[LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006 – 2007 QUARTA PARTE] [dicembre 2006] Bruno Celano Positivismo giuridico e neocostituzionalismo Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007) Quarta parte Indice Parte IV Costituzionalismo contemporaneo, Stato costituzionale di diritto, teorie del diritto neocostituzionalistiche 8. Il ritorno dei diritti: lo stato costituzionale di diritto 8.1 Il costituzionalismo contemporaneo 8.1.1 Introduzione 8.1.2 Le componenti ideologiche del costituzionalismo contemporaneo 8.1.3 Costituzionalismo contemporaneo e costituzionalismo rivoluzionario settecentesco 8.2 Lo stato costituzionale di diritto 8.2.1 Fisiologia 8.2.2 Patologia 9. Neocostituzionalismo e teoria del diritto 9.1 Introduzione 9.2 Inadeguatezza del positivismo giuridico ottocentesco 9.3 Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? (III) 9.3.1 Il problema 9.3.2 Argomenti antipositivisti (I): R. Dworkin 9.3.3 Argomenti antipositivisti (II): l’argomento della pretesa di giustizia (R. Alexy) 9.4 Nuove forme di positivismo giuridico: un vicolo cieco? 9.4.1 Introduzione 9.4.2 Positivismo giuridico inclusivo 9.4.3 Positivismo giuridico esclusivo 9.4.4 Due dubbi Riferimenti bibliografici Avvertenza. Le presenti dispense sono fornite gratuitamente agli studenti del corso di Filosofia del diritto. Il loro uso ai fini della preparazione all'esame non sostituisce lo studio degli altri testi adottati. 1 [LEDI\POGINECO\DISPENSE 2006 – 2007 QUARTA PARTE] [dicembre 2006] Bruno Celano Positivismo giuridico e neocostituzionalismo Dispense del corso di Filosofia del diritto (a.a. 2006-2007) Parte IV Costituzionalismo contemporaneo, Stato costituzionale di diritto, teorie del diritto neocostituzionalistiche 8. Il ritorno dei diritti: lo stato costituzionale di diritto 8.1 Il costituzionalismo contemporaneo 8.1.1 Introduzione Torniamo ora a un approccio storico. Ci siamo soffermati sulla nascita e lo sviluppo, in età moderna, dell'idea dei diritti fondamentali, sui tratti del costituzionalismo moderno, sui modelli di costituzione, e le diverse versioni del principio costituzionalistico, sviluppatisi nell'ambito della cultura rivoluzionaria americana e francese, e dello stato di diritto europeocontinentale dell'Ottocento (sopra, 4-5). Da questa ricostruzione sono emersi i caratteri di un certo tipo di ordinamento giuridico - il diritto codificato (sopra, 6) - e di una particolare concezione del diritto, il positivismo giuridico (che abbiamo preso in esame dapprima nella sua versione ottocentesca, come teoria del diritto codificato, poi, in generale, come teoria delle condizioni di esistenza di fatti giuridici; sopra, 7). Ma la nostra ricostruzione è ancora palesemente incompleta. Quali sono le caratteristiche salienti delle costituzioni europee contemporanee, e quale versione (o quali versioni) dell'ideale costituzionalistico trovano, in esse, espressione? Quali sono, in generale, le linee essenziali degli ordinamenti giuridicopolitici contemporanei, e delle ideologie ad essi sottese? Cinque elementi - reciprocamente connessi - concorrono a determinare le linee essenziali del costituzionalismo contemporaneo: (1) l'esperienza, e il rifiuto, dell'ideologia e dello stato totalitari (il nazismo in Germania, il fascismo in Italia); (2) l'opzione democratica (l'opzione, cioè, in favore della sovranità popolare); (3) le lotte del movimento dei lavoratori nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento (il movimento socialista); (4) la consapevolezza dell'insufficienza, sotto il profilo della garanzia e della protezione di diritti e libertà, dello stato di diritto ottocentesco, nonché (5) dei limiti dai quali sono affetti i modelli costituzionali, e le versioni dell'ideale costituzionalistico, propri della cultura rivoluzionaria francese e di quella americana. Dall'intreccio di questi fattori hanno origine, dopo la Seconda guerra mondiale, le costituzioni europee contemporanee. 8.1.2 Le componenti ideologiche del costituzionalismo contemporaneo La cultura liberale dell'Ottocento è caratterizzata, come abbiamo visto (sopra, 5.1), dal rifiuto di entrambi i modelli di costituzione settecenteschi, il modello della costituzionegaranzia e quello della costituzione-indirizzo. Come conseguenza di questo duplice rifiuto, come pure si è visto, nello stato di diritto ottocentesco non è operante - né è coerentemente ipotizzabile - alcuna garanzia dei diritti nei confronti della legge, o del legislatore: nulla 2 (nessun congegno istituzionale, nessun espediente tecnico-giuridico) impedisce che lo stato sovrano "ritir[i] oggi ciò che aveva concesso ieri, quando aveva fondato con la sua norma i diritti degli individui" - nulla impedisce "che il legislatore, con un proprio atto sovrano, violi i diritti individuali, magari quei medesimi diritti che esso stesso aveva precedentemente costituito"1. Lo stato di diritto ottocentesco è segnato da un'eclissi dell'idea dei diritti fondamentali. Sotto questo aspetto, la cultura giuridico-politica della seconda metà del Novecento (l'età delle democrazie, dopo il tracollo dei regimi totalitari in Europa occidentale) è caratterizzata da una decisa inversione di tendenza (anticipata dalla costituzione della Repubblica di Weimar in Germania, e da quella della Repubblica Austriaca). La cultura giuridico-politica del secondo dopoguerra è infatti segnata - sia a livello statuale, sia a livello internazionale dal ritorno dei diritti: dalla rivincita dell'idea dei diritti fondamentali, cui si accompagna il ritorno all'idea del primato della costituzione (nell'accezione specificamente moderna di questo termine, introdotta sopra, 4.3). Nella cultura costituzionale del secondo dopoguerra, dunque, si assiste a un ritorno su vasta scala al costituzionalismo delle rivoluzioni settecentesche. Ma con una significativa novità: il costituzionalismo del secondo dopoguerra è caratterizzato dal tentativo di operare una composizione, una sintesi, dei due modelli di costituzione settecenteschi. Le costituzioni contemporanee ambiscono a essere, congiuntamente e inscindibilmente, costituzioni-garanzia e costituzioni-indirizzo. E' questa, secondo M. Fioravanti, la cifra del costituzionalismo contemporaneo2. Perché? Quali sono le ragioni, o le motivazioni, che stanno alla base di questo ritorno, e di questo tentativo di sintesi? Iniziamo con un rapido passo indietro, e torniamo allo stato di diritto ottocentesco. Lo stato, si diceva (sopra, 5.2), è concepito, in età liberale, come una persona, un'entità dotata di una propria soggettività: un macro-soggetto che, a differenza dagli esseri umani individuali, è dotato di un particolare potere, potere sovrano. Ma qual è, nella prospettiva del liberalismo ottocentesco, l'elemento che sta all'origine dello stato, che ne costituisce la base e ne garantisce l'unità? E qual è il suo fondamento di legittimità? Lo statualismo liberale si contrappone recisamente a ogni forma di individualismo: le istituzioni statali non hanno origine dalla, né trovano la propria legittimazione nella, volontà individuale (contratto sociale, potere costituente). Origine e fondamento di legittimità dello stato, base dell'unità sociale e politica, non è la volontà di una molteplicità, dispersa e caotica, di individui in un ipotetico 'stato di natura', presociale e prepolitico. E’, invece - così si assume - una (pretesa) realtà storico-naturale, sviluppatasi spontaneamente: la nazione3. La nazione è concepita come una pluralità di individui, che si estende indefinitamente di generazione in generazione, inscindibilmente vincolati gli uni agli altri (non, dunque, un mucchio, un insieme pulviscolare) da legami di nascita (da una comune appartenenza di nascita): una lingua, una tradizione culturale, religiosa, ecc.; insomma, una ‘identità’ condivisa. Il concetto (ottocentesco) di nazione ha, dunque, una netta impronta antiindivisualistica, organicistica: la nazione è rappresentata come un’individualità storica, un organismo vivente, rispetto al quale i singoli esseri umani sono parti, cellule, effimere e transeunti, che devono la propria identità, il senso della propria esistenza, e il proprio valore, 1 Fioravanti 1995, pp. 126-7, 128. Ivi, cap. IV. 3 Ivi, p. 108. 2 3 all’intero cui appartengono4. Un’identità dotata di un suo carattere peculiare, una sua personalità, che si manifesta nella lingua, i costumi, l'arte, ecc.; nonché nelle istituzioni politiche e giuridiche. In quanto individualità storica, spontaneamente sviluppatasi, la nazione è rappresentata come dotata di propri fini e interessi, di una propria volontà (superiore, per forza e dignità, a quella di individui o gruppi particolari). La legittimazione dello stato, e la base della sa unità, è il puro e semplice fatto dell’esistenza della nazione. Lo stato è il rappresentante, la persona, la maschera con la quale la nazione si presenta, e agisce, sulla scena politica. Lo stato liberale è, in questo senso, stato nazionale. Ebbene: il modello liberale, afferma M. Fioravanti, inizia il suo declino "quando, con l'avvento dei partiti di massa, il riferimento alla necessaria unità storica della nazione diverrà sempre più astratto e improbabile" (sempre meno credibile, dunque), e diverrà invece sempre più manifesta "la competizione fra soggetti distinti, fra partiti, classi, e gruppi d'interesse, per la conquista del potere politico, per la determinazione di un indirizzo politico vincente”, in vista di una “riforma degli equilibri della società”5. La debolezza, l’implausibilità dell’appello alla - pretesa - unità della nazione diviene evidente con le lotte del movimento dei lavoratori (il socialismo, nelle sue diverse correnti) per il miglioramento delle condizioni di lavoro e di vita, e per i diritti politici e sociali6. La società non è unitaria, omogenea, concorde: è conflittuale. In generale, le società contemporanee, almeno sin dalla fine dell'Ottocento, sono società pluralistiche: un insieme di individui, e gruppi, portatori di interessi, o di ideologie (visioni del mondo, concezioni della vita buona o della giustizia, di carattere religioso, filosofico, etico), diversi, e spesso confliggenti. L'idea della (necessaria, e presupposta) unità della nazione, come soggetto omogeneo dotato di una propria identità, un proprio carattere, propri fini e interessi, e una propria volontà (che si esprimerebbero in una cultura, una 'identità culturale', una lingua, una religione, e così via), appare ormai fittizia, se non ideologicamente viziata (consapevolmente o inconsapevolmente motivata e sostenuta, cioè, da determinati, e parziali, interessi economici e politici); e lo stesso può affermarsi, di conseguenza., dell'immagine della 'persona statale', come soggetto unitario e neutrale, idoneo a rappresentare, sulla scena politica, l'unità della nazione, perseguendone fini e interessi, e realizzandone la volontà. Sotto questo aspetto, una delle componenti più significative del costituzionalismo contemporaneo è l'abbandono dell'assunto che l'unità culturale (una religione, una morale, una visione del mondo, o - perché no - una razza; in generale, un'unica e medesima 'identità culturale') costituisca la base necessaria di una comunità politica relativamente pacifica, stabile, e moralmente difendibile. In contrapposizione a questo assunto, si afferma l'idea che il pluralismo degli interessi e delle ideologie sia, non soltanto un dato di fato inaggirabile, con il quale le istituzioni politiche devono convivere (pena la guerra civile, esplicita o latente), ma che esso sia, in effetti, un bene (un dato positivo). Che, in particolare, l'emergenza di una pluralità di concezioni della vita buona e della giustizia, di visioni del mondo (religiose, etiche, filosofiche) diverse e confliggenti sia il risultato naturale del libero esercizio della ragione umana, e che solo il ricorso a strumenti coercitivi possa impedirne lo sviluppo7. 4 Le relazioni sociali e politiche sono costitutive dell’identità individuale. Ivi, p. 131. 6 Su questa distinzione v. infra, 8.2.1. 7 Ciò costituisce, in effetti, l’esito di un processo di lungo periodo, che ha inizio con la rottura dell’unità religiosa dell’Occidente, avvenuta con la Riforma protestante. Agli albori dell’età moderna, le guerre di religione cinqueseicentesche, conseguenza del conflitto fra cattolici e protestanti, appaiono a molti uomini colti d’Europa come un vero e proprio vicolo cieco. Di fronte alla catastrofe sociale, politica ed etica provocata dal conflitto religioso - dal conflitto fra concezioni reciprocamente incompatibili della salvezza, e in generale della vita buona (del 5 4 In queste circostanze "sarà sempre più difficile ravvisare nel legislatore lo specchio fedele della nazione e della sua storia"; "la stessa legge apparirà allora sempre più come il frutto di una volontà politica e di una maggioranza vincente, e crescerà così inevitabilmente il bisogno di porre un limite positivo al legislatore, di vincolarlo alla osservanza di certi valori costituzionali, ed anche di obbligarlo alla attuazione di quei valori nella società"8. Il bisogno, cioè, (1) di sottrarre alla competenza della maggioranza (maggioranza semplice, ma anche, in linea di principio, maggioranza qualificata) certe decisioni, la decisione su certe sfere di bene) - apparentemente interminabile e non risolvibile, nasce, e progressivamente si diffonde, la convinzione della necessità della tolleranza: l’opinione che la tolleranza sia una condizione ineludibile di una convivenza pacifica. Ad essa si accompagna l’abbandono di un’idea che ha svolto, nella cultura dell’Occidente cristiano medievale, il ruolo di un postulato, un assunto incontrovertibile (il pilastro sul quale poggia, nella varietà delle sue forme, la cultura giuridico-politica medievale): l’idea che l’unità religiosa - la condivisione, da parte di tutti o quasi tutti i membri della comunità politica, di un unico credo religioso - costituisca, e debba costituire, la base imprescindibile dell’unità sociale e politica (ovvero, l’idea che l’unità religiosa sia condizione necessaria dell’unità sociale e politica). Viene cioè abbandonato l’assunto, tipico della cultura medievale, che l’unità e la salute del corpo politico richiedano, esigano, l’unità religiosa (e, in generale, culturale e ideologica) - che una comunità politica debba necessariamente essere caratterizzata (pena la sua disgregazione, la sua debolezza, la sua impraticabilità, o la sua ingiustizia, immoralità, empietà) dall’unità di fede religiosa. Con il riconoscimento dell’ineludibilità della tolleranza, diviene concepibile una società politica composta da individui e gruppi che hanno fedi religiose, concezioni della salvezza e della vita buona, diverse fra loro. L’unità della società politica, e le istituzioni che la reggono, subiscono un processo (un processo, ovviamente, più o meno marcato, più o meno profondo, a seconda delle circostanze storiche) di ‘neutralizzazione’ rispetto alle differenze religiose. Così, ad es., apostasia ed eresia non costituiscono - non più - crimini: non sono più, negli ordinamenti della modernità, illeciti penalmente perseguibili (Rawls 1993, pp. 223-224). L’appartenenza a una chiesa è, dal punto di vista politico, una questione di libera scelta individuale (difesa dell’individuo nei confronti dell’associazione religiosa: è garantita a ciascuno la libertà di ‘uscita’ dalla chiesa di appartenenza; il potere politico rivendica il monopolio dell’esercizio della forza). Un aspetto centrale di questa trasformazione è costituito, ovviamente, dalla rivendicazione e dal riconoscimento di alcuni diritti, concepiti, precisamente, come diritti fondamentali (nel senso precisato; sopra, 4.2): libertà di coscienza, di pensiero, di espressione, di associazione, di culto; principio della separazione fra stato e chiese. Nasce, così, l’idea di una società pluralistica - dapprima pluralismo religioso, poi, pluralismo ideologico in genere. Comincia, cioè, a prendere forma l’assunto che la pluralità delle appartenenze religiose, e in generale delle concezioni della vita buona e degli ideali etici, delle ideologie, sia, anzitutto, un dato di fatto ineludibile, del quale non si può che prendere atto (se non al prezzo di guerre devastanti, senza vincitori né vinti); e che essa sia, altresì, un valore, una ricchezza, una risorsa sociale. (Il pluralismo delle visioni del mondo viene cioè progressivamente inteso, non soltanto come un dato ineluttabile, ma anche come un valore.) L’abbandono del postulato che l’unità religiosa sia condizione necessaria dell’unità politica, la nascita di società politiche pluralistiche, e l’attribuzione al pluralismo ideologico di un valore positivo, stanno alla base delle democrazie liberali costituzionali contemporanee. (Questo ordine di considerazioni è stato sviluppato, in tempi recenti, da J. Rawls (1993), pp. xxiii-xxvi, xl-xli; cfr. inoltre ivi, pp. 134-135, 148, 303-304. Il libero esercizio della ragione umana - ossia, il normale esercizio della ragione umana in condizioni di libertà: nel quadro di istituzioni sociali e politiche non repressive - argomenta Rawls, conduce inevitabilmente alla formazione di una pluralità di concezioni, diverse e confliggenti, del mondo, e della vita buona - una pluralità di concezioni religiose, etiche, filosofiche, o di visioni del mondo: una pluralità di “dottrine comprensive” ragionevoli, e tuttavia, almeno in parte, reciprocamente incompatibili. Questo fenomeno - il “fatto del pluralismo ragionevole” - è un dato di fatto ineludibile. La teoria e la prassi dei regimi democratici costituzionali contemporanei poggiano sul riconoscimento di questo dato di fatto. Il problema centrale diviene, dunque, il seguente: è possibile, e se sì a quali condizioni, una società stabile e giusta della quale facciano parte individui e gruppi profondamente divisi gli uni dagli altri, perché aderenti a dottrine comprensive ragionevoli diverse e in parte confliggenti? È possibile una società stabile e giusta caratterizzata dal fatto del pluralismo ragionevole? Ovvero, se e come sia possibile, dato il fatto del pluralismo ragionevole, non soltanto la convivenza pacifica di una pluralità di dottrine comprensive, ma anche, e soprattutto una concezione politica della giustizia che dottrine comprensive diverse, ragionevoli ma confliggenti, possano condividere. Le democrazie costituzionali contemporanee poggiano sull’assunto che ciò sia possibile: che sia possibile individuare un’area di convergenza o di intersezione, sia pure limitata alla sfera politica, fra concezioni religiose, etiche ecc., ragionevoli, diverse e confliggenti.) 8 Fioravanti 1995, p. £. 5 attività o di rapporti. (Una maggioranza, anche se nettamente preponderante, è solo una parte, una delle parti: una fazione.) E (2) il bisogno, in positivo, di guidare, indirizzare l’attività legislativa verso la realizzazione di certi valori. In che modo sottrarre alla maggioranza certe decisioni, ritenute di tale importanza da non dover essere affidate a una fazione? In che modo indirizzare l’attività del legislatore verso la realizzazione dei valori in questione? Mediante una costituzione, dotata di supremazia sulla legge (espressione, per l'appunto, della volontà della maggioranza). Così, "dopo il lungo dominio ottocentesco della sovranità dello stato, si tornerà a porre gradualmente l'accento sulla costituzione, come massima garanzia contro l'arbitrio dei poteri pubblici, e anche come indirizzo fondamentale da perseguire sulla base dei valori in essa medesima fissati" - si assisterà, insomma, alla "rivincita" della costituzione-garanzia e della costituzione-indirizzo delle rivoluzioni (v. sopra, 4.3)9. Un ruolo determinante svolgono, qui, l'esperienza e il rifiuto dell'ideologia e dello stato totalitari (in particolare, il nazismo in Germania e il fascismo in Italia)10. Gli stati totalitari europei della prima metà del Novecento sono caratterizzati: (1) sul piano teorico, dalla negazione dell'idea dei diritti fondamentali, e, sul piano pratico, dalla loro violazione sistematica (non accidentale, casuale o episodica, ma eretta a metodo di governo e strumento privilegiato - insieme alla propaganda - di controllo sociale)11; (2) dalla connessa negazione, teorica e pratica, del fatto del pluralismo sociale e ideologico (cui viene sostituita l'immagine, rassicurante e consolatoria, dell'identità razziale)12; (3) dalla negazione, nella teoria (prevalentemente in Germania), e soprattutto nella prassi (sia in Germania sia in Italia)13, del principio di legalità (dell'esigenza, cioè, di conformità dell'azione di governo a regole prestabilite, generali e astratte; sopra, 5.2), e dal conseguente abbandono del valore della certezza del diritto (prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni; sopra, 6.1)14. E' del tutto ovvio e comprensibile, dunque, che una delle esigenze maggiormente avvertite dopo la Seconda guerra mondiale, e una delle componenti centrali del nuovo costituzionalismo, sia l'esigenza di un ritorno all'idea di legalità (caratteristica, come abbiamo visto, dello stato di diritto liberale), e una rinnovata affermazione del valore della certezza del 9 Fioravanti 1995, p. 131. Perché non anche il comunismo? Quella che rileva, qui, è la nostra esperienza. (E ciò senza nulla togliere al peso dei crimini del totalitarismo comunista, nei paesi in cui si è realizzato.) Non solo: il comunismo è stato altamente benefico nei paesi non comunisti. I paesi occidentali hanno reagito in due modi alla minaccia del comunismo. Il primo si è rivelato catastrofico: i regimi totalitari. Il secondo ha avuto, invece, successo: l’evoluzione nel senso dello stato costituzionale di diritto, mediante il recepimento delle istanze e delle rivendicazioni del movimento dei lavoratori: diritti dei lavoratori, istruzione (in generale, i diritti sociali), partecipazione politica, ecc. Se non fosse stato per le lotte dei lavoratori e la nascita dei regimi comunisti, nei paesi non comunisti non sarebbe accaduto nulla del genere. Insomma: se non fosse stato per lo spettro del comunismo, i nonni e i genitori di molti fra coloro che leggono queste pagine (non tutti, certo; alcuni sono favoriti dalla lotteria naturale; sopra, 4.2) sarebbero stati, e sarebbero rimasti, ciò che erano stati i loro nonni e i loro genitori: dei miserabili, mantenuti in una condizione di inferiorità sociale ed economica, trattati come servi, da una ristretta - molto ristretta - cerchia di privilegiati. Gran parte dei (potenziali) lettori di queste pagine non sarebbero stati in grado di leggerle. (Particolarmente efficace la battuta, amara, diffusa nei paesi dell’Est europeo: ‘Tutto quello che ci avevano raccontato sul comunismo era falso, ma tutto quello che ci avevano detto sul capitalismo era vero’.) 11 Il terrore come metodo di controllo sociale, e di governo (‘terrorismo’). 12 Ciò vale non soltanto, com'è ovvio, per la Germania nazista, ma anche per il fascismo italiano. Cfr. Sarfatti 2002. 13 Cfr. in proposito Costa 2002, par. 9. 14 L’imprevedibilità genera insicurezza; e l’insicurezza, a sua volta, alimenta la paura. 10 6 diritto15. Sotto questo aspetto il costituzionalismo contemporaneo, nella misura in cui poggia sul rifiuto del totalitarismo, propugna un ritorno allo stato di diritto. Ma, come abbiamo visto (sopra, 5.3), proprio sotto l'aspetto della protezione dei diritti lo stato di diritto, nella sua configurazione ottocentesca, appare fortemente carente: nello stato di diritto non è operante, né è ipotizzabile, alcun meccanismo istituzionale di garanzia dei diritti e delle libertà nei confronti della legge, o del legislatore. E' dunque altrettanto comprensibile che il costituzionalismo post-bellico (ancora una volta, proprio perché fondato sul rifiuto del totalitarismo) non ambisca affatto a un puro e semplice ritorno allo stato di diritto, a una mera restaurazione dell'assetto istituzionale precedente. Mira, piuttosto, a un'effettiva, reale, protezione dei diritti nei confronti dei poteri pubblici nel loro insieme - inclusi i vertici dell'esecutivo e il legislativo. Questa esigenza si esprime nel ritorno all'idea del primato della costituzione, e nel ricorso allo strumento della rigidità costituzionale, corredata dal sindacato giurisdizionale di legittimità costituzionale (l'estensione, cioè, del principio di legalità al rapporto fra legge e costituzione - ignota, come abbiamo visto, allo stato di diritto; infra, 8.2.1)16. E ancora: proprio perché appare ormai fittizia, e ideologicamente viziata, l'immagine (ridotta, dalla propaganda nazista e fascista, a una caricatura), della nazione come soggetto omogeneo e unitario, dotato di una propria 'identità culturale', il costituzionalismo contemporaneo è caratterizzato dal rifiuto dell'assunto, tipico dello stato di diritto ottocentesco (e portato poi a conseguenze estreme, sia pure in forme diverse, dal fascismo e dal nazismo), della sovranità dello stato, in quanto unico rappresentante dell'unitario, omogeneo, soggetto 'nazione'. All'idea della sovranità dello stato (o del potere illimitato del capo, duce o Führer, che ne costituisce l'espressione, il custode e la mente), il costituzionalismo contemporaneo sostituisce quella della sovranità del popolo, che si esprime nelle forme della costituzione (infra, 8.2.1). Le costituzioni contemporanee sono, dunque, costituzioni democratiche17. E, infine, si assiste a un ampliamento del catalogo dei diritti, con l'inclusione, nel novero dei diritti fondamentali costituzionalmente sanciti, dei diritti sociali (infra, 8.2.1)18. (E questo è, unitamente all’ampliamento dei diritti di partecipazione politica - limitati, in età liberale, in base al censo - lo specifico apporto del movimento socialista, e il risultato delle lotte dei lavoratori: all’eguaglianza formale - eguaglianza nei diritti, sopra, 4.2 - si aggiunge l’indirizzo verso la promozione di una certa eguaglianza sostanziale, o libertà reale.) 8.1.3 Costituzionalismo contemporaneo e costituzionalismo rivoluzionario settecentesco Le costituzioni odierne, dunque, "propongono un modello politico che diverge in modo essenziale dallo stato di diritto liberale", per le caratteristiche seguenti19: (1) affermazione del principio di sovranità popolare (vs. sovranità dello stato); (2) ripresa della tradizione rivoluzionaria delle Dichiarazioni dei diritti (con inclusione dei diritti sociali); (3) rigidità 15 Cfr. relativamente al caso italiano Costa 2002, p. 151: "è comprensibile quindi che, già nel periodo estremo del regime fascista e poi con rinnovato vigore dopo il suo crollo, quando diviene perentoria l'esigenza di costruire un ordine alternativo, apparisse essenziale ricorrere a quei principi di legalità e di certezza del diritto tradizionalmente compresi entro la formula dello stato di diritto". 16 Cfr. Costa 2002, pp. 142-3, 151-3. 17 Cfr. Fioravanti 1999, pp. 146-8. 18 Cfr. in proposito Fioravanti 1999, pp. 146-8 (Fioravanti chiarisce molto bene il nesso fra questo ulteriore aspetto del costituzionalismo contemporaneo e l'opzione democratica); Costa 2002, pp. 151-3. 19 Fioravanti 1995, p. 133. 7 costituzionale (procedimenti aggravati di revisione costituzionale, sindacato giurisdizionale di legittimità costituzionale delle leggi e altri atti). Il punto essenziale è, precisamente, la riscoperta della "supremazia della costituzione", "sia come massima forma di garanzia dei diritti e delle libertà, sia come indirizzo fondamentale da seguire per la realizzazione dei valori costituzionali"20. Questi due aspetti "non sono scindibili nell'ispirazione originaria delle nostre costituzioni"21. "Dopo il crollo dei regimi totalitari (...) si ritenne insufficiente un'affermazione più solenne, e protetta dalla costituzione, dei diritti di libertà di fronte alle possibili prevaricazioni dei poteri pubblici; si ritenne cioè necessario concepire la costituzione stessa insieme e nello stesso tempo, non solo come norma fondamentale di garanzia, ma anche come indirizzo fondamentale, cui avrebbero dovuto conformarsi nella loro azione, in nome dei valori costituzionali, tutti i soggetti politicamente attivi, pubblici e privati"22. Perché? Da dove ha origine questo duplice intento? Alla sua radice si trova la consapevolezza dei limiti insiti nei due modelli di costituzione settecenteschi. Agli occhi del costituzionalismo del secondo dopoguerra il modello della costiituzioneindirizzo e quello della costituzione garanzia appaiono affetti da opposte, e speculari, deficienze, o manchevolezze23. La ricerca di una sintesi fra i due modelli di costituzione è, per l’appunto, animata dall'intento di superare queste opposte, e speculari, manchevolezze: di correggere, mediante l'un modello, il difetto capitale dell'altro. (1) Da un lato, la Dichiarazione del 1789 contiene una formulazione esplicita (sopra, 4.2) dell’idea dei diritti fondamentali, naturali, nei quali tutti gli esseri umani sono eguali. Ma, d’altro lato, il modello della costituzione-indirizzo, così come si configura nel corso della vicenda rivoluzionaria francese, lascia irrisolto il problema del “vincolo che è possibile imporre, (…) a fini di garanzia” al legislatore. Non è previsto alcun congegno istituzionale che consenta di far valere i diritti fondamentali nei confronti del legislatore24. (2) La cultura rivoluzionaria francese ha come obiettivo polemico l’Antico regime, un assetto dei rapporti sociali e politici basato su rapporti di dipendenza personale e diseguaglianze di ceto o status (privilegio). La costituzione (costituzione-indirizzo) contiene il disegno, il progetto, di una società di liberi ed eguali - dunque, un programma di radicale trasformazione sociale. Il costituzionalismo americano mira invece esclusivamente alla garanzia dei diritti individuali - anzitutto, i diritti di libertà (infra, 8.2.1): libertà personale e proprietà - nei confronti dei poteri pubblici. I rivoluzionari americani, scrive Fioravanti, “realizzarono (...) una costituzione che è più teatro di competizione fra gli individui e le forze sociali e politiche che non progetto comune per il futuro"; una costituzione "che si fonda su un unico valore dominante, quello della tutela (…) dei diritti individuali" (diritti di libertà, proprietà), piuttosto che configurarsi come "strumento di lotta al privilegio"25. 20 Ivi, p. 134. Ivi, p. 134. 22 Ivi, p. £. 23 Seguo qui Fioravanti 1995. 24 Ivi, p. 69. 25 Ivi, p. 97. La cultura costituzionale americana è segnata dall’idea che i rapporti sociali - in particolare, i rapporti economici - si sviluppano da sé, spontaneamente, ed è un bene che essi siano lasciati liberi (libertà come non-impedimento, non interferenza, da parte di terzi) di svilupparsi spontaneamente. Non è necessario, né auspicabile, che il governo intervenga nella trama dei rapporti sociali; suo compito è solo garantire che essi si svolgano correttamente, nel rispetto delle regole. La cultura rivoluzionaria francese è invece, come si è detto, portatrice di un progetto di trasformazione sociale, trasformazione affidata, precisamente, all’azione dei poteri pubblici (in primo luogo, il legislatore). La costituzione (costituzione-indirizzo) è, per l’appunto, espressione di questo progetto. 21 8 Il costituzionalismo contemporaneo cerca, dunque, di operare una sintesi dei due modelli. nel tentativo di porre rimedio, mediante l’un modello, all’insufficienza dell’altro. La costituzione si presenta "non solo come meccanismo utilitaristicamente diretto alla protezione dei diritti [diritti di libertà, proprietà], ma anche come grande norma direttiva, che solidaristicamente impegna tutti nell'opera (…) di realizzazione dei valori costituzionali"26. Questo tentativo, naturalmente, non è aproblematico. Non è detto che la sintesi dei due modelli di costituzione tentata dal costituzionalismo contemporaneo possa considerarsi riuscita, o addirittura che essa potesse, in generale, riuscire. Non è detto, infatti, che l’idea di una costituzione che sia, al tempo stesso e inscindibilmente, costituzione-indirizzo e costituzione-garanzia sia un’idea coerente. Secondo alcuni, piuttosto, "quando una costituzione cessa di essere solo un sistema di garanzie, e pretende di essere un sistema di valori (...), si è già necessariamente per ciò stesso usciti dall'orbita del costituzionalismo moderno, e si sono già determinati i presupposti per una rinnovata sovranità dello stato"27. "La costituzione come indirizzo fondamentale rappresenta davvero il tentativo di superare i confini, ritenuti angusti, di una concezione meramente garantistica della costituzione medesima? O non è forse essa stessa figlia della tradizione europeocontinentale della sovranità politico-statale, che da sempre combatte il primato della costituzione-garanzia? E questo indirizzo fondamentale può davvero essere il riflesso coerente delle volontà individuali e collettive, che in quanto tale vincola i poteri pubblici, come vorrebbe il principio di sovranità popolare solennemente riaffermato nelle costituzioni contemporanee? O non è piuttosto vero (…) che quel medesimo indirizzo non è altro, inevitabilmente, che lo strumento fondamentale del quale il nuovo statualismo si serve per conformare gli individui e la società alla volontà discrezionale dei poteri pubblici?"28. Questo è un problema aperto, che chiama in causa opzioni valutative e ideologiche. Non discuterò questo problema. Piuttosto, è giunto il momento di porre un nuovo interrogativo. Abbiamo visto quali siano le componenti ideologiche, le opzioni etico-politiche, che concorrono a delineare i tratti del costituzionalismo contemporaneo. La forma istituzionale (il tipo di organizzazione giuridico-politica) nella quale esso trova realizzazione è il cosiddetto 'stato costituzionale di diritto' (o 'stato di diritto costituzionale', o ancora 'stato costituzionale'). Ebbene, quali sono le caratteristiche salienti che l’ordinamento giuridico assume in questo nuovo tipo di stato? 8.2 Lo stato costituzionale di diritto 8.2.1 Fisiologia In estrema sintesi, le caratteristiche salienti degli ordinamenti giuridici negli stati costituzionali di diritto sono le seguenti. 26 Ivi, p. 134. Ivi, p. 139. 28 Ivi, pp. 139-40. 27 9 (1) Costituzione scritta29, rigida e garantita mediante controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale. Ci siamo già soffermati su questo punto (sopra, 8.1). (2) Costituzione democratica: principio della sovranità popolare. Che cosa si deve intendere per 'sovranità popolare'? La nozione rilevante di sovranità non è quella tradizionale (la sovranità come potere giuridicamente illimitato e non limitabile, assoluto; in particolare, potere di decisione in ultima istanza, o potere di 'avere l'ultima parola'; sopra, 5.2). Si legga l'art. 1, c.v., Cost. it.: "La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". 'Sovranità' è qui (e, in generale, nelle costituzioni contemporanee) un potere regolato, disciplinato, e dunque limitato da norme giuridiche (la Costituzione). Che cosa è mai un potere che non può essere esercitato se non “nelle forme e nei limiti” fissati da un insieme di regole? Un potere istituito da regole, e sussistente solo entro i limiti da queste fissati - non, dunque, un potere sovrano, nell’accezione tradizionale del termine. Che la sovranità appartenga al popolo, dunque, non implica, nel nostro ordine costituzionale (e in altri coevi), che il popolo legittimamente possa, purché lo voglia, fare qualsiasi cosa. 'Democrazia' non è, negli ordinamenti democratici contemporanei, potere assoluto del popolo. Se la maggioranza, la stragrande maggioranza (al limite, la totalità) del popolo manifestasse la propria volontà in un senso incompatibile con quanto stabilito dalla costituzione, tale volontà non avrebbe, in linea di principio, alcun effetto giuridico (fatta salva, ovviamente, l'ipotesi di una revisione costituzionale, nelle forme e nei limiti previsti dalla costituzione stessa): la sua espressione non costituirebbe esercizio della sovranità. Il mancato adempimento di tale volontà non costituirebbe un che di 'antidemocratico'30. In altri termini. Le costituzioni contemporanee, pur essendo democratiche, sottraggono certe sfere di decisione alla volontà del popolo (o almeno ambiscono a farlo), ossia alla competenza decisionale del legislatore democratico (alla volontà di maggioranze parlamentari, semplici o qualificate; sopra, 8.1.2). Istituiscono e 'trincerano' un ambito di indecidibilità: l'ambito di ciò che è - ormai - indecidibile, perché già deciso dalle norme costituzionali31. Insomma, la democrazia (ossia, sovranità popolare) non è, negli ordinamenti contemporanei, un regime nel quale ad essere sovrano, nel senso tradizionale, è il popolo32. Nelle democrazie contemporanee a essere sovrano è il popolo, con la sua costituzione. Si tratta di 'democrazie costituzionali'. (3) Costituzione ‘lunga’33. Sono qualificate come ‘lunghe’ costituzioni che non solo (a) disciplinano l’organizzazione dei poteri dello Stato, o dei poteri pubblici in genere (organi, competenze, procedure), mediante norme sulla produzione di norme (norme istitutive di fonti 29 Costituzione prescrittiva: la costituzione come un insieme di norme che ‘costituiscono’ ex novo la società politica e il governo, frutto di un atto consapevole e deliberato mirante all'istituzione di un nuovo ordine giuridico-politico (la nozione moderna di costituzione; sopra, 4.3). 30 Un argomento della forma 'Il popolo italiano vuole che x; dunque, poiché l'Italia è una democrazia, deve essere x. Impedirlo costituirebbe una lesione della sovranità popolare, sarebbe antidemocratico' è estraneo all'ordine costituzionale italiano - non è un argomento che la Costituzione italiana autorizzi, o consenta. 31 Così si esprime L. Ferrajoli (cfr. ad es. 1994, p. £). 32 Una delle obiezioni tradizionali contro la democrazia è l'obiezione secondo cui essa non è altro che la (ovvero, degenera fatalmente nella) tirannide del popolo (i più, la massa: ‘oclocrazia’), allo stesso modo in cui la monarchia diviene tirannide di uno solo, e l'aristocrazia tirannide di pochi (‘oligarchia’). Le democrazie contemporanee sfuggono - o pretendono di sfuggire - a questa accusa, in virtù di clausole come l'art. 1, c.v., Cost. it. 33 Cfr. Guastini 1998a, pp. 187-8, 1998b, p. 348. 10 formali di produzione giuridica; sopra, 6.2.5, 7.3.2). In aggiunta, (b) sanciscono diritti, principi valori fondamentali. In particolare, le costituzioni contemporanee contengono norme che (a) conferiscono una pluralità di diritti34; in particolare, diritti di più tipi; (b) sanciscono valori e principi fondamentali (eguaglianza, pari dignità sociale; dignità della persona umana; separazione fra stato e chiese; benessere sociale, ecc.). In generale, sembra si possa affermare che le costituzioni degli stati costituzionali di diritto rinviano a, o 'incorporano', principi e valori morali, etico-politici. Che esse presentino, cioè, un corposo contenuto etico sostanziale (tornerò fra breve su questo punto; infra, 9.3.1). Excursus: tipologia dei diritti fondamentali. Si è appena detto che le costituzioni degli odierni stati costituzionali di diritto, costituzioni ‘lunghe’, sanciscono una pluralità di diritti, precisamente più tipi di diritti fondamentali: contengono norme che conferiscono diritti di tipi diversi. Questo punto richiede una chiarificazione. Quali diritti sono stati considerati, dal Settecento a oggi diritti ‘fondamentali’? Se diamo una scorsa ad alcuni fra i principali documenti di questo genere (‘Dichiarazioni dei diritti’, o Bills of rights) possiamo cominciare col redigere una lista. Ci imbattiamo, anzitutto, in formule riassuntive, generiche, vaghe e indefinite35. Ma oltre a queste formulazioni generiche, vaghe, indeterminate, ci imbatteremo anche in espressioni molto più precise, determinate: nell’indicazione di diritti specifici, o in generale specifiche posizioni di vantaggio o tutelate, da intendersi, presumibilmente, come ricomprese sotto quelle formulazioni generiche36. 34 Rilevante, in proposito, una controversia interpretativa sorta a proposito dall’art. 2 della Cost. it., nel quale si legge che "la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo". Ci si è chiesto se, qui, la formula “i diritti inviolabili dell’uomo” faccia riferimento a un catalogo aperto, suscettibile di ampliamento, oppure a un insieme di elementi già identificati; se, cioè, 'art. 2 Cost. it. ammetta, o richieda, un'interpretazione 'aperta', secondo la quale i “diritti inviolabili dell'uomo” in esso menzionati costituirebbero una fattispecie "potenzialmente inclusiva anche di diritti non previsti in Costituzione" (Pace 1993, p. 4); o se, di contro, si ritenga che, nell'art. 2 Cost. it., la locuzione “diritti inviolabili dell'uomo” faccia esclusivo riferimento a diritti menzionati in, o comunque ricavabili da, altri articoli della Costituzione stessa. 35 Così, ad es., la Dichiarazione d’indipendenza americana (1776) indica, quali diritti «inalienabili», «la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità», nonché il «Diritto del popolo» di «alterare» o «abolire» una «Forma di Governo» che manchi di assicurare tali diritti (o che divenga «distruttiva» di essi), e di «istituire un nuovo Governo» idoneo a tale scopo. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (art. 2) indica, quali «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo», «la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione». O ancora nella Costituzione italiana, fra i Principi fondamentali (art. 2), si legge che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo». Formula, questa, quanto mai generale e, almeno a prima vista, aperta (si è già menzionata - sopra, 8.2.1 - la controversia interpretativa da essa suscitata). 36 Ad es. (ma l’elenco è solo parziale), la Dichiarazione del 1789 prevede il diritto, da parte di «tutti i cittadini», di «concorrere personalmente o per mezzo dei loro rappresentati» alla «formazione» della legge (art. 6); il principio che la legge «deve essere la medesima per tutti, sia che protegga, sia che punisca» (tutti i cittadini sono «uguali ai suoi occhi») (art. 6; esclusione del privilegio, legalità nella giurisdizione); l’eguale ammissibilità di tutti i cittadini «a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senz’altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti» (art. 6); il principio secondo cui «nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla legge, e secondo le forme da essa prescritte» (art. 7; libertà personale: libertà dagli arresti arbitrari); il principio secondo cui «la legge deve stabilire soltanto pene strettamente ed evidentemente necessarie» (art. 8); il principio di irretroattività delle legge penale (art. 8); la presunzione di innocenza, e la disciplina dalla carcerazione come misura cautelare (art. 9); libertà di coscienza, di pensiero, e di manifestazione del pensiero (art. 10), libertà di stampa (art. 11); il diritto da parte di ciascuno a una «giusta e preventiva indennità» qualora «la pubblica necessità, legalmente constatata, [...] esiga in maniera evidente» che egli sia privato di uno dei beni di cui è proprietario (art. 17). Se poi guardiamo a cataloghi più recenti, ritroviamo questi diritti, variamente formulati e ulteriormente articolati, unitamente ad altri. Si consideri, ad es. la Costituzione italiana. Gran parte delle sue disposizioni (soprattutto fra i Principi fondamentali, e gli 11 Ci troviamo, dunque, di fronte a una massa apparentemente interminabile, eterogenea e caotica, di diritti e altre posizioni di vantaggio o tutelate. È possibile mettere ordine in questo guazzabuglio? Per farlo, occorre distinguere alcuni tipi, o classi, fondamentali di diritti umani, sulla base di caratteristiche strutturali, o di contenuto, che li accomunino. È necessario, cioè, elaborare una tipologia. I teorici del diritto hanno di fatto costruito numerose tipologie dei diritti fondamentali, più o meno articolare, o sofisticate. Non mancano coloro che ritengono che ogni tipologia sia, necessariamente, approssimativa o fuorviante, data la varietà e la fluidità della materia. Ai nostri fini, basterà introdurre una tipologia molto semplice e diffusa, ancorché approssimativa e grossolana, che può servire a fissare le idee: i diritti fondamentali (la maggior parte di essi, e la parte più significativa) si suddividono in tre classi, o tipi, basilari, diritti di libertà, diritti politici, diritti sociali37. Qual è il senso di queste etichette, e come si perviene a questa classificazione? Il punto di partenza è costituito dall’idea che, fra i diritti fondamentali, alcuni sono delle libertà (‘libertà’ come diritto alla non interferenza, da parte di altri soggetti, in una certa sfera di attività; ovvero, diritto a non subire impedimento o intralcio, nella scelta, e nell’esecuzione, di una certa linea di condotta; ad es., la libertà di circolazione, o di manifestazione del pensiero). A diritti di questo tipo sono correlativi - si ricordi quanto detto sopra, 2.3, a proposito della correlatività di diritti e obblighi - obblighi negativi: obblighi di non fare (ovvero obblighi di astensione, di omissione). Altri diritti sono invece poteri, ossia, diritti a ottenere certe prestazioni da parte di certi soggetti, o a contribuire allo svolgimento di certe attività, o alla produzione di certi effetti; insomma, ‘diritto’ nel senso della capacità, o del potere, di esigere o portare ad effetto degli esiti, dei risultati (ad es., il diritto di voto, o il diritto all’assistenza sanitaria). A diritti di questo secondo tipo sono correlativi obblighi positivi: obblighi di fare, ovvero obblighi di fornire un certa prestazione, di rispondere positivamente a certe aspettative. Ebbene: i diritti individuali «tradizionali», sei-settecenteschi, sono, grosso modo, libertà, che «richiedono da parte degli altri (ivi compresi gli organi pubblici) obblighi puramente negativi, di astenersi da determinati comportamenti». Ma tutte le dichiarazioni recenti comprendono, oltre a un catalogo di libertà, anche il riconoscimento o l’attribuzione di alcuni articoli della prima parte) riguardano diritti fondamentali, o analoghe posizioni di vantaggio: principio di eguaglianza (art. 3); diritto al lavoro (art. 4); tutela delle minoranze linguistiche (art. 6) e diritti delle confessioni religiose (artt. 7, 8); diritto d’asilo (art. 10); diritti relativi alla sfera individuale (libertà personale, art 13; inviolabilità del domicilio, art. 14; libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione, art. 15; libertà di circolazione e soggiorno, art. 16); diritti relativi alla sfera pubblica (libertà di riunione, associazione, culto, manifestazione del pensiero; artt. 17-21); norme relative a capacità, cittadinanza, nome (art. 22), prestazioni personali o patrimoniali (art, 23); diritto di agire in giudizio, diritto di difesa (art. 24); giudice naturale, irretroattività della pena e della legge penale (art. 26); personalità della responsabilità penale, presunzione di innocenza, natura della pena (art. 27); diritti e principi relativi a «rapporti etico-sociali» (artt. 2934: famiglia, matrimonio, figli; agevolazioni alla famiglia; maternità, infanzia, gioventù; diritto alla salute; libertà di insegnamento, diritto all’istruzione); diritti relativi alla sfera economica (artt. 35-47: lavoro; equa retribuzione del lavoro, durata, riposo, ferie; tutela della donna lavoratrice; inabili al lavoro; assistenza, previdenza; libertà di organizzazione sindacale e diritto di sciopero; libertà di iniziativa economica; proprietà); diritti relativi alla sfera politica (artt. 48-54: elettorato attivo; libertà di associazione in partiti; diritto di petizione; accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive). Dichiarazioni e carte dei diritti più recenti, poi, enunciano ulteriori diritti (a un ambiente sano e non inquinato, ad es.). 37 Seguo qui Bobbio 1990, pp. 26-27, da cui sono desunte le citazioni. Si parla talvolta di ‘generazioni’ di diritti fondamentali, alludendo con ciò al fatto che il riconoscimento di questi diversi tipi di diritti è avvenuto in tempi diversi e successivi. 12 fondamentali poteri agli individui, che «possono essere realizzati solo se vengono imposti ad altri (ivi compresi gli organi pubblici) un certo numero di obblighi positivi»38. Diviene così possibile distinguere tre classi (o «generazioni») di diritti fondamentali. (a) diritti di libertà: «tutti quei diritti che tendono a limitare il potere dello stato e a riservare all’individuo o ai gruppi particolari una sfera di libertà dallo stato». (b) Diritti politici, che, «concependosi la libertà non soltanto negativamente come non impedimento, ma positivamente come autonomia» (ovvero, come capacità di dare leggi a se stessi) «hanno avuto per conseguenza la sempre più ampia e diffusa e frequente partecipazione dei membri di una comunità al potere politico» («libertà nello stato»). I diritti politici sono, palesemente, poteri (giuridici): il potere di concorrere alla formazione dell’assemblea legislativa, alla formazione delle leggi ecc. (c) Diritti sociali, che esprimono «la maturazione di nuove esigenze, (…) di nuovi valori, quali quelli del benessere e dell’eguaglianza non soltanto formale» («libertà attraverso o per mezzo dello stato»). I diritti sociali sono «diritti a prestazioni pubbliche positive»39. (4) Doppio livello di legalità. Il tratto distintivo dello stato costituzionale di diritto, consiste, secondo L. Ferrajoli40, nel fatto che, in esso, la stessa produzione giuridica è disciplinata da norme, non più solo formali, ma anche sostanziali, di diritto positivo (soggezione al diritto delle norme positive): “anche il dover essere del diritto - le sue condizioni di validità - risulta positivizzato da un sistema di regole che disciplinano le scelte con cui viene pensato e progettato, stabilendo i valori etico-politici cui esso deve essere informato”. Nello stato costituzionale di diritto, cioè, “gli stessi modelli assiologici del diritto positivo vengono incorporati nell'ordinamento, quale diritto sul diritto”. Da ciò, “un'innovazione nella struttura stessa della legalità: la regolazione giuridica del diritto positivo medesimo, non solo quanto alle forme di produzione ma anche quanto ai contenuti prodotti”. In altri termini: si assiste, negli stati costituzionali di diritto, all’estensione dell’ambito di applicazione del principio di legalità, dal rapporto fra atti degli organi pubblici (pubblica amministrazione, organi giurisdizionali) e legge (la legalità nello stato di diritto liberale; sopra, 5.2), al rapporto fra la legge medesima e la costituzione. (Estensione che attiene, non soltanto alla forma, ma anche al contenuto della legge.) In questo senso, gli ordinamenti giuridici degli stati costituzionali di diritto presentano un “doppio livello” di legalità41. (5) Le costituzioni degli stati costituzionali di diritto comprendono sia regole, sia principi. In particolare, si afferma, le norme che sanciscono diritti di vario genere (diritti di libertà, diritti politici, diritti sociali), o esprimono valori reputati fondamentali (il benessere sociale, la 38 Ivi, p. 13. Cfr. anche ivi, p. 41. Ferrajoli 1994, p. 277. Qualche esempio tratto dalla Costituzione italiana: il diritto al lavoro (art. 4), alla salute (art. 32), all’istruzione (art. 34), all’equa retribuzione (art. 36), alla sussistenza e all’assistenza (art. 38). 40 Ferrajoli 1993, pp. 146-7. 41 Le opposizioni rilevanti sono, in effetti, due: (1) forma vs. contenuto, (2) vincolo negativo (limite) vs. indirizzo. Nel secondo caso, si tratta della contrapposizione fra due tipi di vincolo entrambi relativi al contenuto della legge (o altri atti): un vincolo meramente negativo, e uno positivo. Altro è un vincolo negativo sul contenuto (la fissazione di un limite da non oltrepassare), e l’imposizione, al legislatore, dell’obbligo di rispettarlo (pena l’invalidità della legge), altro l’indicazione, in positivo di valori da realizzare, obiettivi da perseguire, e l’attribuzione agli organi pubblici - in particolare, al legislatore - del compito di realizzarli. L’elemento peculiare degli stati costituzionali di diritto consiste nella (pretesa) imposizione di vincoli positivi all’attività del legislatore (indirizzo). 39 13 tutela dell’ambiente e del patrimonio artistico e culturale, ecc.) sono per lo più, non regole, ma principi42. La nozione di principio, e, con essa, l’antitesi fra regole e principi, hanno assunto un ruolo centrale nella teoria del diritto, e nella cultura giuridica in genere, negli ultimi decenni43. Per la verità, il termine ‘principio’ ha, nel linguaggio giuridico, una varietà di significati alquanto eterogenei44. Mi limiterò qui a passare in rassegna alcune delle principali accezioni che il vocabolo ha assunto nel dibattito teorico-giuridico contemporaneo, senza alcuna pretesa di esaustività o sistematicità. La distinzione fra regole e principi può essere intesa in molti modi, come adesso vedremo. In che modo essa venga intesa dipende, ovviamente, non solo dal modo in cui viene definita la nozione di principio, ma anche dal modo in cui viene definita la nozione di regola (giuridica). E, come c’è da aspettarsi, anche la nozione di regola può essere costruita, ed è stata costruita, in più modi. Anche sotto questo aspetto, semplificherò la trattazione. Principi e regole sono, in generale, norme. Assumerò dunque, come punto di partenza, una caratterizzazione molto ampia della struttura delle norme giuridiche. Ci siamo già imbattuti in alcune proposte di analisi della struttura delle norme: approccio standard in logica deontica (modalità deontiche; sopra, 6.2.3); norme attributive di posizioni giuridiche soggettive (sopra, 2.3). Le norme - soprattutto, le norme giuridiche - si presentano sovente nella veste di condizionali: enunciati ipotetici, della forma: ‘Se… allora…’ (enunciati, cioè, che riconnettono una certa conseguenza al verificarsi di una certa condizione). Le disposizioni attributive di posizioni giuridiche soggettive, come abbiamo visto (sopra, 2.3), hanno spesso questa forma. Ma anche le norme formulate in termini di modalità deontiche di base (obbligatorio, vietato, permesso) sono spesso riconducibili a questa struttura (‘Se ha luogo C, gli X devono fare A’). Sembra quindi si possa caratterizzare, in generale, una norma specificamente, una norma giuridica - come un asserto che riconnette al verificarsi di una certa fattispecie (un certo tipo di situazione), in qualità di condizione, il verificarsi di una conseguenza normativa, o giuridica (come, ad es., il venire ad esistenza - esistenza giuridica di un obbligo, un divieto, un diritto, un onere, e così via; sono ricomprese nella nozione di conseguenza normativa, o giuridica, sia situazioni espresse mediante modalità deontiche di base, sia situazioni formulate nei termini del vocabolario dei diritti). Una norma giuridica sembra si possa sostenere - ha, banalmente, la forma45: (1) Se F (fattispecie) allora C (conseguenza giuridica). Data questa caratterizzazione di base, la distinzione - o l’antitesi - fra regole e principi si configura nei modi seguenti46. (1) I principi come norme senza fattispecie. Le regole, si dice talvolta, sono norme condizionali che ricollegano, al verificarsi di una fattispecie, il verificarsi di certe 42 I principi non appartengono soltanto all’ambito costituzionale. Anche in altri settori del diritto ci sono norme abitualmente qualificate come ‘principi’. Ma la nostra attenzione, qui, è rivolta esclusivamente alle opinioni in tema di principi costituzionali. 4 43 Ciò si deve soprattutto a R. Dworkin (1977); cfr. anche Esser 1990 . 44 Guastini 1998b, cap. XV, e 2004, cap. XI. 45 Guastini 2006, pp. 15-6. 46 Questi diversi modi di tracciare la distinzione non sono reciprocamente indipendenti. Fra alcuni di essi sussistono rapporti di implicazione; alcuni, forse, se coerentemente sviluppati, finiscono per coincidere. Ma non cercherò qui di dipanare questa rete di relazioni. Quella che segue è solo una schematizzazione dei diversi modi in cui si atteggia, nel discorso giuridico corrente, la retorica dei principi. 14 conseguenze, o effetti, giuridici. I principi, di contro, non hanno fattispecie: si applicano in ogni circostanza rilevante, e occorre, di volta in volta, valutare quale di essi abbia la meglio sugli altri, o su eventuali regole applicabili al caso oggetto di decisione. Questo primo modo di tracciare la distinzione non è del tutto chiaro. Che cosa mai significa che i principi si applicano ‘sempre quando ricorrono le circostanze rilevanti’, se non che queste ultime sono, per l’appunto, la fattispecie da essi prevista? Il secondo modo di tracciare la distinzione, come adesso vedremo, può essere inteso come il frutto del tentativo di superare questa difficoltà. (2) I principi come norme a fattispecie ‘aperta’47. Le regole sono norme condizionali che ricollegano al verificarsi di una fattispecie predeterminata in astratto - un tipo di situazione previamente definita in modo relativamente preciso - il verificarsi di certe conseguenze giuridiche. I principi sono, di contro, norme condizionali la cui fattispecie è ‘aperta’: non è determinata in modo (relativamente) preciso, ma è vaga, generica, indefinita, suscettibile di estensione (o restrizione) in modi e forme non suscettibili di previa elencazione. Nel caso dei principi, l’insieme dei /tipi di) casi cui essi si applicano è indefinito, di modo che, volta per volta, bisognerà stabilire se il principio si applichi o no, e valutare se esso abbia o no la meglio su altri principi, o regole, applicabili al caso oggetto di considerazione. (3) I principi come norme dotate di ‘peso’48. Questo modo di intendere i principi è strettamente connesso ai due precedenti, e può essere inteso come il frutto del tentativo di chiarirne e specificarne ulteriormente il senso. Le regole, si dice, sono norme condizionali che ricollegano al verificarsi di una fattispecie predeterminata in astratto il verificarsi di certe conseguenze giuridiche. Dato un caso oggetto di decisione, una regola o si applica, oppure non si applica, a seconda che il caso ricada o no sotto la fattispecie astratta da essa prevista. Se la regola si applica, allora segue, effettivamente, la conseguenza da essa prevista; se non si applica, no. L’applicazione delle regole segue una logica binaria, ‘tutto o niente’. I principi, di contro, sono norme a fattispecie aperta o indeterminata, che esprimono esigenze che hanno comunque un certo ‘peso’, esigono comunque di essere prese in considerazione - ma il cui peso non è necessariamente, in quel (tipo di) caso, decisivo. Dunque, a un unico e medesimo caso si applicheranno sovente più principi, spesso in conflitto o in competizione fra loro. Bisognerà, volta per volta, soppesare, ponderare, ‘bilanciare’ i diversi principi, al fine di stabilire quale fra essi abbia, in relazione al (tipo di) caso oggetto di decisione, maggiore ‘peso’. Stando a questo modo di vedere, dove operano principi si danno, tipicamente, conflitti; i principi, tipicamente, confliggono49. Da ciò, la necessità di bilanciare, commisurare, contemperare, i principi in conflitto, così da pervenire a una decisione che, pur sacrificando alcuni di essi a favore di altri, assegni a ciascuno il dovuto peso. (4) I principi come norme defettibili50. Anche questo modo di vedere è strettamente connesso ai precedenti. Le regole, si dice, sono norme ‘indefettibili’: al verificarsi della condizione da esse prevista segue, immancabilmente, l’effetto giuridico previsto, quali che siano le ulteriori circostanze del (tipo di) caso oggetto di decisione. I principi, invece, sono norme ‘defettibili’: non è detto che, quando si verifica la condizione da essi prevista, segua la conseguenza. Può ben accadere che ulteriori circostanze del (tipo di) caso oggetto di decisione, al di là di quelle che integrano la fattispecie astratta da essi prevista, giustifichino la ‘sospensione’ della conseguenza. 47 Atienza, Ruiz Manero 1996, cap. 1. Dworkin 1967. 49 Questi conflitti hanno, per lo più, la forma di paranomie (sopra, 6.2.3). 50 Moreso 2002. 48 15 Trattare una norma come defettibile vuol dire, dunque, mantenere aperta la possibilità che ad essa si diano eccezioni impreviste51. Bisognerà, volta per volta, valutare se il (tipo di) caso oggetto di decisione presenti caratteristiche (eventualmente, caratteristiche che integrano la fattispecie di ulteriori principi) che giustificano la conclusione che, pur ricorrendo le condizioni previste, ciò nonostante la conseguenza non avrà luogo. (5) I principi come precetti di ottimizzazione52. Le regole sono norme condizionali che ricollegano al verificarsi di una certa fattispecie il verificarsi di certe conseguenze. I principi, di contro, sono norme che prescrivono la realizzazione, il perseguimento, o la promozione, nella maggior misura possibile, di certi valori, fini, obiettivi, ovvero la protezione o il soddisfacimento nella maggior misura possibile di certi diritti o interessi ("precetti di ottimizzazione"). ‘Possibile’ va qui inteso, non nel senso di ‘di fatto possibile’, bensì nel senso di ‘normativamente possibile’, ossia: ammissibile, dato il coinvolgimento - la possibile compressione, cioè - di altri valori, obiettivi, diritti, interessi. Nel dominio dei principi, dunque, il criterio determinante è la proporzionalità: se il mezzo prescelto sia idoneo al conseguimento dello scopo, e se esso interferisca nella misura appropriata con il perseguimento di ulteriori scopi, o la protezione di ulteriori interessi (ossia, con ulteriori principi). Beninteso, ciascuno di questi diversi modi di intendere, o costruire, la nozione di principio suscita difficoltà. Non solo: i principi appaiono indeterminati (e, perciò. bisognosi di determinazione), incommensurabili (e bisognosi di commisurazione), potenzialmente in conflitto fra loro. Da ciò, la necessità di bilanciamenti, o compensazioni (trade-offs). Torneremo fra breve su questo punto (infra, 8.2.2). (6) Negli stati costituzionali di diritto, l’ordinamento giuridico, nel suo complesso, subisce un processo di progressiva, più o meno marcata, ‘costituzionalizzazione’53. Intendiamo per ‘costituzionalizzazione’ di un ordinamento giuridico la progressiva acquisizione di centralità, di sempre maggiore importanza e rilievo, da parte della costituzione. Presupposto della costituzionalizzazione dell’ordinamento giuridico è l’attribuzione di carattere vincolante alle norme costituzionali; le norme costituzionali sono, tutte, norme precettive, non meramente programmatiche. I principali aspetti del processo di costituzionalizzazione in atto negli ordinamenti giuridici degli stati costituzionali di diritto sono i seguenti. (a) Sovra-interpretazione della costituzione: la tendenza a ritenere che dalla costituzione sia direttamente ricavabile, mediante interpretazione, la soluzione di qualsivoglia problema giuridico. (b) Interpretazione adeguatrice della legge: nell'ipotesi che un testo di legge si presti a una pluralità di interpretazioni, viene privilegiata, dall'organo di applicazione, o dal tribunale costituzionale (che giudica della legittimità costituzionale della legge in questione; infra, sub (f)), quella che maggiormente si conforma, o si armonizza, con le norme costituzionali; vengono senz'altro rigettate eventuali interpretazioni nelle quali la legge appaia incompatibile con la costituzione. (c) Effetti orizzontali dei diritti costituzionali (Drittwirkung): le norme costituzionali che sanciscono diritti fondamentali esplicano i propri effetti giuridici non soltanto nel rapporto fra individui e poteri pubblici, ma anche nei rapporti fra privati (nelle controversie interprivate). 51 Idea, questa, connessa alla tematica classica della ‘equità’, o la ‘giustizia del caso concreto’. Alexy 1994. 53 Seguo qui, con modifiche e integrazioni, Guastini 1998a. 52 16 (d) Ausstrahlung (irraggiamento, irradiazione: la costituzione permea di sé l'intero ordinamento giuridico): le norme costituzionali sono rilevanti ai fini della decisione di casi o della risoluzione di controversie, accanto e insieme alle (e forse anche contro le) norme di legge, o di altra fonte, applicabili. (e) Applicazione diretta: applicazione diretta delle norme costituzionali, da parte del giudice ordinario, indipendentemente dalla mediazione della legge (o di fonti subordinate). Questa è, palesemente, una conseguenza della dottrina della Drittwirkung (chi decide delle controversia fra privati? Il giudice ordinario), e dell'idea dalla Ausstrahlung dell'intero ordinamento giuridico, in ogni sua piega, da parte delle norme costituzionali. In generale, Ausstrahlung, Drittwirkung e applicazione diretta delle norme costituzionali sono fenomeni reciprocamente intrecciati (f) Evoluzione (o involuzione, a seconda del giudizio che si voglia dare su questo fenomeno; v. infra, 8.2.2) del controllo di legittimità costituzionale: sentenze (i) interpretative di rigetto (la legge impugnata non è incostituzionale, se interpretata nel modo I2, ma non se interpretata nel modo I2; in questo modo, la corte prescrive all'interprete - all'organo di applicazione - una particolare interpretazione del testo di legge, evitando al tempo stesso di dichiarare l’invalidità di disposizioni di cui viene concesso che ammettano un’interpretazione incompatibile con la costituzione); (ii) manipolative. Queste ultime sono di due specie: additive (la norma di legge è dichiarata incostituzionale 'nella parte in cui prevede x, e non prevede anche y'; in questo modo, la corte aggiunge alla norma prodotta dal legislatore una nuova norma); sostitutive (la norma di legge è dichiarata incostituzionale 'nella parte in cui prevede x anziché y'; in questo modo, la corte sostituisce, alla norma prodotta dal legislatore, una diversa norma). E’ questa, infine, la sede opportuna per accennare a uno dei modi più significativi in cui i tribunali costituzionali odierni sottopongono a giudizio di legittimità costituzionale leggi o altri atti: il ricorso al cosiddetto ‘principio di ragionevolezza’ (che, come adesso vedremo, è una metamorfosi del principio di eguaglianza). Il legislatore, nel legiferare, traccia, necessariamente, delle distinzioni: stabilisce che gli x (coloro che soddisfano una certa condizione, C1) devono essere trattati nel modo T1, sia esso vantaggioso o svantaggioso - e dunque, che i non-x (coloro che non soddisfano C1) non ricevano quel particolare trattamento. Ovvero, stabilisce che gli x debbano essere trattati nel modo T1, e che gli y (coloro che soddisfano C2) debbano essere trattati nel modo T2. Ma, si afferma, il principio di eguaglianza (così come sancito, ad es., dall’art. 3, I c., Cost. it., o da disposizioni analoghe in altre costituzioni contemporanee) non prescrive certo di trattare tutti i casi allo stesso modo54, né prescrive soltanto di trattare i casi eguali in modo eguale. A ben vedere, ciò che l'eguaglianza esige è di trattare i casi eguali in modo eguale, e i casi diseguali in modo diseguale. Dunque, il tribunale costituzionale, nel sottoporre a scrutinio le scelte del legislatore (le distinzioni da lui tracciate) deve chiedersi se il legislatore, effettivamente, abbia trattato in modo eguale casi eguali, e in modo diseguale casi diseguali, o se per avventura non abbia trattato in modo eguale casi diseguali, o in modo diseguale casi eguali. Ciò che il tribunale deve chiedersi, in altri termini, è se le proprietà selezionate dal legislatore costituiscano tratti di somiglianza, o dissomiglianza, rilevanti (conformi, cioè, a quella cha si assume essere la ratio del trattamento disposto dalla norma; sopra, 6.2.4): se le distinzioni tracciate dal legislatore siano, in questo senso, ragionevoli, o giustificate. Una risposta negativa a questa domanda giustificherà un giudizio di incostituzionalità, alla stregua del 54 Trattare gli individui as equals - cioè, con eguale considerazione e rispetto - non vuol dire certamente trattarli allo stesso modo, equally. 17 parametro di legittimità costituzionale costituito dal principio di eguaglianza (ora reinterpretato come principio di ragionevolezza). 8.2.2 Patologia Sembra si possa finalmente affermare che, a differenza da quanto accade nello stato di diritto europeo-continentale dell'Ottocento, nello stato costituzionale di diritto il principio del governo delle leggi è, ormai, compiutamente realizzato (sopra, 5.3). Tutti i poteri pubblici sono, ormai, sub lege. Il nomos è davvero, qui, integralmente basileus55. Ma non è tutto oro quello che luccica. Lo stato costituzionale di diritto è affetto da, o comunque esposto alla possibilità di, patologie. E, sotto il profilo etico-politico, ha anch'esso, secondo alcuni, i propri punti deboli. (1) Conflitti fra diritti (principi, valori). I diritti fondamentali godono (stando all'idea dei diritti fondamentali; come delineata sopra, 4.2) dello status dell'inviolabilità: sono - si assume - diritti la cui violazione non è mai giustificata, sotto nessuna condizione (diritti la cui violazione non è in alcun caso ammissibile). Ebbene: vi sono diritti siffatti? Più precisamente: ha senso, è ragionevole, è accettabile l'assunto che i diritti qualificati come ‘fondamentali’ abbiano un simile status? A proposito di alcuni diritti (ad es., il diritto a non essere torturati) l'idea che essi abbiano un simile status di inviolabilità - siano, in questo senso, 'assoluti' - può, almeno a prima vista, apparire plausibile. (Anche se non è difficile immaginare circostanze, per quanto improbabili o inverosimili, relativamente alle quali la nostra intuizione potrebbe vacillare.) Relativamente a gran parte dei diritti abitualmente qualificati come fondamentali, d'altro lato, l'idea della loro inviolabilità, o assolutezza, appare già a priva vista priva di plausibilità56. Si potrebbe replicare: altro è la (innocua, innocente) limitazione o regolamentazione (in ipotesi, necessaria, o giustificabile) di un diritto, o del suo esercizio, altro la sua (deprecabile) violazione (in ipotesi indebita, o ingiustificata). Ma il problema è precisamente questo: dove finisce la mera (per definizione necessaria, o giustificabile) limitazione di un diritto, e dove ha invece inizio la sua violazione? Di per sé, qualificare una proibizione come semplice limitazione, anziché come violazione, di un diritto, è una mossa verbale, che non ha altro valore se non retorico57. 55 Così, ad es., L. Ferrajoli (1994, p. 284) sostiene che la "garanzia costituzionale" dei diritti fondamentali (rigidità costituzionale: procedura di revisione aggravata, sindacato giurisdizionale di legittimità costituzionale) è una forma di garanzia "inventata dal costituzionalismo novecentesco con la quale è stato abbattuto il vecchio dogma dell'onnipotenza del legislatore, di origine assolutistica anche se poi connotato in senso democraticistico, ed è stato completato il disegno dello stato di diritto che vuole tutti i pubblici poteri, incluso quello legislativo, sottoposti a norme non solo formali come quelle sulle procedure di formazione delle leggi, ma anche sostanziali come sono appunto i principi e i diritti fondamentali". 56 Si consideri, ad es., la libertà di movimento: qualcuno deve pur impedirmi di entrare nell'aula di Montecitorio durante una seduta parlamentare; non è possibile che tutte le matricole entrino - cerchino di entrare contemporaneamente in quest’aula. Libertà di manifestazione del pensiero non è possibile che tutti parlino contemporaneamente (il problema dell’assegnazione di frequenze radiotelevisive). 57 Perché non dire che le ‘vacanze obbligate’ che il fascismo imponeva ai suoi avversari politici costituivano, non una violazione della libertà di circolazione e di soggiorno, ma una loro (innocua, e del resto benefica) limitazione? 18 Non v’è dubbio, beninteso, che vi siano casi relativamente chiari58. Ma casi del genere non sono la regola, e non possono considerarsi rappresentativi. In casi problematici, la questione è, precisamente, se una certa compressione (dell’esercizio) di un diritto costituisca, per l’appunto,, una semplice (e, per qualche ragione, necessaria, o giustificata) regolamentazione di esso, o piuttosto una sua (in ipotesi ingiustificata) violazione. La distinzione fra le due nozioni non fornisce alcuna risposta a questo interrogativo59. Il problema si pone soprattutto relativamente all'ipotesi di conflitti fra diritti fondamentali. E' opinione ampiamente diffusa (ma non unanimemente condivisa) che i diritti fondamentali possano confliggere, e che ciò accada sovente60. Che, in particolare, siano possibili, e frequenti, sia conflitti fra diritti fondamentali diversi, sia conflitti fra casi diversi (istanze) di un unico e medesimo diritto, sia conflitti fra diritti fondamentali, da un lato, e altri valori, obiettivi, fini, interessi costituzionalmente riconosciuti e sanciti61. Nel caso di conflitti fra diritti fondamentali l'assunto di inviolabilità non può che venire meno. In questi casi, si suol dire, occorre 'bilanciare', soppesare, i diritti in conflitto, esaminare quale fra essi abbia, in relazione al tipo di caso in esame, maggiore 'peso', al fine di stabilire quale fra essi debba prevalere. Come un simile bilanciamento possa operarsi, e se esso possa configurarsi come un procedimento razionale (dunque, intersoggettivamente controllabile), è questione controversa62. 58 L’esempio (Rawls 1971, p. 203) relativo alla necessaria disciplina della libertà di espressione (pena il caos comunicativo, e il venir meno della possibilità stessa di esprimere alcunché) è uno di questi. (Cfr. Hart 1983, p. 233.) 59 Non si tratta soltanto del fatto che vi sono casi di confine. Una distinzione concettuale ammette, di solito, la possibilità di casi di confine, e ciò non è di per sé sufficiente a screditarla. Piuttosto, ciò che rende poco interessante (ai nostri fini) la distinzione in esame è, in primo luogo, la frequenza, e l’importanza, dei (presunti) casi di confine. E, soprattutto, la qualificazione di una proibizione come semplice limitazione, o come violazione, di un diritto, non spiega perché mai essa sarebbe giustificata, o ingiustificata. Se ci chiediamo se una certa proibizione sia, relativamente a un diritto, giustificabile, ‘è una limitazione, non una violazione’ non è una risposta a questa domanda. Presuppone, piuttosto, una risposta, basata su ragioni ulteriori. 60 Due norme attributive di diritti fondamentali possono ritenersi incompatibili «quando i due diritti non possono essere soddisfatti contemporaneamente (in astratto o in concreto)» (Comanducci 2004, p. 318). Come si è accennato (sopra, 8.2.1) in conflitti fra diritti fondamentali, o in generale fra principi fondamentali, hanno sovente la forma di paranomie. Le norme che conferiscono diritti fondamentali non sono, alla lettera, antinomiche (contrarie o contraddittorie; sopra, 6.2.3). 61 Alcuni esempi: libertà di circolazione (o libertà dell'iniziativa economica privata) e diritto alla salute (inquinamento); diritto alla riservatezza (o all'onore) e libertà di espressione (libertà di stampa); diritti sociali e proprietà privata; azioni positive e principio di eguaglianza formale (cosiddetta 'discriminazione alla rovescia'). In teoria etica si distingue fra «intra-right conflicts» («conflicts between different instances of the same right») e «inter-right conflicts» («conflicts between particular instances of different rights») (Waldron 1989, p. 217). Può accadere, infatti, che lo stesso diritto generi un conflitto fra due sue istanze (ad es., A e B hanno entrambi diritto a essere salvati, ma non è possibile salvarli entrambi; ivi, pp. 206-7; cfr. anche ivi, p. 222). Può accadere, inoltre, che si diano conflitti fra diritti e welfare (ivi, pp. 207-8). Tipologie analoghe, ma ulteriormente complicate dall’inclusione di altri fattori (valori, e interessi, di vario genere) possono essere costruite relativamente alla disciplina costituzionale dei diritti. Si può, ad es., distinguere fra «tre ipotesi generali di conflitto fra interessi (o diritti)»: (1) «concorrenza fra soggetti diversi nel godimento dello stesso diritto»; (2) «concorrenza tra interessi individuali non omogenei»; (3) «concorrenza tra interessi individuali e interessi collettivi» (Bin, Pitruzzella 2000, pp. 485-7). 62 I tribunali costituzionali, nel giudicare della legittimità costituzionale di leggi o altri atti, operano sovente un simile bilanciamento, ovvero sottopongono a scrutinio il bilanciamento operato dal legislatore (o altro organo), al fine di valutarne la ragionevolezza, correttezza, ammissibilità. Anche in questo caso, ovviamente, si pone il problema di stabilire dove finisca la violazione di un diritto fondamentale, e dove abbia inizio la sua (in ipotesi ammissibile, purché vi siano ragioni sufficienti) limitazione, o regolamentazione. La dottrina costituzionalistica e la giurisprudenza dei tribunali costituzionali hanno elaborato la dottrina del cosiddetto «contenuto essenziale» dei diritti fondamentali: la compressione di un diritto fondamentale può essere (se vi sono ragioni sufficienti) giustificata, purché e fintantoché non intacchi il suo contenuto essenziale. Ma dove finisce l’ambito delle 19 Quanto appena detto investe, in generale, il problema della decisione di (tipi di) casi sulla base di principi (sopra, 8.2.1). Come abbiamo visto, dove operano principi, si danno conflitti, indeterminatezza, incommensurabilità. Da ciò, la necessità di bilanciamento, compensazione (trade-offs), commisurazione, determinazione. Si dice che, in caso di conflitto, occorre operare un ‘bilanciamento’ (ovvero, sottoporre scrutinio il bilanciamento operato dal legislatore). Ma non è affatto detto che il ‘bilanciamento’ di principi in conflitto (ovvero, l’operazione consistente nel valutare se un certo caso ricada o no sotto la fattispecie ‘aperta’ prevista da un principio, o se peculiari caratteristiche del caso giustifichino la ‘sospensione’ della conseguenza che il principio prevede, o ancora quale sia la misura ‘appropriata’ nella quale un certo principio può, in un certo caso, legittimamente comprimerne un altro; sopra, 8.2.1, sub (5)) sia, o possa essere ricostruito come, una procedura razionale, o comunque una forma di argomentazione razionale (oggettivamente o intersoggettivamente valida) - o non sia piuttosto espressione dell’arbitrio dell’interprete. Insomma: quella del bilanciamento di principi in conflitto è solo una metafora. E’ possibile uscirne? E’ possibile, cioè, portare il bilanciamento fuor di metafora? O, in altri termini, vi sono criteri di correttezza del bilanciamento? Il bilanciamento è - può essere ricostruito e praticato come - una procedura razionale di decisione? Oppure si tratta di un giudizio quasisapienziale, di carattere intuitivo o, banalmente, arbitrario (comunque, non suscettibile di controllo)63? La discussione di questo problema è uno dei nodi centrali della teoria del diritto contemporanea. (2) Effettività dei diritti sociali. Le costituzioni degli odierni stati costituzionali di diritto costituzioni ‘lunghe’ - contengono norme che conferiscono diritti di più tipi; in particolare, diritti sociali (sopra, 8.2.1). Ebbene, i diritti sociali appaiono diritti più ‘deboli’ rispetto ai diritti di libertà e ai diritti politici. Due i principali ordini di problemi. (b) Come abbiamo visto (sopra, 8.2.1) diritti di libertà e diritti economico-sociali hanno diversa struttura. Grosso modo, il rispetto dei primi consiste in omissioni; il soddisfacimento dei secondi in prestazioni positive. Su questa contrapposizione pretendono di fondarsi facili gerarchie dei diritti fondamentali, che assegnano ai diritti di libertà lo status privilegiato di ‘veri’ diritti (trattandosi di mera astensione, si argomenta, questi diritti non hanno alcun costo; si tratta, perciò, di diritti - in linea di principio- azionabili, esigibili), e ai diritti sociali, di contro, una posizione subordinata (giustificabili) limitazioni di un diritto fondamentale (in nome, ad es., della salvaguardia o della promozione di un altro diritto fondamentale), e dove ha inizio il suo contenuto essenziale? Presupporre, senza argomentazione, che i diversi «contenuti essenziali» di diritti fondamentali diversi non possano confliggere (rendere questa condizione soddisfatta per definizione) sarebbe una petizione di principio. 63 Il termine “bilanciamento” non designa, in effetti, un metodo definito di risoluzione di conflitti o dilemmi pratici. Designa, piuttosto, un vuoto: uno spazio che dovrebbe essere occupato da un concetto, e nel quale troneggia, invece, una metafora (la metafora del “peso” delle ragioni confliggenti, e della loro “ponderazione”). Che cosa, e in che modo, svolge la funzione che, figurativamente, è svolta da una bilancia, e in che cosa consiste, fuor di metafora, il (maggiore o minore) “peso” di una ragione, resta indeterminato. Insomma: “bilanciamento” non è la formula magica la cui pronuncia consente di dissipare all’istante (in realtà occultandola) una difficoltà teorica (come si fa a stabilire quali, fra una pluralità di ragioni in conflitto, o incommensurabili, “vincono”, e quali invece sono “sconfitte”?). E’, piuttosto, il nome di questa difficoltà: un’incognita. All’immagine del bilanciamento non corrisponde alcun concetto. I giuristi, è vero, hanno elaborato tecniche, metodi, procedure di bilanciamento. Ma ci si può legittimamente chiedere se il concetto tecnico-giuridico di bilanciamento non sia anch’esso, in questo senso, un non-concetto: se esso non conservi il medesimo, irriducibile, nucleo metaforico. (Si vedano ad es. la «legge di bilanciamento», e l’articolazione della procedura di bilanciamento, elaborate da R. Alexy (1994, pp. 146 sgg., 2003a, pp. 136, 138, 2003b, pp. 436 sgg.). Nella teoria del diritto contemporanea, quello di Alexy è probabilmente il più sofisticato tentativo di ricostruzione del bilanciamento come una procedura di decisione razionale.) 20 (i diritti sociali sono diritti a prestazioni positive; dunque, si argomenta, hanno un costo; e, perciò, non sono, spesso, azionabili, esigibili; infine, il loro soddisfacimento compromette la garanzia di altri diritti). Questa è, in verità, solo una contrapposizione grossolana, e confusa. La dicotomia dei diritti fondamentali in libertà e poteri, come si è avvertito (sopra, 8.2.1), è solo orientativa. (Lo stesso dicasi, a fortiori, della caratterizzazione qui fornita delle tre ‘generazioni’ dei diritti di libertà, politici e sociali.) Molti dei tradizionali diritti di libertà comprendono, oltre che libertà. poteri. E, d’altro lato, tutti i diritti chiamano in causa prestazioni positive da parte degli organi pubblici: i diritti di libertà esigono tutela, protezione, garanzie («tutti i diritti si basano su una ‘prestazione’ degli organi pubblici, e perciò ‘costano’»)64. Sebbene, però, l’idea che i diritti sociali non siano ‘veri’ diritti appaia confusa, resta pur sempre il fatto che essi hanno, rispetto ai diritti di libertà, diversa struttura. Nel caso dei diritti sociali, non soltanto la garanzia, ma già il loro soddisfacimento esige prestazioni positive. Perciò, di fatto, i diritti sociali non sono, spesso, giustiziabili: l’ordinamento non prevede strumenti che consentano, ai loro titolari, di esigerne il rispetto in caso di mancato soddisfacimento. Questa prima difficoltà è strettamente connessa alla seguente. (b) Le norme che conferiscono diritti sociali sono norme che pretendono di indirizzare, in positivo, il legislatore verso il perseguimento di certi obiettivi. Così, ad es., la norma che sancisce il diritto alla salute pretende di vincolare il legislatore alla produzione di leggi che predispongano i mezzi necessari per la protezione e la promozione della salute dei consociati. Ma la pretesa di sottoporre l’attività legislativa a un vincolo positivo - caratteristica, come abbiamo visto, della costituzione-indirizzo, e del costituzionalismo contemporaneo (sopra, 8.1.3) - appare problematica. Come obbligare il legislatore, in positivo, a operare (in una certa direzione)? Ovvero, come sanzionare l’inattività del legislatore? Una legge esistente - una legge che sia stata già prodotta - può essere dichiarata invalida, se costituzionalmente illegittima. Ma come agire su una legge non (ancora) esistente? Quale congegno istituzionale potrebbe reagire alla inattività del legislatore, sanzionare il comportamento del legislatore ‘pigro’? Il controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale della legge (o altri atti) - cioè: di norme già prodotte - non sembra idoneo a svolgere questa funzione65. (3) Effetti indesiderati del processo di costituzionalizzazione. I diversi aspetti del processo di costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici negli stati costituzionali di diritto - in particolare, la sovra-interpretazione della costituzione e l’applicazione diretta delle norme costituzionali da parte dei giudici ordinari, ivi incluso il loro dispiegare effetti nelle controversie fra privati; l’interpretazione adeguatrice della legge; lo sviluppo, fra le sentenze dei tribunali costituzionali, di sentenze interpretative e manipolative - tutto ciò genera, secondo alcuni, una pluralità di conseguenze indesiderate: un grave deficit di certezza, l’attribuzione di amplissima discrezionalità ai giudici costituzionali o ordinari, e un conseguente sbilanciamento dei poteri in favore della giurisdizione; al limite, una sorta di 'onnipotenza giudiziale'. Quanto si è appena detto (sopra, sub (1)) a proposito del ricorso al 64 Bin, Pitruzzella 2000, p. 521. Sulla precarietà concettuale della distinzione fra diritti positivi - i diritti economico-sociali - e diritti negativi - diritti di libertà - cfr. Waldron 1989, pp. 213-214. In generale, sul costo dei diritti - sociali e di libertà - cfr. Holmes, Sunstein 1999; Celano 2002a, pp. 50-55. 65 Forse, lo sviluppo dei due tipi di sentenze manipolative (additive e sostitutive; sopra, 8.2.1) può, almeno in parte, essere spiegato in questa luce. 21 ‘bilanciamento’ di diritti o principi in conflitto; nonché del ricorso al principio di ragionevolezza, sembra corroborare questa conclusione66. I giudici costituzionali dovrebbero essere i custodi della costituzione - dovrebbero preservarne l’integrità, e garantire la conformità dell’ordinamento giuridico ad essa. Ma quis custodiet custodes? (4) L'argomento democratico. Tutto ciò sembra suscitare, o sottendere, un serio problema di ordine etico-politico. L'istituto del controllo giurisdizionale di legittimità costituzionale è compatibile con il principio democratico (ovvero, la sovranità popolare)67? Secondo alcuni (è questo il cosiddetto ‘argomento democratico’), no: non è compatibile con la democrazia che decisioni assunte da un’assemblea rappresentativa (un parlamento) sulla base della regola di maggioranza (il nocciolo di un regime democratico) possano essere invalidate, o manipolate, da un organo non democratico, composto da membri non eletti, non responsabili politicamente nei confronti del popolo. In questa prima forma, diretta, l’obiezione, in effetti, non si applica agli stati costituzionali di diritto contemporanei. In essi, infatti, come abbiamo visto (sopra, 8.2.1), la sovranità popolare è anch’essa un potere sub lege. (Il concetto rilevante di sovranità non è il concetto tradizionale.) La regola di maggioranza trova nelle forme e nei limiti posti dalla costituzione un argine invalicabile. Ma la difficoltà si ripropone. D’accordo: la sovranità popolare va intesa nel modo indicato: è anch’essa un potere sub lege. Ma resta il problema di fondo: anche sui diritti (i principi, i valori) costituzionalmente sanciti e, soprattutto, sul loro bilanciamento - sulla loro determinazione - in una società pluralista (una società caratterizzata dal fatto del pluralismo ragionevole; sopra, 8.1.2), c’è disaccordo, non meno che su altre questioni (in ipotesi aperte alla decisione da parte del legislatore)68; anche su di essi - sulla loro estensione e determinazione (limitazione, regolamentazione) e, soprattutto, sulla risoluzione di conflitti fra di essi - occorre assumere delle decisioni (decisioni che siano vincolanti per la collettività). Non solo: ci si può ragionevolmente aspettare che, nelle società contemporanee, questi disaccordi siano frequenti e profondi69. Insomma: anche i diritti fondamentali devono essere amministrati70. Per farlo, sono necessari poteri, poteri di determinazione. Una teoria normativa sostanziale dei diritti, dunque, rinvia a una teoria dell'autorità71. Ciò dipende dal carattere nomodinamico del diritto72: dato un problema sostanziale (‘Qui, chi ha ragione e chi torto?’; ‘La norma N è stata violata o no?’, ‘Che cosa esige la giustizia in un caso di questo tipo?’, ‘Quali sono i diritti inviolabili degli esseri umani?’, ecc.), dal punto di vista giuridico il problema non è mai soltanto, né primariamente, quale sia la risposta corretta, ma chi (quale organo), e in che modo (secondo quale procedura) sia competente a decidere, in via autoritativa e - in ultima istanza - definitiva, il caso. Il diritto regola la sua propria 66 Il principio di ragionevolezza sembra essere un principio vuoto: sono giustificate tutte e solo quelle distinzioni che sono giustificate (Guastini 1998c). 67 Sul problema, v. Ferreres 1997. 68 Waldron 1999, pp. 1-4, 10-2, 212-3; Celano 2005. 69 Così, ad es., ciò che ad alcuni appare come una giustificata, e doverosa, specificazione di un generale diritto alla privacy, il diritto di abortire (sotto certe condizioni), appare ad altri come un caso paradigmatico di violazione di un diritto fondamentale, il diritto alla vita del feto. In casi come questo, nient'affatto sporadici o marginali, il disaccordo non verte su ipotesi di confine, ma sul nucleo essenziale dei diritti fondamentali chiamati in causa. 70 Jori 1995, pp. 128-30; Pintore 2003, pp. 104, 124. 71 Waldron 1999. 72 Celano, 2002b. 22 produzione; sopra, 7.3.2): un suo aspetto centrale è l’istituzione di poteri normativi (poteri, istituiti mediante norme, di produzione, modificazione, applicazione di norme). Ebbene: in primo luogo, si pone il problema se sia compatibile con l'opzione in favore della democrazia (il principio della sovranità popolare) che l'amministrazione del sistema dei diritti - dunque, decisioni di importanza cruciale; in particolare, decisioni relative alla commisurazione o determinazione di diritti, principi e valori fondamentali, e alla risoluzione di conflitti fra di essi - sia (almeno, sotto alcuni aspetti e in alcune giunture cruciali) affidata a organi non democratici, politicamente non responsabili di fronte al popolo. E, in secondo luogo, si pone nuovamente l'ovvio problema: chi custodirà i custodi? In effetti, una realizzazione compiuta, senza residui, del principio del governo delle leggi è, per ragioni concettuali, impossibile. Ogni regola deve essere applicata (e dunque compresa, o interpretata) da qualcuno. (Non ci sono regole che si applicano da sé73.) Data una regola, è necessario un potere che la faccia valere; non ogni potere potrà essere assoggettato a regole, pena un regresso all'infinito. In un sistema normativo dinamico, dunque, ci sarà sempre, necessariamente (per necessità concettuale), una decisione ultima, di ultima istanza, non soggetta a controllo o revisione. Contro queste obiezioni sono possibili delle repliche74. Ma il punto centrale è, mi pare, il seguente: il senso del costituzionalismo, sia moderno sia contemporaneo, consiste nel porre sempre nuovi limiti, ostacoli, impedimenti a questa istanza di decisione ultima: nel dilazionare il più possibile, circoscrivendolo, frammentandolo, e, in tal modo, depotenziandolo, il momento dell'esplicazione della sovranità (un potere di decisione non sottoposto a revisione)75. 9. Neocostituzionalismo e teoria del diritto 9.1 Introduzione Abbiamo visto quale configurazione il diritto assuma nello stato costituzionale di diritto: quali siano i tratti peculiari del tipo di ordinamento giuridico caratteristico di questa particolare forma di organizzazione giuridico-politica. Quale forma potrà o dovrà avere una teoria del diritto che intenda essere adeguata a questo genere di ordinamento giuridico - che intenda, cioè, rendere giustizia a un diritto siffatto? Le teorie del diritto comunemente etichettate come 'neocostituzionalistiche' sono, precisamente, animate da questo intento76. Si tratta di teorie di diversa impostazione e 73 Per una delucidazione particolarmente perspicua di questa tesi wittgensteiniana cfr. Nozick 1981, pp. 143-5. Dworkin 1996. 75 In altri termini, il costituzionalismo (moderno e contemporaneo: il 'costituzionalismo dei diritti', sopra, 4.3) non ha - non può sensatamente avere - come proprio obiettivo l'eliminazione della decisione sovrana. Ha, piuttosto, l'obiettivo della sua dilazione, del suo differimento, nella maggior misura possibile. Si tratta di moltiplicare le istanze di controllo, i vincoli e i limiti (istituendo poteri di determinazione di questi vincoli, vincoli su questi poteri, ulteriori poteri competenti a giudicare del rispetto di questi vincoli, e così via) in modo da ritardare il più possibile - e in questo modo narcotizzare, mettere in stand-by - l'esercizio del potere di decisione di ultima istanza. 76 ‘Neocostituzionalismo’ è, nell’uso corrente, un’etichetta vaga e generica, Grosso modo, è possibile distinguere tre accezioni. In una prima accezione, il termine è usato per designare la versione dell’ideale costituzionalistico affermatasi nella seconda metà del Novecento (ciò che è stato qui denominato ‘costituzionalismo contemporaneo’; sopra, 8.1). In una seconda accezione, designa una certa famiglia di teorie del diritto contemporanee, accomunate dall’intento di rendere giustizia ai tratti peculiari degli ordinamenti giuridici negli stati costituzionali di diritto. E’ questa l’accezione rilevante ai nostri fimi attuali, ed è in questo senso che, in 74 23 orientamento, accomunate, però, da due tratti significativi77. Sono, in primo luogo, teorie antipositivistiche; abbandonano la tesi convenzionalista e, in generale, la tesi dei fatti sociali e la tesi delle fonti sociali (sopra, 7.2.1). Si tratta però, in secondo luogo, di teorie che non sono - o comunque pretendono di non essere - giusnaturalistiche, almeno non nel senso tradizionale (sopra, 3.1). Daremo adesso uno sguardo, sommario, ad alcuni di questi argomenti antipositivisti, e alla reazione positivista nei loro confronti. Il nostro interrogativo di fondo sarà il seguente: una teoria soddisfacente del diritto nello stato costituzionale di diritto può essere giuspositivista? O forse le peculiarità degli ordinamenti giuridici degli odierni stati costituzionali di diritto impongono l’abbandono delle tesi fondamentali del positivismo giuridico - o addirittura un ritorno a tesi giusnaturalistiche78? 9.2 Inadeguatezza del positivismo giuridico ottocentesco Può, dunque, una teoria soddisfacente del diritto nello stato costituzionale di diritto essere giuspositivista? Se guardiamo alla configurazione che il positivismo giuridico assume nel corso dell’Ottocento - la teoria giuspositivista, come ricostruita da N. Bobbio (sopra, 7.1) - la risposta non può che essere negativa. In particolare, appare nettamente in contrasto con i fondamenti dello stato costituzionale di diritto la tesi secondo cui la legge è l’unica fonte di qualificazione giuridica79. Non solo. La cultura giuridica contemporanea è caratterizzata, come si è accennato (sopra 6.2.2, 6.2.4), dall’abbandono dei dogmi della coerenza e della completezza dell’ordinamento giuridico. Ciò vale, non soltanto in termini generali, ma anche, e soprattutto (ai nostri fini), con specifico riferimento alle forme caratteristiche del diritto negli stati costituzionali di diritto. La cultura neocostituzionalistica, come si è visto, ammette che siano possibili, e frequenti, conflitti (per lo più, in forma di paranomia) fra diritti, principi, valori fondamentali; e riconosce, altresì, l’indeterminatezza di molti principi costituzionali, il loro carattere generico, vago, astratto, indeterminato (sopra, 8.2.1). Infine, la concezione esegetica (psicologistica), formalistica e meccanicistica dell’interpretazione e del ragionamento giudiziale appaiono del tutto inadeguate già indipendentemente dal riferimento allo stato costituzionale di diritto, e sono oggi largamente abbandonate. La teoria giuspositivista ottocentesca si rivela dunque, alla luce della particolare configurazione che il diritto assume negli stati costituzionali di diritto, inadeguata. Ma questa non è una considerazione particolarmente significativa. Come abbiamo visto, il positivismo giuridico, in quella particolare versione, è strettamente connesso all'immagine del diritto propria dell'età della codificazione, e dello stato di diritto ottocentesco. Non c’è nulla di questo capitolo, si discuterà di ’neocostituzionalismo’. In una terza accezione, infine, la più generica, ‘neocostituzionalismo designa, in modo indifferenziato, aspetti della cultura e della pratica giuridica caratteristici degli odierni stati costituzionali di diritto. 77 Questa è, in una certa misura, una stipulazione. Come si è avvertito, ‘neocostituzionalismo’ è un’etichetta vaga e generica, anche come aggettivazione di teorie del diritto. 78 Un modo alternativo di formulare lo stesso problema: il costituzionalismo moderno - il ‘costituzionalismo dei diritti’ - è, come abbiamo visto (sopra, 4.2), schiettamente giusnaturalistico. (La versione specificamente moderna dell’ideale costituzionalistico nasce dalla congiunzione del principio del governo delle leggi con la dottrina dei diritti naturali individuali tipica del giusnaturalismo sei-settecntentesco.) Ebbene: è possibile un costituzionalismo - un ‘costituzionalismo dei diritti’ - giuspositivista? 79 L’imperativismo è oggetto di critiche devastanti già da parte del positivismo giuridico novecentesco (cfr. Kelsen 1934; Hart 1961). 24 sorprendente nel fatto che esso si riveli, oggi, inadeguato. Il problema è se sia possibile costruire, oggi, una (nuova) teoria giuspositivista, che renda giustizia alle caratteristiche peculiari che il diritto assume negli stati costituzionali di diritto. 9.3 Di che cosa parliamo, quando parliamo il linguaggio del diritto? (III) 9.3.1 Il problema Il problema è, anzitutto, se il positivismo giuridico come metodologia (come approccio avalutativo allo studio del diritto; sopra, 7.1) si riveli anch'esso inadeguato. Se, cioè. sia possibile, o sensato, nello stato costituzionale di diritto, un accostamento giuspositivista, in senso metodologico - in breve, un accostamento avalutativo - al diritto. E se in generale il positivismo giuridico, come teoria delle condizioni di esistenza di fatti giuridici (ovvero, come teoria delle condizioni di verità, o asseribilità, di asserti giuridici), caratterizzato, come si ricorderà (sopra, 7.2.1), dalla tesi dei fatti sociali, e da quella delle fonti sociali, sia inadeguato alla comprensione del diritto negli stati costituzionali di diritto. (Come vedremo fra breve, questi due interrogativi non necessariamente coincidono.) Il sospetto che il verdetto non possa che essere sfavorevole ha origine da una circostanza cui si è già fatto cenno (sopra, 8.2.1, sub (3)). Nello stato costituzionale di diritto, il diritto sembra, in virtù dei principi costituzionali, rinviare a, o incorporare, valori e principi morali, etico-politici. La costituzione sembra esigere una “lettura morale” (moral reading)80. O, in altri termini, la verità (o asseribilità) di asserti giuridici sembra dipendere dalla verità (o asseribilità) di giudizi morali; le condizioni di verità di asserti giuridici sembrano essere inestricabilmente intrecciate con le condizioni di verità di giudizi morali. (Il che, come si ricorderà, contraddice la tesi delle fonti sociali; sopra, 7.2.1.) L'esistenza di fatti giuridici sembra, insomma, dipendere da fatti morali. E ciò, soprattutto, là dove ne va del bilanciamento, della commisurazione, della determinazione dei principi costituzionali81. La possibilità di tracciare una netta linea di demarcazione, in conformità a quanto richiesto dal positivismo metodologico, fra il diritto quale esso, di fatto, è, e il diritto quale esso (alla luce di principi e valori morali, etico-politici) deve essere (il diritto giusto), sembra, dunque, venire meno82. 9.3.2 Argomenti antipositivisti (I): R. Dworkin 80 Dworkin 1996. Questo, beninteso, è un fenomeno che non si presenta soltanto nell’ambito della individuazione del contenuto della costituzione, bensì ovunque siano presenti clausole indeterminate, o standard, affini alle clausole rilevanti della costituzione (si pensi, ad es., alla nozione di “danno ingiusto”, art. 2043 cod. civ., o alle clausole di giustificazione in diritto penale). Ma, nel caso delle costituzioni ‘lunghe’ contemporanee, il fenomeno assume proporzioni macroscopiche, e la sua importanza diviene notevolissima. 82 Come si è detto (sopra, 7.1), uno degli assunti che possono stare a fondamento del principio di avalutatività della conoscenza scientifica è la tesi secondo cui i giudizi di valore, e in particolare i giudizi morali, sono soggettivi e relativi. Questa tesi è controversa, e controvertibile. Gli argomenti presentati nei paragrafi seguenti presuppongono, ovviamente, che questo assunto sia da rigettare: che, in qualche modo, i giudizi di valore, e i giudizi morali, possano aspirare a una forma di oggettività, o comunque di validità intersoggettiva. Che possano, dunque, dirsi, in qualche senso, vero o falsi, Non discuterò qui questo problema (cfr. Celano 1994, capp. 1, 2). 81 25 Dworkin rifiuta la tesi convenzionalistica: l’identificazione del diritto non dipende (almeno, non esclusivamente, né primariamente) da una regola convenzionale (la regola di riconoscimento) che i funzionari - in particolare, i giudici - seguano concordemente. Perché? L’analisi hartiana del fenomeno dell’esistenza di una regola sociale (sopra, 7.3.5) presenta, secondo Dworkin, seri difetti83. Ma l’argomento centrale è un altro84. Il positivismo giuridico (hartiano), afferma Dworkin, identifica il diritto con un insieme di regole (il “modello delle regole”). Secondo il modello delle regole, quando si presenta un (tipo di) caso per il quale le regole che costituiscono il sistema giuridico non prevedono alcuna soluzione normativa (quando, cioè, c’è una lacuna), ovvero quando non è chiaro se un certo tipo di caso ricada o no sotto una regola, l’organo dell’applicazione (tipicamente, il giudice) gode di discrezionalità: può. e deve (ai fini della risoluzione del caso) creare nuovo diritto; o, in altri termini, quando il diritto risulta essere, in relazione a un certo (tipo di) caso, indeterminato, l’organo dell’applicazione, per risolvere il caso, non può che creare una norma giuridica nuova. Mediante la sua decisione, dunque, il giudice non fa in realtà valere obblighi o diritti presistenti; piuttosto, dà vita, ex post, a nuovi obblighi o diritti. Dworkin contesta questo modo di vedere. Anche in casi difficili - casi non coperti da una regola determinata (e, forse, anche in casi in cui la regola applicabile non fornisce una soluzione reputata soddisfacente) - il giudice può, e deve, risolvere il caso applicando diritto presistente. In casi difficili, il giudice non crea, ex post, obblighi e diritti che precedentemente non esistevano. Piuttosto, fa valere diritti e obblighi giuridici. Come è possibile? Semplice: secondo Dworkin, il diritto consta non soltanto di regole, ma anche di principi85. Quando le regole giuridiche non forniscono alcuna risposta (e, forse, anche quando non forniscono una risposta reputata soddisfacente) a un certo (tipo di) caso, il giudice può e deve ricorrere ai principi: deve accertare quali siano i principi applicabili al caso oggetto di giudizio (eventualmente, quali siano i principi sottesi a regole che si applicano al caso) e stabilire quale o quali, fra essi, abbiano, relativamente a quel (tipo di) caso, maggiore peso. Non c’è, dunque, discrezionalità giudiziale - intesa come il potere, da parte del giudice, di creare, in casi difficili, nuovo diritto (e, dunque, creare ex post i diritti e gli obblighi che egli fa valere). Anche in casi difficili il giudice può, e deve, applicare diritto presistente. Ma l’individuazione, e l’applicazione (dunque, il bilanciamento) dei principi rilevanti è un’operazione complessa, qualitativamente diversa dall’accertamento dell’esistenza di una regola e dalla sua applicazione. Un’operazione nella quale il confine fra diritto e morale diviene evanescente. Perché? Perché i principi - la parte più significativa di essi ai fini della risoluzione di casi difficili - esprimono esigenze morali; esigenze di giustizia, equità, o “altre dimensioni della moralità”. O, in altri termini, i principi - soprattutto i principi costituzionali - sono, sostiene Dworkin, al tempo stesso e indifferentemente standard giuridici e morali, etico-politici. Mediante le clausole costituzionali di principio, la costituzione rinvia a valori, standard, norme morali: standard generici, astratti, vaghi, che è compito del giudice, in sede di risoluzione di casi difficili, determinare, specificare, bilanciare. Da ciò. dice Dworkin, la necessità di una “lettura morale” della costituzione86. 83 Dworkin 1977, cap. 3. Dworkin 1967. 85 Si deve a Dworkin l’elaborazione del terzo dei cinque modi di tracciare la distinzione fra regole e principi passati in rassegna sopra, 8.2.1 (le regole sono norme condizionali la cui applicazione ha la forma del ‘tutto o niente’; i principi esprimono ragioni che hanno un certo peso relativo e vanno comunque prese in considerazione). 86 Dworkin 1996. 84 26 Il ragionamento del giudice nella risoluzione di casi difficili ha, dunque, una struttura complessa, in virtù della quale esso assume carattere giuridico e morale al tempo stesso87. Ai fini della decisione, il giudice (un giudice ideale, Ercole) dovrebbe ricostruire l’insieme dei principi che mostrano “nella sua luce migliore” il materiale giuridico disponibile (testi di legge, precedenti giudiziali, ecc.), e su questa base pervenire a una decisione che, in primo luogo, si armonizza nella maggior misura possibile (fit) con la totalità del materiale disponibile - ovvero, se ne discosta nella minor misura possibile - e, al contempo, appare giustificata, richiesta, dai principi etico-politici che, in ipotesi, animano il diritto. Il giudice ideale, Ercole, deve, insomma, ricostruire il diritto come un tutto coerente e armonico, che esprime e illustra fondamentali principi di giustizia (anzitutto, i diritti)88. Per farlo, deve rispettare congiuntamente due vincoli, fit e giustizia; in questo modo, egli presenterà il diritto “nella sua luce migliore”. Perciò, non c’è una regola di riconoscimento: le norme giuridiche non sono soltanto regole che esibiscono un certo pedigree89. Mediante i principi, il confine fra diritto e morale diviene permeabile. Dunque, se e nella misura in cui la moralità (la verità, o asseribilità. di giudizi morali) non è una questione di convenzione, il diritto non sarà - non soltanto, e non primariamente - una questione di convenzione. Ciò che rende possibile il diritto non è soltanto un insieme di fatti sociali (la tesi dei fatti sociali: sopra, 7.2.1), ma anche, e soprattutto, un complesso di principi etico-politici. 9.3.3 Argomenti antipositivisti (II): l’argomento della pretesa di giustizia (R. Alexy) Iniziamo da un esperimento mentale90: immaginiamo che ci sia stato affidato il compito di redigere la costituzione di un nuovo stato – l'Ipazia – e che qualcuno avanzi la proposta di adottare, come suo primo articolo, il testo seguente. (Art. 1) L'Ipazia è una Repubblica federale illegittima e ingiusta. Probabilmente, rifiuteremmo la proposta. Perché? Cosa c'è che non va in una costituzione che contenga un articolo di questo tenore? Naturalmente, l'adozione dell'articolo in questione sarebbe, da un punto di vista di opportunità politica, sconsigliabile. Un regime politico che dichiarasse apertamente, nell'articolo iniziale della propria carta fondamentale, la propria illegittimità e ingiustizia sarebbe probabilmente esposto a forme particolarmente minacciose di protesta e di resistenza. Ma – sembra si possa affermare – non è soltanto una questione di opportunità politica. Ciò che 'non va' in una costituzione che contenga l'articolo in questione non è soltanto il fatto che la sua efficacia (la sua capacità di imporsi e farsi valere come legge fondamentale di un regime giuridico e politico effettivo) ne risulterebbe, verosimilmente, compromessa. C'è qualcosa di più. Oltre che politicamente inopportuno, l'articolo proposto sarebbe, sembra si possa argomentare, concettualmente (o logicamente) bizzarro, incongruo. (Come prendere sul serio una costituzione che contenga un simile articolo?) In particolare, il nostro candidato sembra esibire un difetto logico, un vizio concettuale, analogo a quello dal quale sono affetti asserti come: 87 Dworkin 1977, cap. 4. E’ questa una nozione di coerenza diversa, più ‘ricca’ (ma assai meno determinata) rispetto alla nozione, minimale, di coerenza logica (sopra, 6.2.3). 89 Dworkin 1967. 90 L'esperimento è tratto, con alcune modifiche e molte semplificazioni, da Alexy 1992, pp. 62, 64-8. 88 27 (1) Piove, ma non ci credo. (2) Prometto che verrò a trovarti, ma non ho la minima intenzione di farlo. Asserti come (1) e (2) sono concettualmente bizzarri, o incongrui: sono affetti da un vizio logico. Non nel senso che essi siano autocontraddittori: è possibile che stia piovendo, e tuttavia io creda il contrario (accade spesso, in effetti, che io abbia credenze false)91. E’ possibile fare una promessa insincera (fare una promessa, cioè, senza avere la minima intenzione di mantenerla). La bizzarria degli asserti (1) e (2) deriva piuttosto dalla circostanza che il secondo membro di ciascuno di essi sembra per così dire 'disfare' il primo; sembra, cioè, rendere nullo l'atto compiuto mediante l'enunciazione del primo membro. Sebbene sia possibile asserire insinceramente qualcosa (asserire che piove, senza tuttavia crederlo), non è possibile asserire qualcosa dichiarando esplicitamente, al contempo, che non si crede affatto che la cosa asserita sia vera; la dichiarazione rende per così dire nullo l'atto dell'asserire (il proferimento di (1) non consente di asserire alcunché). Analogamente, sebbene sia possibile fare una promessa insincera, non è possibile fare una promessa dichiarando esplicitamente, al contempo, che non si ha alcuna intenzione di mantenerla; con questa dichiarazione, la promessa viene meno (una volta proferito (2), non sarà stata fatta alcuna promessa). Allo stesso modo, sembra si possa sostenere, l'inclusione, nel nostro Art. 1, delle qualificazioni 'illegittima e ingiusta' farebbe venire meno l'atto costituente (l'atto, cioè, di dare vita a una costituzione): ne precluderebbe l'esecuzione. (La proposta di adottare l'Art. 1 sarebbe considerata come uno scherzo.) Chi provasse a promulgare l'Art. 1, sembra potersi affermare, fallirebbe nel tentativo di produrre diritto (in particolare, una costituzione). Perché? Un'ipotesi di risposta è la seguente. Un'autorità giuridico-politica non sarebbe tale - non sarebbe, cioè, un'autorità giuridico-politica - se non pretendesse di essere legittima; se non avanzasse, cioè, una pretesa di legittimità (una qualsiasi istanza può costituire un'autorità de facto, sia essa legittima o no, solo se avanza la pretesa di essere un'autorità de jure)92. Allo stesso modo, un ordinamento giuridico non sarebbe tale se non avanzasse (non importa se esplicitamente o implicitamente) la pretesa di essere moralmente corretto; in particolare, giusto (conforme a giustizia). E' questo ciò che rende un'esplicita dichiarazione di illegittimità, o di ingiustizia, incompatibile con l'esecuzione dell'atto di instaurazione di un'autorità politico-giuridica, o di un ordinamento giuridico. La ragione per la quale un candidato come il nostro Art. 1 suona, oltre che politicamente inopportuno, concettualmente bizzarro, o incongruo, è che il diritto, in quanto tale, avanza una pretesa di legittimità, e di correttezza morale, o di giustizia. Proviamo a sviluppare ulteriormente questa linea di argomentazione. Il diritto pretende di guidare, governare, regolare le nostre vite; nell'avanzare questa pretesa esso avanza, inscindibilmente, la pretesa che le proprie richieste siano moralmente corrette, giuste: una pretesa, cioè, di correttezza dal punto di vista morale, o di giustizia. Se non avanzasse tale pretesa, non sarebbe, per l'appunto, diritto (il concetto medesimo di diritto non sarebbe applicabile). In questo senso, sembra si possa sostenere, è insita nel concetto di diritto una pretesa di correttezza, o di giustizia; ed è questa, precisamente, la ragione per la quale l'articolo proposto suona concettualmente incongruo, bizzarro. Il concetto di diritto contiene in sé, come suo elemento costitutivo, il riferimento a un ideale regolativo (contiene, cioè, 91 La congiunzione di due enunciati è una contraddizione se e solo se non è logicamente impossibile che essi siano entrambi veri (ad es., 'Piove e non piove'; 'Verrò a trovarti e non verrò a trovarti'). L'autocontraddittorietà è la forma più smaccata di vizio logico - ma non l'unica. 92 Raz 1986, pp. 26-8. 28 l'indicazione dello scopo al cui perseguimento il diritto tende: il valore la cui realizzazione esso mira a promuovere): l'idea di giustizia. E ciò implica, parrebbe, una significativa conseguenza. Un ordinamento giuridico, o una legge, che non fosse giusto sarebbe manchevole, o 'difettoso', sotto un duplice aspetto. Non soltanto, com'è ovvio, sarebbe manchevole dal punto di vista morale (ossia: sotto il profilo della sua conformità al valore della giustizia); lo sarebbe anche (e, precisamente, proprio perché e in quanto manchevole dal punto di vista morale) dal punto di vista giuridico: sarebbe, cioè, 'difettoso' in quanto diritto. Seguendo questa linea di argomentazione, dunque, sembra si possa giungere alla conclusione che una legge o un ordinamento moralmente ingiusto, nella misura in cui tradisce una pretesa di correttezza morale insita, in ipotesi, nel concetto stesso di diritto, non è ben riuscito precisamente in quanto diritto: non è 'autentico', o 'vero' diritto. E che, viceversa, qualcosa sia diritto – sia 'davvero', 'autenticamente' diritto - solo se, e nella misura in cui, realizza l'idea di giustizia: soddisfa, cioè, le esigenze della giustizia. O, in altri termini, "la (...) congruenza [del diritto] con i principi della moralità e della giustizia (...) è costitutiva della sua 'essenza'"93. Un ordinamento giuridico ingiusto non è 'vero' diritto; una legge ingiusta non è, propriamente, una legge. Questo modo di vedere è caratteristico della tradizione giusnaturalistica (in alcune delle sue più autorevoli versioni); e si riassume nella sentenza lex iniusta non est lex, sed corruptio legis (Agostino, Tommaso). Una legge, o un ordinamento, che non siano all'altezza della pretesa di correttezza morale, di giustizia, che è, in ipotesi, intrinseca al concetto stesso di diritto, non sono una vera legge, un vero ordinamento giuridico; ne costituiscono, piuttosto, una degenerazione (al limite, non sono affatto una legge, o un ordinamento giuridico). Stando a questo modo di vedere, dunque, sussiste una connessione necessaria – precisamente, una connessione concettuale – fra diritto e morale: qualcosa è ('propriamente', 'autenticamente') diritto (ricade, cioè, sotto il concetto di diritto), solo se e nella misura in cui è conforme a giustizia; e, di contro, se e nella misura in cui se ne discosta. non è che una degenerazione del diritto (al di sotto di una certa soglia, il concetto stesso di diritto risulterà inapplicabile). Il concetto del diritto, la sua natura, appare solo alla luce di questa relazione. Il diritto, dunque, può e deve essere compreso a partire dalla sua connessione con la moralità. Il positivismo metodologico, come abbiamo visto, è imperniato sulla possibilità di distinguere fra il diritto quale esso di fatto è, e il diritto quale deve essere. Sostiene, cioè, che vi sia una differenza, e una separazione, concettuale fra diritto e morale: il concetto di diritto è indipendente dal concetto della moralità, da concetti morali (il concetto di giustizia, ecc.). Argomenti come quelli di Dworkin e di Alexy mettono in questione la possibilità di distinguere il diritto dalla morale (il diritto, quale esso di fatto è in un certo contesto storicosociale, dal diritto quale esso deve essere). Sembra si possa concludere, alla luce di questi argomenti, che sussiste una connessione necessaria - una connessione concettuale, giustificativa, interpretativa - fra diritto e morale. Il concetto di diritto non è separabile dal concetto della moralità, o implica il concetto di giustizia (connessione concettuale); le ragioni giuridiche sono talvolta, inscindibilmente, ragioni morali; il ragionamento giuridico è una branca, o un settore particolare, del ragionamento morale (connessione giustificativa); e, infine, ai fini della comprensione del diritto, dell’individuazione del significato delle disposizioni giuridiche, è necessario, talvolta, avvalersi di considerazioni morali (connessione interpretativa). Si tratta di una nuova forma di giusnaturalismo? 93 Hart 1961, p. 7, trad. it. p. 11. 29 9.4 Nuove forme di positivismo giuridico: un vicolo cieco? 9.4.1 Introduzione Dobbiamo, dunque, trarre la conclusione che non è possibile costruire una teoria giuspositivista adeguata alla particolare configurazione che il diritto assume nello stato costituzionale di diritto? Siamo addirittura costretti a ripiegare su posizioni giusnaturalistiche? Forse questa conclusione è affrettata. Negli ultimi decenni, si è sviluppata - anche in reazione agli argomenti critici esaminati nel paragrafo precedente (soprattutto, gli argomenti di Dworkin) - una nuova versione del positivismo giuridico, che si potrebbe etichettare come ‘neocostituzionalistica’: il cosiddetto ‘positivismo giuridico inclusivo’ (o ‘incorporazionismo’). Ad esso si contrappone un’ulteriore variante della posizione giuspositivista - il cosiddetto ‘positivismo giuridico esclusivo’ - anch’essa caratterizzata dalla pretesa che sia pienamente possibile rendere conto, in termini giuspositivisti, della peculiare configurazione che il diritto assume nello stato costituzionale di diritto. In che cosa si differenziano l’una dall’altra, e rispetto al positivismo giuridico tradizionale, queste due nuove forme di giuspositivismo? Il perno della loro contrapposizione reciproca sta in una differenza, sulla quale sino a ora non ci siamo soffermati. Sino a questo momento, abbiamo trattato la tesi dei fatti sociali e la tesi delle fonti sociali come equivalenti, considerandole entrambe, allo stesso titolo, come caratteristiche del positivismo giuridico in quanto teoria delle condizioni di verità, o asseribilità, di asserti giuridici (sopra, 7.2.1). Ma, a ben vedere, la tesi dei fatti sociali non coincide con la tesi delle fonti sociali: la prima non implica la seconda (sebbene valga l’inverso). Perché mai? Perché - ed è questa l’idea sulla quale si fonda il positivismo giuridico inclusivo - può accadere che la norma suprema di un ordinamento giuridico (in termini hartiani, la ‘regola di riconoscimento’ dell’ordinamento, che specifica i criteri di validità di ogni altra norma appartenente all’ordinamento; sopra, 7.3.5) sia, sì, una regola convenzionale (come afferma la tesi convenzionalista, e in conformità a quanto richiesto dalla tesi dei fatti sociali) e, tuttavia, lasci aperta la possibilità del, o addirittura esiga il, ricorso a considerazioni morali, ai fini della determinazione di esistenza e contenuto del diritto (in contrasto, dunque, con la tesi delle fonti sociali). Vediamo in che modo. 9.4.2 Positivismo giuridico inclusivo Il positivismo giuridico inclusivo ha origine dall’intento di rendere conto dei fenomeni sui quali fanno leva gli argomenti antipositivisti presentati nel paragrafo precedente (soprattutto, gli argomenti di Dworkin)94: la circostanza che il ragionamento morale sembri essere, almeno in casi difficili, parte integrante del ragionamento giuridico; che il diritto sembri aprirsi (soprattutto, anche se non esclusivamente, in virtù di norme costituzionali di principio) alla moralità (così che la costituzione sembra esigere una “lettura morale”); la circostanza che il diritto sembri avanzare una pretesa di correttezza morale, o di giustizia, e che il ragionamento giuridico sembri configurarsi, in ragione di questa pretesa, come caso particolare del ragionamento morale; in generale, l’idea che alla base delle ragioni giuridiche si trovino, 94 L’elaborazione di questa versione della posizione giuspositivista si deve soprattutto a J. L Coleman (1982, 2001). La ricostruzione della posizione di Coleman fornita nel testo è notevolmente semplificata (in particolare, prescinderò dalla distinzione, che Coleman traccia, fra criteri epistemici di identificazione del diritto, e criteri semantici di identità del diritto). 30 talvolta, ragioni morali, e che le prime non siano separabili (e non possano essere identificate indipendentemente da) queste ultime. Il positivismo giuridico inclusivo persegue questo obiettivo cercando di inserire un cuneo fra la tesi dei fatti sociali e la tesi delle fonti sociali: cercando cioè, di mostrare che la prima non implica necessariamente la seconda (si può benissimo rifiutare la tesi delle fonti sociali e tuttavia accettare la tesi dei fatti sociali); che, sebbene la tesi delle fonti sociali sia, effettivamente, incompatibile con i fenomeni che caratterizzano gli ordinamenti giuridici contemporanei (e non soltanto questi ultimi)95, e sia, dunque, da abbandonare, la tesi dei fatti sociali non lo è; che per essere giuspositivisti è sufficiente accettare la tesi dei fatti sociali (che il positivismo giuridico, rettamente inteso, si esaurisce nella tesi dei fatti sociali, e non esige anche l’accettazione della tesi delle fonti sociali); e che, infine, la tesi dei fatti sociali riesce effettivamente a rendere conto, nel migliore dei modi possibili, della natura del diritto - in particolare, della specifica configurazione che il diritto assume negli odierni stati costituzionali di diritto. Ma in che modo è possibile inserire un cuneo fra la tesi dei fatti sociali e la tesi delle fonti sociali? Il positivismo inclusivo prende le mosse dalla posizione di Hart: il fondamento di un ordinamento giuridico è una regola convenzionale (una pratica sociale complessa; sopra, 7.3.5). Questa tesi - la tesi convenzionalista - è perfettamente in linea con la tesi delle fonti sociali; ne costituisce una specificazione. Ma - ecco il punto - può benissimo darsi il caso, sostiene il positivista inclusivo, che la regola di riconoscimento di un ordinamento giuridico stabilisca, come criteri di identificazione del diritto, anche criteri morali: criteri di correttezza morale, di giustizia, di equità. Può benissimo darsi il caso, cioè, che una regola convenzionale, qual è, in ipotesi, la regola di riconoscimento, includa, fra le condizioni di validità di (almeno) alcune norme giuridiche, la loro verità, asseribilità, o correttezza dal punto di vista morale; o in alternativa, che essa comprenda criteri che qualificano come giuridici certi principi, standard e norme morali (principi, standard o norme morali che soddisfino questi criteri saranno, dunque, giuridicamente validi: saranno parte del diritto). Quando ciò accade, prosegue il positivista inclusivo,il diritto ‘incorpora’ la (o meglio, parte della) moralità: ‘include’, ‘ingloba’ in sé certi principi, standard e norme morali. In questo caso, per determinare, stabilire che cosa sia diritto sarà necessario ricorrere (anche) a considerazioni morali (non vale, dunque, la tesi delle fonti sociali); ma ciò, per l’appunto, sulla base di un complesso di fatti sociali: una regola convenzionale (la regola di riconoscimento). In questa ipotesi, dunque, non sarà praticabile un approccio avalutativo all’identificazione del diritto: viene meno la possibilità di distinguere fra il diritto quale esso di fatto è, e il diritto quale esso (sulla base di standard e principi morali) deve essere (è, cioè, abbandonato il positivismo metodologico: sopra, 7.1). Ma vale la tesi dei fatti sociali: è sulla base di una regola convenzionale che il diritto viene identificato (anche) in base a criteri morali. . Alla tesi della separazione fra diritto e morale, dunque, il positivismo inclusivo sostituisce la tesi della loro separabilità: può darsi il caso che il diritto sia separato dalla morale (che esso sia esaustivamente determinabile indipendentemente da considerazioni morali), ma può anche darsi il caso che le cose non stiano così: se un certo ordinamento giuridico sia o no separato dalla morale dipende da cosa dice la regola di riconoscimento di quel particolare ordinamento (se, in un certo ordinamento giuridico, il diritto sia esaustivamente determinabile indipendentemente da considerazioni morali dipende dalla regola di riconoscimento di quell’ordinamento). Ciò che la tesi della separabilità afferma, insomma, è che non 95 Si ricordi la precisazione sopra, n. 81. 31 necessariamente il diritto rinvia a, o incorpora, considerazioni morali (e non, piuttosto, che il diritto necessariamente non rinvia a considerazioni morali). Questa tesi è, banalmente, soddisfatta dalla semplice concepibilità (possibilità logica) di un ordinamento la cui regola di riconoscimento non comprenda criteri di tipo inclusivo. Se, dunque, si assume che la congiunzione della tesi dei fatti sociali e della tesi della separabilità fra diritto e morale sia ciò che contraddistingue il positivismo giuridico come teoria delle condizioni di verità, o asseribilità. di proposizioni giuridiche, la verità del positivismo giuridico potrà, a questo punto, considerarsi stabilita. Gli ordinamenti giuridici degli odierni stati costituzionali di diritto sono per l’appunto, conclude il positivista inclusivo, ordinamenti la cui regola di riconoscimento contiene criteri di tipo inclusivo. Da ciò, i fenomeni sui quali ci siano soffermati - in sintesi, la necessità di una “lettura morale” della costituzione - pienamente compatibili, dunque, con una teoria del diritto giuspositivista. 9.4.3 Positivismo giuridico esclusivo Il positivismo giuridico esclusivo, in antitesi al positivismo inclusivo, tiene ferma la tesi delle fonti sociali e, con essa, la tesi della necessaria separazione fra diritto e morale96. Anche il positivismo esclusivo, però. aspira a rendere conto dei fenomeni sui quali fanno leva gli argomenti antipositivisti. (1) Il diritto avanza, implicitamente o esplicitamente, una pretesa di correttezza morale, di giustizia o di legittimità (sopra, 9.3.3). Ma - replica il positivista esclusivo (in particolare, J. Raz) - da ciò non è dato trarre alcuna conclusione antipositivista. E’ vero: il diritto pretende autorità (legittima, giustificata); e questo è un suo tratto costitutivo (un elemento del concetto di diritto). Ma, banalmente, non è detto che questa sua pretesa sia soddisfatta: che esso sia, effettivamente, dotato di autorità, legittimo. Che lo sia o no, è questione contingente97. (2) Il ragionamento morale sembra costituire, in casi difficili, parte integrante del ragionamento giuridico (sopra, 9.3.1). E’ vero, concede Raz. Ma - prosegue - occorre distinguere fra “ragionamento intorno al diritto” (o “sul diritto”) e “ragionamento secondo il diritto”. Il primo è volto alla determinazione di che cosa sia (ossia, esistenza e contenuto del) diritto, e si svolge in accordo con la tesi delle fonti sociali. In casi difficili, però, il diritto medesimo impone all’organo di applicazione la ricerca, sulla base di standard non giuridici (anzitutto, standard morali), di una soluzione appropriata. In casi siffatti, il ragionamento giudiziale si svolge comunque “secondo il diritto”, ma non verte (non più soltanto) sul diritto (su che cosa sia diritto, e quale sia il contenuto del diritto). La tesi delle fonti sociali riguarda esclusivamente il ragionamento sul diritto98. Questi sono argomenti difensivi. Ma vi sono altresì, argomenta Raz, ottime ragioni a sostegno della tesi delle fonti sociali99. (1) La tesi rende conto di distinzioni correnti, abituali, consolidate: applicazione vs. sviluppo, o creazione, del diritto; diritto (già determinato) vs. diritto (ancora) indeterminato (settled vs. unsettled law)100. 96 Il principale rappresentante di questa posizione è J. Raz (cfr. Raz 1985). Anche in questo caso, la presentazione fornita nel testo è molto semplificata. 97 Raz 1979, 1986. 98 Raz 1993. 99 Raz 1979. 32 Siamo soliti distinguere fra il momento deliberativo e il momento applicativo. Il diritto appartiene a quest’ultimo. (Ma i giudici fanno entrambe le cose; v. sotto.) (2) Milita a favore della tesi delle fonti sociali la necessità di avere standard pubblici di condotta (ai fini della cooperazione, coordinazione sociale, o del perseguimento di scopi sociali). Uno standard pubblico, nel senso richiesto, è uno standard che sia conoscenza comune fra i membri del gruppo sociale (sopra, 7.3.4). Affinché l’esistenza di uno standard sia conoscenza comune è necessario che esso sia ‘marcato’, contrassegnato, mediante caratteristiche non controverse, inequivoche, sotto gli occhi di tutti. La provenienza di uno standard da una certa fonte sociale è il tipo di caratteristica che meglio si presta a svolgere questo ruolo. (3) L’argomento dell’autorità101. Il diritto avanza una pretesa di autorità (legittima); dunque, affinché questa pretesa sia sensata, il diritto deve essere un quid tale da poter avere autorità (deve essere sensatamente concepibile che esso sia dotato di autorità). Data la natura dell’autorità, ciò implica che il diritto debba poter essere identificato indipendentemente da considerazioni di merito102. Da ciò, la necessità che esso sia identificabile sulla base di sole considerazioni di fatto, indipendentemente dalle ragioni etico-politiche pro e contra l’adozione di particolari norme o decisioni103. Tutto ciò dimostra, secondo Raz, la correttezza della tesi delle fonti sociali. Ma non implica affatto che i giudici si limitino ad applicare diritto preesistente. Al contrario: i giudici, soprattutto quando si tratta della decisione di casi difficili, fanno anche mote altre cose (fra cui applicare standard morali). La distinzione fra ragionamento circa il diritto e ragionamento secondo il diritto serve, precisamente, a rendere conto di questa possibilità, senza che ciò comprometta la tesi delle fonti sociali. 9.4.4 Due dubbi Sorgono, a questo punto, due dubbi. Il primo riguarda l’articolazione interna del fronte giuspositivista,. Pare che l’alternativa fra positivismo giuridico inclusivo ed esclusivo non faccia, in realtà, alcuna differenza. Le due posizioni sembrano essere formulazioni alternative di un unico e medesimo complesso di idee. La differenza fra di esse sembra essere meramente verbale. 100 Queste distinzioni si riflettono, a loro volta, nel nostro apprezzamento delle qualità di un buon giudice, e nella distinzione fra qualità diverse. Siamo soliti distinguere fra la specifica “competenza giuridica” (legal ability) del giudice, e la sua “qualità morale” (moral character). 101 Raz 1985. 102 Immaginiamo che fra Tizio e Caio sorga una controversia: Tizio sostiene di aver ragione, e che Caio ha torto, e lo stesso fa Caio. Ciascuno adduce ragioni a sostegno della propria posizione, e contro quella dell’altro. La controversia, però, non si risolve; ciascuno resta della propria idea. A questo punto, i due, per evitare lo stallo, decidono di rivolgersi a Sempronio, attribuendogli il ruolo di arbitro. Ciascuno si impegna ad accettare la pronunzia di Sempronio, quale che sia (si impegna, cioè, a trattare la pronuncia dell’arbitro come un che di autoritativo: attribuisce a Sempronio l’autorità di risolvere la controversia). Ebbene: affinché l’arbitro svolga la propria funzione, è necessario che egli prenda una decisione, che questa decisione sia identificabile indipendentemente dalle ragioni pro e contro le posizioni di Tizio e Caio, e che le parti considerino la decisione come risolutiva, prescindendo dalle ragioni che ritengono di avere a sostegno della propria posizione. Se l’arbitro dicesse: ‘Ha ragione, fra voi, chi ha dalla sua parte le ragioni più forti’, non avrebbe adempiuto alla propria funzione. Insomma: affinché la decisione dell’arbitro possa assumere carattere autoritativo, è necessario che essa sia identificabile indipendentemente da considerazioni di merito (chi ha dalla sua le ragioni più forti?), sulla base di una proprietà formale facilmente identificabile: quello che ha detto Sempronio. 103 Ciò. si badi bene, non implica che il diritto abbia autorità. Come si è avvertito, la sua pretesa può rivelarsi infondata. 33 Ma, soprattutto, la reazione positivista agli argomenti neocostituzionalisti non appare convincente. Le due posizioni sembrano potersi dire ‘giuspositiviste’ solo in un senso banale, e perciò scarsamente rilevante. Di fatto, concedono agli avversari le conclusioni più importanti104. Riferimenti bibliografici Alexy, R. 1992 Begriff und Geltung des Rechts, Alber, Freiburg/München. Trad. it. Concetto e validità del diritto, Einaudi, Torino. Alexy, R. 1994 Theorie der Grundrechte, zweite Auflage, Suhrkamp, Frankfurt am Main. 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Dinamiche di legittimazione tra Stato e società internazionale, Quaderni della Rivista internazionale di filosofia del diritto, n. 3, Giuffrè, Milano 2002. 104 Contro il positivismo inclusivo si può argomentare che la mera possibilità logica (la semplice concepibilità, in astratto) di un sistema giuridico che non incorpori elementi morali è una possibilità vuota, un’ipotesi di scuola. Contro il positivismo esclusivo si può invece obiettare che la distinzione fra ragionamento sul diritto e ragionamento secondo il diritto (dalla quale dipende la capacità da parte del positivismo esclusivo di rendere conto dei fenomeni sui quali fanno leva gli argomenti antipositivisti) è una distinzione ad hoc, a sostegno della quale non milita alcuna ragione indipendente dall’esigenza di fare fronte alle obiezioni dworkiniane. Se si ammette che il ragionamento dei giudici comprende, necessariamente, entrambi gli aspetti, non si è già concesso tutto l’essenziale? 34 Celano, B. 2005 Diritti fondamentali e poteri di determinazione nello Stato costituzionale di diritto, “Filosofia politica” 19, n. 3. Coleman, J.L. 1982 Negative and Positive Positivism, in Coleman, Markets, Morals and the Law, Cambridge University Press, Cambridge 1988. Trad. it. Positivismo giuridico “negativo” e positivismo giuridico “positivo”, in A. Schiavello, V. Velluzzi (a cura di), Il positivismo giuridico contemporaneo. Una antologia, Giappichelli, Torino 2005. Coleman, J. L. 2001 The Practice of Principle. In Defense of a Pragmatist Approach to Legal Theory, Oxford U. P., Oxford. Comanducci, P. 2004 Problemi di compatibilità tra diritti fondamentali, in P. Comanducci, R. Guastini (a cura di), Analisi e diritto 2002-2003. Ricerche di giurisprudenza analitica, Giappichelli, Torino 2004. 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