CdS e due elettrodi, di cui uno è la puntina di un microscopio STM. I salti di Coulomb sono indicati dalle frecce, e corrispondono ciascuno al passaggio di un singolo elettrone attraverso la struttura. Notiamo inoltre che i dati sono presi alla temperatura ambiente, che è poi quella che conta per l’uso dei dispositivi. Concludiamo questa carrellata storica presentando alcuni risultati ottenuti utilizzando come elemento attivo una singola molecola biologica. Cominciamo col DNA, forse la molecola più studiata; dopo anni di ricerche con risultati inconcludenti, la buona conduzione elettrica di una fibra (lunga 1 micron) di DNA (Fink 1999) e di un film sottile (Okhata 1998) è stata dimostrata. Subito dopo un risultato ancora più interessante: un pezzo (i.e. oligomero) di DNA, il poli(G)-poli(C) DNA, lungo 10 nm, è stato intrappolato fra due nanoelettrodi. Le caratteristiche corrente-tensione mostrano una soglia al di sopra della quale il “filo” è conduttore. Il risultato indica che c’e’ un vero e proprio trasferimento di carica, mediato dalle bande elettroniche del DNA (Porath 2000). Un altra molecola studiata è la batteriorodopsina, parente stretta della rodopsina che svolge un ruolo fondamentale nel processo della visione. Nel caso specifico che vogliamo illustrare la molecola viene usata per creare un elemento di memoria, eventualmente su scala nanoscopica (Oesterhelt 1991). Per questo si sfrutta la sua caratteristica di essere fotosensibile, nel senso che la struttura molecolare cambia in seguito all’assorbimento di luce in varie zone spettrali. Per cui illuminando con gli opportuni colori, si fa passare la proteina da uno stato all’altro. Si hanno dunque i due bit 0 e 1 del codice binario se si riesce a “leggere” questi due stati. La lettura si fa semplicemente determinando la trasmissione di fasci laser di colore opportuno, che e’ diversa a seconda che attraversino zone dove la proteina è nello stato 0 o 1 rispettivamente. Questo elemento di memoria può essere parte di una struttura tridimensionale: questo porterebbe ad un enorme aumento delle capacità di calcolo. Il problema irrisolto in questo caso è come portare l’illuminazione al di sotto del limite diffrattivo (circa 1 micron). Da questo punto di vista sono promettenti le nuove tecniche di campo prossimo, sbocciate dopo l’invenzione dello NSOM (near field scanning optical microscope), un analogo ottico del microscopio STM. 3.1 Le tecniche (self-assembly, Langmuir-Blodgett; microscopia a stilo, nanolitografie) La possibilità di depositare monostrati molecolari su substrato solido data ormai da quasi un secolo. Si basa sulle proprietà anfifiliche di molte molecole organiche; tipici, e storicamente i più studiati, sono gli acidi grassi, che da questo punto di vista possono essere descritti come dei bastoncini con una testa polare (il gruppo COOH) e una coda alchilica policarbonica. La testa e’ idrofila e vorrebbe disciogliere la molecola in acqua, la coda e’ idrofobica, e sarebbe insolubile. Il compromesso è raggiunto spandendosi all’interfaccia aria-acqua fino a formare un monostrato (di Langmuir) che può essere compresso mediante barriere (Gaines 1966). Fu una collaboratrice di Irving Langmuir, Katharine Blodgett, che negli anni 30 ebbe l’idea di immergere una lastrina di vetro un una vasca di acqua alla cui superficie galleggiava un monostrato di Langmuir, le cui molecole erano state opportunamente compresse fino ad avere un film densamente impacchettato, quasi-solido. Il fatto straordinario, e ancora non interpretato teoricamente in modo quantitativo, fu che il monostrato si trasferiva mantenendo la morfologia che aveva all’interfaccia aria-acqua. La tecnica restò per molti decenni quasi una curiosità, fino a quando, negli anni 70 se ne riconobbe (Kuhn 1983) il grande potenziale applicativo alla nascente scienza delle nanostrutture. La tecnica di Langmuir-Blodgett (Roberts 1990) è infatti fondamentale per la preparazione di strati e multistrati molecolari, di alta qualità strutturale, controllati su scala molecolare. Oggi si possono depositare strati di una grande varietà di molecole, sempre più complesse: dai semplici acidi grassi degli inizi, si è arrivati ai polimeri e alle biomolecole. E’ dunque una tecnica versatile, relativamente poco costosa, che permette la costruzione di architetture molecolari controllate su scala molecolare. Nella figura 7 mostriamo uno schema del processo di deposizione del monostrato di Langmuir. Fig. 7 Tecnica di Langmuir-Blodgett. Nel pannello in alto il monostrato è nella sua fase espansa alla superficie dell'acqua. Notare le barriere e il sensore di tensione superficiale immerso nell'acqua. Il segnale della bilancia cui è attaccato il sensore viene usato poi in vari meccanismi di feedback per il controllo dei vari processi. Le barriere vengono fatte avvicinare, comprimendo il monostrato, fino a quando le molecole sono tutte impacchettate (pannello centrale). Infine, nel pannello inferiore si mostra il processo di deposizione del monostrato su substrato solido. Nel caso illustrato la superficie del substrato è stata trattata in modo che le molecole aderiscano dalla parte idrofobica. Un processo analogo per la deposizione di monostrati è l’autoassemblaggio. La differenza fondamentale è che la deposizione L-B coinvolge una situazione di non equilibrio: le molecole sono costrette ad assumere una configurazione di “quasi solido” dalla compressione delle barriere sulla vasca; solo così possono poi collettivamente trasferirsi sul substrato, mantenendo la configurazione che avevano all’interfaccia aria-acqua. Nel caso di deposizione mediante l’autoassemblaggio si sfrutta invece, in una situazione di equilibrio, la capacità di specifici gruppi molecolari (principalmente, almeno finora, dei tioli – gruppi molecolari contenenti lo zolfo; ma anche le combinazioni ossido di silicio-clorosilani, ossido di alluminio-acidi grassi) di attaccarsi con un legame chimico forte a substrati di oro. In questo caso, immergendo il substrato su cui è stato evaporato un film di oro in una soluzione contenente le molecole, queste si attaccano con il gruppo tiolico alla superficie, formando una strato monomolecolare ordinato (vedi fig. 8). Fig. 8 Descrizione schematica del processo di deposizione di un monostrato molecolare per autoassemblaggio. Le molecole si attaccano al substrato (viola) tramite lo zolfo terminale (in giallo nel pannello intermedio). Nel pannello in basso mostriamo un'immagine AFM di un SAM. Essenzialmente dunque la tecnica L-B è più flessibile e generale, ma produce monostrati o multistrati che sono instabili, fragili, e dunque in linea di principio pongono il problema della stabilità temporale della struttura. L’autoassemblaggio invece ha il problema che almeno finora funziona solo con un determinato tipo di molecole, e determinati substrati. In ambedue i casi peraltro si riesce, con tecniche relativamente poco costose, a creare architteture molecolari anche complesse, controllate su scala molecolare. Queste caratteristiche sono ovviamente essenziali per qualsiasi applicazione alla scienza e tecnologia delle nanostrutture in generale, e alla nanoelettronica molecolare in particolare. Fili e dispositivi molecolari Ma le prospettive più affascinanti della nanoelettronica molecolare si hanno quando si considerano le singole molecole la parte attiva dei dispositivi, in configurazioni ibride (cioè elettrodi e circuiti metallici strutturati con le attuali tecniche litografiche), o, più in prospettiva, in configurazioni interamente molecolari, utilizzando come elettrodi i polimeri conduttori, come circuiti i fili molecolari. In questo contesto più futuribile, la prospettiva sarebbe di cambiare radicalmente l’approccio tecnologico attuale alla creazione di nanostrutture, e cercare di utilizzare a pieno le potenzialità delle molecole all’uopo ingegnerizzate o delle biomolecole di autoorganizzarsi in strutture funzionalmente ordinate. Anche in questo campo sono già stati ottenuti alcuni risultati importanti. Per esempio, nella produzione dei fili molecolari. Facciamo due esempi: il primo riguarda la chimica supramolecolare del Carbonio, che recentemente ha prodotto il fullerene e i suoi derivati. Fig. 9 - Schema di un nanotubo di Carbonio, una delle strutture supermolecolari che si generano nella scarica elettrica fra due elettrodi di carbonio. Se tra due elettrodi di carbonio viene fatta scoccare una scarica elettrica, in condizioni non molto dissimili, se non per l'atmosfera priva di ossigeno, da quelle realizzate in una vecchia lampada per proiettore cinematografico, nell'archetto di plasma in cui avviene la scarica (l'analogo del lampo associato ad un fulmine) si formano diverse strutture a base di carbonio: tra queste il famoso C60 (Smalley 1996) a forma di pallone da calcio, e strutture di dimensioni maggiori a forma di tubo allungato (nanotubi) e a multi-strato (strutture "a cipolla"). Tra i nanotubi, che con opportuni accorgimenti si possono produrre in quantità relativamente elevate e di buona purezza, ve ne sono di intrinsecamente metallici e di semiconduttori, a seconda della struttura costitutiva e dell'eventuale drogaggio. Questi potenzialmente potrebbero essere i fili (dimensioni tipiche 1 micron di lunghezza e 5 nm diametro) che connettono le varie componenti molecolari del chip. Anche le molecole di C60 possono, in determinate condizioni, dar luogo a strutture monodimensionali in seguito a polimerizzazione, come illustrato in figura 10. Tali strutture sono resistenti all'ossidazione, fornendo quindi potenzialmente la possibilità di realizzare strati protettivi per strutture elettroniche costituite da fullereni o nanotubi drogati, altrimenti estremamente sensibili all'ossigeno. Fig 10 Struttura del Rb1C60. Le sfere rosse rappresentano gli ioni di Rubidio; i C60 sono in azzurro. L’altra possibilità già preliminarmente esplorata sono i fili molecolari di Tour (TOUR 1994). Questi consistono di strutture aromatiche coniugate di atomi di carbonio legati da un’alternanza di singoli e doppi legami covalenti (fig. 11). Fig. 11 Schema molecolare di un "filo di Tour". La parte fra parentesi si può ripetere n volte. La risonanza fra questi due legami produce una delocalizzazione degli orbitali elettronici su tutta la molecola; uno di questi e’ parzialmente occupato, e si comporta dunque un po’ come la banda di conduzione in un metallo. Il gruppo di Tour ha misurato la conducibilità di un singolo filo molecolare, ottenendo il valore di circa 102 Siemens/metro (per un valore della resistenza misurata di 22.2 Megaohm). Ma è con la progettazione e sintesi di nuove molecole opportunamente funzionalizzate che si arriva al cuore dell’elettronica di singola molecola. Vediamo quali sono le caratteristiche funzionali di un tipico dispositivo: deve poter far passare corrente o meno, a seconda di un segnale di comando; deve poter avere due stati stabili, distinguibili e leggibili da un segnale esterno; deve poter amplificare un segnale in ingresso. Tutte queste funzioni (di interruttore, di elemento di memoria, di amplificatore) nella microelettronica tradizionale vengono svolte dal transistor ad effetto di campo, nella sua versione (metal-oxyde-semiconductor field effect transistor). Nella FIG 1 abbiamo mostrato la struttura più miniaturizzata attualmente prodotta a livello di prototipo. In essa si possono distinguere la “source”, il “drain”, il substrato dove si apre il canale, l’elettrodo di controllo (“gate”). A seconda dei voltaggi e relative correnti e del drogaggio, un dispositivo di questo tipo può funzionare da amplificatore (parte lineare della caratteristica V-I), da interruttore e elemento di memoria. I nuovi dispositivi, anche se sfruttando meccanismi ed effetti completamente diversi, hanno comunque lo stesso tipo di configurazione; abbiamo già visto l’esempio dei dispositivi a singolo elettrone. Vediamo ora qualche esempio di possibile dispositivo molecolare. Consideriamo allora la molecola descritta nella figura 12. Notiamo subito la parte a legami coniugati (pannello in alto) che assicura il trasporto dei singoli elettroni attraverso la struttura molecolare. I gruppi CH2 costituiscono le barriere isolanti: la molecola risultante può essere descritta come due parti conduttrici separate da due barriere di potenziale. La struttura è funzionalmente simile al “Resonant Tunnelling Diode (Capasso 1985) basate sul GaAs e AlAs. Quando si applica una differenza di potenziale, si porta uno dei livelli quantizzati all’interno del pozzo quantico in risonanza col livello esterno, e l’elettrone può passare per effetto tunnel . Fig. 12 Filo di Tour con cue barriere isolanti formate con l'intercalazione di due gruppi CH2. Notare gli atomi di Zolfo alle estremità, che assicurano il contatto con gli elettrodi di oro. In basso, lo schema dell'energia in funzione della distanza attraverso lo spazio fra gli elettrodi, per una tensione applicata. che è sufficiente a portare i livelli occupati nella parte conduttrice alla stessa energia di uno dei livelli quantizzati della buca quantica. Gli elettroni così possono passare. Questo è l'analogo molecolare del RTD basato su GaAs, AlAs. Si possono immaginare altre strutture o superstrutture molecolari vieppiù complesse, per assolvere alle varie funzioni di un chip: interruttore molecolare, amplificatore, elementi logici come porte AND, OR etc. Queste prospettive sono per ora al livello di calcoli di struttura elettronica molecolare e simulazioni delle corrispondenti strutture circuitali. Per esempio, nella figura 13 mostriamo un possibile interruttore molecolare (MITRE 1999). Fig. 13 Schema di un possibile interruttore di corrente interamente molecolare In questo caso il segnale nella molecola di "gate" fa ruotare la molecola C in modo da mettere nella catena il gruppo conduttore X (Y è isolante, come ad esempio il CH2), e viceversa. Un altro esempio interessante si ha con molecole chiamate rotassani (Amabilino 1995). Sono molecole in cui una parte anulare (un macrociclo) è proprio infilata in una parte lineare (fig. 14). Fig. 14 Esempio di un interruttore molecolare che si basa sulla navetta costituita dall'anello che con un opportuno voltaggio applicato può essere fatto spostare dal gruppo benzidinico a quello bifenolico. Nell’esempio che mostriamo in figura (Bissell 1994) la molecola funziona da interruttore navetta (“shuttle switch”): è cioè un interruttore reversibile, con il macrociclo che va avanti e indietro fra in gruppo benzidinico a sinistra e quello bifenolico e destra. I silossani ai due estremi impediscono all’anello di sfilarsi. L’anello macrociclico contiene 4 gruppi carichi, che sono attratti dai gruppi sull’asse con eccesso di carica negativa. Dato che il gruppo benzidinico è un migliore donore che il bifenolico, l’anello passa la maggior parte del tempo su gruppo di sinistra. Se però si toglie un elettrone da questo gruppo, l’altro diventerà più attraente e lo “shuttle” molecolare passerà dall’altra parte. Il processo si chiama ossidazione elettrochimica. Recentemente un’applicazione di questo tipo di molecola (peraltro non a livello della singola molecola) è stata fatta per costruire una porta logica il cui elemento attivo era il monostrato di un rotassano (Collier 1999). Nella figura 15 mostriamo le caratteristiche del dispositivo: all’inizio, l’interruttore è chiuso, e lo stato viene sondato applicando un voltaggio negativo all’elettrodo. L’interrutore si apre ossidando la molecola applicando un voltaggio all’altro elettrodo di +0.7 V. Ancora, si riinterroga il dispositivo applicando tensione negativa.