L’Unita’ della ragione Il problema che domina l’intera speculazione di Cartesio e’ quello dell’uomo Cartesio. Il procedimento di Cartesio e’ essenzialmente autobiografico anche quando (come nei Principi) ha la pretesa di esporsi in forma oggettiva e scolastica. Il suo precedente e il suo esempio e’ Montaigne. “Il mio scopo, dice Cartesio (Disc. I), non e’ d’insegnare il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la propria ragione, ma soltanto di far vedere in qual modo ho cercato di condurre la mia”. Come Montaigne, Cartesio non vuole insegnare ma descrivere se stesso e deve percio’ parlare in prima persona. Il suo problema emerge dal bisogno di orientamento che egli sente all’uscita dalla scuola di La Fleche, quando, pur avendo assimilato con successo il sapere del tempo, si accorge che non e’ in possesso di nessun sicuro criterio per distinguere il vero dal falso e che tutto cio’ che ha appreso poco o nulla serve alla vita. Il problema dell’uomo Cartesio e il problema della retta ragione e della bonas mens (cioe’ della saggezza della vita) sono in realta’ un problema unico e solo. Cartesio non ha cercato di risolvere il proprio problema; magli e’ certo che la soluzione da lui trovata non vale soltanto per lui ma vale per tutti, perche’ la ragione che costituisce la sostanza della soggettivita’ umana e’ uguale in tutti gli uomini, sicche’ la diversita’ tra le opinioni umane deriva soltanto dai modi diversi di condurla e dalla diversita’ degli oggetti ai quali essa si applica. Questo principio dell’unita’ della ragione, che e’ poi la sostanziale unita’ degli uomini nella ragione, fu la prima grande illuminazione di Cartesio, quella del 1619. Nella Regular, che sono senza dubbio il primo scritto nel quale quell’illuminazione viene espressa , egli afferma chiaramente l’unita’ del sapere umano, fondata sull’unita’ della ragione. “Tutte le diverse scienza, egli dice, non sono altro che la sapienza umana la quale rimane sempre una e identica per quanto si applichi a differenti oggetti, ne’ riceve da questi maggiore distinzione di quanto ne riceva la luce del sole dalla diversita’ delle cose che illumina”. L’unica sapienza umana, cui tutte le scienze si riconducono, e’ chiamata da Cartesio bona mens ed e’ nello stesso tempo la saggezza per cui l’uomo si orienta nella vita e la ragione per cui decide del vero e del falso. E’ un principio insieme teorico e pratico, che e’ la sostanza stessa dell’uomo. Questa sostanza e’, come tale, unica e universale. “La facolta’ di giudicar bene e distinguere il vero dal falso, che e’ propriamente cio’ che si chiama buon senso o ragione, e’ naturalmente uguale in tutti gli uomini”, dice Cartesio all’inizio del Discorso. Questa universalita’ della ragione e’ senza dubbio la maggiore eredita’ che Cartesio ha ricevuto dalla filosofia classica e in particolare dallo stoicismo. Ma mentre per gli Stoici la ragione e’ la stessa sostanza divina e l’uomo ne partecipa solo nella misura in cui Dio opera in lui, per Cartesio la ragione e’ una facolta’ specificamente umana alla quale Dio offre soltanto qualche garanzia, subordinata d’altronde al rispetto di regole precise. E come facolta’ umana, la ragione non opera scoprendo o manifestando l’ordine divino nel mondo, ma producendo e stabilendo l’ordine delle conoscenze e nelle azioni degli uomini. Cartesio porta a compimento quella mondanizzazione e umanizzazione della ragione che la filosofia del Rinascimento aveva parzialmente iniziato. Percio’ per Cartesio il primo frutto della ragione e’ la scienza e in particolare la matematica, sulla quale egli fonda la scoperta del metodo. La ragione tuttavia non s’identifica interamente con il suo metodo ma investe anche la natura degli elementi sul cui metodo verte: questi elementi sono razionali solo nella misura in cui posseggono chiarezza ed evidenza. La chiarezza e l’evidenza degli elementi conoscitivi (cioe’ delle idee) costituiscono la condizione preliminare di ogni procedimento razionale; e non per nulla il riconoscimento di quei caratteri e’ prescritto dalla prima regola del metodo. Percio’ Cartesio privilegia le matematiche che si servono soltanto di elementi siffatti; ma questo privilegiamento ha, come sua controparte negativa, il rigetto di una quantita’ di nozioni approssimative o imperfette o fantastiche che Cartesio si rifiuta di prendere in considerazione perche’ ritiene non suscettibili di trattamento razionale. L’idea della chiarezza e della distinzione cioe’ l’ideale della filosofia come scienza rigorosamente concettuale, e’ uno degli insegnamenti cartesiani che piu’ potentemente hanno influito sulla tradizione occidentale. Quest’ideale, d’altronde, non costituiva per Cartesio un impoverimento dell’orizzonte della filosofia o la sua riduzione a un compito puramente speculativo. Come Bacone, Cartesio aveva di mira una filosofia “non puramente speculativa ma anche pratica, per la quale l’uomo possa rendersi padrone e possessore della natura”. Questa filosofia deve mettere a disposizione dell’uomo congegni che gli facciano godere senza fatica dei frutti della terra e di altre comodita’ e mirare alla conservazione della salute, il primo bene per l’uomo in questa vita. E Cartesio e’ francamente ottimista sulla possibilita’ e sui risultati pratici di una simile filosofia : la quale, egli pensa, potrebbe condurre gli uomini ad essere esenti “da una infinita’ di malattie, tanto nel corpo quanto dello spirito, e fors’anche dall’indebolimento della vecchiaia”(Disc., VI). Percio’ egli rende pubblici i risultati delle sue indagini: sa che la sua vocazione lo chiama al servizio dell’umanita’ e che dalle sue scoperte l’umanita’ puo’ attendersi il benessere e l’equilibrio della vita. Ma questi risultati sono condizionati dal possesso del metodo. Occorre un metodo che sia fondato sull’unita’ e la semplicita’ della ragione umana e che quindi sia applicabile a tutti i domini del sapere e a tutte le arti. La scoperta e la giustificazione di questo metodo e’ il primo scopo dell’attivita’ speculativa di Cartesio. Il metodo. Cartesio ha scoperto il suo metodo mediante la considerazione del procedimento matematico.“Quelle lunghe catene di ragionamenti, tutti semplici e facili, di cui i geometri hanno l’abitudine di servirsi per giungere alle loro piu’ difficili dimostrazioni, mi avevano dato l’occasione di immaginare che tutte le cose di cui l’uomo puo’ avere conoscenza si seguono nello stesso modo e che, dato solo che ci si astenga dall’accettare per vera una cosa che non lo sia e che si rispetti sempre l’ordine necessario a dedurre una cosa o l’altra, non vi sara’ nulla di cosi’ lontano che alla fine non si possa giungervi ne’ di cosi’ nascosto che non si possa scoprire” (Disc.,II). Le scienze matematiche sono dunque gia’ praticamente pervenute in possesso del metodo. Ma non si tratta soltanto di prendere coscienza di questo metodo, cioe’ di astrarlo dalle matematiche e di formularlo in generale, per poterlo applicare a tutte le branche del sapere. Questa applicazione non sarebbe possibile se non si fosse preventivamente giustificato il valore universale del metodo.Occorre quindi giustificare il metodo stesso e la possibilita’ della sua applicazione universale, riportandolo al suo fondamento ultimo cioe’ alla soggettivita’ dell’uomo come pensiero o ragione.Il fatto che le matematiche siano gia’ in possesso della pratica del metodo ha senza dubbio facilitato il compito di Cartesio; ma questo compito comincia veramente con la giustificazione (o fondazione) delle regole metodiche, giustificazione che sola consente e autorizza l’applicazione di esse a tutti i domini del sapere umano. Cartesio doveva dunque: 1˚formulare le regole del metodo tenendo soprattutto presente il procedimento matematico nel quale esse erano gia’ presenti e operanti; 2˚ fondare con una ricerca metafisica il valore assoluto e universale del metodo; 3˚dimostrare la fecondita’ del metodo nelle varie branche del sapere. Tale fu infatti il suo compito. Cartesio definisce il metodo come l’insieme di “ regole certe e facili che, da chiunque siano esattamente osservate, gli renderanno impossibile prendere il falso per vero e , senza alcun inutile sforzo mentale, ma aumentando sempre gradatamente la scienza, lo condurranno alla conoscenza vera di tutto cio’ che sara’ capace di conoscere”.Il metodo deve condurre facilmente e sicuramente l’uomo non solo alla conoscenza vera, ma anche “al piu’ alto punto” (Disc., I) al quale puo’ giungere: cioe’ nello tesso tempo al dominio sul mondo e alla saggezza della vita. Nella Regular ad directionem ingenii Cartesio aveva esposto non solo le regole fondamentali ma anche le modalita’ o gli accorgimenti della loro applicazione: aveva cosi’ enumerato ventuno regole e aveva poi interrotto, scoraggiato, la sua opera. Nella II parte del Discorso sul metodo egli riduce a quattro le regole fondamentali. La prima e’ quella dell’evidenza. “La prima era quella di non accettare mai nessuna cosa per vera se non la riconoscessi evidentemente per tale: cioe’ di evitare diligentemente la partecipazione e la prevenzione; e di non comprendere nei miei giudizi niente di piu’ di cio’ che si presentasse cosi’ chiaramente e distintamente al mio spirito che io non avessi alcuna occasione di metterlo in dubbio”. L’evidenza e’ da Cartesio opposta alla congettura che e’ cio’ la cui verita’ non appare allo spirito in modo immediato. L’atto con cui lo spirito raggiunge l’evidenza e’ l’intuito. Cartesio intende per intuito “ non la fluttuante testimonianza dei sensi o il giudizio fallace dell’immaginazione malamente combinatrice, ma un concetto della mente pura ed attenta cosi’ facile e distinto che non rimane alcun dubbio intorno a cio’ che pensiamo; ossia, il che e’ lo stesso, un concetto della mente pura ed attenta cosi’ facile e distinto che non rimane alcun dubbio intorno a cio’ che pensiamo; ossia, il che e’ lo stesso, un concetto non dubbio della mente pura ed attenta che nasce dalla sola luce della ragione ed e’ piu’ certo della stessa deduzione”. L’intuito e’ dunque l’atto puramente razionale con il quale la mente coglie il suo proprio concetto e diviene trasparente a se stessa. La chiarezza e la distinzione costituiscono i caratteri fondamentali di un’idea evidente: intendendosi per chiarezza la presenza e l’apertura dell’idea alla mente che la considera e per distinzione la separazione da tutte le altre idee in modo che essa non contenga nulla che appartiene alle altre. L’evidenza definisce cosi’ un atto fondamentale dello spirito umano, l’intuito, che Cartesio nelle Regole pone prima della deduzione e accanto ad essa, come i due soli atti dell’intelletto. L’intuito e’ l’atto stesso dell’evidenza, il trasparire della mente a se stessa e la certezza inerente a questo trasparire. Vedremo che la ricerca metafisica di Cartesio sara’ fondamentalmente una giustificazione dell’atto intuitivo. La seconda regola e’ quella dell’analisi. “Dividere ciascuna delle difficolta’ da esaminare nel maggior numero di parti possibili e necessarie per meglio risolverle”. Una difficolta’ e’ un complesso di problemi nei quali e’ mescolato insieme il vero e il falso. La regola implica in primo luogo che un problema sia assolutamente determinato e cioe’ sia liberato da ogni complicazione superflua, e in secondo luogo che sia diviso in problemi piu’ semplici che si possano considerare separatamente. La terza regola e’ quella della sintesi. “Condurre i miei pensieri per ordine, cominciando dagli oggetti piu’ semplici e piu’ facili a conoscersi, per salire poco a poco, come per gradi, fino alle conoscenze piu’ complesse; supponendo che vi sia un ordine anche tra gli oggetti che non procedano naturalmente gli uni dagli altri”. Questa regola suppone il procedimento ordinato che e’ proprio della geometria e suppone altresi’ che ogni dominio del sapere sia ordinato od ordinabile analogamente. L’ordine cosi’ presupposto e’, secondo Cartesio, l’ordine della deduzione, che e’ l’altro dei due atti fondamentali dello spirito umano. Nell’ordine deduttivo, sono prime le cose che Cartesio chiama assolute cioe’ provviste di una natura semplice e come tali pressoche’ indipendenti dalle altre; sono invece relative quelle che devono essere dedotte dalle prime attraverso una serie di ragionamenti. L’esigenza dell’ordine deduttivo implica che, quando un ordine del genere non si trova naturalmente, esso dev’essere opportunamente escogitato; cosi’ nel caso di una scrittura in carattere ignoti, che non riveli alcun ordine, si comincia con l’immaginarne uno e con il metterlo alla prova. La regola dell’ordine e’ per la deduzione altrettanto necessaria di quanto l’evidenza lo e’ per l’intuito. La quarta regola e’ quella dell’enumerazione. “ Fare dappertutto enumerazioni cosi’ complete e revisioni cosi’ generali da essere sicuro di non omettere nulla”. L’enumerazione controlla l’analisi, la revisione controlla la sintesi. Questa regola prescrive l’ordine e la continuita’ del procedimento deduttivo e tende a ricondurre questo procedimento all’evidenza intuitiva. Di fatti il controllo completo che l’enumerazione stabilisce lungo tutta la catena delle deduzioni fa di questa catena un tutto compiuto e totalmente evidente. Queste regole non hanno in se stesse la loro giustificazione. Il fatto che la matematica se ne serve con successo non costituisce una giustificazione, perche’ esse potrebbero ben avere un’utilita’ pratica ai fini della matematica ed essere ciononostante destituite di validita’ assoluta e quindi inapplicabili al di fuori di essa. Cartesio deve quindi istituire una ricerca che le giustifichi risalendo alla loro radice; q questa radice non puo’ essere che il principio unico e semplice di ogni scienza e di ogni arte: la soggettivita’ razionale o pensante dell’uomo. Il cogito Trovare il fondamento di un metodo che dev’essere la guida storica della ricerca in tutte le scienze e’ possibile, secondo Cartesio, solo con una critica radicale di tutto il sapere. Bisogna sospendere almeno una volta l’assenso ad ogni conoscenza comunemente accettata, dubitare di tutto e considerare provvisoriamente come falso tutto cio’ su cui il dubbio e’ possibile. Se, persistendo in questo atteggiamento di critica radicale, si giungera’ ad un principio sul quale il dubbio non e ‘ possibile, questo principio dovra’ essere ritenuto saldissimo e tale da poter servire di fondamento a tutte le altre conoscenze. In questo principio si trovera’ la giustificazione del metodo. Il dubbio cartesiano implica due momenti distinti: 1˚ il riconoscimento del carattere incerto e problematico delle conoscenze sulle quali verte; 2˚ la decisione di sospendere l’assenso a tali conoscenze e di considerarle provvisoriamente false. Il primo momento e’ di carattere teoretico, il secondo e’ di carattere pratico e implica un atto libero della volonta’. La dottrina cartesiana del libero arbitrio e’ gia’ implicita in questo secondo momento.Evidentemente la sospensione del giudizio o epoche' (secondo il termine degli antichi scettici), se abolisce ogni giudizio che affermo o neghi la verita’ di una idea, non abolisce le idee stesse.Essa concerne l’esistenza, non l'essenza, delle cose. Rifiutarsi di affermare la realta’ degli oggetti sensibili non significa negare le idee sensibili di tali oggetti. L’epoche’ sospende l’affermazione della realta’ delle idee comunque possedute dall’uomo, ma riconosce queste idee come pure idee o essenze. Il che implica un’indicazione precisa nel senso verso cui muove il procedimento del dubbio. Questo procedimento avra’ successo se, ridotto con l’epoche’ il mondo della conoscenza a un mondo di pure idee od essenze, si trovera’ un’idea o essenza che sia l’immediata rivelazione di una esistenza. E tale sara’ il caso dell’io. Ora Cartesio ritiene che nessun grado o forma di conoscenza si sottrae al dubbio.Si puo’, e quindi si deve, dubitare delle conoscenze sensibili sia perche’ i sensi qualche volta ci ingannano eppero’possono ingannarci sempre, sia perche’ si hanno nel sogno conoscenze simili a quelle della veglia, senza che si possa trovare un sicuro criterio di distinzione tra le une e le altre. Ci sono bensi’ conoscenze che sono vere sia nel sogno che nella veglia, come le conoscenze matematiche (due piu’ tre fanno sempre cinque, sia che si dorma sia che si e’ svegli0, ma neppure queste si sottraggono al dubbio, perche’ anche la loro certezza puo’ essere illusoria. Finche’ nulla si sappia di certo intorno a noi stessi e alla nostra origine, si puo’ sempre supporre che l’uomo sia stato creato da un cattivo genio o da una potenza maligna che si sia proposto di ingannarlo fornendogli conoscenze apparentemente certe ma prive di verita’. Basta fare questa ipotesi ( e si puo’ farla, dato che non si sa nulla) perche’ anche le conoscenze soggettivamente piu’ certe si rivelino dubbiose e capaci di celare l’inganno. Cosi’ il dubbio si estende ad ogni cosa e diventa assolutamente universale. Ma proprio nel carattere radicale di questo dubbio si presenta il principio di una prima certezza. Io non posso ammettere di ingannarmi o di essere ingannato in tutti i modi. Posso supporre che non vi e’ Dio ne’ il cielo ne’ i corpi, e che io stesso non ho corpo. Ma per ingannarmi o per essere ingannato, per dubitare e per ammettere che e’ tutto falso, bisogna necessariamente che io penso sia qualcosa e non nulla. La proposizione io penso dunque sono e’ la sola assolutamente vera perche’ il dubbio stesso la riconferma. Ogni dubbio, supposizione od inganno presupporrà sempre che io che dubito, suppongo o m’inganno, esista. L’affermazione io esisto sara’ dunque vera tutte le volte che la concepisco nel mio spirito. Ora questa proposizione contiene pure evidentemente una certa indicazione intorno a cio’ che sono io che esisto. Non posso dire di esistere come corpo, giacche’ non so nulla dell’esistenza dei corpi, intorno ai quali il mio dubbio permane. Io non esisto se non come una cosa che dubita, cioe’ che pensa. La certezza del mio esistere si connette soltanto al mio pensiero e alle sue determinazioni: il dubitare, il capire, il concepire. L’affermare, il negare, il volere, il non volere, l’immaginare, il sentire, ed in generale a tutto cio’ che e’ in me e di cui sono immediatamente conscio. Le cose pensate, immaginate, sentite, ecc., possono, a quel che ne so, non essere reali; ma e’ reale certamente il mio pensare, sentire, ecc. La proposizione io esisto significa soltanto io sono una cosa pensante cioe’ spirito, intelletto, ragione. La mia esistenza di soggetto pensante e’ certa come non lo e’ l’esistenza di nessuna delle cose che penso. Puo’ ben darsi che cio’ che io percepisco (per esempio, un pezzo di cera) non esista; ma e’ impossibile che non esista io che penso di percepire quell’oggetto. Su questa certezza originaria, che e’ nello stesso tempo una verita’ necessaria, dev’essere fondata ogni altra conoscenza. Su di essa Cartesio ritiene di poter fondare in primo luogo la validita’ della regola dell’evidenza .“Avendo notato, egli dice (Disc., IV; confronta Med., II) che non vi e’ niente in questa affermazione io penso dunque sono che mi assicuri che per pensare bisogna esistere: giudicai di poter prendere per regola generale, che le cose che concepiamo molto chiaramente e distintamente sono tutte vere”. Ma gia’ a qualche contemporaneo di Cartesio (per esempio HUET, Censura phil. Cartes., II, 1) questo rapporto tra il cogito e la regola dell’evidenza era apparso problematico. Se il principio del cogito viene accettato perche’ evidente, la regola dell’evidenza e’ anteriore allo stesso cogito come fondamento della sua validita’: e la pretesa di giustificarla in virtu’ del cogito diventa illusoria. Ma il cogito e l’evidenza sono veramente due principi diversi tra i quali occorra stabilire la priorita’?E’ il cogito solo una tra le tante evidenze che la regola dell’evidenza garantisce vere? In realta’, il cogito non e’ una evidenza ma piuttosto l’evidenza nel suo fondamento metafisico: e’ l’evidenza che l’esistenza del soggetto pensante ha per se stessa , la trasparenza assoluta che l’esistenza umana, come spirito o ragione, possiede nei suoi propri confronti. L’evidenza del cogito e’ un rapporto intrinseco all’io e per il quale l’io si connette immediatamente alla propria esistenza. Questo rapporto non riceve la sua validita’ da nessuna regola ma ha il principio e la garanzia della sua certezza unicamente in se stessa. La regola dell’evidenza, provvisoriamente desunta dalla considerazione delle matematiche, trova in esso la sua ultima radice e la sua giustificazione assoluta: diventa cosi’ veramente universale e suscettibile di essere applicata in ogni caso.Dice infatti Cartesio, rispondendo ad una obiezione analoga: “ La parola principio si puo’ prendere in diversi sensi: una cosa e’ cercare una nozione comune che sia cosi’ chiara e generale da poter servire come principio per provare l’esistenza di tutti gli esseri, gli entia, che si conosceranno dopo; altra cosa e’ cercare un essere, l’esistenza del quale ci sia piu’ conosciuta di quella degli altri in modo che ci possa servire come principio per conoscerli”. Cio’ consente di rispondere all’altra domanda (anch’essa tradizionale nella critica cartesiana), se il cogito sia o no un ragionamento. In tal caso, supporrebbe una premessa maggiore:”tutto cio’ che pensa esiste”, e non sarebbe un primo principio. Cartesio stesso ha decisamente affermato contro i suoi critici il carattere immediato ed intuitivo del cogito. E in realta’ l’identita’ tra l’evidenza (nel suo principio) e il cogito stabilisce anche l’identita’ tra il cogito e l’intuito che e’ l’atto dell’evidenza. Se l’intuito, come si e’ visto, e’ l’atto con cui la mente diventa trasparente a se stessa, l’intuito primo e fondamentale e’ quello con cui diventa trasparente a se stessa, l’esistenza della mente cioe’ del soggetto pensante. Il cogito come evidenza esistenziale originaria e’ l’intuito esistenziale originario del soggetto pensante. Il soggetto pensante, definito dall’autoevidenza esistenziale, e’ secondo Cartesio, una sostanza (Disc.,IV Risp., II, def.5; Risp.., III). Cartesio accetta apparentemente la nozione scolastica di sostanza ed intende per essa il soggetto immediato di ogni attributo di cui abbiamo un’idea reale. Ma in realta’ quella nozione subisce in lui una metamorfosi radicale. La sostanza pensante non e’ che il pensiero esistente. La sostanzialita’ dell’io non implica il riconoscimento di un qualche suo sconosciuto subjectum, ma soltanto esprime l’intrinseco rapporto per cui l’io e’ l’evidenza della sua propria esistenza. In modo analogo, il carattere sostanziale dell’estensione (cui si riduce la corporeità delle cose) significhera’ soltanto l’oggettivita’ dell’estensione rispetto agli altri caratteri dei corpi, ma escludera’ ogni substrato recondito. La sostanza pensante non e’ che il pensiero , in quanto esistenza evidente a se stessa. L’apparente accettazione che Cartesio fa del termine aristotelico-scolastico di sostanza e’ in realta’ una nuova definizione del termine stesso , il cui significato si esaurisce nell’intrinseco rapporto esistenziale dell’io. Le considerazioni precedenti permettono di stabilire l’originalita’ del principio cartesiano del cogito. Cartesio ha indubbiamente ripetuto (un movimento di pensiero che rimonta a S.Agostino, che da S.Agostino e’ passato nella Scolastica, ed e’ stato ripreso e rinnovato da Campanella quasi contemporaneamente a Cartesio. Ma non c’e’ dubbio che, come Cartesio stesso affermo’, S.Agostino si era servito del cogito per fini assai diversi dai suoi. Egli mirava al riconoscimento della presenza trascendente di Dio nell’uomo; e nella tradizione medievale il cogito agostiniano conserva lo stesso valore. Quanto a Campanella, si e’ visto che il principio vale per lui unicamente come fondamento di una teoria naturalistica della sensazione. Ma cio’ che rende evidente il distacco radicale che c’e’ tra i precedenti storici del cogito cartesiano sono il cogito stesso, e’ che in essi manca il carattere problematico che in virtu’ del cogito viene ad assumere ogni realta’ diversa dall’io. Per la prima volta, Cartesio ha fatto valere il cogito come rapporto dell’io con se stesso, quindi come principio che rende problematica ogni altra realta’ e nello stesso tempo consente di giustificarla. Soltanto Cartesio ha realizzato il pieno valore del cogito in tutte le sue implicanze e lo ha utilizzato come principio unico e semplice per una ricostruzione metafisica che ha come suo punto di partenza la problematicita’ del reale. Dio Il principio del cogito non chiude l’uomo nell’interiorita’ del suo io. Esso e’ un principio di apertura verso il mondo, verso una realta’ che e’ al di la’ dell’io. Certamente, in base ad esso, io non sono sicuro se non della mia esistenza. L’uso del termine idea per indicare ogni oggetto del pensiero in generale e’ una novita’ terminologica di Cartesio. Per gli scolastici idea era l’essenza o archetipo delle cose sussistenti nella mente di Dio (l’universale ante rem). Cartesio definisce l’idea come “la forma di un pensiero, per l’immediata percezione della quale sono consapevole di questo pensiero”. Cio’ significa che l’idea esprime quel carattere fondamentale del pensiero per cui esso e’ immediatamente consapevole di se stesso. Ogni idea ha in primo luogo una realta’ come atto del pensiero, e questa realta’ e’ puramente soggettiva o mentale. Ma in secondo luogo ha anche una realta’ che Cartesio chiama scolasticamente obbiettiva, in quanto reppresenta un oggetto: in questo senso le idee sono “quadri” o “immagini” delle cose. Ora il cogito mi rende sicuro che le idee esistono nel mio pensiero come atti di esso, giacche’ fanno parte di me come soggetto pensante. Ma non mi rendono sicuro sul valore reale del loro contenuto obiettivo, cioe’ non mi dice se gli oggetti che esse reppresentano esistano oppur no in realta’. Idee sono per me la terra, il cielo, gli astri e tutte le cose percepite dai sensi: come idee, esistono nel mio spirito. Ma esistono realmente le cose corrispondenti fuori del mio pensiero? Questo e’ l’ulteriore problema che si presenta alla ricerca cartesiana. Cartesio divide in tre categorie tutte le idee: quelle che mi sembrano essere nate in me (innate); quelle che mi sembrano estranee o venute dal di fuori (avventizie); e quelle formate o trovate da me stesso (fattizie). Alla prima classe di idee appartiene la capacita’ di pensare e di comprendere le essenze vere, immutabili ed eterne delle cose; alla seconda classe appartengono le idee delle cose naturali; alla terza, le idee delle cose chimeriche o inventate. Ora tra tutte queste idee non c’e’ nessuna differenza se si considerano dal punto di vista della loro realta’ soggettiva cioe’ come atti mentali; ma se si considerano dal punto di vista della loro realta’ soggettiva cioe’ come atti mentali; ma se si considerano da punto di vista della loro realta’ oggettiva cioe’ delle cose che rappresentano o di cui sono immagini, sono differentissime le une dalle altre. Da questo punto di vista esse possono essere esaminate per scoprire la causa che le produce. Ora le idee che rappresentano altri uomini o cose naturali, non contengono nulla di cosi’ perfetto che non possa essere stato prodotto da me. Ma per quel che riguarda l’idea di Dio e’ la sola idea nella quale vi e’ qualcosa che non e’ potuta venire da me stesso, in quanto io non posseggo nessuna delle perfezioni che sono rappresentate in questa idea. Cartesio afferma, in generale, che la causa di un’idea deve sempre avere almeno tanta perfezione quanta e’ quella che l’’idea rappresenta. Percio’ la causa dell’idea di una sostanza infinita non puo’ essere che una sostanza infinita; e la semplice presenza in me dell’idea di Dio dimostra l’esistenza di Dio. Questa dimostrazione cartesiana si modella senza dubbio sulle dimostrazioni scolastiche fondate sul principio di casualita’; ma a differenza di esse non parte dalle cose sensibili per giungere,attraverso l’impossibile di risalire all’infinito, alla causa prima; ma parte dalla semplice idea di Dio e risale immediatamente dal suo contenuto rappresentativo alla sua causa. La prova e’ cosi’ unicamente fondata sulla natura che Cartesio attribuisce alla idee ed e’ tipica del cartesianesimo. In secondo luogo, a riconoscere l’esistenza di Dio posso giungere, secondo Cartesio, dalla stessa considerazione della finitudine del mio io. Io sono finito ed imperfetto, com’e’ dimostrato dal fatto che dubito. Ma se fossi la causa di me stesso, mi sarei date le perfezioni che concepisco e che sono appunto contenute nell’idea di Dio. E’ dunque evidente che non mi sono creato da me e che ha dovuto crearmi un essere che ha tutte le perfezioni di cui io ho la semplice idea. Anche il punto di partenza di questa seconda prova e’ la presenza nell’uomo dell’idea di Dio; in piu’ questa seconda prova e’ fondata sul riconoscimento da parte dell’uomo della propria finitudine. Cartesio stabilisce una stretta connessione tra la natura finita dell’uomo e l’idea di Dio. “ Quando rifletto su di me, egli dice, non solamente conosco di essere una cosa imperfetta, incompleta e dipendente da altro, che tende e aspira senza posa ad alcunche’ di migliore e di piu’ grande, ma conosco anche in pari tempo che colui dal quale dipendo possiede in se tutte le grandi cose alle quali aspiro e di cui trovo in me le idee, e le possiede non indefinitamente e in potenza, ma in realta’, attualmente e infinitamente, e che percio’ e’ Dio”.Non sarebbe possibile che la mia natura fosse tale qual’e’, cioe’ finita ma dotata dell’idea dell’infinito, se l’essere infinito non ci fosse. L’idea di Dio e’ dunque “ come la marca dell’artigiano impressa sulla sua opera e non e’ neppure necessario che questa marca sia qualcosa di differente dalla stessa opera”. In altri termini la stessa finitudine costitutiva dell’uomo implica il rapporto causale dell’uomo con Dio, rapporto di cui l’idea di Dio e’ l’espressione e la rivelazione immediata. Entrambe le prove ora esposte assumono come punto di partenza l’idea di Dio. Ma gia’ la Scolastica aveva fornito una prova che pretendeva di muovere dalla semplice idea di Dio all’esistenza di Dio: la prova ontologica di S.Anselmo d’Aosta. Questa prova rientrava perfettamente nella logica del procedimento di Cartesio. E Cartesio la fa sua, presentandola fornita della stessa necessita’ di una dimostrazione matematica. Come non e’ possibile concepire un triangolo che non abbia gli angoli interni uguali a due retti, cosi’ non e’ possibile concepire Dio non esistente. L’essere sovranamente perfetto non puo’ essere pensato privo di quella perfezione che e’ l’esistenza: l’esistenza gli appartiene dunque con la stessa necessita’ con cui una proprieta’ del triangolo appartiene al triangolo. E’ evidente che questa prova si differenzia dalle due precedenti perche’ considera l’idea di Dio, non in rapporto all’uomo e alla sua finitudine, ma in se stessa, e in quanto essenza di Dio. E su questa essenza vertono i chiarimenti che Cartesio ha dato sulla prova. La necessita’ dell’esistenza di Dio deriva dalla sovrabbondanza d’essere che e’ propria della sua essenza. Per questa sovrabbondanza Dio pone se stesso nell’esistenza comportandosi in qualche modo verso di se’ come una causa efficiente. Pur senza esservi in Dio distinzione tra l’esistenza e la causa efficiente (che sarebbe assurda), la casualita’ efficiente rende in qualche modo intelligibile la necessita’ della sua esistenza. Dio esiste in virtu’ della sua stessa essenza, per la sovrabbondanza di essere, quindi di perfezione, che lo costituisce. Le prove dell’esistenza di Dio, avendo tutte come comune punto di partenza l’idea di Dio, costituiscono la semplice esplicazione della natura finita dell’uomo. Nell’atto di dubitare e di riconoscersi imperfetto, l’uomo si rapporta necessariamente all’idea della perfezione e quindi alla causa di questa idea, che e’ Dio. L’affermazione di Cartesio che l’idea di Dio e’ come la marca che l’artigiano imprime sulla sua opera e che non e’ necessario che questa marca sia alcunche’ di diverso dall’opera stessa significa appunto che la ricerca per cui l’uomo giunge alla certezza di se e’ identica alla ricerca per cui giunge alla certezza di Dio. Una volta riconosciuta l’esistenza di Dio, il criterio dell’evidenza trova la sua ultima garanzia. Dio per la sua perfezione non puo’ ingannarmi: la facolta’ di giudizio che ho ricevuto da lui non puo’ essere tale da indurmi in errore, se viene adoperata rettamente. Questa considerazione toglie ogni possibilita’ di dubbio su tutte le conoscenze che si presentano all’uomo come evidenti.La possibilita’ del dubbio permane invece per l’ateo; giacche’ quanto meno potente sara’ colui che gli riconoscera’ come autore del suo essere, tanto piu’ potra’ dubitare se la sua natura non sia cosi’ imperfetta da ingannarlo anche nelle cose che gli sembrano piu’ evidenti. L’ateo non potra’ dunque raggiungere la scienza, cioe’ la conoscenza certa e sicura, se non riconoscera’ di essere stato creato da un vero Dio, principio di ogni verita’, che non puo’ essere ingannatore. Cosi’ la prima e fondamentale funzione che Cartesio riconosce a Dio e’ quella di essere il principio e il garante di ogni verita’. E in realta’ il concetto cartesiano di Dio e’ privo di ogni carattere religioso. Come notera’ Pascal, il Dio di Cartesio non ha niente a che fare con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, con il Dio cristiano; e’ semplicemente l’autore delle verita’ geometriche e dell’ordine del mondo. Ci si potrebbe aspettare che un Dio invocato come garante delle verita’ evidenti fosse in qualche modo vincolato da queste verita’; e che esse fossero riconosciute da Cartesio indipendenti da Dio. Ma la dottrina cartesiana su questo punto e’ precisamente l’opposto. Le cosiddette verita’ eterne che esprimono l’essenza immutabile delle cose non sono per nulla indipendenti dalla volonta’ di Dio: e’ stato Dio a crearle, come ha creato ogni altra creatura. Dice Cartesio: “Voi domandate chi ha necessitato Dio a creare queste verita’; ed io dico che egli e’ stato libero di fare che non fosse vero che tutte le linee tirate dal centro della circonferenza fossero uguali, com’e’ stato libero di non creare il mondo. Ed e’ certo che queste verita’ non sono congiunte dalla sua essenza piu’ necessariamente delle altre creature”. Questa dottrina si lega strettamente, per quanto appaia paradossale, al nucleo centrale del cartesianesimo. Le verita’ eterne potrebbero essere indipendenti da Dio solo se fossero per lui stesso necessarie; e potrebbero per lui essere tali solo se facessero parte della necessita’ della sua natura. Ma in tal caso la ragione che in esse si manifesta sarebbe la stessa ragione divina; e la ragione umana e quella divina coinciderebbero, secondo il vecchio concetto di stoicismo. Cartesio ritiene invece che la ragione sia la facolta’ specificamente umana; vede in Dio piuttosto una potenza inesauribile, cioe’ un’infinita’ di potenza piu’ che di un’infinita’ di intelletto; gli riconosce pertanto la piu’ ampia facolta’ di arbitrio ma nello stesso tempo affida solo all’uomo la responsabilita’ e la guida della ragione. Mentre la riduzione delle verita’ eterne a decreti di Dio non e’ che la trascrizione teologica del postulato della loro immutabilita’, questa trascrizione evita l’identificazione della ragione umana con Dio. Il mondo Con la dimostrazione dell’esistenza di Dio e del suo attributo di veridicita’, le regole del metodo hanno trovato la loro conferma definitiva. Cartesio puo’ passare alla terza parte del suo compito che e’ quello di dimostrare la loro fecondita’ nel dominio del sapere scientifico. Ed in primo luogo la regola dell’evidenza, ormai pienamente giustificata e garantita, consente di eliminare il dubbio che era stato avanzato in principio sulla realta’ delle cose materiali. Difatti io non posso dubitare che c’e’ in me una certa facolta’ passiva di sentire, cioe’ di ricevere e di riconoscere le idee delle cose sensibili. Ma essa mi sarebbe inutile se non ci fosse in me o in altri una facolta’ attiva capace di formare o produrre le idee stesse. Ora questa facolta’ attiva non puo’ essere in me, perche’ io sono soltanto una sostanza pensante, ed essa non presuppone per nulla il mio pensiero, giacche’ le idee che essa produce mi sono spesso rappresentate senza che io vi contribuisca ed anzi contro mia voglia. Bisogna dunque che appartenga ad una sostanza diversa; la quale non puo’ essere che o un corpo, cioe’ una natura corporea nella quale sia contenuto realmente cio’ che nelle idee e’ contenuto rappresentativamente, oppure Dio stesso, o infine qualche altra creatura piu’ nobile del corpo. Ma e’ evidente che Dio, non essendo ingannatore, non m’invia queste idee immediatamente e neppure per mezzo di qualche creatura che non le contenga realmente. Egli mi ha dato una forte inclinazione a credere che esse mi sono inviate da cose corporee; e mi avrebbe quindi ingannato se esse fossero prodotte da altro. Bisogna riconoscere che c’e’ una sostanza o realta’ estesa che ha caratteri diversi da quella sostanza pensante che sono io stesso: sostanza divisibile, appunto perche’ estesa, mentre lo spirito e’ indivisibile e non ha parti. La sostanza estesa non possiede tuttavia tutte le qualita’ che noi percepiamo di essa. La grandezza, la figura, il movimento, la situazione, la durata, il numero, sono certamente sue qualita’ proprie; ma il colore, l’odore, il sapore, il suono, ecc., non esistono come tali nella realta’ corporea e corrispondono in questa realta’ a qualcosa che noi non conosciamo. Cartesio stabilisce anch’egli la distinzione tra qualita’ oggettive e soggettive, gia fatta da Galilei. Per lo stesso motivo, cioe’ in virtu’ della veridicita’ divina, io devo ammettere che ho un corpo, che e’ mal disposto quando sento dolore, che ha bisogno di mangiare e di bere quando ho le sensazioni della fame, della sete, ecc. Tali sensazioni dimostrano che io non sono alloggiato nel mio corpo come un pilota nel suo naviglio, ma gli sono strettamente congiunto, in modo da formare un tutto solo con lui. Senza questa unione io non potrei percepire piacere o dolore per cio’ che accade nel corpo, ma conoscerei le sensazioni di piacere e di dolore, di fame, di sete, ecc., con il puro intelletto, come cose che non concernessero il mio essere.Tali sensazioni sono in realta’ “maniere confuse di pensare” che provengono dalla stretta unione dello spirito con il corpo. D’altronde quest’unione presuppone una distinzione reale tra spirito e corpo, in quanto io posso pensare di esistere come pura sostanza spirituale senza ammettere in me nessuna parte o elemento di altra natura; e dall’altro lato devo riconoscere al corpo caratteri (come la divisibilita’) che la sostanza spirituale rifiuta. Questo dualismo sostanziale di anima e corpo e’ stato spesso considerato come uno degli aspetti deteriori della filosofia cartesiana. In realta’, quel che c’e’ di nuovo in tale filosofia e’ il riconoscimento della sostanzialita’ del corpo: il quale nella concezione tradizionale ( aristotelica) era considerato non come sostanza ma come organo o strumento della sostanza anima; o come dotato (secondo l’agostinismo medievale) di una sostanzialita’ parziale o imperfetta.Riconoscere che il corpo e’ sostanza, significa, in primo luogo, per Cartesio, rendere possibile la considerazione e lo studio del corpo come tale e cioe’ senza riferimento all’anima o ai suoi poteri: sicche’ quel riconoscimento appare a Cartesio come la prima condizione per lo studio scientifico del corpo umano; e in tal senso influi’ sullo sviluppo degli studi biologici. Comunque, sia come corpo umano sia come corpo naturale, la sostanza corporea ha , secondo Cartesio, un solo carattere fondamentale, cioe’ l’estensione. La materia puo’ essere concepita priva di tutte le qualita’ che possiamo attribuirle (peso, colore, ecc.) non pero’ priva dell’estensione in lunghezza, larghezza e profondita’: questo e’ dunque il suo attributo fondamentale.Il concetto dello spazio geometrico si identifica con l’estensione; esso e’ frutto dell’astrazione per cui si eliminano dai corpi tutte le loro proprieta’ riducendoli al loro attributo fondamentale. La riduzione cartesiana della corporeita’ all’estensione e’ il fondamento del rigoroso meccanismo che domina tutta la fisica cartesiana. Tutte le proprieta’ della materia si riducono alla sua divisibilita’ in parti e alla mobilita’ di queste parti. Il movimento delle parti estese deve essere dunque l’unico principio di spiegazione di tutti i fenomeni della natura. Cartesio ritiene che la prima causa del movimento sia Dio stesso, che al principio ha creato la materia con una determinata quantita’ di quiete e di moto, ed in seguito conserva in essa immutabile questa quantita’. Dio infatti e’ immutabile, non solo in se stesso, ma anche in ogni sua operazione; sicche’, eccettuati quei mutamenti, rilevati dall’esperienza, che non suppongono nessun mutamento nei decreti di Dio, nessuna altra variazione dobbiamo supporre nelle sue opere. Da questo principio della immutabilita’ divina segue infatti come prima legge di natura il principio d’inerzia: ogni cosa, in quanto e’ semplice e indivisa, persevera sempre nel medesimo stato e non puo’ essere mutata se non da una causa esterna. La seconda legge, anche’essa derivata dall’immutabilita’ divina, e’ che ogni cosa tende a muoversi in linea retta. La terza legge e’ il principio della conservazione del movimento, per cui nell’urto dei corpi tra di loro il movimento non viene perduto ma la sua quantita’ rimane costante. Queste tre leggi bastano, secondo Cartesio, a spiegare tutti i fenomeni della natura e la struttura dell’intero universo. Il quale e’ una macchina gigantesca, da cui e’ esclusa ogni forza animata ed ogni causa finale. Come Bacone, Cartesio ritiene legittimo considerare il finalismo della natura del dominio dell’etica: ma ritiene questa considerazione “ridicola e stupida” nella fisica “giacche’, egli dice, non dubitiamo che esistono, o esistettero un tempo e hanno gia’ cessato di essere, molte cose che non sono mai state vedute o comprese dagli uomini, e che quindi non furono loro di nessuna utilita’”. E’ dunque un semplice atto di superbia immaginare che tutto sia stato creato da Dio per l’esclusivo vantaggio dell’uomo. Con la sola azione delle tre leggi ora esposte Cartesio ritiene di poter spiegare come si sia formato l’ordine attuale del mondo, a partire dal caos. La materia primitiva era composta di particelle uguali in grandezza e in movimento; queste particelle si muovevano sia intorno al proprio centro sia le une rispetto alle altre, in modo da formare dei vortici fluidi che, componendosi variamente tra loro, hanno dato origine al sistema solare e quindi alla terra. Non solo l’universo fisico ma anche le piante e gli animali e lo stesso corpo umano sono macchine. Per spiegare la vita dei corpi organici non c’e’ bisogno di ammettere un’anima vegetativa o sensitiva, ma solo le stesse forze che agiscono nel resto dell’universo. Cartesio vede una conferma del carattere puramente meccanico dell’organismo umano nella circolazione del sangue, che attribuisce al maggior calore che risiede nel cuore (Disc., V). La circolazione era gia’ stata studiata e descritta da Harvey (1628) che ne aveva additato la causa nella contrazione e distensione del muscolo cardiaco. Ma Cartesio crede (sbagliando) di correggere la spiegazione di Harvey, perche’, egli dice, “ supponendo che il cuore si muova nel modo che Harvey descrive, bisogna immaginare qualche facolta’ che produce questo movimento, la natura della quale e’ molto piu’ difficile a concepirsi di tutto cio’ che si pretende spiegare con essa”.