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INDICE SOMMARIO
ESPERIENZA E RICERCA
L. Barreca, L’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare (art. 614bis c.p.c.) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
OPINIONI E COMMENTI
F. De Stefano, Note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614-bis c.p.c. . . . . . . . . . . .
P.R. Lodolini, L’esecuzione individuale del creditore fondiario . . . . . . . .
A. Sperti, L’equiparabilità, a limitati effetti, del pignoramento mobiliare mancato
al negativo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
RASSEGNE DI GIURISPRUDENZA
E. Astuni, Oggetto del pignoramento . . . . . . . . . . . . . . . . .
M. Orlando, Esecuzioni civili, sequestri, misure di prevenzione e confisca . . .
DECISIONI COMMENTATE
Trib. Terni, 9 febbraio 2009, n. 194, con nota di E. Astuni, Riflessioni sulla
collocazione sussidiaria dei privilegi mobiliari (art. 2776 c.c.) . . . . . . . .
Trib. Roma, 17 marzo 2009; Trib. Catanzaro, Sez. I, 24 settembre 2009; Trib.
Catanzaro, Sez. II, 28 dicembre 2009 . . . . . . . . . . . . . . . . .
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RASSEGNA DELLE DECISIONI DELLA CASSAZIONE
4o TRIMESTRE 2009
a cura di Gabriella Tota
Cass., S.U., 24 dicembre 2009, n. 27365 . .
Cass., Sez. III, 13 ottobre 2009, n. 21682 . .
Cass., Sez. III, ord. 22 ottobre 2009, n. 22488
Cass., Sez. III, 28 ottobre 2009, n. 22794 . .
Cass., Sez. III, 17 novembre 2009, n. 24215 .
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ABBREVIAZIONI
Arbitrati e appalti
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Archivio civile
Archivio della responsabilità civile
Archivio delle locazioni e condominio
Archivio di diritto pubblico
Archivio finanziario
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dei sinistri stradali
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Archivio penale
Assicurazioni
Assistenza sociale (l’)
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Bancaria
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Cassazione penale
Cassazione penale massimario annotato
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Consiglio Nazionale del Notariato, Studi e materiali
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Contratto e impresa
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Corriere tributario
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Danno e responsabilità
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ESPERIENZA E RICERCA
LUCIANA BARRECA
L’attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare
(art. 614-bis c.p.c.)
Sommario: 1. Ambito di applicazione. – 2. Presupposti, natura giuridica e caratteri dell’istituto. –
3. Provvedimento di rigetto. – 4. Provvedimento di accoglimento: competenza e forma. – 4.1. Verbale
di conciliazione. – 4.2. Criteri di determinazione dell’ammontare. – 4.3. Quantificazione progressiva. –
4.4. Effetti del provvedimento di accoglimento. – 5. Opposizione all’esecuzione. – 6. Appello ed altre
impugnazioni. – 7. Rapporti con l’esecuzione diretta degli obblighi di fare. – 8. Rapporti con l’esecuzione
diretta degli obblighi di non fare.
1. Ambito di applicazione.
L’art. 614-bis c.p.c. è stato introdotto dall’art. 49, 1o co., l. 18-6-2009, n. 69.
Già la rubrica del nuovo articolo del codice di rito («Attuazione degli obblighi di
fare infungibile e di non fare») delimita l’ambito di applicazione dell’istituto in esso
previsto.
Quanto a quest’ultimo, s’impone una precisazione: la norma non ne contiene una
denominazione; né, allo stato, ne risulta invalsa una prevalente nell’uso comune. Si
adotta, a volte, l’espressione di astreinte, avvalendosi cosı̀ del nome del corrispondente istituto francese, soltanto analogo ma con significative differenze di disciplina;
altre volte, quella di (misura) coercitiva, che allude alla funzione; altre volte, ancora,
si utilizzano i termini di sanzione (pecuniaria) civile o pena privata, che si riferiscono
alla natura giuridica; più genericamente, si potrebbe parlare di condanna accessoria
o di provvedimento (di condanna) ai sensi, appunto, dell’art. 614-bis c.p.c.
In coerenza con la collocazione sistematica nel titolo IV del libro III del codice di
procedura («Dell’esecuzione forzata di obblighi di fare e di non fare»), il nuovo
istituto si applica agli obblighi di fare infungibile ed agli obblighi di non fare; non si
applica agli obblighi di fare fungibile (cui pure sono riferite le altre norme del
medesimo titolo) né a quelli di consegna o rilascio ed alle obbligazioni pecuniarie
(disciplinati in altri titoli, rispettivamente III e II, dello stesso libro III).
Inoltre, la misura coercitiva non si applica alle «controversie di lavoro subordinato pubblico e privato» ed a quelle che riguardano «rapporti di collaborazione
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
coordinata e continuativa di cui all’articolo 409». L’esclusione dell’applicazione dell’istituto a tali controversie è espressamente sancita dall’art. 614-bis, 1o co., ult. inc.,
c.p.c. Si tratta di una scelta di politica legislativa, che non trova giustificazione tecnico-giuridica e che è stata criticata dai primi commentatori ed anche sospettata di
illegittimità costituzionale. Essa preclude l’applicazione della misura coercitiva nel
caso, piuttosto frequente, dell’inadempimento del datore di lavoro all’obbligo di
reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro; si tratta di prestazione di facere
infungibile, il cui mancato spontaneo adempimento continua a poter essere sanzionato soltanto con la condanna al risarcimento del danno.
Malgrado tale specifica esclusione, si può dire che caratteristica dell’istituto sia
la sua generale applicazione, che lo distingue da istituti aventi finalità di esecuzione c.d. indiretta già introdotti nell’ordinamento italiano ma aventi carattere settoriale:
— l’art. 140, 7o co., codice del consumo che, nel modificare l’art. 3, co. 5-bis,
l. 281/1998, prevede che il giudice accogliendo la domanda possa imporre, a tutela
dei consumatori, il pagamento di una somma di denaro a carico del professionista
per il caso di inadempimento o di ritardo;
— le inibitorie di diritto industriale (artt. 124 e 131, codice della proprietà industriale) e del diritto d’autore (art. 163, l. di protezione del diritto d’autore), che
contengono previsioni analoghe a quella successivamente riprodotta nel codice del
consumo;
— l’art. 709-ter, 2o co., n. 4, c.p.c., introdotto dall’art. 2, 2o co., l. n. 54 del 2006
(c.d. sull’affidamento condiviso), che prevede la condanna del genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria nei giudizi di separazione personale tra coniugi nei casi previsti dalla medesima norma.
2. Presupposti, natura giuridica e caratteri dell’istituto.
I presupposti del provvedimento sono delineati nel primo inciso della norma:
— richiesta di parte;
— provvedimento di condanna ad una prestazione principale di fare infungibile o
di non fare.
Giova sottolineare che, per gli obblighi di non fare, non è previsto che si debba
trattare di prestazione infungibile; quindi, è da ritenere che la norma sia applicabile
anche quando la prestazione di non fare sia fungibile e, quindi, eseguibile in via
diretta ai sensi dell’art. 612 c.p.c.
Non è invece presupposto della condanna ex art. 614-bis c.p.c. l’esistenza di un
danno, già prodottosi o prevedibile.
Consegue ai presupposti di cui sopra che il nuovo istituto abbia la natura giuridica
di sanzione pecuniaria civile, cioè di pena privata, ed abbia la funzione coercitiva
della volontà del debitore per ottenere l’adempimento volontario dell’obbligo.
Esperienza e ricerca
507
Dal momento che la sanzione deve essere contenuta in altro capo del medesimo
provvedimento che pronuncia la condanna del debitore all’adempimento dell’obbligo, la misura è accessoria e dipendente dalla condanna principale.
Sembra da preferire la tesi per la quale la richiesta di parte non integra un capo
autonomo di domanda. Questo comporta che non si possa ritenere soggetta alle
preclusioni processuali riferite alla proposizione delle domande nuove: quindi, può
essere proposta al momento della precisazione delle conclusioni; per la prima volta
in appello; ma anche in Cassazione, nell’eventualità che decida nel merito ai sensi
dell’art. 384, 2o co., ult. inc., c.p.c.
È da condividere la definizione, data da uno dei primi commentatori, di presupposto processuale per l’esercizio del potere del giudice; al giudice è rimessa ogni
valutazione in merito all’an ed al quantum delle somme dovute.
La natura accessoria del provvedimento presuppone che venga accolta la domanda principale di condanna ad un obbligo di fare infungibile o ad un obbligo di
non fare e che questa condanna sia contenuta in un provvedimento giudiziale,
avente la forma di cui si dirà.
3. Provvedimento di rigetto.
La richiesta del creditore deve essere rigettata dal giudice se la condanna riguarda
un obbligo di fare fungibile o se la controversia rientra tra quelle previste dagli artt.
409 ss. c.p.c. o riguarda un rapporto di lavoro pubblico.
Oltre alle eccezioni disposte dall’art. 614-bis c.p.c., la norma lascia al giudice
un potere discrezionale molto ampio di rigetto della richiesta di misura coercitiva quando «ciò sia manifestamente iniquo». Si tratta di una clausola generale
rispetto alla quale appare difficile un’esemplificazione casistica, ma anche l’elaborazione di criteri interpretativi definiti. Appare perciò preferibile procedere per
esclusioni: non è manifestamente iniqua, in sé, la condanna alla pena privata nel
caso di inadempimento di prestazioni di natura personale, od anche personalissima.
Inoltre, l’iniquità deve essere “manifesta”, cioè la condanna deve apparire prima
facie ingiusta, in quanto in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento,
senza che si debba operare un complesso bilanciamento tra l’interesse del creditore
all’adempimento dell’obbligazione (cui, per definizione, egli ha diritto: poiché se
non vi avesse diritto, verrebbe meno la condanna principale e quindi non si porrebbe un problema di pronuncia della misura coercitiva) ed il sacrificio imposto al
debitore.
Per essere manifestamente iniqua la condanna al pagamento della pena pecuniaria
dovrebbe determinare, di per sé, una palese sproporzione tale che il sacrificio del
debitore verrebbe aggravato in misura notevolmente eccessiva rispetto all’entità e/o
alla durata del suo inadempimento.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
4. Provvedimento di accoglimento: competenza e forma.
Il provvedimento di accoglimento è una pronuncia di condanna al pagamento di
una «somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza
successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento».
Competente ad emettere questo provvedimento è il giudice del merito, mai il
giudice dell’esecuzione.
Il provvedimento che di norma contiene la condanna accessoria alla pena privata
è la sentenza di condanna.
Una parte della dottrina tende ad escludere che possa essere anche un’ordinanza,
nel presupposto che questa non sia atta al giudicato, quindi non possa contenere
una statuizione definitiva sulla sussistenza o meno del diritto vantato da una delle
parti e dell’obbligazione cui farebbe riferimento la misura coercitiva.
L’assunto trova smentita nelle norme della l. 18-6-2009, n. 69 che hanno introdotto il procedimento sommario di cognizione (artt. 702-bis-702-quater c.p.c.).
Questo procedimento è destinato a concludersi con un’ordinanza che, quando è di
accoglimento, oltre ad essere provvisoriamente esecutiva ed a costituire titolo per
l’iscrizione di ipoteca e per la trascrizione (art. 702-ter, 6o co., c.p.c.) è destinata a
passare in giudicato se non appellata nel termine di trenta giorni previsto dall’art.
702-quater c.p.c. Quindi, certamente l’ordinanza che conclude il procedimento
sommario può contenere la condanna accessoria ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c.
Altre ordinanze di condanna previste dal codice di rito, costituenti titolo esecutivo
e pronunciate nell’ambito di un processo ordinario di cognizione di primo grado sono
quelle degli artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c.: è da escludere in radice che queste possano contenere una condanna ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c. poiché nessuna di
tali ordinanze può essere pronunciata per la condanna ad obblighi di fare infungibile
o di non fare, ma soltanto per il pagamento di somme di denaro ovvero per la consegna
o il rilascio di beni. Analogamente è a dirsi per il decreto ingiuntivo.
Ancora, è da escludere che l’art. 614-bis c.p.c. sia direttamente applicabile ai
provvedimenti cautelari e possessori, che, come da giurisprudenza formatasi sulla
norma dell’art. 669-duodecies c.p.c., sono suscettibili di “attuazione” e non di vera e
propria esecuzione, sicché non trovano applicazione le norme in materia di esecuzione forzata. Secondo un’opinione, sarebbe possibile che il giudice della cautela,
per conferire al proprio comando maggiore efficacia, lo munisca di una misura
coercitiva modellata sull’istituto previsto dalla norma in esame.
L’opinione può essere condivisa per i provvedimenti d’urgenza, per definizione a
contenuto atipico, nei quali la misura coercitiva può assolvere alla funzione di assicurare, al meglio, pur se provvisoriamente, «gli effetti della decisione sul merito»;
resterebbe soltanto da verificare se, in tale ipotesi, la misura possa essere concessa
d’ufficio o necessiti di richiesta di parte.
Perplessità suscita invece l’opinione se riferita ai provvedimenti nunciatori e possessori: quanto ai primi, perché vi è già una norma, l’art. 691 c.p.c., che espressa-
Esperienza e ricerca
509
mente prevede la sanzione per la contravvenzione al divieto del giudice (di compiere
l’atto dannoso o di mutare lo stato di fatto), vale a dire all’obbligo di non fare,
consentendo la rimessione in pristino a spese del contravventore (mentre gli obblighi di facere imposti ai sensi degli artt. 1171 e 1172 sono di norma fungibili); quanto
ai secondi, perché il contenuto dei provvedimenti è tipizzato dagli artt. 1168 e 1170
c.c. e, di regola, consiste nell’ordine di un facere fungibile.
4.1. Verbale di conciliazione.
È controverso se la misura coercitiva prevista dall’articolo 614-bis c.p.c. possa
essere applicata anche con il verbale di conciliazione. Secondo un’opinione, la risposta dovrebbe essere positiva quantomeno per i verbali di conciliazione giudiziale: si sostiene che la funzione riservata dall’ordinamento alla conciliazione giudiziale consentirebbe di affermare che il giudice, ove richiesto dalle parti, potrebbe
stabilire una pena pecuniaria per il caso di inadempimento degli obblighi di fare
infungibile contenuti nel verbale. Questa soluzione appare in contrasto con la lettera della norma (che fa riferimento ad un «provvedimento di condanna») e non è
del tutto coerente col ruolo che il codice riserva al giudice nella formazione del
processo verbale di avvenuta conciliazione (dovendosi prevedere un provvedimento
giudiziale che finirebbe per aggiungersi all’accordo transattivo).
Altrettanto discutibile è la tesi per la quale nel verbale di conciliazione potrebbe
essere inserita una clausola concordata che preveda l’applicazione della sanzione
pecuniaria, fissandone la misura, alle condizioni del citato art. 614-bis: infatti, ai
sensi di quest’ultima norma, il provvedimento che impone la misura coercitiva deve
essere giudiziale; quindi dovrebbe ritenersi inammissibile la fonte contrattuale, essendo rimessa all’autonomia delle parti soltanto la possibilità di prevedere una clausola penale ai sensi del codice civile.
Inoltre, è da escludere l’applicazione dell’art. 614-bis c.p.c. alle conciliazioni stragiudiziali, che tuttavia si concludano con un atto a cui «la legge attribuisce espressamente efficacia esecutiva»: è il caso del processo verbale di conciliazione dinanzi
al consulente tecnico preventivo ai sensi dell’art. 696-bis c.p.c. e del processo verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 40, 8o co., d.lg. 17-1-2003, n. 5. In entrambi
questi casi la verifica richiesta al giudice ha carattere formale ed estrinseco al contenuto dell’accordo; pertanto, se questo contiene un’obbligazione di fare infungibile o di non fare, non può certo essere il giudice dell’exequatur ad imporre una
misura coercitiva per la sua esecuzione.
4.2. Criteri di determinazione dell’ammontare.
Il contenuto del provvedimento di condanna ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c. non è
determinato dalla norma, né quanto ai beneficiari della sanzione né quanto all’entità
minima e massima della sanzione irrogabile.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
La lettera è tale che non si può dubitare che il pagamento della pena sia a favore
del creditore, avente diritto alla prestazione principale.
La misura della sanzione va determinata dal giudice seguendo i criteri previsti dal
secondo comma:
— il valore della controversia: maggiore sarà questo, più alta sarà la pena;
— la natura della prestazione: potendosi distinguere prestazioni strettamente personali ed altre patrimoniali; mentre per queste ultime, il criterio potrebbe essere
irrilevante per le prime la sanzione potrà essere più bassa se la prestazione è maggiormente inerente la persona del debitore e viceversa;
— il danno quantificato o prevedibile: si è detto che la sanzione non ha natura
risarcitoria e quindi la sua irrogazione prescinde dalla prova dell’esistenza di un
danno, né il riconoscimento di una somma a titolo risarcitorio potrà limitare la
misura della sanzione. Tuttavia l’entità e la prevedibilità di un danno vanno tenuti
presenti per la determinazione di quest’ultima, nel senso che dovrà esservi un rapporto ragionevole tra le due misure;
— ogni altra circostanza utile: tra queste, potrebbe assumere rilievo la maggiore o
minore volontarietà dell’inadempimento, non anche le cause ostative all’adempimento spontaneo (di cui si dirà nel prosieguo, trattando dell’opposizione all’esecuzione).
4.3. Quantificazione progressiva.
In base a quanto disposto dal primo comma, inoltre, la determinazione della pena
deve essere riferita ad «ogni violazione o inosservanza successiva» ovvero ad «ogni
ritardo nell’esecuzione del provvedimento». In effetti, la violazione può essere fatta
una tantum (come nell’ipotesi in cui si imponga un facere da compiersi una volta per
tutte: es. l’eliminazione di una fonte di inquinamento) ovvero può essere reiterata
(come nell’ipotesi in cui si violi più volte un divieto: es. un divieto di passaggio in un
fondo; ovvero si violi più volte un obbligo di fare o di pati: es. tollerare il passaggio
altrui sul proprio fondo); ancora, l’esecuzione da compiersi entro un certo tempo,
può essere posta in essere oltre il termine imposto. In tutte tali ipotesi il giudice
potrà quantificare variamente la sanzione:
— in misura crescente man mano che le violazioni si ripetono: es. 100 per la prima
violazione, una maggior somma per ciascuna delle successive (secondo progressioni
che possono essere geometriche, aritmetiche, esponenziali o rispondere ad altri criteri, purché determinati nel provvedimento);
— in misura crescente man mano che il termine dell’adempimento si allontani,
secondo unità di tempo prestabilite: es. 100 per ogni giorno o settimana o mese di
ritardo (secondo le progressioni di cui sopra).
Discusso è se debba essere apposto un termine finale, oltre il quale ogni violazione
o ritardo successivi non incrementino la misura della sanzione: sembra da preferire
Esperienza e ricerca
511
la soluzione negativa perché rende l’istituto più utile alla funzione coercitiva perseguita.
4.4. Effetti del provvedimento di accoglimento.
Dispone l’art. 614-bis c.p.c. che il provvedimento di condanna costituisce titolo
esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza.
Quindi, il creditore, in caso di mancata esecuzione spontanea (o volontaria) da
parte dell’obbligato, ha diritto ad agire esecutivamente in danno di quest’ultimo con
l’instaurazione di un procedimento per espropriazione forzata ai sensi degli artt. 483
ss. c.p.c., previa notificazione di un atto di precetto per il pagamento della somma
determinata dal giudice.
Sebbene qualcuno abbia manifestato opinione contraria, è da escludere decisamente che il creditore necessiti di un ulteriore accertamento giudiziale sull’inadempimento dell’obbligato prima di porre in esecuzione il provvedimento già ottenuto
all’esito del giudizio di merito, ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c.
Tale provvedimento, come detto, è titolo esecutivo perciò suscettibile di esecuzione diretta; inoltre, esso, come tutte le statuizioni di condanna in primo grado
(arg. ex art. 282 c.p.c.), è provvisoriamente esecutivo anche prima del passaggio in
giudicato della sentenza che lo contiene.
Il titolo esecutivo che contenga la condanna al pagamento della sanzione per
periodi di tempo o violazioni individualmente determinati potrà essere portato ad
esecuzione con distinti precetti notificati alla scadenza di ciascun periodo o dopo il
compimento di ciascuna violazione od inosservanza. È da escludere invece che il
creditore possa frazionare il proprio credito per la sanzione intimando precetti per
pagamenti parziali. Un’opposizione all’esecuzione da parte del debitore che fosse
motivata con tale comportamento abusivo del creditore sarebbe fondata.
5. Opposizione all’esecuzione.
Infatti, se il debitore intende contestare il diritto del creditore all’espropriazione
forzata deve proporre opposizione, ai sensi dell’art. 615 c.p.c.
I motivi di opposizione si possono riferire sia alla prestazione principale che alla
sanzione pecuniaria accessoria. Tuttavia, come di norma, non possono essere relativi
a fatti od eccezioni che il debitore avrebbe potuto dedurre come motivi di impugnazione del provvedimento di condanna sia alla prima che alla seconda (dei quali
si dice nel paragrafo seguente).
Egli potrebbe contestare che la prestazione principale sia stata adempiuta e
quindi non sussistano la violazione o l’inosservanza o il ritardo ovvero che il diritto
del creditore alla prestazione principale sia venuto meno per qualunque fatto successivo alla formazione del giudicato. Mentre nel primo caso manca il presupposto
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
della sanzione accessoria (cioè l’inadempimento); nel secondo caso, il venir meno
della condanna principale fa venire meno la sanzione poiché questa, come detto, ha
natura accessoria.
L’opponente ai sensi dell’art. 615 c.p.c. potrebbe dedurre che la sanzione sia stata
pagata o che il diritto del creditore alla sanzione sia venuto meno per altri fatti,
estintivi o modificativi, successivi alla formazione del giudicato.
Un altro motivo di opposizione all’esecuzione potrebbe consistere nella contestazione dei criteri di calcolo della sanzione risultanti dal precetto poiché non conformi al titolo; onde evitare contestazioni del debitore concernenti la quantificazione della sanzione è necessario che il provvedimento di condanna specifichi dettagliatamente i criteri di calcolo (e che questi siano dettagliatamente riportati nel
precetto, con riferimento alle circostanze di fatto che consentono una determinata
quantificazione).
Al riguardo va sottolineato che il provvedimento di condanna alla pena pecuniaria, in talune ipotesi, potrebbe non essere riferito ad un credito liquido e nemmeno
liquidabile al momento della sua emissione, ma liquidabile soltanto ex post, al verificarsi delle violazioni o delle inosservanze in esso contemplate; esso sarà comunque
titolo esecutivo. L’apparente contrasto con l’art. 474, 1o co., c.p.c. è superato per la
testuale previsione dell’art. 614-bis, 1o co., 2o inc., c.p.c.
6. Appello ed altre impugnazioni.
Quando il giudice pronuncia una sentenza con la quale accoglie la domanda dell’attore di condanna della controparte ad una prestazione di facere infungibile o di
non facere, la pronuncia giudiziale può avere un duplice contenuto: essa contiene la
condanna in forma specifica e, se vi è stata richiesta, la condanna al pagamento della
sanzione pecuniaria per la mancata esecuzione spontanea.
I capi della sentenza possono essere impugnati insieme od autonomamente; se è
impugnato soltanto il capo di condanna principale, l’accoglimento dell’appello che
lo riformi determinerà il venir meno della condanna alla pena pecuniaria, poiché
questa ha carattere accessorio; se è impugnato soltanto il capo di condanna alla pena
privata, verranno in discussione in appello soltanto i presupposti ed i criteri di
quantificazione dell’art. 614-bis c.p.c.
Potrà essere impugnato anche soltanto il provvedimento di rigetto della richiesta
di condanna alla pena privata ai sensi di tale ultima norma; anche in tale ultimo caso,
oggetto dell’appello saranno i presupposti di concessione della misura, vale a dire
che la prestazione oggetto della condanna principale sia ad un fare infungibile o ad
un non fare, che non si tratti di controversia di lavoro, che la condanna non sia
manifestamente iniqua.
Se in primo grado sia stata rigettata la domanda di condanna principale, il suo
accoglimento in appello potrà comportare la condanna alla misura coercitiva se
Esperienza e ricerca
513
richiesta già in primo grado, ma anche se richiesta per la prima volta in appello, per
quanto detto sopra sulla non configurabilità di limiti preclusivi.
In sede di gravame potrà essere concessa una sospensiva ai sensi degli artt. 283351 o 373 c.p.c.: se relativa alla condanna principale comporterà la sospensione
dell’efficacia esecutiva o della esecuzione del capo di sentenza contenente la sanzione pecuniaria; non si può escludere che la sospensiva riguardi anche soltanto
quest’ultimo capo, sia se impugnato unitamente alla condanna principale che se
impugnato autonomamente.
7. Rapporti con l’esecuzione diretta degli obblighi di fare.
Sul capo di condanna alla pena privata si forma il giudicato, all’esito del quale non
potranno più essere messi in discussione i presupposti della condanna medesima: la
condanna alla prestazione principale; la non manifesta iniquità; la non appartenenza
della controversia a quelle eccettuate dall’art. 614-bis c.p.c.
Discussa è, invece, la portata del giudicato sulla natura infungibile del facere o sul
contenuto di non facere o di pati della condanna alla prestazione principale.
Tale questione consente di introdurre il tema dei rapporti tra l’esecuzione indiretta, realizzabile con lo strumento dell’art. 614-bis c.p.c., e l’esecuzione diretta,
realizzabile ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c.
Posto che il giudice della cognizione, su richiesta di parte, può predeterminare la
sanzione pecuniaria applicabile in caso di violazione solo quando la condanna abbia
ad oggetto un facere che egli ritenga infungibile, occorre verificare se l’accoglimento
della richiesta di applicazione della pena pecuniaria inibisca all’attore-creditore di
proporre al giudice dell’esecuzione un ricorso ai sensi dell’art. 612 c.p.c. ovvero se
il rigetto della stessa richiesta in sede di cognizione vincoli il giudice dell’esecuzione
ad accogliere il ricorso ex art. 612 c.p.c.
Secondo un primo orientamento, la valutazione del giudice della cognizione circa
la fungibilità o infungibilità dell’obbligo, suscettibile di essere valutata anche in sede
di gravame, è destinata ad essere coperta dal giudicato e, quindi, verrebbe meno il
potere, tradizionalmente riservato al giudice dell’esecuzione, di interpretare il titolo
e valutare la possibilità concreta della attuazione forzosa.
Secondo altro orientamento, invece, se la misura non viene concessa dal giudice
della cognizione, non per questo il giudice dell’esecuzione dovrà accogliere il ricorso per esecuzione forzata, ma potrà giudicare la prestazione di fare infungibile,
quindi non eseguibile coattivamente ai sensi degli artt. 612 ss. c.p.c., cosı̀ rigettando
il ricorso. Analogamente, se la misura coercitiva viene concessa sul presupposto
dell’infungibilità della prestazione di fare, tale secondo orientamento ritiene che
non possa escludersi che l’interessato proponga ricorso ex art. 612 c.p.c. e che il
giudice dell’esecuzione lo accolga, andando di contrario avviso rispetto al giudice
della cognizione.
514
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Sembra da preferire questo secondo orientamento, con la seguente precisazione:
il giudicato si forma comunque sulla condanna al pagamento della pena pecuniaria
e sui presupposti rilevanti ai fini della condanna medesima (non anche sui presupposti rilevanti ad altri fini), nel senso che la condanna sarà eseguibile con espropriazione forzata anche se concessa per garantire l’esecuzione di una prestazione che
non l’avrebbe consentita (fare fungibile, ma anche obblighi di diversa natura, compresi quelli di consegna e rilascio ovvero non manifesta iniquità, ecc.); quindi, in un
eventuale giudizio di opposizione all’esecuzione non potrà essere messa nuovamente in discussione la concedibilità della misura in ragione della natura della prestazione da eseguire (o della sua riferibilità a fattispecie eccettuate dalla norma).
Tuttavia, se la misura è stata (erroneamente) rigettata (ritenendo fungibile una
prestazione di fare infungibile) non si potrà sostenere la possibilità a tutti i costi di
un’esecuzione diretta (d’altronde questa finirebbe per incontrare ostacoli di fatto
preclusivi comunque della tutela ex artt. 612 ss. c.p.c.). In tale eventualità il creditore finisce per restare privo di tutela esecutiva, diretta ed indiretta, potendo ricorrere soltanto alla tutela risarcitoria (cosı̀ come era la norma prima dell’introduzione
dell’art. 614-bis c.p.c.).
Se invece la misura è stata erroneamente concessa come accessorio alla condanna
ad un fare fungibile, non potrà precludere il ricorso all’esecuzione diretta ex artt.
612 ss. c.p.c. In tale eventualità, il creditore potrà avvalersi di entrambi gli strumenti
destinati alla soddisfazione della sua pretesa.
8. Rapporti con l’esecuzione diretta degli obblighi di non fare.
La situazione da ultimo ipotizzata non è del tutto avulsa dal sistema, sol che si
consideri che in caso di esecuzione di obblighi di non fare o di pati è normale che le
due esecuzioni concorrano in modo che il creditore possa scegliere se avvalersi
dell’una o dell’altra ovvero di entrambe.
Come detto, secondo l’opinione da preferire (che si basa sull’interpretazione letterale), la norma consente di concedere la misura coercitiva anche se è inadempiuto
un obbligo di non fare fungibile. Orbene, il comportamento negativo o di astensione o di tolleranza è, per sua natura, generico e suscettibile, spesso, di esecuzione
forzata in forma specifica, secondo le modalità procedurali di cui agli artt. 612 ss.
c.p.c., che consentono la rimessione in pristino o l’adozione di misure positive. In
tale eventualità, si ha il cumulo tra tali misure e la sanzione pecuniaria civile irrogabile ai sensi dell’art. 614-bis c.p.c.
Analogamente, in caso di rigetto della richiesta di applicazione di questa misura in
sede di cognizione, spetterà al giudice dell’esecuzione la decisione definitiva sull’eseguibilità coattiva dell’obbligo di non fare (o di pati), con applicazione della
norma dell’art. 612 c.p.c. soltanto se ritenuto fungibile.
OPINIONI E COMMENTI
FRANCO DE STEFANO
Note a prima lettura della riforma del 2009 delle norme
sul processo esecutivo ed in particolare dell’art. 614-bis c.p.c.
Sommario: 1. Il nuovo art. 540-bis c.p.c. – 2. L’art. 614-bis c.p.c. – 2.1. Le astreintes in diritto
francese. – 2.1.1. I testi normativi vigenti Oltralpe. – 2.1.2. L’evoluzione dell’istituto. – 2.1.3. Le
caratteristiche dell’astreinte. – 2.1.4. Campo di applicazione. – 2.1.5. Il ruolo del giudice. – 2.1.6. La
decorrenza degli effetti. – 2.1.7. Le astreintes provvisorie e definitive. – 2.1.8. La liquidazione. –
2.2. L’astreinte italiana (o “coercitoria”?). – 2.2.1. I precedenti più prossimi. – 2.2.2. L’art. 614-bis
c.p.c.: la funzione dell’istituto ed il suo campo di applicazione. – 2.2.3. L’art. 614-bis c.p.c.: la manifesta
iniquità quale causa di esclusione. – 2.2.4. La struttura. – 2.2.5. La competenza. – 2.2.6. La quantificazione della sanzione. – 2.2.7. Le impugnazioni. – 3. La restaurazione dell’appellabilità delle sentenze
in materia di opposizione ad esecuzione. Il nuovo testo dell’art. 616 c.p.c. – 4. I nuovi 3o e 4o co. dell’art.
624 c.p.c. – 5. Il regime dell’estinzione del processo esecutivo. – 6. Il giudice del giudizio di merito delle
opposizioni ad atti esecutivi. Il nuovo art. 186-bis disp. att. c.p.c.
1. Il nuovo art. 540-bis c.p.c.
Il nuovo art. 540-bis c.p.c. prevede opportunamente la sorte del procedimento
esecutivo nel caso di insufficienza delle operazioni di vendita ai fini del soddisfacimento dei crediti azionati.
In particolare, quando le cose pignorate risultano invendute a seguito dei tentativi
di vendita, oppure quando la somma ricavata dall’espropriazione e quindi distribuita ed assegnata non è sufficiente a soddisfare le ragioni del creditore, si riapre la
fase del pignoramento.
Il momento in cui opera la norma è quindi duplice ed evidentemente le due
ipotesi sono alternative, non potendo concorrere contemporaneamente (ma, a tutto
concedere, soltanto successivamente la seconda alla prima):
— subito dopo il secondo o il successivo esperimento di vendita, allorquando le
cose pignorate siano rimaste invendute per mancanza di offerte (o, per la peculiarità
della vendita mobiliare, quando non abbia avuto luogo immediatamente il versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario) e quindi manchi qualunque ricavato;
— dopo la vendita fruttuosa di almeno parte del compendio pignorato e quando
le somme ricavate siano risultate insufficienti per il soddisfacimento di tutti i credi-
516
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
tori: in questo caso è evidente che, dopo la vendita almeno in secondo o successivo
esperimento, occorre attribuire o distribuire — più che assegnare, termine che si
riferisce alla sola assegnazione in natura o ai crediti — il ricavato, in modo da verificare se vi sia o meno incapienza per anche uno solo dei crediti.
Condizione per la riapertura o rinnovazione di tale fase è l’istanza di uno dei
creditori: deve intanto ritenersi che siano legittimati a tanto soltanto i creditori restati insoddisfatti, visto che non avrebbe interesse alla prosecuzione colui che si
fosse visto assegnato denaro sufficiente all’integrale soddisfacimento del suo credito. Inoltre, per principio generale, deve trattarsi di un creditore munito di titolo
esecutivo, giacché soltanto in tal caso si è legittimati a provocare la prosecuzione
della procedura o compiere atti della medesima. La forma dell’istanza è quella ordinaria, vale a dire il ricorso al giudice dell’esecuzione: poiché va avanzata da uno
dei creditori, essa va proposta dal procuratore già costituito; nel caso però in cui vi
fosse spazio per un intervento tardivo, in quanto assistito da privilegio, nulla dovrebbe impedire la presentazione dell’istanza in uno al ricorso per intervento. La
mancanza dei requisiti soggettivi indefettibili per la presentazione dell’istanza stessa
comporta senz’altro la sua qualificazione di inammissibilità.
Non vi sono termini per formulare tale istanza. Poiché comunque anche di recente la Suprema Corte ricorda che il giudice deve esercitare i suoi poteri ufficiosi al
fine di garantire, per quanto possibile, la ragionevole durata del processo, determinandosi altrimenti la responsabilità dell’amministrazione della Giustizia per il ritardo, è opportuno che il giudice dell’esecuzione fissi un’udienza di comparizione,
ex art. 485 c.p.c., per sollecitare i creditori a risolversi in tal senso, non appena si
sono verificati i presupposti per l’attivazione del subprocedimento.
Anzi, tale fissazione potrebbe avere luogo già con il provvedimento — ordinanza
o decreto poco importa — con cui sono state fissate le modalità della vendita, cosı̀
prevedendosi la comparizione direttamente per la prosecuzione e la definizione, in
un senso o nell’altro, del procedimento esecutivo: la quale si svolgerà nel senso della
distribuzione del ricavato, se la vendita è stata anche solo in parte fruttuosa, ovvero
nella sollecitazione alla presentazione dei creditori di istanza di nuovo pignoramento. Analogamente, potrà il g.e. disporre la riattivazione all’udienza fissata per
l’attribuzione o la distribuzione del ricavato o l’assegnazione del credito, ovvero con
l’ordinanza emessa a scioglimento della riserva a quella formulata, se i creditori
l’avessero chiesto in subordine fin dall’udienza: in quanto, operando la distribuzione, è immediatamente evidente se essa sia a totale o a parziale soddisfacimento
delle ragioni creditorie azionate. Oppure il giudice dell’esecuzione potrà, con l’ordinanza di attribuzione o distribuzione o assegnazione, constatata la pronuncia dell’incapienza — totale o parziale — per uno o più creditori, fissare un’udienza di
comparizione per sollecitare i creditori ad esprimersi sul punto.
Sull’istanza di riattivazione della fase di pignoramento, il giudice dell’esecuzione
dispone a norma dell’ultimo comma dell’art. 518 c.p.c.: nominato uno stimatore
Opinioni e commenti
517
quando appare opportuno, egli ordina l’integrazione del pignoramento e l’ufficiale
giudiziario riprende senza indugio le operazioni di ricerca dei beni. Per il caso di
presentazione dell’istanza fuori udienza, non è prevista, neppure implicitamente,
alcuna comparizione delle parti od audizione del debitore: il quale potrà contestare
la sussistenza dei presupposti con l’ordinario rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi, rivolta contro il provvedimento che dispone l’integrazione.
Sulla base del provvedimento di integrazione, che gli sarà esibito dal creditore
interessato a giustificazione dell’istanza di nuovo pignoramento, dovrà quindi l’ufficiale giudiziario, previo versamento delle somme o depositi ordinariamente necessari, accedere nuovamente sui luoghi appartenenti al debitore e rivolgergli nuovamente l’invito a rendere la dichiarazione sulla composizione del suo patrimonio e
sull’esistenza di altri beni utilmente pignorabili, soprattutto se sopravvenuti; e riprende a decorrere nei suoi confronti un altro termine di quindici giorni per rendere
la dichiarazione senza incorrere nella sanzione penale prevista dall’art. 388, 5o e 6o
co., c.p. Per il nuovo pignoramento, che integra una fase successiva del processo già
iniziato con il precedente e che si fonda sul provvedimento del giudice dell’esecuzione, potrebbe sostenersi la non necessità della presentazione ex novo di titolo
esecutivo e precetto, ma solo del provvedimento suddetto.
Ancora, se nonostante tale rinnovato invito a rendere la dichiarazione ed all’esito
delle operazioni di nuovo pignoramento non appaiano altri beni utilmente pignorabili o i beni rinvenuti od indicati appaiano insufficienti a soddisfare i creditori che
ancora vi abbiano diritto, l’ufficiale giudiziario, se uno dei creditori muniti di titolo
glielo chiede, può promuovere le ricerche dei beni con le forme del 7o e 8o co.
dell’art. 492 c.p.c., vale a dire con l’accesso all’anagrafe tributaria e ad altre banche
dati pubbliche, come pure con la nomina di un professionista accertatore, incaricato di esaminare le scritture contabili del debitore imprenditore, sempre al fine di
verificare l’esistenza di altri beni o crediti utilmente pignorabili. Anche in questo
caso l’interazione con il creditore interessato è decisiva, visto che si tratta di attività
assai penetranti, ma abbisognevoli di impulso — e di anticipazione di spese — di
parte.
Qualora tale attività si riveli fruttuosa, nel senso che siano pignorate nuove cose,
il giudice dell’esecuzione ne dispone direttamente la vendita, senza bisogno di
un’ulteriore istanza di vendita: la ragione sta nel fatto che la relativa istanza deve
intendersi implicitamente formulata con l’istanza di integrazione del pignoramento
dispiegata prima delle attività di ricerca di nuovi beni da parte dell’ufficiale giudiziario; comunque, è principio ormai accettato che il processo esecutivo non abbia
bisogno di continui impulsi di parte per ognuna delle fasi in cui si articola, bastando
l’istanza di vendita da depositarsi nell’immediatezza del pignoramento ed entro il
suo termine di efficacia, benché oltre il termine dilatorio di cui all’art. 501 c.p.c.
Nel caso in cui tutte queste attività risultino infruttuose, il giudice dichiara l’estinzione del pignoramento, salvo che non siano da completare le operazioni di vendita.
518
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
In sostanza, all’estinzione si giunge:
— in mancanza di istanza di integrazione del pignoramento da parte di qualunque
creditore titolato e legittimato a farlo;
— pur in presenza di tale istanza, in mancanza di rinvenimento di nuovi beni
pignorabili, anche se all’esito del nuovo invito al debitore a rendere la dichiarazione
di cui all’art. 492 c.p.c., o delle informazioni acquisite ai sensi del 7o e 8o co. dello
stesso articolo;
— pur in presenza di tali nuovi beni, se la loro vendita, per quanto di ufficio
disposta, sia comunque infruttuosa, ritrovandosi il procedimento al punto iniziale
del subprocedimento di integrazione e senza che nessuno insti ancora per la reiterazione di questo.
All’estinzione non può peraltro giungersi se devono compiersi le operazioni di
vendita: vale a dire fino a quando non siano stati esauriti tutti gli adempimenti
connessi alla vendita dei beni pignorati e di quelli eventualmente rinvenuti, compresi l’eventuale rinnovazione della fase di integrazione. In tali ipotesi sarà indispensabile attendere l’esito; ma la lettera della norma non osta a che, una volta avutosi
l’esito infruttuoso, si possa procedere immediatamente a pronunciare l’estinzione.
Da notare è che alla pronuncia di estinzione si procede di ufficio, atteso il tenore
letterale della norma, che impiega il modo indicativo («il giudice ... dichiara l’estinzione») e che configura l’esito come inevitabile, sol che si sia riscontrata la definitiva
inutilità della prosecuzione.
Della sorte del procedimento mobiliare infruttuoso si era finora occupata soltanto
la disciplina speciale del pignoramento mobiliare esattoriale: essa, fin dalla riforma
di cui al d.lg. 26-2-1999, n. 46 (riordino della disciplina della riscossione mediante
ruolo), il cui art. 16 ha riscritto l’intero titolo II del d.p.r. 29-9-1973, n. 602, ha
previsto, con il nuovo testo dell’art. 70 di quest’ultimo (nel titolo II - «Riscossione
coattiva», capo II - «Espropriazione forzata», sezione II - «Disposizioni particolari
in tema di espropriazione mobiliare»), rubricandolo «Beni invenduti»:
— che, se i beni restano invenduti anche al secondo incanto, il concessionario
entro tre mesi procede alla vendita a trattativa privata per un prezzo non inferiore
alla metà del prezzo base del secondo incanto o ad un terzo incanto ad offerta libera;
— che i beni rimasti invenduti anche dopo l’applicazione delle appena viste disposizioni sono messi a disposizione del debitore, che, ove ne sia stato effettuato l’asporto,
è invitato a ritirarli entro il termine di quindici giorni dalla notificazione dell’invito;
— che, decorso inutilmente tale termine, i beni non ritirati sono distrutti o donati,
senza liberazione del debitore, ad enti di beneficenza ed assistenza, secondo le determinazioni del concessionario, che ne redige verbale.
In sostanza, almeno nella procedura esattoriale non si prevede espressamente
l’estinzione del procedimento, ma si stabilisce, probabilmente sull’onda delle esigenze pratiche evidenti e connesse anche alla responsabilità per la custodia dei beni
pignorati ed asportati, sulla sorte di questi che siano rimasti invenduti.
Opinioni e commenti
519
Al contrario, nella procedura ordinaria nulla si stabilisce sulla sorte dei beni rimasti invenduti, ma si disciplina più in generale la conseguenza dell’impossibilità,
per il processo, di raggiungimento dello scopo, che resta pur sempre il soddisfacimento delle ragioni creditorie: cioè l’estinzione del procedimento. La non liberazione del debitore — che il legislatore della disciplina esattoriale si premura di
specificare — deriva comunque dai principi generali del processo esecutivo, visto
che la constatazione dell’inutilità di questo esaurisce i suoi effetti sul piano esclusivamente processuale, ma non può avere come conseguenza sostanziale l’estinzione
dell’obbligazione, rimasta anzi insoddisfatta ed i cui accessori continuano certamente a decorrere ed a maturare ulteriormente.
Quanto alla sorte dei beni invenduti nella procedura mobiliare ordinaria, la novella non introduce novità e tutto resta rimesso alle prassi applicative in vigore nei
singoli uffici giudiziari.
Avverso il provvedimento che dichiara l’estinzione è possibile esperire il reclamo,
nelle forme del novellato art. 630 c.p.c. e non già l’opposizione agli atti esecutivi; in
un primo momento, infatti, la Suprema Corte aveva ritenuto che tale procedimento
potesse essere esteso al di fuori dei casi espressamente previsti soltanto previa
dichiarazione di incostituzionalità della norma; ma, di recente, in relazione all’estinzione pronunciata ex art. 567 c.p.c. per mancato deposito della documentazione nel termine allo scopo fissato, ha applicato il ben diverso principio della
riconducibilità de plano al paradigma dell’art. 630 c.p.c. di qualunque ipotesi tipica
di estinzione prevista dal codice: e quest’ultimo è certamente il caso dell’estinzione
per infruttuosità della procedura esecutiva mobiliare di cui all’art. 540-bis c.p.c.
Resta da osservare che, dopo la novella, mentre l’opposizione agli atti esecutivi è
rimessa istituzionalmente ad un magistrato diverso, non altrettanto può dirsi per il
reclamo previsto dall’art. 630 c.p.c., per il quale il richiamo all’art. 178 c.p.c.
comporta l’ultraattività della giurisprudenza formatasi al riguardo, che consentiva
la partecipazione al collegio del giudice che aveva reso il provvedimento oggetto di
reclamo.
Infine, quanto alla disciplina transitoria, poiché essa è espressamente limitata ai
“giudizi”, mentre quelli esecutivi sono soltanto “processi”, la novella dovrebbe trovare immediata applicazione a tutti i processi esecutivi mobiliari — e presso terzi —
pendenti e comunque non esauriti al momento dell’entrata in vigore della novella. È
auspicabile che anzi l’istituto, che tende a definire la pendenza di procedimenti
anche remoti, sui quali la carenza di apposita previsione normativa — e la resistenza
all’adozione di provvedimenti di estinzione c.d. atipica od improseguibilità, comunque ricavabile dal sistema normativo vigente — può avere determinato il loro mantenimento in una sorta di limbo, trovi da subito immediata applicazione, sia per
conseguire la massima certezza possibile delle correlate situazioni giuridiche, sia la
cessazione del processo, anche a fini di valutazione della sua durata ragionevole o
del ritardo rispetto al relativo termine.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
2. L’art. 614-bis c.p.c.
2.1. Le astreintes in diritto francese.
L’art. 614-bis c.p.c. introduce un istituto assai simile all’astreinte di diritto francese.
Quest’ultima, sommariamente definibile come una sanzione pecuniaria privata,
accessoria ad una qualunque condanna, adottata dal giudice anche di ufficio per
assicurarne l’esecuzione, ha ricevuto Oltralpe un’elaborazione rilevantissima, che in
questa sede può essere solo sommariamente tratteggiata.
L’astreinte è un procedimento di origine giurisprudenziale destinato a fare pressione su di un debitore condannato da una decisione di giustizia per incitarlo a porla
in esecuzione; essa consiste normalmente in una condanna crescente in funzione del
grado di resistenza del debitore: il provvedimento di astreinte minaccia il debitore di
una condanna accessoria il cui importo definitivo sarà fissato al momento successivo
della sua liquidazione.
L’astreinte, distinta dal risarcimento dei danni ed al tempo stesso autonoma ed
indipendente rispetto all’esecuzione in senso stretto, è una pena privata che sanziona il mancato rispetto della decisione di un giudice.
Sostanzialmente, essa consiste in una condanna al pagamento di una somma di
denaro, accessoria rispetto ad altra, sostanzialmente di condanna ad un fare o ad un
non fare, contestualmente emanata da un giudice; la prima condanna è pronunciata
in favore del creditore della seconda ed è totalmente svincolata dal risarcimento del
danno, neppure costituendo una misura di esecuzione. Siccome finalizzata ad esercitare una coercizione della volontà del debitore, è indissolubilmente legata alla
possibilità stessa di un’esecuzione.
Può essere provvisoria ed in quanto tale in sostanza liberamente rivedibile o modificabile, in cui l’effetto deterrente è massimo, oppure definitiva, sostanzialmente
non più modificabile.
Si articola poi in due fasi, quella della pronuncia e quella della liquidazione: e solo
la seconda, previo accertamento, in forme agili, dell’effettività dell’inadempimento
o del ritardo, dà luogo ad un provvedimento di determinazione dell’esatto contenuto dell’obbligazione pecuniaria accessoria e quindi — integrando un nuovo titolo
esecutivo — fonda la possibilità di un’esecuzione.
2.1.1. I testi normativi vigenti Oltralpe.
L. n. 91-650, del 9-7-1991
Sezione VI - L’astreinte
Art. 33. Ogni giudice può, anche di ufficio, ordinare un’astreinte per assicurare
l’esecuzione della sua decisione.
Il giudice dell’esecuzione può munire di un’astreinte una decisione resa da un
altro giudice se le circostanze ne denotano la necessità.
Opinioni e commenti
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Art. 34. L’astreinte è indipendente dai danni-interessi (dal risarcimento del
danno).
L’astreinte è provvisoria o definitiva. L’astreinte deve essere considerata come
provvisoria, a meno che il giudice non abbia precisato il suo carattere definitivo.
Un’astreinte definitiva non può essere ordinata che dopo la pronuncia di
un’astreinte provvisoria e per una durata che il giudice determina. Se una di queste
condizioni non è rispettata, l’astreinte è liquidata come astreinte provvisoria.
Art. 35. L’astreinte, anche se definitiva, è liquidata dal giudice dell’esecuzione,
salvo che il giudice che l’ha ordinata conservi la cognizione dell’affare o se ne sia
espressamente riservato il potere.
Art. 36. L’ammontare dell’astreinte provvisoria è liquidato tenendo conto del
comportamento di colui a cui l’ingiunzione è stata indirizzata e delle difficoltà che
ha incontrato per eseguirla.
Il tasso dell’astreinte definitiva non può giammai essere modificato al momento
della liquidazione.
L’astreinte provvisoria o definitiva è annullata in tutto o in parte se si accerta che
la mancanza o il ritardo dell’esecuzione dell’ingiunzione del giudice deriva, in tutto
o in parte, da una causa non imputabile.
2.1.2. L’evoluzione dell’istituto.
L’astreinte è un istituto pretorio: introdotta dalla giurisprudenza fin dalla prima
metà del XIX secolo, aveva originariamente ad oggetto esclusivamente l’esecuzione
delle obbligazioni di fare e di non fare, quale forma di pressione sul debitore dettata
dalla verosimile inefficacia dell’esecuzione diretta, ma si è estesa poi a tutte le condanne rese da qualunque giudice.
Essa viene considerata una pena privata e consiste in una sanzione pecuniaria
progressiva, rapportata all’eventualità del mancato adempimento od alla durata del
ritardo, cui il debitore è soggetto in favore del creditore.
Sua connotazione fondamentale è la totale indipendenza, funzionale e strutturale,
dagli interessi di mora o dal risarcimento del danno, con conseguente carenza di
qualunque funzione compensativa del ritardo e perfino del pregiudizio effettivamente patito dal creditore.
2.1.3. Le caratteristiche dell’astreinte.
L’astreinte ha una funzione costrittiva, una natura accessoria ed è esclusivamente
di fonte giudiziale.
Quanto al primo aspetto, essa viene distinta in provvisoria e definitiva e si articola
nella fase della pronuncia e della liquidazione; ma non è una misura di esecuzione,
restando estranea al processo di esecuzione ed anzi dando luogo a sua volta, sia pure
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
solo con la liquidazione, ad un ulteriore titolo esecutivo, stavolta esclusivamente
pecuniario, nei confronti del debitore dell’obbligazione principale.
Quanto alla natura accessoria, l’astreinte è strettamente collegata all’obbligazione
principale, cioè a quella per la cui esecuzione è pronunciata: ne segue che se l’altra
è illecita o impossibile o inesistente o se viene meno per qualunque ragione, anche
l’obbligazione oggetto di astreinte viene meno; al tempo stesso, essa non si estende
automaticamente agli obbligati solidali o ai garanti, ma può essere ceduta e comunque circola in uno a quella principale.
Quanto alla fonte esclusivamente giudiziale, l’astreinte è a disposizione del giudice, che ha una amplissima discrezionalità nell’adottarla e nel determinarne in concreto le modalità, senza essere soggetto neppure ad uno specifico obbligo di motivazione; sono state introdotte limitazioni per legge in materia di sfratti abitativi, ma
al contempo le astreintes sono state estese ad altri settori, tra cui quello del diritto
amministrativo.
L’astreinte è sempre un’alternativa ulteriore rispetto all’esecuzione forzata, sicché
il creditore può liberamente, secondo la sua convenienza, scegliere tra avvalersi
dell’astreinte, dell’esecuzione forzata in forma specifica, del risarcimento del danno
o di tutti tali mezzi congiuntamente, attesa la reciproca indipendenza.
2.1.4. Campo di applicazione.
L’astreinte è ammessa soprattutto, coerentemente con la sua origine, nel campo
delle obbligazioni di fare, nelle quali si richiede una certa cooperazione del debitore;
ma anche per quelle infungibili, come nel diritto del lavoro e per la reintegrazione
nel posto di lavoro o per la consegna di documenti; sono invece escluse in materia di
facere infungibili se attinenti a diritti personalissimi o di famiglia, ovvero al diritto di
autore. La riferibilità funzionale all’esecuzione successiva comporta che, in caso di
prestazioni a carattere personale, l’astreinte non può essere pronunciata.
Tornano poi ad avere estesa applicazione in materia patrimoniale e di tutela di
diritti reali, di obbligazioni contrattuali e di locazioni (salvo quelle abitative e
quanto allo sfratto del locatario), di obbligazioni di non fare successive o continuative, talvolta anche extrapatrimoniali. Quanto alla consegna di cose, essa è ammessa
solo per garantire l’effettiva esecuzione degli effetti dei contratti, normalmente consensuali, che ne sono a fondamento, come la consegna del bene, oppure, trattandosi
di vendita di cose determinate solo nel genere, anche la previa individuazione del
bene da consegnare. Infine, larghissima applicazione si ha nel campo delle obbligazioni pecuniarie, nonostante le perplessità indotte dalla presenza dello strumento
tipico dell’espropriazione.
L’astreinte non è stata ammessa:
— quando il destinatario non è soggetto passivo di un’obbligazione o di un dovere
giuridico, come nel caso di obbligazioni naturali o di meri doveri morali o religiosi
Opinioni e commenti
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(ad es.: preteso obbligo, per un marito, di spedire una lettera di ripudio alla moglie
nelle religioni che lo ammettono);
— quando l’obbligazione principale è illecita: come nel caso di costringere il
locatario allo sfratto nei periodi in cui questo è sospeso per legge;
— quando l’esecuzione dell’obbligazione principale è impossibile: intesa però
come obbligazione la cui esecuzione sarebbe priva di qualunque utilità per il creditore (ritirare un feretro da una tomba); e con la precisazione che se l’impossibilità è
constatata all’atto della condanna principale essa dovrebbe condurre al rigetto
stesso della domanda nel suo complesso, mentre, se è accertata dopo la pronuncia,
potrebbe condurre alla soppressione dell’astreinte;
— quando l’obbligazione principale ha ad oggetto una prestazione di natura personalissima, come l’esercizio di un’attività artistica (caso di contratto di strip-tease)
o coinvolgente la libertà di disposizione del proprio corpo (prelievo sanguigno) o,
almeno ai giorni nostri, la coabitazione con un congiunto o tra sposi;
— quando l’obbligazione principale ha ad oggetto l’esecuzione di un’opera dell’ingegno, ciò che coarterebbe il diritto d’autore, sicché, non essendovi un diritto a
conseguire in natura l’oggetto della prestazione, non può esservi neppure l’astreinte.
Al contrario, l’astreinte è stata ammessa:
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per garantire l’erogazione di un
servizio ad un abbonato;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per garantire il rispetto di una clausola di esclusiva;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per l’obbligo del locatore di eseguire lavori al bene;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per il ripristino dei servizi all’interno del bene locato;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per l’obbligo del locatore di fornire
un locale ulteriore;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per l’obbligo di reimpianto di colture;
— nel campo delle obbligazioni contrattuali, per garantire il rilascio da parte del
locatario;
— nel campo dei diritti reali, per garantire al titolare di usufruirne pacificamente;
— nel campo dei diritti reali, per garantire il rispetto di una servitù;
— nel campo dei diritti reali, per garantire la rimozione di un’antenna irregolare;
— nel campo dei diritti reali, per ottenere la demolizione di costruzioni irregolari;
— nel campo dei diritti reali, per garantire il rispetto di obblighi di vicinato;
— nel campo dei diritti reali, per evitare immissioni nocive;
— nel campo dei diritti reali, per ottenere il rilascio da parte di un occupante
senza titolo;
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
— nei confronti del lavoratore dipendente, per costringerlo a prestare la sua
opera;
— nei confronti del datore di lavoro, per reintegrare il dipendente ingiustamente
licenziato;
— nei confronti del datore di lavoro, per il rilascio del certificato di lavoro;
— nei confronti del datore di lavoro, per il rilascio di documenti a cui sia tenuto;
— in materia di famiglia, per garantire l’esercizio di un diritto di visita;
— in materia di famiglia, per garantire la restituzione di un minore;
— in materia di famiglia, per garantire un obbligo di alloggio;
— in materia di famiglia, per impedire l’uso del cognome maritale;
— in materia di famiglia, ma in tempi remoti, per far cessare ad una signora un
concubinato notorio;
— nell’ambito dei diritti personalissimi, quando la prestazione non coinvolge
però più la disposizione del corpo (consegna di un lembo di pelle tatuata, già prelevato);
— per garantire obbligazioni negative: di un attore di non recitare in teatri della
concorrenza;
— per garantire obbligazioni negative: di un sublocatario di non esercitare attività concorrenziali;
— per garantire obbligazioni negative: di cessare concorrenza comunque sleale;
— per garantire obbligazioni negative: di cessare trasmissioni televisive pirata;
— per garantire obbligazioni negative: di non porre in essere atti di pubblicità
irregolare;
— per garantire obbligazioni negative: di non stazionare su di una corte comune;
— per garantire obbligazioni negative: di non sorvolare al di sotto di una certa
quota.
In ordine ai soggetti, l’astreinte è ormai un beneficio concesso a qualsiasi creditore, anche se si tratta dello Stato o di altre Pubbliche Amministrazioni, ma nella
giustizia amministrativa le posizioni sono più variegate e c’è una maggiore resistenza
alla concessione dell’astreinte in ragione della previsione istituzionale di altri mezzi
di coercizione in capo ai creditori pubblici. Dal lato passivo, a meno di un’espressa
pronuncia anche nei suoi confronti, né il debitore solidale, né il garante può automaticamente essere assoggettato ad un’astreinte pronunciata contro il debitore principale; al tempo stesso, se il debitore è una Pubblica Amministrazione, si obietta
talvolta che per il principio di separazione dei poteri questa non potrebbe essere
condannata a pena di astreinte, ma si ammette pure tale misura in caso di carenza di
potere o di soggezione della P.A. alla giurisdizione anche solo amministrativa.
In alcuni settori sono previste astreintes legali e comunque l’istituto è esteso sia ai
capi di condanna civile in sede penale che a quelli propriamente penali, anche se in
quest’ultimo caso obbedisce a tecniche e funzioni radicalmente diverse dall’astreinte civile.
Opinioni e commenti
525
2.1.5. Il ruolo del giudice.
Il ruolo del giudice nell’elaborazione e nella gestione stessa dell’istituto è unanimemente riconosciuto centrale. La competenza spetta in linea di principio a qualunque giudice che emette una decisione di merito, anche se monocratico: sia il
giudice dei référés, sia quello del Tribunal d’Instance, sia quello incaricato della
messa in stato di decisione (mise en état), sia il giudice dell’esecuzione per le sue
proprie decisioni. A maggior ragione il potere di ordinare un’astreinte è riconosciuto alla corte d’appello, in caso di riconoscimento di sentenza straniera, di lodo
arbitrale, di provvedimento del Presidente del Consiglio dell’Ordine Forense e,
come accennato, di giurisdizioni penali ed amministrative. Accanto a questa competenza generale, riconosciuta al giudice che pronuncia la condanna principale, vi è
poi una previsione del tutto generale, che stabilisce la competenza speciale del giudice dell’esecuzione per le decisioni rese da qualunque altro giudice e che non erano
state munite di astreinte. Le uniche eccezioni sono talvolta riscontrate in materia di
concorrenza, mentre è oscillante la giurisprudenza sull’esclusività di tale competenza una volta che la prima condanna non sia stata munita di astreinte.
Il giudice può pronunciare l’astreinte sia su domanda, sia di ufficio; egli gode di
un’amplissima discrezionalità e non gli si richiede neppure una motivazione sull’uso
o sul mancato uso di quella: tale discrezionalità riguarda l’ammontare — da individuarsi in modo da esercitare una pressione sufficiente sul debitore condannato per
incitarlo efficacemente a porre in esecuzione la condanna, ma evidentemente in
rapporto alle concrete condizioni patrimoniali dell’ingiunto e quindi alle verosimili
aspettative di deterrenza effettiva, con esclusione di condanne spropositate o proibitive in relazione alla fattispecie — e le modalità. In particolare, l’ammontare viene
spesso predeterminato a maturazione progressiva e successiva, rapportato alle unità
di tempo del ritardo o alle occasioni di inadempimento; ed anche la durata viene
lasciata al libero apprezzamento del giudice, che appunto di norma lo fissa, soprattutto se si tratta di astreinte provvisoria.
2.1.6. La decorrenza degli effetti.
Proprio per la necessità di rapportare la sanzione al momento dell’inadempimento della condanna principale, è indispensabile individuare la decorrenza, che
ora la legge fissa a tempo non anteriore alla data di esecutorietà di quella e — per la
legge francese — comunque alla sua notifica al debitore; solo l’astreinte successiva,
cioè pronunciata separatamente dalla condanna principale, non può avere decorrenza anteriore alla sua pronuncia. In caso di impugnazione, la decorrenza segue la
sorte dell’esecutorietà della condanna principale: se questa è provvisoriamente esecutiva, rimane esecutiva anche la decorrenza fissata per l’astreinte.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
2.1.7. Le astreintes provvisorie e definitive.
Il giudice ha amplissima discrezionalità anche nella scelta tra astreinte provvisoria
e definitiva. Questa distinzione dipende dalla diversità di funzione, in quanto quella
provvisoria, altrimenti detta comminatoria, ha lo scopo di intimidire il debitore e
per essa il giudice dispone di poteri amplissimi di modificare le basi di calcolo
stabilite al momento della sua pronuncia, al fine di tener conto del comportamento
del debitore e soprattutto del fatto che egli si sia oppur no sottomesso alla esecuzione volontaria: in sostanza, le astreintes provvisorie sono emesse per cosı̀ dire allo
stato degli atti e sono comunque rivedibili e modificabili senza limitazioni fino alla
liquidazione. Invece, per le astreintes definitive il giudice deve rispettare i termini
fissati nelle decisioni che le adottano e vanno liquidate con un semplice calcolo
aritmetico che non può più tenere conto delle condizioni del debitore. Entrambi i
tipi di astreinte sono caratterizzati dalla loro distinzione dal risarcimento dei danni;
ma la maggiore rigidità delle definitive fa sı̀ che, se non diversamente ed in modo
espresso disposto, tutte vanno intese come provvisorie e comunque una astreinte
definitiva può aversi solo dopo una provvisoria. Inoltre, l’astreinte definitiva deve
fissare necessariamente un termine finale, altrimenti è riqualificata come provvisoria. Fa eccezione ancora lo sfratto abitativo, per il quale qualunque astreinte va
intesa come provvisoria.
La riconduzione dell’astreinte all’imperium del giudice tende ad escludere l’applicabilità dei principi in tema di giudicato, con la tendenziale persistente rivedibilità delle decisioni sull’astreinte, anche in assenza di fatti nuovi. Prima della liquidazione, però, nessuna astreinte, provvisoria o definitiva, può dar luogo ad esecuzione; per converso, contro l’astreinte non può dispiegarsi opposizione ad
esecuzione, ma il creditore può ottenere una misura conservativa — simile al sequestro conservativo — o una provvisionale dal giudice competente per la liquidazione
e, sia pure con dubbi interpretativi, eseguire l’una e l’altra, sia pure a suo rischio.
Si conferma che la provvisoria esecutorietà di una condanna principale si estende
al capo che commina l’astreinte e che la riforma della prima travolge la seconda,
dando luogo se del caso alle restituzioni. Inoltre, la domanda di astreinte può essere
formulata per la prima volta in appello, non integrando una domanda nuova. Pure,
l’appello è sempre ammesso contro la condanna limitatamente al capo che commina
l’astreinte, visto che in caso di rifiuto è sempre possibile riproporre l’istanza allo
stesso giudice o rivolgersi al giudice dell’esecuzione. Infine, è dubbio che la domanda di astreinte vada computata ai fini della competenza per valore e se la sua
indeterminatezza possa comportare l’appellabilità della decisione.
2.1.8. La liquidazione.
Perché possa produrre effetti concreti, l’astreinte deve essere liquidata, cioè deve
previamente e giudizialmente accertarsi l’effettivo inadempimento, da rapportarsi
Opinioni e commenti
527
però al comportamento del debitore e ad altre circostanze che potrebbero giustificarlo. Per la fase relativa è indispensabile la domanda del creditore, la quale non dà
luogo ad una fase successiva e distinta, ma prolunga quella che è stata iniziata con la
pronuncia dell’astreinte. Spetta quindi al creditore la valutazione di quando agire,
anche perché è presupposta la constatazione dell’inesecuzione, affidata ad un ufficiale giudiziario incaricato dal giudice dell’esecuzione. È consentito però al creditore di limitare la sua domanda di liquidazione alla richiesta di fare il punto sullo
stato di inesecuzione e di ottenere la liquidazione solo per il periodo trascorso fino
a quel momento, con un provvedimento che potrebbe anche modificare, per il
tempo futuro e fino alla richiesta di liquidazione finale, le condizioni dell’astreinte.
Sulla liquidazione decide in via di principio il giudice dell’esecuzione, ovvero, concorrente con lui, quello che si era riservata la liquidazione al momento della pronuncia
dell’astreinte, anche se si tratti del giudice del référé, come pure il giudice davanti a cui
l’affare è restato pendente. Una eventuale incompetenza va rilevata anche d’ufficio,
con decisione suscettibile di ricorso (e salvo che si tratti di giudizio di appello). Il
potere del giudice non si limita però alle operazioni matematiche necessarie per rendere esatto l’ammontare del debito oggetto dell’astreinte: potendo anzi egli dichiarare
non luogo a provvedere alla liquidazione in caso di accertato adempimento alla condanna principale o di accertata sopravvenuta impossibilità di questo. Ma soprattutto
l’astreinte può essere soppressa — ma anche solo parzialmente — dal giudice della
liquidazione se egli riconosce che l’inadempimento è dovuto a causa non imputabile,
come il fatto di un terzo (ma non anche lo sciopero delle Poste).
Ancora, al momento della liquidazione occorre tener conto di alcuni elementi,
come la mala fede del debitore o, al contrario, l’iniquità di consentire un arricchimento del creditore: pertanto, la liquidazione potrà comportare anche la revisione
dell’astreinte per un senso di giustizia sostanziale.
In linea di principio, nella liquidazione provvisoria deve tenersi conto del comportamento della parte nei cui confronti è stata pronunciata la condanna sotto pena
di astreinte e delle difficoltà che ha incontrato nell’eseguirla: per questo, non rileva
invece la condotta di un debitore solidale o di un garante, né fatti successivi a quelli
di causa; ancora, le difficoltà non imputabili possono essere le più varie. Anche in
questo caso l’apprezzamento del giudice è discrezionale.
L’attenuazione dell’astreinte all’atto della sua liquidazione può aversi anche solo
con la modifica del tasso o delle altre modalità di calcolo già determinate; e può
spingersi fino ad una liquidazione meramente simbolica o perfino al suo annullamento. Va ancora sottolineata la distinzione tra astreinte e risarcimento del danno,
sicché per la revisione della prima non potrà mai rilevare l’entità effettiva del secondo: ed anzi i due potranno essere legittimamente cumulati, tranne il già citato
caso degli sfratti abitativi.
Per l’astreinte definitiva, invece, il tasso non può mai essere modificato in sede di
liquidazione, ma essa può essere soppressa in caso di inadempimento per causa non
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
imputabile; inoltre, essa può essere modificata quando è stata resa dal giudice del
référé o della messa in stato di decisione.
Infine, il provvedimento di liquidazione — che è esecutivo per legge e quindi non
sospendibile in caso di opposizione ad esecuzione (certamente quando la liquidazione è resa dal giudice dell’esecuzione) — dà luogo ad un credito certo, liquido ed
esigibile, suscettibile solo allora di esecuzione forzata e, siccome pronuncia giudiziale, di passare in giudicato, con conseguente irricevibilità di una successiva ulteriore domanda di liquidazione. Anche in tal caso, comunque, la riforma del provvedimento di liquidazione può dar luogo alle restituzioni e l’appello contro di esso
può essere dispiegato, sebbene senza effetti sospensivi.
2.2. L’astreinte italiana (o “coercitoria”?).
2.2.1. I precedenti più prossimi.
Quale primo recente segnale di astreinte si è segnalata la l. comunitaria 2002, che
ha introdotto il co. 5-bis all’art. 3, l. 30-7-1998, n. 281. Con detta norma si è stabilito
che «in caso di inadempimento degli obblighi stabiliti dal provvedimento reso nel
giudizio di cui al comma 1, ovvero previsti nel verbale di conciliazione di cui al
comma 4, il giudice, anche su domanda dell’associazione che ha agito in giudizio,
dispone il pagamento di una somma di denaro da 516 euro a 1032 euro, per ogni
giorno di ritardo rapportato alla gravità del fatto. Tale somma è versata all’entrata
del bilancio dello Stato per essere riassegnata con decreto del ministro dell’Economia e delle Finanze al Fondo da istituire nell’ambito di apposita unità previsionale
di base dello stato di previsione del ministero delle Attività produttive, per finanziare iniziative a vantaggio dei consumatori». Non è questa la sede per approfondire
la disamina dell’istituto, ma basti qui ricordare le perplessità della dottrina in ordine
all’effettività della tutela cosı̀ apprestata, visto che attori del giudizio sarebbero state
comunque le associazioni di consumatori e che, soprattutto, i proventi della pena
sarebbero stati devoluti comunque all’Erario dello Stato per una successiva riassegnazione: cosa che esclude il carattere di pena privata proprio dell’astreinte, pur
conservando la natura di forma di pressione all’adempimento volontario.
Va poi segnalato l’art. 709-ter c.p.c., il quale, inserito dall’art. 2, 2o co., l. 8-2-2006,
n. 54 (e con effetto dal 16 marzo 2006), prevede che, nei giudizi di separazione
personale tra coniugi ed in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque
arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità
dell’affidamento, il giudice adito può anche — e pure di ufficio — condannare il
genitore inadempiente al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria, da
un minimo di 75 euro ad un massimo di 5.000 euro a favore della cassa delle ammende. In questo caso, però, di vera e propria astreinte non può parlarsi, in quanto
la lettera della norma qualifica espressamente la sanzione come sanzione ammini-
Opinioni e commenti
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strativa pecuniaria; e comunque essa non è né progressiva, né devoluta al creditore
di un’obbligazione inadempiuta.
2.2.2. L’art. 614-bis c.p.c.: la funzione dell’istituto ed il suo campo di applicazione.
Allo stato, il testo del nuovo art. 614-bis c.p.c. prevede quanto segue:
Art. 614-bis. — (Attuazione degli obblighi di fare infungibile o di non fare). —
Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni
violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del
provvedimento. Il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il
pagamento delle somme dovute per ogni violazione o inosservanza. Le disposizioni
di cui al presente comma non si applicano alle controversie di lavoro subordinato
pubblico e privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui
all’articolo 409.
Il giudice determina l’ammontare della somma di cui al primo comma tenuto
conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
Nonostante l’entusiasmo che aveva suscitato già la sua previsione all’atto della
presentazione di analogo disegno di legge governativo nella precedente legislatura,
l’istituto recepito in Italia è qualcosa di simile a quello francese, ma molto più limitato e, per certi versi, contraddittorio: nonostante, beninteso, sia un gran passo
avanti nella direzione del recupero di effettività delle decisioni giudiziali e prosegua
sulla strada della responsabilizzazione del debitore, iniziata con il ruolo attivo impostogli nella fase della ricerca dei beni pignorabili dalla riforma del 2006. Sono
infatti notevoli le differenze culturali e strutturali dei due contesti giuridici, permeato da oltre due secoli essendo quello francese dalla concezione dell’autorità
coercibile immediata del provvedimento giudiziale, quale emanazione della sovranità.
Come l’istituto francese di cui mutua la natura, la sanzione pecuniaria civile in
esame può definirsi una pena privata, che deve allora essere mantenuta completamente distinta dal risarcimento del danno ed intesa quale mezzo di pressione sul
debitore per un’esecuzione volontaria (più che spontanea) dell’obbligazione posta a
suo carico dalla sentenza di condanna. Infatti, essa è recata quale capo autonomo
del medesimo provvedimento che pronuncia la condanna principale e deve desumersi che sia, rispetto a quello, accessorio e, in quanto tale, dipendente.
Sempre similmente all’astreinte, essa è esclusivamente giudiziale, cioè può essere
pronunciata soltanto con il provvedimento di condanna reso da un giudice nel corso
o all’esito di un procedimento giurisdizionale. Non è possibile quindi un’astreinte di
fonte contrattuale, applicandosi al riguardo la normativa sulla clausola penale
530
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
— comunque intesa quale forfetizzazione del danno e giammai con natura sanzionatoria in senso stretto — e quindi la sua riducibilità ad equità.
In modo significativamente diverso dall’astreinte, invece, la sanzione pecuniaria
civile è prevista esclusivamente per le obbligazioni di fare infungibile e per quelle di
non fare; non si applica invece né alle obbligazioni di fare fungibile, né a quelle di
consegna o rilascio, né a quelle pecuniarie. Nonostante il tenore neutro delle espressioni della norma, la sua collocazione sistematica nel titolo IV del libro III del codice
di rito, che disciplina appunto le esecuzioni forzate di obblighi di fare o di non fare,
ma soprattutto la chiara lettera della rubrica dell’articolo che la introduce denotano
chiaramente il campo di applicazione.
È noto come il “facere infungibile” sia normalmente escluso dalla possibilità di
un’esecuzione forzata: in radicale differenza dall’astreinte, che invece è sempre ben
distinta dall’obbligazione principale e dal risarcimento del danno e ad entrambe si
affianca ed anzi entrambe le presuppone, l’istituto italiano finisce cosı̀ con diventare
l’unica alternativa lasciata al creditore dinanzi all’inadempimento del debitore. In
sostanza, se il debitore non esegue, il creditore non può porre in esecuzione il provvedimento di condanna, ma solo avvalersi della sanzione pecuniaria che sia stato
cosı̀ previdente da chiedere al giudice che ha emesso il titolo esecutivo.
Secondo l’elaborazione tradizionale, per prestazione fungibile si intende quella
che può essere attuata indifferentemente dall’obbligato o per mezzo dell’attività
sostitutiva di un qualunque altro soggetto, con identico effetto satisfattivo per il
creditore: e consistente nella creazione o distruzione di opere materiali, ovvero nel
porre in essere condotte materiali. Sono ad esempio qualificate infungibili le prestazioni relative ad una attività negoziale o, più in generale, quelle che hanno ad
oggetto il compimento di un atto giuridico, ma anche quelle che presuppongono
l’adempimento di una prestazione da parte di un soggetto estraneo al rapporto
obbligatorio (ad es. promessa di vendita di cosa altrui o del fatto del terzo) od il
coinvolgimento di attività complementari non direttamente connesse all’obbligazione principale: a questo riguardo è classico l’esempio della reintegrazione
nel posto di lavoro, ritenuta assolutamente infungibile per l’impossibilità di imporre al debitore datore di lavoro l’attività complementare di riorganizzazione
dell’impresa collegata alla concreta ripresa della prestazione di lavoro del creditore
lavoratore.
Del resto, un’ulteriore limitazione alla sanzione privata italiana, introdotta espressamente quale scelta di politica legislativa, sta in ciò, che l’istituto non può trovare
applicazione nel campo delle controversie di lavoro subordinato — pubblico o privato — ed ai rapporti di collaborazione continuativa e coordinata di cui all’art. 409
c.p.c.: in questo modo, per evitare l’applicabilità al solo caso della reintegrazione
nel posto di lavoro (la cui mancata esecuzione continuerà quindi ad essere soltanto risarcibile per equivalente), il legislatore ha rinunciato all’applicabilità a tutta
una serie accessoria di obbligazioni generalmente incombenti al datore di lavoro,
Opinioni e commenti
531
ma in teoria (come si è visto nella casistica d’Oltralpe) facenti capo anche al prestatore.
Al contrario, l’istituto italiano ritorna a sovrapporsi a quello francese in caso di
esecuzione di obblighi di non fare. In questo caso il comportamento negativo o di
astensione è tendenzialmente generico e suscettibile di esecuzione forzata mediante
l’adozione di opere positive che lo impediscano, idoneamente individuabili con la
snella ed informale procedura degli artt. 612 ss. c.p.c.: in questo caso, allora, la
sanzione pecuniaria civile torna ad affiancarsi alla possibilità di esecuzione in forma
specifica ed anche il creditore italiano può avvalersi, a sua scelta, dell’una o dell’altra
o di entrambe.
Un tale ambito di applicazione, sostanzialmente limitato, non esclude — in linea
di principio — l’astratta configurabilità di una pronuncia anche contro Pubbliche
Amministrazioni, ma solo — beninteso — quelle volte che sia possibile condannarle
ad un facere specifico o ad un non fare: cosa che, allo stato dell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, dovrebbe essere ammessa soltanto in caso di attività di
mero fatto e di carenza assoluta di potere.
2.2.3. L’art. 614-bis c.p.c.: la manifesta iniquità quale causa di esclusione.
Con una clausola generale, probabilmente opportuna ma foriera di amplissimi
spazi di discrezionalità, la norma italiana esclude la pronuncia della coercitoria nel
caso in cui la sua imposizione sia manifestamente iniqua.
Il concetto è di complessa elaborazione: prima di ogni altra cosa, peraltro, può
notarsi che, essendo stata la scelta nazionale nel senso di riservare la coercitoria in
caso di facere infungibile e quindi di impossibilità di una esecuzione in forma specifica, per non privare di senso la previsione non potrà dirsi iniquo munire di coercitoria la condanna ad un fare infungibile, anche se si tratta di prestazione personale.
Del resto, l’iniquità differisce sostanzialmente dalla illegittimità, comportando
una valutazione per cosı̀ dire non strettamente giuridica di non corrispondenza della
misura astratta alle caratteristiche effettive del caso concreto: infatti, se si trattasse di
illegittimità, neppure la condanna alla prestazione principale potrebbe essere pronunciata e non vi sarebbe spazio per quella accessoria.
Ancora, dovrebbe trattarsi di una iniquità manifesta, vale a dire di uno stridente
contrasto con i principi dell’ordinamento, in forza del quale l’applicazione della
misura dovrebbe connotarsi come incompatibile coi fini istituzionali dell’azione o
perfino della tutela del diritto del creditore. Potrebbe ipotizzarsi la manifesta iniquità in ogni caso in cui, pur sussistendo la piena legittimità della pretesa del creditore, la sanzione privata si risolverebbe in una sproporzione evidente tra il sacrificio che con essa sarebbe imposto al debitore e l’interesse del creditore a vedere
eseguita la prestazione. Si potrebbe pensare allora ai diritti personalissimi, nei limiti
in cui possano essere oggetto di una condanna ad un fare infungibile, la cui com-
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
pressione, in rapporto alla specifica condotta richiesta, oltrepassi una soglia ritenuta
adeguata, secondo l’opinione corrente e quindi con una valutazione necessariamente rimessa al caso concreto.
Anche se la sanzione privata deve pure nel diritto italiano rimanere del tutto
distinta dal risarcimento del danno, potrebbe poi ipotizzarsi una manifesta iniquità
nell’ipotesi in cui dal mancato o ritardato adempimento da parte del debitore il
creditore abbia a patire un danno tenuissimo, oppure perfino possa trarne un vantaggio (in una sorta di applicazione estensiva del principio generale della compensatio lucri cum damno), ovvero possa condizionare con la sua condotta un aggravio
di quella richiesta al debitore condannato, ovvero possa dare luogo con essa a danni
autonomi o concorrere alla produzione di quelli riferibili in via di preponderanza
causale al debitore.
2.2.4. La struttura.
A differenza dall’istituto francese, articolato su di una duplicità di fasi e su di una
duplicità di struttura, la sanzione privata italiana non si distingue in provvisoria e
definitiva, né ha bisogno di una fase di irrogazione distinta da quella della liquidazione.
L’estremo pragmatismo d’Oltralpe ha infatti, come si è visto, riservato ad una
prima tipologia di astreinte, detta comminatoria, la formulazione di una minaccia
anche seria e grave di importanti negative conseguente patrimoniali al debitore,
soggetta però ad agili e deformalizzate procedure di revisione o modifica, tali da
renderla adeguata alle condizioni del soggetto nei cui confronti è pronunciata; solo
in un secondo momento si avrà, con l’astreinte definitiva, la cristallizzazione degli
effetti negativi per il patrimonio del debitore, diventando immutabili le prescrizioni
ivi contenute e quindi i criteri per la quantificazione della sanzione in concreto
percepibile dal creditore. Ciò è stato reso possibile da un contesto nel quale il debitore ha effettivamente rispetto delle decisioni giudiziali pronunciate contro di lui
e solitamente si induce a contestarle per lo più su motivi “seri”, mentre il giudice
possiede poteri discrezionali molto ampi ed usati con prudenza e particolare aderenza alle circostanze del caso concreto, uniti ad un’agilità di forme e ad un controllo non formalistico ma sostanziale della corrispondenza del provvedimento a tali
circostanze, che si sostanzia nella tendenziale inusualità delle impugnazioni.
Il legislatore italiano ha scelto invece l’unificazione — e forse la semplificazione —
della tipologia e della fase: la sanzione privata è sempre definitiva e la sua liquidazione avviene in forza dei criteri fissati con il provvedimento che la commina.
Soprattutto quest’ultima fase comporta la rimessione dei calcoli e l’applicazione
dei criteri all’iniziativa del creditore, il quale, nella formulazione del relativo precetto, avrà l’onere di indicare entrambi: ma tanto corrisponde a situazioni sostanzialmente normali nell’esecuzione nostrana, allorquando sia rimessa appunto al cre-
Opinioni e commenti
533
ditore la determinazione della prestazione finale effettivamente dovuta, ma sulla
base di quanto contenuto nel titolo esecutivo.
Una volta però fissati i criteri o la stessa entità della liquidazione, il capo del
provvedimento di condanna che commina la sanzione privata passa in giudicato
anch’esso, allo stesso modo di quello sulle spese di lite. Successivamente, non potrà
quindi rimettersi in discussione la sussistenza dei presupposti della condanna, vale
a dire la soccombenza sulla questione relativa all’obbligazione principale, ma pure
la qualificazione di questa come facere infungibile o non fare, l’esclusione della
manifesta iniquità, la corrispondenza ai parametri del capoverso dell’art. 614-bis
c.p.c.; saranno appunto ammessi soltanto fatti successivi al giudicato, in ossequio ai
principi generali della materia.
2.2.5. La competenza.
La funzionalizzazione della sanzione privata alla corretta e puntuale esecuzione
della condanna principale esclude che essa sia l’oggetto di un capo autonomo di
domanda: con essa il creditore non chiede affatto il riconoscimento di un diritto
nuovo, ma solo di munire l’eventuale condanna in suo favore di uno strumento
(ulteriore) di coercizione della volontà del debitore ad adempiere appunto l’obbligazione di fare infungibile o di non fare.
La sanzione privata viene anzi disposta dal giudice all’atto della pronuncia della
condanna: e l’istanza cui è subordinata la sua emissione non pare affatto riferita al
dispiegamento della domanda principale, risolvendosi piuttosto in un presupposto
processuale per l’attivazione del relativo potere ufficioso del giudice, visto che quest’ultimo non è affatto vincolato, come si vedrà, alle richieste in tal senso eventualmente formulate dal creditore per dare concretezza al contenuto della sanzione
privata. Quest’ultima attiene quindi alla fase della decisione e non dell’introduzione
della causa; ne consegue che, in quanto pronuncia accessoria comunque fondata sul
riconoscimento della pretesa principale, essa può quindi dirsi mero sviluppo o conseguenza della prima domanda che abbia ad oggetto quest’ultima: e non incide
pertanto sulla competenza per valore del giudice adito, né sul valore della controversia ai fini del contributo unificato per le spese di giustizia.
Il creditore non formula quindi un capo autonomo di domanda, né formula alcuna domanda, tanto meno nuova, invocando la sanzione privata: se ne deduce che
egli possa anche presentare la relativa istanza al momento della precisazione delle
conclusioni e per di più in appello, qualunque sia il rito seguito. Anzi, ad ulteriore
sviluppo delle premesse, poiché si tratta di un mero accessorio della condanna, ove
la Corte di Cassazione decidesse nel merito ex art. 384 c.p.c., essa potrebbe munire
l’eventuale condanna della sanzione privata.
A differenza invece dall’istituto francese, unico competente a pronunciare il provvedimento di coercitoria è il giudice che pronuncia la condanna principale e quindi
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
il giudice del merito; sempre a differenza dall’istituto francese, il giudice necessita
della domanda della parte, vale a dire del creditore; né è ammessa una pronuncia di
coercitoria in separata sede.
Quanto all’espressione «provvedimento di condanna», essa non pare doversi limitare alle sentenze, ma può estendersi alle ordinanze, purché contengano una statuizione sulla sussistenza o meno del diritto vantato da una delle parti e, quindi, di
quell’obbligazione principale, la cui esecuzione si vuole garantire od assistere con la
minaccia di astreinte: e dovrebbe comprendere quindi anche le ordinanze. Del resto, quando vi sia un provvedimento cautelare — ed a maggior ragione possessorio,
in virtù dei rinvii al procedimento cautelare uniforme — che abbia ad oggetto un
facere — tanto più se infungibile — ovvero un non facere, per insegnamento consolidato non si avrebbe una “esecuzione”, ma solo una “attuazione”, che sfugge per
sua natura alle regole in tema di esecuzione. Al contempo, l’estrema deformalizzazione del procedimento cautelare e del provvedimento che lo conclude non esclude
affatto l’estensione, ope iudicis, a quest’ultimo dei contenuti propri della coercitoria
prevista per la decisione di merito. In sostanza, il giudice del provvedimento cautelare potrebbe pronunciarne uno che contempli anche, per garantire maggiore effettività al comando, strutturarsi sul modello degli istituti propri dell’esecuzione: cosa
che del resto già succede con altri istituti, come nel caso della previa notifica di titolo
e perfino di precetto, talvolta introdotti appunto come espresse previsioni nell’ordinanza cautelare.
2.2.6. La quantificazione della sanzione.
Stabilisce l’art. 614-bis c.p.c., da un lato, che il provvedimento di condanna costituisce titolo esecutivo per il pagamento delle somme dovute per ogni violazione
od inosservanza e, al contempo, che per la determinazione della somma dovuta il
giudice deve tenere conto del valore della controversia, della natura della prestazione dovuta, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile.
Si tratta di elementi assai vaghi, a ben vedere, che tendono ad assimilare l’istituto
a quello francese in punto di estrema ampiezza della discrezionalità del giudice,
anche se coinvolgono l’entità del risarcimento. Va infatti sul punto subito ricordato
che la sanzione privata è completamente diversa e distinta dal risarcimento e che
quest’ultimo va adeguatamente e separatamente chiesto e riconosciuto.
Se la finalità resta quella di costringere il debitore ad adempiere volontariamente,
al contempo continua a restare esclusa qualunque finalità risarcitoria: non può allora in alcun caso farsi riferimento al solo eventuale risarcimento chiesto o invocabile dal creditore per limitare ad esso la sanzione privata; sembra equo che quest’ultima resti però influenzata dal valore della controversia e dall’entità del danno, nel
senso che un rapporto ragionevole tra detti valore e danno e l’ammontare della
sanzione possa essere instaurato, ma pur sempre in rapporto all’esigenza di tutela
Opinioni e commenti
535
effettiva del creditore. La sanzione potrà allora, soprattutto se rapportata al tempo
o al numero di prevedibili ulteriori inadempimenti, fissarsi nella maggiore delle
somme tra una quota o frazione del valore della prestazione ed una quota o frazione
del valore del risarcimento.
La natura della prestazione dovuta potrà incidere, ad esempio in funzione di
attenuazione della quantificazione in ragione del carattere maggiormente personale
della stessa per il debitore rispetto al creditore o, al contrario, di incremento in
ragione del carattere maggiormente personale per il creditore rispetto al debitore. In
casi di eguale patrimonialità, la natura potrà svolgere un ruolo invece neutro (ad es.,
astensioni in materia di diritti reali).
In tutti i casi sarà possibile una quantificazione progressiva: intendendosi questa
non solo come rapportata ad unità di tempo ben precise, ma anche come rapportata
in misura maggiore a mano a mano che il tempo prosegua o che le violazioni si
reiterino. In tal caso, potrà ipotizzarsi una somma di 100 per la prima mensilità di
ritardo o per la prima ipotesi di inadempimento, di 200 per la seconda, di 400 per la
terza, di 800 per la quarta (progressione geometrica), ovvero di 100-200-300-400
(progressione aritmetica), ovvero di 100-200-400-1600 (progressione esponenziale),
ovvero qualunque altra che consideri adeguatamente la forza coercitiva dell’aumento della sanzione.
In caso di quantificazione rapportata a periodi o inadempimenti successivi, potrebbe essere previsto ed opportuno un termine finale, oltre il quale comunque la
quantificazione cessa: ma la funzione dell’astreinte indurrebbe invece ad escludere
tale evenienza, se non altro per rendere effettiva l’efficacia deterrente e coercitiva.
Resta inteso che, in queste ipotesi, spetterà al creditore scegliere i periodi per i quali
azionare il titolo esecutivo, col solo limite del divieto di abuso del diritto: vale a dire,
egli potrà, per ciascun periodo o inadempimento a cui è rapportata la liquidazione,
procedere all’intimazione di precetto ed all’esecuzione forzata per la somma maturata fino a quel momento; ma, se è ragionevole ipotizzare una unitarietà dell’intervallo di inadempimento, occorrerà, per non violare il divieto di frazionamento del
credito di recente riconosciuto dal Supremo Collegio e comunque l’obbligo di agire
secondo buona fede anche in sede di esecuzione dell’obbligazione, attendere il completamento dell’intervallo stesso prima di intimare un pagamento parziale.
Per evitare alle parti ulteriori defatiganti contestazioni, sarà allora opportuno che,
nel provvedimento di liquidazione, il giudice si soffermi con attenzione su questi
profili e renda statuizioni particolarmente puntuali.
2.2.7. Le impugnazioni.
La semplificazione delle fasi rispetto al modello francese ha notevoli conseguenze.
In primo luogo, quale capo autonomo — benché accessorio — di condanna
anche quello che commina la sanzione accessoria è suscettibile degli stessi mezzi di
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
impugnazione previsti avverso la sentenza di condanna alla prestazione principale.
Non si ravvisano particolari difficoltà ad ipotizzare un gravame limitato al capo che
irroga la sanzione privata; al contempo, l’impugnativa della condanna alla prestazione principale dovrebbe comportare automaticamente quella del capo di condanna alla sanzione privata. Siccome accessoria, infatti, essa non sopravvivrebbe
alla caducazione della principale e per essa, similmente all’istituto di diritto francese (e pur senza trasporre le giustificazioni dogmatiche ivi elaborate, fondate sulla
differenza tra pronunce emananti dalla iurisdictio e pronunce correlate all’imperium del giudice), non possono valere autonomamente i principi in tema di giudicato.
La sospensiva concessa in sede di gravame (artt. 283-351 o 373 c.p.c.) paralizzerebbe poi l’azionamento del diritto alla sanzione privata, allo stesso modo con cui
inficia l’esecuzione per la condanna alla prestazione principale.
Spetta poi al debitore, che contesti la sussistenza o la ricorrenza di uno o più dei
presupposti di fatto addotti dal creditore, oppure la correttezza dei calcoli eseguiti,
oppure ancora che adduca fatti successivi estintivi o modificativi del diritto alla
sanzione privata (tra cui la non imputabilità dell’inadempimento anche parziale),
dispiegare opposizione alla specifica esecuzione fondata sul capo di condanna alla
sanzione privata.
L’impugnazione, in tal caso, potrà fondarsi sia sul venir meno del diritto del creditore alla prestazione principale, sia sul solo diritto ad agire in executivis per la
sanzione privata.
Quanto al primo punto, l’intima correlazione tra sanzione privata ed obbligazione
oggetto della condanna principale comporta che l’estinzione del diritto del creditore a ricevere la seconda si estenda al suo diritto a percepire la prima.
Naturalmente, possono anche sussistere vizi autonomi dell’esecuzione — per
equivalente o pecuniaria — che il creditore abbia intentato sulla base del capo della
sentenza di condanna che conteneva la sanzione privata: ed in tale ipotesi il debitore
contesterà soltanto quest’ultima, senza investire anche la condanna principale.
Solo in via di fatto, quindi, e comunque ad iniziativa del debitore che contesti la
quantificazione operata dal creditore, spetta anche in Italia al giudice dell’esecuzione, ma quale giudice dell’opposizione eventualmente dispiegata avverso quest’ultima, la potestà di determinare in concreto l’entità della sanzione privata.
3. La restaurazione dell’appellabilità delle sentenze in materia di opposizione ad esecuzione. Il nuovo testo dell’art. 616 c.p.c.
È ripristinato l’ordinario regime di impugnabilità delle sentenze che concludono
le opposizioni ad esecuzione e di terzo (queste ultime in virtù del richiamo all’art.
616, operato dal 3o co. dell’art. 619 c.p.c.): pertanto, tali sentenze tornano ad essere
normalmente appellabili (con la sola eccezione di quelle che potrebbero ricondursi
Opinioni e commenti
537
nella categoria generale delle sentenze del giudice di pace inappellabili perché pronunciate secondo equità nei casi previsti dall’art. 113, 2o co., c.p.c.).
È noto che finora tutte le sentenze di tal fatta:
— se pubblicate prima del 1o marzo 2006, restavano soggette all’ordinario regime
di appellabilità (con eccezione soltanto di quelle rese dal giudice di pace in cause di
valore tale da escludere comunque l’appello) e conseguente inammissibilità di ricorso immediato per cassazione;
— se pubblicate a far tempo dal 1o marzo 2006, andavano qualificate inappellabili, in quanto il regime di impugnazione è determinato dalla normativa in vigore al
momento in cui il provvedimento giurisdizionale viene a giuridica esistenza e cioè,
nel caso della sentenza, allorché viene pubblicato: ne conseguiva che l’appello andava dichiarato anche di ufficio inammissibile.
La norma introdotta dall’art. 14 della l. 2-2-2006, n. 52, era stata sospettata di
incostituzionalità: e ciò non già per un preteso rango costituzionale del principio del
doppio grado di giurisdizione di merito, effettivamente non sussistente, quanto soprattutto perché incongruamente equiparava alle opposizioni di mero rito e cioè agli
atti esecutivi le opposizioni ad esecuzione e di terzo, che invece avevano tutte e
comunque ad oggetto situazioni di merito relative al diritto del creditore o perfino
del terzo, mai esaminate prima, in quanto necessariamente da riferirsi a fatti successivi al giudicato, in presenza di titoli esecutivi giudiziali, oppure a fatti mai portati
alla cognizione di un giudice, in caso di titoli esecutivi stragiudiziali. E tanto appariva ancor più idoneo a vulnerare il diritto ad un processo equo, se si considerava
che al contempo era stato ampliato notevolmente il novero dei titoli esecutivi stragiudiziali, con corrispondente limitazione della tutela del debitore contro l’azionamento ingiusto di questi ultimi.
In particolare:
— in un sistema che introduceva sensibili innovazioni legislative, intervenendo su
quasi la metà della disciplina del processo esecutivo previsto dal codice di rito e
rendendolo — coerentemente con la nuova impostazione di una funzionalizzazione
del processo civile alle esigenze dell’economia moderna — molto più efficiente a
vantaggio del creditore, si limitava sensibilmente la tutela del debitore — e del terzo
ex art. 619 c.p.c. — con la soppressione di un grado di giudizio di merito e l’equiparazione delle opposizioni ad esecuzione a quelle ad atti esecutivi, nonostante l’ontologica diversità dei presupposti e degli oggetti delle prime e delle seconde;
— nonostante l’ampliamento del catalogo dei titoli esecutivi stragiudiziali (come
si evince dal nuovo testo dell’art. 474 c.p.c.) con l’inclusione — tra essi — delle
scritture private autenticate (suscettibili di essere poste in esecuzione con la loro
mera trascrizione nel testo del precetto) e quindi la notevole agevolazione dell’avvio
della procedura esecutiva (o della partecipazione ad essa attraverso l’intervento) a
favore del titolare del credito anche prima ed a prescindere da un controllo giurisdizionale sul contenuto del titolo, le possibilità, per il debitore, di contestare il
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
merito del rapporto — che potrebbe non essere mai stato appunto in precedenza
sottoposto al vaglio del giudice, come invece accade normalmente nell’ipotesi di un
titolo esecutivo giudiziale — venivano drasticamente ridotte e limitate ad un solo
grado, potendo semmai egli dolersi per esclusivi motivi di legittimità (e, stando alla
consolidata giurisprudenza del Supremo Collegio, solo per violazione di legge e non
anche per gli altri motivi di cui all’art. 360 c.p.c.) dell’unica pronuncia di merito che
avrebbe potuto conseguire sul punto;
— il principio per il quale il doppio grado di giurisdizione nel merito è privo di
usbergo costituzionale non ha natura assoluta: esso è talvolta temperato, ad escludere i sospetti di non conformità ai principi degli artt. 3 e 24 della Carta fondamentale, dalla necessità del riscontro di ulteriori elementi, come la correlazione alla
scarsa consistenza economica della controversia ed alla sua decisione secondo
equità: solo in tal modo l’inappellabilità non si espone a sospetti di violazione delle
citate norme costituzionali, tenendo conto che il parametro del valore, quale possa
essere la rilevanza del dibattito, rende giustificata e ragionevole l’opzione di accelerare il procedimento (negando il rimedio dell’appello) sulla scorta di un apprezzamento di predominanza dell’interesse (individuale e generale) ad una sollecita definizione della causa, e che inoltre la tutela del diritto di difesa va coordinata con
l’esigenza, di pari livello costituzionale, di disciplinare i modi ed i limiti del suo
esercizio in concreto, al fine di assicurare la conclusione della lite entro un congruo
termine;
— era stato già ritenuto possibile un sindacato della razionalità dell’ambito dell’appellabilità in riferimento all’art. 3 Cost., dichiarandosi l’illegittimità costituzionale dell’art. 99, ult. co., r.d. 16-3-1942, n. 267, nella parte in cui sanciva l’inappellabilità delle sentenze rese su crediti di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie, contemplati negli artt. 409 e 442 c.p.c. (C. Cost., sent. 69/1982): in tale
occasione, invero, una simile esclusione non era stata ritenuta giustificata da esigenze di celerità intrinseche alla peculiarità della procedura (nella specie, quella
concorsuale) e idonea ad integrare una disparità di trattamento;
— i principi elaborati dall’appena richiamata pronuncia della Corte costituzionale
potevano attagliarsi anche alla fattispecie delle sentenze su opposizioni ad esecuzione, alla stregua di quelli in base ai quali anche la giurisprudenza di legittimità ha
in più occasioni richiesto la presenza di particolarità delle fattispecie per giustificare
l’inappellabilità di categorie di sentenze;
— certo, lo spirito dei complessivi interventi riformatori del 2005/2006 va certamente nel recupero di snellezza, velocità ed efficienza del processo esecutivo ed in
questa chiave potrebbe suggestivamente leggersi la scelta di abolire un grado di
merito nelle parentesi cognitive più importanti, quali proprio le cause di opposizione ad esecuzione (ma la stessa sorte è toccata alle opposizioni di terzo e, a ben
vedere, alle controversie distributive, ridotte ad un subprocedimento sommario endoesecutivo concluso con ordinanza impugnabile ex art. 617 c.p.c.); ed altro, pure
Opinioni e commenti
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suggestivo argomento, è la presenza, nel sistema dei rimedi impugnatori endoesecutivi, di un’altra azione, già — e da sempre — articolata su di un solo grado di
merito, quale l’opposizione ad atti esecutivi;
— tuttavia, a cominciare dal primo argomento, poteva però osservarsi in contrario
che, con l’opposizione ad esecuzione e secondo un’interpretazione consolidata, il
debitore avrebbe potuto comunque soltanto:
a) quando si trattasse di titolo esecutivo giudiziale (provvisoriamente esecutivo o
definitivo poco importa), fare valere fatti impeditivi o modificativi o estintivi del
diritto azionato, che fossero successivi alla formazione del titolo esecutivo (o alla
conclusione del processo in cui esso si è formato e avrebbe potuto essere modificato): ma “non anche” quei fatti che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione
del titolo giudiziale;
b) quando si trattasse di titolo esecutivo stragiudiziale, contestare per la prima
volta i fatti costitutivi del diritto consacrato nel titolo o dedurre fatti impeditivi o
modificativi o estintivi, proprio perché — trattandosi di titolo formatosi al di fuori
di un processo — in precedenza bene potrebbe non essersi mai data l’occasione di
dedurre in giudizio gli uni o persino l’altro;
— era possibile allora osservare che la semplice sussistenza, in favore del creditore, del titolo esecutivo, ricostruito oltretutto quale condizione dell’azione esecutiva necessaria ma anche sufficiente, non garantiva affatto il debitore proprio per i
casi in cui egli dovesse fare valere queste particolarissime situazioni: il semplice
possesso del titolo esecutivo, insomma, reso oltretutto sensibilmente più semplice
dagli interventi riformatori del 2005/006, non rendeva certo la posizione del debitore più garantita proprio quando egli avrebbe avuto bisogno di una tutela cognitiva
piena avente ad oggetto diritti;
— il suggestivo argomento dell’esigenza di celerità diveniva a questo riguardo
inconferente: questa è garantita oramai da un compiuto sistema di strumenti interinali o persino cautelari in senso lato, del tutto idoneo a garantire le ragioni delle
parti e strutturati anche su di un sistema di impugnazioni e di anticipazione del
finale effetto della cancellazione del vincolo imposto con il pignoramento, di cui alla
nuova formulazione dell’art. 624 c.p.c.; la stessa pendenza del giudizio di opposizione e di un suo secondo grado di merito è quindi inidonea a produrre effetti sulla
prosecuzione della procedura esecutiva, il cui celere svolgimento, se non precluso
dai detti strumenti interinali o cautelari, è indipendente dalla causa di opposizione
in quanto tale;
— risultava quindi un trattamento obiettivamente ed ingiustificatamente differenziato per fattispecie sostanzialmente identiche: con evidente violazione del canone
dell’uguaglianza formale di cui all’art. 3 della Carta fondamentale.
— e poteva risultare violato il medesimo canone anche sotto il profilo dell’incongrua equiparazione delle opposizioni ad esecuzione a quelle ad atti esecutivi: in
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
quanto le prime hanno ad oggetto, per quanto detto, diritti soggettivi, mentre le
seconde riguardano irregolarità formali di atti della procedura e difficilmente possono riverberare effetti sul diritto posto a base dell’esecuzione; e la sottoposizione
delle due categorie di azioni di cognizione, ontologicamente diverse, al medesimo
regime processuale risultava quindi incongrua e non rispettosa del canone richiamato, che impone il trattamento differenziato di fattispecie diverse.
La Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibile la questione per difetto di
plausibile motivazione, nonostante la chiara prospettazione proprio dei molteplici
profili di incostituzionalità e nonostante la dottrina avesse, se non altro in prevalenza, condiviso nel merito almeno in parte i dubbi dei giudici che avevano sollevato
la questione di costituzionalità.
La disciplina transitoria stabilisce espressamente che le disposizioni novellate
del codice di rito e delle relative disposizioni di attuazione si applicano ai giudizi
instaurati dopo l’entrata in vigore della legge di novella; ma a tale regola generale è arrecata immediatamente eccezione proprio per il nuovo testo dell’art. 616
c.p.c., visto che quest’ultimo si applica anche ai giudizi pendenti in primo grado
alla data di entrata in vigore della legge stessa. Si avrà quindi questo quadro
complessivo:
— sentenza di primo grado in causa di opposizione ad esecuzione o di terzo,
pubblicata prima del 1o marzo 2006: appellabile (con la sola eccezione di quelle del
giudice di pace di valore modesto);
— sentenza di primo grado in causa di opposizione ad esecuzione o di terzo,
pubblicata tra il 1o marzo 2006 e già impugnata alla data di entrata in vigore della
legge in commento: dovendo ritenersi non più pendente in primo grado il giudizio,
la sentenza è inappellabile, ma ricorribile per cassazione;
— sentenza di primo grado in causa di opposizione ad esecuzione o di terzo,
pubblicata dopo la data di entrata in vigore della legge in commento: appellabile
(con la sola eccezione di quelle del giudice di pace decise secondo equità ex art. 113
c.p.c.).
4. I nuovi 3o e 4o co. dell’art. 624 c.p.c.
La novella armonizza l’istituto della sospensione, compiendo un ulteriore passo
verso l’affermazione della sua natura cautelare, con il principio di anticipazione
degli effetti dei provvedimenti anticipatori e non meramente conservativi, già introdotto con la riforma del 2005/2006 (e soprattutto con il nuovo testo dell’art. 669octies c.p.c.) in relazione ai provvedimenti cautelari in generale, con la c.d. eventualizzazione del giudizio di merito. Infatti, si perfeziona quale conseguenza del provvedimento di sospensione confermato o reso in sede di gravame un’anticipazione
dell’effetto finale del giudizio di merito di opposizione: effetto che, in caso di accoglimento dell’opposizione, sarebbe comunque la declaratoria di illegittimità del-
Opinioni e commenti
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l’esecuzione e l’estinzione del procedimento esecutivo con la cancellazione del pignoramento.
In particolare, la previgente disposizione aveva destato dubbi interpretativi anche
rilevanti: infatti, il tenore testuale della norma consentiva la configurazione di un
diritto di opzione discrezionale al debitore in ordine alla sorte del pignoramento,
visto che spettava a lui di ottenerne l’estinzione (o, forse più correttamente, la cancellazione), “fermo il diritto” della controparte del giudizio di opposizione di proseguire quest’ultimo nel merito.
Corrispondeva del resto alla lettera della legge ed alla ratio dell’innovazione, solo
in apparenza ardita in quanto invece coerente contrappeso all’introduzione del
doppio grado cautelare, l’interpretazione per la quale colui che aveva conseguito
la sospensione confermata era sostanzialmente arbitro della persistenza del vincolo esecutivo sui beni. Se inquadrata in questa ratio diventava pienamente sostenibile e giustificabile anche la serie di conseguenze: in primo luogo, che lo sviluppo
del giudizio di merito fosse ammesso al solo fine di accertare la legittimità dell’azione esecutiva promossa; ancora, che gli effetti del pignoramento fossero comunque travolti dalla sospensione confermata, anche se l’opposto avesse iniziato il
giudizio di merito; inoltre, che il processo esecutivo si estinguesse, residuando a
cautela delle ragioni creditorie — e per l’ipotesi che il giudizio di merito si concludesse favorevolmente per l’opposto — soltanto l’eventuale cauzione disposta dal
giudice.
In entrambi i casi, il debitore avrebbe potuto proporre l’istanza di estinzione solo
dopo decorso il termine stabilito per la proposizione del giudizio di merito, trattandosi per lui di istituto alternativo alla coltivazione di tale giudizio.
La serietà delle conseguenze di una tale scelta interpretativa aveva però già indotto prime prassi interpretative, che propendevano nel senso che l’istanza di estinzione avanzata dall’opponente potesse essere accolta solo se l’opposto non avesse
ritenuto di esercitare il diritto di instaurare il giudizio di merito; pertanto, una scelta
in tal senso da parte di anche uno solo degli opposti avrebbe precluso la proposizione dell’istanza di estinzione.
La nuova disciplina armonizza i poteri delle parti, sostanzialmente equiparandoli,
a quelli di un qualunque provvedimento cautelare positivo confermato.
Nei casi di sospensione del processo disposta ai sensi del 1o co. dell’art. 624,
se l’ordinanza non viene reclamata o viene confermata in sede di reclamo, e il
giudizio di merito non è stato introdotto nel termine perentorio assegnato ai sensi
dell’art. 616, il giudice dell’esecuzione dichiara, anche d’ufficio, con ordinanza,
l’estinzione del processo e ordina la cancellazione della trascrizione del pignoramento, provvedendo anche sulle spese. L’ordinanza è reclamabile ai sensi dell’art. 630, 3o co.
La disposizione di cui al terzo comma si applica, in quanto compatibile, anche al
caso di sospensione del processo disposta ai sensi dell’art. 618.
542
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Presupposto di applicazione della norma è che si tratti di sospensione disposta
in sede di opposizione ad esecuzione e di terzo; pertanto, la norma non può applicarsi:
— anche dopo la novella, al caso dell’ordinanza di sospensione della forza esecutiva del titolo, prevista dal nuovo art. 615, 1o co., c.p.c.: e tanto perché un pignoramento ancora potrebbe non esserci o, comunque, perché l’esecuzione eventualmente comunque seguita potrebbe essere sospesa a sua volta soltanto dal giudice di
quella;
— alle sospensioni ope legis del processo esecutivo previste dall’art. 623 c.p.c., in
quanto difetta qualunque controversia tra le parti e svariati e non necessariamente
anticipatori di una declaratoria di illegittimità dell’esecuzione possono essere i motivi di sospensione;
— alla sospensione su istanza di parte prevista dall’art. 624-bis c.p.c., sia perché
non soggetta al reclamo, sia perché diversi sono i suoi presupposti, comunque svincolati da qualunque contestazione nel merito delle pretese dei creditori (le quali anzi
sono di fatto riconosciute, a somiglianza di quanto accade per la conversione, nella
qui implicita volontà di soddisfarle in un tempo concordato), sia perché nessuna
declaratoria di illegittimità dell’esecuzione intrapresa potrebbe aver luogo per il
semplice inutile decorso del periodo di sospensione;
— probabilmente, neppure alla sospensione della distribuzione del ricavato
prevista dall’art. 512 c.p.c.: in senso favorevole all’applicazione dell’istituto poteva
militare il carattere evidentemente unitario delle fattispecie sospensive, ma in contrario va notata la chiarezza della limitazione, contenuta nel testo, alle ipotesi di
sospensione disposta in sede di opposizione ad esecuzione e ad atti esecutivi; del
resto, trattandosi di sospensione distributiva, già in base ai principi generali la
mancata instaurazione del giudizio (che, dopo la riforma, dovrebbe comunque
avere ad oggetto l’impugnazione dell’ordinanza che risolve le contestazioni) conduceva all’estinzione del medesimo ed al consolidamento del progetto proposto,
con conseguente riattivazione della distribuzione secondo le previsioni di quello
ed estinzione del processo esecutivo solo all’esito di quest’ultima; e senza considerare che, per essere giunta in sede di distribuzione, tendenzialmente la procedura esecutiva ha visto già emesso il decreto — o, per le mobiliari, il provvedimento — di trasferimento o di assegnazione, con ordine di cancellazione del
pignoramento.
Per espressa e più armonica previsione di legge, nessun dubbio può più sussistere sull’applicabilità della norma anche alla sospensione dell’esecuzione eventualmente disposta in sede di opposizione ad atti esecutivi, quando essa abbia ad
oggetto la legittimità originaria — sia pure per motivi di forma — della procedura
o comunque l’impossibilità per essa di raggiungere un utile risultato. La novella
del 2009 esclude — dal 4o co. dell’art. 624 c.p.c. — il riferimento all’art. 618-bis
c.p.c., ma soltanto in quanto inutile, visto che anche nelle opposizioni agli atti
Opinioni e commenti
543
esecutivi in materia di lavoro il potere di pronunciare atti indifferibili e la stessa
sospensione spettava comunque al giudice dell’esecuzione nella prima fase
davanti a lui.
Come prima della novella, infine, nessun argomento osta all’estensibilità del
procedimento anche alle esecuzioni in forma specifica, una volta che nel corso
delle opposizioni quanto meno ad esecuzione (essendo noti i seri dubbi sull’ammissibilità di quelle di terzo, che presuppongono un pignoramento e quindi
un’espropriazione) sia stata resa un’ordinanza di sospensione confermata o non
reclamata.
Deve trattarsi di ordinanza di sospensione non reclamata o confermata in sede di
reclamo; ma alla fattispecie va senz’altro assimilata quella dell’ordinanza concessa
direttamente in quest’ultima sede a seguito di reclamo dell’opponente: e diviene
ancora più delicato il ruolo dell’ordinanza stessa, avverso la quale non è possibile
alcuna altra impugnazione. Né rileva, per rendere applicabile il procedimento,
un’eventuale modifica, in sede di reclamo, della sospensione già concessa: ad esempio, l’imposizione di una cauzione o la modifica di quest’ultima; il presupposto di
applicabilità della norma rimane la presenza di un’ordinanza di sospensione definitiva, qualunque ne sia il contenuto.
La competenza viene ora riconosciuta, in ossequio al suo ruolo centrale di
dominus della procedura esecutiva, al giudice dell’esecuzione, qualunque sia stata
l’Autorità giudiziaria che abbia disposto la sospensione. Inoltre, egli può attivarsi
anche di ufficio: come in qualunque altra ipotesi di potere ufficioso, peraltro,
nulla vieta che il suo esercizio sia sollecitato con un ricorso della parte interessata
e verosimilmente del debitore o comunque di colui che ha ottenuto la sospensione; del resto, per potere pronunciare l’estinzione e ordinare la cancellazione del pignoramento, potrebbe pur sempre sostenersi la necessità di una
comparizione delle parti e comunque è indispensabile la prova della mancata
introduzione del giudizio di merito entro il termine perentorio fissato ai sensi
dell’art. 616 c.p.c., circostanza quest’ultima probabilmente oggetto di uno specifico onere probatorio di colui a cui giova. Peraltro, in via di prassi potrebbe
ipotizzarsi o la fissazione, già nell’ordinanza che concede la sospensione, di
un’udienza di verifica dell’effettiva instaurazione del giudizio di merito sull’opposizione, oppure la prefigurazione, sempre nella stessa ordinanza, della attivazione
del potere di dichiarare l’estinzione se qualunque interessato non abbia dato la
prova, entro un certo termine successivo a quello fissato ex art. 616 c.p.c., dell’effettiva instaurazione del giudizio di merito.
Anche in questo caso per armonizzare l’istituto con i principi generali, è espressamente previsto, quale forma di impugnazione del provvedimento che pronuncia
l’estinzione (e che ordina la cancellazione), il reclamo disciplinato dall’art. 630
c.p.c., ribadendosi l’interpretazione del carattere generale di quest’ultimo per tutte
le ipotesi di estinzione del processo esplicitamente codificate.
544
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
5. Il regime dell’estinzione del processo esecutivo.
La riformulazione dell’art. 630 c.p.c. è una — solo in apparenza parziale — equiparazione della disciplina dell’estinzione del processo esecutivo a quella del processo di cognizione, visto che la prima va ora dichiarata anche di ufficio dal giudice,
come succede in quest’ultimo.
I problemi applicativi dipendono dalla circostanza che, a differenza dal processo
di cognizione, nel quale nessun termine residua rispetto alla previgente disciplina, nel processo esecutivo si continua a prevedere che la declaratoria di estinzione
deve avere luogo entro la prima udienza successiva al verificarsi della causa di
estinzione.
Da un punto di vista sistematico, peraltro, può ritenersi che tale previsione comporti un termine meramente acceleratorio per il giudice e semmai perentorio soltanto per le parti o i soggetti del processo esecutivo: visto che il carattere ufficioso
della rilevabilità non è conciliabile con una conseguenza preclusiva della violazione
del termine di rilevamento.
6. Il giudice del giudizio di merito delle opposizioni ad atti esecutivi. Il
nuovo art. 186-bis disp. att. c.p.c.
La norma (rubricata «trattazione delle opposizioni in materia esecutiva») prevede
che ora i giudizi di merito di cui all’art. 618, 2o co., del codice, vadano trattati da un
magistrato diverso da quello che ha «conosciuto» degli atti avverso i quali è proposta opposizione.
Il punto dolente è l’individuazione del significato del termine «conosciuto»; ed in
particolare ci si può chiedere se comprenda anche gli atti che, pur non essendo stati
da lui adottati, sono stati comunque da lui presi in considerazione (“conosciuti”)
per il prosieguo del processo esecutivo: in quest’ultimo caso, il giudice dell’esecuzione non potrebbe mai pronunciarsi sul merito di nessuna delle opposizioni ex art.
617 c.p.c. proposte contro qualsiasi atto del processo, una volta iniziato; occorrerebbe un giudice per ogni fase di merito di ciascuna opposizione agli atti esecutivi
fosse dispiegata dal debitore o da un creditore; un debitore o un creditore che
impugnassero in sequenza e separatamente moltissimi atti del processo esecutivo
imporrebbero, passata la fase “cautelare”, un giudicante diverso per ognuna delle
cause.
Ora, lo spirito che pare di ricavare dalla riforma dovrebbe essere quello di impedire che il merito dell’opposizione agli atti esecutivi costituiti da atti di un giudice
dell’esecuzione sia trattato da quest’ultimo. Questo è quindi un limite legale, che
non può essere superato; ma non pare né necessario, né utile estenderne la portata.
Evidentemente, la nuova norma tende a superare l’interpretazione che la Corte costituzionale dava dell’art. 617 c.p.c., con la sua ordinanza n. 497 del
Opinioni e commenti
545
28-11-2002, secondo la quale era del tutto conforme alla Carta che a giudicare di
un’opposizione avverso un atto pronunciato da lui stesso fosse il giudice dell’esecuzione, in quanto:
— la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che il principio di imparzialita-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale, ma che non possono applicarsi al processo civile ed ai processi amministrativi e tributari i principi
elaborati con riferimento al processo penale, e segnatamente alle incompatibilità di
cui all’art. 34 del codice procedura penale, diverse essendo natura, struttura e funzione del processo penale, nel quale sussistono i principi dell’obbligatorietà dell’azione in capo ad un organo pubblico, l’indisponibilità della stessa, l’indefettibilità
della pronuncia del giudice (sentenze n. 326 del 1997, n. 51 del 1998, n. 363 del
1998 e, da ultimo, n. 78 del 2002);
— la stessa Corte ha anche stabilito che il processo civile, informato all’operatività
del principio dispositivo, si svolge su un piano di parità delle parti secondo il principio del contraddittorio e che il convincimento del giudice subisce di regola la
mediazione dell’impulso delle parti (fra le molte, sentenze n. 326 del 1997, n. 51 del
1998, e ordinanza n. 356 del 1997);
— tali principi, ripetutamente affermati in numerose pronunce della medesima
Corte riguardanti il processo civile e quello amministrativo (fra le molte, ordinanze
n. 126 del 1998, n. 304 del 1998, n. 168 del 2000, n. 220 del 2000, n. 167 del 2001),
vanno confermati nel caso dell’opposizione agli atti esecutivi, regolata dagli artt. 617
e 618 c.p.c., non essendovi identità di res iudicanda tra il processo esecutivo e l’eventuale causa di opposizione, né trattandosi di un’impugnazione in senso proprio, dal
momento che il giudice dell’opposizione agli atti esecutivi, anche quando l’atto
oggetto di opposizione è costituito da un provvedimento da lui stesso emesso, giudica in un processo a cognizione piena, nel contraddittorio delle parti, sulle cui
domande ed eccezioni deve in ogni caso pronunciarsi.
Al tempo stesso, perfino le S.U. (9-10-2008, n. 24883) condividono ormai l’affievolirsi dell’idea di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, essendo essa un servizio reso alla collettività con effettività e tempestività, per la realizzazione del diritto della parte ad avere una valida decisione nel merito in tempi
ragionevoli. L’evoluzione del quadro legislativo, ordinario e costituzionale, mostra
l’affievolimento della centralità del principio di giurisdizione intesa come espressione della sovranità statale, accompagnata dalla simmetrica emersione della esigenza di sburocratizzare la giustizia, non più espressione esclusiva del potere statale,
ma servizio per la collettività, che abbia come parametro di riferimento l’efficienza
delle soluzioni e la tempestività del prodotto-sentenza, in un mutato contesto globale in cui anche la giustizia deve adeguarsi alle regole della concorrenza (si parla
infatti di concorrenza degli ordinamenti giuridici).
Ancora, le stesse S.U. (28-2-2007, n. 4636) ritengono ora che la costituzionalizzazione del principio della ragionevole durata del processo imponga all’interprete una
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
nuova sensibilità ed un nuovo approccio interpretativo, per cui ogni soluzione che
si adotti nella risoluzione di questioni attinenti a norme sullo svolgimento del processo deve essere verificata non solo sul piano tradizionale della sua coerenza logico
concettuale, ma anche e soprattutto, per il suo impatto operativo sulla realizzazione
del detto obiettivo costituzionale.
Questi complessivi principi dovrebbero imporre una lettura restrittiva della
norma dell’art. 186-bis disp. att. c.p.c.: nonostante l’ampiezza del riferimento agli
atti di cui il giudice dell’esecuzione abbia “conosciuto”, tale espressione non può
che significare gli atti che il giudice abbia personalmente pronunciato o sulla cui
legittimità abbia già espresso una valutazione. Solo in tal senso egli ne avrebbe
conosciuto; solo cosı̀ ha un senso la limitazione contenuta nella norma (che altrimenti non avrebbe specificato che la trattazione allo stesso g.e. era preclusa
per i soli atti di cui egli avesse conosciuto); solo in tal modo si scongiura la
necessità di un giudice per ciascuna impugnazione di ognuno degli atti di una
procedura esecutiva, con una moltiplicazione tendenzialmente illimitata del
numero necessario di giudicanti, con seri riflessi sulla funzionalità dell’ufficio e
sulla stessa ordinata proseguibilità del processo esecutivo: soluzione che deriverebbe da un’applicazione esasperatamente formalistica del principio di necessaria terzietà.
In sostanza, dalla lettera della norma rimane fuori l’ipotesi dell’opposizione ex art.
617 c.p.c. contro un atto esecutivo che non sia un provvedimento del medesimo
giudice dell’esecuzione investito della procedura esecutiva cui l’atto si riferisce: per
questa ipotesi è ancora possibile conservare — per ragioni di economia processuale
— in capo al giudice del processo esecutivo cui si riferisce il provvedimento la
competenza a conoscere anche il merito dell’opposizione.
Già prima della riforma, però, era altrettanto legittimo che le tabelle, nell’organizzazione dell’ufficio, prevedessero criteri diversi, che devolvessero comunque ad
un giudice diverso da quello incaricato per il singolo processo esecutivo la cognizione del merito delle opposizioni agli atti esecutivi. È tutto qui il problema:
una scelta di opportunità, che dipende da una prevalenza del principio di terzietà
del giudice (anche se però un po’ sopravvalutato nel processo esecutivo) oppure
di quello della funzionalità ad una più ponderata decisione della migliore conoscenza degli atti in capo al giudice dell’esecuzione (principio obiettivamente
molto svalutato nell’ultimo periodo, ma che forse un minimo di dignità potrebbe
recuperare con l’esigenza di un processo in tempi ragionevoli ex art. 111 cpv.
c.p.c.).
Quindi: per legge non è possibile che il merito dell’opposizione ex art. 617 c.p.c.
sia trattato dal giudice che ha emesso l’atto impugnato o ha già conosciuto della sua
legittimità; non è invece per legge proibito al singolo giudice dell’opposizione ex art.
617 c.p.c. trattare il merito di questa, se relativa ad atti diversi; solo per libera e
discrezionale scelta tabellare potrebbe però ancora adesso, valutata ogni circo-
Opinioni e commenti
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stanza, prevedersi l’alterità del giudice del merito dell’opposizione rispetto al giudice del corrispondente processo esecutivo; sempre in virtù di analoga scelta sarebbe appunto possibile prevedere la devoluzione al singolo giudice dell’esecuzione
del merito delle opposizioni ex art. 617 c.p.c. che non abbiano ad oggetto suoi
provvedimenti o provvedimenti della cui legittimità abbia già conosciuto.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
PAOLA ROMANA LODOLINI
L’esecuzione individuale del creditore fondiario*
Sommario: 1. Il “creditore fondiario”, ovvero l’ambito di applicazione della normativa in materia di
esecuzione per credito fondiario. – 1.1. L’ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina dettata
per l’esecuzione per credito fondiario. – 1.1.a. In senso oggettivo: credito alle opere pubbliche, credito
agrario e peschereccio. – 1.1.b. In senso soggettivo: la cessione del credito fondiario, cessione in
blocco ex artt. 58 e 90, d.lg. n. 385 del 1993 e cessione di un credito singolarmente considerato. –
1.2. Cessione del credito e successione nel processo esecutivo. – 2. Le peculiarità dell’esecuzione per
credito fondiario nel d.lg. n. 385 del 1993 (art. 41). – 2.1. La fase prodromica all’esecuzione: l’esenzione
dall’obbligo di notificazione del titolo contrattuale esecutivo (art. 41, 1o co., d.lg. n. 385 del 1993). –
2.2. Le disposizioni tese ad assicurare il soddisfacimento anticipato del creditore. – 2.2.a. Il versamento immediato, a favore della banca, delle rendite degli immobili ipotecati a suo favore, dedotte le
spese di amministrazione ed i tributi, sino al soddisfacimento del credito dalla stessa vantato (art. 41, 3o
co.). – 2.2.b. Il versamento diretto, a favore della banca, della parte del prezzo corrispondente al
“complessivo credito” della stessa (art. 41, 4o co.); alcune questioni. – 2.2.b.1. In particolare: la
nozione di “complessivo credito” e la sentenza della Corte di Cassazione n. 10297 del 5 maggio 2009.
– 2.2.b.2. Osservazioni in merito alla soluzione prescelta dalla Suprema Corte. – 2.2.b.3. La questione
dell’applicabilità del principio di diritto enunciato dalla Corte ai finanziamenti fondiari regolati dal d.lg.
n. 385 del 1993. – 2.3. La possibilità per l’aggiudicatario o assegnatario di subentrare, senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione (ma subordinatamente all’emissione del decreto di trasferimento), nel
contratto di finanziamento stipulato dal debitore espropriato, attraverso il versamento, entro quindici
giorni dalla pronuncia del decreto di cui all’art. 574 c.p.c., ovvero dalla data dell’aggiudicazione o dell’assegnazione, delle rate scadute, degli accessori e delle spese (art. 41, 5o co.). – 2.3.1. Il problema
della decorrenza del termine per l’esercizio della facoltà di subentro. – 2.3.2. Il problema della tutela
degli altri creditori nel caso di esercizio, da parte dell’aggiudicatario, della facoltà di subentrare nel
contratto di finanziamento. – 3. Questioni in merito alla quantificazione del credito fondiario: cenni in
ordine al problema dell’anatocismo sulla componente di interessi delle rate scadute e a scadere del
* Il presente scritto costituisce elaborazione della relazione tenuta al terzo seminario nazionale dei
giudici dell’esecuzione, di approfondimento di aspetti problematici del processo esecutivo, organizzato
dal CESPEC (Centro studi sulle procedure esecutive e concorsuali) a San Servolo, Venezia, in data
11/13-9-2009. In generale, sul credito fondiario si veda Bozza, Il credito fondiario nel nuovo t.u. bancario, Padova, 1996; Tardivo, Il credito fondiario nella nuova legge bancaria, 6a ed., Milano, 2006; Sepe,
in Capriglione, Commentario al testo unico in materia bancaria e creditizia, Padova, 2001; Rispoli
Farina, in Belli-Contento-Patroni Griffi-Porzio-Santoro (a cura di), Commentario al d.lgs. 1o
settembre 1993, n. 38 - t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, Bologna, 2003, 581 ss.
Opinioni e commenti
549
finanziamento fondiario. – 3.1. Il computo degli interessi sulle rate scadute. – 3.2. Il computo degli
interessi sulle rate a scadere: la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12639 del 19 maggio
del 2008.
1. Il “creditore fondiario”, ovvero l’ambito di applicazione della normativa in materia di esecuzione per credito fondiario.
L’individuazione del creditore fondiario, e conseguentemente l’ambito di applicazione delle norme dettate in materia di esecuzione per credito fondiario, ha subito
una significativa evoluzione nel corso del secolo che si è da poco concluso 1.
Il r.d. n. 646 del 1905 (t.u. delle leggi sul credito fondiario, che a sua volta recepiva
disposizioni di leggi ottocentesche) riservava l’esecuzione speciale ivi disciplinata
agli istituti esercenti, in via esclusiva, il credito fondiario, cosı̀ incentrandosi, oltre
che sul dato oggettivo (disciplinato dal titolo III del medesimo r.d. n. 646 del
1905 2), sul requisito di carattere soggettivo, riferito all’istituto finanziatore.
1
Non è in questa sede possibile addentrarsi nell’evoluzione del credito fondiario, che sarà appena
tratteggiata; sul tema si confronti Bozza, Il credito fondiario, cit., 7 ss. Come ha stabilito il Tribunale di
Voghera, 11-10-1999, in De Jure: «la natura o meno di credito “fondiario” di cui ad un contratto
bancario deve essere valutata alla luce della normativa vigente al momento della conclusione di detto
contratto e pertanto — se antecedente alla data di entrata in vigore del d.lgs. 1 settembre 1993 n. 385 —
non ai sensi dell’art. 38 t.u. bancario».
2
Artt. 12-15, il cui testo di seguito si riporta:
«Art. 12.
Il credito fondiario ha per oggetto:
a) di prestare per prima ipoteca sopra immobili e fino alla metà del loro valore, somme rimborsabili
con ammortizzazione;
b) di acquistare per via di cessione o di surrogazione crediti ipotecari o privilegiati alle condizioni
sopra accennate, rendendoli riscattabili con ammortizzazione;
c) di effettuare le dette operazioni di mutuo mediante emissione di cartelle, il cui valore nominale
equivalga al capitale dovuto dai mutuatari;
d) di fare anticipazioni in seguito all’apertura di un credito a conto corrente; garantito da ipoteca alle
stesse condizioni dei prestiti;
e) di incaricarsi gratuitamente dell’esazione di cedole della rendita pubblica italiana, di buoni del
tesoro, di vaglia sopra la banca, di assegni sulle casse dello stato, delle provincie e dei comuni, di
interessi e dividendi di società, aventi guarentigia o sussidio dallo stato, in quanto le somme riscosse
debbono portarsi in conto corrente, o ritenersi in deposito per essere convertite nell’acquisto di cartelle
fondiarie, o nel pagamento di annualità, di scadenza posteriore all’effettiva riscossione.
Quando il mutuo richiesto sia esclusivamente destinato a liberare la proprietà rustica dal prezzo
residuale di acquisto o dall’onere enfiteutico, l’istituto potrà prestare fino a tre quinti di valore.
Non sarà di ostacolo alle operazioni di credito fondiario la precedenza di iscrizioni ipotecarie eventuali, quando il valore di esse, unito alla somma da mutuare o da acquistare per via di surrogazione o di
cessione, o da anticipare in conto corrente, non ecceda la metà o i tre quinti del valore degli immobili
a seconda dei casi contemplati dalla presente legge.
Art. 13.
Sono considerati come fatti su prima ipoteca i mutui, mediante i quali debbono essere rimborsati i
crediti già iscritti, quando per effetto di tale rimborso l’ipoteca dell’istituto diventa prima.
L’istituto può fare il prestito anche prima che si verifichi intieramente la surrogazione nel privilegio o
nell’ipoteca del credito rimborsato, ritenendo una somma sufficiente a garantire il difetto di pegno.
550
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Successivamente, l’art. 2 del d.p.r. del 21-1-1976, n. 7 (poi abrogato dalla l. n 175
del 6-6-1991, a sua volta abrogata dal d.lg. n. 385 del 1993), ha previsto che il credito
fondiario avesse per oggetto la concessione di mutui e di anticipazioni di durata
superiore a 18 mesi, garantiti da ipoteca di primo grado su immobili il cui valore
cauzionale fosse almeno pari al doppio delle somme mutuate, ammortizzabili ratealmente in un periodo di tempo non inferiore a 10 e non superiore a 25 anni 3. L’art.
1 del medesimo d.p.r. ha contestualmente dettato nuove disposizioni tese a regolamentare gli “enti” (cosı̀ definiti dalla medesima norma) di credito fondiario ed edilizio.
Art. 14.
Ai termini dell’art. 12 i mutui possono essere di due sorta:
a) prestiti con ammortizzazione rimborsabili per annualità che comprendono l’interesse, il compenso
per diritti di commissione e spese di amministrazione, la quota di abbonamento per le tasse e la quota
d’ammortizzazione; quest’ultima calcolata in maniera da rimborsare il prestito in un periodo di tempo
non minore di 10 anni, né maggiore di 50;
b) anticipazioni procedenti dall’apertura di crediti a conto corrente ipotecario, nei limiti e secondo le
norme da determinarsi nel regolamento. L’anticipazione però non potrà eccedere la metà del valore del
fondo dato in ipoteca.
I prestiti si fanno in cartelle fondiarie, le anticipazioni a conto corrente si fanno in denaro da ciascuno
degli istituti.
L’interesse sui prestiti è uguale a quello delle cartelle fondiarie emesse per effettuarli. L’interesse sulle
anticipazioni a conto corrente è variabile e determinato dall’istituto.
Si pagano in numerario gli interessi, le annualità ed i compensi dovuti all’istituto, nonché gli interessi
e le somme di estinzione dovute da quest’ultimo ai proprietari delle cartelle.
Art. 15.
Gli istituti o le società esercenti il credito fondiario con capitale minore di 10 milioni di lire, non
potranno alla stessa persona o ditta concedere mutui in misura maggiore del ventesimo del capitale
versato».
3
Il testo completo della norma è il seguente: «il credito fondiario ha per oggetto:
a) la concessione di mutui garantiti da ipoteca di primo grado su immobili il cui valore cauzionale sia
almeno pari al doppio delle somme mutuate ammortizzabili ratealmente in un periodo di tempo non
inferiore a 10 anni e non superiore a 25 anni. Quest’ultimo termine può essere modificato con decreto
del Ministro per il tesoro, sentito il Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio, per i mutui
non ancora stipulati. Sono considerate come garantite da ipoteca di primo grado le operazioni destinate
al rimborso di crediti già iscritti, quando per effetto di tale rimborso le operazioni vengono ad essere
garantite da ipoteca di primo grado. Le operazioni possono essere perfezionate, anche prima che si
verifichi interamente la surrogazione nell’ipoteca o nel privilegio iscritti a garanzia del credito rimborsato, purché sia costituita in deposito una somma sufficiente a garantire il rimborso della precedente
passività e utilizzabile per il rimborso stesso;
b) la concessione di anticipazioni di durata superiore a 18 mesi, garantite da ipoteca, alle stesse
condizioni dei mutui previste alla lettera a).
Le suddette operazioni, oltre che con l’impiego dei fondi patrimoniali, saranno effettuate con le
somme ricavate dalle emissioni obbligazionarie di cui al successivo art. 8.
Non sarà di ostacolo alle operazioni di credito fondiario la precedenza di iscrizioni ipotecarie,
quando il valore di esse, unito alla somma da mutuare o da concedere in anticipazione, non ecceda la
metà del valore cauzionale degli immobili.
Il presente articolo sostituisce gli articoli 12, 13, 14 e 15 del testo unico delle leggi sul credito fondiario, approvato con regio decreto 16 luglio 1905, n. 646, e successive modifiche e integrazioni».
Opinioni e commenti
551
Di tenore simile all’art. 2 del d.p.r. n. 7 del 1976 era la disposizione dell’art. 4,
l. n. 175 del 1991, che prevedeva che il credito fondiario avesse per oggetto la
concessione di mutui, di durata non inferiore a cinque anni, garantiti da ipoteca di
primo grado su immobili fino al 75 % del loro valore, nonché la concessione di
anticipazioni di durata superiore a diciotto mesi, garantite da ipoteca, alle stesse
condizioni previste per i mutui 4. Le norme in tema di requisiti soggettivi degli enti
di credito fondiario, edilizio ed alle opere pubbliche (unici soggetti abilitati ad esercitare tali forme di credito) erano invece contenute nel capo I della legge del 1991,
composto da tre articoli.
Fino all’entrata in vigore del d.lg. n. 385 del 1993, al creditore fondiario, come di
volta in volta definito ed individuato dalla normativa applicabile ratione temporis,
continuavano ad applicarsi le disposizioni dettate, per il procedimento esecutivo,
dai titoli VII e VIII del t.u. delle leggi sul credito fondiario n. 646 del 1905 5.
La disciplina di favore in tema di esecuzione per credito fondiario si spiegava,
nel t.u. del 1905, con la natura pubblicistica dell’attività svolta dal creditore fondiario: attività di intermediazione tra mutuatari e portatori di cartelle fondiarie, pressoché gratuita (salvo un piccolissimo compenso per diritti di commissione), basata
sull’adozione del sistema della provvista a mezzo di cartelle fondiarie (emissione di
cartelle fondiarie a fronte di ciascun mutuo concesso), che imponeva una correlazione rigida tra operazioni attive e passive. In questo sistema, il legislatore aveva
privilegiato l’interesse del portatore delle cartelle, disponendo a carico dell’istituto
emittente l’obbligo del non riscosso per riscosso, per cui, alla scadenza delle cartelle, l’ente era tenuto al rimborso e al pagamento degli interessi a favore del
possessore con i propri mezzi, qualora il mutuatario fosse rimasto inadempiente. A
fronte di quest’obbligo e per permetterne il rispetto, il legislatore aveva dovuto
attribuire all’ente mutuante strumenti di tutela speciali, prevalenti anche sull’inte4
Art. 4, l. n. 175 del 1991: «1. Il credito fondiario ha per oggetto:
a) la concessione di mutui, di durata non inferiore a cinque anni, garantiti da ipoteca di primo grado
su immobili fino al 75 per cento del loro valore, ferme restando le disposizioni di legge che stabiliscono
percentuali diverse. Sono considerate come garantite da ipoteca di primo grado le operazioni destinate
al rimborso dei crediti già iscritti, quando per effetto di tale rimborso le operazioni vengono ad essere
garantite da ipoteca di primo grado. Le operazioni possono essere perfezionate anche prima che si
verifichi interamente la surrogazione nell’ipoteca o nel privilegio, iscritti a garanzia del credito rimborsato, purché sia costituita in deposito una somma sufficiente a garantire il rimborso della precedente
passività e utilizzabile per il rimborso stesso;
b) la concessione di anticipazioni di durata superiore a diciotto mesi, garantite da ipoteca, alle stesse
condizioni previste per i mutui alla lettera a).
2. Non è di ostacolo alle operazioni di credito fondiario la precedenza di iscrizioni ipotecarie, ove il
valore di esse, unito alla somma da mutuare o da concedere in anticipazione, non ecceda il 75 per cento
del valore dell’immobile. Qualora le precedenti iscrizioni ipotecarie siano a favore dell’Ente concedente, il nuovo prestito può fare riferimento, anziché al valore di queste ultime, al capitale residuo del
precedente mutuo».
5
Artt. 15, d.p.r. n. 7 del 1976 e 17, l. n. 175 del 1991.
552
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
resse della massa dei creditori del mutuatario fallito, che lo ponessero in grado di
assolvere ai suoi impegni 6.
Da ultimo, la nozione di credito fondiario è oggi contenuta nell’art. 38, d.lg. n. 385
del 1993 (t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia) 7, in vigore dall’1-1-1994 8,
che ha unificato le precedenti nozioni di credito fondiario e di credito edilizio. L’art.
161, 6o co. del medesimo decreto stabilisce tuttavia che «i contratti già conclusi e i
procedimenti esecutivi in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto
legislativo restano regolati dalle norme anteriori».
Residua pertanto, anche in ragione dei tempi delle procedure esecutive, un considerevole spazio applicativo per la disciplina previgente, definitivamente abrogata
dal d.lg. n. 385 del 1993.
Ai sensi dell’art. 38 del d.lg. n. 385 del 1993, dunque: «il credito fondiario ha per
oggetto la concessione, da parte di banche, di finanziamenti 9 a medio e lungo termine garantiti da ipoteca di primo grado su immobili» 10.
L’esercizio di tale forma di credito non viene dunque più riservato, nell’impianto
normativo del Testo Unico bancario, ai preesistenti enti di credito fondiario, ma è
consentito a qualsiasi banca 11, senza ulteriori limitazioni di carattere soggettivo:
scompare quindi il «criterio di qualificazione soggettivo del credito fondiario» 12.
Ai sensi, poi, del secondo comma della norma in esame, la Banca d’Italia, in
conformità delle deliberazioni del CICR, determina l’ammontare massimo dei finanziamenti, individuandolo in rapporto al valore dei beni ipotecati e al costo delle
opere da eseguire 13, nonché le ipotesi in cui la presenza di precedenti iscrizioni
ipotecarie non impedisce la concessione dei finanziamenti (da qualificarsi quindi
6
Cosı̀ Bozza, Il credito fondiario, cit., 53-54.
In GU n. 230 del 30-9-1993, S.O. n. 92.
8
Ai sensi dell’art. 162, d.lg. n. 385 del 1993.
9
Secondo Tardivo, Il credito fondiario, cit., 36, l’utilizzo da parte del legislatore della nozione di
«finanziamento» da un lato riconosce l’unitarietà dei precedenti concetti di mutui e anticipazioni;
dall’altro «conferma l’inquadramento del contratto già qualificato dal legislatore di “mutuo” fondiario
ed edilizio come contratto consensuale».
10
Come rileva Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, RDPr,
1994, 982 ss., non esiste una definizione normativa del finanziamento a breve, medio e lungo termine,
sicché sussiste un margine di incertezza interpretativa in ordine alla ricomprensione di singole ipotesi
nella definizione dell’art. 38, d.lg. n. 385 del 1993 e, di conseguenza, nell’ambito di applicazione della
disciplina dettata dall’art. 41.
Attualmente la Banca d’Italia definisce i finanziamenti di medio termine quelli con durata originaria
superiore a 18 mesi (cfr. Circolare 31-1-1994 della Banca d’Italia - Vigilanza creditizia e finanziaria) e su
tale durata sembra sussistere un ampio consenso dottrinale (in tal senso ad es. Bozza, Il credito fondiario, cit., 13; Sepe, in Capriglione, op. cit., 293). Non risultano invece decisioni giurisprudenziali.
11
Laddove per “banca” deve intendersi, ai sensi dell’art. 1, 1o co., lett. b), d.lg. n. 385 del 1993,
l’impresa autorizzata all’esercizio dell’attività bancaria.
12
Cosı̀ Bozza, Il credito fondiario, cit., 56.
13
Secondo Bozza, Il credito fondiario, cit., 27 s., l’inosservanza dei limiti indicati comporta la nullità
dell’intero contratto, che si converte in finanziamento ipotecario ordinario, pur se la natura fondiaria
7
Opinioni e commenti
553
anch’essi come finanziamenti fondiari, ai quali si applica conseguentemente la speciale disciplina in materia esecutiva) 14.
Con la definizione di cui all’art. 38, pertanto, viene superata la dicotomia tra
mutui ed anticipazioni, prevista dalla normativa previgente, e si unificano i contratti
assoggettati alla normativa sul credito fondiario nella nozione di «finanziamenti»,
suscettibile di ricomprendere qualsiasi erogazione in denaro, quale che sia la forma
contrattuale in concreto assunta 15.
In ordine alla possibilità, prevista dal secondo comma dell’art. 38, d.lg. n. 385
del 1993, che i finanziamenti fondiari siano assistiti da ipoteca di grado successivo
al primo, la delibera CICR del 22-4-1995, emessa in attuazione del citato art. 38,
2o co. 16, si è limitata a disporre che ai fini della determinazione dell’ammontare
massimo di un finanziamento di credito fondiario, al relativo importo vada aggiunto il capitale residuo del finanziamento pregresso, lasciando al sistema
bancario la valutazione della misura dell’affidamento in relazione alla capienza
dell’ipoteca 17; la Banca d’Italia ha successivamente stabilito quale “limite di finanziabilità” quello dell’80% del valore dei beni ipotecati o del costo delle opere da
eseguire sugli stessi, elevabile al 100% in presenza di garanzie integrative. Quanto
all’ipotesi di finanziamenti concessi su immobili già gravati da precedenti
iscrizioni ipotecarie, il limite di finanziabilità deve essere calcolato aggiungendo al
del finanziamento deve negarsi solo ove si rilevi un’apprezzabile differenza nella determinazione del
valore dell’immobile, non riconducibile a quel margine di soggettività che tutte le tecniche estimative
implicano.
14
L’art. 153, d.lg. n. 385 del 1993, rubricato: «Disposizioni relative a particolari operazioni di credito» detta una normativa di carattere transitorio, prevedendo al 1o co. che fino all’emanazione delle
disposizioni della Banca d’Italia previste dall’art. 38, 2o co., continua ad applicarsi in materia la disciplina dettata dalle norme previgenti. Quanto a queste ultime, l’art. 4, 2o co., l. n. 175 del 1991 stabiliva:
«non è di ostacolo alle operazioni di credito fondiario la precedenza di iscrizioni ipotecarie, ove il valore
di esse, unito alla somma da mutuare o da concedere in anticipazione, non ecceda il 75 per cento del
valore dell’immobile. Qualora le precedenti iscrizioni ipotecarie siano a favore dell’Ente concedente, il
nuovo prestito può fare riferimento, anziché al valore di queste ultime, al capitale residuo del precedente mutuo», mentre il previgente art. 2, 2o co., d.p.r. n. 7 del 1976, abrogato dalla medesima l. n. 175
del 1991, stabiliva: «non sarà di ostacolo alle operazioni di credito fondiario la precedenza di iscrizioni
ipotecarie, quando il valore di esse, unito alla somma da mutuare o da concedere in anticipazione, non
ecceda la metà del valore cauzionale degli immobili».
15
Precisa tuttavia Bozza, Il credito fondiario, cit., 18 ss., che la normativa sul credito fondiario
presuppone un rientro rateale, sicché «gli strumenti tecnici utilizzabili per queste forme di finanziamento possono essere soltanto quelle che tollerano un rientro scadenzato e prefissato» (21).
16
«Norme in materia di credito fondiario, in attuazione dell’art. 38 comma 2 del decreto legislativo
1 settembre 1993 n. 385», in GU 15-5-1995, n. 111.
17
«Considerata l’opportunità che, in ordine ai finanziamenti su immobili gravati da ipoteca con
grado successivo al primo, la normativa venga adeguata al pieno rispetto del principio di piena concorrenza tra le banche, rimettendo ad esse la valutazione della misura dell’affidamento in relazione alla
capienza dell’ipoteca; (...) delibera (...) (i)n presenza di precedenti iscrizioni ipotecarie su un immobile,
ai fini della determinazione dell’ammontare massimo di un finanziamento di credito fondiario, al relativo importo va aggiunto il capitale residuo del finanziamento pregresso».
554
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
nuovo finanziamento il capitale residuo di quello precedente, conformemente alla
delibera CICR 18.
Nella prospettiva del legislatore del 1993, quindi, il credito fondiario non è più
appannaggio di specifici istituti, né è in alcun modo collegato all’emissione delle
cartelle fondiarie, aventi la funzione di reperimento della somma oggetto del finanziamento 19, ma può essere esercitato in via generale da tutte le banche, nonché
essere oggetto di cessione, con il mantenimento dei privilegi, delle garanzie e della
speciale disciplina processuale per lo stesso prevista, agli ulteriori soggetti previsti
dagli artt. 58, 7o co. e 90 (per il caso di liquidazione coatta amministrava delle
banche) del d.lg. n. 385 del 1993 20.
Inoltre, pur essendo, da un punto di vista sociale, principalmente finalizzato all’acquisto o alla ristrutturazione di immobili, il finanziamento fondiario non è di per
sé qualificabile come mutuo di scopo, atteso che la finalità per la quale viene erogata
la somma mutuata non entra nello scopo dell’atto 21, anche se non vi sono ostacoli
18
«Particolari operazioni di credito. Aggiornamenti n. 119 e n. 126 (del 26 giugno 1995 e del 12
aprile 1996) alla circolare n. 4 del 29 marzo 1988» (in GU n. 115 del 5-7-1995 e n. 94 del 22-4-1996).
19
Il collegamento tra l’erogazione del finanziamento e l’emissione di cartelle fondiarie era peraltro
già venuto meno con il d.lg. n. 7 del 1976, che aveva previsto che la provvista occorrente a finanziare le
operazioni di mutuo fondiario venisse realizzata, da parte della banca, non più attraverso cartelle ma
con l’emissione di obbligazioni, e che questa non fosse più necessariamente sincronica rispetto alle
operazioni di finanziamento, aggiungendo che la banca risponde comunque verso gli obbligazionisti
con l’intero suo patrimonio (art. 8); cfr. in proposito Cass., S.U., n. 12639 del 19-5-2008.
20
Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative e dei primi orientamenti interpretativi, REF, 2000, 16, cosı̀ commenta l’evoluzione legislativa in materia: «... appare un
rilevante favor del legislatore per l’esecuzione prevista dall’art. 41 t.u. in materia bancaria: la quale, da
procedura riservata alla banca per determinati tipi di finanziamenti da essa erogati, è divenuta una
procedura che tende ad inerire al tipo di finanziamento — indipendentemente dal suo attuale titolare —
quando abbia, originariamente, fatto capo ad una banca. Assistiamo cosı̀ ad un’ulteriore evoluzione
della tutela esecutiva che ci occupa: la quale, nata come privilegio processuale previsto per particolari
istituti di credito — quelli che esercitavano il credito fondiario, che soli potevano avvalersi della particolare esecuzione prevista dal t.u. sul credito fondiario (...) — è divenuta, nell’iniziale configurazione
(del 1993) del t.u. in materia bancaria, strumento generalizzato di tutela per particolari finanziamenti,
purché effettuati da una banca (indipendentemente da specifiche caratteristiche soggettive della stessa);
ed oggi tende a divenire una tutela oggettivamente inerente a determinati tipi di finanziamento, indipendentemente dalle qualità soggettive del creditore che agisca per il recupero del credito».
21
Cfr. Cass. n. 317 del 11-1-2001: «in tema di credito fondiario, la norma di cui all’art. 18 del R.D.
n. 646 del 1905 (nonché l’art. 67, ultimo comma della legge fallimentare) non postula affatto (come
implicitamente confermato, ancora, dall’art. 38 del D.Lgs. 385/1993), che, per la concessione e la validità di un contratto di mutuo fondiario, della somma erogata dall’istituto mutuante debba venir necessariamente pattuita la destinazione a scopo di miglioramento dei fondi sui quali è costituita l’ipoteca,
con la conseguenza che, non essendo il contratto intercorso tra il proprietario del fondo e la banca
legittimamente qualificabile in termini di “mutuo di scopo”, la mancata utilizzazione del finanziamento
a scopo di miglioramento fondiario non autorizza, di per sé, il giudice di merito, in assenza di ulteriori
pattuizioni di tipo convenzionale idonee a modificare la natura del negozio, a dichiararne ipso facto la
nullità ex art. 1418 c.c.»; nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, T. Roma, Sez. IV, 2-1-2003,
GM, 2003, 2189 e in De Jure. In dottrina Bozza, Il credito fondiario, cit., 15; Sepe, in Capriglione,
Commentario al testo unico in materia bancaria e creditizia, Padova, 2001, 289.
Opinioni e commenti
555
alla possibilità che le parti, nell’esercizio della loro autonomia contrattuale, inseriscano clausole tese ad individuare una specifica destinazione della somma mutuata,
tale da entrare a far parte della causa del contratto 22.
1.1. L’ampliamento dell’ambito di applicazione della disciplina dettata
per l’esecuzione per credito fondiario.
L’ambito di applicazione della disciplina dettata per l’esecuzione per credito fondiario, contenuta nell’art. 41, d.lg. n. 385 del 1993, deve tuttavia essere ampliato
tanto in senso soggettivo quanto in senso oggettivo.
1.1.a. In senso oggettivo: credito alle opere pubbliche, credito agrario e
peschereccio.
In senso oggettivo, la disciplina prevista dalla sezione I del capo VI del d.lg. n. 385
del 1993 («Credito fondiario e alle opere pubbliche») si applica, in virtù del disposto dell’art. 42, 4o co., d.lg. n. 385 del 1993, al credito alle opere pubbliche (concessione, da parte di banche, a favore di soggetti pubblici e privati, di finanziamenti
destinati alla realizzazione di opere pubbliche o di impianti di pubblica utilità),
nonché, in virtù del disposto dell’art. 44, 5o co., d.lg. n. 385 del 1993, al credito
agrario e al credito peschereccio, come definiti dall’art. 43, d.lg. n. 385 del 1993
(concessione, da parte di banche, di finanziamenti destinati alle attività agricole e
zootecniche nonché a quelle ad esse connesse o collaterali e concessione, da parte di
banche, di finanziamenti destinati alle attività di pesca e acquacoltura, nonché a
quelle ad esse connesse o collaterali), se garantiti da ipoteca su immobili 23.
Si noti che l’estensione della disciplina prevista per il credito fondiario al credito
alle opere pubbliche, al credito agrario e a quello peschereccio non è condizionata
alla circostanza che i finanziamenti concessi siano a medio e lungo termine, né,
secondo il dato testuale, dal fatto che l’ipoteca sia di primo grado. Purtuttavia, nella
comunicazione della Banca d’Italia del febbraio 1994 24, cosı̀ si interpretano le
norme in esame: «la normativa sul credito agrario (...) e quella sul credito alle opere
pubbliche (...) prevedono che quando i relativi finanziamenti “siano garantiti da
ipoteca su immobili” si applichi la disciplina prevista per le operazioni di credito
fondiario. Il rinvio suddetto deve intendersi come riferito all’intera disciplina del
22
Cfr. Banca d’Italia, Comunicazione del febbraio 1994, cit.: «quanto sopra non esclude ovviamente
la possibilità per le parti di concludere contratti di credito fondiario in cui sia individuata la destinazione dei finanziamenti»; in senso analogo anche Tardivo, Il credito, cit., 30, e dottrina ivi citata; Sepe,
in Capriglione, Commentario, cit., 289.
23
Sul credito agrario e peschereccio cfr. Giusti, Il credito agrario e il credito peschereccio, REF, 2007,
513.
24
In Bollettino di vigilanza, 2-2-1994, 62 ss., riportata in Tardivo, Il credito, cit., 446 ss.
556
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
credito fondiario, ivi compresi il grado primario dell’ipoteca, la durata del finanziamento e il regime transitorio previsto dall’art. 153, 1o co., t.u. In tal senso orienta la
formula della legge che richiama la previsione in materia di credito fondiario senza
esclusione alcuna».
In dottrina si registrano, al contrario, posizioni che, valorizzando il tenore letterale delle disposizioni in esame, ritengono non necessario che l’ipoteca sia di primo
grado 25, mentre non esistono, a quanto consta, decisioni giurisprudenziali a riguardo.
1.1.b. In senso soggettivo: la cessione del credito fondiario, cessione in
blocco ex artt. 58 e 90, d.lg. n. 385 del 1993 e cessione di un credito
singolarmente considerato.
In riferimento ai contratti stipulati nella vigenza del r.d. n. 646 del 1905, la Cassazione ha escluso che le disposizioni in materia di esecuzione immobiliare del creditore fondiario possano applicarsi anche a cessionari che non abbiano la qualità di
istituti di credito fondiario, avendo natura di norme eccezionali fondate sulla natura
del credito e sul creditore 26.
Successivamente all’entrata in vigore del d.lg. n. 385 del 1993, deve ritenersi che
il principio di diritto enunciato dalla Cassazione sia applicabile ai cessionari aventi
natura giuridica diversa dalle banche, dai soggetti previsti nell’art. 58 e da quelli
elencati nell’art. 90 del medesimo decreto legislativo.
In virtù di tali disposizioni, infatti, attualmente l’ampliamento in senso soggettivo
dell’ambito di applicazione della disciplina dettata per il credito fondiario si verifica, in primo luogo, in caso di cessione di rapporti giuridici in blocco ai sensi
dell’art. 58, d.lg. 385 del 1993. In tal caso, parti dei contratti di finanziamento
assistiti da ipoteche di primo grado possono divenire non solo altre banche (art. 58,
1o co., d.lg. n. 385 del 1993), ma anche i «soggetti, diversi dalle banche, inclusi
nell’ambito della vigilanza consolidata ai sensi dell’art. 65» e gli «intermediari finanziari iscritti nell’elenco speciale previsto dall’art. 107» (art. 58, 7o co.). In questo caso, ai sensi dell’art. 58, 3o co., «i privilegi e le garanzie di qualsiasi tipo, da
chiunque prestati o comunque esistenti a favore del cedente, nonché le trascrizioni
nei pubblici registri degli atti di acquisto dei beni oggetto di locazione finanziaria
compresi nella cessione conservano la loro validità e il loro grado a favore del
cessionario, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione. Restano altresı̀ applicabili le discipline speciali, anche di carattere processuale, previste per i crediti
ceduti», con la conseguenza che i creditori cessionari potranno anch’essi avvalersi
25
Cosı̀ Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit., 981, nota
13, nella quale si cita la conforme opinione di Costi, L’ordinamento bancario, Bologna, 1994, 381 e 389.
26
Cfr. Cass. n. 14003 del 26-7-2004, su cui infra.
Opinioni e commenti
557
della disciplina prevista, per il procedimento esecutivo, dall’art. 41 del medesimo
decreto legislativo 27.
L’applicazione della speciale disciplina prevista per l’esecuzione del creditore fondiario avviene a condizione che vengano eseguite, da parte della banca cessionaria, le
formalità previste dall’art. 58, 2o co., d.lg. n. 385 del 1993, consistenti nell’iscrizione
nel registro delle imprese (in virtù della modifica apportata al 2o co. dell’art. 58 dall’art. 2, d.lg. n. 37 del 2004; precedentemente la norma richiedeva la sola pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale) e nella pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale 28.
Non è quindi necessaria alcuna notificazione della cessione al debitore ceduto ai
sensi dell’art. 1264 c.c. 29, né alcuna annotazione nei registri immobiliari a margine
dell’iscrizione ipotecaria ex art. 2843 c.c. 30.
27
Si noti che secondo Cass. n. 20473 del 25-7-2008: «in caso di cessione in blocco dei crediti da
parte di una banca, ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993 (nel testo, vigente ratione temporis,
posteriore alle modifiche introdotte dal d.lgs. n. 342 del 1999, ma anteriore a quelle di cui al d.lgs. n. 6
del 2003), in favore di un soggetto non bancario, l’ulteriore cessione in blocco dei medesimi crediti da
parte del cessionario in favore di un’altra banca produce effetto nei confronti del debitore ceduto con
la mera pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, la quale comporta inoltre, ai sensi dell’art. 1264, terzo
comma, cod. civ., che i privilegi e le garanzie, nonché le trascrizioni nei pubblici registri degli atti di
acquisto dei beni in locazione finanziaria, conservino la loro validità e il loro grado in favore del cessionario, senza ulteriori formalità ed annotazioni, non richiedendosi, a tal fine, che il cedente sia un
soggetto autorizzato all’esercizio dell’attività bancaria».
28
Cfr. Cass. n. 13954 del 16-6-2006: «nell’ipotesi di cessione di azienda bancaria e di cessione di
crediti oggetto di cartolarizzazione, la pubblicazione dell’atto di cessione sulla Gazzetta Ufficiale sostituisce la notificazione dell’atto stesso o l’accettazione da parte del debitore ceduto, con la conseguenza
che, mentre secondo la disciplina ordinaria è sufficiente per il cessionario provare la notificazione della
cessione o l’accettazione da parte del debitore ceduto, la disciplina speciale richiede soltanto la prova
che la cessione sia stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale» (fattispecie anteriore alla modifica del 2o co.
dell’art. 58 ad opera dell’art. 2, d.lg. n. 37 del 2004; attualmente infatti il 2o co. dell’art. 58 prevede, oltre
alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale, anche l’iscrizione della cessione nel registro delle imprese).
29
Precisa tuttavia Cass. 5997 del 17-3-2006: «l’art. 58, secondo comma, del d.lgs. 1o settembre 1993,
n. 385 (nel testo originario, applicabile ratione temporis) ha inteso agevolare la realizzazione della cessione in blocco di rapporti giuridici, prevedendo, quale presupposto di efficacia della stessa nei confronti dei debitori ceduti, la pubblicazione di un avviso nella Gazzetta Ufficiale, e dispensando la banca
cessionaria dall’onere di provvedere alla notifica della cessione alle singole controparti dei rapporti
acquisiti. Tale adempimento, ponendosi sullo stesso piano di quelli prescritti in via generale dall’art.
1264 cod. civ., può essere validamente surrogato da questi ultimi, e segnatamente dalla notificazione
della cessione, che non è subordinata a particolari requisiti di forma, e può quindi aver luogo anche
mediante l’atto di citazione con cui il cessionario intima il pagamento al debitore ceduto, ovvero nel
corso del giudizio. Esso, comunque, è del tutto estraneo al perfezionamento della fattispecie traslativa,
in quanto rileva al solo fine di escludere l’efficacia liberatoria del pagamento eseguito al cedente, senza
incidere sulla circolazione del credito, il quale fin dal momento in cui la cessione si è perfezionata è nella
titolarità del cessionario, che è quindi legittimato a ricevere la prestazione dovuta anche se gli adempimenti richiesti non sono stati ancora eseguiti».
30
L’art. 2843, 2o co., c.c. prevede che la trasmissione o il vincolo dell’ipoteca non ha effetto fino a che
l’annotazione non è stata eseguita, e la giurisprudenza è costante nel ritenere che tale annotazione abbia
efficacia costitutiva, costituendo perciò un elemento integrativo indispensabile della fattispecie; ne consegue l’inefficacia del trasferimento dell’ipoteca, ove non sia stata effettuata l’annotazione della surrogazione. Cfr. Cass. n. 4137 del 21-3-2003; Cass. n. 9023 del 12-9-1997; Cass. n. 5420 del 7-5-1992.
558
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Nella pratica si è posta la questione dell’applicabilità del disposto dell’art. 58, d.lg.
n. 385 del 1993 al caso di cessione di un singolo credito ad uno dei soggetti individuati dalla norma, ma al di fuori delle ipotesi di cessione di azienda, di rami di
azienda e di rapporti giuridici individuabili in blocco.
Deve senz’altro optarsi per la soluzione negativa, non sussistendo alcun elemento
tale da consentire un’applicazione della disciplina dettata dall’art. 58 al di fuori delle
ipotesi previste dalla norma.
Tuttavia pare corretto ritenere che il cessionario di un credito specificamente
individuato possa giovarsi del privilegio fondiario se è in possesso del requisito
soggettivo previsto dalla normativa sul credito fondiario (nel vigore dell’attuale disciplina, dettata dall’art. 38, d.lg. n. 385 del 1993, è quindi sufficiente che rivesta la
natura di istituto di credito) e se ha proceduto alla annotazione della cessione a
margine dell’iscrizione ipotecaria ai sensi dell’art. 2843 c.c.
In ordine alla necessità che il cessionario del credito sia in possesso del requisito
soggettivo previsto dalla normativa sul credito fondiario ai fini del mantenimento
dei privilegi processuali riservati al creditore fondiario, la Suprema Corte ha infatti
stabilito che tali privilegi (nella specie, previsti dal r.d. 646/1905) sono strettamente
legati sia alla natura del credito che alla natura del creditore, poiché la ratio di essi
è la tutela, con finalità pubblicistiche, del sistema di formazione e di funzionamento
del credito fondiario. Non si giustifica, invece, il mantenimento di detti privilegi
processuali nei confronti dei soggetti che, non avendo la qualità di istituto di credito
fondiario, si siano resi cessionari di un credito fondiario, come è confermato sia
dalla lettera degli artt. 41, 42, 43, 45, 49, 51, 52 e 60 del r.d. n. 646 del 1905, che
individuano soggettivamente negli istituti di credito fondiario i destinatari dei privilegi processuali (senza stabilire alcun collegamento diretto tra il credito fondiario,
oggettivamente considerato e tali privilegi, se non in presenza del requisito soggettivo della qualità di creditore nell’Istituto di credito fondiario), sia dal fatto che il
secondo comma dell’art. 41 del t.u. 385/1993, che ha sostituito il r.d. 646/1905, per
i procedimenti incardinati dopo il 1o-1-1994, prevede che i privilegi processuali
continuino a spettare solamente al soggetto banca, atteso che l’art. 38 del citato t.u.,
in adempimento della delega di cui all’art. 25, l. 19-2-1992, n. 142 per l’attuazione
della direttiva del Consiglio 89/646/CEE, ha esteso a tutte le banche la possibilità di
concedere crediti fondiari 31.
L’annotazione della cessione a margine dell’ipoteca consente inoltre al cessionario, in possesso del requisito soggettivo, di divenire creditore ipotecario di primo
grado e di invocare quindi a proprio favore la normativa sul credito fondiario.
Nel vigore della disciplina attuale, pertanto, in caso di cessione di un credito
individualmente considerato è quindi necessario, al fine del mantenimento del privilegio fondiario, tanto che il cessionario sia abilitato ad esercitare il credito (e possa
31
Cosı̀ Cass. n. 14003 del 26-7-2004, in un caso nel quale era applicabile il r.d. n. 646 del 1905.
Opinioni e commenti
559
quindi stipulare finanziamenti fondiari), quanto l’annotazione della cessione ai margini dell’iscrizione dell’ipoteca. La cessione ad un soggetto diverso da un istituto di
credito è evidentemente efficace, ma alla stessa non consegue il mantenimento dei
privilegi processuali riservati al creditore fondiario, anche ove si proceda all’annotazione ex art. 2843 c.c. 32.
Un’ulteriore estensione, in senso soggettivo, dell’applicazione della disciplina sull’esecuzione del creditore fondiario si ha con l’art. 90, d.lg. n. 385 del 1993, come
modificato dal d.lg. n. 342 del 1999, che, nel disciplinare la cessione di aziende, rami
d’azienda, attività, passività, beni e rapporti giuridici individuabili in blocco, delle
banche sottoposte a liquidazione coatta amministrativa, dispone: «si applicano le
disposizioni dell’art. 58, commi 2, 3 e 4, anche quando il cessionario non sia una
banca o uno degli altri soggetti previsti dal comma 7 del medesimo articolo».
Nel caso previsto dalla norma in esame, pertanto, non sussistono limitazioni soggettive all’applicazione della disciplina dettata per l’esecuzione del creditore fondiario.
1.2. Cessione del credito e successione nel processo esecutivo.
Ove la cessione avvenga in epoca successiva all’instaurazione del processo esecutivo, la costante giurisprudenza della Suprema Corte ritiene che la successione a
titolo particolare nel diritto del creditore procedente non abbia effetto sul rapporto
processuale, che prosegue tra le parti originarie, con la conseguenza che l’alienante
mantiene la propria legittimazione attiva, conservando tale posizione anche nel caso
di intervento del successore a titolo particolare, fino a quando non sia estromesso
con il consenso delle altre parti. Tale orientamento si fonda sul principio di cui
all’art. 111 c.p.c., dettato per il processo contenzioso ma applicabile, secondo la
Suprema Corte, anche al processo esecutivo. Purtuttavia, dovendo i principi evincibili dall’art. 111 c.p.c. essere adattati alle caratteristiche proprie del processo esecutivo (per cui la soluzione di determinate questioni incidentali avviene, anziché
nell’ambito dello stesso processo, in distinti giudizi di cognizione, quali quelli volti
a decidere sulle questioni concernenti l’estinzione, le opposizioni esecutive e le controversie sulla distribuzione del ricavato), la Corte ha stabilito che deve conseguentemente riconoscersi, ferma restando la prosecuzione del processo stesso tra le parti
32
Cfr. ancora Cass. n. 14003 del 26-7-2004: «... (Il) cessionario del credito vantato dall’istituto di
credito fondiario, (...) nel caso in cui, essendosi reso altresı̀ aggiudicatario del bene, intenda esercitare
la facoltà di compensare il proprio credito con il prezzo di aggiudicazione ex art. 585, secondo
comma, cod. proc. civ., ciò può fare esclusivamente qualora abbia provveduto a far previamente
annotare la cessione del credito e l’ipoteca, in quanto l’annotazione ha efficacia costitutiva e, conseguentemente, il trasferimento dell’ipoteca a favore del creditore che abbia soddisfatto il creditore
munito di prelazione è inefficace nei confronti dei creditori concorrenti, in mancanza dell’annotazione della surrogazione».
560
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
originarie, la possibilità per il cessionario di svolgere le attività processuali inerenti
al subingresso 33.
La Suprema Corte 34 ha inoltre chiarito che in pendenza del processo esecutivo, la
successione a titolo particolare nel diritto del creditore procedente comporta che il
titolo esecutivo spiega la sua efficacia in favore del titolare del credito e di tutti i suoi
successori, siano essi a titolo universale o a titolo particolare. Pertanto, il successore
nel titolo fatto valere quale titolo esecutivo, come non ha l’obbligo di dimostrare
neppure documentalmente la sua posizione al soggetto che deve spedire il titolo in
forma esecutiva (art. 475 c.p.c.), allo stesso modo non deve farlo fuori di questa
situazione, quando il debitore non contesti questa qualità attraverso un giudizio di
accertamento negativo in sede di opposizione all’esecuzione (nella specie il debitore
aveva proposto eccezione di inammissibilità del reclamo avverso l’ordinanza di
estinzione del processo esecutivo, senza contestare la successione tra creditori).
2. Le peculiarità dell’esecuzione per credito fondiario nel d.lg. n. 385 del
1993 (art. 41).
Il “creditore fondiario”, come innanzi definito, può quindi avvalersi delle peculiarità, nella disciplina del procedimento esecutivo, previste dall’art. 41, d.lg. n. 385
del 1993 35. Oltre a dettare una disposizione in materia di rapporti dell’esecuzione
individuale con il fallimento (tematica che non è oggetto della presente analisi), tale
disciplina prevede:
a) l’esenzione dall’obbligo di notificazione del titolo contrattuale esecutivo (art.
41, 1o co.);
b) disposizioni tese ad assicurare il soddisfacimento anticipato del creditore:
b.1) il versamento immediato, a favore della banca, delle rendite degli immobili
ipotecati a suo favore, dedotte le spese di amministrazione ed i tributi, sino al soddisfacimento del credito dalla stessa vantato (art. 41, 3o co.);
b.2) il versamento diretto, a favore della banca, della parte del prezzo corrispondente al “complessivo credito” della stessa (art. 41, 4o co.);
c) la possibilità per l’aggiudicatario o assegnatario di subentrare, senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione (ma subordinatamente all’emissione del decreto
di trasferimento), nel contratto di finanziamento stipulato dal debitore espropriato.
33
Cfr., in tal senso, da ultimo, Cass. n. 4985 dell’11-3-2004; cfr. inoltre Cass. n. 14096 del 1o-7-2005,
riportata infra nel testo e, in precedenza, Cass. 9211 del 6-7-2001.
34
Cass. n. 14096 del 1o-7-2005.
35
Secondo Oriani, L’espropriazione singolare per credito fondiario, CorG, 1995, 371, con l’entrata in
vigore del d.lg. n. 385 del 1993 si è ridotto «all’osso il particularisme dell’esecuzione per credito fondiario, tanto che ora si può ben dire che non si ha un’esecuzione forzata speciale, ma un’esecuzione di
diritto comune con deroghe di non rilevantissima portata alla disciplina ordinaria»; nello stesso senso
Saletti, L’esecuzione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit., 1006.
Opinioni e commenti
561
2.1. La fase prodromica all’esecuzione: l’esenzione dall’obbligo di notificazione del titolo contrattuale esecutivo (art. 41, 1o co., d.lg. n. 385 del
1993).
Ai sensi dell’art. 41, 1o co., d.lg. n. 385 del 1993: «nel procedimento di espropriazione relativo a crediti fondiari è escluso l’obbligo della notificazione del titolo contrattuale esecutivo» 36.
Per “titolo contrattuale esecutivo” deve intendersi il contratto con il quale viene
concordata l’erogazione del finanziamento, stipulato per atto ricevuto da notaio
(art. 474, 2o co., n. 3, c.p.c.) ovvero, a seguito della modificazione introdotta dal d.l.
n. 35 del 2005, convertito dalla l. n. 80 del 2005 (come modificato dalla l. n. 263 del
2005), con scrittura privata autenticata (art. 474, 2o co., n. 2, c.p.c.) 37. Nel caso in
cui il creditore fondiario proceda ad esecuzione forzata in virtù di un titolo esecutivo giudiziale, lo stesso avrà l’obbligo di notificare il titolo 38, posto che l’esenzione
dalla notifica, previsto dall’art. 41, 1o co., d.lg. n. 385 del 1993, riguarda il solo titolo
esecutivo di origine contrattuale.
Pur essendo inapplicabile al caso dell’esecuzione intrapresa in virtù di un titolo
giudiziale il disposto dell’art. 41, 1o co., d.lg. n. 385 del 1993, si ritiene tuttavia che
il creditore fondiario possa giovarsi anche in tal caso della disciplina prevista dagli
altri commi dell’art. 41, atteso che la norma ha riguardo, nel suo 2o co., all’«azione
esecutiva su beni ipotecati a garanzia di finanziamenti fondiari», senza operare alcuna distinzione in ragione della tipologia del titolo esecutivo in base al quale si
procede all’esecuzione. Sarà quindi sufficiente, ai fini dell’applicazione della disciplina prevista dai commi secondo, terzo, quarto e quinto della norma, che il creditore possa essere definito “fondiario” ai sensi dell’art. 38, d.lg. n. 385 del 1993,
anche se successivamente abbia ottenuto un titolo esecutivo giudiziale.
Ci si è chiesti se il creditore fondiario debba notificare il titolo esecutivo nel caso
di esecuzione intrapresa nei confronti del terzo proprietario. In assenza di precedenti, quantomeno di legittimità, la prevalente dottrina si è espressa in senso negativo, facendo leva sull’ampia formulazione della legge 39.
36
La norma ricalca la previsione contenuta nell’art. 43, 1o co., t.u. n. 646 del 1905, ai sensi della
quale: «nel procedimento di espropriazione iniziato dagli istituti di credito fondiario, è escluso l’obbligo
della notificazione del titolo contrattuale esecutivo».
37
Secondo Sepe, in Capriglione, Commentario, cit., 319, tuttavia, l’esenzione riguarderebbe la sola
notifica del titolo contrattuale in forma esecutiva, mentre dovrebbe ugualmente essere notificato il titolo
contrattuale — non esecutivo — unitamente al precetto. Contra Saletti, L’espropriazione per credito
fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 19.
38
Cosı̀ Saletti, L’esecuzione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 18; Oriani,
L’espropriazione singolare, cit., 373 (sia pure in termini apparentemente dubitativi) e Soldi, Manuale
dell’esecuzione forzata, Padova, 2008, 928.
39
Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 19; Oriani,
L’espropriazione, cit., 373; Bozza, Il credito fondiario, cit., 105. In tal senso anche Giusti, relazione
tenuta al Corso di studi organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Roma sul tema “L’ese-
562
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
L’inizio dell’esecuzione deve essere comunque preceduto dalla notificazione del
precetto.
Nel vigore del r.d. n. 646 del 1905, l’art. 43, 2o co. disponeva: «il precetto di
pagamento è notificato al domicilio eletto nello istrumento di mutuo, e, nel caso
preveduto dal secondo capoverso dell’art. 20, al domicilio eletto dai successori o
aventi causa del debitore. La medesima regola sarà seguita qualora non si fosse
costituito procuratore per la notificazione di ogni altro atto o sentenza quand’anche
contumaciale, e gli atti riguardanti la nomina del sequestratario giudiziale e la missione in possesso».
Nonostante la mancata reiterazione, nel d.lg. n. 385 del 1993, di una disposizione
di analogo tenore, la notificazione del precetto può (ma non “deve”) ugualmente
essere effettuata anche nel domicilio eletto nel contratto di mutuo, ai sensi degli artt.
141 e 139 c.p.c. L’art. 480, ult. co., c.p.c. dispone infatti che il precetto deve essere
notificato alla parte personalmente a norma degli artt. 137 ss. del medesimo codice 40.
In tal senso si è espressa, con riferimento alla analoga disposizione dettata, per
la notifica del titolo esecutivo, dall’art. 479, 2o co., c.p.c., la Suprema Corte, in
una sentenza ormai risalente 41; non risultano tuttavia decisioni più recenti, né con
riferimento alla notifica del titolo esecutivo né con riferimento alla notifica del precetto 42.
Attraverso tale combinazione di norme, quindi, la soluzione è simile a quella
prevista dal r.d. del 1905, il cui art. 43 rendeva tuttavia obbligatoria la notificazione
nel domicilio eletto nel contratto di mutuo. Va tuttavia segnalato, a tale proposito,
che la Cassazione 43 ha ritenuto nulla la clausola contrattuale che contiene l’elezione
di domicilio, finalizzata alla notificazione di futuri atti giudiziari, presso la Casa
comunale, perché produttiva di una lesione del diritto costituzionale al contraddittorio, non potendo la P.A., senza una specifica previsione normativa abilitativa,
ricevere atti per conto di privati né addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. Secondo la Suprema Corte, non trova applicazione a tale fattispecie la regola
della validità ed efficacia dell’elezione di domicilio, anche in mancanza del consenso
cuzione forzata” in data 24/26-4-2004, 63. Con riferimento ai successori del debitore, la Suprema Corte,
con sentenza n. 2755 del 7-3-1992, ha ritenuto che gli istituti di credito fondiario possano procedere ad
esecuzione forzata sull’immobile ipotecato senza notifica del titolo esecutivo anche nei confronti dei
successori a titolo universale o particolare del debitore e degli aventi causa che abbiano notificato
all’istituto di essere subentrati nel possesso o godimento dell’immobile ipotecato, indipendentemente
dalla circostanza che questi si siano o meno accollati il mutuo.
40
Cfr. Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 19 ss.
41
Cass. n. 4882 del 16-11-1989.
42
Più in generale, Cass. n. 101 del 10-1-1975 ha stabilito che in tema di atti che, in deroga al
principio sancito nel primo comma dell’art 170 c.p.c., debbono essere notificati personalmente alla
parte, sono applicabili le norme degli artt. 138 ss. c.p.c., non esclusa quella relativa alla notifica presso
il domiciliatario; entrambe le sentenze sono citate in nota in Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 19 ss.
43
Cass. n. 15673 del 13-7-2007.
Opinioni e commenti
563
e dell’accettazione del domiciliatario, posto che al raggiungimento dello scopo dell’elezione di domicilio si frappone in questo caso un’impossibilità di diritto, da
ritenersi conosciuta da entrambe le parti del contratto 44.
Stante l’identità di ratio, deve ritenersi che analoga soluzione valga anche per
l’elezione di domicilio effettuata presso la Conservatoria dei registri immobiliari
(oggi Agenzia del Territorio), che si trova frequentemente nei contratti di mutuo 45.
Nel vigore del r.d. n. 646 del 1905 era previsto che i successori a titolo universale
o particolare del debitore e gli aventi causa dovessero notificare giudizialmente all’istituto come essi erano subentrati nel possesso e godimento del fondo ipotecato.
In virtù di tale notificazione, che doveva contenere la elezione di domicilio di essi
successori o aventi causa nel luogo del tribunale nel cui circondario erano situati i
fondi, l’istituto avrebbe proceduto contro di loro «nel modo stesso come avrebbe
proceduto contro l’originario debitore» (art. 20). La norma aggiungeva: «in mancanza di tale notificazione gli atti giudiziali, compresi quelli di rinnovazione di ipoteche, di interruzione della prescrizione di esse, di sequestro, d’ingiunzione del pagamento, d’immissione dell’istituto in possesso, di subastazione e di aggiudicazione,
44
In motivazione: «deve, infatti, ritenersi nulla, e conseguentemente inidonea anche a giustificare
l’applicazione di uno specifico criterio di competenza territoriale a norma dell’art. 30 c.p.c., la clausola
contrattuale con la quale i clienti della banca avevano eletto domicilio presso il Comune di Macerata.
Vero è che l’elezione di domicilio speciale può essere validamente fatta, secondo la regola stabilita
nell’art. 141 c.p.c., anche in mancanza di un rapporto tra il domiciliatario e l’autore dell’elezione concernente l’onere di far pervenire a quest’ultimo l’atto notificato (Cass. 19 maggio 1972 n. 1555); e che,
essendo l’elezione di domicilio un atto giuridico unilaterale idoneo a produrre i suoi effetti indipendentemente dal consenso o dall’accettazione del domiciliatario (Cass. 28 gennaio 2003 n. 1259; 3 giugno
1995 n. 6280), l’altro contraente può legittimamente fare affidamento sull’elezione di domicilio dichiarata nel contratto, anche in assenza di quel rapporto. Ma tale regola non soccorre quando l’elezione di
domicilio, per la notificazione di futuri atti giudiziari sia fatta presso una pubblica amministrazione
che, in mancanza di una speciale norma di legge, né può ricevere atti per conto di privati cittadini, né
può addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. In quest’ultimo caso, al raggiungimento dello
scopo dell’elezione di domicilio non si frappone un ostacolo di fatto, destinato a rimanere confinato
nella sfera dei rapporti tra l’autore dell’elezione e il domiciliatario eletto, bensı̀ un’impossibilità di
diritto, da ritenere conosciuta da entrambe le parti del contratto (nel caso dell’elezione di domicilio
presso la casa comunale, si deve considerare che le competenze di questi enti sono determinate dalla
legge e dall’autonomia statutaria; quest’ultima, tuttavia, nei limiti stabiliti dalla legge stessa); e la clausola in questione viene conseguentemente a configurarsi come una dispensa anticipata dalla regolare
instaurazione del contraddittorio nelle future cause nascenti da quel contratto. Questo esito è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento, e in particolare con le norme costituzionali sul diritto
di difesa e sul giusto processo, le quali subordinano la disponibilità del processo per le parti (e con ciò
l’esercizio concreto del diritto di difesa) alla preventiva instaurazione del contraddittorio. Viola pertanto il principio indisponibile del contraddittorio la pattuizione che l’atto introduttivo del giudizio
potrà essere notificato presso una pubblica amministrazione, dalle cui competenze esula la cura degli
interessi privati della parte che elegge domicilio».
45
Oriani, L’espropriazione, cit., 374, rilevando che le elezioni di domicilio presso La Conservatoria
dei Registri Immobiliari, la Casa comunale, ovvero la Procura della Repubblica, comportano che, di
fatto, il destinatario non aveva ha notizia della notificazione, auspicava che si addivenisse «ad un’interpretazione che eliminasse l’art. 141 c.p.c. tra quelle disposizioni (137 e seguenti) richiamate dall’art. 480
ult. comma».
564
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
possono essere diretti contro il debitore inscritto, quando anche il fondo o per
morte o per vendita o per qualsiasi altro titolo, anche di godimento temporaneo, sia
nel frattempo passato nelle mani di uno o più eredi, ovvero di aventi causa o terzi,
con o senza divisione» 46.
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte 47 la norma in esame era applicabile non solo nei confronti dei successori mortis causa ed inter vivos del debitore
iscritto, ma altresı̀ nei confronti degli ulteriori terzi che abbiano trascritto i loro titoli
d’acquisto, identificandosi gli “aventi causa” con gli acquirenti dai successori del
debitore (i quali, peraltro, non sono tenuti ad accertare che a detta notificazione
abbiano provveduto anche i precedenti titolari).
Come è stato rilevato dalla dottrina 48, la disposizione 49, che sanciva il cosiddetto
principio dell’indifferenza ai fini esecutivi dell’avvenuto trasferimento dell’immobile gravato da ipoteca per mutuo fondiario, introduceva un gravoso onere a carico
dei successivi acquirenti degli immobili ipotecati, i quali dovevano verificare non
soltanto le trascrizioni a carico del proprio dante causa, ma anche quelle a carico del
precedente proprietario-debitore, contro il quale era stata iscritta l’ipoteca. In caso
di mancanza della notificazione prevista dall’art. 20 del t.u. da parte degli aventi
causa, infatti, l’azione esecutiva avrebbe potuto essere intrapresa nei confronti del
debitore originario, anche se non più proprietario e perfino se deceduto.
Facendo leva sul carattere eccezionale della disposizione, la Suprema Corte, in
un’unica decisione ormai risalente 50, ha stabilito che la stessa debba essere interpretata nel senso di operare solo nei confronti del debitore mutuatario, in quanto,
creando una situazione di privilegio a favore degli istituti di credito fondiario attraverso la deroga ai principi fondamentali della trascrizione (artt. 2644 c.c. e 602 ss.
46
Secondo Cass. n. 2504 del 23-6-1975 la disposizione in esame è imperativa e non derogabile dalle
parti: «l’art. 20 del testo unico delle leggi sul credito fondiario (RD 16 luglio 1905, n. 646) prevede, con
disposizione imperativa non derogabile dalle parti, che l’acquirente debba notificare all’istituto mutuante gli estremi dell’acquisto dell’immobile ipotecato a garanzia del mutuo che egli si è accollato,
eleggendo domicilio nel luogo del tribunale nel cui circondario sono situati i fondi, al fine di consentire
all’istituto mutuante di procedere contro di lui nello stesso modo come avrebbe proceduto contro
l’originario mutuatario. Pertanto, agli effetti dell’esecuzione forzata, il domicilio eletto con tale notificazione (nella specie, casa comunale) prevale sulla residenza effettiva e sul domicilio dichiarati nell’atto
di assunzione del mutuo e nello stesso atto di notificazione».
47
Cfr. Cass. n. 9740 del 21-8-1992. Secondo la stessa sentenza: «l’acquirente di un bene immobile,
che abbia trascritto il proprio titolo d’acquisto anteriormente alla trascrizione del pignoramento eseguito in danno del proprio dante causa, è legittimato a proporre opposizione ex art. 619 cod. proc. civ.,
per far valere il suo diritto sul bene oggetto dell’esecuzione forzata, ma non anche (non essendo egli
parte del processo esecutivo) ad eccepire i vizi della relativa procedura, ovvero ad impugnare la validità
del titolo posto a base di essa».
48
Cfr. Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit., 989 e dottrina ivi citata, nonché, del medesimo Autore, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 16 ss.
49
Che ha superato in diverse occasioni il vaglio della Corte Costituzionale: cfr. C. Cost. n. 61 del
1968; C. Cost. n. 249 del 1984; C. Cost. n. 467 del 1993.
50
Cfr. Cass. n. 2068 del 19-5-1977.
Opinioni e commenti
565
c.p.c.), è norma eccezionale, di stretta interpretazione, e non può perciò essere
applicata, in via analogica, anche al terzo datore di ipoteca ed ai suoi successori, a
titolo universale o particolare, nella proprietà dell’immobile concesso in ipoteca dal
terzo datore a garanzia di un mutuo fondiario.
Al contrario, una più recente sentenza del Tribunale di Roma, pur prendendo atto
del citato orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha ritenuto tale norma
applicabile, in via di interpretazione estensiva e non analogica (trattandosi di norma
eccezionale), anche al terzo datore di ipoteca 51.
La disposizione contenuta nell’art. 20 non è stata più riprodotta nel d.lg. 385 del
1993. Tuttavia, l’art. 161 del suddetto decreto — che ha abrogato al suo 1o co. il r.d.
n. 646 del 1905 — prevede che i contratti già conclusi e i procedimenti esecutivi in
corso alla data di entrata in vigore del decreto legislativo restino regolati dalle norme
anteriori (4o co.) 52.
51
T. Roma, 6-11-2006, in De Jure: «effettivamente più controversa è l’ulteriore questione posta
dall’opponente (...) concernente l’applicabilità dell’art. 20 del t.u. n. 646/1905 nei confronti del terzo
datore di ipoteca.
Malgrado un non recente arresto della Corte di Cassazione in senso contrario (cfr. Cass. 19 maggio
1977 n. 2068), ritiene questo giudice che la norma, in ragione della sua ratio e della funzione assegnata,
più in generale, al credito fondiario, vada applicata anche al caso oggetto del presente giudizio (...).
Non si può certo negare che questa sia una norma eccezionale, che riconosce un privilegio all’istituto
di credito fondiario, in deroga alle norme comuni in tema di circolazione di beni ipotecati e di esercizio
dell’azione esecutiva. Tuttavia tale eccezionalità non si spiega certo in ragione del soggetto mutuatario,
bensı̀ in ragione della particolare funzione e delle particolari caratteristiche del credito fondiario quali
sopra sommariamente richiamate: il privilegio non può che riferirsi all’azione esecutiva, non tanto in
quanto rivolta contro il soggetto debitore originario, ma in quanto avente ad oggetto proprio quell’immobile che garantiva con ipoteca quel credito derivante da quel determinato contratto di mutuo fondiario. Avendo questo una funzione connotata da un pubblico interesse, la deroga ai principi generali in
tema di azione esecutiva si spiega e si giustifica in ragione di tale interesse, quindi in considerazione
dell’operazione economica cosı̀ come ab origine impostata.
D’altronde, la mancata espressa menzione del terzo datore di ipoteca nell’art. 20, proprio perché,
come detto, non limitata a tale norma — quasi che il legislatore intendesse escluderlo dalle conseguenze
ivi disciplinate in favore dell’istituto privilegiato — ma riscontrabile anche nelle altre norme in tema di
credito fondiario del D.P.R. n. 646/1905, consente di ritenere che l’estensione al terzo datore di ipoteca
della previsione ivi contenuta sia possibile in via di interpretazione estensiva, e non analogica (...)».
52
Prima dell’entrata in vigore del d.lg. n. 385 del 1993, la norma in esame non era stata richiamata
espressamente dalla l. n. 175 del 1991, tanto che parte della dottrina ritiene che la stessa fosse stata
abrogata dalla legge in questione: cfr. in tal senso Tardivo, tra l’altro in Il credito fondiario, cit., 234, nel
quale l’A. ritiene che la dizione, contenuta nell’art. 5 del d.p.r. n. 7 del 1976: «rimangono immutate le
disposizioni dell’art. 20» avesse avuto l’effetto di recepire la norma di cui all’art. 20 del r.d. 646 del 1905
nel d.p.r. n. 7 del 1976, cosicché l’intervenuta abrogazione di quest’ultimo da parte della legge n. 175 del
1991 avrebbe comportato anche l’abrogazione della disposizione già contenuta nell’art. 20 del r.d. del
1905. Sembra tuttavia che la stessa dizione letterale dell’art. 5 del d.p.r. n. 7 del 1976 renda palese
l’intenzione del Legislatore di confermare la vigenza della disposizione contenuta nel diverso testo
normativo (in gran parte abrogato dal medesimo d.p.r.), senza che la formulazione della norma possa far
concludere nel senso di un recepimento di tale disposizione nel d.p.r. Non può che conseguirne che
l’abrogazione della norma in questione sia avvenuta solo con l’abrogazione della parte del r.d. n. 646 del
1905 ancora in vigore, avvenuta solo con l’art. 161 del d.lg. n. 385 del 1993. La giurisprudenza di
legittimità si è infatti espressa nel senso di ritenere che la disposizione in esame sia stata abrogata dal
566
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
L’art. 20 continua quindi ad applicarsi nelle procedure esecutive in corso alla data
del 1o-1-1994, mentre deve escludersi che la norma si applichi alle procedure esecutive iniziate dopo tale data, pur nel caso che le stesse si fondino su contratti
conclusi e su ipoteche iscritte nel vigore del r.d. n. 646 del 1905, trattandosi di
disposizione processuale regolata dal principio tempus regit actum 53.
2.2. Le disposizioni tese ad assicurare il soddisfacimento anticipato del
creditore.
2.2.a. Il versamento immediato, a favore della banca, delle rendite degli
immobili ipotecati a suo favore, dedotte le spese di amministrazione ed i tributi, sino al soddisfacimento del credito dalla stessa
vantato (art. 41, 3o co.).
Il versamento immediato delle rendite in favore del creditore fondiario viene comunemente ritenuto un’attribuzione a carattere provvisorio, la cui determinazione è
rimessa, nell’immediatezza, alla quantificazione dell’istituto di credito, come si desume dall’utilizzo dell’espressione «credito vantato» 54.
d.lg. n. 385 del 1993, in tal modo rimanendo in vigore fino al 1o-1-1994: cfr. Cass. n. 3228 del 15-4-1997:
«ai sensi dell’art. 161 sesto comma del D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385 (...) i procedimenti esecutivi in
corso alla entrata in vigore del decreto (1 gennaio 1994) restano regolati dalle norme anteriormente
vigenti, tra le quali l’art. 20 del R.D. 16 luglio 1905 n. 646, che contiene un principio di indifferenza,
nell’ordinamento particolare del credito fondiario, ai fini esecutivi dell’avvenuto trasferimento dell’immobile gravato da ipoteca per mutuo fondiario, principio che opera esclusivamente sul piano processuale, poiché il successore è un soggetto estraneo al rapporto di debito dal quale nasce l’esecuzione (...)»
e Cass. n. 6860 del 25-5-2000: «ai sensi dell’art. 161 sesto comma del D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385 (...)
i procedimenti esecutivi in corso alla entrata in vigore del decreto (1 gennaio 1994) restano regolati dalle
norme anteriormente vigenti, tra le quali l’art. 20 del R.D. 16 luglio 1905 n. 646 (...)».
53
In questo senso si è espresso tra l’altro il Tribunale di Torino, con ordinanza resa nella procedura
esecutiva 648/2002, inedita, con la quale è stata dichiarata l’inefficacia del pignoramento notificato
all’originario debitore e non al terzo proprietario, nonché la cancellazione della relativa trascrizione.
Rileva il Tribunale che per consolidato orientamento della Cassazione (Cass. n. 2638 del 10-3-1998;
n. 3238 del 15-4-1997), l’art. 20 del t.u. 1905 ha valenza esclusivamente processuale poiché, senza
interferire nel rapporto obbligatorio (che resta tra banca e mutuatario, salvo accolli) né sulla proprietà
dell’immobile (che resta del terzo acquirente) si limita a stabilire chi sia il soggetto passivo legittimato a
subire l’espropriazione fondiaria. Esso pertanto, abrogato dall’art. 161 d.p.r. 385/1993 (in vigore dal
1o-1-1994), continua in via transitoria ad applicarsi soltanto a quei procedimenti che già fossero pendenti alla data di entrata in vigore del decreto (art. 161, 6o co.) mentre, per quanto concerne i procedimenti radicati successivamente a tale data, la mancanza di disposizioni di agevolazione nell’art. 41
d.p.r. e il principio tempus regit actum comportano la necessità di applicare il diritto comune, e perciò
gli artt. 603 ss. c.p.c. Per le procedure iniziate successivamente al 1o-1-1994, pertanto, l’espropriazione
contro il terzo proprietario deve sempre avvenire nelle forme previste dagli artt. 603 ss. c.p.c., anche per
i contratti conclusi nel vigore della precedente disciplina ed indipendentemente dalla mancata notifica
all’istituto bancario ex art. 20 del t.u. del 1905. In dottrina nello stesso senso Oriani, L’espropriazione
singolare, cit., 390.
54
Cosı̀ tra gli altri Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative,
cit., 20 ss.; Oriani, L’espropriazione singolare, cit., 387.
Opinioni e commenti
567
Secondo la disposizione normativa, non è previsto alcun provvedimento autorizzatorio da parte del giudice dell’esecuzione 55, né vi è necessità che la previsione del
versamento diretto delle rendite sia contenuta in atti della procedura, diversamente
da quanto si stabilisce per il versamento diretto alla banca, da parte dell’aggiudicatario, della parte del prezzo corrispondente al complessivo credito della stessa (che
deve essere prevista nel provvedimento che dispone la vendita o l’assegnazione).
Si tratta di una previsione che deroga, sotto un duplice profilo, al principio generale desumibile dall’art. 594 c.p.c., dettato per l’assegnazione delle rendite percepite
durante l’amministrazione giudiziaria. Secondo tale norma infatti, da un lato è il
giudice dell’esecuzione a poter disporre che le rendite riscosse siano assegnate ai
creditori; dall’altro, tale assegnazione può avvenire solo «secondo le norme degli
articoli 596 e seguenti», vale a dire attraverso la predisposizione di progetti di distribuzione parziali.
La norma ricalca quella contenuta all’art. 48, 2o co., r.d. n. 646 del 1905 56 ed è
retaggio della precedente configurazione del credito fondiario, nell’ambito della
quale il versamento diretto si rendeva necessario per rimborsare le cartelle fondiarie
emesse per finanziare il prestito. Oggi è rimasta come privilegio eminentemente
processuale, ritenuto da alcuni del tutto anacronistico, ma pur sempre vigente.
Nonostante il tenore letterale della disposizione, nella pratica sono state adottate
interpretazioni tese ad affidare al custode nominato dal giudice il compito di provvedere ad una preventiva, seppur provvisoria, quantificazione del credito della
banca, al fine di evitare che alla stessa vengano attribuite somme in eccesso rispetto
al dovuto, con la conseguenza di far sorgere obblighi di restituzione che, se inadempiuti, sarebbero di pregiudizio agli altri creditori e al debitore e di ostacolo alla
sollecita definizione della procedura.
55
Secondo Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 20:
«(...) siamo in presenza ... di una disposizione derogatoria del sistema generale, che sancisce un obbligo,
incondizionato, di attribuzione alla banca di determinati ricavi dell’espropriazione». Contra Sepe, in
Capriglione, Commentario, cit., 312, secondo il quale il versamento delle rendite da parte del custode,
dell’amministratore giudiziario e del curatore fallimentare sembrerebbe possibile solo a seguito della
presentazione del conto e della sua approvazione da parte del giudice e resterebbe subordinato al non
inserimento della banca nella procedura fallimentare, dovendo questa altrimenti soggiacere alle regole
concorsuali.
56
«Il sequestratario riscuote le rendite e i frutti, il cui ammontare, dedotte le spese di amministrazione e i tributi pubblici, verserà nella cassa dell’istituto». Simili previsioni erano altresı̀ dettate, per il
caso dell’immissione in possesso dell’istituto, dall’art. 41, 3o co. del medesimo t.u., ai sensi del quale:
«durante tale immissione in possesso, l’istituto, non ostante sequestro o pignoramento che potessero
sopravvenire da parte di altri creditori del mutuatario, percepirà le rendite ed i frutti, il cui ammontare,
dedotte le spese di amministrazione ed i tributi pubblici, applicherà in estinzione delle semestralità
maturate e che venissero a maturarsi e delle spese», nonché, per il caso di fallimento del mutuatario,
dall’art. 42: «in caso di dichiarazione di fallimento di mutuatari del credito fondiario, il curatore è
tenuto a versare all’istituto creditore le rendite dei beni ipotecati a favore del medesimo, dedotte le spese
di amministrazione ed i tributi pubblici, salvo l’obbligo all’istituto stesso della restituzione a chi di
ragione in conformità del disposto dell’art. 55».
568
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
2.2.b. Il versamento diretto, a favore della banca, della parte del prezzo
corrispondente al “complessivo credito” della stessa (art. 41,
4o co.); alcune questioni.
L’art. 41, 4o co., d.lg. n. 385 del 1993 recita: «con il provvedimento che dispone la
vendita o l’assegnazione il giudice dell’esecuzione prevede, indicando il termine,
che l’aggiudicatario o l’assegnatario, che non intendano avvalersi della facoltà di
subentrare nel contratto di finanziamento, versino direttamente alla banca la parte
del prezzo corrispondente al complessivo credito della stessa. L’aggiudicatario o
l’assegnatario che non provvedano al versamento nel termine stabilito sono considerati inadempienti ai sensi dell’art. 587 del codice di procedura civile».
Analogamente al versamento immediato delle rendite degli immobili ipotecati in
favore della banca, anche il versamento diretto del prezzo costituisce un’attribuzione a carattere provvisorio, come tale subordinata alla successiva predisposizione
ed approvazione del progetto di distribuzione. Tuttavia, a differenza di quanto è
disposto per il versamento diretto delle rendite, la relativa previsione deve essere
oggi contenuta nel provvedimento che dispone la vendita o l’assegnazione 57.
A tal proposito, una prima questione che si è posta è se la previsione in esame
debba, nel caso di delega delle operazioni di vendita, essere contenuta nell’ordinanza con la quale il giudice provvede sull’istanza di vendita ai sensi dell’art. 569,
3o co., c.p.c., delegando le relative operazioni ad un professionista, ovvero nell’avviso da redigersi da parte del professionista delegato ai sensi del combinato disposto
degli artt. 591-bis, 2o co., n. 2 e 570 c.p.c., ovvero in entrambi gli atti.
Il problema si pone in quanto l’art. 591-bis c.p.c. dispone che sia il professionista
delegato a provvedere alla determinazione del modo e del termine di versamento del
prezzo tanto nella vendita senza incanto quanto nella vendita con incanto, senza
tuttavia effettuare alcun riferimento all’ipotesi di versamento diretto, prevista dall’art. 41, 4o co., d.lg. n. 385 del 1993 58.
Al contrario, l’art. 41, 4o co., d.lg. n. 385 del 1993 dispone che la previsione del
versamento diretto del prezzo da parte dell’aggiudicatario o dell’assegnatario sia
57
Al contrario, nel vigore del r.d. n. 646 del 1905, l’art. 55, 2o co. stabiliva: «il pagamento della parte
del prezzo di cui sopra, dovrà eseguirsi parimenti dall’aggiudicatario nei 20 giorni dell’aggiudicazione
anche quando da altri creditori sia stato promosso il giudizio, senza bisogno che tale obbligo sia incluso
nelle condizioni di vendita».
58
Quanto alla prima forma di vendita, la previsione della sussistenza di tale potere in capo al professionista delegato si fonda sull’espresso richiamo, da parte dell’art. 591-bis, 1o co., n. 3, c.p.c., agli
adempimenti previsti dall’art. 574 c.p.c. (che ha riguardo alla disposizione relativa al modo e al termine
di versamento del prezzo nel caso di vendita senza incanto). Quanto alla vendita con incanto, il potere
del professionista delegato si fonda sul richiamo effettuato dal 1o co. dell’art. 591-bis c.p.c. all’art. 569,
3o co., c.p.c., che a sua volta richiama l’art. 576 c.p.c. (che determina il contenuto del provvedimento
che dispone la vendita con incanto, includendovi, al n. 7), «il termine, non superiore a sessanta giorni
dall’aggiudicazione, entro il quale il prezzo deve essere depositato e le modalità del deposito»).
Opinioni e commenti
569
contenuta nel provvedimento del giudice dell’esecuzione che dispone la vendita o
l’assegnazione.
Anteriormente all’entrata in vigore della riforma del 2005, un’autorevole dottrina 59 aveva ritenuto preferibile che la statuizione in esame fosse dettata dal giudice,
facendo leva sul disposto dell’art. 576, n. 7, c.p.c., che ha riguardo a termini e
modalità del pagamento, e non all’individuazione dei soggetti legittimati a riceverlo,
nonché sulla previsione dettata dall’art. 591-bis, 11o co., c.p.c. (attualmente 8o co.),
secondo la quale le somme versate dall’aggiudicatario sono depositate presso un
istituto di credito (attualmente banca o conto postale) indicate dal giudice 60.
Altra questione riguarda l’ipotesi in cui la previsione relativa al versamento diretto
venga omessa nell’ordinanza che dispone la vendita. Sembra di poter ritenere che il
provvedimento sia opponibile ex art. 617 c.p.c. 61, mentre si pone il problema se il
versamento diretto sia comunque possibile. Sul punto non risultano decisioni giurisprudenziali, mentre la dottrina 62 esclude in tale ipotesi la possibilità del versamento diretto da parte dell’aggiudicatario, rilevando che la fissazione degli obblighi
dell’aggiudicatario o dell’assegnatario deve essere effettuata, in via esclusiva, con i
provvedimenti di vendita e di assegnazione.
In tal caso, ci si può chiedere se il versamento diretto, non effettuato per mancanza della relativa previsione nel provvedimento del giudice, possa essere disposto
con un provvedimento successivo, su istanza del creditore fondiario. Appare preferibile la soluzione positiva, in ragione della generale modificabilità e revocabilità
delle ordinanze del giudice dell’esecuzione fino all’intervenuta esecuzione delle
stesse (art. 487 c.p.c.) 63.
Quanto alla modalità di effettuazione del versamento diretto da parte dell’aggiudicatario al creditore fondiario, deve essere segnalato che in alcuni tribunali si è
optato per la soluzione di far versare all’aggiudicatario tutto il prezzo (comprensivo
delle somme dovute al creditore fondiario) sul conto della procedura; successivamente è il custode che, previa determinazione dell’importo spettante al creditore
fondiario, provvede al versamento di quanto al medesimo dovuto, con valuta al
giorno del pagamento dell’aggiudicatario. In tal modo si evitano gli inconvenienti
legati alla necessità di determinare rapidamente l’importo da versarsi al creditore
fondiario, al fine di non far incorrere in decadenze l’aggiudicatario; si perviene ad
59
Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 28.
Cfr. ancora Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit.,
28: «(...) in una materia dove il legislatore ha voluto mantenere un cosı̀ forte potere di indirizzo del
giudice, parrebbe contraddittorio ritenere che il notaio possa incidere sull’individuazione del percettore
delle somme da versarsi dall’aggiudicatario».
61
In questo senso Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit.,
998; Bozza, Il credito fondiario, cit., 117.
62
Cfr. Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit., 998; Bozza,
Il credito fondiario, cit., 117.
63
In tal senso Bozza, Il credito fondiario, cit., 118; Oriani, L’espropriazione singolare, cit., 380.
60
570
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
una determinazione probabilmente più corretta della somma e non si pregiudica in
alcun modo il creditore fondiario, che riceve comunque il dovuto con valuta dal
giorno del pagamento.
Parte della dottrina 64 ipotizza invece che il giudice dell’esecuzione assegni al creditore fondiario un termine, successivo all’aggiudicazione, per la quantificazione del
proprio credito, anche al fine di consentire all’aggiudicatario di esercitare l’opzione
relativa al subentro nel contratto di finanziamento.
Tale soluzione, tuttavia, rende necessaria la fissazione di un doppio termine: l’uno
per la quantificazione del credito da parte della banca ed il secondo per il versamento diretto del prezzo, da far decorrere dalla comunicazione della determinazione del credito. Inoltre non vengono in questo modo eliminati i problemi relativi
ai ritardi nella determinazione del credito da parte del creditore (frequenti soprattutto in caso di cessione del credito), che farebbero rimanere sospeso il termine per
il versamento da parte dell’aggiudicatario.
2.2.b.1. In particolare: la nozione di “complessivo credito” e la sentenza
della Corte di Cassazione n. 10297 del 5 maggio 2009.
La questione che appare indubbiamente più problematica, tanto più a seguito
della recente sentenza della Corte di Cassazione n. 10297 del 5-5-2009, ha riguardo
all’ammontare del versamento diretto da effettuarsi da parte dell’aggiudicatario al
creditore fondiario.
Si tratta, in sostanza, di attribuire un significato all’espressione «complessivo credito», contenuta nel 4o co. dell’art. 41; espressione che, se interpretata in senso
letterale, condurrebbe ad attribuire in via immediata, se pur provvisoria, all’istituto
tutte le somme allo stesso dovute, tanto in via ipotecaria quanto in via chirografaria.
All’interpretazione letterale della norma si è tuttavia contrapposta, nella giurisprudenza di merito, un’interpretazione tesa a privilegiare la soluzione secondo la
quale all’istituto di credito fondiario deve essere attribuita la sola quota del proprio
credito garantita dall’ipoteca di primo grado 65; quota da determinarsi, quanto alla
collocazione degli interessi, attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c.
Tale orientamento si fonda sul duplice presupposto secondo il quale, da un lato,
il privilegio processuale attribuito al creditore fondiario non può estendersi oltre il
privilegio sostanziale dallo stesso goduto e, dall’altro, che appare del tutto priva di
senso un’attribuzione in via provvisoria, al creditore fondiario, di somme che non gli
64
Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 23.
In questo senso, cfr. ad es. T. Roma, 26-7-2005, in De Jure e GM, 2006, 3, 642: «nell’ambito
dell’esecuzione individuale il creditore fondiario ha il diritto di ottenere dall’aggiudicatario, in via provvisoria, l’importo corrispondente al credito ipotecario vantato» (la massima cosı̀ prosegue: «tuttavia
una tale attribuzione non altera le regole del concorso sostanziale dei crediti insinuati nella procedura
fallimentare come definite in sede di verifica dello stato passivo»).
65
Opinioni e commenti
571
spetterebbero all’esito dell’approvazione del progetto di distribuzione 66. L’attribuzione in via provvisoria — attraverso il versamento diretto da parte dell’aggiudicatario — di somme superiori al credito ipotecario sarebbe altresı̀ suscettibile di determinare una serie di problemi pratici in sede di distribuzione definitiva, allorché il
creditore fondiario ritardasse la restituzione delle somme ricevute in eccedenza,
ovvero non le restituisse tout court, determinando la necessità — per i creditori
insoddisfatti — di procedere in via ordinaria al fine di conseguire un titolo esecutivo
idoneo al recupero delle somme, non essendo sufficiente, allo scopo, l’emissione di
un ordine di restituzione da parte del giudice dell’esecuzione.
È del tutto evidente che la soluzione secondo la quale l’attribuzione in via provvisoria deve essere limitata al solo credito ipotecario del creditore fondiario si fonda
a sua volta sul presupposto secondo il quale all’istituto di credito spetta, in via
definitiva ed all’esito dell’approvazione del progetto di distribuzione, dapprima la
somma allo stesso dovuta in via ipotecaria, determinata ai sensi dell’art. 2855 c.c.,
mentre per la restante parte il credito può essere soddisfatto solo in via chirografaria, successivamente a quello di eventuali altri creditori ipotecari e in concorrenza
con gli altri creditori chirografari.
Tale soluzione presuppone quindi che la quantificazione del credito ipotecario del
creditore fondiario debba essere effettuata, quanto alla misura degli interessi, attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c., con le conseguenti limitazioni alla collocazione degli interessi risultanti dal tenore della norma.
In tal senso si è infatti più volte espressa la Suprema Corte, la quale, sia pure
pronunciandosi con riferimento agli artt. 54 e 55 l. fall. 67, ha ritenuto che l’iscrizione
di crediti per capitale al passivo concorsuale fa collocare nello stesso grado, secondo
quanto disposto dal terzo comma del citato art. 54 l. fall., il credito per interessi
maturato limitatamente alle due annate anteriori e a quella in corso alla data del
pignoramento (intendendosi la dichiarazione di fallimento equiparata al pignoramento), ma soltanto nella misura legale, senza che a tale principio possano derogare
le norme sul credito fondiario.
La Corte ha pertanto costantemente ribadito l’applicabilità dell’art. 2855 c.c. alla
quantificazione del credito ipotecario del creditore fondiario, facendo leva sulla
natura esclusivamente processuale delle norme dettate dal t.u. sul credito fondiario 68 e ciò nonostante, come è stato rilevato in dottrina, fosse «dal 1973 che con
decine di ricorsi per cassazione gli istituti di credito hanno cercato, inutilmente, di
ribaltare l’orientamento inaugurato» dalla sentenza n. 2734 del 25-10-1973 della
Cassazione 69.
66
Cfr. in tal senso Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, cit., 930.
Cfr. da ultimo Cass. n. 8657 del 29-8-1998 e Cass. n. 11033 dell’8-11-1997, non seguite da altre di
segno contrario; cfr. altresı̀, tra le altre precedenti, Cass. n. 7148 del 3-12-1986.
68
Di «privilegi processuali» parla tra l’altro esplicitamente la già citata Cass. n. 14003 del 26-7-2004.
69
Oriani, L’espropriazione, cit., 390.
67
572
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Nella giurisprudenza di merito, due sentenze della Corte d’Appello di Milano
(n. 1510 del 29-5-1998, che ha confermato T. Monza, 4-6-1996, n. 1170, e n. 985 del
16-4-1999, che ha confermato T. Como, 21-5-1996) 70, hanno ritenuto altresı̀ applicabile l’art. 2855 c.c. alla determinazione del credito fondiario in due casi di esecuzione individuale, sottoposti ratione temporis alla disciplina del t.u. del 1905.
Analoga soluzione è stata, più recentemente, prescelta dal Tribunale di Roma 71,
pure in un caso nel quale era applicabile il r.d. n. 646 del 1905. Il Tribunale, nel
percorso argomentativo che ha condotto all’applicazione dell’art. 2855 c.c., ha esplicitamente statuito che il principio secondo il quale «le norme sul credito fondiario
(...) non riguardano la misura degli interessi, la scadenza degli stessi, né l’estensione
del diritto di prelazione ai cosiddetti fattori accessori (quali gli interessi di mora, i
diritti di commissione, le provvigioni speciali e simili)» è un principio generale e
pertanto applicabile anche al di fuori della materia fallimentare 72. Nello stesso senso
70
La prima VN, 1998, 1527 ss. e BBTC, 1999, II, 186, con nota di Tardivo; la seconda BBTC, 2000,
II, 185 ss., con nota di Tardivo; entrambe citate in Tardivo, Il credito fondiario nella nuova legge
bancaria, cit., 265 ss., che cita altresı̀, nella giurisprudenza di merito, T. Roma, 14-7-1994, Not, 1995,
283; T. Napoli, 8-6-2001, BBTC, 2003, II, 90 ss.
71
T. Roma, sent. 4-2-2005, in De Jure.
72
In motivazione: «nella interpretazione univoca di dottrina e giurisprudenza i privilegi riconosciuti
agli Istituti di credito fondiario dal t.u. introdotto con il r.d. 16 luglio 1905 n. 646 ed, in parte, confermati dal D.P.R. 21 gennaio 1976 n. 7, 6 luglio 1991 n. 175 e dal D.Lgs. 1 settembre 1993 n. 385, hanno
natura processuale e non incidono, quindi, sulla disciplina sostanziale dei rapporti e che è regolata dalle
norme ordinarie, compreso l’art. 2855 c.c.».
In particolare quest’ultima norma individua il limite della garanzia ipotecaria e, come la Corte di
Cassazione ha, più volte, affermato, la garanzia conseguente alla iscrizione di ipoteca riguarda «anche il
credito per interessi maturati dopo il compimento dell’annata in corso alla data del pignoramento, ma
soltanto nella misura legale e fino alla data della vendita» e che «a tale principio non fanno eccezione le
norme sul credito fondiario contenute negli artt. 38 e 42 del t.u. 16 luglio 1905, n. 646, che non
riguardano la misura degli interessi e la scadenza degli stessi, né l’estensione del diritto di prelazione ai
cosiddetti fattori accessori, nella specie, interessi di mora, diritti di commissione, provvigioni speciali e
simili» (tra le altre Cass., 1 sez., 25 ottobre 1973 n. 2734. Pres. Giannattasio, est. Pajardi.; Cass., 1 sez.,
20 novembre 1982 n. 6254. Pres. Tamburrino, est. Caturani, Cass., 1 sez., 10 novembre 1981 n. 5944.
Pres. Vigorita, est. Caturani; Cass., 1 sez., 2 marzo 1988 n. 2196. Pres. Scanzano, est. Favara; Cass., 1
sez., 8 novembre 1997 n. 11033. Pres. Borruso, est. Verucci; Cass., 1 sez., 29 agosto 1998 n. 8657. Pres.
Sensale, est. Marziale. sentenze emesse in materia fallimentare).
Se è vero che l’orientamento citato ha riguardato la materia fallimentare, deve tuttavia considerarsi che
in tale materia, sul punto, vi è solo un richiamo alla disciplina generale riportata dal codice civile e che il
principio secondo il quale “le norme sul credito fondiario, che non riguardano la misura degli interessi,
la scadenza degli stessi, né l’estensione del diritto di prelazione ai cosiddetti fattori accessori (quali gli
interessi di mora, i diritti di commissione, le provvigioni speciali e simili)” è un principio generale.
Non può, inoltre, condividersi la tesi sostenuta dall’Istituto di credito riguardo alla natura speciale
del R.D. 16 luglio 1905 n. 646 rispetto all’art. 2855 c.c. ed ai principi sulla successione delle leggi nel
tempo poiché tutte le disposizioni del Regio Decreto riconoscono unicamente privilegi di natura processuale mentre l’art. 2855 c.c. regola l’estensione della garanzia ipotecaria (materia del tutto estranea al
contenuto del citato Regio Decreto) ed ha, quindi, natura sostanziale.
Non vi è, quindi, alcun rapporto di specialità tra le due discipline che sono entrambe contestualmente applicabili (ai contratti conclusi prima dell’entrata in vigore del nuovo testo sulla legge bancaria
in data 1.1.1994).
Opinioni e commenti
573
anche il Tribunale di Milano, 9-9-2003 73, la cui massima recita: «la disciplina speciale del credito fondiario anteriore al t.u.b. non contiene alcuna deroga alla disciplina generale dell’art. 2855 c.c. e pertanto, in una fattispecie regolata dal previgente
t.u. credito fondiario, i crediti nascenti da operazioni di credito fondiario trovano
collocazione privilegiata, tanto in sede di esecuzione individuale come nel fallimento, soltanto nei limiti delle due annualità anteriori e di quella in corso al giorno
del pignoramento».
In molti tribunali, pertanto, si è adottata la soluzione di determinare preventivamente la parte di credito ipotecario, attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c., e di
fare eseguire dall’aggiudicatario (o dal custode ove l’aggiudicatario abbia versato
l’intera somma sul conto della procedura) il versamento al creditore fondiario esclusivamente di tale somma, riservando l’attribuzione dell’importo eccedente il credito
ipotecario all’esito dell’approvazione del progetto di distribuzione, nella predisposizione del quale il creditore fondiario concorre, per la parte eccedente il credito
ipotecario quantificato attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c., in via chirografaria con gli altri creditori.
In questo quadro che sembrava ormai consolidato si è inserita la recente pronuncia della Cass., Sez. III, n. 10297 del 5-5-2009; si tratta del primo caso nel quale la
Suprema Corte è stata chiamata a decidere sull’applicazione dell’art. 2855 c.c. nella
determinazione del credito del creditore fondiario nell’ambito di una procedura
esecutiva individuale. La Cassazione, decidendo in una fattispecie nella quale trovava applicazione il t.u. n. 646 del 1905, ha dettato il seguente principio di diritto:
«all’espropriazione immobiliare individuale fondata su credito fondiario, a cui sia
applicabile (come nella specie) ratione temporis il r.d. 16 luglio 1905, n. 646, non si
estende, in materia di interessi, la disciplina generale dettata dall’art. 2855 cod. civ.
(che prevede rigorosi limiti con riguardo agli effetti dell’iscrizione ipotecaria sugli
interessi dovuti), bensı̀ la normativa speciale, da considerarsi prevalente, individuata
nello stesso t.u. n. 646 del 1905, in funzione della quale deve considerarsi garantito
il recupero integrale di tutto il dovuto a titolo di interessi al tasso contrattualmente
stabilito».
Nel caso deciso dalla Suprema Corte, il giudice dell’esecuzione aveva ordinato
agli aggiudicatari di effettuare il versamento integrale, nelle casse dell’Italfondiario,
della parte di prezzo corrispondente al credito dallo stesso vantato per capitale,
interessi, accessori e spese, facendo leva sul disposto dell’art. 55 del t.u. del 1905.
Successivamente il giudice dell’esecuzione aveva depositato un progetto di distribuzione con il quale aveva attribuito all’Italfondiario l’intero credito dallo stesso
vantato in via ipotecaria, calcolato attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c.,
Pertanto il disposto dell’art. 2855 c.c. deve ritenersi applicabile anche in materia di mutuo fondiario».
73
BBTC, 2005, II, 64 e in De Jure.
574
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
nonché un’ulteriore somma a titolo di parziale soddisfo del credito chirografario,
attribuendo la restante parte del prezzo agli altri creditori. A tale progetto di distribuzione l’Italfondiario aveva proposto opposizione ai sensi dell’art. 512 c.p.c.; all’esito del relativo giudizio, il Tribunale di Crema, con sentenza n. 59 del 2003, aveva
condannato l’Italfondiario alla restituzione di quanto ricevuto in eccedenza rispetto
al credito ipotecario, calcolato attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c., sottolineando che nell’attribuzione del ricavato non doveva trovare applicazione la disciplina prevista dall’art. 55 del r.d. n. 646 del 1905, invocata dall’istituto, ma quella
speciale prevista dall’art. 2855 c.c.
L’Italfondiario aveva proposto appello avverso tale sentenza, censurandola nella
parte in cui «il Tribunale, in applicazione dell’art. 2855 c.c., aveva ritenuto di ammettere al recupero gli interessi dovuti dal debitore sulle rate non pagate del mutuo
al tasso legale anziché a quello convenzionale», deducendo che la questione relativa
agli interessi avrebbe dovuto essere risolta in applicazione degli artt. 39 e 55 del t.u.
del 1905, in luogo che attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c. La Corte d’Appello di Brescia aveva accolto l’appello, ritenendo che all’Italfondiario spettasse il
diritto di vedersi riconosciuta l’estensione degli effetti della garanzia ipotecaria a
tutti gli interessi spettanti sulle rate non pagate del mutuo fondiario al tasso contrattualmente stabilito, senza limitazione temporale.
Contro la decisione della Corte d’Appello hanno proposto ricorso per Cassazione
gli altri creditori, Banca Cremasca e Inps, invocando l’applicazione dell’art. 2855
c.c. in luogo della normativa speciale sul credito fondiario, secondo l’indirizzo giurisprudenziale della stessa Suprema Corte in tema di fallimento del mutuatario.
La Cassazione ha ritenuto infondati i motivi di ricorso.
La Suprema Corte ha dapprima ricordato l’indirizzo della medesima Cassazione, secondo il quale l’art. 54, ult. co., l. fall. — il quale, per i creditori assistiti da
ipoteca, estende la prelazione agli interessi nei limiti contemplati dagli artt. 2788 e
2855 c.c. — trova applicazione anche nei riguardi del credito nascente da mutuo
fondiario e soggetto alla disciplina di cui al R.D. n. 646 del 1905 (e ciò in quanto le
disposizioni di tale normativa restano operanti, nonostante il fallimento del mutuatario, in relazione alla riserva contenuta all’art. 51 della legge fallimentare, ove prevedono la facoltà della banca di procedere ad esecuzione individuale, ovvero di
riscuotere anticipatamente le rendite dell’immobile, ma non interferiscono sui principi che regolano il concorso dei creditori, posti dalla legge fallimentare senza alcun
rinvio e riserva di diverse disposizioni contenute in altre leggi speciali).
Ha tuttavia ritenuto che tale indirizzo è applicabile solo in ambito fallimentare e
non può estendersi all’esecuzione individuale, nella quale ritorna pienamente applicabile la disciplina sul credito fondiario, che gode di un impianto normativo di
particolare favore con il quale si intende favorire per l’appunto il credito per mutuo
fondiario e che costituisce disciplina speciale rispetto a quella generale dettata dall’art. 2855 c.c., come tale prevalente.
Opinioni e commenti
575
Il principio di diritto enunciato dalla Cassazione travalica, evidentemente, la problematica relativa all’ammontare della somma da versarsi direttamente al creditore
fondiario ai sensi dell’art. 55 del r.d. n. 646 del 1905 e, oggi, ai sensi dell’art. 41,
4o co., d.lg. n. 385 del 1983, ma investe, tout court, la questione — logicamente
presupposta — dell’ammontare del credito complessivamente dovuto in via definitiva. La Corte ha quindi preso posizione — in senso affermativo — in ordine alla
collocazione in via ipotecaria degli interessi al tasso convenzionale, al di là dei limiti
previsti dall’art. 2855 c.c., ritenendo dovuti al creditore fondiario tutti gli interessi al
tasso convenzionale, senza la limitazione temporale prevista dalla norma codicistica.
Seguendo questo indirizzo, perde evidentemente di significato — quantomeno
con riferimento ai crediti regolati dal r.d. n. 646 del 1905 — la questione relativa alla
quantificazione della somma da versarsi in via immediata al creditore fondiario da
parte dell’aggiudicatario. Se si ritiene, infatti, che il creditore fondiario abbia diritto
a vedere soddisfatto per intero il proprio credito per capitale ed interessi al tasso
convenzionale, senza limitazione temporale, stante l’inapplicabilità della disciplina
prevista dall’art. 2855 c.c., non vi è ragione per limitare il versamento diretto dell’aggiudicatario.
2.2.b.2. Osservazioni in merito alla soluzione prescelta dalla Suprema
Corte.
La decisione della Corte ha riguardo ad un caso in cui era applicabile il r.d. n. 646
del 1905 e si fonda, apparentemente, sull’interpretazione degli artt. 39 e 55 del t.u.
Pur se la Corte non fa espresso riferimento a tali norme, limitandosi a menzionare
genericamente «la normativa sul credito fondiario» la stessa prende tuttavia in
esame le argomentazioni dell’appellante Italfondiario (resistente nel giudizio di legittimità), che si basavano appunto, stando a quanto risulta dalla stessa sentenza
della Suprema Corte, su tali disposizioni.
Le norme in questione recitano, quanto all’art. 39: «nei contratti di credito fondiario intendesi stipulata la condizione risolutiva in caso di ritardato pagamento
anche di una sola parte del credito scaduto; e l’istituto può chiedere esecutivamente
il pagamento integrale di ogni somma ad esso dovuta» 74 e, quanto all’art. 55: «il
compratore degli immobili, nei 20 giorni della vendita definitiva, dovrà pagare all’istituto, senza attendere il proseguimento della graduazione, quella parte del
prezzo che corrisponde al credito dell’istituto in capitale, accessori e spese. In difetto di che vi sarà astretto con tutti i mezzi consentiti dalla legge e colla rivendita
74
Cfr. altresı̀ la formulazione sostanzialmente analoga dell’art. 15 del d.p.r. n. 7 del 1976: «ai contratti di credito fondiario si intende apposta la condizione risolutiva per il caso di ritardato pagamento
anche di una sola parte del credito scaduto e l’ente può chiedere esecutivamente il pagamento integrale
di ogni somma ad esso dovuta».
576
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
degli immobili aggiudicatagli a sue spese e rischio, salvo l’obbligo all’istituto stesso
di restituire a chi di ragione quel tanto coi rispettivi interessi per cui, in conseguenza
della graduazione, non risultasse utilmente collocato (...)».
La prima delle due norme in esame prevede quindi il diritto della banca di agire
esecutivamente per il pagamento integrale del proprio credito (art. 39). Non pare
che tale disposizione possa essere invocata a sostegno della tesi che vorrebbe attribuire in via ipotecaria, al creditore fondiario, tutti gli interessi al tasso convenzionale
senza limiti temporali, posto che la stessa si limita ad agire sul piano della tutela
processuale delle ragioni del creditore, sancendone il diritto ad agire esecutivamente per la soddisfazione integrale del proprio credito. Tale diritto non è in alcun
modo messo in dubbio, né contraddetto, dalla tesi che limita la collocazione ipotecaria degli interessi attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c., posto che il creditore
fondiario conserva, anche in tale caso, il diritto a percepire integralmente gli interessi al tasso convenzionale, pur dovendo concorrere, per la parte eccedente quella
determinata ai sensi dell’art. 2855 c.c., con gli altri creditori.
Quanto all’art. 55, è pur vero che la norma impone il pagamento immediato, da
parte dell’aggiudicatario, di tutto quanto dovuto al creditore fondiario per capitale,
accessori e spese; tuttavia, la medesima norma fa salvo l’obbligo del creditore fondiario di «restituire a chi di ragione quel tanto coi rispettivi interessi per cui, in
conseguenza della graduazione, non risultasse utilmente collocato». Se ne deduce
che il versamento diretto di tutte le somme dovute appare, dall’interpretazione letterale della norma, un semplice privilegio processuale, teso a garantire alla banca la
soddisfazione immediata ed integrale del proprio credito. Tale soddisfazione appare
tuttavia subordinata, in via definitiva, all’esito della “graduazione”. La norma stessa,
quindi, fa salva la possibilità che quanto corrisposto immediatamente al creditore
fondiario da parte dell’aggiudicatario sia superiore a quanto allo stesso spettante
all’esito dell’approvazione del progetto di distribuzione, limitandosi a dettare regole
per la quantificazione della somma da versarsi in via provvisoria da parte dell’aggiudicatario e facendo salva la diversa — definitiva — quantificazione da parte del
giudice dell’esecuzione 75. Sembra pertanto che vi sia ampio spazio per l’applica75
Secondo Bozza, Il credito fondiario, cit., 129: «era (...) pacifico, in virtù dell’art. 55, da un lato, che
l’acquirente degli immobili era obbligato a versare all’istituto mutuante la parte di prezzo corrispondente all’importo del credito, prima ancora che si procedesse alla graduazione, prescindendo da quel
che poteva emergere dalle successive operazioni e, dall’altro, che l’istituto percipiente era tenuto al
concorso sostanziale con gli altri creditori ed all’obbligo di restituire quanto ricevuto in più di quanto gli
sarebbe spettato in ragione del suo grado di prelazione». In giurisprudenza, una risalente pronuncia
della Suprema Corte (Cass., sent. n. 524 del 24-2-1942, FI, 1942, I, 386) aveva affermato, in una esecuzione individuale: «lo scopo delle due disposizioni di legge [artt. 55 e 60 del R.D. del 1905] è
unicamente quello di una più sollecita riscossione dei crediti da parte dell’istituto di credito fondiario,
stante l’obbligo del non riscosso per riscosso cui essi sono tenuti (...); ma la legge speciale non sovverte
per nulla le regole relative alla distribuzione del prezzo e alle graduazioni stabilite dalla ordinaria procedura esecutiva».
Opinioni e commenti
577
zione di una norma, quale quella contenuta nell’art. 2855 c.c., che detta regole per
la determinazione del credito ipotecario della banca, vale a dire per la “graduazione” contemplata dallo stesso art. 55 del r.d. n. 646 del 1905, all’esito della quale
l’istituto di credito fondiario, anche nel sistema delineato dal t.u. del 1905, ha l’obbligo di provvedere alla restituzione della differenza.
Sembra quindi di poter concludere nel senso che la stessa interpretazione data
dalla Corte agli artt. 39 e 55 del r.d. n. 646 del 1905 — interpretazione secondo la
quale spetterebbe al creditore fondiario, in via ipotecaria, tutto il credito dallo stesso
vantato anche per interessi al tasso convenzionale — non corrisponda al contenuto
delle disposizioni in esame, le quali avrebbero potuto essere diversamente interpretate, non riguardando la questione della modalità di quantificazione del credito
ipotecario e di quello chirografario.
Appare pertanto preferibile l’indirizzo ormai consolidato della Suprema Corte,
che ha affrontato la questione con riferimento al rapporto tra credito fondiario e
fallimento del mutuatario, e che ha fondato la propria ratio decidendi sulla natura di
privilegio esclusivamente processuale delle norme in materia di credito fondiario
dettate dal t.u. del 1905 (privilegio processuale che, come tale, non incide sul concorso dei creditori in materia fallimentare). Non sembra che vi siano ragioni per
concludere che, al di fuori della materia fallimentare, il privilegio stabilito dalla
normativa sul credito fondiario modifichi la propria natura, trasformandosi da processuale a sostanziale, derogando alla regola generale sulla collocazione ipotecaria
degli interessi ed incidendo in tal modo sulle possibilità di soddisfacimento degli
altri creditori iscritti e dei creditori chirografari.
La sentenza in esame non specifica, inoltre, se l’importo attribuito all’Italfondiario, comprensivo di capitale e di interessi al tasso convenzionale senza limitazione
temporale, fosse comunque contenuto nell’ammontare dell’iscrizione dell’ipoteca.
Purtuttavia, sembra che una volta esclusa l’applicabilità dell’art. 2855 c.c., debba
quantomeno trovare applicazione il limite dell’importo per il quale è stata iscritta
l’ipoteca, che funzionerebbe come tetto oltre il quale non potrebbero trovare collocazione ipotecaria gli interessi al tasso convenzionale, pena la vanificazione delle
disposizioni codicistiche che obbligano ad iscrivere il vincolo per una somma determinata (artt. 2809, 2838 e 2839 c.c.) e il venir meno di qualsivoglia tutela per il
terzo proprietario, il cui bene si troverebbe a garantire il soddisfacimento del credito anche oltre l’ammontare della somma per la quale è stata iscritta l’ipoteca.
In concreto questa conclusione potrebbe, paradossalmente, condurre ad un esito
di minor favore per il creditore fondiario (nel caso in cui l’iscrizione ipotecaria sia
avvenuta per una somma inferiore all’ammontare complessivo del capitale e degli
interessi calcolati attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c.), atteso che, secondo la
giurisprudenza della Suprema Corte, gli effetti dell’iscrizione ipotecaria si estendono agli interessi indicati nei commi secondo e terzo dell’art. 2855 c.c., senza che
tale estensione possa intendersi contenuta entro i limiti dell’ammontare della
578
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
somma per la quale è stata compiuta l’iscrizione ipotecaria, purché la misura degli
interessi sia indicata nell’iscrizione 76.
2.2.b.3. La questione dell’applicabilità del principio di diritto enunciato
dalla Corte ai finanziamenti fondiari regolati dal d.lg. n. 385 del
1993.
Occorre a questo punto chiedersi se il ragionamento seguito dalla Corte sia applicabile anche alle procedure esecutive fondate su finanziamenti fondiari regolati
dal d.lg. n. 385 del 1993.
Per tali finanziamenti, infatti, l’art. 55 del r.d. n. 646 del 1905 è stato sostituito
dall’art. 41, 4o co. del decreto; disposizione che, come già visto, nel prevedere il
versamento diretto da parte dell’aggiudicatario fa riferimento al «complessivo credito» del creditore fondiario. La formulazione letterale della norma è suscettibile di
essere interpretata in modo non dissimile da quanto stabilito dalla Corte per i finanziamenti regolati dal t.u. del 1905, atteso che il «complessivo credito» ben può
essere identificato nel «credito dell’istituto in capitale, accessori e spese», menzionato nell’art. 55 del r.d. 646 del 1905, e pertanto non vi sono ostacoli letterali, per
chi condivide il principio di diritto enunciato dalla Corte e le argomentazioni a
sostegno dello stesso, ad applicarlo anche nel caso di finanziamenti regolati dal d.lg.
n. 385 del 1993, facendo leva sul disposto dell’art. 41, 4o co. del decreto.
Se, nonostante le perplessità innanzi evidenziate, si ritenesse quindi che il credito
fondiario debba essere integralmente soddisfatto, con prevalenza sugli altri crediti,
in deroga alla previsione di cui all’art. 2855 c.c., non vi sarebbe neppure alcuna
ragione per limitare il versamento diretto da parte dell’aggiudicatario al solo credito
ipotecario, come determinato ai sensi di tale norma; in tal modo il creditore fondiario riceverebbe immediatamente la somma corrispondente al proprio credito per
capitale, spese ed interessi al tasso convenzionalmente pattuito fino al momento del
pagamento, dovendosi in tal modo intendere la nozione di «complessivo credito» di
cui all’art. 41 del d.lg. n. 646 del 1905.
Purtuttavia, l’applicazione della soluzione prescelta dalla Corte anche ai finanziamenti fondiari regolati dal d.lg. n. 385 del 1993 si esporrebbe a gravi dubbi di
costituzionalità. Come già visto, infatti, nel vigore del r.d. del 1905 i privilegi attribuiti al creditore fondiario trovavano la propria giustificazione nel fatto che l’istituto
di credito fondiario svolgeva un’attività di natura pubblicistica, di intermediazione
tra mutuatari e portatori di cartelle fondiarie, pressoché gratuita, caratterizzata da
un rigido collegamento tra operazioni passive ed operazioni attive e dall’obbligo
dell’istituto di provvedere al pagamento degli interessi cedolari portati nelle cartelle
fondiarie e al rimborso del capitale portato nelle cartelle periodicamente estratte,
76
Cfr. Cass. n. 1869 del 18-2-2000 e n. 9674 dell’11-4-2008.
Opinioni e commenti
579
anche nel caso di inadempimento del mutuatario (regola del «non riscosso per
riscosso»), con la conseguente necessità di predisporre una speciale procedura esecutiva connotata da particolari privilegi 77. Tale giustificazione viene completamente
meno nel vigore della disciplina attuale, per la quale tutte le banche possono erogare
finanziamenti fondiari e non sussiste più alcun collegamento tra raccolta del risparmio ed operazioni passive 78. Nel quadro di orientamenti giurisprudenziali, di merito e di legittimità, che sino ad ora hanno contribuito a ricondurre nell’ambito della
ragionevolezza i privilegi accordati dalla legge al creditore fondiario, affermandone
la natura squisitamente processuale, il riconoscimento di un privilegio di carattere
sostanziale, quale quello risultante dalla decisione della Suprema Corte, se esteso
anche ai finanziamenti regolati dal d.lg. n. 385 del 1993 si esporrebbe a dubbi di
legittimità costituzionale per violazione dell’art. 3 della Carta 79.
Da ultimo, giova evidenziare che, stante il carattere provvisorio delle attribuzioni
previste in funzione di soddisfacimento anticipato del creditore fondiario, tali attribuzioni sono soggette alle vicende dell’esecuzione: pertanto in caso di estinzione o
dell’accoglimento di un’opposizione, le stesse andranno restituite agli aventi titolo 80.
2.3. La possibilità per l’aggiudicatario o assegnatario di subentrare,
senza l’autorizzazione del giudice dell’esecuzione (ma subordinatamente all’emissione del decreto di trasferimento), nel contratto di finanziamento stipulato dal debitore espropriato, attraverso il versamento, entro quindici giorni dalla pronuncia del decreto di cui all’art.
574 c.p.c., ovvero dalla data dell’aggiudicazione o dell’assegnazione,
delle rate scadute, degli accessori e delle spese (art. 41, 5o co.).
La disposizione in esame è chiara nel non ritenere necessaria l’autorizzazione del
giudice dell’esecuzione, in deroga alla disciplina generale dettata dall’art. 508 c.p.c.,
che consente l’assunzione dei debiti da parte dell’aggiudicatario o dell’assegnatario
di un bene gravato da pegno o ipoteca solo dietro autorizzazione da parte del giudice dell’esecuzione e previo accordo con il creditore.
77
Cosı̀ Oriani, L’espropriazione, cit., 384, e dottrina ivi citata; l’A. cita anche la sentenza della Corte
Costituzionale, n. 211 del 3-8-1976 che, facendo leva per l’appunto su tali caratteristiche del credito
fondiario, dichiarò infondata la questione di costituzionalità dell’art. 42, 2o co., r.d. del 1905.
78
Cfr. ancora Oriani, L’espropriazione, cit., 385.
79
Secondo Bozza, Il credito fondiario, cit., 113: «le somme incassate dalla banca (...) vanno sempre
graduate con la posizione degli altri creditori (...), di modo che le banche finanziatrici di credito fondiario, anche in costanza di fallimento, non possono mai ricevere un soddisfacimento definitivo superiore a quello che loro spetterebbe quali creditori ipotecari per operazioni di credito ordinario garantite
da ipoteca».
80
Cosı̀ Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 23. Per
una casistica delle conseguenze della ritenuta natura provvisoria delle attribuzioni in esame cfr. Oriani,
L’espropriazione, cit., 388.
580
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
È inoltre del tutto irrilevante il consenso del creditore fondiario in ordine al subentro dell’aggiudicatario nel contratto (anche in questo caso, in deroga al disposto
dell’art. 508 c.p.c.): si tratta infatti di un diritto potestativo che l’aggiudicatario può
esercitare a prescindere dal consenso del creditore fondiario 81.
2.3.1. Il problema della decorrenza del termine per l’esercizio della facoltà di subentro.
In concreto, qualche problema può porsi nel caso in cui la banca non provveda
alla quantificazione della somma da versarsi da parte dell’aggiudicatario al fine di
subentrare nel contratto, rendendo in tal modo impossibile all’aggiudicatario esercitare il proprio diritto nel termine di quindici giorni legislativamente stabilito 82.
Tale problema è suscettibile di porsi soprattutto a seguito del fenomeno della cartolarizzazione dei crediti, di cui alla l. 30-4-1999, n. 130 83, e della conseguente
cessione in blocco degli stessi.
In una fattispecie nella quale il cessionario del credito fondiario si era rifiutato di
prestare il proprio consenso al subentro dell’aggiudicatario e non aveva quindi proceduto alla quantificazione delle rate scadute, degli interessi e delle spese, un’ordinanza del Tribunale di Torino 84 ha ritenuto che il rifiuto del creditore fosse illegittimo in quanto l’aggiudicatario stava esercitando un diritto potestativo insuscettibile di essere paralizzato dalla contraria volontà del creditore; ha ordinato a
quest’ultimo il deposito dei conteggi delle somme dovute entro un termine fissato e
ha sospeso i termini per il versamento da parte dell’aggiudicatario fino alla quantificazione, da parte del creditore o, in mancanza, attraverso l’espletamento di consulenza tecnica, delle somme dovute alla banca da parte dell’aggiudicatario. Simil-
81
Rileva Oriani, L’espropriazione, cit., 382, che il subentro dell’aggiudicatario configura una forma
particolare di accollo, con la conseguenza che l’aggiudicatario che subentra nel contratto di finanziamento risponde con tutto il suo patrimonio, e non solo con il bene acquistato gravato da ipoteca,
dell’adempimento delle obbligazioni. Inoltre, pur non essendo indicato nell’art. 41, 5o co. (a differenza
dell’art. 508 c.p.c.) il carattere liberatorio dell’accollo, secondo l’A. le espressioni utilizzate («subentro
nel contratto di finanziamento») lascerebbero pensare ad un accollo privativo con successione nel
contratto, con conseguente venir meno dell’obbligo dell’originario debitore.
82
Secondo Oriani, L’espropriazione, cit., 382, nel caso in cui la banca ometta di quantificare la
somma corrispondente al proprio credito scaduto, oltre agli interessi e alle spese, è configurabile una
sua responsabilità per non avere messo in condizioni l’aggiudicatario di subentrare nel contratto di
finanziamento.
83
Per una sintesi della disciplina in materia di cartolarizzazione dei crediti e degli effetti sul processo
esecutivo cfr. Cottone, La graduazione dei crediti nel piano di riparto. Le cause di prelazione: effetti nel
processo esecutivo. I privilegi del creditore fondiario, Relazione tenuta all’incontro di studio sul tema “La
riforma del processo esecutivo”, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura in Roma, 6/86-2007, 45 ss.
84
Emessa in data 27-7-2009 nella procedura esecutiva R.G.E. n. 381/2008, inedita.
Opinioni e commenti
581
mente, in epoca di poco successiva all’entrata in vigore del d.lg. n. 385 del 1993,
un’autorevole dottrina 85 aveva ritenuto che il termine per il versamento diretto da
parte dell’aggiudicatario o dell’assegnatario dovesse essere fatto decorrere dalla comunicazione del proprio credito da parte della banca a tali soggetti, per non far
gravare sugli stessi eventuali ritardi a loro non imputabili.
Da notare che la recente sentenza emessa dalle Sezioni Unite della Suprema
Corte, n. 12639 del 19-5-2008, in materia di anatocismo, ha chiarito, quanto al
subentro dell’aggiudicatario nel contratto di mutuo, che perché tale possibilità si
realizzi occorre pur sempre una nuova manifestazione di volontà negoziale delle
parti (o almeno dell’aggiudicatario), che segna comunque una soluzione di continuità rispetto al rapporto contrattuale precedente, destinato in tal caso ad essere
ripristinato in capo all’aggiudicatario (che il legislatore intende cosı̀ favorire, nell’intento di agevolare l’espropriazione forzata), senza affatto necessariamente implicare
che quel rapporto era ancora in atto tra le parti originarie.
La discussione in ordine al “ripristino” del contratto risolto, può ritenersi aperta.
Quel che preme in questa sede evidenziare, tuttavia, è la circostanza che la decisione
della Suprema Corte è stata resa in una fattispecie alla quale era applicabile, ratione
temporis, l’art. 61 del r.d. n. 646 del 1905 (non abrogato dal d.p.r. del 1976), ai sensi
del quale: «nel caso di vendita per espropriazione forzata degli stabili ipotecati a
garanzia di un mutuo fondiario, il deliberatario potrà profittare del mutuo concesso
al debitore espropriato, purché nei 15 giorni da quello in cui sarà definitiva l’aggiudicazione paghi le semestralità scadute, gli accessori e le spese (...)».
Ci si può quindi chiedere se analoga soluzione debba ritenersi operante anche per
i contratti regolati dal d.lg. n. 385 del 1993, il cui art. 41, 5o co. si riferisce al “subentro” dell’aggiudicatario nel contratto di finanziamento, e che sembra pertanto
presupporre un contratto ancora in essere.
Appare preferibile la soluzione positiva, atteso che la ratio legis è individuabile,
nella norma vigente come in quella abrogata, nel voler fornire all’aggiudicatario uno
strumento di particolare favore, incentivando, in tal modo, la partecipazione alle
vendite forzate nelle quali il bene sia pignorato a causa di un finanziamento fondiario rimasto inadempiuto, cosı̀ in ultima analisi favorendo ulteriormente, attraverso
una maggiore partecipazione di soggetti interessati, la possibilità di esito favorevole
delle vendite forzate di immobili pignorati per crediti fondiari.
Unico limite al subentro da parte dell’aggiudicatario appare quindi quello cronologico, posto che non sarà evidentemente possibile ripristinare il contratto risolto
ove il termine finale, previsto contrattualmente per il pagamento delle rate, sia già
scaduto al momento dell’aggiudicazione.
85
Cfr. Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit., 1000.
582
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Da ultimo, pur se la norma non lo prevede espressamente, a differenza di quanto
faceva il precedente art. 62 del r.d. n. 646 del 1905 86, deve ritenersi possibile il
subentro nel contratto di finanziamento in caso di pluralità di aggiudicatari (ove la
vendita sia avvenuta in più lotti) anche se uno solo o solo alcuni di questi vogliano
approfittarne 87.
2.3.2. Il problema della tutela degli altri creditori nel caso di esercizio, da
parte dell’aggiudicatario, della facoltà di subentrare nel contratto
di finanziamento.
La possibilità per l’aggiudicatario di subentrare nel contratto di finanziamento
pone la questione della tutela dei creditori aventi diritto ad essere preferiti rispetto
al creditore fondiario 88.
In proposito, deve essere condivisa la tesi 89 che, facendo leva sul disposto dell’art.
585, 2o co., c.p.c., da considerarsi applicabile anche al caso di subentro dell’acquirente nel finanziamento fondiario, ritiene che il giudice dell’esecuzione debba determinare la parte del prezzo necessario a soddisfare i creditori che potranno risultare capienti, ordinandone il versamento, mentre il credito del creditore fondiario
sarà soddisfatto attraverso il versamento immediato del credito scaduto, interessi e
spese, nonché attraverso l’accollo del finanziamento.
Ove si segua la tesi secondo la quale la quantificazione del credito ipotecario deve
essere effettuata, anche nel caso di credito fondiario, attraverso l’applicazione dell’art. 2855 c.c. quanto alla collocazione degli interessi, il giudice dell’esecuzione
dovrà necessariamente procedere alla quantificazione del credito ipotecario del creditore fondiario, calcolare la differenza tra l’ammontare del prezzo ed il suddetto
86
Il cui testo era: «nel caso di più lotti e più aggiudicatari, se alcuno di questi intende approfittare
del mutuo, l’istituto ha facoltà di consentirlo alle condizioni stabilite nell’articolo precedente, purché
l’aggiudicatario paghi nei trenta giorni dall’aggiudicazione definitiva le semestralità scadute, gli accessori e le spese in proporzione con la parte del mutuo che continua».
87
Come rileva Saletti, L’espropriazione per credito fondiario nella nuova disciplina bancaria, cit.,
994: «del resto, interpretata in un diverso modo, la norma non si giustificherebbe: se, infatti, la si volesse
ritenere applicabile nel solo caso in cui tutti gli acquirenti dei singoli lotti subentrino nel finanziamento,
la sua unica portata precettiva finirebbe con l’essere quella di permettere a ciascuno di sapere quanto è
tenuto a corrispondere individualmente, esigenza già soddisfatta dall’art. 39, 6o comma, d.lgs. 385 del
1993, che dà diritto al debitore ed al terzo acquirente del bene ipotecato di ottenere la suddivisione del
finanziamento ed il frazionamento dell’ipoteca»; nello stesso senso anche Bozza, Il credito fondiario,
cit., 128.
88
Su tale questione, e per una rassegna delle interpretazioni sostanzialmente “abrogatrici” della
norma, criticate dall’A., cfr. Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 24; per una ricostruzione del versamento da effettuarsi da parte dell’aggiudicatario in caso
di subentro come non imputabile al prezzo di aggiudicazione (criticata da Saletti) cfr. Bozza, Il credito
fondiario, cit., 135 ss., che ne trae la conclusione secondo la quale il subentro sarebbe possibile soltanto
quando nell’esecuzione individuale non siano intervenuti tempestivamente altri creditori.
89
Saletti, L’espropriazione per credito fondiario alla luce delle modifiche normative, cit., 24.
Opinioni e commenti
583
credito ipotecario ed ordinare il versamento di tale differenza, decurtandola altresı̀
della parte di credito chirografario eventualmente spettante al creditore fondiario
all’esito della graduazione. In tal modo ci si assicura che gli ulteriori creditori, che
sarebbero risultati capienti (secondo la formulazione dell’art. 585, 2o co., c.p.c.),
non vengano pregiudicati dalla possibilità per l’aggiudicatario di subentrare nel
contratto di finanziamento fondiario.
3. Questioni in merito alla quantificazione del credito fondiario: cenni in
ordine al problema dell’anatocismo sulla componente di interessi delle
rate scadute e a scadere del finanziamento fondiario.
3.1. Il computo degli interessi sulle rate scadute.
Il maturarsi di interessi anche sulla parte di interessi delle rate già scadute, anteriormente al 1o-1-1994 (data di entrata in vigore del d.lg. n. 385 del 1993), era
legislativamente prevista dall’art. 38 del r.d. n. 646 del 1905 90 e, successivamente,
dall’art. 14 del d.p.r. n. 7 del 1976 e dall’art. 16, 2o co., l. n. 175 del 1991 91. Norme
analoghe non erano state tuttavia inserite, per il periodo successivo, nel d.lg. n. 385
del 1993, il quale, nella sua formulazione originaria, non disponeva alcunché in
materia.
In via generale, come è noto, in tema di anatocismo la giurisprudenza ormai consolidata afferma che le clausole di capitalizzazione degli interessi sono nulle
in quanto stipulate in violazione dell’art. 1283 c.c. perché basate su un uso negoziale, anziché su un uso normativo. Tale nullità è rilevabile di ufficio ai sensi dell’art.
1421 c.c. 92.
90
«Il pagamento di interessi, annualità, compensi, diritti di finanza e rimborsi di capitali dovuti
all’istituto non può essere ritardato da alcuna opposizione. Le somme dovute per tali titoli producono
di pieno diritto interesse dal giorno della scadenza».
91
Cfr. Cass. n. 2140 del 31-1-2006: «in tema di credito fondiario, il mancato pagamento di una rata
di mutuo comporta, ai sensi dell’art. 38 del R.D.L. 16.7.1905 n. 646, l’obbligo di corrispondere gli
interessi di mora sull’intera rata, inclusa la parte che rappresenta gli interessi di ammortamento» (conformi in precedenza Cass. n. 4451 dell’8-7-1986 e Cass. n. 6153 del 19-6-1990, nonché — in un obiter
dictum in motivazione — Cass. n. 2593 del 20-2-2003 che, pur estendendo la portata dell’art. 1283 c.c.
anche ai contratti di mutuo, fa peraltro salvi i mutui fondiari poiché in essi «l’anatocismo è previsto
dalla legge»).
92
Cfr. Cass. n. 2374 del 16-3-1999; Cass. n. 12507 dell’11-11-1999; Cass. n. 4094 del 25-2-2005,
nonché Cass., S.U. n. 21095 del 4-11-2004. La questione dell’anatocismo nei contratti di mutuo bancario ordinario è stata affrontata da Cass. n. 2593 del 20-2-2003: «in tema di mutuo bancario, e con
riferimento al calcolo degli interessi, devono ritenersi senz’altro applicabili le limitazioni previste dall’art. 1283 cod. civ., non rilevando, in senso opposto, l’esistenza di un uso bancario contrario a quanto
disposto dalla norma predetta. Gli usi normativi contrari, cui espressamente fa riferimento il citato art.
1283 cod. civ., sono, difatti, soltanto quelli formatisi anteriormente all’entrata in vigore del codice civile
(né usi contrari avrebbero potuto formarsi in epoca successiva, atteso il carattere imperativo della
norma de qua — impeditivo, per l’effetto, del riconoscimento di pattuizioni e comportamenti non
conformi alla disciplina positiva esistente — norma che si poneva come del tutto ostativa alla realizza-
584
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Deve pertanto condividersi l’opinione secondo cui: «(...) essendo venuta meno la
norma speciale che autorizzava legislativamente l’anatocismo, deve ritenersi che tale
capitalizzazione in nulla si discosta dalla capitalizzazione prevista dall’art. 1283 c.c.
che, essendo priva di un uso normativo, non può essere riconosciuta neanche per il
credito fondiario» 93.
In materia è successivamente intervenuto il d.lg. n. 342 del 1999, il cui art. 25, 2o
co. ha introdotto un secondo comma all’art. 120 del d.lg. n. 385 del 1993, ai sensi del
quale è affidato al CICR il compito di stabilire modalità e criteri per la produzione
di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell’esercizio
dell’attività bancaria.
La deliberazione del CICR del 9-2-2000 94 ha stabilito, all’art. 3, punto I, che nelle
operazioni di finanziamento per le quali è previsto che il rimborso del prestito avvenga mediante il pagamento di rate con scadenze temporali predefinite, in caso di
inadempimento del debitore l’importo complessivamente dovuto alla scadenza di
ciascuna rata può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla
data di scadenza e sino al momento del pagamento. Su questi interessi non è consentita la capitalizzazione periodica.
Per i contratti successivi alla menzionata delibera CICR, pertanto, è consentita la
maturazione di interessi anche sulla componente di interessi delle rate già scadute;
tali interessi non possono tuttavia essere oggetto di ulteriore capitalizzazione.
Il terzo comma del medesimo art. 25 del d.lg. n. 342 del 1999 conteneva una
disposizione di diritto intertemporale, ai sensi della quale le clausole relative alla
produzione di interessi sugli interessi maturati, contenute nei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore della delibera del CICR di cui al 2o co. della
stessa norma, erano valide ed efficaci fino alla predetta delibera e dopo tale data
dovevano esservi adeguate. Veniva pertanto ad operarsi una salvezza delle clausole
anatocistiche eventualmente contenute nei contratti di finanziamento fondiario stipulati ai sensi del d.lg. n. 385 del 1993. La norma in questione è stata tuttavia
dichiarata costituzionalmente illegittima dalla Corte Costituzionale 95.
zione delle condizioni di fatto idonee a produrre la nascita di un uso avente le caratteristiche dell’uso
normativo), e, nello specifico campo del mutuo bancario ordinario, non è dato rinvenire, in epoca
anteriore al 1942, alcun uso che consentisse l’anatocismo oltre i limiti poi previsti dall’art. 1283 cod. civ.
Ne consegue la illegittimità tanto delle pattuizioni, tanto dei comportamenti — ancorché non tradotti in
patti — che si risolvano in una accettazione reciproca, ovvero in una unilaterale imposizione, di una
disciplina diversa da quella legale».
93
Cosı̀ D’Aquino, La predisposizione del progetto di distribuzione: questioni sostanziali e processuali,
REF, 2007, 273.
94
Dettante: «modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti nelle operazioni
poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria e finanziaria (art. 120, 2o co., t.u. bancario, come
modificato dall’art. 25, d.lg. n. 342/1999)», GU n. 43 del 2000.
95
C. Cost. n. 425 del 2000.
Opinioni e commenti
585
Ne discende che, quanto alla maturazione di ulteriori interessi sulla componente
di interessi delle rate scadute di finanziamenti fondiari si avranno due regimi differenziati:
1) maturazione degli interessi sull’intera rata per i contratti stipulati anteriormente al 1o-1-1994 in virtù dell’art. 38 del r.d. n. 646 del 1905 e norme successive;
possibilità di maturazione degli interessi sull’intera rata, se contrattualmente previsto, per quelli stipulati dopo il 23-2-2000 (data di entrata in vigore della delibera),
sulla base di quanto previsto della delibera del CICR del 9-2-2000 emanata ai sensi
dell’art. 25 del d.lg. n. 342 del 1999;
2) divieto di maturazione di interessi sulla componente di interessi delle rate già
scadute, per i contratti conclusi tra il 1o-1-1994 e il 20-4-2000, a seguito della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 25, 3o co., d.lg. n. 342 del 1999.
3.2. Il computo degli interessi sulle rate a scadere: la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione n. 12639 del 19 maggio del 2008.
La questione della spettanza degli interessi anche sulla componente di interessi
delle rate ancora a scadere di un finanziamento fondiario, al momento della risoluzione del contratto, ha formato oggetto della recente sentenza delle Sezioni Unite
della Cassazione, n. 12639 del 19-5-2008, con la quale è stato risolto il contrasto
giurisprudenziale in precedenza manifestatosi a riguardo.
Nel caso deciso dalla Suprema Corte — nel quale il finanziamento posto alla base
dell’esecuzione era regolato ratione temporis dal d.p.r. n. 7 del 1976 — la Corte
d’Appello di Firenze, muovendo dal rilievo che il rapporto di mutuo fondiario si
protrae anche oltre il momento in cui l’istituto mutuante dichiari di volersi avvalere
della condizione risolutiva contemplata dal r.d. n. 646 del 1905, art. 39 e d.p.r. n. 7
del 1976, art. 15, aveva determinato l’entità della somma dovuta in conversione dalla
debitrice computando gli interessi al tasso previsto nel contratto anche sulle rate
residue, già comprensive di capitale ed interessi.
La Corte ha invece ritenuto che l’esercizio della “condizione risolutiva” prevista
dall’art. 15 del d.p.r. n. 7 del 1976 (e, prima ancora, dall’art. 39 del r.d. n. 646 del
1905) determini l’effetto di risolvere il rapporto di mutuo.
Ne discende l’obbligo del mutuatario di provvedere all’immediata restituzione dell’intera somma ricevuta, essendo venuto meno il meccanismo di rateizzazione previsto
nel contratto ormai risolto. Ne consegue altresı̀ che alla banca compete il diritto di
ricevere, oltre all’importo integrale delle semestralità già scadute (non travolte dalla
risoluzione, che non opera retroattivamente nei contratti di durata, quale è da ritenersi
il mutuo), la sola quota di capitale residua, ma non anche gli interessi conglobati nelle
semestralità a scadere; sul credito cosı̀ determinato si dovranno calcolare gli interessi
di mora ad un tasso corrispondente a quello già previsto nel contratto, se superiore
al tasso legale, in ossequio al disposto dell’art. 1224, 1o co., c.c.
586
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Ancorché la decisione della Corte sia stata resa in una fattispecie nella quale era
applicabile il d.p.r. n. 7 del 1976, deve ritenersi, a maggior ragione, che analoga
soluzione sia applicabile anche a contratti disciplinati dal d.lg. n. 385 del 1993 (in
ordine ai quali non è legislativamente prevista alcuna clausola risolutiva espressa,
che tuttavia ben può essere introdotta nel corpo del contratto), in caso di risoluzione
del vincolo, atteso che il t.u. bancario, non reiterando la disposizione dettata dall’art. 38 del r.d. n. 646 del 1905 («il pagamento di interessi, annualità, compensi,
diritti di finanza e rimborsi di capitali dovuti all’istituto non può essere ritardato da
alcuna opposizione. Le somme dovute per tali titoli producono di pieno diritto
interesse dal giorno della scadenza»), ha fatto definitivamente venire meno il concetto della rata come unicum, conseguenza del collegamento diretto tra rimborso
del finanziamento e pagamento delle cartelle fondiarie da parte dell’istituto, sul
quale si fondava la tesi della maturazione di ulteriori interessi anche sulla componente di interessi da cui è composta la rata stessa 96.
Ci si è chiesti se la medesima soluzione adottata dalle Sezioni Unite per il caso di
risoluzione del contratto sia applicabile anche al caso in cui il creditore fondiario si
avvalga della decadenza dal beneficio del termine del mutuatario inadempiente,
secondo la previsione dell’art. 1186 c.c. 97. La soluzione affermativa fa leva sulla
mancanza di nesso causale in ordine alla spettanza al creditore degli interessi corrispettivi, atteso che, per effetto della decadenza dal beneficio del termine, il mutuatario è tenuto alla restituzione dell’intera somma mutuata, del cui godimento gli
interessi convenzionali pattuiti costituiscono appunto il corrispettivo 98.
Si sostiene pertanto che, una volta che la banca si sia avvalsa della decadenza dal
beneficio del termine, la stessa possa pretendere il pagamento degli interessi moratori
— contrattualmente spesso più elevati rispetto a quelli corrispettivi — sulle rate
già scadute, comprensive di capitale ed interessi (quanto a questi ultimi, per i soli
contratti conclusi anteriormente al 1o-1-1994 e successivamente al 23-2-2000),
nonché sulla sola sorte capitale ancora dovuta dal mutuatario, vale a dire sulla sola
componente capitale delle rate a scadere, dovendosi escludere che l’istituto abbia il
diritto di pretendere l’intera somma — comprensiva di capitale ed interessi — costituita dall’ammontare complessivo delle rate a scadere, computando sulla stessa gli
interessi moratori.
96
Cfr. Tardivo, Il credito fondiario, cit., 265.
Bozza, Il credito fondiario, cit., 102, sottolinea come il disposto dell’art. 40 del d.lg. n. 385 del
1993, in materia di risoluzione del contratto di finanziamento fondiario, si rifletta «sulla disposizione
codicistica dell’art. 1186 c.c., nel senso che l’insolvenza del debitore di cui all’art. 1186 c.c. (...) non può
desumersi dal solo fatto dell’unico o reiterato mancato rispetto della scadenza contrattuale, ma deve
ricavarsi da altri elementi; ciò perché il fatto che la legge permetta la sanatoria entro certi limiti, impeditiva della risoluzione, sta a significare che il legislatore non giudica indice dell’insolvenza il mancato
pagamento delle rate alle scadenze contrattuali entro quei limiti».
98
In dottrina in questo senso cfr. Sepe, in Capriglione, Commentario, cit., 314, e dottrina ivi citata.
97
Opinioni e commenti
587
Un’argomentazione a sostegno di tale conclusione si rinviene proprio nella sentenza n. 12639 del 2008, delle S.U., sia pure nel contesto della motivazione a sostegno della conclusione raggiunta per il caso di risoluzione del contratto: la Suprema
Corte afferma infatti che il riconoscimento della spettanza degli interessi sulle rate
ancora a scadere al momento della risoluzione del vincolo postulerebbe «il perdurare del meccanismo di calcolo degli interessi compositi, ipotizzato dal D.P.R. n. 7
del 1976, art. 14, comma 2, pur quando è ormai venuto meno il beneficio della
rateizzazione del debito di restituzione di cui quel meccanismo anatocistico costituisce un evidente corollario», facendo in tal modo leva non sulla questione del
perdurare o meno del rapporto (da escludersi in caso di risoluzione, ma non, secondo la Suprema Corte, in quello di decadenza dal beneficio del termine), ma
sull’aspetto causale della spettanza degli interessi convenzionali, da far risiedere nel
beneficio della rateizzazione del debito, che viene meno tanto in caso di risoluzione
quanto in caso di decadenza dal beneficio del termine. Va tuttavia segnalato che,
nella medesima sentenza, la Corte aveva in precedenza, seppur incidentalmente ed
in forma dubitativa, affermato: «qualora, viceversa, si propenda per la prosecuzione
del rapporto pur dopo l’iniziativa dell’istituto mutuante, cosı̀ da assimilare la fattispecie piuttosto alla decadenza dal beneficio del termine che ad un’ipotesi di risoluzione contrattuale vera e propria, l’espressione “ogni somma... dovuta”, che figura
nella citata disposizione, parrebbe senz’altro doversi riferire all’intero importo delle
semestralità scadute ed a scadere (comprensive quindi anche degli interessi corrispettivi contrattualmente pattuiti), ulteriormente maggiorato dagli interessi di mora
da calcolare sull’ammontare complessivo di ciascuna rata, sin dal momento della
richiesta esecutiva, per effetto dell’anatocismo legale ipotizzato dello stesso D.P.R.
n. 7 del 1976, art. 14, comma 2».
In materia, la già citata delibera del CICR del 9-2-2000 ha previsto, all’art. 3,
punto II, che: «quando il mancato pagamento determina la risoluzione del contratto
di finanziamento, l’importo complessivamente dovuto può, se contrattualmente stabilito, produrre interessi a decorrere dalla data di risoluzione. Su questi interessi
non è consentita la capitalizzazione periodica».
La norma in questione desta qualche perplessità.
Il suo tenore letterale, con l’espressione «l’importo complessivamente dovuto»
sembrerebbe prendere in considerazione l’intera somma risultante dalle rate a scadere previste nel piano di ammortamento del finanziamento (le rate scadute sono
infatti contemplate nel precedente punto I del medesimo art. 3), comprensive di
capitale e di interessi, al momento della risoluzione del vincolo. Cosı̀ interpretata, la
disposizione consentirebbe la maturazione di ulteriori interessi anche sulla componente di interessi delle rate a scadere.
Una simile interpretazione, tuttavia, appare altresı̀ in contrasto con lo stesso art.
120, 2o co., d.lg. n. 385 del 1993, del quale costituisce attuazione, che pone quale
presupposto per l’anatocismo la circostanza che gli interessi sui quali è consentita la
588
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
produzione di ulteriori interessi siano “maturati” 99. Nel caso di risoluzione di un
contratto di finanziamento, pare doversi escludere che gli interessi sulle rate a scadere possano ritenersi “maturati”. Trattasi infatti, come evidenziato dalle Sezioni
Unite della Suprema Corte, di interessi corrispettivi, la cui giustificazione causale
risiede nel godimento della somma mutuata, e che non possono ritenersi dovuti ove
il godimento della suddetta somma venga meno a causa della risoluzione anticipata
del vincolo.
Cosı̀ interpretato, pertanto, l’art. 3, punto II, delibera CICR apparirebbe in contrasto con l’art. 120, 2o co., d.lg. n. 385 del 1993, sul quale si fonda, dovendo conseguentemente ritenersi illegittimo. Come tale, lo stesso potrebbe essere disapplicato dal giudice ordinario, trattandosi di norma di natura regolamentare 100.
Al fine di escludere un’interpretazione in contrasto con l’art. 120 del d.lg. n. 385
del 1993, la disposizione in esame dovrebbe essere interpretata nel senso di considerare come “importo complessivamente dovuto” il solo ammontare della sorte
capitale ancora dovuta al momento della risoluzione del vincolo, importo sul quale
la disposizione ribadisce la possibilità di maturazione di interessi, anche moratori,
eventualmente ad un tasso superiore a quello corrispettivo, «se contrattualmente
stabilito». Cosı̀ interpretata, la norma sembrerebbe tuttavia superflua, posto che
non si è mai dubitato della possibilità che i contratti di finanziamento stabiliscano
un tasso di interesse moratorio superiore a quello corrispettivo, come infatti avviene
frequentemente nella pratica.
Il dibattito sul significato e la portata della disposizione in esame appare pertanto
aperto.
Nel caso in cui la banca proceda alla notifica di un atto di precetto con il quale
si intima il pagamento di una parte del credito residuo, e non di tutto il dovuto, ci si
è chiesti se tale intimazione possa essere qualificata come manifestazione di volontà
di avvalersi della clausola risolutiva espressa (legislativamente o pattiziamente prevista).
Appare preferibile la soluzione negativa. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, la dichiarazione di avvalersi della clausola risolutiva espressa
costituisce manifestazione volontaria recettizia che, in assenza di espressa previsione
99
«Il CICR stabilisce modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle
operazioni poste in essere nell’esercizio dell’attività bancaria (...)».
100
Cfr., per la natura di normativa secondaria delle delibere CICR, in altra fattispecie, Cass. n. 14470
del 9-7-2005: «le norme emanate dal CICR (nel 1992 in via d’urgenza, in sua sostituzione, dal Ministro
del Tesoro) e dalla Banca d’Italia completano ed integrano la norma di legge, in virtù di una facoltà
espressamente prevista dalla legge stessa. Non si tratta pertanto di atti amministrativi illegittimi perché
contra legem, ma di atti a contenuto ed efficacia normativi, emanati dal CICR e dall’Autorità di vigilanza
nell’esercizio di un potere espressamente loro attribuito dal legislatore. Tali norme integrano il precetto
legislativo e, nei limiti consentiti dalla legge stessa, vi derogano, con la conseguenza che hanno natura di
atti normativi, sia pur non di rango primario (...)».
Opinioni e commenti
589
formale, può essere resa in ogni modo idoneo, anche implicito, ma tuttavia inequivocabile 101.
Mentre l’intimazione del pagamento di tutto il capitale residuo costituisce manifestazione inequivocabile di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa (legislativamente o pattiziamente prevista), la notificazione di un atto di precetto contenente l’intimazione di pagamento del solo credito già scaduto è quantomeno equivoca e non può quindi essere qualificata come manifestazione della volontà di
avvalersi della clausola risolutiva espressa.
In questo senso, nella giurisprudenza di merito, si è espresso il Tribunale di Torino, con sentenza del 3-11-2006 102: «è peraltro evidente che la semplice intimazione del precetto di pagamento non implica ex se che la banca abbia scelto di
avvalersi della clausola risolutiva espressa prevista dall’art. 15 d.p.r. 21-1-1976, n. 7:
a tal fine è necessario — secondo (...) Cass., 21-10-2005, n. 20449 — che “la banca
mutuante, a seguito dell’inadempimento del mutuatario, intimi precetto per ogni
suo credito, comprensivo del capitale residuo”. In difetto di che — se la banca, cioè,
intima precetto per le sole rate scadute, facendo riserva per quelle ancora a scadere
(...) — la pendenza del processo esecutivo è pienamente compatibile con la persistenza del rapporto contrattuale, la maturazione di nuove semestralità e la capitalizzazione degli interessi ex art. 38 t.u. 1905 e 14 D.P.R. 21.1.1976 n. 7».
101
Cass. n. 167 del 5-1-2005: «in tema di contratti, la clausola risolutiva espressa attribuisce al
contraente il diritto potestativo di ottenere la risoluzione del contratto per l’inadempimento di controparte senza doverne provare l’importanza; risoluzione che non può essere pertanto pronunziata d’ufficio, ma solo se la parte nel cui interesse la clausola è stata inserita nel contratto dichiara di volersene
avvalere, con manifestazione volontaria recettizia che, in assenza di espressa previsione formale, può
essere resa in ogni modo idoneo, anche implicito, purché inequivocabile, ed in particolare può essere
contenuta anche in un atto giudiziale, senza che ne sia in tal caso necessaria la preventiva formulazione
in via stragiudiziale».
102
In De Jure.
590
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
AMEDEO SPERTI
L’equiparabilità, a limitati effetti, del pignoramento mobiliare
mancato al negativo
Sommario: 1. Premessa. – 2. Distinzione tra pignoramento mobiliare negativo e mancato. –
3. Tipologia del pignoramento mobiliare mancato. – 4. L’equiparabilità del pignoramento mobiliare mancato al negativo: a) al fine della richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S. – 4.1. b) Al fine
della richiesta di accesso alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c. – 4.2. c) Al fine della
richiesta di nomina del professionista per l’esame delle scritture contabili ex art. 492, 8o co., c.p.c. –
4.3. d) Al fine della richiesta di liquidazione del compenso a favore del difensore d’ufficio ex art. 116,
d.p.r. 30-5-2002, n. 115. – 4.4. e) Al fine della prova dell’osservanza del beneficium excussionis.
1. Premessa.
La presente indagine mette in evidenza che il pignoramento mobiliare mancato,
pur essendo ontologicamente distinto rispetto al pignoramento mobiliare negativo,
può essere equiparato a quest’ultimo limitatamente ai seguenti effetti giuridici:
a) la richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S.;
b) la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c.;
c) la richiesta di nomina del professionista per l’esame delle scritture contabili ex
art. 492, 8o co., c.p.c.;
d) la richiesta di liquidazione del compenso a favore del difensore d’ufficio ex art.
116 d.p.r. 115/2002;
e) la prova dell’osservanza del beneficium excussionis.
L’equiparabilità quoad effectum, nei limiti di cui sopra, non è prevista dalla legge
apertis verbis e la giurisprudenza in subiecta materia si è pronunciata in senso contrario 1; nondimeno, trattasi di fenomeno (non de iure condendo, ma) de iure condito,
1
Cfr. Cass., Sez. lav., 3-12-1999, n. 13532, che esclude, inequivocabilmente, la possibilità giuridica di
equiparazione del pignoramento mobiliare mancato per c.d. porta chiusa al negativo, al fine della richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S.
Opinioni e commenti
591
in quanto risultante sia esplicitamente dalla prassi corrente 2 sia implicitamente dal
sistema normativo vigente 3.
2. Distinzione tra pignoramento mobiliare negativo e mancato.
Il criterio distintivo tra i due tipi di pignoramento mobiliare non positivo è il
presupposto costitutivo: l’infruttuosità ovvero l’impossibilità dell’accesso esecutivo
in loco dell’ufficiale giudiziario procedente. Infatti, il pignoramento mobiliare è negativo stricto sensu quando presuppone la totale infruttuosità 4 dell’accesso effettuato dall’ufficiale giudiziario nel luogo appartenente al debitore esecutando. In
particolare, il verbale di pignoramento mobiliare negativo si ha quando l’ufficiale
giudiziario, dopo avere effettuato l’accesso, constata l’inesistenza in loco di beni
mobili pignorabili sia giuridicamente sia utilmente. Invece, il pignoramento mobiliare è mancato quando presuppone l’impossibilità dell’accesso esecutivo in loco
dell’ufficiale giudiziario procedente. In estrema sintesi, il pignoramento mobiliare
negativo è caratterizzato dall’accesso in loco totalmente infruttuoso, mentre quello
mancato è caratterizzato dalla mancanza di accesso in loco dell’ufficiale giudiziario
procedente, in quanto impossibilitato o sub specie facti o sub specie iuris 5.
La distinzione tra pignoramento mobiliare negativo e mancato ha rilevanza (non
soltanto teorica, ma anche) pratica, in quanto è determinante per l’operatività o
meno dell’obbligo in capo all’ufficiale giudiziario di rivolgere al debitore l’invito a
rendere la dichiarazione patrimoniale entro il termine di quindici giorni, con l’avvertimento espresso della responsabilità penale per falsa od omessa dichiarazione
patrimoniale ex art. 388, 6o co., c.p. Tale obbligo, infatti, sussiste in caso di negativo
(oltre che, per espressa disposizione di legge, in caso di incapiente), mentre non
sussiste in caso di mancato; il che è spiegabile per la seguente ragione: nell’ambito
del pignoramento mobiliare diretto, il verbale negativo (cosı̀ come l’incapiente)
comporta il contatto spaziale tra l’ufficiale giudiziario procedente e la sfera patrimoniale del debitore, al contrario del mancato, che, per sua stessa natura, esclude la
possibilità del contatto medesimo. Evidentemente, si condivide l’interpretazione
estensiva (e non meramente letterale) dell’art. 492, 4o co., c.p.c., elaborata da quella
parte della dottrina che sostiene l’inclusione del pignoramento mobiliare negativo
tra le ipotesi legittimanti l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore; al ri2
Cfr. la circolare I.N.P.S. n. 74 del 15-7-2008, pubblicata su www.inps.it, nella sezione Atti ufficiali
on-line, in particolare par. 3.1.2. lett. c); v. amplius infra, § 4.
3
Cfr. l’interpretazione estensiva dell’art. 492, 7o co., c.p.c., elaborata sia dal Ministero della Giustizia
sia da una parte della dottrina; v. amplius infra, § 4.1.
4
In caso di infruttuosità (non totale, ma) parziale, il pignoramento mobiliare è qualificato incapiente
e risulta pur sempre positivo (tant’è che il verbale correlativo deve essere depositato in cancelleria, al
contrario del negativo), avendo l’ufficiale giudiziario individuato mobilio da sottoporre ad espropriazione forzata, ancorché insufficiente alla totale garanzia del creditore procedente.
5
V. amplius infra § 3.
592
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
guardo, si ritiene che tale interpretazione sia non solo teleologica-sistematica, ma
anche costituzionalmente orientata, al contrario dell’interpretazione meramente letterale, risultante costituzionalmente viziata 6.
6
Occorre puntualizzare che la dottrina è divisa sulla inclusione/esclusione dell’ipotesi del pignoramento negativo, al fine dell’interpello al debitore ex art. 492, 4o co., c.p.c., dato che la lettera della legge
prevede l’interpello al debitore nelle due ipotesi del pignoramento incapiente o del pignoramento
capiente caratterizzato dalla non facile e pronta liquidabilità dell’oggetto pignorato. Sussiste, pertanto,
il dubbio interpretativo, consistente nella seguente alternativa: o l’interpretazione letterale dell’art. 492,
4o co., c.p.c., con conseguente esclusione dell’ipotesi del pignoramento negativo, ovvero l’interpretazione estensiva della medesima disposizione di legge, con conseguente inclusione dell’ipotesi del pignoramento negativo. A tal punto, risulta imprescindibile l’analisi degli opposti argomenti ermeneutici a
giustificazione delle due interpretazioni antitetiche alternative.
Gli argomenti adducibili a fondamento giustificativo dell’interpretazione letterale dell’art. 492, 4o
co., c.p.c., sono due: 1) l’argomento a contrario (sintetizzabile nel noto brocardo: ubi lex voluit, dixit; ubi
noluit, tacuit) per cui il legislatore ha voluto l’ipotesi del pignoramento negativo soltanto per legittimare
la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c. (nonché la richiesta di nomina
del professionista per l’esame delle scritture contabili ex art. 492, 8o co., c.p.c., stante la perfetta simmetria tra le due fattispecie legali relativamente all’ambito oggettivo di applicazione), mentre non ha
voluto includere tale ipotesi tra quelle legittimanti l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore ex art.
492, 4o co., c.p.c.; 2) il divieto di analogia in materia penale ex art. 14 disp. prel. c.c., dato che l’invitoavvertimento rivolto dall’ufficiale giudiziario al debitore ex art. 492, 4o co., c.p.c., ha rilevanza penale,
stante la responsabilità penale del debitore non ottemperante a tale invito-avvertimento, per falsa od
omessa dichiarazione patrimoniale all’ufficiale giudiziario, ai sensi e per gli effetti dell’art. 388, 6o co.,
c.p.
Gli argomenti adducibili a fondamento giustificativo dell’interpretazione estensiva dell’art. 492, 4o
co., c.p.c., sono quattro: 1) l’argomento a fortiori, del tipo a minore ad maius, per cui se l’interpello
dell’ufficiale giudiziario al debitore è previsto nel caso di pignoramento incapiente, che è parzialmente
infruttuoso, a maggior ragione deve potersi ammettere l’interpello stesso nel caso più grave di pignoramento negativo, che è totalmente infruttuoso; 2) l’argomento a simili (detto anche argomento analogico), secondo cui il regime dell’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore è applicabile non soltanto
nel caso tipico del pignoramento incapiente, ma anche nel caso a-tipico del pignoramento negativo,
trattandosi di due casi simili sottoponibili alla stessa disciplina legale per identità di ratio legis, in forza
del noto brocardo: ubi eadem legis ratio, ibi eadem legis dispositio; 3) l’argomento ab absurdo (detto
anche argomento apagogico) secondo cui se si escludesse (ragionando appunto per assurdo) il pignoramento negativo tra le ipotesi legittimanti l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore ex art. 492, 4o
co., c.p.c., si arriverebbe alla conclusione paradossale (come tale illogica) della evidente irragionevole
disparità di trattamento tra debitore sottoposto a pignoramento incapiente con obbligo di dichiarazione
patrimoniale sotto comminatoria di responsabilità penale ex art. 388, 6o co., c.p., e debitore sottoposto
a pignoramento negativo senza né obbligo di dichiarazione patrimoniale né connessa responsabilità
penale ex art. 388, 6o co., c.p., pur essendo due ipotesi simili, in quanto accomunate dall’infruttuosità
dell’accesso esecutivo in loco dell’ufficiale giudiziario (nel primo caso parziale e nel secondo caso totale);
4) l’argomento sistematico del combinato disposto del 4o, 7o ed 8o co. dell’art. 492 c.p.c.: premesso che
la richiesta di nomina del professionista per l’esame delle scritture contabili del debitore-imprenditore
può essere legittimamente presentata dal creditore procedente all’ufficiale giudiziario non soltanto in
caso di pignoramento incapiente, ma anche in caso di pignoramento negativo, e che il provvedimento di
liquidazione a favore del professionista (nominato dall’ufficiale giudiziario su richiesta del creditore
procedente per l’esame delle scritture contabili del debitore-imprenditore) può costituire legittimo
titolo esecutivo contro il debitore-imprenditore se ed in quanto attesti il rinvenimento (nella relazione
del professionista sulle scritture contabili del debitore-imprenditore) di beni (cose o crediti) non costituenti oggetto della dichiarazione del debitore, a seguito dell’interpello dell’ufficiale giudiziario, di
conseguenza deve concludersi che l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore è da effettuarsi non
Opinioni e commenti
593
3. Tipologia del pignoramento mobiliare mancato.
Il pignoramento mobiliare mancato costituisce genus comprendente più species, le
quali, a loro volta, sono sussumibili sotto due categorie alternative: l’impossibilità
soltanto in caso di pignoramento incapiente, ma anche in caso di pignoramento negativo. Diversamente
interpretando, in caso di pignoramento negativo, il provvedimento di liquidazione a favore del professionista non costituirebbe mai titolo esecutivo contro il debitore-imprenditore, e, nel contempo, il
creditore procedente sarebbe sempre l’unica parte obbligata al pagamento della somma liquidata a
favore del professionista, anche nell’ipotesi di sopravvenuto rinvenimento di beni pignorabili nella
relazione del professionista; il che non è plausibile.
A sommesso parere di chi scrive, l’argomento del divieto di analogia in materia penale ex art. 14 disp.
prel. c.c. non è sostenibile nel caso de quo, in quanto si tratta di interpretazione estensiva e non di
analogia vera e propria; al riguardo, la giurisprudenza (sia della Corte Costituzionale sia della Corte di
Cassazione) è costante nell’affermare la necessità di distinzione tra interpretazione estensiva ed analogia, al fine di escludere l’interpretazione estensiva dall’ambito di operatività del divieto di analogia in
materia penale ex art. 14 disp. prel. c.c. Naturalmente, si potrebbe facilmente obiettare che nel caso de
quo non si ha semplice interpretazione estensiva, bensı̀ integrazione analogica; a seguito di tale obiezione si riaprirebbe la vexata quaestio: interpretazione estensiva o analogia?
In conclusione, premettendosi di volere configurare l’inclusione del pignoramento negativo (tra le
ipotesi legittimanti l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore ex art. 492, 4o co., c.p.c.) come operazione di interpretazione estensiva e non di integrazione analogica, e, nel contempo, dovendosi preferire
quella tra le due alternative ermeneutiche non suscettibile di eccezione di incostituzionalità (cfr. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Bologna, 2008, 259), si afferma che l’interpretazione estensiva dell’art.
492, 4o co., c.p.c. è preferibile rispetto a quella letterale in quanto costituzionalmente orientata. Infatti,
l’interpretazione letterale dell’art. 492, 4o co., c.p.c. è costituzionalmente viziata, dato che viola non soltanto il principio costituzionale di uguaglianza ex art. 3 Cost., comportando l’ingiustificata disparità di
trattamento tra due fattispecie simili, ma anche il principio costituzionale di ragionevolezza (cfr. Zagrebelsky, op. cit., 228 ss., il quale afferma la necessità di distinzione tra i due principi costituzionali, essendo
il secondo irriducibile al primo se non attraverso mascheramenti formalistici), e, nel contempo, sminuisce
il principio costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale, di cui al combinato disposto degli artt.
24 e 111 Cost., riducendone ingiustificatamente la sua portata operativa (notoriamente, in diritto processuale civile, la garanzia costituzionale dell’effettività della tutela giurisdizionale opera non soltanto nel
processo di cognizione, ma anche nel processo di esecuzione forzata, e l’obbligo dell’ufficiale giudiziario
di rivolgere al debitore l’invito a rendere la dichiarazione patrimoniale entro il termine di quindici giorni,
con l’avvertimento espresso della responsabilità penale per falsa od omessa dichiarazione patrimoniale ex
art. 388, 6o co., c.p., costituisce, senza dubbio, uno degli strumenti processuali di attuazione del principio
costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale in sede esecutiva).
In particolare, l’esclusione del pignoramento negativo (tra le ipotesi legittimanti l’interpello dell’ufficiale giudiziario al debitore ex art. 492, 4o co., c.p.c.), operata dall’interpretazione letterale, è incompatibile con il principio costituzionale di ragionevolezza, in quanto comporta il rischio di subordinare
sia l’obbligo dell’ufficiale giudiziario di interpello al debitore sia l’obbligo del debitore di dichiarazione
patrimoniale sia la responsabilità penale del debitore ex art. 388, 6o co., c.p., alla totale discrezionalità/
arbitrarietà dell’ufficiale giudiziario. Quest’ultimo, infatti, nel procedere al pignoramento mobiliare
diretto senza l’esperto stimatore (o non richiesto dal creditore o non ritenuto utile dall’ufficiale giudiziario: id quod plerumque accidit), qualora rinvenga res giuridicamente pignorabili di apparente modico
valore, si trova nella situazione di libera scelta (in cui è impercettibile il limite tra la discrezionalità e
l’arbitrarietà dell’ufficiale giudiziario procedente) tra due alternative giuridicamente possibili: o il verbale negativo, se ritiene le res non utilmente pignorabili per mancanza di valore di realizzo, ovvero il
verbale incapiente, se presume sussistente un pur minimo valore di realizzo. Pragmaticamente, qualora
si sostenesse l’interpretazione letterale dell’art. 492, 4o co., c.p.c., si avrebbe la propensione dell’ufficiale
giudiziario ad orientarsi a favore dell’interesse (non pubblico generale della giustizia, ma meramente)
594
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
materiale o l’impossibilità giuridica. In particolare, la categoria del pignoramento
mobiliare mancato per impossibilità materiale può articolarsi in tre tipi:
1) l’irreperibilità oggettiva del debitore esecutando per sua assenza definitiva in
loco (è il caso concreto del trasferimento del debitore esecutando, non comunicato
ufficialmente all’autorità pubblica competente: anagrafe comunale o ufficio registro
personale: o proprio, in caso di verbale negativo, per autoesonerarsi dall’obbligo di rivolgere al debitore
l’invito a rendere la dichiarazione patrimoniale entro il termine di quindici giorni, con l’avvertimento
espresso della responsabilità penale per falsa od omessa dichiarazione patrimoniale ex art. 388, 6o co.,
c.p.; oppure del creditore, in caso di verbale incapiente, a seguito dell’insistenza del medesimo per il
pignoramento mobiliare comunque, ancorché si tratti di res non utilmente pignorabili per evidente
mancanza di valore di realizzo, al fine esclusivo di azionare la responsabilità penale del debitore per falsa
od omessa dichiarazione patrimoniale ex art. 388, 6o co., c.p., con conseguente anti-economicità del
verbale solo formalmente incapiente (come tale da depositarsi in cancelleria per l’apertura del relativo
fascicolo dell’esecuzione), ma sostanzialmente negativo. Logicamente, in entrambi i predetti casi di
interesse meramente personale (e non generale di giustizia), si avrebbe la degenerazione della discrezionalità dell’ufficiale giudiziario in arbitrarietà; il che, ovviamente, sta a significare violazione del principio costituzionale di ragionevolezza.
Si potrebbe obiettare che il rischio di arbitrarietà dell’ufficiale giudiziario procedente sia sussistente
anche in caso di verbale capiente per sovrastima delle res pignorate, effettuata dall’ufficiale giudiziario
senza né la nomina di esperto stimatore né la verbalizzazione della non facile liquidabilità delle res
pignorate stesse, con conseguente autoesonero dell’ufficiale giudiziario dall’obbligo di interpello al
debitore sotto comminatoria di responsabilità penale. Tuttavia, tale obiezione non è plausibile, dato che
in quest’ultimo caso il rischio paventato risulta neutralizzato dalla facoltà del creditore procedente di
richiedere al giudice dell’esecuzione l’integrazione del pignoramento ex artt. 518, ult. co. e 540-bis c.p.c.
Al contrario, nel caso di autoesonero da verbale negativo (sul presupposto dell’interpretazione meramente letterale suddetta), non vi è possibilità giuridica di neutralizzazione del rischio medesimo, dovendo il creditore procedente reiterare la richiesta di pignoramento (auspicandosi la trasformazione del
verbale da negativo in positivo, quanto meno incapiente, magari con la partecipazione al pignoramento
reiterato, eventualmente con l’ausilio di esperto stimatore), sempre che nel frattempo non sia sopravvenuta la perenzione del precetto (dato che il verbale negativo non interrompe il termine di efficacia del
precetto, non sussistendo l’ingiunzione al debitore concretante il pignoramento).
Ergo, si considera superabile ermeneuticamente la lettera della legge, senza necessità di intervento
della Corte costituzionale, in antitesi a quanto affermato da Ronco [cfr. Commento all’art. 492 c.p.c., in
Chiarloni (a cura di), Le recenti riforme del processo civile, Bologna, I, 2007, 631 ss.], il quale, nel
sostenere l’incongruenza dell’inapplicabilità dell’art. 492, 4o co., c.p.c., all’ipotesi in cui il pignoramento
sia negativo (id est: infruttuosamente tentato), afferma che la lettera della legge non è superabile ermeneuticamente (attraverso l’interpretazione estensiva), ritenendo vincolante l’argomento a contrario fondante l’interpretazione letterale, e, nel contempo, auspicabile l’intervento manipolativo della Corte
Costituzionale, finalizzato ad eliminare l’irragionevole disparità di trattamento predetta.
Evidentemente, contrariamente alla tesi dottrinale di Ronco, non può che affermarsi l’inammissibilità
dell’intervento manipolativo della Corte Costituzionale in subiecta materia, stante l’ammissibilità dell’interpretazione estensiva (costituzionalmente orientata) dell’art. 492, 4o co., c.p.c., attualmente sostenuta non soltanto dalla dottrina maggioritaria (cfr. Ferri, in Comoglio-Ferri-Taruffo, Lezioni sul
processo civile, II, Procedimenti speciali, cautelari ed esecutivi, Bologna, 2006, 353; Finocchiaro, Nel
nuovo atto di pignoramento il debitore è invitato a indicare i beni, GDir, 2006, 10, 30; Merlin, L’atto di
pignoramento in generale e la ricerca dei beni da pignorare, in AA.VV., Il processo civile di riforma in
riforma, II, Milano, 2006, 18; Demarchi, Il nuovo rito civile, III, Le esecuzioni, Milano, 2006, 92-93), ma
anche dalla stessa prassi corrente negli UNEP (l’orientamento degli ufficiali giudiziari, infatti, è nel
senso di rivolgere l’invito-avvertimento al debitore ex art. 492, 4o co., c.p.c., non soltanto in caso di
pignoramento incapiente, ma anche in caso di pignoramento negativo stricto sensu).
Opinioni e commenti
595
imprese presso C.C.I.A.A.; ovvero, il caso concreto della chiusura permanente della
sede legale e/o unità locale della società debitrice esecutanda, per totale cessazione
della sua attività imprenditoriale);
2) l’irreperibilità soggettiva del debitore esecutando per sua assenza temporanea
in loco (è il caso concreto della chiusura momentanea del luogo appartenente al
debitore esecutando per suo allontanamento provvisorio, con contestuale indisponibilità del fabbro idoneo all’apertura forzata della porta d’ingresso, ossia il pignoramento mobiliare mancato per c.d. porta chiusa);
3) l’indisponibilità temporanea del personale ausiliario (forza pubblica e/o fabbro) richiesto dall’ufficiale giudiziario ex art. 513, 2o co., c.p.c., al fine del superamento della resistenza oppostagli in loco (è il caso concreto del barricamento del
debitore esecutando all’interno della sua casa di residenza o azienda, a seguito del
tentativo di accesso esecutivo dell’ufficiale giudiziario).
L’altra categoria del pignoramento mobiliare mancato per impossibilità giuridica
non è articolabile in più tipi predeterminati, essendo innumerevoli i giusti motivi di
rifiuto adducibili dall’ufficiale giudiziario a fondamento dell’impossibilità giuridica
di procedere al pignoramento richiesto 7; a titolo esemplificativo, tra i motivi predetti vi sono: il difetto del titolo esecutivo idoneo all’uopo (come la cambiale non in
regola con il bollo ex art. 20, d.p.r. n. 642/1972, oppure la mancanza della dichiarazione di esecutorietà sia in caso di decreto ingiuntivo non opposto ex art. 647
c.p.c. sia in caso di decreto ingiuntivo opposto e confermato ex art. 654, 1o co.,
c.p.c. 8) e il divieto di azione esecutiva individuale o a seguito della dichiarazione di
Al riguardo, la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr. L’interpretazione costituzionale nella
giustizia costituzionale italiana, Intervento del Presidente Franco Bile, Algeri, 30-10-2008, in www.cortecostituzionale.it) afferma, in linea di principio, che la questione di legittimità costituzionale è inammissibile qualora sia possibile l’interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione di legge
oggetto della questione medesima, salvo che sussista l’orientamento giurisprudenziale consolidato, costituente il c.d. diritto vivente, che interpreti la disposizione di legge soltanto ed esclusivamente in senso
incompatibile con la Costituzione; orbene, in subiecta materia non si è formato il “diritto vivente” nel
senso dell’interpretazione letterale dell’art. 492, 4o co., c.p.c. come unica interpretazione giuridicamente possibile; anzi, attualmente, come già evidenziato, sia la dottrina maggioritaria che la prassi
giudiziaria corrente degli UNEP sono orientate a favore dell’interpretazione estensiva (costituzionalmente orientata) dell’art. 492, 4o co., c.p.c.
7
Il rifiuto dell’ufficiale giudiziario di procedere al pignoramento richiesto, per essere legittimo, deve
necessariamente essere motivato per iscritto, cosı̀ come dispone espressamente l’art. 108, 1o co., d.p.r.
15-12-1959, n. 1229 (t.u. sull’Ordinamento degli ufficiali giudiziari). Il pignoramento mobiliare mancato per impossibilità giuridica, risultante dal verbale di rifiuto motivato dell’ufficiale giudiziario, si
fonda sul potere-dovere dell’ufficiale giudiziario di controllare la sussistenza dei presupposti dell’esecuzione forzata richiesta (cfr., in tal senso, Martinetto-(Bove-Capponi-Sassani), L’espropriazione forzata, in Giur. sist. dir. proc. civ., diretta da Proto Pisani, Torino, 1988, 58 ss.; Castoro, Il processo di
esecuzione nel suo aspetto pratico, 10a ed., Milano, 2006, 57; Corsaro, Le esecuzioni forzate nel codice di
procedura civile, Milano, 2006, 165 ss.).
8
Per quest’ultimo caso ci permettiamo di rinviare a Sperti, Sulla natura del provvedimento ex art.
654, 1o co., c.p.c., in commento a T. Perugia, 29-8-2007, REF, 2008, 251 ss.
596
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
fallimento ex art. 51 l. fall. o a seguito del deposito della domanda di concordato
preventivo ex art. 168 l. fall.
La differenziazione tipologica del pignoramento mobiliare mancato, sintetizzabile
nei quattro tipi suddetti, non si riduce a mera classificazione terminologica; infatti
(non è fine a se stessa, ma) è finalizzata a delimitare l’ambito di operatività dell’equiparazione quoad effectum del pignoramento mobiliare mancato al negativo. Più precisamente, l’ambito di operatività de quo è variabile a seconda del tipo di effetto
giuridico preso in considerazione: al fine della richiesta di intervento del Fondo di
garanzia dell’INPS, l’equiparabilità opera per due tipi di pignoramento mobiliare
mancato (v. infra § 4), mentre a tutti gli altri effetti giuridici, elencati in premessa alle
lettere b)-c)-d)-e), l’equiparabilità opera soltanto ed esclusivamente per il primo tipo
di pignoramento mobiliare mancato, ossia quello per irreperibilità oggettiva.
4. L’equiparabilità del pignoramento mobiliare mancato al negativo: a) al
fine della richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S.
La circolare I.N.P.S. n. 74 del 15-7-2008 afferma testualmente, nel par. 3.1.2. lett.
c), che «ai fini dell’intervento del Fondo, al pignoramento negativo può essere equiparato quello mancato quando: a) l’ufficiale giudiziario abbia accertato l’irreperibilità del datore di lavoro all’indirizzo di residenza che risulta dai registri dell’anagrafe
comunale; b) l’ufficiale giudiziario abbia constatato, in occasione di almeno due
accessi, l’assenza del debitore».
Tale ipotesi di equiparabilità è peculiare, rispetto alle altre quattro di cui alla
presente indagine, per due motivi: in primo luogo, rappresenta l’unica ipotesi non
implicita, risultando expressis verbis; in secondo luogo, il suo ambito di operatività
non è limitato al primo tipo di pignoramento mancato, dato che qui l’equiparazione
può operare non soltanto in caso di irreperibilità oggettiva del debitore esecutando
(per sua assenza definitiva in loco), ma anche in caso di irreperibilità soggettiva (per
sua assenza temporanea in loco). Pertanto, al fine della richiesta di intervento del
Fondo di garanzia dell’I.N.P.S., anche il pignoramento mobiliare mancato per c.d.
porta chiusa può essere equiparato al negativo, purché l’ufficiale giudiziario verbalizzi almeno due tentativi di accesso.
In tal modo, la prassi corrente (cosı̀ come risultante esplicitamente dalla suddetta
circolare I.N.P.S.), nell’interpretare ed applicare il presupposto legale per la richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S., di cui al combinato disposto
dell’art. 2, 5o co., l. 29-5-1982, n. 297 e dell’art. 1, 2o co., d.lg. 27-1-1992, n. 80
(id est: la dimostrazione dell’insufficienza, in tutto o in parte, delle garanzie patrimoniali del debitore-datore di lavoro non assoggettabile a procedura concorsuale, a
seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata), supera non soltanto la lettera
della legge, ma anche la giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ha escluso,
inequivocabilmente, l’equiparabilità del pignoramento mobiliare mancato per c.d.
Opinioni e commenti
597
porta chiusa al pignoramento mobiliare negativo, ancorché l’ufficiale giudiziario
verbalizzi più tentativi di accesso 9.
Al riguardo, giova evidenziare che la prassi operativa dell’I.N.P.S. in subiecta materia ha invertito il proprio orientamento; infatti, la circolare predetta ribalta la
posizione dell’I.N.P.S. precedentemente espressa nel messaggio n. 23767 del 27-72004 10, che, al punto 3), confermava l’impossibilità di equiparazione giuridica del
pignoramento mobiliare mancato per c.d. porta chiusa al negativo, con rinvio al
precedente giurisprudenziale della S.C. (già citato in nota).
Resta, comunque, ferma la configurazione del verbale di pignoramento mobiliare
mancato alla stessa stregua del verbale di pignoramento mobiliare negativo, al fine
della richiesta di intervento del Fondo di garanzia dell’I.N.P.S., ossia come condizione necessaria ma non sufficiente, essendo necessaria ulteriore condizione: l’impossibilità o l’inutilità del pignoramento immobiliare. Infatti, la stessa circolare
I.N.P.S. precisa che il lavoratore richiedente l’intervento del Fondo di garanzia ex
art. 2, 5o co., l. 29-5-1982, n. 297, ha l’onere di allegare non soltanto il verbale di
pignoramento mobiliare negativo ovvero mancato equiparato a quello negativo (ovvero incapiente), ma anche la visura o il certificato della Conservatoria dei registri
immobiliari dei luoghi di nascita e di residenza del datore di lavoro, da cui risulti che
lo stesso non sia titolare di beni immobili (a dimostrazione dell’impossibilità del
pignoramento immobiliare) o che gli stessi siano gravati da ipoteche in misura superiore al valore dei beni (a dimostrazione dell’inutilità del pignoramento immobiliare).
4.1. b) Al fine della richiesta di accesso alle banche dati pubbliche ex art.
492, 7o co., c.p.c.
Non è univoca l’interpretazione dell’art. 492, 7o co., c.p.c., circa i presupposti
necessari per la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche. Sintomi di tale incertezza interpretativa sono, da un lato, la triplicità dell’intervento ermeneutico del
Ministero della Giustizia, e, dall’altro lato, la divisione della dottrina sul significato
normativo dell’incipit, di cui al 7o co. dell’art. 492 c.p.c.
Il Ministero della Giustizia è intervenuto tre volte consecutivamente 11 per esporre
il proprio indirizzo interpretativo al personale dipendente U.N.E.P. circa l’ambito
9
V. supra nota 1.
Il messaggio suddetto risulta pubblicato su www.inps.it, nella sezione Atti ufficiali on-line.
11
Cfr. i seguenti tre documenti, emanati dal Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, del Personale e dei Servizi - Direzione Generale del Personale e della Formazione
- Ufficio VI UNEP: 1) nota ministeriale prot. n. 6/912/03-1 del 12-6-2006, a firma del Direttore dell’Ufficio VI Renato Pacileo, pubblicata su www.auge.it; 2) circolare ministeriale prot. n. 6/381/035/CA
del 14-3-2007, a firma del Capo Dipartimento Claudio Castelli, MG, 19/2007, 228; 3) nota ministeriale
prot. n. 6/1335/03-1/2008/CA del 17-9- 2008, a firma del Direttore Generale Carolina Fontecchia, MG,
48/2008, 536.
10
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
operativo del potere-dovere dell’ufficiale giudiziario di procedere alla richiesta di
accesso alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c.
Il primo intervento ministeriale sul punto, risalente al 12-6-2006, è risultato generico, affermando la possibilità giuridica di accesso alle banche dati pubbliche non
soltanto nelle due ipotesi espressamente previste dalla legge (id est: pignoramento
negativo o incapiente), ma anche nell’ulteriore ipotesi del pignoramento mancato sic
et simpliciter, senza alcuna specificazione sul tipo di pignoramento mancato equiparabile al negativo, cosı̀ ammettendo implicitamente la legittimità dell’indagine
patrimoniale sul debitore in ogni caso di pignoramento mancato, non soltanto per
irreperibilità, ma anche per c.d. porta chiusa.
Nel suo secondo intervento, datato 14-3-2007, il Ministero della Giustizia è sembrato riduttivo e tranchant, come se volesse operare un revirement, dato che ha
escluso l’ipotesi del verbale di pignoramento mancato tra i presupposti necessari per
la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche, menzionando soltanto ed esclusivamente le due ipotesi tipiche del pignoramento negativo o incapiente.
Infine, con il terzo intervento, dall’effetto risolutivo e chiarificatore, datato 17-92008, il Ministero della Giustizia ha effettuato la necessaria preliminare distinzione
tra due tipi di pignoramento mancato: da un lato, il mancato per irreperibilità del
debitore e, dall’altro lato, il mancato per c.d. porta chiusa, evidenziando che soltanto la prima ipotesi di pignoramento mancato può giustificare l’accesso alle banche dati pubbliche, mentre la seconda ipotesi (c.d. porta chiusa) non rientra tra i
presupposti necessari per la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche.
Pertanto, secondo l’interpretazione estensiva del Ministero della Giustizia, il pignoramento mancato è equiparabile al negativo al fine della richiesta di accesso alle
banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c., limitatamente all’ipotesi del mancato per irreperibilità del debitore, con conseguente esclusione dell’altra ipotesi del
mancato per c.d. porta chiusa.
Mentre il Ministero della Giustizia ha risolto il problema dell’interpretazione dell’art. 492, 7o co., c.p.c. (in virtù del suo terzo intervento esplicativo correttivo suddetto), la dottrina resta tuttora divisa sul significato da attribuire all’incipit “in ogni
caso”, di cui al 7o co. medesimo. Premesso il superamento definitivo de iure condito
della tesi dottrinale dell’ammissibilità dell’accesso alle banche dati pubbliche prima
di qualsiasi tipo di pignoramento 12, permane, tuttavia, l’incertezza interpretativa
12
Tale tesi (avanzata da Corsini, L’individuazione dei beni da pignorare secondo il nuovo art. 492
c.p.c., RTPC, 2005, 831) è sostenibile attualmente soltanto de iure condendo, al fine di anteporre l’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale esecutiva del creditore munito di titolo esecutivo rispetto
all’altra esigenza di tutela della riservatezza del debitore esecutando. Pertanto, la locuzione legale “in
ogni caso” non può essere più interpretata validamente nel senso di a prescindere dal previo esperimento di qualsiasi tipo di pignoramento, dato che presupposto indefettibile della richiesta di accesso
alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o co., c.p.c., è il pignoramento, non necessariamente perfezionato, ma almeno tentato (secondo alcuni nel senso quantomeno di pignoramento negativo, secondo altri
nel senso quantomeno di pignoramento mancato per irreperibilità del debitore). Per la dimostrazione
Opinioni e commenti
599
sulla valenza normativa dell’incipit stesso. In dottrina, infatti, sono distinguibili tre
tesi interpretative sul punto de quo:
1) la tesi restrittiva della mera residualità dell’accesso alle banche dati pubbliche
rispetto all’interpello al debitore 13;
2) la tesi intermedia sia della non necessarietà del previo tentativo di interpello al
debitore sia della necessarietà del previo tentativo di pignoramento, nel senso quantomeno di pignoramento negativo 14;
3) la tesi estensiva dell’equiparabilità al negativo del pignoramento mancato per
irreperibilità (oggettiva) del debitore 15.
Evidentemente, la terza tesi dottrinale è quella recepita dal Ministero della Giustizia con il suo ultimo intervento ermeneutico risolutore del 17-9-2008.
4.2. c) Al fine della richiesta di nomina del professionista per l’esame
delle scritture contabili ex art. 492, 8o co., c.p.c.
L’ambito oggettivo di applicazione dell’8o co. dell’art. 492 c.p.c. è determinato per
rinvio espresso al settimo comma del medesimo articolo, con conseguente identità
dei presupposti necessari per entrambe le richieste, sussistendo perfetta simmetria
tra i casi legittimanti la richiesta di accesso alle banche dati pubbliche ex art. 492, 7o
co., c.p.c. ed i casi legittimanti la richiesta di nomina del professionista per l’esame
delle scritture contabili ex art. 492, 8o co., c.p.c.
Logicamente, ove si condivida la tesi estensiva dell’equiparabilità al negativo del
pignoramento mancato per irreperibilità del debitore, la richiesta di nomina del
professionista ex art. 492, 8o co., c.p.c. può legittimamente presentarsi all’UNEP
non soltanto nei due casi tipici del pignoramento negativo o incapiente, ma anche
nel caso ulteriore del pignoramento mancato per irreperibilità del debitore, che, pur
non essendo espressamente previsto, è sotteso nell’incipit (“in ogni caso”) del settimo comma dell’art. 492 c.p.c.; pertanto, il rinvio dell’8o co. agli «stessi casi di cui
al settimo comma» dell’art. 492 c.p.c. non può non comprendere anche il caso
implicito del pignoramento mancato per irreperibilità del debitore.
del superamento de iure condito della tesi del Corsini, di cui sopra, si rinvia a Bove, Il pignoramento, in
Balena-Bove, Le riforme più recenti del processo civile, Bari, 2006, 149 ss.
13
In questo primo senso si sono espressi Saletti, Le novità in materia di pignoramento e di ricerca
dei beni da espropriare, REF, 2005, 752-753; Demarchi, Il nuovo rito civile, III, Le esecuzioni, Milano,
2006, 106; Groppoli, Commento all’art. 492 c.p.c., in Briguglio-Capponi (a cura di), Commentario alle
riforme del processo civile, II, Processo di esecuzione, Padova, 2007, 75.
14
Cosı̀ Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, 2a ed., Padova, 2009, 271 ss.
15
In quest’ultimo senso si sono espressi Campeis-De Pauli, Le esecuzioni civili, 4a ed., Padova, 2007,
164; Tedioli, La nuova disciplina del pignoramento introdotta con le riforme del 2005 e del 2006, in
Vullo (a cura di), Codice dell’esecuzione forzata commentato con dottrina e giurisprudenza, 3a ed., Piacenza, 2009, 147.
600
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Altrimenti, optandosi per l’interpretazione restrittiva (che esclude l’equiparabilità
al negativo del pignoramento mancato per irreperibilità del debitore), verrebbe
meno quella perfetta simmetria tra i due commi, 7o e 8o, voluta dallo stesso legislatore 16; ergo, tale opzione ermeneutica non è condivisibile, in quanto ignora la voluntas legis anzidetta, e, nel contempo, disconosce la valenza sistematica dell’incipit
(“in ogni caso”) del settimo comma dell’art. 492 c.p.c.
La tesi estensiva suddetta è, altresı̀, avvalorata dal dato normativo positivo della
individuabilità del luogo di tenuta delle scritture contabili non soltanto con la collaborazione del debitore, che ottempera all’invito dell’ufficiale giudiziario ad indicare il luogo medesimo a norma del primo periodo dell’ottavo comma, ma anche
senza la sua collaborazione informativa, in forza dell’ausilio congiunto sia degli uffici finanziari sia dell’ufficiale giudiziario, a norma del secondo periodo del medesimo comma. Premesso, de iure condito, che la nomina del professionista per l’esame
delle scritture contabili ex art. 492, 8o co., c.p.c., può prescindere dall’invito dell’ufficiale giudiziario al debitore a indicare il luogo di tenuta delle scritture contabili,
ne consegue, come corollario, che la richiesta di nomina suddetta possa essere legittimamente presentata dal creditore all’ufficiale giudiziario anche quando il pignoramento sia mancato per irreperibilità dello stesso debitore.
La tesi qui propugnata sembra essere in linea con l’orientamento ermeneutico del
Ministero della Giustizia, che recentemente ha riconosciuto, da un lato, la facoltà
del creditore procedente di richiedere all’ufficiale giudiziario la nomina del professionista per l’esame delle scritture contabili del debitore-imprenditore ex art. 492,
8o co., c.p.c., anche non contestualmente al pignoramento, e, dall’altro lato, l’obbligo dell’ufficiale giudiziario (ove richiesto dal creditore) di procedere alla nomina
del professionista anche in caso di rifiuto del debitore-imprenditore di indicare il
luogo di tenuta delle scritture contabili ovvero anche in caso di irreperibilità del
debitore-imprenditore, senza alcun onere di notificazione nei confronti del debitore
medesimo circa l’istanza del creditore ed il nominativo del professionista 17.
16
Non si può trascurare che il legislatore ha previsto perfetta simmetria limitatamente al 7o ed 8o co.,
sussistendo, al contrario, a-simmetria tra questi due commi ed il 4o co. dell’art. 492 c.p.c., ove compare
il caso unico del pignoramento capiente caratterizzato dalla non facile e pronta liquidabilità dell’oggetto
del pignoramento.
Occorre puntualizzare che l’identità dei presupposti necessari per entrambe le richieste di cui al 7o ed
8o co. dell’art. 492 c.p.c. riguarda soltanto l’ambito oggettivo di applicazione, mentre emerge la differenza peculiare tra le due fattispecie legali nell’ambito soggettivo: la prima, infatti, ha operatività generale, riguardando qualsiasi tipo di debitore; la seconda, al contrario, ha operatività speciale, essendo
applicabile soltanto se ed in quanto il debitore abbia lo status di imprenditore commerciale.
17
Cfr. nota del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Organizzazione Giudiziaria, del
Personale e dei Servizi - Direzione Generale del Personale e della Formazione - Ufficio VI UNEP,
prot. n. 6/121/03-1/2008/CA del 27-1-2009, a firma del Direttore Generale Carolina Fontecchia, MG,
12/2009, 144.
Opinioni e commenti
601
4.3. d) Al fine della richiesta di liquidazione del compenso a favore del
difensore d’ufficio ex art. 116, d.p.r. 30-5-2002, n. 115.
L’art. 116, d.p.r. 30-5-2002, n. 115 (t.u. in materia di spese di giustizia) non può
che essere interpretato in combinato disposto con gli artt. 115, 117 e 118 del medesimo t.u., essendo le quattro disposizioni legali suddette necessariamente combinate tra di loro, in forza non soltanto della sedes materiae (identità di collocazione
topografica sub Titolo III, Parte III, d.p.r. 115/2002), ma anche del rapporto logico
giuridico di complementarità.
In particolare, l’ambito di applicazione dell’art. 116 suddetto è residuale, dipendendo esclusivamente dalla non applicabilità degli altri tre articoli, di cui sopra. Più
precisamente, l’onere del difensore d’ufficio di dimostrare il preventivo esperimento inutile della procedura di recupero del proprio credito professionale, previsto espressamente dall’art. 116, d.p.r. 115/2002 al fine della richiesta di liquidazione
del proprio compenso professionale ad opera dell’erario, è operante soltanto se ed
in quanto la persona difesa d’ufficio non sia né collaboratore di giustizia ammesso al
programma di protezione ex art. 115, d.p.r. 115/2002, né irreperibile ex art. 117,
d.p.r. 115/2002, né minore ex art. 118, d.p.r. 115/2002.
Infatti, il difensore d’ufficio ha diritto alla liquidazione del proprio compenso
professionale ad opera dell’erario automaticamente (id est: senza la necessità di
dimostrare il previo esperimento inutile della procedura di recupero del proprio
credito professionale), allorché la persona difesa d’ufficio assuma uno di questi tre
status. Ergo l’importanza dello status della persona difesa d’ufficio, al fine di stabilire
se il difensore d’ufficio abbia o meno l’onere della prova, di cui all’art. 116 predetto.
Mentre i due status di collaboratore di giustizia ammesso al programma di protezione (ex art. 115, d.p.r. 115/2002) e di minore (ex art. 118, d.p.r. 115/2002) sono
inequivocabili, lo status di irreperibile, cosı̀ come previsto dall’art. 117, d.p.r.
115/2002, è ambiguo, in quanto la stessa genericità del termine usato dal legislatore
comporta la suscettibilità di duplex interpretatio: o in senso stretto tecnico formale
come irreperibile di diritto, in forza del decreto ad hoc ex art. 159 c.p.p., ovvero in
senso lato a-tecnico sostanziale come irreperibile di fatto, ossia a prescindere dall’emanazione del decreto medesimo. Al riguardo, la stessa giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione è oscillante 18.
18
Sull’interpretazione della nozione di irreperibilità ex art. 117, d.p.r. 115/2002, e, conseguentemente, sull’ambito di operatività dell’onere prescritto in capo al difensore d’ufficio ex art. 116, d.p.r.
115/2002, sussistono tre distinti orientamenti ermeneutici: 1) l’orientamento restrittivo formale (Cass.
pen., Sez. IV, 10-3-2003, n. 10804; Cass. pen., Sez. I, 3-7-2003, n. 32289), secondo cui lo status di
irreperibile ex art. 117, d.p.r. 115/2002 è da interpretarsi in senso tecnico come irreperibile di diritto,
ossia formalmente dichiarato con apposito decreto ex art. 159 c.p.p., in quanto l’art. 117 predetto
costituisce eccezione rispetto alla regola generale espressa nel precedente art. 116, con la conseguenza
logico-giuridica necessitata del divieto di estensione analogica dell’art. 117 ad ipotesi similari, come lo
status di latitante e lo status di irreperibile presunto ex lege di cui all’art. 161, 4o co., c.p.p.; 2) l’orien-
602
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
A prescindere da quale sia l’orientamento giurisprudenziale condivisibile in subiecta materia, può verificarsi, in concreto, che la persona difesa d’ufficio (né minore
né collaboratore di giustizia ammesso al programma di protezione), originariamente
sempre reperibile (sia nel procedimento penale sia nel procedimento civile) sino al
giorno della notificazione del precetto di pagamento, risulti successivamente irreperibile di fatto nel verbale dell’ufficiale giudiziario, il quale, richiesto dal difensore
d’ufficio di procedere al pignoramento mobiliare diretto nel luogo di notifica del
precetto, constati la sopravvenuta irreperibilità del debitore precettato difeso d’ufficio.
In tale ipotesi si applica non l’art. 117, ma l’art. 116, d.p.r. 115/2002, dato che il
verbale di pignoramento mobiliare mancato per irreperibilità sopravvenuta di fatto
del debitore difeso d’ufficio costituisce la dimostrazione evidente del previo esperimento inutile della procedura di recupero del credito professionale, cosı̀ come
prescritto dall’art. 116 al difensore d’ufficio al fine della richiesta di liquidazione del
proprio compenso professionale. Pertanto, nell’ipotesi appena descritta, si ha equiparabilità quoad effectum tra pignoramento mobiliare negativo e pignoramento mobiliare mancato per irreperibilità (oggettiva) sopravvenuta di fatto del debitore difeso d’ufficio.
4.4. e) Al fine della prova dell’osservanza del beneficium excussionis.
Per meglio focalizzare la quinta e ultima ipotesi di equiparabilità del pignoramento mobiliare mancato al negativo, di cui in premessa, occorre analizzare il principio giurisprudenziale di equivalenza tra infruttuosità e impossibilità della preventiva escussione del patrimonio della società di persone 19.
tamento estensivo sostanziale (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. I, 8-6-2007, n. 13498; Cass. pen., Sez. I,
11-2-2004, n. 10367; Cass. pen., Sez. IV, 5-1-2006, n. 115), secondo cui lo status di irreperibile ex art.
117, d.p.r. 115/2002 è da interpretarsi in senso lato come irreperibile di fatto, ossia a prescindere
dall’emanazione del decreto di irreperibilità ex art. 159 c.p.p., con conseguente ammissibilità dell’estensione analogica dell’art. 117 ad ipotesi similari, come lo status di latitante e lo status di irreperibile
presunto ex lege di cui all’art. 161, 4o co., c.p.p.; 3) l’orientamento intermedio (Cass. pen., Sez. VI,
27-5-2008, n. 21071; Cass. pen., Sez. IV, 16-7-2007, n. 28142), che supera entrambi i precedenti orientamenti, rifiutando sia la riduzione formalistica dell’irreperibilità sia l’automatismo dell’equiparabilità
totale quoad effectum tra irreperibilità formale di diritto ed irreperibilità sostanziale di fatto. Infatti, tale
ultimo orientamento della S.C. afferma che l’irreperibilità ex art. 117, d.p.r. 115/2002 deve essere valutata caso per caso, a prescindere dalla sua natura intrinseca (se formale di diritto ovvero sostanziale di
fatto), dato che il difensore d’ufficio ha sempre l’onere di dimostrare la sussistenza in concreto dell’irreperibilità della persona difesa d’ufficio (né minore né collaboratore di giustizia ammessa al programma di protezione), qualora non sia in grado di azionare la procedura di recupero del proprio
credito professionale.
19
Cfr. Bellé, Misure cautelari e azioni esecutive su partecipazioni societarie, REF, 2005, 256 ss., in
particolare sub par. 2, ove l’Autore mette in evidenza che, per costante orientamento giurisprudenziale
sia di legittimità che di merito, l’onere della prova dell’osservanza del beneficium excussionis in capo al
creditore procedente può avere per oggetto (come fatto costitutivo del diritto di procedere ad esecu-
Opinioni e commenti
603
Infatti, la giurisprudenza (sia di legittimità che di merito) afferma che il presupposto di operatività del beneficium excussionis non è sempre e necessariamente l’infruttuosità della preventiva escussione del patrimonio sociale (id est: il pignoramento negativo o incapiente contro la società di persone, s.n.c. o s.a.s.), potendo
risultare sufficiente la prova dell’impossibilità oggettiva della previa espropriazione
forzata della società di persone. Pertanto, il pignoramento infruttuoso della società
di persone (sia esso negativo ovvero incapiente) costituisce presupposto defettibile
di operatività del beneficium excussionis, essendo sostituibile con altro presupposto
giuridicamente equipollente, come ogni fatto/atto idoneo a provare l’impossibilità
oggettiva della preventiva escussione del patrimonio della società di persone.
In tale contesto giurisprudenziale ermeneutico si innesta e, nel contempo, si giustifica la prassi operativa giudiziaria, corrente negli UNEP, di equiparabilità del
pignoramento mobiliare mancato al negativo, in caso di società personale esecutanda in stato di liquidazione, con sede legale e/o unità locale chiusa permanentemente e definitivamente per totale cessazione in loco della propria attività imprenditoriale.
In concreto, tale prassi si sostanzia nella seguente modalità operativa: il creditore
procedente contro la società di persone in liquidazione, dopo avere effettuato la
notificazione di titolo esecutivo e/o precetto presso la residenza e/o il domicilio del
liquidatore, stante la probabile chiusura permanente della sede legale e/o unità locale della società di persone 20, richiede all’ufficiale giudiziario tre tipi di accessi
cronologicamente distinti (di cui il susseguente è eventuale, essendo subordinato
all’esito del precedente):
1) in un primo momento, l’accesso presso la sede legale e/o unità locale della società
personale esecutanda, risultante in atti (titolo esecutivo e/o precetto) e/o all’ufficio
registro imprese presso C.C.I.A.A., al fine di ottenere, eventualmente, il verbale di
pignoramento mobiliare mancato per irreperibilità oggettiva della società medesima
(id est: la constatazione in atto pubblico della chiusura permanente della sede legale
e/o unità locale della società di persone, per totale cessazione in loco della propria
attività imprenditoriale; concretamente, l’ufficiale giudiziario può verbalizzare che
l’immobile ex sede legale e/o unità locale della società personale esecutanda sia atzione forzata contro il socio illimitatamente responsabile di società di persone) non soltanto l’infruttuosità, ma anche l’impossibilità della preventiva escussione del patrimonio societario, sussistendo
alternatività/equivalenza tra i due presupposti speciali di legittimità del pignoramento contro il socio
illimitatamente responsabile di società di persone.
20
Frequentemente, la parte creditrice esecutante riceve i primi indizi di tale chiusura dalla cartolina
verde a.r., correlativa all’originario precetto (antecedente rispetto a quello notificato presso la residenza
e/o il domicilio del liquidatore), attestante la mancata notificazione a mezzo posta per irreperibilità del
destinatario, oppure, nella migliore delle ipotesi, l’avvenuta notificazione per compiuta giacenza postale
(stante il mancato ritiro all’ufficio postale del plico raccomandato dopo il decorso di dieci giorni dalla
spedizione della seconda raccomandata contenente la c.a.d., ossia la comunicazione al destinatario di
avvenuto deposito presso l’ufficio postale della prima raccomandata a.r. contenente l’atto notificando).
604
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
tualmente sgombro e contrassegnato dal cartello “affittasi” e/o “vendesi”, ovvero effettivamente occupato da altro soggetto, terzo, ben identificato fiscalmente e non
avente alcun rapporto giuridico con la società personale esecutanda);
2) in un secondo momento (dopo avere ottenuto il verbale predetto), l’accesso
presso la residenza e/o il domicilio del liquidatore, di cui alla notificazione del precetto, al fine di ottenere l’interpello dell’ufficiale giudiziario al liquidatore ai sensi e
per gli effetti dell’art. 388, 6o co., c.p.;
3) in un terzo momento, dopo l’eventuale esito negativo dell’interpello dell’ufficiale giudiziario al liquidatore, l’accesso presso la residenza del socio illimitatamente
responsabile della società di persone, previa notificazione sia del titolo esecutivo sia
del precetto nei confronti del socio da escutere.
Ergo, può affermarsi che il verbale di pignoramento mobiliare mancato per irreperibilità oggettiva della società personale esecutanda in liquidazione, di cui alla
fattispecie concreta suddetta, è equiparabile al verbale di pignoramento mobiliare
negativo, al fine della prova dell’osservanza del beneficium excussionis, allorquando
concorra la seguente ulteriore condizione: la mancanza della dichiarazione patrimoniale positiva del liquidatore, a seguito dell’interpello dell’ufficiale giudiziario; tale
condizione può verificarsi in due ipotesi equivalenti: o in caso di dichiarazione patrimoniale negativa del liquidatore (per insussistenza dichiarata di beni e/o crediti
pignorabili in capo alla società personale esecutanda in liquidazione), oppure in
caso di omessa dichiarazione patrimoniale del liquidatore entro il termine legale di
quindici giorni dall’interpello dell’ufficiale giudiziario.
Evidentemente, l’equiparazione de qua opera sic et simpliciter (senza, cioè, la necessità di alcuna condizione aggiuntiva) allorché la società personale esecutanda
non sia in stato di liquidazione; in tal caso, infatti, è necessario e, nel contempo,
sufficiente che nel verbale (di pignoramento mancato per irreperibilità oggettiva
della società personale esecutanda) l’ufficiale giudiziario constati la chiusura permanente e definitiva della sede legale e/o unità locale della società personale medesima,
per totale cessazione in loco della propria attività imprenditoriale. Logicamente,
all’ufficio registro imprese presso C.C.I.A.A. non deve risultare il trasferimento
della sede legale né la sussistenza di altra unità locale, altrimenti l’irreperibilità della
società personale esecutanda non sarebbe più oggettiva, ma soggettiva (in quanto
dipendente dalla mancata diligenza della parte creditrice esecutante, avente l’onere
di indicare all’ufficiale giudiziario procedente il luogo esatto di esecuzione forzata,
ove non coincidente con il luogo di notificazione del precetto): soltanto l’irreperibilità oggettiva ha rilevanza al fine della prova dell’osservanza del beneficium excussionis.
RASSEGNE DI GIURISPRUDENZA
ENRICO ASTUNI
Oggetto del pignoramento*
Sommario: A) Individuazione del bene oggetto di pignoramento. Dati catastali e descrizione. – 1. Generalità. – 2. Casistica in materia di dati catastali. – 2.1. Difformità tra il titolo e la nota. – 2.2.
Il titolo e la nota sono conformi tra loro, ma ad essi non corrisponde il bene esistente a Catasto: ad es. c’è
errore nell’individuazione del foglio di mappa o del mappale. – 2.3. Frazionamento o accorpamento di mappali,
con soppressione dell’unità preesistente. – 2.4. Riduzione nella consistenza del mappale. – 2.5. Accatastamento a C.F. dell’edificio realizzato sul terreno. – 2.6. Ricadute processuali. – 2.6.1. Documentazione
ex art. 567 c.p.c. – 2.6.2. Implicazioni sulle operazioni di vendita. – 2.7. “Aggiornamento” della trascrizione
eseguita su dati non più attuali? – 3. Descrizione materiale dell’unità. – 3.1. La questione dei confini. –
3.2. Ricadute processuali della mancata indicazione. – 3.3. Conflitto tra descrizione della consistenza materiale e dato catastale. – 3.4. La sagoma del fabbricato pignorato fuoriesce dall’area di sedime (accessione
invertita). – 3.4.1. Il fabbricato è stato denunciato a C.F. – 3.4.2. Il fabbricato non è denunciato a C.F. e/o
il pignoramento è trascritto a carico del terreno. – 3.5. Fabbricati in corso di ristrutturazione. – 3.5.1. Oggetto
del vincolo. – 3.5.2. Operazioni preliminari alla vendita. – 4. Pignoramento parziale di un immobile strutturalmente e funzionalmente unico. – 5. “Rettifica” o rinnovazione del pignoramento. – 5.1. Generalità. –
5.2. Risulta viziato l’atto di pignoramento (carente individuazione di debitore e/o beni vincolati). – 5.3.
Perenzione del precetto. – 5.4. Rilievo d’ufficio dell’indeterminatezza e/o inesattezza dell’atto. – 5.5. Rettifica della sola trascrizione. – 5.6. Svolgimento della procedura a seguito della “rettifica”. – B) Individuazione del diritto oggetto di pignoramento. – 1. Pignoramento corretto sulla nuda proprietà. L’usufruttuario muore in corso di esecuzione. Il G.E. (o delegato) è informato della notizia dell’estinzione dell’usufrutto. – 2. La notizia della morte dell’usufruttuario non è portata a conoscenza del G.E. (o delegato) e quindi
l’avviso di vendita e l’aggiudicazione continuano a riguardare la nuda proprietà. – 2.1. Quale diritto viene
trasferito all’aggiudicatario? – 2.2. Ricadute processuali. – 3. Pignoramento viziato per eccesso (colpisce
piena anziché nuda proprietà). – 3.1. Pignoramento viziato per difetto (colpisce nuda proprietà anziché piena).
A) Individuazione del bene oggetto di pignoramento
Dati catastali e descrizione
1. Generalità.
L’art. 555 c.p.c. rinvia alle norme sull’individuazione degli immobili nelle note di
iscrizione ipotecaria. Quindi, a seguito della riforma del 1985 (l. n. 52) che ha in* L’articolo rielabora la relazione svolta al Convegno di San Servolo dell’11/13-9-2009 organizzato
dal Centro Studi Procedure esecutive e concorsuali.
606
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
trodotto la meccanizzazione delle Conservatorie dei RR. II. e modificato l’art. 2826
c.c., il bene deve essere individuato — essenzialmente nella nota di trascrizione —
mediante i dati di identificazione catastale (artt. 2659, n. 4 e 2826 c.c.) e questi
ultimi, a loro volta, rinviano — per gli immobili censiti a Catasto Fabbricati — a una
determinata scheda depositata.
È noto che «per stabilire se e in quali limiti un determinato atto trascritto sia
opponibile a terzi deve aversi riguardo esclusivamente al contenuto della nota di
trascrizione, dovendo le indicazioni riportate nella nota stessa consentire di individuare, senza possibilità di equivoci e di incertezze, gli estremi essenziali del negozio
ed i beni ai quali esso si riferisce, senza necessità di esaminare anche il contenuto del
titolo» (ex multis Cass., 10-4-1986, n. 2051; Cass., 14-10-1991, n. 10774).
E quindi il solo dato catastale risultante dalla nota è rilevante ai fini di decidere
dell’opponibilità della trascrizione del pignoramento ai terzi, mentre è irrilevante il
titolo.
2. Casistica in materia di dati catastali.
2.1. Difformità tra il titolo e la nota.
È un classico caso di nullità della trascrizione (art. 2655 c.c.). Il dato catastale
indicato nel titolo non è trascritto e quindi non è opponibile ai terzi. Il dato difforme
risultante dalla nota non trova corrispondenza nel titolo e quindi, visto che la trascrizione ha efficacia soltanto dichiarativa — ossia serve a estendere ai terzi gli effetti
propri del titolo — non può neppure vincolare il bene indicato.
Questa è una nullità di ordine “formale”, ossia è indipendente dal fatto che il bene
indicato nel titolo e/o nella nota sia effettivamente in carico all’esecutato.
2.2. Il titolo e la nota sono conformi tra loro, ma ad essi non corrisponde
il bene esistente a Catasto: ad es. c’è errore nell’individuazione del
foglio di mappa o del mappale.
Qui la trascrizione è valida, ma quale effetto può avere, visto che il bene nei
termini indicati nella nota non esiste? Su questo punto s’è pronunciata Cass.,
8-3-2005, n. 5002 (si trattava di un conflitto tra due pignoramenti, di cui il primo era
stato fatto e trascritto su un foglio di mappa sbagliato) e ha concluso ovviamente per
l’inefficacia della prima trascrizione.
2.3. Frazionamento o accorpamento di mappali, con soppressione dell’unità preesistente.
Capita abbastanza spesso che il pignoramento colpisca un mappale/subalterno
“soppresso”, ad es. perché oggetto di una denuncia di variazione per frazionamento
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o accorpamento ad altro mappale. Il creditore ha concesso ipoteca a suo tempo,
esegue indicando nel pignoramento il dato catastale corrispondente a quello dell’ipoteca e non aggiorna le visure. Oppure si verifica il riallineamento di tutte le
mappe del Catasto urbano e quindi l’assegnazione a ciascuna unità di nuovi numeri
di foglio e di mappale.
Il punto consiste nel verificare se l’identificativo catastale soppresso generi o meno
una situazione di “obiettiva incertezza” (cfr. art. 2655 c.c.) nell’individuazione dell’immobile.
1) La nota di trascrizione meccanizzata consente al creditore di indicare nel quadro B oltre al dato catastale attuale anche il dato precedente: l’immobile è qui individuato al di là di ogni margine di dubbio.
2) E tuttavia, anche se il creditore non si avvale di tale facoltà, occorre tenere
presente che ormai il dato dei registri immobiliari non può essere letto isolatamente
(non è autosufficiente come era in passato, quando la nota doveva contenere la
descrizione materiale dell’immobile), ma deve combinarsi con l’esame del Catasto
(estremi; mappa per C.T. e scheda planimetrica per C.F.).
Quindi, anche l’indicazione del mappale soppresso può ritenersi sufficiente,
poiché la “soppressione” significa soltanto che il mappale non è più attivo: il Catasto
non recepisce nuove variazioni, né sul piano della consistenza materiale, né sul
piano dell’intestazione; e tuttavia ciò ci interessa relativamente poco perché il pignoramento (come del resto l’ipoteca) non deve essere segnalato a Catasto.
Basta però ispezionare il Catasto storico per reperire la particella “soppressa” con
l’indicazione in calce della particella (o particelle) costituita come conseguenza della
soppressione, nonché la planimetria dell’unità immobiliare. L’estremo catastale rinvia quindi a un dato esistente e tracciabile, cioè non genera un’incertezza assoluta.
2.4. Riduzione nella consistenza del mappale.
Un caso lievemente diverso — segnalato nel corso del dibattito — si ha nel caso in
cui, per effetto della variazione catastale, il mappale originario conserva il proprio
identificativo ma subisce una riduzione nella consistenza. Es.: dal mappale n. 100
(mq. 150) viene stralciata un’estensione pari a mq. 20: l’operazione genera un nuovo
mappale n. 101 (mq. 20) e riduce l’estensione superficiaria del n. 100 a mq. 130.
Il punto specifico che qui interessa verificare è se il pignoramento a carico del
mappale n. 100 debba intendersi riferito alla consistenza originaria (mq. 150) o a
quella risultante dalla variazione (mq. 130).
1) Nulla quaestio se la nota di trascrizione del pignoramento riporta la consistenza
del mappale che si intende vincolare ai fini dell’esecuzione, ed essa corrisponde al
dato preesistente (mq. 150) o successivo (mq. 130) alla variazione, poiché tale elemento consente di interpretare la nota — sulla base degli elementi che la stessa
contiene — senza margini di equivoco.
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2) Nel caso in cui la nota non fornisca elementi per risolvere la quaestio facti, è
ragionevole concludere che il pignoramento deve intendersi stabilito nei limiti dell’estensione superficiaria iscritta a Catasto alla data dell’atto.
2.5. Accatastamento a C.F. dell’edificio realizzato sul terreno.
Il caso è simile ai precedenti; nella pratica, si verifica soprattutto nel caso di ipoteca fondiaria iscritta a garanzia del finanziamento concesso al costruttore per la
realizzazione di un intervento edilizio, la quale deve iscriversi indicando nella nota
il dato catastale dell’area di sedime (art. 2826 c.c.).
Tra l’iscrizione di ipoteca e la trascrizione del pignoramento, il fabbricato viene
completato e denunciato a C.F. (ha quindi un proprio mappale e subalterno, oppure
è individuato con gli estremi della denuncia per accatastamento). L’area di sedime
dell’edificio di nuova costruzione, non esprimendo più un’autonoma capacità patrimoniale, viene passata alla c.d. partita 1 del C.T. (“aree di enti urbani”), senza reddito.
Il punto è qui se possa ritenersi legittimo il pignoramento compiuto indicando nella
nota di trascrizione il dato del C.T. — magari con la consueta precisazione che “il
pignoramento s’estende ad eventuali accessioni e fabbricati” — e non il dato del C.F.
Anche in tal caso, esistono buoni argomenti per ritenere legittimo il pignoramento. Dallo stesso art. 2826 c.c. si ricava che l’ipoteca iscritta sul terreno è (e non
può non essere) opponibile a chi acquista diritti sul fabbricato — cui l’ipoteca
s’estende per accessione (art. 2812 c.c.) — ergo è anche tracciabile mediante ispezione catastale al nome dell’intestatario.
Il dibattito ha evidenziato che, in caso di accatastamento, i tempi di aggiornamento del C.T. (passaggio a partita 1) e del C.F. (inserimento in atti della denuncia,
con attribuzione dell’identificativo) possono essere diversi perché curati da diversi
uffici dell’Agenzia del territorio e che pertanto, in tal caso, non è possibile negare al
procedente il potere di pignorare il fabbricato indicando il dato dell’area di sedime.
2.6. Ricadute processuali.
Dato comune ai casi precedenti è questo: il pignoramento è stato legittimamente
trascritto perché l’immobile è individuato in modo non equivoco, sia pure per il
tramite di dati catastali non più attuali (mappale soppresso; indicazione dell’area di
sedime in luogo del fabbricato).
Questa considerazione ha alcune ricadute processuali.
2.6.1. Documentazione ex art. 567 c.p.c.
Nel rispetto dell’art. 567 c.p.c., non è evidentemente sufficiente il deposito della
certificazione e/o relazione notarile sostitutiva relativa al solo mappale indicato nella
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nota, poiché è evidente che sul mappale di nuova costituzione possono essere stati
trascritti atti dispositivi, sequestri o pignoramenti ecc. o iscritte ipoteche.
Perciò la documentazione deve estendersi anche alle formalità prese sul nuovo
mappale generato per effetto della variazione e/o dell’accatastamento a C.F. e in
difetto il G.E. deve assegnare al creditore il termine integrativo previsto dall’art. 567
c.p.c. a pena di estinzione della procedura.
2.6.2. Implicazioni sulle operazioni di vendita.
Ai fini delle operazioni di vendita, la variazione catastale può dar luogo a inconvenienti di ordine pratico. Si esamina qui il caso esemplare della soppressione per
accorpamento del mappale pignorato ad altro non pignorato. Es.: il debitore riunisce
i sub 3-4 nella nuova unità immobiliare sub 5; il pignoramento colpisce il solo sub 3.
I criteri di fondo da tenere presenti sono questi.
1) La liquidazione forzata concerne tutto quello e solo quello che ha formato
oggetto di pignoramento. Quindi non è possibile mettere in vendita il mappale di
nuova costituzione (nell’es. fatto il sub 5) perché in parte non è stato pignorato. Né
è possibile precisare che la vendita non riguarda l’intero, ma soltanto una parte
dell’unità immobiliare censita a Catasto perché le Agenzie del Territorio non accettano più le volture c.d. di mappale-parte.
2) Non è possibile mettere in vendita il mappale soppresso (sub 3), perché il
decreto di trasferimento non potrebbe dar luogo a voltura catastale a nome dell’aggiudicatario: il mappale non è più “attivo”.
3) In definitiva, a meno che il creditore non provveda — di sua iniziativa o su
sollecitazione del G.E. — ad estendere il pignoramento all’intera unità immobiliare,
per poter “vendere bene” è necessario eliminare gli effetti pratici della variazione
catastale con una denuncia “di segno contrario” — ossia frazionare l’unità attribuendo alla porzione pignorata un autonomo identificativo — e tenere conto nella
determinazione del prezzo base d’asta del costo delle eventuali opere necessarie a
rendere anche materialmente autonoma la porzione messa in vendita (ad es. erezione di muri divisori, chiusura di varchi, costi per rendere autonomi gli impianti,
ecc.).
È materia di discussione — e non è emersa un’opinione maggioritaria in corso di
dibattito — se sia possibile ottenere dall’Agenzia del Territorio l’annullamento della
variazione con la presentazione di un semplice “foglio di osservazioni”. Ciò peraltro
presuppone, a ritenersi ammissibile l’operazione, che la variazione sia stata presentata a Catasto dopo la notifica del pignoramento, ossia quando il debitore aveva
perduto il potere di compiere atti di disposizione, materiale o giuridica dell’immobile (arg. ex art. 559 c.p.c.).
Infine, conviene osservare che la possibilità di restituire alla porzione immobiliare
pignorata un autonomo identificativo ai fini della vendita deve confrontarsi con la
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diversa questione della impignorabilità di una porzione di alloggio priva di autonomia funzionale e strutturale (vedi infra sub § 4).
2.7. “Aggiornamento” della trascrizione eseguita su dati non più attuali?
Nel corso del dibattito è stata suggerita l’opportunità che il G.E. ordini al creditore procedente la “rettifica” della trascrizione del pignoramento compiuta su dati
catastali non più attuali (es. mappale soppresso) e ciò al fine di semplificare la lettura
delle risultanze dei RR. II. e di evitare una possibile fonte di liti future tra il ceto
creditorio, l’aggiudicatario e terzi acquirenti dell’immobile pignorato.
L’“aggiornamento” del dato è però verosimilmente superfluo. I RR. II. sono infatti
organizzati su base personale (e non reale) e quindi l’ispezione sul nome dell’esecutato
consente a chiunque di verificare l’avvenuta trascrizione del pignoramento. Se il dato
indicato nella nota non genera incertezza, perché rinvia a un identificativo catastale
esistente e non equivoco — ancorché non più “attivo” — si può concludere che chiunque consulti RR. II. e Catasto, incrociando le relative risultanze, è con ciò anche messo
in condizione di interpretare correttamente la portata obiettiva del vincolo.
Sul piano tecnico, scelta questa strada, non è possibile limitarsi a ordinare la
“rettifica” della sola nota di trascrizione. Il vizio — se di vizio veramente si tratta —
sta infatti, prima ancora che nella nota, nel pignoramento notificato e già s’è detto
(§ 2.1.) che l’eventuale conflitto tra titolo e nota è di per sé causa di nullità della
trascrizione. Quindi, salvo lasciare alla prassi l’elaborazione di formule alternative e
atipiche — ad es. annotazione in margine alla prima trascrizione di un decreto del
G.E. che indica l’attuale identificazione dell’immobile: il che richiede evidentemente una qualche forma di intesa con il competente Conservatore — per raggiungere il risultato pratico auspicato sembra necessaria la rinnovazione dello stesso atto
di pignoramento (vedi anche infra § 5.1.).
3. Descrizione materiale dell’unità.
3.1. La questione dei confini.
Ai fini della trascrizione, la descrizione della consistenza materiale dell’immobile
e in particolare l’indicazione dei “tre confini” non è più richiesta, né sufficiente.
Tuttavia, l’art. 29, l. n. 52 continua a richiedere l’indicazione di almeno tre confini
dell’immobile nell’atto di cui si chiede la trascrizione o in cui si concede ipoteca:
vista la sua larghezza, la previsione deve ritenersi applicabile anche al pignoramento.
3.2. Ricadute processuali della mancata indicazione.
Quale implicazione ha la mancata indicazione dei confini e (più ampiamente) e
l’incompletezza della descrizione nell’atto?
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Lo ha detto chiaramente Cass., 4-9-1985, n. 4612: «l’individuazione dell’immobile pignorato attraverso i soli dati catastali, senza gli altri elementi richiesti dall’art.
555 c.p.c., configura una semplice nullità sanabile, da far valere nei cinque giorni
successivi al compimento dell’atto; l’omessa individuazione dell’immobile pignorato comporta al contrario l’assoluta inidoneità funzionale del pignoramento, come
tale rilevabile d’ufficio e opponibile in qualsiasi momento, senza vincolo di termine
perentorio» (cfr. anche Cass., 13-9-1977, n. 3956).
3.3. Conflitto tra descrizione della consistenza materiale e dato catastale.
Il doppio criterio di individuazione dell’immobile (nell’atto tramite descrizione,
confini e dato catastale; nella nota tramite il solo dato catastale) genera la possibilità
di una divergenza tra i due e quindi conflitti di interpretazione.
Es.: la descrizione contiene una porzione di immobile più ampia rispetto a quella
risultante dall’estratto di mappa terreni o dalla scheda planimetrica pignorata; a me
è capitato che fosse pignorata una villetta con ampio giardino di pertinenza; descrizione completa ma pignoramento incompleto perché una particella del giardino,
proprio nel bel mezzo, era sfuggita e non era stata indicata.
Il caso deve risolversi, considerando (§ 1.) che l’unico metro di opponibilità ai
terzi dell’atto consiste nella nota di trascrizione e la nota deve riportare (oggi) l’indicazione del dato catastale, ergo la più ampia descrizione risultante dal titolo è
messa fuori gioco, ossia non vale come metro di opponibilità ai terzi.
Sul piano processuale, anche in tal caso (cfr. § 2.6.), il G.E. non può legittimamente vendere la villetta per intero, perché una porzione sfugge al pignoramento,
ed è impensabile vendere la villetta col buco in mezzo, ergo arresta — o per lo meno
questa è la nostra prassi — le operazioni di vendita e invita il procedente a fare un
pignoramento “integrativo”, che poi verrà riunito al primo.
3.4. La sagoma del fabbricato pignorato fuoriesce dall’area di sedime
(accessione invertita).
Può rientrare nelle ipotesi di conflitto tra descrizione materiale e dato catastale
questo caso, che ciclicamente si ripropone nei dibattiti sul forum ed è riemerso
anche in sede di dibattito: il pignoramento colpisce un fabbricato esattamente individuato, ma realizzato dal costruttore con sconfinamento — in genere lieve —
rispetto all’area di pertinenza.
Secondo la varietà dei casi, la causa dello sconfinamento può consistere in un
errore del costruttore nella “materializzazione” sul terreno dei confini catastali di
proprietà, in errori esecutivi o ancora nelle tolleranze tipiche della mappa catastale.
Quale che sia la causa dell’errore, il dato saliente è che la porzione di fabbricato
insistente al di là del confine di proprietà non può ritenersi acquisita per accessione al
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proprietario del terreno e ai suoi aventi causa, salve evidentemente l’usucapione e la
possibilità di avvalersi dell’azione prevista dall’art. 938 c.c. (c.d. accessione invertita).
Quid juris?
3.4.1. Il fabbricato è stato denunciato a C.F.
Il caso è qui relativamente semplice. L’unità immobiliare, sia essa o meno di proprietà, è provvista di un autonomo identificativo ed è quest’ultimo ad essere indicato e colpito nella nota di trascrizione.
La questione riguarda perciò, non tanto l’opponibilità del vincolo — che è assicurata nei confronti di tutti gli aventi causa successivi dal debitore — quanto la
possibile inefficacia parziale del pignoramento e della successiva vendita forzata nei
confronti del proprietario della particella confinante. In termini pratici, ciò può
tradursi in un’opposizione ex art. 619 c.p.c. di quest’ultimo o in una successiva
evizione parziale dell’aggiudicatario: ed è su quest’ultimo punto che occorre riflettere perché, evidentemente, il rischio giuridico della vendita o viene in qualche
modo eliminato o deve essere monetizzato.
1) Nel dibattito, è emersa una posizione sostanzialmente condivisa: l’eliminazione
del rischio di evizione richiede che il creditore proponga in via surrogatoria ex art.
2900 c.c. l’azione di usucapione (se il tempo di possesso è maturato) o di accessione
invertita (in caso contrario). Nulla vieta, peraltro, a mio avviso, che il creditore
scelga di aspettare l’eventuale reazione del terzo confinante e di proporre in via
riconvenzionale l’azione nell’ambito del giudizio di opposizione di terzo.
2) Altro orientamento segnala la possibilità di ordinare un giudizio di divisione
del fabbricato ai sensi dell’art. 600 c.p.c. nei confronti del confinante, individuando
le quote di proprietà in funzione dell’estensione del volume dell’edificio sui rispettivi terreni: es. uno sconfinamento in ragione del 3% implicherebbe — in questa
logica — una ripartizione in ragione di 97 a 3 e la verosimile assegnazione dell’intera
proprietà all’esecutato con addebito dell’eccedenza (art. 720 c.c.).
Su questa soluzione — a dibattito purtroppo chiuso — mi permetto di avanzare
perplessità: manca qui, a ben vedere, una comunione pro indiviso, poiché l’esecutato
non è contitolare della porzione di fabbricato sconfinante e, reciprocamente, il confinante non ha diritti di sorta sulla porzione compresa nel fondo dell’esecutato.
3) Infine, è stata in generale esclusa la possibilità di affidare al custode le azioni di
usucapione e accessione invertita, poiché esse non paiono rientrare nella portata
dell’art. 560 c.p.c.
Se il rischio di evizione non può essere convenientemente eliminato — e, può forse
aggiungersi, non risulta maturato il periodo di possesso utile ad usucapionem — la
prassi segnala l’opportunità di ribassare il prezzo base di asta in funzione dei presumibili costi dell’accessione invertita (punto certamente verificabile tramite quesito al
C.T.U.) e dell’alea del giudizio, nonché di fornire adeguata informazione in perizia.
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3.4.2. Il fabbricato non è denunciato a C.F. e/o il pignoramento è trascritto a carico del terreno.
Restano ferme le questioni di efficacia esaminate sopra. Ad esse s’aggiunge un
problema di esatta individuazione dell’immobile pignorato poiché lo sconfinamento
dell’edificio rispetto all’area di sedime e l’individuazione del bene in nota per il
tramite del dato catastale implica qui un nuovo caso di conflitto tra “descrizione” e
“dato catastale”.
Per vero, salvi casi eclatanti di sconfinamento, è difficile che la questione abbia
modo di emergere dagli atti della procedura esecutiva, poiché normalmente l’esistenza e misura dello sconfinamento può essere apprezzata tramite rilevazioni strumentali (teodolite, AUTOCAD, ecc.) che sono il pane quotidiano dei C.T.U. nelle
cause di regolamento di confini, e in genere di proprietà, ma che normalmente
restano estranee alle verifiche compiute in sede esecutiva.
In ogni caso, nel dibattito è emersa la tendenza a ordinare, in tal caso, la vendita
dell’intero fabbricato, previo eventuale accatastamento a C.F. e salve le considerazioni già svolte sopra (§ 4.1.) in merito all’opportunità di formalizzare il titolo di
proprietà o di monetizzare il rischio dell’evizione.
3.5. Fabbricati in corso di ristrutturazione.
Quando il pignoramento colpisce un immobile nel quale sono in corso lavori di
ristrutturazione di una certa importanza si verificano sovente — come è emerso durante il dibattito — difformità tra la descrizione contenuta nell’atto e lo stato di fatto
esistente: ciò dipende verosimilmente dal fatto che il creditore riporta una descrizione
estratta dai titoli di provenienza del debitore e quindi “datata”, non più attuale.
Il caso si presta ad essere analizzato tenendo presenti alcuni criteri di fondo.
3.5.1. Oggetto del vincolo.
La sola difformità della descrizione non può essere prima facie imputata al creditore, che ben può ignorare la consistenza interna assunta del fabbricato, se non la
stessa esistenza dei lavori. Ai fini dell’individuazione dell’oggetto del pignoramento
vale perciò, anche in tal caso — come è stato segnalato nel corso del dibattito — il
dato catastale: ossia il pignoramento colpisce l’unità che si trova in punto di fatto a
insistere sul mappale/subalterno indicato nella nota.
3.5.2. Operazioni preliminari alla vendita.
Come nel caso già esaminato (§ 2.6.2.) dell’unione del mappale pignorato ad altro
non colpito dal vincolo, anche i lavori di ristrutturazione possono recare qualche
intralcio alla vendita immediata del compendio.
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Ciò in particolare può verificarsi se, nel corso dei lavori, è stata materialmente
modificata (ampliata o ridotta) l’estensione superficiaria dei singoli alloggi mediante
annessione o scorpori di singoli vani da un alloggio a un altro, senza che il debitore
abbia ancora provveduto alle necessarie variazioni catastali.
Si dà qui però un’alternativa — vendita a lotti o vendita in blocco — che in
qualche misura dipende anche dallo stato di avanzamento dei lavori di ristrutturazione e dalla relativa autonomia funzionale e strutturale delle singole unità comprese nel fabbricato ristrutturato.
1) Se il G.E. (o delegato) opta per la vendita a lotti, è evidente che il primo
passaggio consiste — come già s’è detto — nel provvedere alle necessarie variazioni
catastali, in modo da attribuire a ciascun lotto un autonomo identificativo catastale
ai fini della successiva trascrizione e voltura del decreto di trasferimento.
2) Altrimenti deve dirsi se la vendita è fatta in blocco, ossia riguarda l’intero
edificio. Questa soluzione è preferibile se internamente le singole unità non hanno
ancora raggiunto un apprezzabile grado di autonomia e/o i lavori ancora necessari
sono impegnativi e possono essere sostenuti efficientemente soltanto da un singolo
costruttore. Qui variazioni catastali non sono necessarie, poiché ad esse potrà provvedere a fine lavori lo stesso aggiudicatario/costruttore.
3) In ogni caso, non è necessaria alcuna variazione catastale (c.d. per aggiornamento grafico) se i lavori di ristrutturazione hanno bensı̀ portato una diversa distribuzione degli spazi interni (ad es. spostamento di divisori, mutamento di destinazione di locali, ecc.), ma non hanno modificato l’estensione superficiaria dell’unità
immobiliare che continua a insistere nell’ambito del mappale/subalterno oggetto
del pignoramento: qui infatti non può esservi questione di individuazione dell’oggetto della vendita e al deposito a Catasto della scheda graficamente aggiornata
potrà provvedere l’aggiudicatario.
4. Pignoramento parziale di un immobile strutturalmente e funzionalmente unico.
Altra questione si dà quando il pignoramento colpisce soltanto una porzione di un
bene che, funzionalmente e giuridicamente, si presenta come un’unità indivisibile.
Su questo caso c’è il celebre precedente di Cass., 4-9-1985, n. 4612 che ha deciso su
un pignoramento che aveva colpito (per errore del procedente) non l’intero appartamento, ma soltanto “ingresso, corridoi e porzioni di vani”, e questo perché l’appartamento si dispiegava su tre mappali e il pignoramento ne riguardava uno soltanto.
Giustamente dice la Cass. che «il pignoramento è nullo» perché l’appartamento
«costituisce, funzionalmente e giuridicamente, un’unità indivisibile, suscettibile di
frazionamento in più beni distinti solo con modifiche strutturali affidate all’iniziativa del proprietario stesso».
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Si tratta secondo la dottrina (Tarzia, Il bene immobile nel processo esecutivo, in
Esecuzione forzata e procedure concorsuali, Padova, 1994, 202 ss.) di un pignoramento inammissibilmente parziale contro cui è dato il rimedio dell’opposizione per
impignorabilità dei beni.
Quanto al G.E. valgono anche qui le stesse indicazioni di prima (§ 3.3.): il G.E.
arresta le operazioni di vendita e invita il procedente a estendere il pignoramento
all’intero bene, facendo con ciò venire meno il vizio dell’atto originario.
E tuttavia — come è emerso in un caso verificatosi nel Tribunale di Roma — non
sempre è possibile estendere il pignoramento all’intera unità: se l’immobile materialmente indiviso appartiene pro diviso a diversi proprietari, uno solo dei quali
assoggettabile a esecuzione, sembra necessario concludere che la vendita dovrà
avere per oggetto la sola porzione pignorata, defalcandosi dal prezzo base d’asta i
presumibili costi necessari a renderla materialmente autonoma.
5. “Rettifica” o rinnovazione del pignoramento.
5.1. Generalità.
Un punto spesso dibattuto è questo: posto che per uno dei motivi sopra indicati o
per altri ancora il G.E. o il procedente rilevino l’esistenza di un vizio del pignoramento (utilizziamo qui l’espressione in senso ampio) è possibile emendare il vizio
originario rettificando la sola nota di trascrizione oppure è necessario ripartire da
capo con un nuovo atto?
Per chiarire praticamente in cosa consiste la diversità tra le due soluzioni (si rettificano atto e nota; si rettifica la sola nota) e quali motivi di diritto stanno dietro la
scelta dell’una o dell’altra è opportuna una premessa sul nesso esistente tra titolo e
nota di trascrizione.
1) Ogni nota è inscindibilmente legata ad uno specifico titolo — di cui si chiede la
trascrizione e che deve essere depositato in copia autentica in Conservatoria. Gli
estremi del titolo risultano nel quadro A del modello ministeriale di nota: in particolare è dirimente il numero di repertorio che, essendo un numero progressivo per
il singolo notaio o pubblico ufficio, è intrinsecamente irripetibile. Negli atti di pignoramento il “numero di repertorio” è il cronologico dell’ufficio UNEP che ha
preso in carico la notifica.
2) Poiché non è possibile presentare una nota sfornita di rinvio a un titolo, dire
che “si rettifica la sola nota di trascrizione” equivale a dire che la nota depositata in
rettifica continua a fare riferimento, nel quadro A, allo stesso numero di repertorio
del pignoramento già trascritto.
Dire che “si rettifica l’atto di pignoramento e la trascrizione” equivale per contro
a formare un nuovo atto, munito di un proprio numero di repertorio UNEP da
indicare nella nuova nota (c.d. in rettifica).
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5.2. Risulta viziato l’atto di pignoramento (carente individuazione di debitore e/o beni vincolati).
Non è sufficiente la rettifica della sola nota di trascrizione, ma è necessario un
nuovo atto di pignoramento seguito da nuova trascrizione (in questo senso s’è pronunciata recentemente Cass., 16-5-2008, n. 12429: nella specie si discuteva di un
pignoramento invalido per incerta individuazione del soggetto debitore).
La ragione è chiara. Il pignoramento si esegue mediante notifica e trascrizione ed
entrambi gli atti sono necessari; se il vizio che rende necessaria la rinnovazione riguarda l’atto notificato, la sola rettifica della trascrizione non può servire a emendarlo.
Es. il pignoramento (repertorio n. 100) colpisce un immobile sito in Via Roma
n. 1 con indicazione dei pertinenti foglio/mappale/subalterno (f. 4 n. 11 sub 11). La
nota di trascrizione (R.G. n. 100) riporta gli estremi catastali indicati nel titolo.
Il creditore si avvede di aver sbagliato l’indicazione nel pignoramento del foglio di
mappa (indicato come f. 4 anziché come f. 6), di aver sbagliato l’ubicazione dell’immobile (è al n. 11 anziché al n. 1) o altro ancora.
In questo caso, non è possibile limitarsi a rettificare la trascrizione indicando nella
nota (R.G. 200) gli estremi catastali e l’ubicazione corretti, poiché quella nota dovrebbe continuare a riferirsi al pignoramento (repertorio n. 100) che contiene i dati
sbagliati: si verificherebbe quindi un’evidente difformità tra titolo e nota con le
implicazioni ex art. 2655 c.c. (nullità o inefficacia) già esaminate sopra (v. sopra sub
§ 2.1.).
5.3. Perenzione del precetto.
Questione ulteriore è se il pignoramento “in rettifica” debba essere preceduto
dalla notifica di un nuovo atto di precetto, nel caso in cui il primo precetto sia
scaduto (art. 481 c.p.c.).
A me pare di sı̀: il c.d. pignoramento in rettifica è, in effetti, una rinnovazione
dell’atto invalido, quindi a sua volta deve sottostare alle condizioni di legittimità
dell’atto e non v’è una norma del codice che regoli la fattispecie per esonerarla dalla
previa notifica del precetto (se il primo è scaduto).
5.4. Rilievo d’ufficio dell’indeterminatezza e/o inesattezza dell’atto.
L’indeterminatezza o inesattezza dell’atto o trascrizione (con riguardo a soggetti e
bene) può essere rilevata di ufficio dal G.E. e implica il rigetto dell’istanza di vendita. Le nullità del pignoramento sono normalmente sanate per decorrenza del termine di opposizione agli atti, ma queste irregolarità (indeterminatezza e/o inesattezza che implichi obiettiva incertezza) sono di gravità tale da pregiudicare l’idoneità del pignoramento a raggiungere il suo scopo tipico: ergo possiamo dire che
sono nullità assolute e insanabili (cosı̀ già Cass., S.U., 4612/1985).
Rassegne di giurisprudenza
617
5.5. Rettifica della sola trascrizione.
Qui si ipotizza invece che l’atto sia corretto e che il vizio stia nella sola nota. Ovviamente non è necessario rinnovare l’atto di pignoramento, poiché il vizio può essere
emendato rinnovando la trascrizione dello stesso atto (ovviamente senza l’errore).
In questi casi la misura corretta da parte del G.E. non consiste nel rigetto definitivo dell’istanza di vendita, che ancora può essere accolta a seguito della rinnovazione della trascrizione ma in un ordine di rinnovazione, con temporaneo non luogo
a provvedere alla vendita.
Comunque sia, si tratti di rinnovazione del pignoramento o della sola trascrizione,
la nuova trascrizione prende grado ex nunc (il punto è assolutamente pacifico) e
quindi le formalità pregiudizievoli prese medio tempore restano pienamente opponibili.
5.6. Svolgimento della procedura a seguito della “rettifica”.
Sul piano formale, ciascun atto di pignoramento dà luogo a un autonomo fascicolo: va da sé che i pignoramenti devono poi riunirsi, ma in linea di massima è
necessario che il procedente depositi nuova istanza di vendita e nuova documentazione ipotecaria e catastale (o un’integrazione della documentazione già depositata).
Questo è un criterio di massima: se la documentazione è già agli atti nel primo
fascicoloedèidonea(riguardailgiustosoggettoeigiustibeni)èevidentechepuòessere
utilizzata a seguito della riunione, ma un’integrazione sarà sempre necessaria per il
tratto di tempo fino alla trascrizione in rettifica (proprio perché ha efficacia ex nunc).
B) Individuazione del diritto oggetto di pignoramento
1. Pignoramento corretto sulla nuda proprietà. L’usufruttuario muore in
corso di esecuzione. Il G.E. (o delegato) è informato della notizia dell’estinzione dell’usufrutto.
La proprietà cessa di essere gravata dal peso e si riespande: ergo si estende de jure
anche il pignoramento e non può neppure discutersi — secondo me — di un’integrazione e/o estensione della nota perché non esiste un quid pluris non pignorato e
da sottoporre a pignoramento (se ne trae una conferma dall’art. 2814 c.c.: «l’ipoteca
costituita sulla nuda proprietà si estende alla piena proprietà»).
Quindi il G.E./delegato mette in vendita la piena proprietà (Cass., 22-7-1991,
n. 8166). Questo caso non meriterebbe neppure di essere esaminato, ma è importante perché fornisce una chiave di lettura dei casi più articolati che mi accingo a
proporre.
618
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
2. La notizia della morte dell’usufruttuario non è portata a conoscenza
del G.E. (o delegato) e quindi l’avviso di vendita e l’aggiudicazione continuano a riguardare la nuda proprietà.
2.1. Quale diritto viene trasferito all’aggiudicatario?
Su questo punto esiste almeno un precedente (Cass., 25-8-2006, n. 18492) che
sembra dissentire dall’indicazione fornita dalla Cass. 1991.
La tesi di Cass. 2006 è che il diritto trasferito corrisponde a quello indicato nell’ordinanza di vendita, quindi è trasferita la sola nuda proprietà. Che farsene allora
dell’usufrutto? Dice la Cass. 2006 che l’usufrutto resta in tal caso riservato allo
stesso esecutato e infatti, per questo motivo, conferma la pronuncia di merito che ha
accolto la domanda proposta dall’esecutato nei confronti dell’aggiudicatario per il
pagamento dell’indennità di occupazione sine titulo.
Questa conclusione non convince.
1) Proprietà nuda e piena non sono due diritti diversi, ma è lo stesso diritto che in
un caso e non nell’altro è limitato dall’esistenza di un peso. Estinto il peso, l’espansione segue de jure senza necessità di nuovi atti.
O per dirla altrimenti, il consolidamento dell’usufrutto rende disponibile per la
vendita forzata non soltanto il valore del capitale (nuda proprietà) ma anche il godimento. Soltanto a grandi linee potrebbe dirsi, però, che il consolidamento determina
un ampliamento della massa attiva dei beni pignorati: se si verifica un incremento di
valore ciò non dipende dal fatto che il debitore acquista un nuovo diritto non pignorato, ma soltanto dal fatto che si riespande il contenuto del diritto già pignorato.
Quindi l’argomento della corrispondenza tra avviso di vendita, aggiudicazione ed
estensione del trasferimento mi sembra in questo caso poco plausibile. D’altra parte
nessuno di noi mette in dubbio che se l’esecutato muore il giorno dopo l’emissione
del decreto di trasferimento la proprietà naturalmente si espanda, cosı̀ come nessuno mette in dubbio che eventuali servitù (o altri pesi) risultanti dalla perizia che si
vengono a estinguere in corso di esecuzione cessano di gravare ipso facto il bene
anche se l’avviso di vendita e il decreto di trasferimento non vengono modificati.
2) Proviamo a esaminare la questione sotto un altro punto di vista, guardando alla
vicenda processuale. Il debitore chiede all’aggiudicatario la liquidazione dell’indennità di occupazione sine titulo. Per farlo non può limitarsi a dedurre che il decreto
di trasferimento riguarda la sola nuda proprietà, è necessario che faccia valere un
proprio diritto di usufrutto.
Sennonché, mi sembra chiaro che tale diritto non può essere quello del primo
usufruttuario (che s’è estinto col passaggio a miglior vita).
La fonte costitutiva dell’usufrutto dovrebbe quindi individuarsi nella stessa ordinanza di vendita, che opererebbe come una sorta di implicita deductio usufructus:
ossia si vende la nuda proprietà e si riserva l’usufrutto a favore dello stesso alienante
(qui l’esecutato).
Rassegne di giurisprudenza
619
Che questo sia in astratto possibile, è questione che non mi interessa approfondire: il codice consente al G.E. di frazionare il compendio pignorato in lotti diversi
(art. 576 c.p.c.), di restringere il pignoramento ad alcuni soltanto dei beni pignorati
(artt. 496 e 558 c.p.c.), di riservare la vendita di alcuni lotti (ancora art. 558 c.p.c.)
etc. Può essere che queste norme, come s’applicano, ai beni possano egualmente
applicarsi — ma di regola è difficile ravvisarne l’opportunità — ai diritti frazionari
sui beni.
Sennonché, la restrizione dovrebbe anche in tal caso esigere un provvedimento
espresso del G.E. (che divide in lotti nuda proprietà e usufrutto, riserva la vendita
dell’usufrutto a un secondo momento, ecc.) mentre, trattandosi di una quaestio
voluntatis, mi sembra difficile che un effetto di riserva possa desumersi implicitamente dalla messa in vendita della nuda proprietà, tanto più se la questione non è
stata nemmeno esaminata e delibata dal G.E. (e tanto più ancora se l’usufruttuario
è morto dopo l’emissione dell’ordinanza di vendita) 1.
3) Anche in questo caso, quindi, secondo me l’usufrutto si consolida de jure alla
proprietà senza riserve a favore dell’esecutato, né una stretta necessità di modificare
l’ordinanza di vendita, secondo il criterio indicato dalla Cass. 1991.
2.2. Ricadute processuali.
La risoluzione del caso tuttavia non è priva di ripercussioni processuali. Dato per
vero che l’aggiudicazione s’estende alla piena proprietà, l’aggiudicatario acquisterebbe la piena proprietà pagando un prezzo corrispondente al valore della nuda.
Su questo bisogna riflettere e la risposta potrebbe eventualmente consistere (ma lo
dico dubitativamente) nell’applicazione della sospensione della vendita a prezzo
iniquo ex art. 586 c.p.c.: ciò consentirebbe di revocare la prima aggiudicazione — in
questo consiste nei fatti la c.d. sospensione — e rimettere in vendita il bene a prezzo
pieno, per lucrare il maggior valore.
Con tutti i relativi limiti e questioni applicative che qui accenno soltanto.
1) È discussa — come è noto — la portata applicativa dell’art. 586 c.p.c. nell’esecuzione individuale.
Secondo un primo indirizzo, la norma «persegue lo scopo di contrastare tutte le
possibili interferenze illegittime nel procedimento di formazione del prezzo nelle
vendite forzate immobiliari» (Cass., 6-8-1999, n. 8464), mentre più di recente la
Cassazione ha enunciato una portata assai più larga del campo di applicazione della
norma ammettendo la sufficienza del «fatto oggettivo della notevole inadeguatezza
del prezzo di aggiudicazione senza che ricorrano, altresı̀ reali o paventate interfe1
Ad es. se l’avviso di vendita contiene la specificazione: «nuda proprietà dell’immobile gravata da
usufrutto vitalizio a favore di persona nata nel ...» mi sembra chiaro che il G.E. non ha riservato alcun
godimento all’esecutato.
620
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
renze illecite nella procedura» (Cass., 18-4-2003, n. 6269 e n. 6272. Nel medesimo
senso T. Roma, ord. 23-12-1993 e T. Napoli, ord. 19-2-1994).
Le due impostazioni potrebbero ricondursi a unità se si ammettesse che, qui, il
turbamento al mercato è stato portato dall’incompletezza dei dati fattuali portati a
conoscenza del G.E.
2) Il potere di sospensione è discrezionale e può esercitarsi soltanto fino all’emissione del decreto di trasferimento e non oltre. In ogni caso si richiede che il “mercato” e cioè il normale gioco dei rilanci d’asta non abbia funzionato per correggere
quella sproporzione.
3. Pignoramento viziato per eccesso (colpisce piena anziché nuda proprietà).
Quod abundat non vitiat e pertanto il vincolo si stabilisce nei limiti del minor
diritto effettivamente intestato al debitore (stiamo evidentemente ipotizzando che la
mancanza di una trascrizione a favore dell’esecutato implichi inefficacia del pignoramento).
Questo non dovrebbe dar adito a dubbi quando si discute di proprietà
piena/nuda o di proprietà piena/proprietà superficiaria, ma vi sono resistenze in
giurisprudenza ad estendere quest’identico criterio al caso in cui risulti pignorata la
piena proprietà e al debitore risulti intestato il solo usufrutto.
T. Reggio Calabria, 9-6-2006, n. 752: «in tema di pignoramento immobiliare di beni
sui quali al debitore esecutato spetta il solo diritto di usufrutto, la riduzione del pignoramento a tale diritto non garantisce l’utile prosecuzione dell’esecuzione forzata,
attesa la sostanziale diversità del diritto pignorato con quello oggetto di vendita. Di
conseguenza, il provvedimento di riduzione del giudice dell’esecuzione non è idoneo
a sanare la nullità dell’atto di pignoramento, fuoriuscendo dai poteri di tale giudice
l’attività di correzione sostanziale dell’oggetto del pignoramento che è, invece, demandata dal codice di rito al creditore procedente» (conforme T. Bari, 4-5-2004).
Per parte mia osservo che usufrutto e piena proprietà sono certamente diritti
diversi, ma sta il fatto che nel più (capitale e reddito) è compreso il meno (solo
reddito) e che nella specie non si tratta neppure — come si legge nella massima di
T. Reggio Calabria, 9-6-2006 — di una riduzione del pignoramento eccessivo (art.
496 c.p.c.) ma di una restrizione del pignoramento (parzialmente) inefficace.
3.1. Pignoramento viziato per difetto (colpisce nuda proprietà anziché
piena).
Dai RR. II. l’esecutato risulta nudo proprietario e il pignoramento viene pertanto
eseguito sulla nuda proprietà: sennonché, a insaputa del creditore, l’usufruttuario è
premorto e pertanto il pignoramento viene ad assumere un oggetto meno ampio
Rassegne di giurisprudenza
621
rispetto all’effettiva estensione del diritto. Altro caso frequente: il proprietario
esclusivo viene pignorato soltanto pro quota. Quid juris?
Qui il problema che si pone non è più di restringere il vincolo in sede di autorizzazione alla vendita, ma di verificare anzitutto se sia possibile un pignoramento
parziale, avente cioè ad oggetto non tutti i diritti che all’esecutato spettano sul bene,
ma soltanto alcuni.
Il caso è soltanto in apparenza simile a quello del pignoramento di una porzione
materiale di immobile (ingresso, corridoi, ecc.) perché intuitivamente è chiaro che
non è possibile mettere in vendita un bene privo di individualità, mentre è al contrario astrattamente possibile trasferire un diritto meno ampio di quello spettante
all’esecutato.
Criteri per risolvere il caso potrebbero essere mutuati dalla risalente dottrina che
si è occupata del consimile problema in materia di ipoteche (v. ad es. Rubino, L’ipoteca immobiliare e mobiliare, in Trattato di diritto civile e commerciale diretto da
Cicu-Messineo, Milano, 1956, 142 ss.; Boero, L’ipoteca, in Giur. Comm. diretta da
Bigiavi, Torino, 1984, 232). E tuttavia occorre avvertire che neppure in campo ipotecario esistono pronunce edite e che gli argomenti tradizionali sono stati, con qualche persuasività, rimessi di recente in discussione (Chianale, L’ipoteca, in Trattato
di diritto civile diretto da Sacco, Torino, 2005, 155 ss.).
Comunque sia, gli argomenti tradizionali sono questi. 1) Non è possibile ipotecare/
pignorare diritti che non esistono. Perciò se Tizio è pieno proprietario non posso
ipotecare/pignorare in suo danno l’usufrutto se al contempo quest’usufrutto non
viene attribuito a una persona diversa. 2) La vendita forzata implica il trasferimento
di diritti esistenti, ma non la costituzione di diritti nuovi (ad es. non è prevista la
possibilità di pignorare la nuda proprietà lasciando l’usufrutto al debitore) e quindi
deve colpire il diritto nella sua interezza, cosı̀ come esiste presso l’esecutato.
In termini ancor più concreti è forse il caso di dire che lo smembramento della
proprietà in diritti frazionari — non diversamente dal frazionamento di un immobile strutturalmente e funzionalmente unico — arreca un probabile pregiudizio al
valore di mercato ed è quindi operazione che può ritenersi consentita soltanto al
titolare ma non a un terzo.
Comunque si ragioni, se si conviene sull’inammissibilità, il pignoramento parziale deve pur esso ritenersi affetto da nullità secondo il criterio indicato da Cass.,
4-9-1985, n. 4612 e il G.E. può ordinarne l’integrazione e/o rettifica, ferma restando
la stabilità della vendita forzata (art. 2929 c.c.).
622
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
MASSIMO ORLANDO
Esecuzioni civili, sequestri, misure di prevenzione e confisca*
Sommario: 1. Premessa di carattere generale e cenni sulle recenti innovazioni normative. –
1.1. Ambito applicativo. – 1.2. Norme in tema di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati. – 2. Carattere derivativo dell’acquisto. – 3. Rapporti tra confisca e diritti reali di garanzia del terzo.
– 4. Rapporti tra sequestro preventivo e diritti del creditore pignoratizio. – 5. Tutela dei terzi in buona
fede. – 5.1. Corte costituzionale 487/1995 (in tema di misura di prevenzione). – 5.2. Cass. pen.
43715/2008 (in tema di misura di prevenzione). – 5.3. Cass. pen. 845/2007 (in tema di misura di
prevenzione). – 5.4. Cass. pen. 24187/2007 (in tema di misura di prevenzione). – 5.5. Cass. pen.
2501/2009 (in tema di misura di prevenzione). – 6. Sorte del processo esecutivo. – 6.1. Cass. pen.,
S.U., 9/1999. – 6.2. Cass. 12535/1999. – 6.3. Cass. 16227/2003. – 7. Considerazioni conclusive. –
7.1. Inquadramento della problematica giuridica. – 7.2. Destinazione dei beni immobili confiscati diversa
dalla vendita. – 7.3. Impossibilità per il creditore ipotecario di procurarsi un titolo esecutivo nei confronti
dell’Amministrazione finanziaria. – 7.4. Assenza di una procedura liquidatoria (promossa dall’Amministrazione finanziaria) nell’ambito della quale intervenire per soddisfare il suo credito. – 7.5. Estinzione del
debito ipotecario. – 7.6. Presunta inidoneità del giudizio civile a realizzare l’esigenza di impedire frodi o
facili elusioni del contrasto alle attività criminose. – 7.7. Creditori chirografari e/o titolari di privilegi
mobiliari. – 7.8. Ratio della confisca. – 7.9. Regime di circolazione: opponibilità della trascrizione precedente alla confisca. – 7.10. Considerazioni conclusive.
Il tema dei rapporti tra provvedimenti ablativi di natura penale (sequestri, misure
di prevenzione, confisca) e processi esecutivi individuali o concorsuali costituisce
una vexata quaestio sia in dottrina e giurisprudenza, per le implicazioni di politica
criminale e per le esigenze di tutela dei terzi che vantano diritti sui beni oggetto del
provvedimento.
Per di più, i recenti interventi normativi se da un lato hanno esteso l’ambito di
applicazione delle misure coercitive reali, dall’altro non contengono alcuna disposizione che in modo univoco manifestino una scelta del legislatore in un senso o
nell’altro (cioè, nel senso di comprimere o tutelare i diritti dei terzi).
* Lo scritto costituisce una elaborazione dell’intervento tenuto nel corso del seminario dei Giudici
dell’esecuzione, S. Servolo, 11/12/13-9-2009.
Rassegne di giurisprudenza
623
Le Sezioni Unite, con sentenza 26654/2008, ud. 27-3-2008, dep. 2-7-2008, in tema
di profitto del reato, ha sottolineato la «progressiva moltiplicazione delle ipotesi di
confisca nella forma per equivalente», evidenziando altresı̀ il pragmatismo di
stampo anglosassone che induce ad attribuire alla confisca «la fisionomia di uno
strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato».
1. Premessa di carattere generale e cenni sulle recenti innovazioni normative.
1.1. Ambito applicativo.
a.1) La confisca di cui all’art. 12-sexies d.l. 306/1992 era originariamente prevista
come misura di sicurezza patrimoniale per i soggetti condannati per uno dei seguenti reati:
— associazione di stampo mafioso (416-bis c.p.);
— estorsione (629);
— sequestro di persona a scopo di estorsione (630);
— usura (644), nella legge c’è ancora il richiamo all’usura impropria (644-bis c.p.),
reato tuttavia abrogato con la l. 108/1996;
— ricettazione di non particolare tenuità (e quindi art. 648, 1o co., c.p.);
— riciclaggio (648-bis c.p.);
— impiego di denaro o beni di provenienza illecita (648-ter c.p.);
— trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies, d.l. 306/1992);
— produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti (art. 73 d.p.r. 309/90);
— associazione finalizzata a traffico (art. 74 d.p.r. 309/90);
— reati commessi per finalità di terrorismo e eversione.
a.2) Il legislatore del 2008-2009 l’ha estesa:
— ai reati contro la pubblica amministrazione;
— all’associazione a delinquere finalizzata a commettere la tratta di schiavi e la
riduzione in schiavitù (artt. 600-601-602 c.p.);
— all’associazione a delinquere finalizzata a commettere i reati di contraffazione
di marchi o brevetti (473), introduzione nello Stato di prodotti contraffatti (474),
fabbricazione di beni realizzati usurpando brevetti (517-ter), contraffazione di indicazioni geografiche (517-quater), tratta di schiavi e la riduzione in schiavitù (artt.
600-601-602 c.p.).
L’art. 12-sexies consente la confisca se il condannato non dimostra la provenienza
lecita e se sono di valore sproporzionato al suo reddito o alla sua attività economica.
Vi è poi la confisca classica, prevista dall’art. 240 c.p., che si articola:
— nella confisca obbligatoria, che ricorre quando la cosa costituisce il prezzo del
reato o è illecita in sé (cioè, ne è illecita la fabbricazione, il porto, o la detenzione);
— e nella confisca facoltativa, che si configura quando la cosa è servita a commettere il reato o ne costituisce il prodotto o il profitto.
624
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Proprio con riferimento a quest’ultimo tipo di confisca, si è verificata negli ultimi
anni la proliferazione delle ipotesi di confisca per equivalente diretta ad aumentare
la possibilità risarcitoria per la persona offesa.
La confisca per equivalente è stata introdotta per la prima volta nel 2000 dall’art.
322-ter c.p.p. per il reato di cui all’art. 321 c.p. (che prevede la pena del corruttore);
la norma (in forza del richiamo contenuto nell’art. 640-quater c.p.) è applicabile
anche ai reati di truffa aggravata ai danni dello Stato (art. 640, 2o co., n. 1, c.p.),
aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) e frode
informatica (art. 640-ter c.p.).
L’art. 19, 2o co., d.lg. 231/2001 la prevede come sanzione amministrativa, a carico
delle società (munite o prive di personalità giuridica), applicata dal giudice penale
competente a giudicare alcuni reati espressamente previsti dalla legge e commessi
nel loro interesse da dipendenti o legali rappresentanti. È del tutto evidente l’alta
probabilità di interferenza tra la confisca disposta dal giudice penale e le procedure
esecutive (anche concorsuali) promosse dai creditori della società.
Nel 2007 la confisca è poi stata estesa (tramite l’art. 648-quater c.p.) al denaro, beni
o altre utilità provenienti dai reati di riciclaggio e impiego di beni di destinazione
illecita (artt. 648-bis e 648-ter c.p.).
Nel 2009 è stata introdotta la possibilità di confiscare beni di valore equivalente a
quelli di cui il condannato non riesce a dimostrare la lecita provenienza, quando non
è possibile confiscare questi ultimi; si tratta cioè di un mix tra la confisca di cui
all’art. 12-sexies e la confisca per equivalente, con l’evidente fine di rafforzare la
reazione dello Stato diretta a sottrarre al criminale la ricchezza accumulata illecitamente; la norma si applica solo a chi commette reati avvalendosi delle condizioni di
intimidazione o per agevolare le associazioni mafiose nonché per i reati di estorsione, sequestro a scopo di estorsione, ricettazione, riciclaggio, impiego fraudolento, trasferimento fraudolento di valori (art. 12-quinquies, d.l. 306/1992), produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti (art. 73 d.p.r. 309/1990) e associazione finalizzata a traffico (art. 74 d.p.r. 309/1990).
Per i reati contro la pubblica amministrazione, già nel 2006 era stata disposta
l’applicazione della legge sulle misure di prevenzione (e in particolare degli artt.
2-novies, 2-decies e 2-undecies della l. 31-5-1965, n. 575); il presupposto però era che
si potesse disporre la confisca del prezzo o profitto del reato.
L’innovazione introdotta nel 2009 (e quindi l’applicabilità dell’art. 12-sexies anche
ai reati contro la P.A.) consente di confiscare anche i beni di cui il condannato per
questo tipo di illeciti non riesca a giustificare la provenienza, sempre che siano di
valore esuberante rispetto alle sue complessive condizioni economico-patrimoniali.
La progressiva estensione dei casi in cui è ammessa la confisca per equivalente
rende agevole prevedere che nei prossimi anni vi sarà un considerevole aumento
delle questioni relative ai rapporti tra processo penale e diritti dei terzi sui beni
confiscati (o sequestrati).
Rassegne di giurisprudenza
625
Un aumento dei casi di confisca si verificherà anche perché tutti i recenti interventi
normativi hanno imposto la confisca per equivalente (non solo con le sentenze di condanne, ma) anche per le sentenze di applicazione della pena concordata (art. 444 c.p.).
Un diverso tipo di confisca è quella di prevenzione, disciplinata dall’art. 2-ter
l. 575/1965, che prevede i seguenti presupposti per la sua applicazione:
— presupposto soggettivo: nei confronti di «indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso...»
— presupposto oggettivo: «quando il valore (dei beni, n.d.r.) risulta sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica svolta ovvero quando, sulla base
di sufficienti indizi, si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività
illecite o ne costituiscano il reimpiego».
1.2. Norme in tema di gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati.
L’art. 12-sexies, co. 4-ter prevede che si applichino a tutti i casi di confisca disciplinati dai commi da 1 a 4 della stessa norma (e quindi ai condannati per i reati su
indicati, quando non dimostrino la lecita provenienza dei beni o quando vi è sproporzione tra il loro valore e il reddito del condannato) «le disposizioni in materia
di gestione e destinazione dei beni sequestrati o confiscati previste dagli articoli
2-quater, 2-sexies, 2-septies, 2-octies, 2-nonies, 2-decies, 2-undecies e 2-duodecies
della l. 31 maggio 1965, n. 575, e successive modificazioni; restano comunque salvi
i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del danno».
Ciò significa che è stato esteso (appunto, alla confisca di cui all’art. 12-sexies) il
vincolo di destinazione dei beni confiscati ad attività o a scopi di pubblica utilità
(cfr. infra).
2. Carattere derivativo dell’acquisto.
La tematica della natura della confisca (acquisto a titolo derivativo o originario)
esercita un considerevole condizionamento tra gli autori che si occupano del problema del raffronto:
— tra l’interesse dello Stato ad impedire al proposto (nel caso delle misure di
prevenzione ex l. 575/1965) o all’imputato o indagato o condannato (nel caso degli
artt. 12-sexies, d.l. 306/1992 e 321 c.p.p.) di continuare a disporre delle cose oggetto
di provvedimenti di sequestro e/o di confisca)
— e l’interesse dei terzi a trovare soddisfacimento delle proprie ragioni creditorie
sui beni oggetto dei predetti provvedimenti coercitivi.
In primo luogo, appare condivisibile il rilievo (di carattere metodologico e di
logica giuridica) per cui «non è corretto subordinare la soluzione di un problema di
bilanciamento di interessi tra loro configgenti a una astratta e concettualistica opzione dogmatica in ordine alla natura giuridica della confisca».
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In secondo luogo, è stata acutamente sottolineata una «evidente confusione concettuale tra ben distinte dicotomie originarietà-derivatività e coattività-volontarietà».
Si tende cioè a creare un parallelo tra le predette categorie, affermando (in modo
più o meno consapevole) che l’acquisto coattivo sarebbe sempre un acquisto a titolo
originario.
Indipendentemente dalla più o meno pertinenza degli esempi addotti per dimostrare la infondatezza del suddetto parallelo (quello dell’acquisto per usucapione
non appare esatto, considerato l’insegnamento giurisprudenziale secondo cui essa
«estingue le ipoteche iscritte o rinnovate a nome del precedente proprietario, quantunque non ancora perente»: Cass. 8792/2000), non si può comunque dubitare che
si tratta di categorie del tutto diverse tra loro, per cui non è possibile alcun automatico parallelismo (o contrapposizione).
In altri termini, il fatto che la confisca comporta l’estinzione del diritto reale in
capo al condannato, contro la sua volontà, non significa in alcun modo che lo Stato
acquisisca un diritto più ampio di quello di cui era titolare il precedente proprietario: ed è esattamente questa la differenza tra coattività e derivatività.
Ad ogni modo, la più recente giurisprudenza afferma il carattere derivativo dell’acquisto (in favore dello Stato) che ha luogo con la confisca.
Con sentenza 5988/1997, la Corte di Cassazione ha infatti affermato che «non è
da condividere la qualificazione di originarietà (pur ricorrentemente) attribuita in
dottrina all’“acquisto da confisca”, poiché la motivazione tralaticiamente offerta a
supporto di tale qualificazione, e che fa perno sul carattere unilaterale ed autoritario
dell’atto che dà causa a siffatto acquisto, è direttamente ed esclusivamente conseguenziale proprio alla criticata e restrittiva concezione soggettivistica della categoria
di riferimento».
La Corte ha infatti affermato che la natura derivativa dell’acquisto è conseguenza
del fatto che esso non prescinde dal rapporto già esistente fra quel bene ed il precedente titolare, ma anzi un tale rapporto presuppone ed è volto a far venir meno,
per ragioni di prevenzione e/o di politica criminale, con l’attuare il trasferimento del
diritto dal privato (condannato o indiziato di appartenenza ad associazioni mafiose)
allo Stato.
Anche la giurisprudenza di merito ha affermato il principio della natura derivativa
(T. Lecce, 4-4-1997; T. Milano, 25-6-2004; T. Palermo, 4-2-2008) e anche il Consiglio di Stato ha avuto modo di occuparsene, giungendo alle medesime conclusioni
(sent. n. 1141 del 16-9-1997, CS, 1998, I, 2054).
Per vero, va registrata una sentenza delle Sezioni Unite penali (19-12-2006,
n. 57) che ha affermato il principio opposto (e quindi dell’acquisto a titolo originario); la pronuncia, però, non appare convincente, essenzialmente perché non contiene alcuna motivazione sul punto, essendosi occupata della questione relativa alla
revocabilità della confisca.
Rassegne di giurisprudenza
627
Non si può quindi dubitare del fatto che la confisca è un mezzo di acquisto della
proprietà (in capo allo Stato) di natura derivativa, perché è del tutto convincente
l’osservazione secondo cui essa comporta la perdita del diritto reale in capo al condannato o al prevenuto.
3. Rapporti tra confisca e diritti reali di garanzia del terzo.
La giurisprudenza ha affermato che i diritti reali di garanzia dei terzi sopravvivono
alla confisca (Cass., S.U., 8/1999).
Il principio è stato affermato facendo leva sull’art. 240, 3o co., c.p., in base alla
considerazione che «il concetto di “appartenenza”, al quale il terzo comma del
citato art. 240 assegna la funzione di limite della confisca, non può essere circoscritto
al diritto di proprietà, essendo la sua portata estesa ai diritti reali di godimento e di
garanzia, che sopravvivono, perciò, alla misura di sicurezza patrimoniale».
Alla base del ragionamento giuridico, vi è il principio generale di giustizia distributiva, per cui la misura sanzionatoria non può ritorcersi in ingiustificati sacrifici
delle posizioni giuridiche soggettive di chi sia rimasto estraneo all’illecito.
Peraltro, proprio in tema di ipoteca e confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992 si è
pronunciata la Cassazione Penale (Cass. pen., Sez. I, n. 2860 del 23-8-1994, cam.
cons. del 10-6-1994, Moriggi), che ha affermato la coesistenza della confisca con il
diritto reale di garanzia, escludendo quindi che quest’ultimo debba soccombere a
seguito di un provvedimento che irroga la sanzione reale della confisca:
«se è vero che la nozione di appartenenza di cui all’art. 240, comma quinto, cod.
pen., ha portata più ampia del diritto di proprietà e si estende, quindi, anche alla
titolarità di un diritto ipotecario sulla cosa da confiscare, pur tuttavia è ammissibile
la confisca di bene immobile, appartenente ovvero nella disponibilità dell’interessato, sottoposto a ipoteca in favore di terzo estraneo al reato addebitato al primo,
essendo pur sempre libera la disponibilità della cosa da parte del titolare del diritto
di proprietà, non precludendo la misura di garanzia reale la sua circolazione giuridica e ben potendo, al momento dell’esecuzione della misura ablativa, procedersi a
salvaguardia dell’interesse del titolare della garanzia reale sulla cosa confiscata, dal
momento che oggetto della confisca è solo il diritto reale (di proprietà o di altro
contenuto) di un determinato soggetto ritenuto responsabile della violazione penalmente sanzionata e giustificatrice dell’applicazione della misura di sicurezza patrimoniale in questione. (Fattispecie in tema di confisca prevista dall’art. 12-sexies,
d.l. 22-4-1994, n. 246, in cui la S.C. ha evidenziato che la cosa viene sottoposta a
confisca non a causa della sua illiceità, bensı̀ al fine di sottrarre la disponibilità ai
soggetti responsabili dei reati ivi elencati, di modo che, contrariamente alla confisca
inerente alla cosa nella sua interezza, l’effetto ablativo può coesistere con la titolarità, di terzi estranei al reato, di garanzia reale sulla medesima, atteso l’oggetto circoscritto della misura di sicurezza patrimoniale)».
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 9 del 1999, hanno esplicitamente smentito la
tesi (dottrinale) secondo cui la confisca di cui all’art. 12-sexies, d.l. 306/1992 configura «una sorta di espropriazione per pubblico interesse», corrispondente ad una
generale finalità di prevenzione penale, «che consentirebbe sinanco l’ablazione,
senza alcun ristoro, degli eventuali diritti dei terzi sul bene confiscato».
Inoltre, la Corte ha affermato che (anche qualora si configurasse come originario
l’acquisto, e ciò in quanto esso si verifica autoritativamente), «lo Stato, quale nuovo
titolare di esso, non può legittimamente acquisire facoltà di cui il soggetto passivo
della confisca aveva già perduto la titolarità».
La decisione riprende un filone giurisprudenziale già datato, che nega che la confisca comporti l’estinzione dei diritti reali di garanzia (cfr.: Cass., 30-5-1967, n. 1207,
GC, 1967, 108 ss.; Cass., n. 811 del 20-2-1978, RAS, 1978, 578 ss.), tanto che si può
tranquillamente ritenere che il principio della sopravvivenza delle garanzie reali può
ritenersi ormai orientamento giurisprudenziale consolidato, essendo stato affermato
anche da molteplici, recenti, pronunce (Cass., S.U., 18-5-1994, Comit Leasing s.p.a.
in proc. Longarini, rv. 199174; Cass., Sez. III, 24-3-1998, Galantino, rv. 210749;
Cass., Sez. II, 14-10-1992, Tassinari, rv. 193422; Cass., S.U., 9/1999, Bacherotti).
Questo tema potrebbe essere riaperto, con specifico riferimento alle misure di
prevenzione e alla confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/1992, per il concorso di una
recente pronuncia (Cass. 13081/2003) e della l. 94/2009.
In primo luogo, la Corte di Cassazione, nella citata pronuncia del 2003, ha evidenziato le differenze che intercorrono tra confisca penale e misura di prevenzione,
mettendo l’accento proprio sulla destinazione dei beni confiscati, da cui consegue
«l’ingresso degli stessi nel patrimonio indisponibile dello Stato con conseguente
inespropriabilità».
Ha quindi escluso la legittimazione del soggetto titolare del diritto reale di garanzia ad intervenire nel procedimento di prevenzione, affermando che questi ha diritto di ottenere il pagamento del credito da parte dello Stato.
Questa conclusione, che verrà esaminata infra, appare del tutto apodittica, anche
perché non si pone il problema né dello strumento di tutela in capo al creditore per
ottenere il pagamento da parte dello Stato, né dei limiti della sua responsabilità
patrimoniale.
Per quanto concerne poi la recente l. 94/2009, va osservato che è stato introdotto
il co. 4-quater all’art. 12-sexies, d.l. 306/1992, che ha esteso ai beni confiscati ai sensi
di questa norma le norme in materia di gestione e di destinazione previste per i beni
confiscati ai sensi della legge antimafia.
In questo modo, si è notevolmente ampliata la probabilità che un creditore munito di diritto reale di garanzia si imbatta in un provvedimento di confisca del bene,
di proprietà di un soggetto condannato per uno dei tanti reati che rientrano nella
vastissima gamma per cui è consentita la confisca (reati contro la P.A., truffa ai danni
dello Stato, estorsione, sequestro, riciclaggio, ecc.).
Rassegne di giurisprudenza
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Da ciò consegue la necessità di stabilire in modo certo i limiti in cui il terzo deve
soccombere rispetto alla pretesa dello Stato di acquisire i beni e destinarli agli scopi
di pubblica utilità previsti dall’art. 2-sexies ss., l. 575/1965.
4. Rapporti tra sequestro preventivo e diritti del creditore pignoratizio.
Con sentenza a Sezioni Unite 9/1994, la Corte di Cassazione si è occupata del
contrasto:
— tra il filone giurisprudenziale che escludeva la assoggettabilità a sequestro preventivo delle cose oggetto di garanzia reale, sulla base della considerazione che esse
sono sottratte alla disponibilità del proprietario debitore (Cass., Sez. I, cam. cons.
8-7-1991 Banca Comm. Italiana c. Mendella)
— e l’altro orientamento, che affermava invece che anche le cose oggetto di pegno
potessero essere sequestrate, dovendosi dare prevalenza alle «generali esigenze di
tutela della collettività che devono essere soddisfatte anche se risultano pregiudizievoli per il terzo che ne è gravato» (Cass., Sez. II, cam. cons. 15-5-1992, Banca Pop.
di Milano c. Tosarelli).
Le Sezioni Unite hanno quindi:
— rilevato (in via preliminare) che il creditore pignoratizio (in caso di pegno
regolare) acquisisce con lo spossessamento (art. 2786 c.c.) facoltà e diritti propri,
quali le azioni possessorie, l’azione di rivendicazione, atti conservativi, soddisfacimento sui frutti;
— affermato che tali facoltà e diritti coesistono con i diritti del proprietario concedente (vendita della cosa pignorata, possibilità di chiedere il sequestro in caso di
abuso della cosa pignorata da parte del creditore pignoratizio).
Ciò premesso, la Corte ha ritenuto che la coesistenza di situazioni giuridiche
soggettive in capo a soggetti diversi (proprietario debitore e creditore pignoratizio) ben può consentire al giudice di graduare la portata del provvedimento
con cui si ordina il sequestro preventivo, in modo da comprimere i diritti e le
facoltà del solo proprietario imputato (o indagato), senza invece intaccare quelli
del terzo creditore (ovviamente, qualora quest’ultimo sia estraneo al reato): ciò, in
funzione del principio di proporzionalità della pena (e delle misure cautelari,
anche reali).
In particolare, la Corte ha affermato, testualmente:
«il giudice di merito nell’applicazione del 1o comma dell’art. 321 c.p.p. può graduare la portata oggettiva del sequestro preventivo nel senso che ben può limitare
l’efficacia della misura alle facoltà spettanti al debitore indagato o imputato, lasciando
impregiudicate le facoltà che sono di esclusiva pertinenza del creditore pignoratizio.
Una tale scissione delle rispettive sfere di disponibilità è anzi doverosa allorquando l’esigenza di difesa sociale che è alla base della misura preventiva in que-
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
stione è fatta consistere, come nella specie, nei pericoli (di commissione di nuovi
reati, di aggravamento delle conseguenze dei reati già commessi) derivabili soltanto
dal comportamento del debitore indagato e dall’illecita strumentabilità delle facoltà
a lui pertinenti.
Si deve pertanto concludere che nessun ostacolo impedisce l’applicabilità del sequestro preventivo di cui all’art. 321, co. 1, c.p.p. alle cose soggette a pegno regolare
con effetti limitati alla posizione del debitore garante indiziato di reato».
La Corte ha quindi affermato che il giudice che ordina il sequestro preventivo ben
può (considerata la possibilità che i beni sequestrati abbiano bisogno di gestione ed
amministrazione) nominare custode lo stesso creditore pignoratizio.
Appare evidente la portata di questa pronuncia, che denota la sensibilità delle Sezioni Unite Penali nei confronti dei diritti dei terzi estranei al reato, sfuggendo alla suggestione pan-penalistica e alle valutazioni di carattere metagiuridico e
di politica criminale, che caratterizzano la maggior parte delle opinioni che affermano la prevalenza (assoluta ed indiscriminata) delle sanzioni reali di natura penale, e la loro idoneità a travolgere ogni posizione giuridica soggettiva in cui si
imbattono.
Si ritiene, quindi, che il richiamo della sentenza 9/1994 ad un razionale ed equo
contemperamento degli interessi coinvolti sia del tutto condivisibile, perché è conforme al principio di legalità delle pene (art. 25 Cost.) e al diritto di difesa (art. 24
Cost.).
5. Tutela dei terzi in buona fede.
Tutte le sentenze della Cassazione, sia civile che penale, si preoccupano di affermare il principio che i terzi in buona fede vanno tutelati.
5.1. Corte costituzionale 487/1995 (in tema di misura di prevenzione).
Con sentenza 487/1995 la Corte costituzionale, nel dichiarare infondata la questione di legittimità costituzionale della l. 31-5-1965, n. 575, art. 3-quinquies, 2o co.,
nella parte in cui consente che il provvedimento di confisca dei beni ivi previsto
possa riflettersi su soggetti per i quali non ricorrano i presupposti per l’immediata
applicazione di una misura di prevenzione personale, ha precisato che la situazione
di «sostanziale incolpevolezza» segna il limite della confisca, aggiungendo che una
simile condizione soggettiva, su cui è fondata la tutela del terzo in buona fede, non
ricorre nei confronti di chi, pur non essendo assoggettabile a provvedimenti di
prevenzione, pone in essere «attività agevolative che determinano obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa».
Posto il principio di diritto, è interessante esaminare la concreta applicazione che
ne ha fatto la giurisprudenza.
Rassegne di giurisprudenza
631
5.2. Cass. pen. 43715/2008 (in tema di misura di prevenzione).
Con sentenza n. 43715/2008 la Corte di Cassazione penale ha affermato che «la
salvaguardia del preminente interesse pubblico non può giustificare il sacrificio
inflitto al terzo di buona fede, titolare di un diritto reale di godimento o di garanzia, dovendo considerarsi la sua posizione «protetta dal principio della tutela
dell’affidamento incolpevole, che permea di sé ogni ambito dell’ordinamento giuridico».
La Corte ha quindi recepito l’orientamento già affermato dalla sentenza 12317/
2005, che ha stabilito che grava sui terzi fornire «la dimostrazione di tutti gli elementi che concorrono ad integrare le condizioni di “appartenenza” e di “estraneità
al reato”, dalle quali dipende l’operatività della situazione impeditiva o limitativa del
potere di confisca esercitato dallo Stato».
Nella fattispecie decisa dalla Corte, è stata esclusa la buona fede: si trattava di un
caso in cui il prevenuto aveva costruito un manufatto su terreno di proprietà del
figlio; la Cassazione ha ritenuto irrilevante il fatto che non fosse stato provato l’utilizzo di denaro di provenienza illecita per realizzare la costruzione e ha dedotto la
mala fede sulla base della considerazione che il proprietario del suolo «tollerò volontariamente la realizzazione del manufatto sulla sua proprietà fondiaria, senza
avvalersi dei diritti riconosciutile dall’art. 936 c.c. e facendo inutilmente decorrere il
termine di decadenza posto da tale norma per la riduzione in pristino, di guisa che
rimarrebbe a suo favore la possibilità di tutele civilistiche per il riconoscimento della
maturata accessione alle condizioni risarcitorie previste dalla disciplina di tale complesso istituto».
5.3. Cass. pen. 845/2007 (in tema di misura di prevenzione).
Con la sentenza n. 845/2007 la Corte ha esaminato il caso di un acquisto avvenuto
a seguito di espropriazione immobiliare, in un processo esecutivo promosso prima
della trascrizione del sequestro come misura di prevenzione: la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di appello che aveva confermato la pronuncia di primo grado, che a sua volta aveva affermato la proprietà dell’Amministrazione finanziaria, e quindi la irrilevanza della priorità della trascrizione del pignoramento immobiliare, affermando il principio secondo cui l’esigenza di
«impedire che gli indiziati di appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, alla
camorra o ad altre associazioni criminali possano procurarsi, mediante prestiti bancari e con il sistema di precostituirsi una schiera di creditori di comodo muniti di
titoli con data certa, denaro di provenienza lecita, sottraendo poi alla confisca i beni
vincolati a garanzia di terzi creditori ... non può, tuttavia, pregiudicare i diritti dei
terzi estranei ai fatti che hanno dato luogo ai procedimenti di sequestro e confisca e
deve realizzarsi con comportamenti coerenti, senza compromettere il principio della
certezza dell’iscrizione di un’ipoteca e senza adoperare, surrettiziamente a quella del
632
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
giudice dell’opposizione all’esecuzione forzata civile, l’istituto dell’incidente di esecuzione penale, fuori dei suoi limiti, che sono del tutto diversi da quello dell’accertamento dell’esistenza di un diritto reale di garanzia su un bene sottoposto a confisca penale».
Il giudice di legittimità ha quindi affermato:
— la necessità di tutelare i terzi di buona fede;
— l’esigenza di certezza del traffico giuridico con riguardo all’iscrizione ipotecaria;
— la inidoneità dell’istituto dell’incidente di esecuzione penale.
5.4. Cass. pen. 24187/2007 (in tema di misura di prevenzione).
La Corte di cassazione penale ha a sua volta ribadito che la sede per accertare la
buona fede del terzo è quella dell’incidente di esecuzione, osservando che «il complesso delle garanzie “partecipative” e i rimedi apprestati dall’ordinamento per tutelare i diritti di diversa natura riconducibili a beni sottoposti a misure di prevenzione patrimoniale ben possono essere oggetto di una disciplina differentemente
modulata da parte del legislatore sempre che sia assicurato al terzo, nella conferente
sede dell’incidente di esecuzione, il diritto di interloquire e di sviluppare le sue
argomentazioni e le sue prospettazioni ... ciò che in definitiva rileva è che l’esame
della posizione del terzo riceva, in executivis, adeguata ponderazione e congruo
spazio difensivo». Si trattava di un caso in cui il promissario acquirente di un immobile sottoposto a sequestro di prevenzione aveva chiesto di accertare il proprio
diritto in sede di incidente di esecuzione penale. La Corte ha dichiarato inammissibile l’incidente in quanto la pretesa avrebbe potuto farsi valere soltanto dopo la
definitiva confisca e dinanzi al giudice penale.
5.5. Cass. pen. 2501/2009 (in tema di misura di prevenzione).
Di recente, la Corte di Cassazione penale ha ribadito che incombe sui terzi dimostrare la buona fede e ha confermato la decisione del Tribunale di Napoli che l’aveva
esclusa nella fattispecie esaminata, osservando che non era plausibile che «l’istituto
(di credito) ignorasse la circostanza che l’amministratore della società in accomandita, beneficiaria dei finanziamenti, fosse la moglie di un pericoloso ed accreditato
esponente della delinquenza camorristica della zona, tenuto conto che una agenzia
dell’istituto operava nel piccolo centro ove questi viveva e tenuto conto che un
esponente della delinquenza organizzata non è mai sconosciuto in centri di tali
dimensioni, soprattutto in considerazione che era egli stesso cliente di quella banca,
davanti alla quale fu oggetto di attentato omicidiario sventato per pura e fortunata
fatalità».
Sembra importante sottolineare che nel caso in esame (relativo a confisca ai danni
di un esponente della organizzazione malavitosa denominata camorra) la Corte ha
escluso la buona fede della banca, creditrice ipotecaria, valorizzando il solo rap-
Rassegne di giurisprudenza
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porto di coniugio tra il prevenuto e l’amministratore della società in accomandita
semplice che aveva ricevuto il finanziamento garantito ipotecariamente.
In altri termini, posto che non è plausibile che la banca non conoscesse il suddetto
rapporto di coniugio, ciò che desta qualche perplessità è il fatto che (sia pure solo
implicitamente) non è stata ritenuta necessaria la prova della conoscenza da parte
della banca della sussistenza dei presupposti che avevano condotto all’applicazione
delle misure di prevenzione (del sequestro e poi della confisca), e cioè:
— sproporzione tra i beni di cui il prevenuto dispone, rispetto al suo reddito o alla
sua attività economica
— o che i beni costituissero il frutto o il reimpiego di attività illecite
— né del fatto che la s.a.s. fosse lo strumento per occultare o riciclare il denaro
frutto dei traffici illeciti del marito dell’amministratrice della società.
La Corte — pur affermando che il terzo deve dimostrare «il suo affidamento
incolpevole ingenerato da una situazione di oggettiva apparenza che rende scusabile
l’eventuale ignoranza» — ha ritenuto sufficiente la conoscenza del rapporto di coniugio tra il malavitoso e l’amministratrice della s.a.s. i cui beni erano stati oggetto
della confisca.
Si tratta cioè di stabilire come debba essere in concreto applicato il principio
contenuto nella sentenza della Corte costituzionale 487/1995, secondo cui non è
meritevole di tutela il terzo che, pur non essendo assoggettabile a provvedimenti di
prevenzione, pone in essere attività agevolative che determinano obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa.
Appare eccessivamente punitivo per il terzo un orientamento favorevole a travolgere i suoi diritti, per il solo fatto di aver contrattato con un esponente della criminalità organizzata, ritenendo irrilevante la coscienza della sussistenza dei presupposti che — peraltro, nel caso esaminato dalla Corte, tre anni dopo la stipula del
mutuo — avrebbero condotto al sequestro degli immobili oggetto dell’iscrizione
ipotecaria.
Questa tesi comporterebbe la creazione di un “cordone sanitario” nei confronti
dell’appartenente ad un’organizzazione criminale, ma va evidenziato che nessuna
norma consente di pervenire a questa conclusione.
Sembrerebbe quindi più coerente col sistema normativo la conclusione secondo
cui il terzo dovrebbe ritenersi estraneo, e quindi i suoi diritti dovrebbero prevalere
sulla misura di prevenzione, se non era possibile conoscere la sussistenza dei presupposti richiesti dalla legge.
Una conferma di questa conclusione appare costituita dalla considerazione che
— come già evidenziato supra — vi è una vera e propria proliferazione di ipotesi in
cui la legge prevede la confisca per equivalente.
Pertanto, se si ritiene sufficiente escludere la estraneità del terzo che ha concesso
un mutuo ipotecario ad un malavitoso (o al coniuge di costui), per il solo fatto che
il suo inserimento nell’organizzazione criminale è nota nel territorio in cui questi
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
opera, alla stessa conclusione si dovrebbe pervenire per tutti i terzi che entrano in
rapporti commerciali con imprenditori che si avvalgono di finanziamenti comunitari
(art. 640-bis c.p.) o che effettuano forniture alla pubblica amministrazione, perché
in entrambi i casi l’esperienza storica italiana ha dimostrato che sono frequentissimi
i casi di truffa o di corruzione.
Si ritiene invece che i diritti soggettivi dei terzi debbano essere tutelati, a meno che
non vi sia la prova che questi abbiano avuto:
— la consapevolezza (non già di una mera qualità personale del contraente prevenuto o condannato, bensı̀) che questi versava in una concreta situazione di fatto
che lo esponeva ad una misura coercitiva reale;
— e, inoltre, una consapevole partecipazione del terzo creditore all’intento del
prevenuto o condannato a sottrarsi al rischio di applicazione della misura di sicurezza reale o di prevenzione patrimoniale.
Non appare cioè sufficiente che la banca sia al corrente del ruolo criminale del
soggetto che chiede l’erogazione di un mutuo, perché questo equivale a porre a
carico del creditore una responsabilità oggettiva per aver semplicemente concluso
un negozio giuridico con un soggetto, in assenza di qualsiasi norma imperativa che
esplicitamente lo vieti.
Il limite della buona fede individuato dalla sentenza della Corte costituzionale
487/1995 va individuato tutte le volte in cui il creditore pone in essere «attività
agevolative che determinano obiettiva commistione di interessi tra attività di impresa e attività mafiosa» e sembra che si possa individuare — ad esempio — in tutti
quei casi in cui la banca (o il terzo in genere) sa che l’operazione finanziata non ha
alcuna giustificazione economica o imprenditoriale, ma è funzionale ad un’operazione diretta a far venir meno il requisito della sproporzione tra reddito del prevenuto e valore dei beni di sua proprietà: ad esempio, un mutuo ipotecario fittizio
(perché la somma erogata viene restituita alla banca immediatamente dopo) potrebbe portare alla compressione del diritto reale di garanzia da parte del simulato
creditore mutuante, tutte le volte in cui è stato stipulato solo per diminuire il valore
di mercato dei beni, creando l’apparenza di una situazione debitoria in realtà inesistente.
Con riferimento all’onere della prova in ordine alla buona fede, la giurisprudenza
(cfr. sentenza del T. Roma 5-5-2009, inedita, causa 92944/2003; Cass. pen. 19761/
2007; Cass. pen. 45572/2007), afferma che incombe sul terzo.
La Cassazione penale ha affermato, nella sentenza 19761/2007 (ma già nella sentenza Cass. 12317/2005) un principio sibillino, e cioè che «una volta riconosciuta a
mezzo di incidente di esecuzione penale la posizione di terzietà e l’opponibilità del
diritto di garanzia o di credito, questo, pur deprivato della facoltà di procedere
direttamente ad esecuzione forzata per soddisfarsi sul ricavato (jus distrahendi), può
essere fatto valere soltanto dinanzi al giudice civile con i residui mezzi di tutela
offerti dalla legge»: si tratta di affermazione che è del tutto sfornita di motivazione
Rassegne di giurisprudenza
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e che non fornisce alcuna indicazione su quali sarebbero i residui strumenti offerti
dalla legge.
La sentenza 12317/2005 afferma:
«pur ammettendo l’esistenza della buona fede, l’esito dell’incidente di esecuzione non potrebbe comunque essere favorevole per gli istanti, trovando tale risultato insuperabile impedimento nella disciplina dettata dalla l. n. 575 del 1965 in
ordine al particolare regime giuridico dei beni immobili confiscati, alla forme di
gestione degli stessi e alla loro specifica destinazione. A differenza di quanto previsto per la confisca di diritto comune, la cui procedura, salvo specifiche eccezioni, si
conclude normalmente con la vendita delle cose confiscate (artt. 86 disp. att. c.p.p.,
13 reg. es. c.p.p. e 152 D.P.R. 30.5.2002, n. 115), la confisca quale misura di prevenzione patrimoniale è soggetta alla speciale normativa della l. n. 575 del 1965, più
volte modificata in virtù del d.l. 14.6.1989, n. 230, convertito in l. 4.8.1989, n. 282,
della l. 7.3.1996, n. 109, e della l. 22.12.1999, n. 512. Dopo avere disposto che “i
beni confiscati sono devoluti allo Stato” (art. 2-nonies), la l. n. 575 del 1965 stabilisce, al comma 2-undecies, che i beni immobili devoluti possono essere: “a) mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile, salvo che si debba procedere alla vendita degli stessi finalizzata al
risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso; b) trasferiti al patrimonio del
comune ove l’immobile è sito, per finalità istituzionali o sociali. Il comune può
amministrare direttamente il bene o assegnarlo in concessione a titolo gratuito a
comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato di cui alla l. 11 agosto 1991,
n. 266, e successive modificazioni, a cooperative sociali di cui alla l. 8 novembre
1991, n. 381, o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di tossicodipendenti di cui al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e
sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990,
n. 309. Se entro un anno dal trasferimento il comune non ha provveduto alla destinazione del bene, il prefetto nomina un commissario con poteri sostitutivi; c) trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, se confiscati per il reato di
cui all’art. 74 del citato testo unico approvato con d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309. Il
comune può amministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente, assegnarlo
in concessione, anche a titolo gratuito, secondo i criteri di cui all’art. 129 del medesimo testo unico, ad associazioni, comunità o enti per il recupero di tossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l’immobile”. Da tale peculiare disciplina
emerge univocamente che gli immobili confiscati a norma della legislazione antimafia sono inalienabili, con l’unica eccezione della vendita finalizzata al risarcimento
delle vittime dei reati di tipo mafioso, e acquisiscono, per effetto della confisca, una
impronta rigidamente pubblicistica, che tipicizza la loro condizione giuridica e la
loro destinazione, non potendo essere distolti da quella normativamente stabilita
(“finalità di giustizia, di ordine pubblico e di protezione civile”, ovvero “finalità
636
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
istituzionali o sociali” in caso di trasferimento degli immobili nel patrimonio dei
comuni).
Pertanto, va riconosciuto che il regime giuridico dei beni confiscati a norma della
l. n. 575 del 1965 è assimilabile a quello dei beni demaniali o a quello dei beni
compresi nel patrimonio indisponibile. Del resto, la conclusione è inequivocamente
confermata dall’art. 2-decies della stessa legge, laddove è specificato che la destinazione degli immobili a finalità di pubblico interesse è effettuata con provvedimento
dell’Amministrazione demaniale (comma 1) e che “anche prima dell’emanazione
del provvedimento del direttore centrale del demanio del Ministero delle finanze,
per la tutela dei beni confiscati si applica il secondo comma dell’art. 823 del codice
civile” (comma 3), a norma del quale è previsto, in riferimento alla condizione giuridica del demanio pubblico, il potere dell’autorità amministrativa di provvedere
alla tutela dei beni demaniali, procedendo sia in via amministrativa, che mediante i
mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso. Le precedenti considerazioni
convergono univocamente verso la soluzione interpretativa per cui è da escludere
che i beni confiscati ad indiziati di mafia possano essere oggetto di un’espropriazione forzata immobiliare, che ne modifichi la destinazione, ancorché tale procedura sia stata promossa da un terzo in buona fede titolare di credito assistito da
garanzia ipotecaria iscritta prima della trascrizione della confisca. Con la conclusiva
precisazione che — una volta riconosciuta a mezzo di incidente di esecuzione penale la posizione di terzietà e l’opponibilità dell’ipoteca — il credito garantito, pur
deprivato della facoltà di procedere direttamente ad esecuzione forzata per soddisfarsi sul ricavato (jus distrahendi), può essere fatto valere soltanto dinanzi al giudice
civile con i residui mezzi di tutela offerti dalla legge».
Questa pronuncia, ed il fatto che il legislatore del 2009 ha accuratamente evitato
di prendere posizione sulla questione (se cioè il creditore di buona fede abbia diritto
a procedere esecutivamente sui beni confiscati), rende auspicabile una pronuncia
delle Sezioni Unite.
Se, infatti, dovesse prevalere la tesi secondo cui anche se del tutto estraneo all’ambiente criminale, il creditore perde comunque lo jus distrahendi (art. 2808 c.c.:
«l’ipoteca attribuisce al creditore il diritto di espropriare...»), in considerazione del
ritenuto acquisto della natura di bene demaniale, ne conseguirebbe:
— da un lato, che il creditore ha diritto di agire contro lo Stato ai sensi dell’azione
generale di arricchimento (art. 2041 c.c.)
— dall’altro, che al creditore andrà riconosciuta una somma pari non all’intero
credito residuo, ma al valore di mercato del bene confiscato, perché questo è il
vantaggio di cui si incrementa il patrimonio erariale
— e, infine, che lo Stato avrà comunque l’esigenza di ottenere la cancellazione
dell’ipoteca (artt. 2882 e 2884 c.c.).
Nel merito, la sentenza della Corte di Cassazione penale n. 12317/05 non appare
condivisibile.
Rassegne di giurisprudenza
637
Va osservato che il richiamo solo del 2o co. dell’art. 823 c.c. costituisce un ulteriore argomento a favore della possibilità di promuovere o proseguire l’esecuzione:
la norma infatti non estende lo speciale regime giuridico dei beni demaniali a quelli
confiscati perché — se questa fosse stata l’intenzione — avrebbe richiamato l’intero
art. 823 e non solo il 2o co. con esclusione peraltro proprio del 1o co. (che prevede,
per l’appunto l’inalienabilità).
Invece, il riferimento solo alla tutela fa pensare che il legislatore abbia voluto
assegnare all’Agenzia delle Entrate (e ora probabilmente al Prefetto) i poteri di
autotutela tipici degli enti pubblici.
6. Sorte del processo esecutivo.
Il vero problema (superato quello relativo alla sopravvivenza dei diritti dei terzi
sui beni sequestrati o confiscati) consiste nella individuazione degli strumenti giuridici con cui attuare i diritti anzidetti.
6.1. Cass. pen., S.U., 9/1999.
Da un autorevole orientamento giurisprudenziale (Cass., S.U., 9/1999) parrebbe
desumersi la necessità di sospendere il processo esecutivo.
Invero, la Corte ha affermato che il conflitto tra l’interesse pubblico ravvisabile
nella confiscabilità del bene e quello economico del creditore pignoratizio (o ipotecario) deve trovare un adeguato equilibrio, mediante l’affermazione del «corollario,
di necessaria conseguenzialità logico-giuridica, della inderogabile ed esclusiva titolarità, in capo all’ufficio giudiziario, del potere di provvedere alla custodia del bene
confiscato (eventualmente, anche mediante la designazione come custode del creditore pignoratizio: cfr. Cass., Sez. Un., 18 maggio 1994, Comit Leasing s.p.a. in
proc. Longarini, rv. 199174, cit.) e di disporne la vendita, assicurando, tuttavia, che,
all’esito della procedura di liquidazione, sul ricavato il creditore stesso possa esercitare lo jus praelationis, conseguendo quanto spettantegli, con priorità rispetto ad
ogni altra destinazione».
In realtà, la sentenza della Corte di Cassazione 9/1999 si occupa di una fattispecie:
— di confisca (per il reato di usura) di certificati di deposito gravati da pegno a
favore di tre istituti di credito
— in cui era divenuta irrevocabile la sentenza penale che aveva disposto la confisca;
— l’ordinanza impugnata era stata emessa in sede di esecuzione della sentenza (ex
art. 666 c.p.p.);
— al contrario, non vi era alcun processo esecutivo mobiliare pendente.
Il problema posto all’attenzione delle Sezioni Unite era quello della soluzione del
«conflitto riconducibile all’esistenza di situazioni giuridiche rette da differenti nor-
638
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
mative, quella riguardante la misura di sicurezza patrimoniale e quella relativa alla
garanzia pignoratizia».
Pertanto, in assenza di un pregresso (e coesistente) procedimento espropriativo
mobiliare, e considerato che la Corte è stata investita della questione in sede di
esecuzione della sentenza penale, è agevole comprendere le ragioni per cui il Supremo Collegio ha potuto limitarsi ad affermare la competenza del giudice dell’esecuzione penale e ad esplicitare il principio del contemperamento delle finalità proprie della confisca con l’interesse del creditore pignoratizio.
In sostanza, considerato che il pretore quale giudice dell’esecuzione penale si
apprestava a liquidare (ai sensi dell’art. 86 disp. att. c.p.p.) i certificati di deposito
confiscati e che era stato proposto ricorso per cassazione avverso l’ordinanza con cui
il giudice aveva ritenuto che «la confisca dovesse prevalere sui redditi reali di garanzia delle banche», per la soluzione della controversia portata all’esame della
Corte, era più che sufficiente affermare che la liquidazione potesse essere portata a
compimento dal giudice dell’esecuzione penale, al contempo precisando che i diritti
dei creditori pignoratizi non potessero essere pretermessi.
Ciò tuttavia non consente alcuna frettolosa conclusione in ordine alla sussistenza
di un (generale) principio di prevalenza del processo penale sul procedimento
civile; al contrario, il principio che si ricava dalla predetta sentenza (sia pure con
la considerazione che essa non si è occupata ex professo della problematica relativa allo strumento processuale di tutela dei diritti dei creditori ipotecari o pignoratizi) è quello che fa leva sul criterio temporale, nel senso che prevale il diritto (e, correlativamente, lo strumento processuale) che è stato affermato per
primo.
In prosieguo, si sottoporrà a verifica questa prima intuizione.
6.2. Cass. 12535/1999.
La Corte ha affermato la competenza del giudice dell’esecuzione penale in ordine
all’accertamento della effettiva estraneità del terzo titolare del diritto reale di garanzia, con la seguente motivazione, che appare utile riportare:
«l’esigenza di assicurare al terzo di buona fede la facoltà di soddisfare le ragioni
creditorie facendo valere nei confronti dello Stato, nuovo proprietario del bene
staggito, la garanzia reale gravante sull’immobile — principio costantemente affermato da questa Corte con riferimento alla disposizione dell’art. 240 c.p.c. (Cass.,
S.U., 2635/1989, 11095/1990) ma ancor più applicabile (Cass. pen. 250/1992 cit.)
alla confisca disposta ai sensi dell’art. 2-ter citata legge — non può ostacolare
l’impegno dello Stato di colpire il prodotto economico-patrimoniale di attività
illecite.
È necessario impedire che il soggetto indiziato possa procurarsi — mediante prestiti bancari e con il sistema di precostituirsi una schiera di creditori di comodo
Rassegne di giurisprudenza
639
muniti di titoli con data certa — denaro di provenienza lecita sottraendo poi alla
confisca i beni vincolati a garanzia di terzi creditori.
L’esigenza di non vanificare l’intervento sanzionatorio dello Stato induce a dubitare e quindi ad escludere che l’accertamento della legittimità del diritto di sequela
vantato dal terzo creditore privilegiato possa consistere nel mero controllo della
data di iscrizione della formalità ipotecaria e nell’astratta verifica dell’esistenza di un
credito, peraltro agevolmente documentabile nell’ipotesi di illecito accordo. L’accertamento del diritto del terzo impone un’indagine più estesa ed approfondita che,
per intuibili ragioni, può essere svolta solo dal giudice penale, con garanzia del
contraddittorio, in sede di procedimento di esecuzione.
Conformemente all’orientamento espresso dalla Corte penale di legittimità
(2885/1996 imp. Tretto, 12-6-1991 imp. Pini), i terzi rimasti estranei al procedimento regolato dal citato art. 2-ter potranno far valere le loro pretese davanti al
giudice dell’esecuzione nelle forme e secondo le modalità previste dagli artt. 665
segg. c.p.p., norme che attribuiscono al giudice dell’esecuzione competenza a decidere in ordine alla confisca e, pertanto, sui diritti che i terzi rimasti estranei al
procedimento penale possano vantare sul bene assoggettato a confisca.
La Sicilcassa dovrà rivolgere al giudice dell’esecuzione penale, ai sensi dell’art.
676 c.p.p., la richiesta di riconoscimento della garanzia reale che assiste il proprio
credito sul bene ormai di pertinenza dello Stato, successore a titolo particolare nel
diritto di proprietà, per il rilievo che il riconoscimento di diritti reali sul bene — che
limitano o riducono il suo contenuto — rientrano, come si è detto, nella competenza
del giudice della confisca».
La sentenza ha quindi accolto l’opposizione di terzo (proposta dalla Amministrazione Finanziaria) all’esecuzione promossa dalla Sicilcassa.
La sentenza è del tutto insoddisfacente, atteso che la motivazione rivela (sebbene
si tratti della Cassazione civile) un accentuato condizionamento di fattori metagiuridici (id est, ragioni di politica criminale).
A ciò si aggiunga che la motivazione è interamente redatta con una tecnica assertiva e solo apparentemente argomentata.
6.3. Cass. 16227/2003.
Con sentenza 16227/2003, la Cassazione Civile ha respinto l’opposizione all’esecuzione con cui la Amministrazione Finanziaria assumeva che il creditore ipotecario
Banco di Sicilia non potesse procedere esecutivamente sui beni immobili, gravati da
ipoteca in suo favore, di proprietà di Salvatore e Michele Greco (entrambi appartenenti alla associazione criminale “Cosa Nostra”).
L’amministrazione finanziaria assumeva che il Banco di Sicilia non potesse procedere esecutivamente, perché i beni erano stati confiscati ai sensi dell’art. 2-ter, 3o co.,
l. 575/1965 (come modificato dall’art. 14, l. 646/1982).
640
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
La Corte (respingendo il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria in opposizione
di terzo all’esecuzione, diretta ad ottenere l’accertamento che «i beni appartenevano, per devoluzione ex lege, al Ministero, liberi da diritti di terzi non accertati con
il provvedimento di confisca») ha quindi:
— rilevato che l’ipoteca si estingue solo per le cause previste dall’art. 2878 c.c.
— ritenuto che il diritto del creditore ipotecario «non può essere fatto valere
innanzi al giudice dell’esecuzione penale, attraverso un incidente di esecuzione», in
quanto «i terzi estranei al procedimento di prevenzione criminale non sono titolati
ad intervenire nel procedimento di applicazione della misura della confisca».
Pertanto, la Corte — pur condividendo la necessità di impedire che gli appartenenti ad organizzazioni criminali si procurino «mediante prestiti bancari e con il
sistema di precostituirsi una schiera di creditori di comodo muniti di titoli con data
certa, denaro di provenienza lecita, sottraendo poi alla confisca i beni vincolati a
garanzia di terzi creditori» — ha affermato che tale obiettivo deve comunque armonizzarsi con il principio della certezza delle situazioni giuridiche, quando (come
nel caso esaminato) si tratta di ipoteca iscritta prima dell’inizio del procedimento di
prevenzione e a favore di soggetto (Banco di Sicilia) estraneo al reato.
La Corte ha infine concluso:
«a tutto concedere, il giudice dell’esecuzione deve, piuttosto, assicurare che il
creditore privilegiato possa concretamente esercitare i suoi diritti sulla cosa oggetto
di confisca, provvedendo a reintegrarne il patrimonio dell’interessato. Naturalmente, questi sono problemi che non interessano direttamente questo giudizio».
Trattasi di una frase sibillina e del tutto incomprensibile, specie se si considera che
è stata respinta l’opposizione di terzo, affermando quindi il diritto dell’istituto di
credito di procedere ad esecuzione forzata.
7. Considerazioni conclusive.
7.1. Inquadramento della problematica giuridica.
Va innanzitutto rilevato che la questione (esaminata dalla sentenza 12535/1999)
non consiste nello stabilire se i diritti del creditore ipotecario debbano soccombere
a fronte di un provvedimento di confisca: trattasi di questione ampiamente superata
dalla giurisprudenza.
Il problema consiste nella decisione se il creditore ipotecario possa procedere alla
vendita forzata, in costanza di sequestro disposto dalla autorità giudiziaria penale,
nei casi in cui non è opponibile nei suoi confronti una confisca (perché avente
natura derivativo-traslativa) successiva al pignoramento.
Si ritiene che si debba dare risposta affermativa, atteso che: — il ricorso al giudice
dell’esecuzione penale (artt. 665 ss. c.p.p.) non è idoneo a soddisfare l’interesse del
creditore a “monetizzare” il bene oggetto del diritto reale di garanzia; quindi, è del
tutto insoddisfacente — sul piano del principio di effettività della tutela giurisdizio-
Rassegne di giurisprudenza
641
nale (desumibile dall’art. 24 Cost. e dall’art. 111 Cost.), che non può non costituire
un canone ermeneutico vincolante — la risposta fornita dalla sentenza 12535/1999;
— la tesi della sentenza della Cass. pen., S.U., 9/1999, che ha stabilito la competenza del giudice penale «di disporre la vendita, assicurando, tuttavia, che, all’esito
della procedura di liquidazione, sul ricavato il creditore stesso possa esercitare lo jus
praelationis, conseguendo quanto spettantegli, con priorità rispetto ad ogni altra
destinazione», è anche essa del tutto insoddisfacente:
— perché non considera che non sempre la sorte dei beni confiscati è quella di essere venduti (anzi, per i beni immobili sottoposti a confisca ex art. 12-sexies, d.l. 306/
1992 o ai sensi della l. 575/1965, è espressamente esclusa la vendita: cfr. § che segue);
— perché non si pone il problema concreto della tecnica di tutela a disposizione
del creditore ipotecario: cioè, non affronta la questione relativa a come possa, il
creditore ipotecario “espropriato” del diritto di procedere ad esecuzione forzata,
procurarsi un titolo esecutivo nei confronti della Amministrazione Finanziaria, acquirente a titolo derivativo; pertanto, il creditore non avrebbe alcuno strumento per
reagire alla inerzia dello Stato, proprio perché la tesi che generalizza il divieto di
vendere l’immobile confiscato (o per il quale è prevista dal codice di procedura
penale la confisca obbligatoria) impedisce al creditore ipotecario anche il ricorso
alla espropriazione del terzo proprietario (ex art. 602 c.p.c.);
— non considera che il creditore ipotecario non dispone di una procedura liquidatoria (promossa dalla Amministrazione Finanziaria) nell’ambito della quale intervenire per soddisfare il suo credito;
— perché assume apoditticamente la necessità di evitare le frodi, dimenticando
che il codice civile accorda strumenti idonei a conseguire tale risultato (azione di
simulazione, revocatoria, nullità per frode alla legge); a tal proposito, va rilevato che
anche gli artt. 192 ss. c.p. contengono norme simili a quelle del codice civile e dirette
ad impedire frodi allo Stato (e agli altri titolari dei crediti indicati nell’art. 189 c.p.)
e l’art. 195 c.p. dispone espressamente che «i diritti dei terzi sono regolati dalle leggi
civili»;
— che la ratio della confisca non consiste nel fatto che il bene è illecito in sé, ma
nella necessità di sottrarre agli indagati o condannati la disponibilità della cosa.
7.2. Destinazione dei beni immobili confiscati diversa dalla vendita.
Con riferimento al primo dubbio in ordine alla condivisibilità della tesi della
sentenza a Sezioni Unite 9/1999, il giudice rileva che i beni confiscati non sono
necessariamente destinati ad essere venduti.
Anzi, si desume l’esatto contrario, dall’art. 2-novies, l. 31-5-1965, n. 575 (introdotto dall’art. 3, 2o co., l. 109/1996 e non modificato dalla l. n. 94 del 15-7-2009),
che dispone:
1. I beni confiscati sono devoluti allo Stato. Il provvedimento definitivo di confisca è comunicato, dalla cancelleria dell’ufficio giudiziario che ha emesso il provve-
642
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
dimento, all’ufficio del territorio del Ministero delle finanze che ha sede nella provincia ove si trovano i beni o ha sede l’azienda confiscata, nonché al prefetto e al
Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno.
2. Dopo la confisca, l’amministratore di cui all’articolo 2-sexies svolge le proprie
funzioni sotto il controllo del competente ufficio del territorio del Ministero delle
finanze. Nel caso in cui risulti la competenza di più uffici del territorio, il controllo
è esercitato dall’ufficio designato dal Ministro delle finanze. L’amministratore può
essere revocato in ogni tempo, ai sensi dell’articolo 2-septies, sino all’esaurimento
delle operazioni di liquidazione, o sino a quando sia data attuazione al provvedimento di cui al comma 1 dell’articolo 2-decies.
Ed infatti, l’art. 2, co. 2-undecies, l. 575/1965 prevede le seguenti destinazioni per
i beni immobili confiscati:
I beni immobili sono:
a) mantenuti al patrimonio dello Stato per finalità di giustizia, di ordine pubblico
e di protezione civile, salvo che si debba procedere alla vendita degli stessi finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso;
b) trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, per finalità istituzionali o sociali. Il comune può amministrare direttamente il bene o assegnarlo in
concessione a titolo gratuito a comunità, ad enti, ad organizzazioni di volontariato di
cui alla l. 11-8-1991, n. 266, e successive modificazioni, a cooperative sociali di cui
alla l. 8-11-1991, n. 381, o a comunità terapeutiche e centri di recupero e cura di
tossicodipendenti di cui al testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, approvato con d.p.r. 9-10-1990, n. 309. Se entro un anno dal
trasferimento il comune non ha provveduto alla destinazione del bene, il prefetto
nomina un commissario con poteri sostitutivi;
c) trasferiti al patrimonio del comune ove l’immobile è sito, se confiscati per il
reato di cui all’articolo 74 del citato testo unico approvato con d.p.r. 9-10-1990,
n. 309. Il comune può amministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente,
assegnarlo in concessione, anche a titolo gratuito, secondo i criteri di cui all’articolo
129 del medesimo testo unico, ad associazioni, comunità o enti per il recupero di
tossicodipendenti operanti nel territorio ove è sito l’immobile.
Non c’è, quindi, alcuna previsione in ordine alla vendita degli immobili, fatta
eccezione per quella «finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di tipo mafioso» e, quindi, frutto di una scelta autonoma ed esclusiva della Amministrazione
finanziaria:
— che prescinde dalle pretese creditorie (cioè, di tutti gli altri soggetti che non
sono le vittime dei reati di tipo mafioso)
— che pare comunque presupporre la sovrapposizione alla confisca di un (pregresso) sequestro conservativo (e, quindi, la norma pare richiamare — implicitamente — l’art. 12-sexies, co. 4-bis, d.l. 306/1992, che dispone: «restano comunque
Rassegne di giurisprudenza
643
salvi i diritti della persona offesa dal reato alle restituzioni e al risarcimento del
danno»).
È solo per i beni aziendali che il 3o co. dell’art. 2-undecies, l. 575/1965 prevede,
alternativamente:
a) l’acquisizione in via definitiva al patrimonio dello Stato
b) o la vendita, per prevalente interesse pubblico o al fine di risarcire le vittime
(ma solo quelle dei reati di tipo mafioso)
c) o la liquidazione, allo stesso fine di cui sopra (e quindi con le medesime obiezioni)
La norma appena citata, infatti, dispone:
I beni aziendali sono mantenuti al patrimonio dello Stato e destinati:
a) all’affitto, quando vi siano fondate prospettive di continuazione o di ripresa dell’attività produttiva, a titolo oneroso, previa valutazione del competente ufficio del
territorio del Ministero delle finanze, a società e ad imprese pubbliche o private, ovvero a titolo gratuito, senza oneri a carico dello Stato, a cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata. Nella scelta dell’affittuario sono privilegiate le soluzioni che garantiscono il mantenimento dei livelli occupazionali. I beni non possono
essere destinati all’affitto alle cooperative di lavoratori dipendenti dell’impresa confiscata se taluno dei relativi soci è parente, coniuge, affine o convivente con il destinatario della confisca, ovvero nel caso in cui nei suoi confronti sia stato adottato taluno
dei provvedimenti indicati nell’articolo 15, commi 1 e 2, della l. 19-3-1990, n. 55;
b) alla vendita, per un corrispettivo non inferiore a quello determinato dalla stima
del competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze, a soggetti che ne
abbiano fatto richiesta, qualora vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico o
qualora la vendita medesima sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei reati di
tipo mafioso. Nel caso di vendita disposta alla scadenza del contratto di affitto dei
beni, l’affittuario può esercitare il diritto di prelazione entro trenta giorni dalla comunicazione della vendita del bene da parte del Ministero delle finanze;
c) alla liquidazione, qualora vi sia una maggiore utilità per l’interesse pubblico o
qualora la liquidazione medesima sia finalizzata al risarcimento delle vittime dei
reati di tipo mafioso, con le medesime modalità di cui alla lettera b).
Per i beni mobili, la legge prevede la loro vendita e la destinazione del ricavato allo
Stato, al netto dei risarcimenti dovuti alle vittime dei reati di tipo mafioso.
La l. n. 94 del 15-7-2009 ha introdotto sul punto una sola modifica (co. 3-bis
dell’art. 2-undecies, l. 575/1965), e cioè la previsione che la custodia dei beni mobili
registrati (prima non oggetto di specifica disciplina) è affidata agli organi di polizia
giudiziaria o ad altri enti pubblici, per finalità di giustizia e protezione civile o tutela
ambientale.
Occupandosi solo della custodia, appare evidente che la norma riguarda solo la
fase precedente alla confisca; non vi è infatti una disposizione equivalente all’art.
100, 4o co., d.p.r. 309/1990 (che al comma 1 prevedeva già l’affidamento in custodia
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
agli organi di P.G.) e che prevede (sia per i beni mobili che per gli immobili) la loro
assegnazione agli organi di polizia, «a seguito di provvedimento definitivo di confisca».
In definitiva, la vendita è:
— prevista come ordinaria per i beni mobili;
— consentita per le aziende, qualora l’Agenzia delle entrate ritenga che sia idonea
a soddisfare un interesse pubblico;
— esclusa per gli immobili.
Sia per gli immobili che per le aziende, la vendita è consentita al solo fine di
risarcire le (sole) vittime dei reati di tipo mafioso.
Questa limitazione consente di apprezzare con immediatezza la rilevanza della
questione relativa alla tutela del creditore di un soggetto che non ha commesso (o
che non è indagato per) questo tipo di reati.
Infatti, se si considera che restano escluse tutte le altre fattispecie delittuose, per
cui è possibile la confisca per equivalente o quella per beni «di dubbia provenienza», spettro che con la l. n. 94 del 15-7-2009 si è ulteriormente dilatato, è agevole
prevedere che la problematica si porrà con sempre maggior frequenza.
Dall’esame delle disposizioni (remote e recenti) in tema di destinazione dei beni
(sequestrati e confiscati) è possibile trarre la conclusione che è errata la generalizzazione del principio affermato dalla sentenza a Sezioni Unite 9/1999 (secondo cui
è il giudice penale a dover procedere alla vendita), nel senso che esso non può essere
estrapolato dalla fattispecie che ha portato alla sua enunciazione (e cioè: vendita, in
sede esecutiva penale, di beni mobili costituiti da certificati di deposito e assenza di
un pregresso processo esecutivo civile).
Infatti, qualora si ritenesse che detto principio abbia una portata assoluta, ciò
condurrebbe al risultato che il titolare del diritto reale di garanzia rimarrebbe privo
di tutela giurisdizionale, atteso che:
— da un lato, non potrebbe promuovere o proseguire un processo esecutivo
ordinario (individuale o concorsuale), sull’immobile (prima pignorato e poi confiscato) nei confronti della Amministrazione Finanziaria, ai sensi dell’art. 602 c.p.c. e
dell’art. 2858 c.c.;
— dall’altro, non avrebbe alcun surrogato né in sede esecutiva penale, né in sede
amministrativa (non si vede infatti come potrebbe il creditore ottenere che l’Amministrazione finanziaria avvii la liquidazione del bene ipotecato a suo favore).
7.3. Impossibilità per il creditore ipotecario di procurarsi un titolo esecutivo nei confronti dell’Amministrazione finanziaria.
Non pare che la (peculiare) situazione creata dalla confisca di un bene pignorato
possa rientrare in alcuna delle ipotesi disciplinate dall’art. 1203 c.c. (surrogazione
legale), atteso che il creditore ipotecario non paga un debito altrui, ma si attende
Rassegne di giurisprudenza
645
semplicemente di soddisfare il suo diritto di credito sull’immobile che ha solo mutato proprietario.
L’unica azione ipotizzabile a favore del creditore ipotecario nei confronti dell’Amministrazione finanziaria è l’azione generale di indebito arricchimento ex art. 2041
c.c., in considerazione dell’indebito acquisto patrimoniale a favore dello Stato, e
cioè di un immobile gravato da ipoteca, ma sul quale è preclusa l’azione esecutiva
del creditore garantito.
È evidente, tuttavia, che la natura sussidiaria dell’azione ex art. 2041 c.c. vieta di
farvi ricorso nel caso di specie, atteso che — a fronte della norma generale di cui agli
artt. 602 c.p.c. e 2858 c.c. — non vi è alcuna norma di diritto speciale che impedisca
(espressamente o implicitamente) al creditore titolare di un diritto reale di garanzia
di procedere esecutivamente su beni confiscati.
7.4. Assenza di una procedura liquidatoria (promossa dall’Amministrazione finanziaria) nell’ambito della quale intervenire per soddisfare
il suo credito.
Un’ulteriore obiezione alla tesi per cui il credito privilegiato deve trovare soddisfacimento nella vendita disposta dal giudice dell’esecuzione penale, è ravvisabile nel
fatto che — una volta confiscato il bene aziendale (ripetesi che la vendita è tendenzialmente ammessa solo per i beni aziendali e non anche per gli immobili) — l’Amministrazione vende col metodo della licitazione privata e/o della trattativa privata:
quindi, con procedure dirette solo ad individuare il miglior acquirente, ma del tutto
disinteressate a consentire ai terzi di intervenire per soddisfare i propri diritti.
Infatti, l’art. 2-undecies, 3o co., l. 575/1965 dispone:
Nella scelta del cessionario o dell’affittuario dei beni aziendali l’Amministrazione
delle finanze procede mediante licitazione privata ovvero, qualora ragioni di necessità
o di convenienza, specificatamente indicate e motivate, lo richiedano, mediante trattativa privata. Sui relativi contratti è richiesto il parere di organi consultivi solo per
importi eccedenti due miliardi di lire nel caso di licitazione privata e un miliardo di lire
nel caso di trattativa privata. I contratti per i quali non è richiesto il parere del Consiglio
di Stato sono approvati, dal dirigente del competente ufficio del territorio del Ministero delle finanze, sentito il direttore centrale del demanio del medesimo Ministero.
È evidente invece che, in presenza di una pluralità di creditori, è comunque necessaria una procedura liquidatoria strutturata in maniera tale da consentire la verifica dei diritti e degli eventuali privilegi di tutti i creditori concorrenti.
Ulteriori argomenti possono essere tratti dalla l. n. 94 del 15-7-2009, che ha modificato l’art. 2-sexies, l. 575/1965 prevedendo:
4-quinquies. Le procedure esecutive, gli atti di pignoramento e i provvedimenti
cautelari in corso da parte di Equitalia S.p.A. o di altri concessionari di riscossione
pubblica sono sospesi nelle ipotesi di sequestro di aziende o società disposto ai sensi
646
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
della presente legge con nomina di un amministratore giudiziario. È conseguentemente sospesa la decorrenza dei relativi termini di prescrizione.
4-sexies. Nelle ipotesi di confisca dei beni, aziende o società sequestrati i crediti
erariali si estinguono per confusione ai sensi dell’art. 1253 c.c.
In primo luogo, la norma ha un ambito di applicazione estremamente limitato,
perché riguarda:
— dal punto di vista soggettivo, solo le procedure esecutive (e quelle a queste
propedeutiche e cioè i sequestri conservativi) promosse dal concessionario per la
riscossione;
— sotto il profilo oggettivo, solo le aziende e i titoli di partecipazione in imprese
collettive (cioè azioni e quote, cosı̀ dovendosi intendere il riferimento alla “società”
che di per sé non è suscettibile di pignoramento, perché se essa è il soggetto debitore, costituisce il soggetto passivo e non l’oggetto dell’esecuzione; se invece il debitore è il socio, i beni da aggredire sono appunto le sue partecipazioni).
Restano quindi esclusi la maggior parte dei beni che costituiscono oggetto delle
procedure esecutive, e cioè:
— beni immobili;
— beni mobili non facenti parte di un complesso aziendale;
— crediti.
Anche dal punto di vista temporale la portata della norma appare estremamente
limitata, perché si applica solo alle procedure esecutive (esattoriali) che sono in
corso al momento in cui viene disposto il sequestro; in altri termini, il concessionario
ben può promuovere l’esecuzione in un momento successivo a quello in cui è ordinato il provvedimento cautelare da parte del giudice penale.
Questa considerazione può probabilmente essere superata col fatto che l’Agenzia
delle Entrate può impartire disposizioni, anche di carattere generale (nell’esercizio
del potere di coordinamento previsto dall’art. 3, d.l. 30-9-2005, n. 203, convertito in
l. n. 248 del 2-12-2005), di non promuovere procedure esecutive su beni oggetto di
sequestro.
Ciò, tuttavia, non consente di ritenere del tutto insussistente ogni questione,
perché ben può avvenire (specie per i beni mobili e per i crediti, e cioè per quelli
dove manca un sistema legale di pubblicità) che il concessionario per la riscossione
li sottoponga a pignoramento, senza essere a conoscenza che essi erano già stati
sottoposti a sequestro penale.
In questo caso, può apparire ragionevole una applicazione analogica, e quindi il
giudice, a seguito di opposizione all’esecuzione del debitore, può sospendere il procedimento.
L’eventuale intervento, nella procedura esattoriale (promossa prima o dopo il
sequestro) di altri creditori, non comporta alcuna conseguenza, perché a norma
dell’art. 54, 2o co., d.p.r. 602/1973 il creditore intervenuto non ha alcun potere di
impulso, potendo solo partecipare alla distribuzione.
Rassegne di giurisprudenza
647
Egli quindi dovrà subire la sospensione del procedimento.
Ai fini che ci riguardano, però, va sottolineato che la norma ha carattere chiaramente eccezionale perché comprime il diritto del creditore di far valere la garanzia
patrimoniale (art. 2740 c.c.) sui beni del debitore.
Si può ritenere che la norma non violi alcun principio costituzionale (art. 24 Cost.,
effettività della tutela giurisdizionale; art. 41 Cost., libertà di iniziativa economica)
proprio perché comporta una limitazione dei soli diritti di credito dello Stato, come
è confermato dalla previsione della estinzione per confusione dei crediti erariali una
volta emessa la confisca.
In definitiva, questa norma conferma che le procedure esecutive individuali e
concorsuali dirette a soddisfare i crediti di soggetti diversi dallo Stato non soffrono
alcuna limitazione, neanche se hanno ad oggetto beni sequestrati.
Per la stessa ragione di tutela del diritto di credito, qualora vi fosse un’esecuzione
esattoriale che subisce la sospensione ai sensi della norma in commento, il creditore
(anche se già intervenuto nella procedura erariale) ha il diritto di promuovere, ex
novo, un ordinario processo esecutivo.
In tal caso, però, il suo pignoramento sarebbe successivo al sequestro e quindi
l’eventuale acquirente subirebbe l’evizione, in caso di confisca del bene.
7.5. Estinzione del debito ipotecario.
Si potrebbe ipotizzare una estinzione del debito ipotecario come decisione autonoma dell’amministratore giudiziario, che potrebbe far leva sulle seguenti norme:
Art. 2, co. 1-octies, l. 575/1965
«le spese necessarie o utili per la conservazione e l’amministrazione dei beni sono
sostenute dall’amministratore mediante prelevamento dalle somme da lui riscosse a
qualunque titolo ovvero sequestrate o comunque nella disponibilità del procedimento» (le parole sottolineate sono state introdotte con la l. n. 94 del 15-7-2009).
Infatti, al 2o co. la norma prevede:
«se dalla gestione dei beni sequestrati non è ricavabile denaro sufficiente per il
pagamento delle spese di cui al comma 1, le stesse sono anticipate dallo Stato, con
diritto al recupero nei confronti del titolare del bene in caso di revoca del sequestro».
Si potrebbe cioè ritenere che, se lo Stato intende soddisfare l’esigenza generalpreventiva di isolare il criminale, può qualificare come spesa di conservazione o
amministrazione i debiti ipotecari gravanti sui beni sequestrati; il soddisfacimento
dei relativi crediti consentirebbe di estinguere le eventuali procedure esecutive già
promosse prima del sequestro, o evitare che vengano avviate in data a questo
successiva.
L’ostacolo maggiore è costituito dal fatto che questo tipo di decisione andrebbe
adottata non già dall’Agenzia delle Entrate (ora, a seguito delle modifiche di cui alla
l. n. 94 del 2009, dal Prefetto, fatta eccezione per i beni sottratti alle organizzazioni
648
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
criminali di tipo mafioso, la cui gestione — incomprensibilmente — è rimasta affidata al Ministero dell’Economia), bensı̀ dal giudice delegato (giudice penale a cui
sono affidati compiti molto incisivi).
È ben difficile che il giudice si assuma la responsabilità di autorizzare l’amministratore giudiziario a pagare i mutui ipotecari, specie se i beni gravati dalle relative
ipoteche non producono frutti (naturali o civili) in misura sufficiente; questo almeno finché non si consoliderà un orientamento giurisprudenziale che riconosca al
creditore ipotecario il diritto di soddisfare il proprio credito promuovendo l’esecuzione forzata sul bene ipotecato. È evidente, infatti, che — qualora si affermasse la
tesi in questa sede sostenuta — il giudice potrebbe agevolmente compiere una valutazione comparativa tra costi e benefici, nel senso che autorizzando l’amministratore a pagare regolarmente il mutuo (o addirittura ad estinguerlo anticipatamente)
potrebbe evitare costi anche notevoli (interessi e spese giudiziali).
Rimane però l’ipotesi (peraltro, frequentissima, come ben sa chi ha esperienza in
materia di procedure esecutive individuali o concorsuali) che il valore di mercato
del bene ipotecato può essere inferiore al debito residuo.
In questo caso, far rientrare nelle spese di conservazione le somme necessarie per
soddisfare il credito assistito da diritto reale di garanzia può comportare una locupletazione del creditore, non giustificata da razionali regole di mercato.
Si potrebbe quindi ipotizzare un accordo transattivo tra amministratore giudiziario
(che necessiterebbe dell’autorizzazione del Tribunale penale: art. 2-sexies, co. 4-ter,
l. 575/1965) e creditore, in modo da corrispondere a quest’ultimo le somme nette che
questi potrebbe ragionevolmente ricavare, qualora l’esecuzione forzata fosse promossa o proseguita e si concludesse col suo naturale epilogo (vendita e distribuzione).
Ma, a ben vedere, questa soluzione è percorribile applicando le regole generali, e
cioè l’adempimento del terzi (art. 1180 c.c. e per la parte transattiva facendo ricorso
al contratto a favore di terzo: art. 1411 c.c.), perché non è ipotizzabile che il debitore
(e cioè il prevenuto o l’indagato o l’imputato) abbia un interesse ad opporvisi.
Inoltre, per i crediti assistiti da garanzia ipotecaria, il terzo acquirente ha il diritto
potestativo di pagare i creditori iscritti (art. 2858 c.c.).
La norma richiede però che il terzo sia già proprietario: non è quindi applicabile
durante la fase del sequestro, ma solo dopo la definitività della confisca.
7.6. Presunta inidoneità del giudizio civile a realizzare l’esigenza di impedire frodi o facili elusioni del contrasto alle attività criminose.
La Cass. pen. (sent. 12535/1999), giustifica la sua decisione (con cui ritiene preclusa la procedura esecutiva ordinaria) con le seguenti affermazioni sillogistiche, che
appaiono del tutto inappaganti:
a) con riferimento alla argomentazione per cui «l’esigenza di assicurare al terzo di
buona fede la facoltà di soddisfare le ragioni creditorie ... non può ostacolare l’im-
Rassegne di giurisprudenza
649
pegno dello Stato di colpire il prodotto economico-patrimoniale di attività illecite, è
agevole osservare:
— che è indimostrato che la vendita forzata comporti un ostacolo alla repressione
penale;
— che, anzi, anche l’espropriazione forzata comporta lo spossessamento prima (in
ogni caso, con la preclusione a compiere atti di disposizione; e, sempre più frequentemente, con la eventuale nomina del custode: art. 560 c.p.c.) e, successivamente, la
perdita del diritto di proprietà da parte del debitore-indiziato (o indagato, o imputato o condannato).
b) Con riguardo alla necessità di impedire frodi, è utile rammentare che anche il
codice civile prevede strumenti tipici ed efficaci per impedire la collusione tra il
debitore e terzi creditori (di comodo) e cioè:
— l’azione revocatoria (art. 2901 c.c.);
— l’azione di simulazione (art. 1414 c.c.);
— la nullità del contratto per illiceità della causa (art. 1343 c.c.);
— la nullità del contratto per frode alla legge (art. 1344 c.c.);
— la nullità del contratto per illiceità del motivo (art. 1345 c.c.).
Si conviene, quindi, con quanto rilevato dalla Cassazione, e cioè che «l’esigenza di
non vanificare l’intervento sanzionatorio dello Stato induce a dubitare e quindi ad
escludere che l’accertamento della legittimità del diritto di sequela vantato dal terzo
creditore privilegiato possa consistere nel mero controllo della data di iscrizione
della formalità ipotecaria e nell’astratta verifica dell’esistenza di un credito, peraltro
agevolmente documentabile nell’ipotesi di illecito accordo».
Rimangono tuttavia del tutto oscure le ragioni adombrate dalla Cassazione per
sostenere la tesi della preclusione della procedura esecutiva.
L’inciso della Corte («l’accertamento del diritto del terzo impone un’indagine più
estesa ed approfondita che, per intuibili ragioni, può essere svolta solo dal giudice
penale, con garanzia del contraddittorio, in sede di procedimento di esecuzione») è
infatti un assioma del tutto indimostrato.
Al contrario, nel processo civile non vi sono prove legali (che, quindi, possano
limitare il giudizio): è solo un problema — per le parti e, quindi e ovviamente, anche
per la Amministrazione finanziaria — di offrire al giudice civile le prove (anche
indiziarie o presuntive: art. 2729 c.c.) necessarie per dimostrare le (ipotetiche) condotte (di simulazione, accordo illecito, ecc.) poste in essere dal debitore e dal terzo.
È, infine, appena il caso di aggiungere che la Amministrazione Finanziaria ben
potrebbe produrre nel giudizio civile (di opposizione alla esecuzione) le prove acquisite dal Pubblico Ministero nei procedimenti penali o di prevenzione.
Va infatti considerato che per i beni sottoposti a sequestro e gravati da diritti reali
(usufrutto, ipoteca, pegno, ecc.) il giudice, quando adotta la misura cautelare reale
(o la corrispondente misura di prevenzione), deve determinare i poteri del custode
(o dell’amministratore giudiziario).
650
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Ad esempio:
A) per i diritti reali di godimento, con particolare riguardo ai diritti di usufrutto,
uso o abitazione a favore del terzo estraneo, ai sensi degli artt. 981 e ss. c.c., se è in
buona fede e quindi se deve rimanere estraneo alla misura coercitiva, gli va assicurato il pacifico esercizio dei poteri a lui riconosciuti dal codice, e cioè:
— il possesso (art. 982 c.c.) del bene e delle sue accessioni;
— i frutti naturali e civili (art. 984 c.c.);
— indennità per i miglioramenti (art. 985 c.c.);
— stipulazione di locazioni che sopravvivono alla cessazione dell’usufrutto, se
hanno data certa, per il periodo massimo di cinque anni dall’estinzione (art. 999
c.c.);
B) per i diritti reali di garanzia:
a) per il pegno, il creditore pignoratizio di buona fede ha diritto
— di conseguire il possesso e a tutelarlo con i rimedi previsti dalla legge (art. 2789
c.c., art. 1168);
— a ritenere la cosa costituita in pegno, se il proprietario (o colui che l’ha costituita in pegno) non ha pagato il capitale e gli interessi (art. 2794 c.c.);
— a chiedere al giudice civile l’autorizzazione a vendere la cosa data in pegno, se
vi è pericolo di deterioramento (art. 2795 c.c.);
— a proporre identica istanza, per il caso di inadempimento del debitore (art.
2796 c.c.);
— a chiedere l’assegnazione, sempre in caso di inadempimento (art. 2798 c.c.);
b) per l’ipoteca, il creditore ipotecario può:
— agire a tutela dell’immobile, se vi è pericolo di danno (art. 2813 c.c.), cosa non
del tutto impossibile a verificarsi, considerato che non sempre il custode o l’amministratore giudiziario procedono all’effettivo spossessamento dell’indagato o prevenuto;
— incassare i canoni, quantomeno dopo il pignoramento (Cass. 9429/1992, Cass.
572/1982, Cass. 2355/1978), ai sensi degli artt. 2808 e 2912 c.c.
Pertanto, proprio la sentenza a Sezioni Unite n. 9 del 1994 che ha ammesso la
possibilità di coesistenza tra situazioni giuridiche apparentemente configgenti (e
cioè il custode o amministratore giudiziario e il titolare di un diritto reale), fa ritenere che l’argomento relativo alla inidoneità del giudizio civile a consentire la prova
della buona fede può essere superato consentendo all’Avvocatura dello Stato di
produrre gli accertamenti effettuati dal P.M. o dal giudice, accertamenti che — in
presenza di titolari di diritti reali (di godimento o di garanzia) apparentemente
estranei alle indagini o al procedimento per l’applicazione della misura di prevenzione — vanno necessariamente adottati perché il custode o l’amministratore devono avere una esatta delimitazione dei propri compiti e poteri.
In definitiva, si deve escludere la tesi della competenza esclusiva del giudice penale, perché essa non è prevista da alcuna norma.
Rassegne di giurisprudenza
651
Si deve quindi fare ricorso alle norme ordinarie in materia di competenza, e pertanto se la controversia insorge sul diritto del terzo di proseguire l’esecuzione immobiliare, la controversia spetta al giudice dell’esecuzione, ai sensi degli artt. 615 e
624 c.p.c.
7.7. Creditori chirografari e/o titolari di privilegi mobiliari.
In ogni caso, anche ammesso che sia esatta la conclusione per cui spetta al giudice
penale stabilire se devono essere ricompresi nel sequestro o nella confisca anche i
diritti reali di terzi (di godimento o di garanzia), rimane sempre la questione relativa
al diritto di procedere esecutivamente in capo ai creditori chirografari o ai creditori
che sul bene vantano un privilegio speciale privo di un sistema di pubblicità e che
abbiano proposto l’esecuzione (o ottenuto un sequestro civile conservativo) prima
della trascrizione di quello penale.
È evidente che, qualora si dovesse consolidare l’indirizzo secondo cui il creditore
non ha comunque il diritto di procedere esecutivamente, ciò risolverebbe il problema anche dei creditori chirografari o dei creditori che sul bene vantano un privilegio speciale privo di un sistema di pubblicità e che abbiano proposto l’esecuzione (o ottenuto un sequestro civile conservativo) prima della trascrizione di quello
penale, perché ciò comporterebbe la sospensione prima e l’improcedibilità poi dei
processi esecutivi ordinari.
In proposito, va tuttavia sottolineato che la sentenza 12317/2005 della Cassazione
penale (nella parte in cui afferma la inalienabilità dei beni confiscati) trova una
smentita nell’art. 2-sexies, co. 4-quinquies, l. 575/1965, che prevede la sospensione
delle sole procedure esecutive esattoriali: è evidente che se il legislatore avesse inteso
avallare la tesi favorevole all’arresto delle procedure esecutive, e quindi in sostanza
all’esproprio dello jus distrahendi in capo al creditore ipotecario, o in generale alla
tutela esecutiva in capo al creditore chirografario, non avrebbe limitato la sua previsione alle sole esecuzioni esattoriali, ma l’avrebbe generalizzata.
La specificità dei debiti erariali, invece, avrebbe potuto trovare adeguato riconoscimento con la previsione dell’estinzione per confusione.
7.8. Ratio della confisca.
La Cass. pen. sent. n. 2860 del 1994 (imp. Moriggi), ha affermato, in tema di
confisca prevista dall’art. 12-sexies, d.l. 22-4-1994, n. 246 (non convertito, ma il cui
testo è stato riprodotto dal d.l. 399/1994, con identico contenuto e trasposto nell’art. 12-sexies, d.l. 306/1992):
«la cosa viene sottoposta a confisca non a causa della sua illiceità, bensı̀ al fine di
sottrarre la disponibilità ai soggetti responsabili dei reati ivi elencati, di modo che,
contrariamente alla confisca inerente alla cosa nella sua interezza, l’effetto ablativo
652
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
può coesistere con la titolarità, di terzi estranei al reato, di garanzia reale sulla medesima, atteso l’oggetto circoscritto della misura di sicurezza patrimoniale».
Questa affermazione, che appare del tutto condivisibile:
a) da un lato, conferma che il sequestro ex art. 12-sexies non implica alcuna preclusione alla prosecuzione della vendita forzata, perché l’immobile — non essendo
illecito in sé — non è neanche incommerciabile;
b) dall’altro lato, consente una prognosi (problematicamente) favorevole (nel senso
che non è di competenza del giudice dell’esecuzione) in ordine alla appetibilità del
bene, perché è agevole considerare che l’autorità giudiziaria penale che procede (al
momento della aggiudicazione e quindi del decreto di trasferimento) ben può valutare
in senso positivo una richiesta (dell’acquirente) di revoca del sequestro ex art. 12sexies, perché la vendita del bene a terzi fa venir meno la necessità preventiva di sottrarre all’indagato (o all’imputato o al proposto) la disponibilità del bene.
Ne consegue l’indubbia opportunità di inserire, nella pubblicità, un idoneo avviso
in ordine alla situazione giuridica del bene.
È evidente che se il timore (di chi sposa la tesi “pan-penalistica”) consiste nel fatto
che l’immobile potrebbe essere acquistato da soggetti collusi con il proprietario, lo
strumento per impedire che ciò accada non è certamente “un esproprio” (generalizzato ed immotivato) del diritto del creditore di procedere alla esecuzione forzata,
bensı̀ adeguati accertamenti da parte degli organi requirenti sull’acquirente, per
(eventualmente) estendere l’efficacia del sequestro anche al nuovo proprietario,
qualora risultasse colluso con il proposto o con l’indagato e, quindi, qualora l’autorità giudiziaria penale ritenesse che la vendita non sia idonea a realizzare le esigenze
perseguite dal sequestro (disposto ai sensi dell’art. 321 c.p.p. o dell’art. 12-sexies,
d.l. 306/1992 o dell’art. 2-ter, 2o co., l. 575/1965).
7.9. Regime di circolazione: opponibilità della trascrizione precedente
alla confisca.
Con sentenza n. 3028 del 27-11-2000/11-1-2001 la Cassazione ha affermato la
trascrivibilità del sequestro di cui all’art. 12-sexies, d.l. 306/1992, valorizzando
l’aspetto teleologico (cioè, il fatto che detto sequestro è finalizzato alla confisca) e
ponendo l’accento sulla natura di acquisto derivativo, affermando:
«la necessaria funzionalità del sequestro preventivo alla confisca — quale modo di
acquisto a titolo derivativo — prevista dai commi 1 e 2 dell’art. 12-sexies delinea la
possibilità di incidere mediante verifiche ermeneutiche informate al principio di
ragionevolezza e, dunque, secundum Constitutionem, che solo apparentemente travalicando il modulo codicistico, possano garantire la realizzazione delle finalità perseguite dal legislatore, secondo un modello incentrato, non soltanto sulla misura
cautelare, ma anche sulle sequenze procedimentali intrinsecamente connesse all’utilizzazione di essa».
Rassegne di giurisprudenza
653
Orbene, la Corte ha affermato la applicabilità in via analogica dell’art. 2-quater,
l. 575/1965 (che, appunto, ammette la trascrizione del sequestro disposto nel procedimento di prevenzione) anche al sequestro emesso ai sensi dell’art. 12-sexies,
d.l. 306/1992, ponendo l’accento sulla «particolare ineludibile finalizzazione alla
confisca del sequestro previsto da tale disposizione ed i meccanismi volti a neutralizzare forme di interposizione — fittizie o reali che esse siano».
La Cassazione, affermando l’applicabilità al sequestro ex art. 12-sexies, in via analogica, dell’art. 2-quater citato, ha quindi limitato la non trascrivibilità solo del sequestro preventivo (sent. 4262/2000).
D’altra parte, va considerato che l’art. 2645 c.c. afferma espressamente che «deve
del pari rendersi pubblico ogni altro atto o provvedimento che produce in relazione
a beni immobili o a diritti immobiliari taluni degli effetti dei contratti menzionati
nell’art. 2643 c.c.».
In conclusione, dalla trascrizione del sequestro preventivo ex art. 12-sexies,
d.l. 306/1992 (combinata con la natura di acquisto derivativo che caratterizza la
confisca), deriva che anche l’immobile sottoposto a misura cautelare reale soggiace,
quanto al regime di circolazione, a quello previsto dal codice civile: prevalgono
quindi gli atti trascritti prima, ai sensi dell’art. 2644 c.c. in forza del principio della
priorità della trascrizione.
Da ciò consegue la legittimità della prosecuzione della procedura esecutiva promossa con atto di pignoramento trascritto prima della trascrizione del sequestro
conservativo.
È bene tuttavia chiarire (a scanso di equivoci) che il decreto di trasferimento (in
caso di prosecuzione della procedura esecutiva e di conseguente vendita degli immobili) non potrà contenere l’ordine al Conservatore dei Registri Immobiliari di
cancellare la trascrizione del sequestro penale, atteso che:
— l’art. 586, 1o co., c.p.c. consente al giudice dell’esecuzione di ordinare che si
cancellino le trascrizioni dei pignoramenti;
— la norma si può estendere in via analogica al sequestro conservativo, a norma
dell’art. 158 disp. att. c.p.c.
In assenza di previsioni normative in ordine al sequestro penale, si deve ritenere
che dal principio di autonomia degli ordinamenti giuridici deriva la conseguenza
che la vicenda cautelare penale deve trovare un suo epilogo (con la restituzione ex
artt. 262 e 323 c.p.p.; o con la confisca, ex art. 240 c.p.) all’interno dell’ordinamento
penale.
Ulteriore conferma deriva dal nuovo testo dell’art. 104 disp. att. c.p.p. (introdotto
con l’art. 2, l. n. 94 del 15-7-2009) che prescrive le seguenti modalità di esecuzione
del sequestro preventivo:
«1. Il sequestro preventivo è eseguito:
a) sui mobili e sui crediti, secondo le forme prescritte dal codice di procedura
civile per il pignoramento presso il debitore o presso il terzo in quanto applicabili;
654
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
b) sugli immobili o mobili registrati, con la trascrizione del provvedimento presso
i competenti uffici;
c) sui beni aziendali organizzati per l’esercizio di un’impresa, oltre che con le
modalità previste per i singoli beni sequestrati, con l’immissione in possesso dell’amministratore, con l’iscrizione del provvedimento nel registro delle imprese
presso il quale è iscritta l’impresa;
d) sulle azioni e sulle quote sociali, con l’annotazione nei libri sociali e con l’iscrizione nel registro delle imprese;
e) sugli strumenti finanziari dematerializzati, ivi compresi i titoli del debito pubblico, con la registrazione nell’apposito conto tenuto dall’intermediario ai sensi dell’articolo 34 del decreto legislativo 24 giugno 1998, n. 213. Si applica l’articolo 10,
comma 3, del decreto legislativo 21 maggio 2004, n. 170».
La nuova norma ha ormai una applicazione generalizzata, perché si applica non
solo al sequestro preventivo, ma anche:
— al sequestro e alla confisca disposti ai sensi della legge antimafia (art. 2-quater,
l. 575/1965);
— al sequestro e alla confisca disposti ai sensi dell’art. 12-sexies c.p.c. (e quindi;
sia per i beni di ingiustificata provenienza, sia a quelli per equivalente).
La norma ha l’obiettivo di superare l’orientamento giurisprudenziale che escludeva la trascrivibilità del sequestro preventivo (Cass. 4262/2000, cit.).
È evidente che il legislatore ha scelto di richiamare, per le modalità di esecuzione
dei provvedimenti coercitivi reali, tutte le norme del codice di procedura civile
(anche per i beni mobili e crediti).
L’espresso richiamo, per i beni immobili e per i mobili registrati, all’istituto della
trascrizione, comporta l’applicazione dell’intera normativa relativa alla soluzione
dei conflitti tra più aventi diritto, e quindi anche le norme in tema di pignoramento
e di tutela dei creditori.
Ciò comporta, però, anche la tutela dei chirografari, perché gli artt. 2914 e 2915
c.c. riguardano tutti i beni del debitore.
In particolare, l’ampia formulazione dell’art. 2915 c.c. (che disciplina l’inopponibilità degli «atti che importano vincoli di indisponibilità, se non sono stati trascritti
prima del pignoramento, quando hanno per oggetto beni immobili o beni mobili
iscritti in pubblici registri, e, negli altri casi, se non hanno data certa anteriore al
pignoramento» si applica certamente anche alle misure cautelari reali, perché anche
il sequestro preventivo crea un vincolo di indisponibilità (Cass. pen. 35376/2008).
7.10. Considerazioni conclusive.
La conclusione favorevole alla proseguibilità del processo esecutivo appare confermata, indirettamente, dalla sentenza della Cass. pen. n. 29951 del 24-5-2004/
9-7-2004.
Rassegne di giurisprudenza
655
La Corte ha infatti distinto:
— il sequestro impeditivo, disciplinato dal 1o co. dell’art. 321 c.p.p.,
— dal sequestro funzionale alla confisca (di cui al 2o co. dello stesso art. 321
c.p.p.).
Nel primo caso, la Cassazione ha affermato il principio per cui la finalità del
sequestro (evitare che la libera disponibilità della cosa possa «aggravare o protrarre
le conseguenze del reato o agevolare la commissione di ulteriori») ben può ipotizzarsi che venga meno a seguito della dichiarazione di fallimento.
La Corte ha quindi stabilito che «il giudice penale deve effettuare una valutazione
di bilanciamento del motivo della cautela e delle ragioni attinenti alla tutela dei
legittimi interessi dei creditori, anche attraverso la considerazione dello svolgimento
in concreto della procedura concorsuale», concludendo quindi nel senso che «il
bene sequestrato potrà anche essere restituito all’ufficio fallimentare, ferma restando, ovviamente, la possibilità di nuova applicazione della misura di cautela
reale, nei casi in cui ritorni attuale la sussistenza dei presupposti».
Nel caso del sequestro preordinato alla confisca, la Cassazione ha introdotto una
ulteriore distinzione.
Se si tratta di cose per cui è prevista la confisca obbligatoria di cui al 2o co.
dell’art. 240 c.p., la loro incommerciabilità rende «il sequestro ... assolutamente
insensibile alla procedura fallimentare, sull’assorbente rilievo che la legge vuole
escludere che il bene sia rimesso in circolazione, sia pure attraverso l’espropriazione del reo», concludendo quindi che in questo caso «le ragioni di tutela dei terzi
sono destinate ad essere pretermesse rispetto alla prevalente esigenza di tutela della
collettività».
Invece, in caso di confisca facoltativa di cui al 1o co. dell’art. 240 c.p., la Corte:
— ha rilevato che la sua funzione è quella di «evitare che il reo resti in possesso
delle cose che sono servite a commettere il reato o che ne sono il prodotto o il
profitto»;
— che il «medesimo effetto viene realizzato, per altra via, dallo spossessamento
derivante dalla declaratoria fallimentare».
Ha quindi concluso nel senso che in caso di richiesta del curatore di restituzione
delle cose sequestrate, «l’autorità giudiziaria dovrà accertare caso per caso le concrete conseguenze della eventuale restituzione, tenendo anche presenti le modalità
di svolgimento della procedura concorsuale, le qualità dei creditori ammessi al passivo e l’ammontare di questo, al fine di considerare le possibilità che l’imputato,
anche qualora abbia agito attraverso lo schermo societario, ritorni in possesso delle
cose che costituiscono il prodotto o il profitto del reato».
La sentenza citata si è occupata di una fattispecie di sequestro preventivo ex art.
321, 2o co., c.p.p., finalizzato alla confisca facoltativa (trattandosi di conti correnti
sequestrati a seguito dell’accertamento di reati di truffa ai danni dello stato ex art.
640, 2o co., n. 1, c.p. ed espressamente qualificati come profitto di reato).
656
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
La precisazione è necessaria, atteso che in tema di confisca del profitto di reato di
truffa ai danni dello Stato (come anche nei casi di reati di cui agli artt. 640-bis,
640-ter, 644 c.p.) le norme (rispettivamente, l’art. 322-ter e l’art. 644, ult. co., c.p.)
prevedono l’obbligo per il giudice di procedere alla confisca (tra gli altri) del profitto del reato.
Vi è quindi una apparente contraddizione tra il riferimento alla confisca facoltativa (come espressamente ritenuta dalla sentenza in esame, con il riferimento al
1o co. dell’art. 240 c.p.) e l’art. 322-ter c.p., che esclude qualsiasi valutazione discrezionale da parte del giudice penale.
Tuttavia, il fatto che si tratti di confisca obbligatoria (nel senso che il giudice non
ha alcun potere discrezionale di valutazione, come invece consente il 1o co. dell’art.
240 c.p.) non significa che si tratti di obbligatorietà nel senso classico, cioè di confisca a norma del 2o co. dell’art. 640 c.p. (cioè, delle cose che costituiscono il prezzo
del reato o delle cose «la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione
delle quali costituisce reato»).
Pare quindi più opportuno sostituire alla dicotomia facoltativa-obbligatoria (per
le ipotesi di confisca di cui al 1o e 2o co. dell’art. 240 c.p.) quella, analoga ma meno
equivoca, di repressiva-preventiva, utilizzata negli scorsi decenni.
In proposito, giova rammentare la sentenza n. 1207 del 30-5-1967 (GC, 1968, 108
ss.), che ha elaborato la seguente distinzione:
— la confisca repressiva «ha natura repressiva e sanzionatoria in conseguenza di
un fatto contrario all’ordine pubblico del quale il proprietario e, in certi casi, il
detentore, si è reso colpevole»;
— la confisca preventiva, invece, «costituisce un istituto di carattere preminente
amministrativo, tende a sottrarre al privato dominio cose che per la loro particolare
natura o per lo stato in cui si trovano possono costituire pericolo per l’incolumità dei
cittadini e dei loro beni».
In altri termini, in presenza di specifiche ipotesi criminose per le quali è previsto
l’obbligo di confisca delle cose che ne costituiscono il profitto (in deroga al 1o co.
dell’art. 640 c.p., che prevede la confisca facoltativa), dette cose non divengono
incommerciabili, atteso che neanche in queste specifiche (e tassative) ipotesi, la cosa
è “strutturalmente funzionale alla commissione del reato”, costituendone invece un
risultato.
Va in proposito rammentato che la Corte di Cassazione ha da tempo affermato (in
tema di confisca prevista dall’art. 12-sexies, d.l. 22-4-1994, n. 246, non convertito,
ma il cui testo è stato riprodotto dal d.l. 399/1994, con identico contenuto, nell’art.
12-sexies, d.l. 306/1992):
«la cosa viene sottoposta a confisca non a causa della sua illiceità, bensı̀ al fine di
sottrarre la disponibilità ai soggetti responsabili dei reati ivi elencati, di modo che,
contrariamente alla confisca inerente alla cosa nella sua interezza, l’effetto ablativo
può coesistere con la titolarità, di terzi estranei al reato, di garanzia reale sulla me-
Rassegne di giurisprudenza
657
desima, atteso l’oggetto circoscritto della misura di sicurezza patrimoniale» (sent.
n. 2860 del 1994, imp. Moriggi).
In conclusione, si ritiene che l’obbligo per il giudice penale di pronunciare — a
norma dell’art. 12-sexies, d.l. 306/1992 — la confisca «del denaro, dei beni o delle
altre utilità di cui il condannato non può giustificare la provenienza e di cui, anche
per interposta persona fisica o giuridica, risulta essere titolare o avere la disponibilità a qualsiasi titolo in valore sproporzionato al proprio reddito» non comporta la
loro incommerciabilità e, quindi, non sono ravvisabili le ragioni che inducono il
legislatore a vietarne in modo assoluto la loro circolazione.
La Corte non esplicita se — nel caso di sequestro finalizzato alla confisca facoltativa di cui all’art. 240, 1o co., c.p. — la procedura fallimentare (e quindi anche quella
esecutiva individuale) possa fare il suo corso, e quindi se si possa addivenire alla
liquidazione, anche in pendenza del sequestro.
Sul punto, pertanto, non resta che ribadire le argomentazioni sviluppate in precedenza e, quindi, appare tutt’ora valida la conclusione positiva, atteso che non vi è
alcuna preclusione normativa in tal senso.
Sono di intuitiva evidenza le difficoltà che possono sorgere nella liquidazione di
beni di cui la procedura esecutiva non può liberamente disporre: è sufficiente considerare che il curatore (nel fallimento) e il custode ex art. 559 c.p.c. (o ausiliario, ex
art. 68 c.p.c.) nella procedura esecutiva individuale — non avendo libero accesso ai
beni sequestrati — non potranno far visionare i beni (e, prima ancora, farli stimare).
Inoltre, non sfugge il costo (in termini di deprezzamento del bene) dell’alea in
ordine:
— sia alle decisioni dell’autorità giudiziaria penale su eventuali richieste di restituzione (dell’organo della procedura esecutiva penale);
— sia alla sorte definitiva del bene (se, cioè, il giudice penale applicherà o meno la
confisca).
Tuttavia, non pare si possa dubitare che l’esortazione della Cassazione ad «uno
scambio di informazioni e di conoscenze tra l’autorità giudiziaria penale e quella
civile» possa essere estesa anche ad una (auspicabile) collaborazione tra gli organi
delle due procedure (penale ed esecutiva civile), nel senso che in sede penale si potrà
valutare, di volta in volta, la possibilità di autorizzare (il curatore o il custode o
l’ausiliario) ad accedere ai beni sequestrati, previa adozione delle cautele che l’autorità procedente (P.M. o giudice penale) riterrà più opportune.
Infine, va osservato che anche quando il sequestro penale è successivo al pignoramento, il creditore procedente sia legittimato ad adire l’autorità giudiziaria che lo
ha disposto, in sede di incidente di esecuzione o comparendo innanzi al Tribunale ai
sensi dell’art. 2-ter, l. 575/1965, chiedendone la revoca.
La posteriorità della trascrizione del vincolo penale non dovrebbe impedire la
configurazione di una carenza di interesse, perché l’esistenza di una trascrizione
pregiudizievole (a cui, eventualmente, acceda anche il possesso in capo al custode
658
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
penale) costituisce certamente un ostacolo alla libera circolazione del bene e,
quindi, un fattore idoneo ad incidere negativamente sul suo valore di mercato.
A riprova, è sufficiente considerare che anche quando si vende in sede di esecuzione forzata un bene gravato da fondo patrimoniale (quando è stato revocato, o
comunque quando il creditore procede per debiti contratti nell’interesse della famiglia: art. 170 c.c.), la trascrizione del fondo permane, e notoriamente costituisce
una notevole remora all’iscrizione di ipoteche volontarie.
Pertanto, pur ritenendo che quando è in contestazione il diritto di procedere
esecutivamente in capo al creditore procedente, la competenza sia del giudice dell’esecuzione, potrebbe essere utile comunque che il creditore adisca l’autorità giudiziaria penale per ottenere la cancellazione della trascrizione del sequestro.
DECISIONI COMMENTATE
TRIBUNALE DI TERNI, 9 febbraio 2009, n. 194 — Montanaro Presidente; Equitalia S.p.a. Scatolini e Banca Nazionale del lavoro S.p.a.
Responsabilità patrimoniale — Cause di prelazione — Privilegio generale su mobili con
diritto alla collocazione sussidiaria sugli immobili — Condizioni di esercizio del privilegio.
La collocazione sussidiaria del credito privilegiato ai sensi dell’art. 2776 c.c. sul ricavato della
vendita forzata immobiliare è subordinata all’infruttuosa esecuzione sui mobili. Perché il creditore possa avvalersi di tale diritto, è necessario che il credito privilegiato risalga a data anteriore all’inizio della procedura esecutiva immobiliare e che il pignoramento mobiliare infruttuoso sia stato compiuto entro l’udienza di discussione del progetto di distribuzione, ancorché in
data successiva al pignoramento dell’immobile.
FATTO
Con atto depositato in data 14.1.2004 la Servizi Riscossione Tributi Terni S.p.A. è
intervenuta per un credito complessivo di euro 53.146,47 (di cui euro 34.995,32 in
privilegio ed euro 18.151,15 in chirografo), oltre interessi ai sensi dell’art. 30 del
D.P.R. 29.9.1973, n. 602 e rimborso delle spese ai sensi dell’art. 17, co. 6, del D.Lgs.
13.4.1999, n. 112, nella procedura esecutiva immobiliare n. 42/2003 promossa dalla
Banca Nazionale del Lavoro S.p.A. nei confronti di Mario Scatolini.
All’esito della ripartizione parziale del ricavato della vendita il Cancelliere ha certificato residuare la somma di euro 32.316,66.
All’udienza del 22.10.2007 fissata per la distribuzione della suddetta somma
l’Equitalia Terni S.p.A. (denominazione assunta dalla Servizi Riscossione Tributi
Terni S.p.A. a seguito della deliberazione dell’assemblea dei soci del 24.4.2007,
giusto verbale redatto dal notaio in Roma Paolo Castellini, iscritta nel Registro delle
Imprese di Terni il 14.5.2007) ha depositato il verbale dell’infruttuoso tentativo di
esecuzione mobiliare nei confronti del debitore e ha quindi chiesto l’assegnazione di
euro 14.466,88 con collocazione sussidiaria ai sensi dell’art. 2776, co. 2, c.c., senza
contestazione alcuna da parte del creditore procedente. Il g.e., tuttavia, rilevato che
il presupposto per la collocazione del creditore intervenuto in via privilegiata si era
perfezionato successivamente al momento in cui era stato effettuato l’intervento, e
che l’esecuzione dei mobili poteva anche essere tentata prima di quel momento,
invitava le parti a proporre un’ipotesi di riparto sulla base della collocazione al
chirografo di tutti i creditori ancora soddisfatti.
660
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Con ricorso depositato in data 7.11.2007 l’Equitalia Terni S.p.A. ha proposto
opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617, co. 2, c.p.c., avverso l’ordinanza
del giudice dell’esecuzione immobiliare di questo Tribunale che ha escluso la collocazione privilegiata sussidiaria sugli immobili, ai sensi dell’art. 2776, co. 2, c.c., in
relazione al credito di euro 14.466,88, chiedendo la sospensione dell’esecuzione.
All’udienza del 6.12.2007 fissata per l’assunzione dei provvedimenti indilazionabili e per provvedere sulla richiesta sospensione dell’esecuzione, il g.e., ritenuto
sostanzialmente che quello di cui all’art. 2776 c.c. costituisca un privilegio che viene
ad esistenza nel momento in cui viene documentato il pignoramento negativo sui
beni mobili del debitore esecutato e che “costituisce principio generale quello in
forza del quale i privilegi sorti dopo il pignoramento non sono rilevanti”; rilevato
che nel caso di specie la natura privilegiata del credito non preesisteva alla domanda
di intervento; ha rigettato l’istanza di sospensione e ha assegnato termine fino al
30.1.2008 per l’introduzione della fase di merito del giudizio di opposizione con
atto di citazione.
L’Equitalia Terni S.p.A., con atto notificato rispettivamente in data 12.1.2008 ed
in data 15.1.2008, ha citato il debitore esecutato e il creditore procedente a comparire all’udienza del 12.5.2008, con l’avvertimento di rito.
DIRITTO
L’art. 2776 c.c. prevede un istituto singolare nel nostro ordinamento, quello della
collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili di particolari categorie di crediti
assistiti da privilegio generale sui beni mobili del debitore, in caso di infruttuosa
esecuzione sui beni mobili, secondo l’ordine dei privilegi stessi e non in maniera
proporzionale all’entità dei crediti (cfr. Cass. 19.11.1979, n. 6036), con preferenza
rispetto ai crediti chirografari.
In particolare, la suddetta disposizione (nel testo risultante dalla modifica operata
dall’art. 1, co. 3, della l. 29.5.1982, n. 297) prevede nei tre commi di cui si compone
altrettante tipologie di crediti, legate da un ordine graduale interno di priorità.
Il primo rango di collocazione sussidiaria compete ai crediti relativi al trattamento
di fine rapporto, ai crediti per l’indennità dovuta in caso di recesso senza preavviso
dal contratto di lavoro a tempo indeterminato e ai crediti per indennità dovuta per
cessazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato per morte del prestatore di
lavoro (art. 2118 c.c.).
Un rango subordinato rispetto ai crediti suddetti viene riconosciuto a quelli per le
spese funebri, d’infermità ed alimenti (art. 2751 c.c.), ai crediti per retribuzioni e
provvigioni, ai crediti dei coltivatori diretti, delle società o enti cooperativi e delle
imprese artigiane (art. 2751-bis c.c.), nonché ai crediti per i contributi dovuti a
istituti, enti o fondi speciali compresi quelli sostitutivi o integrativi, che gestiscono
forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (art.
2753 c.c.).
Decisioni commentate
661
Ultimo rango compete ai crediti dello Stato per le imposte, le pene pecuniarie e le
sopratasse dovute secondo le norme relative all’I.V.A., assistiti da privilegio generale
sui beni mobili del debitore ex art. 2752, co. 3, c.c., che sono collocati sussidiariamente sul prezzo degli immobili con preferenza rispetto ai creditori chirografari, ma
dopo i crediti di cui alle categorie dei primi due commi dell’art. 2776 c.c.
A ben considerare, la peculiarità dell’istituto è quella di consentire la partecipazione di un credito assistito da privilegio mobiliare sul ricavato della vendita dei
beni immobili senza, però, modificare l’ordine generale di prelazione, e quindi senza
arrecare pregiudizio ai crediti assistiti da privilegio generale sugli immobili o da
ipoteca immobiliare (cfr. Cass. 19.11.1979, n. 6036).
Da quanto si è detto emerge, dunque, come non si sia in presenza di un privilegio
sugli immobili, ma appunto di una collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili di un credito assistito da privilegio generale sui beni mobili del debitore, e ciò in
considerazione di una valutazione legislativa di contingenti (come documentano le
due modifiche succedutesi fino ad oggi) esigenze sociali. Infatti, ciascuno dei crediti
previsti dall’art. 2776 c.c. è assistito da privilegio generale mobiliare, non da altro (e
segnatamente non da un privilegio sugli immobili), ma il legislatore ha ritenuto di
dover riconoscere a tali categorie di crediti, con una ulteriore gradazione al loro
interno, un particolare favore, consentendo che, in caso di infruttuosa esecuzione
sui beni mobili del debitore — su cui, appunto, il creditore ha un privilegio generale
— il credito possa beneficiare di una collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili, e quindi — per quanto qui di interesse — sul ricavato della vendita forzata
(individuale) dei beni immobili di cui sia titolare il debitore stesso.
In altri termini, è come se si trattasse di una tutela rafforzata di determinati crediti
assistiti da privilegio generale mobiliare, che tuttavia non modifica la natura dei
privilegi in parola (cfr. Corte cost. 18.6.1994, n. 287; Cass. 10.8.1992, n. 94), né
apporta alcuna modifica all’ordine di preferenza per essi stabilito dalla legge (cfr.
Cass. 11.5.1982, n. 2924).
Ne consegue che, affinché il creditore (procedente o intervenuto) possa far valere
la collocazione sussidiaria del proprio credito sul ricavato della vendita forzata, il
credito per il quale ha spiegato intervento deve essere assistito da privilegio generale sui beni mobili del debitore. Inoltre, i crediti per i quali si domanda la collocazione in via sussidiaria devono essere sorti in epoca anteriore alla data di trascrizione del pignoramento: secondo quanto previsto dall’art. 2916, n. 3) c.c., non si
tiene conto ai fini della distribuzione dei privilegi relativi ai crediti sorti dopo il
pignoramento.
Non è poi necessario che al momento dell’intervento già vi sia stata l’infruttuosa
esecuzione su tali beni successivamente, che potrà essere fatta constare fino all’udienza di discussione del progetto di distribuzione, poiché è quello il limite processuale entro cui il creditore può domandare di beneficiare del suddetto collocamento sussidiario sul ricavato dalla vendita dei beni immobili del debitore, con
662
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
preferenza dunque sui crediti chirografari, sempre che il credito per cui ha spiegato
intervento sia ricompreso tra quelli indicati dall’art. 2776 c.c. (e, invero, la giurisprudenza ritiene che il creditore possa anche solamente dare la prova di non essere
potuto intervenire nelle precedenti esecuzioni, o perché il suo credito non era ancora certo, liquido ed esigibile, o anche per insufficienza del patrimonio mobiliare
del debitore a soddisfare il proprio credito: cfr. Cass. 1o.3.1968, n. 673; Trib. Monza,
14.12.1982, in Gius. civ., 1982, I, p. 1650 e segg.).
Vero è, infatti, che l’infruttuoso pignoramento mobiliare costituisce una condizione per far valere la collocazione sussidiaria del credito ai sensi dell’art. 2776 c.c.,
tuttavia quest’ultima non incide sulla natura del credito, ossia non determina il
sorgere di un nuovo e diverso privilegio, e costituisce soltanto una diversa ed eccezionale modalità per conseguire la garanzia da cui è assistito il credito sin dal momento in cui è stato spiegato intervento. Conseguentemente, non si richiede che la
suddetta condizione si sia verificata già al momento dell’intervento: quando il credito viene fatto valere nella procedura esecutiva ai sensi degli artt. 499 e 563 c.p.c.
devono sussistere solo i presupposti richiesti dalla legge per far valere in sede di
concorso la natura privilegiata di tale credito, e quindi, ai sensi dell’art. 2916 n. 3)
c.c., la preesistenza del credito stesso rispetto alla data di trascrizione del pignoramento.
La garanzia rafforzata di cui all’art. 2776 c.c. non connota dunque il credito, ma
attiene alla collocazione dello stesso in sede di graduazione dei crediti ammessi al
concorso. E proprio perché si è in presenza esclusivamente di una modalità di realizzazione di un credito assistito da privilegio generale sui beni mobili con preferenza sui crediti chirografari, nell’ambito di una procedura esecutiva immobiliare la
sussistenza della condizione di esercizio può intervenire fino al momento in cui nella
stessa viene effettuata la partecipazione al concorso, e quindi fino all’approvazione
del progetto di distribuzione (art. 598 c.c.).
Orbene, nel caso all’esame di questo Tribunale, con l’atto di intervento depositato
in data 14.1.2004 il creditore intervenuto Equitalia Terni S.p.A. (già Servizio Riscossione Tributi Terni S.p.A.) ha espressamente indicato come privilegiato un credito
per euro 34.995,32, peraltro espressamente indicando nel prospetto allegato quelli
per i quali sarebbe eventualmente spettato il collocamento sussidiario ai sensi dell’art. 2776, co. 2, c.c. (v. doc. n. 4 del fascicolo di parte opponente). Dalla documentazione in atti è possibile evincere, inoltre, che si tratta di crediti sorti anteriormente
alla trascrizione del pignoramento, ed in particolare non oltre il 2001.
All’udienza fissata per la ripartizione delle somme residuanti dalla ripartizione
parziale, avvenuta in favore del creditore procedente e sulla scorta di un privilegio
vantato dalla stesso su tali immobili, il creditore intervenuto ha chiesto che i crediti
fatti valere dallo stesso e fino alla concorrenza di euro 14.466,88, assistiti da privilegio generale sui mobili, come indicato nello stesso atto di intervento, fossero collocati in via sussidiaria sul (residuo del) ricavato della vendita degli immobili.
Decisioni commentate
663
L’opposizione proposta da Equitalia Terni S.p.A. avverso l’ordinanza assunta all’udienza del 22.10.2007 dal giudice dell’esecuzione nella procedura esecutiva immobiliare n. 42/2003 promossa dalla Banca Nazionale del Lavoro S.p.A. nei confronti di Mario Scatolini deve allora essere accolta e, conseguentemente, si deve
disporre che il credito complessivo di euro 14.466,88 vantato dalla Equitalia Terni
S.p.A. nei confronti del debitore trovi collocazione sussidiaria sul residuo del ricavato della vendita nell’ambito di detta esecuzione forzata degli immobili del debitore esecutato.
Sussistono giusti motivi, ai sensi dell’art. 92, co. 2, c.p.c., da ravvisarsi nella mancata opposizione al collocamento sussidiario ex art. 2776, co. 2, c.c. richiesto dall’opponente tanto da parte del debitore esecutato quanto da parte del creditore,
procedente, che peraltro non hanno spiegato alcuna difesa nel presente giudizio,
per dichiarare irripetibili le spese di lite sostenute dalla opponente.
P.Q.M.
Il Tribunale di Terni, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando sulla causa di cui in epigrafe, ogni altra difesa, eccezione ed istanza disattesa:
— annulla l’ordinanza assunta all’udienza del 22.10.2007 dal giudice dell’esecuzione immobiliare n. 42/2003 promossa dalla Banca Nazionale del Lavoro S.p.A.
nei confronti di Mario Scatolini;
— dispone che il credito complessivo di euro 14.466,88 per il quale la Equitalia
Terni S.p.A. (già Servizi Riscossione Tributi Terni S.p.A.) ha spiegato intervento
nella procedura esecutiva immobiliare n. 42/2003 promossa dalla Banca Nazionale
del Lavoro S.p.A. nei confronti di Mario Scatolini abbia collocazione sussidiaria in
sede di ripartizione del residuo del ricavato della vendita degli immobili del debitore, ai sensi dell’art. 2776, co. 2, c.c.;
— dichiara irripetibili le spese di lite sostenute dalla opponente.
Riflessioni sulla collocazione sussidiaria dei privilegi mobiliari
(art. 2776 c.c.)
Sommario: 1. Il caso. – 2. Contenuto, natura e funzione del diritto alla collocazione sussidiaria. –
3. Il requisito della “infruttuosa esecuzione sui mobili”. – 3.1. È necessario l’esperimento dell’esecuzione mobiliare. – 3.2. Onere di intervento in altre esecuzioni. – 3.3. Onere di provare la “assenza di
beni mobili”. – 3.4. Mezzi di ricerca dei beni da pignorare e diritto alla collocazione. – 3.5. Conclusioni
sulla “infruttuosa esecuzione” nelle esecuzioni individuali. – 3.6. La prelazione ex art. 2776 c.c. nelle
esecuzioni concorsuali. – 4. Il tempo dell’esecuzione mobiliare “infruttuosa”.
1. Il caso.
Venduto l’immobile pignorato, all’udienza di discussione del progetto di distribuzione
avanti al Tribunale di Terni l’esattore, intervenuto nell’esecuzione, chiede di essere collocato sul ricavato con preferenza rispetto ai creditori chirografari ex art. 2776 c.c., in ragione
664
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
del privilegio generale mobiliare spettante al credito tributario per cui interviene e dell’infruttuoso esperimento dell’esecuzione mobiliare nel corso della procedura immobiliare.
La prelazione gli viene disconosciuta dal G.E. con l’ordinanza che risolve la controversia sul riparto, sul presupposto che il diritto alla collocazione sussidiaria «è un privilegio che viene ad esistenza nel momento in cui viene documentato il pignoramento
negativo sui beni mobili del debitore esecutato» e che «costituisce principio generale
quello in forza del quale i privilegi sorti dopo il pignoramento non sono rilevanti».
Avverso il diniego della prelazione, l’esattore propone opposizione agli atti esecutivi
che, re melius perpensa, il Tribunale di Terni accoglie con la sentenza che qui si commenta.
2. Contenuto, natura e funzione del diritto alla collocazione sussidiaria.
L’art. 2776 c.c. prevede che alcuni crediti assistiti da privilegio generale sui beni mobili
siano collocati sussidiariamente sul ricavato della vendita forzata degli immobili, «con
preferenza rispetto ai crediti chirografari», quindi in grado posteriore rispetto ai privilegi
immobiliari e alle ipoteche 1.
A loro volta il concorso di tali crediti è regolato da un ordine di priorità che oggi vede
in primo grado i crediti relativi al T.F.R. e alle indennità dovute al lavoratore subordinato
per il recesso senza preavviso e per cessazione del rapporto per morte del lavoratore,
entrambe previste dall’art. 2118 c.c. (crediti rientranti nel privilegio generale ex art.
2751-bis, n. 1, c.c.).
In sottordine si collocano gli altri crediti privilegiati ai sensi dell’art. 2751-bis c.c., quelli
per i contributi dovuti a istituti, enti o fondi speciali compresi quelli sostitutivi o integrativi,
che gestiscono forme di assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti (privilegiati ai sensi dell’art. 2753 c.c.), nonché i crediti per spese funebri, d’infermità ed alimenti (privilegiati ex art. 2751 c.c.).
In ultimo grado, la collocazione sussidiaria è riconosciuta ai crediti I.V.A. dello Stato
per imposte, pene pecuniarie e soprattasse, assistiti dal privilegio generale mobiliare ex
art. 2752, 3o co.
Rispetto all’ordinaria graduazione dei privilegi su mobili, va registrato il trattamento
preferenziale assicurato ai crediti per T.F.R. e indennità ex art. 2118 c.c. rispetto agli altri
crediti da lavoro subordinato, con i quali essi altrimenti concorrerebbero in parità di
grado ai sensi dell’art. 2777, 2o co., lett. a). La preferenza risulta per tabulas dalla
chiusura del 2o co. dell’art. 2776 c.c. «dopo i crediti indicati al primo comma».
Per il resto, il concorso tra crediti eterogenei — in particolare tra quelli sub artt. 2751bis, 2753 e 2751 — segue l’ordine stabilito in via generale dagli artt. 2777 e 2778 c.c.,
giacché non v’è ragione alcuna per soddisfare i crediti «con modalità diverse a seconda
1
Punto pacifico: Andrioli, Privilegi, in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1954, 235;
Pratis, Della tutela dei diritti (artt. 2740-2783 c.c.), II, in Comm. cod. civ., Torino, 1976, 355; Id., voce
Privilegi (diritto civile e tributario), NN.D.I., Appendice, V, Torino, 1984, 1289; Tucci, I privilegi, in
Tratt. Rescigno, XIX, 1, Torino, 1997, 666. In giurisprudenza v. Cass., 10-8-1992, n. 9429, Fa, 1993, 157.
La questione di legittimità costituzionale del privilegio generale su mobili rispetto all’ipoteca è stata
rigettata con sentenza C. Cost., 3-6-1991, n. 287 (est. Mengoni).
Decisioni commentate
665
se essi operino in via principale, ovvero vengano collocati in via sussidiaria sul prezzo degli
immobili» 2.
Il diritto alla collocazione sussidiaria non immuta la natura del privilegio che resta a tutti
gli effetti generale 3, potendosi esercitare — in difetto di limitazioni scritte o implicite —
su qualsiasi immobile appartenente al debitore, indipendentemente da un nesso tra
causa del credito e bene staggito.
Reciprocamente, non essendo munito di un diritto di seguito, il privilegio generale non
spetta su immobili trasferiti a terzi, né nei confronti di un terzo proprietario non debitore,
ferma restando ovviamente l’efficacia del pignoramento e quindi l’insensibilità dello
stesso agli atti dispositivi compiuti o trascritti successivamente alla trascrizione del
vincolo (cfr. artt. 2747, 1o co. e 2913 ss. c.c.) 4.
Pertanto, l’ambito concreto di operatività del privilegio viene a determinarsi nell’esecuzione individuale soltanto al momento e per effetto del pignoramento compiuto dal
creditore privilegiato e/o del suo intervento nella procedura esecutiva iniziata da altri,
nell’uno e nell’altro caso nei confronti del debitore.
In definitiva, seguendo i tratti tipici del privilegio generale, il diritto alla collocazione
sussidiaria resta ininfluente ai fini della circolazione della proprietà immobiliare e non
rafforza il potere espropriativo del creditore, ma esaurisce fisiologicamente la sua rilevanza nella fase di distribuzione, ossia opera come un mero titolo di preferenza nel
concorso, derogatorio della par condicio 5.
Interrogandosi sul senso della deroga al concorso accordata a questi privilegi, una
remota dottrina 6 ritenne di scorgerne il fondamento nella pretesa natura mobiliare del
prezzo ricavato dalla vendita giudiziaria dell’immobile, ma l’opinione pecca di concettualismo. Se cosı̀ fosse, infatti, tutti i privilegi generali su beni mobili, e non soltanto quelli
espressamente previsti dall’art. 2776 c.c., avrebbero anche, per ciò solo, diritto alla
collocazione sul prezzo della vendita residuato dopo il pagamento dei creditori ipotecari
e privilegiati immobiliari. E soprattutto, anche ad ammettere una restrizione al concorso
ai soli crediti favoriti dall’art. 2776, perderebbe ogni giustificazione logica il requisito
ulteriore della «infruttuosa esecuzione sui mobili».
2
Cosı̀ in giurisprudenza Cass., 19-11-1979, n. 6036, GC, 1980, I, 1126, poi seguita da Cass., 13-41981, n. 2182; Cass., 5-2-1982, n. 654, DF, 1982, II, 633; Cass, 11-5-1982, n. 2924. Conformi in dottrina
Pratis, voce Privilegi, cit., 1289; Ruisi-Palermo-Palermo, I privilegi, in Giur. sist. civ. comm. diretta da
Bigiavi, Torino, 1980, 488; Tucci, op. cit., 666, nota 106. Contra, nel senso che la graduazione dei
privilegi segue le scansioni dei commi dell’art. 2776 c.c. con conseguente collocazione in pari grado dei
crediti di cui al 2o co., v. Bozza-Schiavon, L’accertamento dei crediti nel fallimento e le cause di prelazione, Milano, 1992, 766 ss.
3
Rilievo comune in dottrina: Pratis, voce Privilegi, cit., 1289; Ruisi, op. cit., 488; Tucci, op. cit., 666,
nota 105.
4
Sull’efficacia del privilegio generale, in particolare nel conflitto con terzi aventi causa dal debitore,
v. Andrioli, op. cit., 59 s.; Pratis, Della tutela, cit., 134 ss.; Tucci, op. cit., 618 ss.
5
Nel senso che il privilegio generale non attribuisce alcun potere sulla cosa prima che sia aperta la
fase di distribuzione del prezzo vedi la Relazione del Guardasigilli al codice civile (n. 1129) e, tra gli altri,
Andrioli, op. cit., 59; Pratis, Della tutela, cit., 135.
6
Bianchi, I privilegi, Napoli, 1894, 172 citato da Ruisi, op. cit., 489.
666
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
È poi chiaro che il prezzo ricavato dalla vendita forzata immobiliare, in quanto depositato su un conto corrente bancario o postale, è anch’esso oggetto di un credito (ed è
quindi “bene mobile”), sia pur vincolato al pagamento dei creditori che partecipano
all’espropriazione e quindi in incertam personam fino a che il progetto di distribuzione
non sia dichiarato esecutivo. Se dal progetto esecutivo risulta un residuo prezzo da
restituire al debitore (art. 509 c.p.c.) o il processo si estingue dopo il compimento della
vendita forzata (art. 632 c.p.c.), questo credito, ormai rientrato nella libera disponibilità
del debitore, può essere nuovamente sottoposto a esecuzione. In tal caso, siamo però
fuori da un’esecuzione immobiliare e quindi il concorso di privilegi è regolato dalle norme
ordinarie (artt. 2777 e 2778 c.c.) e non dall’art. 2776 c.c.
Alla stessa matrice, ossia all’inesistenza di una procedura esecutiva immobiliare in
atto e all’irrilevanza del diritto alla collocazione sussidiaria fuori da questo specifico
contesto, si riconducono le altre esclusioni dal campo di applicazione dell’art. 2776 c.c.
già analizzate in dottrina 7, ossia il pignoramento: 1) del credito ex pretio pattuito per la
vendita volontaria; 2) dell’indennità dovuta dall’assicuratore al proprietario in caso di
perimento o deterioramento dell’immobile e delle altre fattispecie consimili previste
dall’art. 2742 c.c. In questi casi, infatti, poiché l’esecuzione ha per oggetto un bene
mobile, il privilegio generale mobiliare può esercitarsi senza limitazioni 8.
Il fondamento del diritto alla collocazione sussidiaria, irriducibile al mero concettualismo, consiste dunque in una valutazione di meritevolezza della causa del credito e
nella scelta di politica legislativa di attribuire a determinati crediti, già altrimenti tutelati,
una più estesa chance di realizzo per il caso in cui il patrimonio mobiliare del debitore si
palesi insufficiente. In questo senso s’esprime anche la sentenza in commento secondo cui l’art. 2776 c.c. appresta «una tutela rafforzata di determinati crediti assistiti
da privilegio generale mobiliare, che tuttavia non modifica la natura dei privilegi in
parola» 9.
3. Il requisito della “infruttuosa esecuzione sui mobili”.
Agli altri requisiti di esistenza del credito privilegiato, l’art. 2776 c.c. aggiunge la
condizione della «infruttuosa esecuzione sui mobili», nella quale si compendia la “sussidiarietà” del diritto al concorso nel riparto immobiliare.
7
Gaetano, I privilegi, in Tratt. dir. civ. diretto da Vassalli, 1949, 164; Pratis, voce Privilegi, cit.,
1289; Ruisi, op. cit., 489.
8
Peraltro, nelle fattispecie regolate dall’art. 2742 c.c., il privilegio generale mobiliare cede in sede di
concorso alla garanzia ipotecaria e ai privilegi speciali immobiliari che, per surrogazione, sono trasferiti
sull’indennità dovuta al proprietario.
9
Persiste una certa ritrosia — mi sembra — a ricondurre la collocazione sussidiaria alla categoria del
privilegio generale immobiliare: figura che l’ordinamento fa mostra di non conoscere (cfr. art. 2746 c.c.).
Oltre al brano di motivazione trascritto nel testo, si veda anche Patti, I privilegi, in Tratt. dir. civ. comm.
già diretto da Cicu e Messineo, Milano, 2003, 111. Sensatamente è però difficile negare che «la generalità di questi privilegi sugli immobili è legata ad una condizione, la insufficienza cioè del patrimonio
mobiliare: ma, sebbene in via condizionale, esiste»: Chironi, Trattato dei privilegi, delle ipoteche e del
pegno, I, Torino, 1894, 299. Ciò è tanto più vero se si conviene che la prelazione ex art. 2776 c.c. non ha
fondamento nella natura mobiliare del prezzo ricavato nell’espropriazione immobiliare.
Decisioni commentate
667
Dall’analisi della dottrina e delle massime giurisprudenziali edite (per vero poche e per
lo più risalenti) il criterio risulta applicato con estremo rigore, almeno nell’esecuzione
individuale, in sintonia con la ritenuta eccezionalità della norma 10.
3.1. È necessario l’esperimento dell’esecuzione mobiliare.
Anzitutto, la condizione di “infruttuosità” non può intendersi verificata sulla sola prognosi di incapienza del patrimonio mobiliare, ma è necessario che l’esecuzione mobiliare
sia stata effettivamente esperita dal creditore 11.
La scarsità di precedenti editi nuoce a una compiuta rassegna delle fattispecie di
“esperimento infruttuoso”. Vi rientrano senz’altro il caso della procedura mobiliare conclusasi con assegnazione del ricavo insufficiente al soddisfacimento del credito e il caso
del verbale di pignoramento c.d. negativo, per assenza di beni pignorabili.
Desta maggiori dubbi il caso in cui il creditore fornisca quale prova della “infruttuosa
esecuzione” un mero verbale di pignoramento c.d. tentato, ossia concluso dall’ufficiale
giudiziario — con restituzione degli atti al procedente — senza essere entrato nei luoghi
di pertinenza del debitore ex art. 513 c.p.c., per assenza dell’esecutato e di altri occupanti, e senza essersi avvalso dell’ausilio della forza pubblica 12. In tal caso infatti il
verbale non sembra avere, gioco forza, alcuna capacità dimostrativa dell’inesistenza di
beni mobili utilmente pignorabili e quindi non vale come prova del diritto alla collocazione
sussidiaria.
È infine difficile ravvisare un’esecuzione infruttuosa nel caso di pignoramento rinunciato dal creditore per l’oggettiva modestia del valore di stima del compendio mobiliare
pignorato, poiché s’è osservato che è pur sempre possibile un pagamento parziale 13: il
rilievo è sostanzialmente corretto, salvo forse il caso limite del pignoramento di un
compendio prima facie inidoneo a coprire perfino i costi di procedura.
In ogni caso, l’onere della prova è a carico del creditore 14 ed è evidente che non può
che essere assolto — almeno in prima battuta — se non mediante produzioni documentali, visto che l’istanza di collocazione nel riparto con preferenza rispetto ai chirografari
si esercita all’interno del processo esecutivo, salve le parentesi cognitive (controversie
sul riparto ex art. 512 c.p.c. e opposizione agli atti esecutivi avverso l’ordinanza che
definisce la controversia) che possono innescarsi in caso di contestazioni.
10
Ruisi, op. cit., 490.
Cass., 18-10-1958, n. 3321, GC, 1958, I, 1820, secondo cui «tale insufficienza non ha che un sol
mezzo legale di dimostrazione, l’esecuzione infruttuosa»; conforme A. Milano, 7-6-1957, RGC, 1958,
voce Privilegi, n. 46. Cfr. ancora nel senso della necessità dell’esecuzione mobiliare, A. Torino, 10-82004, FP, 2005, 640, secondo cui «il creditore non può giovarsi, per il maturare del requisito di sussidiarietà di cui all’art. 2776 c.c., dell’infruttuoso pignoramento mobiliare eseguito da un altro creditore».
In dottrina Gaetano, op. cit., 164; Ruisi, op. cit., 489.
12
Ma v. T. Monza, 14-12-1981, GC, 1982, I, 1650 che, decidendo una controversia sul riparto, ha
ammesso la collocazione sussidiaria sul presupposto, tra l’altro, che «il debitore si era reso irreperibile
... senza lasciare beni mobili sui quali potesse aver luogo l’esecuzione forzata». Peraltro, il valore persuasivo del precedente è inquinato dalla considerazione che, nella specie, il creditore aveva anche
prodotto un verbale di pignoramento negativo, sia pur successivo all’inizio dell’esecuzione immobiliare.
13
Ruisi, op. cit., 490.
14
Cass., 1-3-1968, n. 673, GC, 1968, I, 798.
11
668
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
3.2. Onere di intervento in altre esecuzioni.
Al pignoramento infruttuoso s’assimila, per forza di cose, l’intervento 15 nell’esecuzione mobiliare iniziata da altri, nella quale il creditore preferito sia rimasto perdente.
È tuttavia degno di nota che, seguendo la giurisprudenza, per beneficiare del diritto alla
collocazione, il creditore ha un vero e proprio onere di diligenza e quindi di intervento, dal
quale può liberarsi soltanto dimostrando «di non essere potuto intervenire nelle precedenti
esecuzioni perché il suo credito non era ancora certo, liquido ed esigibile, ovvero che il suo
intervento ... sarebbe stato superfluo per la insufficienza del patrimonio mobiliare del debitore a soddisfare il suo credito anche se privilegiato» 16. Segue alla premessa che il
successivo compimento di un’esecuzione mobiliare effettivamente infruttuosa non vale ad
attribuire il diritto alla collocazione sussidiaria al creditore, che abbia trascurato senza
giusto motivo di intervenire nelle precedenti procedure 17.
Letta oggi, la massima desta qualche perplessità. Se la questione viene posta
— come sembra corretto — in termini di diligenza del creditore, bisogna osservare che
la ragione pratica del mancato intervento può rinvenirsi — oltre che nella mancanza di
azione esecutiva, per difetto di titolo o dei requisiti del credito ex art. 474 c.p.c. — anche
e soprattutto nel difetto di adeguate segnalazioni pubblicitarie della pendenza di procedimenti esecutivi mobiliari indirizzate alla generalità dei creditori. Per vero, prima della
riforma, lo strumento pubblicitario idoneo a provocare l’intervento — in disparte ogni
considerazione in merito alla sua effettività — consisteva nel pubblico avviso di deposito
dell’istanza di vendita o assegnazione previsto dall’art. 173 disp. att. c.p.c. 18 che, tuttavia, è stato abrogato, senza rimpiazzi, dalla l. 28-12-2005, n. 263.
Il mutato contesto normativo potrebbe quindi suggerire un ripensamento critico di
questa giurisprudenza, liberando il creditore da un onere che, almeno nella generalità dei
casi, non è in grado di osservare.
3.3. Onere di provare la “assenza di beni mobili”.
Si afferma che il creditore ha altresı̀ l’onere di provare «di non poter essere soddisfatto in futuro per la mancanza di beni mobili pignorabili nel patrimonio del debitore» 19.
15
Vista la restrizione al concorso prevista dall’art. 499 c.p.c., di massima il creditore avrà oggi l’onere
di munirsi di un titolo esecutivo, visto che il privilegio generale sui mobili, non essendo equiparabile a
una garanzia reale assimilabile al pegno, di per sé non fornisce legittimazione all’intervento senza titolo.
16
Cass., 1-3-1968, n. 673, cit. secondo cui questa era l’interpretazione corrente «anche alla luce del
diritto anteriore, a cui quello vigente non ha apportato sostanziali modifiche», salvo specificare la
nozione di “sussidiarietà” del concorso, già prevista nell’art. 1963 c.c. del 1865. In senso conforme
Ruisi, op. cit., 490 secondo cui «la ratio della norma non è quella di favorire i creditori negligenti».
17
Cosı̀ espressamente la già cit. Cass., 1-3-1968, n. 673.
18
Sulla funzione dell’avviso ex art. 173 disp. att. c.p.c., Cass., 15-3-1974, n. 747, FI, 1974, I, 3395. In
dottrina ex multis Travi, voce Espropriazione immobiliare, NN.D.I., VI, Torino, 1957, spec. 909 e, più
recentemente, Sensale, Pubblicità degli avvisi e privacy del debitore, REF, 2004, spec. 203; Fabiani,
Espropriazione forzata, pubblicità e privacy del debitore, in C.N.N. Studi e materiali. Espropriazione
forzata e divisione giudiziale, Milano, 2005, 229 ss. (spec. 239).
19
Tucci, op. cit., 666. In giurisprudenza, nel senso che rientra nell’onere del creditore dimostrare, tra
l’altro, «di non poter tentare una nuova [esecuzione] per difetto di mobili pignorabili in danno del
debitore», vedi la solita Cass., 1-3-1968, n. 673.
Decisioni commentate
669
Il requisito è pur sempre coerente con la premessa teorica della “sussidiarietà” del
concorso immobiliare, ma non coincide con quello, scritto nel codice, della «esecuzione
mobiliare infruttuosa», di cui rappresenta anzi un’accentuazione che restringe ulteriormente le condizioni per accedere al beneficio.
Che infatti il pignoramento sia stato inutilmente tentato presso la casa e/o azienda del
debitore non toglie che possano esistere altre cose determinate «che non si trovano in
luoghi appartenenti al debitore, ma delle quali egli può direttamente disporre» (cfr. art.
513, 3o co., c.p.c.) o nella disponibilità di un terzo possessore (artt. 513, ult. co. e 543
c.p.c.) e pertanto utilmente pignorabili. Lo stesso dicasi per i crediti verso terzi, ai quali
pure — essendo assimilati a beni mobili — s’estende il privilegio generale e di cui deve
pertanto dimostrarsi l’inesistenza per proporre istanza di collocazione sussidiaria: che ad
es. il creditore abbia avuto un pignoramento negativo sulle banche X, Y e Z non toglie
che su altri istituti il debitore possa avere un conto con saldo positivo. Va ancora rilevata
la naturale variabilità del patrimonio della persona nel corso del tempo; pertanto un
pignoramento negativo o insufficiente fornisce un indizio (ma soltanto un indizio) di
inesistenza di beni mobili utilmente pignorabili in epoca successiva.
In conclusione, il compimento infruttuoso di una o anche più esecuzioni mobiliari di per
sé non fornisce altro che indizi dell’assenza di beni mobili utilmente pignorabili. La
considerazione può formalizzarsi osservando che il primo tema verte su un fatto positivo, di cui il creditore può e ha l’onere di fornire prova diretta, producendo gli atti della
procedura esecutiva inutilmente esperita: verbale di pignoramento negativo, dichiarazione negativa del terzo intimato ex art. 547 c.p.c., ordinanza di assegnazione, ecc.
Il secondo tema verte, al contrario, su un fatto negativo dai contorni indefiniti e di cui
è perciò estremamente difficile, se non impossibile, allestire una prova diretta, poiché
«l’oggetto della prova corrisponde ... — almeno da un punto di vista teorico — ad un
numero indefinito di proposizioni affermative» 20. Del tutto fisiologicamente, quindi, il
thema probandum viene in questi casi a concentrarsi su alcuni fatti diversi positivi che,
a misura che rendono probabile il fatto negativo, consentono di presumerne l’esistenza
secondo la tecnica del ragionamento indiziario.
Nel caso che ne occupa, le proposizioni affermative che rendono probabile il fatto
negativo «assenza di mobili» sono, in prima analisi, quelle stesse che dimostrano per via
diretta «l’esecuzione infruttuosa»: ad es. «l’ufficiale giudiziario ha reso un verbale di
pignoramento negativo in casa del debitore», «le banche X, Y e Z hanno reso una
dichiarazione negativa di quantità», ecc.
20
Cosı̀ Patti, Prove. Disposizioni generali (artt. 2697-2698), in Commentario Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1987, 52 ss. (spec. 54 s.); Id., Prova, in Vicende del diritto soggettivo, Torino, 1999, 79 ss.
(spec. 88 ss.). Nonostante il brocardo negativa non sunt probanda, è ormai jus receptum che l’onere della
prova si applica — e si distribuisce tra le parti secondo i canoni dell’art. 2697 c.c. — anche ai fatti c.d.
negativi. Ciò non dà luogo a particolari difficoltà se il fatto che entra nella fattispecie è circostanziato in
ragione di tempo, luogo, ecc. poiché è semplice allestire la prova, diretta o indiretta, del fatto positivo
immediatamente contrario (ossia dell’alibi). Maggiori difficoltà probatorie si presentano invece quando
il thema probandum negativo è indefinito nei contorni e pertanto non esiste un singolo fatto positivo che,
per evidenza diretta, fornisca all’interessato la prova di cui necessita per far valere il suo diritto. Di qui
la semplificazione probatoria riferita nel testo.
670
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Visto che il thema decidendum tollera per sua natura di essere dimostrato tramite “un
numero indefinito di proposizioni affermative” (da 1 a “n”), la valutazione di adeguatezza, serietà e concludenza della prova indiziaria fornita deve rimettersi, come è regola,
al libero apprezzamento del giudice. Ciò detto, conviene osservare che l’art. 2776 c.c.
subordina l’esercizio della prelazione al « caso di infruttuosa esecuzione sui mobili»: non
s’è quindi lontani dal vero nell’osservare che, in definitiva, anche una sola esecuzione
mobiliare non riuscita potrebbe essere apprezzata come indizio prima facie della «assenza di beni mobili utilmente pignorabili» senza che il creditore sia onerato di fornire
prove di maggior spessore 21.
3.4. Mezzi di ricerca dei beni da pignorare e diritto alla collocazione.
È stato notato che «il legislatore del 1940 non si pose — né mai avrebbe potuto porsi,
nel quadro storico di una società e di un’economia assai meno complesse ed articolate
di quelle odierne — un consapevole problema di efficienza dei mezzi idonei a reperire in
concreto i beni da sottoporre ad espropriazione» 22. Al solo creditore è lasciato l’onere
di individuare, oltre che gli immobili (art. 555 c.p.c.), i terzi obbligati da pignorare (art.
543 c.p.c.). L’individuazione dei beni mobili è rimessa alle ricerche dell’ufficiale giudiziario nei luoghi di pertinenza del debitore e all’occasionale, libero, apporto identificativo
fornito dallo stesso debitore (artt. 513 e 517 c.p.c.). Se infine il pignoramento risulta
negativo o ictu oculi insufficiente il codice non fornisce al creditore alcuno strumento di
ricerca dei beni da pignorare di cui avvalersi.
Come è noto, tuttavia, la materia è stata sensibilmente innovata dalla riforma dell’art.
492 c.p.c. entrata in vigore l’1 marzo 2006 23. In particolare ci si riferisce: al poteredovere dell’ufficiale giudiziario di invitare «il debitore ad indicare ulteriori beni utilmente
pignorabili, i luoghi in cui si trovano ovvero le generalità dei terzi debitori, avvertendolo
della sanzione prevista per l’omessa o falsa dichiarazione» (4o co.); al potere dell’ufficiale giudiziario, a istanza del procedente, di richiedere informazioni all’anagrafe tributaria
e ai soggetti che gestiscono «altre banche dati pubbliche» (7o co.); infine al potere
dell’ufficiale giudiziario, sempre dietro istanza del creditore e negli stessi casi di cui ai
21
Ad es. secondo Pratis, voce Privilegi, cit., 1289, «presupposto per questo esercizio sono [soltanto] dapprima la infruttuosa esecuzione sui mobili e successivamente l’esecuzione sugli immobili». Analogamente per Ruisi, op. cit., 489, «la norma viene concordemente interpretata nel senso che ... occorra
una previa esecuzione sui mobili, in tutto o in parte infruttuosa».
22
Comoglio, La ricerca dei beni da pignorare, in www.judicium.it, par. 1 e REF, 2006, 37 ss. Dello
stesso A. vedi in precedenza, L’individuazione dei beni da pignorare, RDPr, 1992, 101 ss.
23
La norma è stata dapprima modificata dalla l. 14-5-2005, n. 80 (art. 2, 3o co., lett. e, n. 5) e
marginalmente dalla l. 28-12-2005, n. 263 (art. 1, 3o co., lett. b), e infine interamente riscritta con
modifiche dalla l. 24-2-2006, n. 52 (art. 1). Sulle innovazioni vedi, oltre a Comoglio, La ricerca, cit.,
anche Corsini, L’individuazione dei beni da pignorare secondo il nuovo art. 492 c.p.c., RTPC, 2005,
820 s.; Miccolis, Pignoramento, ricerca dei beni da pignorare, estensione del pignoramento, in AA.VV.,
Le modifiche al codice di procedura civile previste dalla l. n. 80 del 2005, FI, 2005, V, 105 ss.; Saletti,
Le novità in materia di pignoramento e di ricerca dei beni da espropriare, in www.judicium.it e REF,
2005, 744 ss. Tra i commenti alla riforma vedi ancora ex multis Demarchi, Il nuovo rito civile. vol. III.
Le esecuzioni, Milano, 2006, 92 ss.; Soldi-(Bucci), Le nuove riforme del processo civile, Padova, 2006,
174 ss.
Decisioni commentate
671
precedenti commi, di nominare un professionista per l’esame delle scritture contabili
dell’imprenditore commerciale-debitore «al fine dell’individuazione di cose e crediti pignorabili» (8o co.).
Presupposto comune all’esercizio di questi poteri è che «i beni rinvenuti [dall’ufficiale
giudiziario] appaiano insufficienti al soddisfacimento del creditore procedente» o che la
ricerca dell’ufficiale giudiziario si concluda con un pignoramento negativo («... non individua beni utilmente pignorabili»): il che è quanto dire un caso di procedura esecutiva
— e tipicamente un’esecuzione mobiliare presso il debitore 24 — destinata a restare
infruttuosa.
Questo mutamento del quadro normativo suggerisce il riesame del tema della sussidiarietà del concorso e della «assenza di beni mobili utilmente pignorabili» sotto la
specifica angolazione dei mezzi di ricerca dei beni e della diligenza 25 richiesta al creditore, al fine di considerare “infruttuosa” l’esecuzione mobiliare intrapresa.
Anzitutto, in positivo, l’onere di provare l’assenza di beni mobili può ritenersi oggi
soddisfatto quando, né dall’interpello dell’esecutato, né (e direi soprattutto, vista la
prevedibile reticenza del debitore) dalle indagini patrimoniali richieste all’ufficiale giudiziario risulti l’esistenza di altri beni mobili o crediti in testa al debitore. Ciò vale, evidentemente, anche per il caso in cui le informazioni raccolte non conducano a un pignoramento utile, ad es. perché i rapporti risultanti dall’anagrafe tributaria o dalle scritture
contabili sono cessati o non danno luogo a poste creditorie a favore dell’esecutato.
I nuovi strumenti di indagine patrimoniale attivabili dal creditore, se da un lato agevolano il soddisfacimento del credito, dall’altro però rendono lecito chiedersi se il creditore
abbia oggi titolo a ritenere chiusa in modo infruttuoso l’esecuzione mobiliare esperita e
a fare istanza di collocazione ex art. 2776 c.c. qualora, dato un pignoramento negativo
o insufficiente, abbia omesso di avvalersi dei mezzi a sua disposizione. Esemplificando:
a) dall’interpello, il debitore risulta titolare di crediti verso terzi o cose mobili nel
possesso di un terzo obbligato 26; il creditore, senza giusto motivo, s’astiene dal notifi24
Non è di stretto interesse in questa sede approfondire se e in quale misura i nuovi poteri dell’ufficiale giudiziario trovino applicazione fuori dal campo dell’esecuzione mobiliare diretta. Salvo il caso di
esercizio dei poteri a richiesta del creditore, nel caso che il compendio pignorato diventi insufficiente
per intervento di altri creditori (6o co.) — in cui mi sembra più che plausibile generalizzare la previsione
a ogni specie di espropriazione, in sintonia con la generalizzata applicazione della disciplina sull’estensione del pignoramento — è convincente la conclusione di Saletti, op. cit., par. 4 che le attività dell’ufficiale giudiziario possono esercitarsi solo nel corso di un pignoramento mobiliare presso il debitore,
poiché «la disposizione presuppone la valutazione del valore dei beni pignorati, che non è possibile né
nel pignoramento presso terzi (in cui solo con la dichiarazione del terzo si potrà conoscere quali sono i
beni pignorati), né in quello immobiliare, dove non è prevista, in questa fase, la stima del valore dei beni
assoggettati all’espropriazione». In senso conforme Miccolis, op. cit., 112.
25
Ben vero, l’art. 2776 c.c. non fa cenno alla diligenza del creditore, ma il tema è implicito nell’orientamento (Cass., 1-3-1968, n. 673, cit.) che, al fine di riconoscere il beneficio della collocazione sussidiaria, onera il creditore di proporre intervento nelle esecuzioni mobiliari da altri intraprese, salva dimostrazione che l’intervento non era possibile e/o era comunque superfluo.
26
Il problema non ha ragione di porsi per i beni mobili in possesso del debitore, i quali vengono a
far parte della massa pignorata e sono sottoposti a espropriazione unitamente a quelli rinvenuti direttamente dall’ufficiale giudiziario (cosı̀ anche Saletti, op. cit., par. 4), salva soltanto la necessità che
672
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
care al terzo l’atto di pignoramento ex art. 543 c.p.c. e quindi non innesca il procedimento esecutivo idoneo a soddisfarlo 27;
b) verificatosi un caso di pignoramento negativo o insufficiente, il creditore senza
giusto motivo non fa istanza all’ufficiale giudiziario di chiedere informazioni all’anagrafe
tributaria, ecc. né, se l’esecutato è imprenditore commerciale, chiede la nomina di un
professionista per l’analisi delle scritture contabili al fine di individuare beni e crediti
utilmente pignorabili.
La questione mi risulta ancora inesplorata in giurisprudenza. A mio modo di vedere,
esistono buoni argomenti per mettere in dubbio in tali casi il diritto del creditore alla
collocazione sussidiaria, ma non mi nascondo che un ruolo non secondario — se non
altro nelle valutazioni di fatto — potrà giocarlo l’effettiva idoneità dei nuovi strumenti di
indagine a fornire al creditore un quadro adeguato della consistenza e composizione del
patrimonio del debitore 28.
In disparte queste considerazioni, e ragionando quindi sul presupposto che gli strumenti divisati dal legislatore risultino praticamente efficaci, occorre osservare che l’esito
infruttuoso dell’esecuzione mobiliare viene a dipendere nei casi suddetti non tanto dall’assenza di mobili e crediti utilmente pignorabili, quanto da una possibile negligenza del
creditore nell’uso (recte: non uso) delle facoltà oggi previste dalla legge.
Né potrebbe ragionevolmente affermarsi la «assenza di altri beni utilmente pignorabili» se l’indicazione del debitore non è sottoposta a verifica mediante notifica del pignoramento al terzo preteso obbligato (caso “a”) e/o viene ingiustamente trascurata
l’indagine patrimoniale presso l’anagrafe tributaria etc. e sulle scritture contabili dell’imprenditore (caso “b”).
l’ufficiale giudiziario «provveda ad accedere al luogo in cui si trovano per gli adempimenti di cui
all’articolo 520 oppure, quando tale luogo è compreso in altro circondario, trasmetta copia del verbale
all’ufficiale giudiziario territorialmente competente» (5o co.).
27
Il verbale di interpello dal quale risultano cespiti pignorabili nella forma del pignoramento presso
terzi è infatti idoneo a perfezionare il vincolo nei confronti del solo debitore esecutato (e non del terzo),
anche perché è atto formato in base alle dichiarazioni unilaterali del debitore stesso. Perché il vincolo si
perfezioni e abbia effetto con riguardo al terzo sono necessari, come al solito, la notifica del pignoramento (come prevede l’attuale 5o co. dell’art. 492 c.p.c.), nonché la dichiarazione positiva di quantità da
parte dell’obbligato o l’accertamento giudiziale.
28
Ad es. Comoglio, La ricerca, cit., par. 4, osserva che i dati dell’anagrafe tributaria non portano alla
luce cespiti mobiliari (quote di fondi di investimento, azioni di società quotate, obbligazioni e titoli di
Stato, ecc.), che il soggetto non ha l’obbligo di denunciare nella dichiarazione annuale dei redditi perché
soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, né conti correnti bancari, di modo che la parte in genere
più consistente della ricchezza mobiliare finisce per sfuggire a verifiche. Osservo en passant che un
siffatto grave inconveniente non avrebbe ragion d’essere se anche all’ufficiale giudiziario fosse consentito l’accesso alla sezione dell’anagrafe tributaria (conosciuta come “anagrafe dei conti correnti”) prevista dal vigente art. 7, d.p.r. 29-9-1973, n. 605 ed entrata in funzione in base a decreto del dirigente
dell’Agenzia delle Entrate 19-1-2007 (pubblicato su GU 15-2-2007, n. 38). Sennonché l’accesso è allo
stato riservato, previa autorizzazione, al personale dell’Amministrazione finanziaria e della Guardia di
Finanza nonché agli agenti della riscossione ai soli fini della riscossione mediante ruolo (cfr. quanto a
questi ultimi l’art. 35, 25o co., l. 4-8-2006, n. 248).
Decisioni commentate
673
3.5. Conclusioni sulla “infruttuosa esecuzione” nelle esecuzioni individuali.
Traendo le fila delle riflessioni sparse che precedono, le condizioni per accedere al
beneficio della collocazione sussidiaria nelle esecuzioni individuali mi pare possano riassumersi in questi termini. Il creditore è certamente onerato di fornire la prova di aver
inutilmente esperito, mediante pignoramento o intervento, almeno un’esecuzione mobiliare (§ 3.1.). Non altrettanto certo è che il creditore sia oggi anche tenuto a dimostrare
di non aver svolto intervento in altre esecuzioni su mobili, vista l’attuale assoluta inesistenza di segnalazioni pubblicitarie idonee allo scopo (§ 3.2.). Nel rito esecutivo vigente,
l’onere di provare l’assenza di mobili utilmente pignorabili, altrimenti indefinito nei contorni (§ 3.3.), può ragionevolmente specificarsi nell’esercizio delle facoltà e nell’uso degli
strumenti di indagine patrimoniale oggi previsti dall’art. 492 c.p.c. per il caso di pignoramento negativo o insufficiente. Con la duplice implicazione — ancora bisognosa di
verifica in giurisprudenza —, da un lato che l’esaurimento senz’esito delle indagini patrimoniali vale prima facie quale prova dell’assenza di beni utilmente pignorabili, dall’altro
che il mancato esercizio di tali facoltà può essere apprezzato dal giudice quale causa
ostativa all’esercizio della prelazione ex art. 2776 c.c. (§ 3.4.).
3.6. La prelazione ex art. 2776 c.c. nelle esecuzioni concorsuali.
Infine il diritto alla collocazione sussidiaria può farsi valere anche nelle procedure
concorsuali 29. Il presupposto dell’infruttuosa esecuzione su mobili non può tuttavia consistere nel previo inutile esperimento di un pignoramento mobiliare poiché vi osta il
divieto di azioni esecutive individuali (art. 51 legge fall.) 30. Né si suole mettere in dubbio
— ancorché l’art. 51 vieti di iniziare o proseguire esecuzioni, ma non esplichi evidentemente effetti rispetto alle esecuzioni già esaurite alla data della dichiarazione di fallimento — che tutti i creditori con privilegio generale mobiliare tutelato dall’art. 2776 c.c.
abbiano diritto alla collocazione sussidiaria, ancorché non abbiano portato a compimento
un’esecuzione mobiliare infruttuosa prima del fallimento. In definitiva, il criterio della
“infruttuosità”, ergo della sussidiarietà del concorso, si specifica qui in un dato tutto
interno alla procedura concorsuale, ossia nell’incapienza, in tutto o in parte, del credito
privilegiato sulle somme realizzate mediante liquidazione della massa attiva fallimentare
di natura mobiliare 31.
29
È degno di nota che nascono in sede fallimentare pressoché tutti i casi decisi in sede di legittimità
negli ultimi trent’anni e oltre, ossia Cass., 5-10-1973, n. 2494, DF, 1974, II, 613; Cass., 19-11-1979,
n. 6036, cit.; Cass., 12-2-1981, n. 861; Cass., 5-2-1982, n. 654, cit.; Cass., 13-4-1981, n. 2182; Cass.,
11-5-1982, n. 2924; Cass., 10-8-1992, n. 9429, cit.
30
Identità di ratio suggerisce l’estensione del regime proprio delle procedure concorsuali anche alle
procedure in cui l’esecuzione individuale sui mobili è inibita dalla legge, quale la liquidazione concorsuale dell’eredità beneficiata o dell’eredità giacente (art. 506 c.c.): in tal senso Pratis, voce Privilegi, cit.,
1290; Ruisi, op. cit., 490, nonché A. Lecce, 30-3-1965, CBLP, 1965, 503.
31
In tal senso Pratis, voce Privilegi, cit., 1290; Ruisi, op. cit., 489. Annota poi Patti, op. cit., 111,
nota 136 che fintantoché il compendio mobiliare «non è stato liquidato non appare pertanto possibile
fare luogo a tale collocazione sussidiaria sul prezzo degli immobili».
674
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
4. Il tempo dell’esecuzione mobiliare “infruttuosa”.
Veniamo infine al cuore della sentenza che — dico subito — si segnala per aver affrontato, e risolto correttamente, un profilo dell’interpretazione dell’art. 2776 c.c. in genere
scarsamente trattato 32: id est se l’infruttuosa esecuzione sui mobili deve essersi consumata prima del pignoramento immobiliare per dar luogo alla collocazione sussidiaria o
possa verificarsi — come nel caso in esame — in qualsiasi momento, anche in pendenza
dell’esecuzione immobiliare, purché (ovviamente) prima della distribuzione del ricavato.
Il punto di partenza nell’indagine è offerto dall’ordinanza impugnata, secondo cui il
diritto alla collocazione sussidiaria viene a esistenza «nel momento in cui viene documentato il pignoramento negativo sui beni mobili del debitore esecutato», ossia soltanto
a causa e per effetto della «infruttuosa esecuzione».
È tesi che non può essere scartata a priori. Se un effetto giuridico è conseguenza di
una fattispecie complessa — nascita dell’obbligazione, condizioni di esistenza del privilegio generale, infruttuosa esecuzione sui mobili — a ciascuno di quegli elementi può in
prima analisi ascriversi il valore di fatto generatore dell’effetto. E poiché l’effetto s’esaurisce qui nel diritto di essere preferito nella distribuzione del ricavato della vendita immobiliare, non è insensato supporre che, se la prelazione non può essere esercitata in
difetto dell’esecuzione infruttuosa sui mobili, allora il privilegio non è neppure venuto ad
esistenza prima di allora.
Il passaggio logico successivo muove dall’affermazione che «costituisce principio
generale quello in forza del quale i privilegi sorti dopo il pignoramento non sono rilevanti». Benché nelle ordinanze del giudice, quella resa in udienza di discussione e quella
successiva in sede di adozione dei provvedimenti indilazionabili ex art. 618 c.p.c., si
faccia anche riferimento al fatto che «il presupposto per la collocazione del creditore
intervenuto in via privilegiata si era perfezionato successivamente al momento in cui era
stato effettuato l’intervento», la prima affermazione mi sembra costituire la genuina ratio
decidendi, in quanto coerente con la premessa della inesistenza del privilegio prima che
il «pignoramento negativo sui beni mobili del debitore esecutato» sia stato compiuto.
Non si discute, per dirla altrimenti, dei contenuti della domanda di intervento, ma di un
privilegio radicalmente inefficace nei confronti dei creditori concorrenti per la ragione, di
indole sostanziale, dell’art. 2916 c.c.: poiché l’esattore ha documentato di aver compiuto il pignoramento mobiliare dopo l’inizio della procedura esecutiva non può far valere
alcuna prelazione.
In definitiva, la tesi esposta nell’ordinanza può riassumersi in questi termini. Il privilegio
generale mobiliare, rimasto insoddisfatto, ne genera uno nuovo (pur esso generale) che
si distingue dal primo per l’oggetto. Trattandosi di un privilegio nuovo, la sua efficacia nei
confronti dei creditori concorrenti alla distribuzione deve verificarsi in base alla data in cui
è venuto a esistenza, per effetto dell’esecuzione infruttuosa. Queste opinioni tuttavia
non reggono a un più attento esame e passo quindi a esporre i miei motivi di critica.
32
Sul punto consta l’unico precedente del T. Monza, 14-12-1981, cit., che ha ammesso il creditore
alla collocazione sussidiaria per aver, tra l’altro, dimostrato di aver compiuto un pignoramento mobiliare negativo in pendenza della fase di distribuzione del ricavato dell’esecuzione immobiliare. La pronuncia, tuttavia, non affronta ex professo le questioni trattate nel testo.
Decisioni commentate
675
Quanto al primo tema, non vedo come l’estensione della prelazione al ricavato dell’espropriazione immobiliare possa mutare i caratteri essenziali del privilegio al punto da
doverne predicare la “novità”.
La fonte del privilegio consiste nella «causa del credito» (art. 2745 c.c.), ossia nel
titolo della pretesa 33. L’obbligazione individua non soltanto l’oggetto della prestazione
dovuta e il cui soddisfacimento è assistito da prelazione, ma anche i soggetti del
rapporto obbligatorio che in sede esecutiva vengono ad assumere la veste rispettivamente di avente diritto alla prelazione nei confronti dei concorrenti e di debitore esecutato 34.
Titolo della pretesa e obbligazione forniscono pertanto tutti gli elementi necessari a
formulare un giudizio di identità o differenza tra privilegi generali. Ben vero, né il titolo né
il credito individuano i beni su cui la prelazione può esercitarsi, ma ciò è ininfluente nella
ricognizione degli elementi di individuazione del privilegio generale perché il suo oggetto
è per definizione variabile e destinato a concretizzarsi soltanto in sede esecutiva (§ 2.).
Neppure l’eterogeneità dei beni — prima mobili, poi immobili — su cui la prelazione può
esercitarsi secundum legem, mi sembra decisiva per affermare la radicale novità del
diritto alla collocazione sussidiaria, visto che tale prerogativa appartiene fin dall’origine
allo statuto normativo del privilegio tutelato ex art. 2776 c.c., sia pur restando subordinata a una condizione di esercizio ulteriore.
In definitiva, poiché causa credendi e credito sono immutati, bisogna ammettere che
il privilegio fatto valere ai sensi dell’art. 2776 c.c. è lo stesso che il creditore ha già
inutilmente azionato sui mobili e non un quid novi che a quest’ultimo viene ad aggiungersi.
Giustamente la sentenza in commento afferma dunque che non si è «in presenza di
un privilegio sugli immobili, ma appunto di una collocazione sussidiaria sul prezzo degli
immobili di un credito assistito da privilegio generale sui beni mobili del debitore». Con
parole nostre diremo che il privilegio conserva la propria individualità, senza che a tale
giudizio di identità possa ostare la considerazione che l’oggetto della prelazione e il
luogo processuale di realizzo del credito sono diversi 35.
Secondo tema di riflessione critica: quando viene a esistenza il privilegio tutelato ex
art. 2776 c.c.? L’ordinanza impugnata risponde individuandone la nascita «nel momento
in cui viene documentato il pignoramento negativo sui mobili», all’effetto di applicare
all’esecuzione mobiliare la regola di inefficacia sancita dall’art. 2916 n. 3 c.c.
33
Della «causa del credito» si fornisce in genere una descrizione empirica come «scopo pratico» o
«giustificazione economica del credito stesso» (cosı̀ Andrioli, op. cit., 56 s.; Pratis, Della tutela, cit.,
119). Questa descrizione coglie bene la ratio legis dell’istituto — ossia la ritenuta meritevolezza di certi
crediti — ma lascia in ombra l’inerenza della causa del credito alla stessa fattispecie generatrice del
privilegio che, volta a volta, s’individua negli atti o fatti fonte di obbligazioni qualificate (per retribuzioni
di lavoro subordinato, imposte, ecc. Per questo motivo, nel testo, propongo di ricondurre la causa del
credito al titolo.
34
O eccezionalmente di debitore diretto in un’espropriazione contro il terzo proprietario, quando si
tratti di privilegi speciali efficaci nei confronti di terzi. Vedi per un’esaustiva rassegna Miccolis, L’espropriazione forzata per debito altrui, Torino, 1998, 95 ss.
35
In questo senso mi sembra potersi leggere anche l’annotazione di Patti, op. cit., 111, che nega al
diritto alla collocazione sussidiaria la natura di privilegio generale immobiliare.
676
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
La conclusione non può lasciare appagati, dopo aver riscontrato che, all’invarianza di
causa credendi e credito, segue l’identità del privilegio tutelato: visto che credito e
privilegio sui mobili sono un prius logico rispetto al compimento dell’esecuzione mobiliare infruttuosa, l’uno e l’altro non possono che preesistere a quell’evento che funge da
condizione di esercizio della prelazione sugli immobili. Soprattutto, cosı̀ ragionando, si
tralascia di considerare che:
— generalmente, il privilegio nasce in concomitanza con l’esistenza dell’obbligazione
qualificata dalla causa credendi, salvo che la legge ne subordini la costituzione alla
convenzione delle parti (c.d. privilegio convenzionale) o al compimento di determinate
forme di pubblicità (c.d. privilegio iscrizionale), secondo la classificazione tripartita adottata dall’art. 2745 c.c. e comunemente accettata in dottrina 36;
— ai fini della risoluzione del conflitto con i creditori concorrenti, l’art. 2916 c.c. — in
disparte il diverso trattamento fatto al privilegio iscrizionale (n. 2) — nega efficacia ai soli
«privilegi per crediti sorti dopo il pignoramento» (n. 3). A contrario, ma in modo inequivocabile, la norma conferma che il privilegio viene a esistenza col credito ed enuncia la
regola, parimenti di portata generale, che l’anteriorità del credito al pignoramento assicura la prelazione nel concorso 37.
A questi dati normativi s’appoggia una conclusione che — se non m’inganno —
smentisce i rilievi svolti nell’ordinanza impugnata. Il requisito dell’infruttuosa esecuzione
sui mobili, previsto dall’art. 2776 c.c. non è una forma di pubblicità e tanto meno una
convenzione. Ergo, benché sia condizione necessaria per l’effettivo esercizio della prelazione sul ricavato dell’espropriazione immobiliare, non è in senso stretto fatto costitutivo del privilegio generale, il quale deve intendersi venuto a esistenza già con la mera
nascita dell’obbligazione qualificata dalla causa credendi. Soprattutto, per verificare
l’efficacia della prelazione in sede distributiva, non è necessario che la data in cui
l’esecuzione sui mobili s’è inutilmente consumata sia anteriore al pignoramento, ma è
sufficiente che anteriore sia la data di nascita del credito (e quindi del privilegio generale).
Non mi nascondo che questa conclusione può prestare il fianco a diverse obiezioni. E
almeno due sono gli argomenti su cui conviene ancora riflettere prima di accettarla.
Anzitutto, è lecito obiettare che la tripartizione dei privilegi in funzione dei fatti costitutivi
(credito puro e semplice, convenzione, pubblicità) ha un valore meramente classificatorio e deve essere presa con tutta la prudenza con cui si esaminano le definizioni legislative.
36
Secondo Andrioli, op. cit., 56, presupposto del privilegio è «un atto o fatto idoneo a produrre il
diritto di prelazione in conformità all’ordinamento giuridico. Ora il fatto, al quale l’ordinamento giuridico collega tali effetti, è normalmente l’esistenza di alcuni crediti ...; eccezionalmente è la convenzione
delle parti o il compimento di determinate forme di pubblicità» (corsivo nel testo). Aderisce Pratis,
Della tutela, cit., 116 e 128.
37
Busnelli, Della tutela dei diritti (artt. 2907-2933 c.c.), IV, in Comm. cod. civ., Torino, 1980, 287:
«quella che conta è la data in cui sorge il credito in considerazione del quale sussiste il privilegio». Vedi
anche Bonsignori, Gli effetti del pignoramento, in Comm. cod. civ. diretto da Schlesinger, Milano, 2000,
117 ss. In giurisprudenza, nel senso che l’art. 2916 c.c. «disciplina le ipotesi in cui il credito ed il
privilegio siano sorti solo dopo l’inizio della procedura esecutiva od il privilegio sia divenuto efficace
solo dopo questo termine» v. Cass., 28-12-1994, n. 11250, DF, 1995, II, 554.
Decisioni commentate
677
Restano senz’altro fuori dall’art. 2745 c.c. e non sono presi in esame neppure dall’art.
2916 c.c., i privilegi speciali fondati sul possesso o detenzione dei beni da parte del
creditore preferito, nonché quelli basati sulla situazione locale dei beni oggetto di privilegio (cfr. art. 2747 cpv. c.c.). Ciò ancorché sia indiscusso che la particolare condizione
dei beni «deve sussistere non solo nel momento in cui il privilegio sorge, ma deve
continuare fino a quello in cui il privilegio si esercita. Se la condizione viene a mancare
il privilegio non può essere fatto valere in pregiudizio dei diritti che i terzi di buona fede
abbiano acquistato e, di regola, venuta meno la particolare situazione locale della cosa,
il privilegio s’estingue irrimediabilmente, senza più alcuna possibilità di farlo valere» 38,
anche nei confronti del creditore concorrente.
Dunque, come si suole riconoscere al possesso o alla situazione locale dei beni
valore costitutivo del privilegio e condizione di esercizio dello stesso nel concorso coi
creditori — nonostante il silenzio degli artt. 2745 e 2916 c.c. — cosı̀ è aperta la strada
a riconoscere un ruolo analogo al requisito, parimenti necessario per l’esercizio della
prelazione, rappresentato dalla «infruttuosa esecuzione sui mobili».
L’argomento è tuttavia non persuasivo. Nei casi testé esaminati, possesso e situazione locale dei beni sono necessari all’esistenza e all’esercizio del privilegio perché
manifestano la situazione di soggezione in cui i beni oggetto della prelazione attualmente
si trovano, assolvono cioè a una funzione lato sensu pubblicitaria, a tutela dell’affidamento della generalità dei terzi, e segnatamente degli altri creditori. L’analogia, almeno
sul piano dei risultati pratici, alle forme di pubblicità cui si riferiscono gli artt. 2745 e
2916, n. 2, c.c. è dunque stringente.
Cosı̀ non è per l’inutile svolgimento di una procedura esecutiva mobiliare, il quale non
ha — e su questo non credo possano nutrirsi grossi dubbi — alcuna capacità di manifestare e rendere pubblico lo stato di soggezione degli immobili appartenenti al debitore
al diritto di prelazione previsto dall’art. 2776 c.c., di modo che non viene in gioco alcuna
necessità di tutelare affidamenti quali che siano: né di terzi aventi causa dal debitore
— l’alienazione dell’immobile pregiudica infatti l’esercizio della prelazione (cfr. § 2.) — né
di creditori concorrenti nell’espropriazione immobiliare, i quali non hanno titolo a ricevere
notizia del privilegio ex art. 2776 c.c. prima che il creditore favorito scelga di esercitarlo,
si sia svolta l’esecuzione mobiliare infruttuosa prima o dopo il pignoramento immobiliare.
Il secondo argomento su cui riflettere riguarda la c.d. cristallizzazione delle cause di
prelazione alla data del pignoramento, di modo che alla mia tesi potrebbe replicarsi che
tutti i fatti che rendono possibile l’esercizio di una prelazione — abbiano essi, indistintamente, valore di presupposto, condizione di efficacia o di esercizio del privilegio o altro
ancora —, se verificatisi dopo il pignoramento, sono per ciò solo irrilevanti e non alterano il concorso dei creditori.
Non mi pare, tuttavia, che l’art. 2916 c.c. esprima una regola siffatta, tanto meno una
regola generalizzabile a tutte le vicende delle cause di prelazione, al di là di quelle scritte
e previste nella norma: iscrizione di ipoteca; compimento delle forme di pubblicità previste per il privilegio iscrizionale; venuta a esistenza del credito assistito da privilegio non
38
Pratis, Della tutela, cit., 138. Su questi privilegi, definiti possessuali e quasi-possessuali, e sui
mezzi di tutela del creditore cfr. anche Tucci, op. cit., 631 ss.
678
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
iscrizionale. Della necessità di una lettura restrittiva la giurisprudenza mostra di avere
consapevolezza:
— l’annotazione della trasmissione del vincolo ipotecario, che pure è necessaria ex
art. 2843 c.c. per l’esercizio dell’ipoteca, non equivale a “iscrizione” e quindi si sottrae
all’applicazione dell’art. 2916, n. 1 39;
— il credito dello Stato per imposte sui redditi (art. 2752, 1o co., c.c.) è assistito da
privilegio per l’imposta iscritta a ruolo nell’anno in cui l’esattore «procede a esecuzione»
— pignorando, intervenendo nell’esecuzione o insinuandosi al passivo fallimentare —
«e nell’anno precedente»; non è però necessario, affinché il credito sia ammesso al
privilegio, che il ruolo sia stato formato prima del pignoramento (o fallimento), purché il
presupposto di imposta, ossia la produzione di reddito imponibile, sia maturato prima di
tale data. Ciò in quanto «i crediti tributari nascono ex lege con l’avveramento dei relativi
presupposti, e non per effetto dell’atto amministrativo di accertamento» e «con la loro
nascita ha coinciso l’insorgere del privilegio, posto che questo, costituendo una qualità
del credito, non può che essere legato allo stesso ontologicamente e geneticamente sin
dal momento in cui viene ad esistenza, con la conseguenza che la disposizione dell’art.
2752, 1o co., c.c., vale a delimitare il periodo di efficacia del diritto di prelazione già sorto
e non il momento del suo sorgere» 40.
Concludendo, il privilegio tutelato ex art. 2776 c.c. esprime una qualità del credito e
viene a esistenza contestualmente ad esso. Nell’esecuzione mobiliare infruttuosa non
può ravvisarsi il compimento di una formalità pubblicitaria, cosı̀ da ritenerle applicabile
l’art. 2916, n. 2 (anziché il n. 3). Esce dunque confermato che la data utile per valutare
l’opponibilità del diritto alla collocazione sussidiaria coincide con quella di nascita del
credito e non con quella in cui l’esecuzione mobiliare è stata inutilmente esperita. E
ancora, che il pignoramento dell’immobile non rappresenta il termine oltre il quale il
creditore preferito è privato della possibilità di compiere l’esecuzione mobiliare infruttuosa sui beni del debitore, al fine di ottenere il beneficio della collocazione sussidiaria.
Esclusa la rilevanza della data del pignoramento, il momento ultimo utile per maturare
la condizione di esercizio della prelazione sul ricavato dell’espropriazione immobiliare
coincide dunque con il termine fino al quale è possibile l’intervento ancorché tardivo del
creditore privilegiato, ossia con l’udienza di discussione del progetto di distribuzione
(art. 566 c.p.c.) 41.
39
Il revirement rispetto al precedente indirizzo è rappresentato da Cass., 10-8-2007, n. 17644 che
giustamente rileva l’inapplicabilità dell’art. 2916 all’annotazione a fini identificativi del soggetto cessionario del credito e della garanzia, poiché tale formalità non ha alcuna valenza costitutiva della garanzia
in sé, che è già presente e iscritta. Cass., 11-2-2008, n. 3173 e Cass., 19-6-2008, n. 16669 estendono il
principio di diritto anche all’esecuzione concorsuale, ammettendo l’efficacia dell’annotazione della surrogazione ex art. 2843 c.c. anche se compiuta in data posteriore al fallimento.
40
Cosı̀ Cass., 28-12-1994, n. 11250, cit. Conformi tra le altre Cass., 17-3-1995, n. 3100; Cass.,
27-9-1996, n. 8254, Fa, 1997, 510, con nota di Anni, Riferimento temporale del privilegio del credito per
imposte dirette.
41
La soluzione è sostanzialmente comune alla sentenza qui annotata e al precedente, già cit.,
T. Monza, 14-12-1981. Questa sentenza peraltro individua nel «provvedimento di distribuzione» il
momento ultimo utile per intervenire e documentare al G.E. le condizioni di esercizio della prelazione.
Decisioni commentate
679
E infatti, se è indiscusso che fino a quell’udienza il creditore, ancorché rimasto prima
di allora estraneo all’esecuzione, ha titolo a intervenire e collocarsi sul ricavato in ragione
dei suoi diritti di prelazione, non esiste un’apprezzabile ragione per fare un trattamento
diverso al creditore che, essendo già intervenuto come chirografario, viene a maturare
entro quello stesso termine le condizioni per esercitare la prelazione 42.
Di tutto ciò s’è reso ben conto il giudice estensore della sentenza in commento che,
rivedendo l’orientamento espresso dal G.E., ha concluso che «i crediti per i quali si
domanda la collocazione in via sussidiaria devono essere sorti in epoca anteriore alla
data di trascrizione del pignoramento», ma «non è necessario che al momento dell’intervento già vi sia stata l’infruttuosa esecuzione».
ENRICO ASTUNI
42
Cosı̀ anche T. Monza, 14-12-1981, cit.: «poiché il diritto di prelazione dei creditori è salvo sol che
questi intervengano (seppur tardivamente, tuttavia) prima del provvedimento di distribuzione, è da
ritenere che ad analoga conclusione dovrebbe pervenirsi nel caso che non l’intervento (spiegato nella
specie tempestivamente) ma le condizioni per la collocazione sussidiaria del credito si siano create
prima del provvedimento di distribuzione».
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
(1-2-3) Art. 825 c.p.c.: «Il Tribunale, accertata la regolarità formale
del lodo, lo dichiara esecutivo [ma poco poco] con decreto»
TRIBUNALE DI ROMA, 17 marzo 2009 — De Fiore Estensore; Astaldi S.p.a. - Consorzio di
Bonifica Alli Punta di Copanello.
Lodo rituale — Provvedimento di esecutorietà — Efficacia immediata.
Il provvedimento che, ai sensi dell’art. 825 c.p.c., dichiara il lodo esecutivo è immediatamente
efficace (1).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Presidente,
letto il ricorso proposto dalla Astaldi S.p.a. diretto ad ottenere ai sensi dell’art.
825 c.p.c. “il decreto di esecutività, immediatamente efficace” del lodo arbitrale
emesso in data 9 settembre 2008 per la risoluzione della controversia instaurata
dall’impresa Astaldi S.p.a. nei confronti del Consorzio di Bonifica Alli Punta di
Copanello;
premesso che tale lodo era stato reso esecutivo con decreto ex art. 825 in data
16 ottobre 2008, decreto successivamente revocato dalla Corte di Appello di Roma,
non avendo la parte istante provveduto al deposito dell’atto contenente la convenzione di arbitrato in originale o in copia conforme;
rilevato che è stato adempiuto a tale formalità cosı̀ è stato consentito il controllo
(formale) sull’esistenza dell’incarico dato dalle parti e sulla compromettibilità della
materia;
ritenuta la sussistenza della regolarità formale del lodo sotto ogni ulteriore profilo;
ritenuto che la natura del controllo (l’accertamento è circoscritto alla “regolarità
formale” del lodo) e la forma del decreto che il provvedimento deve assumere rendono
palese che il provvedimento stesso può essere emesso inaudita altera parte, essendo
esso riconducibile nell’ampia categoria dei provvedimenti a contraddittorio differito;
ritenuto che — non essendo il contraddittorio escluso ma semplicemente differito — il soggetto di incostituzionalità è infondato (vedi sentenza Corte Cost.
4 marzo 1992 n. 80);
ritenutodall’altraparte,cheilreclamogarantitodall’ultimocommadell’art.825c.p.c.
con la possibilità di inibitoria, che è la misura stessa della costituzionalità della norma,
dimostrano che il provvedimento di esecutorietà è immediatamente efficace (esecutorietà peraltro che può essere contestata anche in sede esecutiva con l’opposizione all’esecuzione previa sospensione dell’esecutorietà) cosı̀ che non vi è luogo a pronuncia
circa l’immediata esecutività che è carattere insito nello stesso provvedimento;
dichiara esecutivo il lodo arbitrale emesso in data 9 settembre 2008 tra la Astaldi
S.p.a. ed il Consorzio di Bonifica Alli Punta di Copanello.
Decisioni commentate
681
TRIBUNALE DI CATANZARO, Sez. I, 24 settembre 2009 — Aloisi Estensore; Astaldi S.p.a. Consorzio di Bonifica Alli Punta di Copanello.
Lodo rituale — Provvedimento di esecutorietà — Esecuzione forzata — Sospensione.
La sospensione della procedura esecutiva può essere concessa tenendo conto della presenza o
meno del grave pregiudizio che l’esecuzione possa recare alla parte esecutata, o della probabile
fondatezza dei motivi formulati dalla suddetta parte con l’opposizione all’esecuzione cui la
richiesta di sospensione sia correlata (2).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Giudice dell’Esecuzione,
letti gli atti dell’espropriazione presso terzi n. 2019/2009 R.G.Espr. promossa da
Astaldi S.p.A. nei confronti del Consorzio di Bonifica Alli Punta di Copanello;
a scioglimento della riserva assunta al verbale di udienza del 23.07.2009;
decidendo sulla proposta istanza di sospensione delle procedure esecutive richiesta con il ricorso;
ritenuto che, in considerazione della serietà delle questioni sollevate o dall’approfondimento al quale i motivi contenuti nel ricorso vanno sottoposti nella sede propria della decisione di merito ed in considerazione della rilevante entità della somma
oggetto del pignoramento, l’istanza in esame è meritevole di accoglimento;
considerato che la sospensione può essere concessa tenendo conto della presenza
o meno del grave pregiudizio che l’esecuzione possa recare alla parte esecutata, o
della probabile fondatezza dei motivi formulati dalla suddetta parte con l’opposizione all’esecuzione cui la richiesta di sospensione sia correlata Sez. 3, sentenza
n. 13065 del 05/06/2007;
ritenuto che sussistono, allo stato, i presupposti per la richiesta di sospensione
della procedura atta sotto il profilo del xxxx che sotto il profilo del periculum;
P.Q.M.
sospende la procedura esecutiva;
assegna termine perentorio di giorni 90 dalla comunicazione della presente ordinanza per l’instaurazione del giudizio di merito previa iscrizione a ruolo e cura della
parte interessata, nel rispetto dei termini di cui all’art. 163 bis c.p.c. ridotti della
metà.
TRIBUNALE DI CATANZARO, Sez. II, 28 dicembre 2009 — Arcuri Presidente — Nania Relatore;
Astaldi S.p.a. - Consorzio di Bonifica Alli Punta di Copanello.
Lodo rituale — Provvedimento di esecutorietà — Efficacia immediata — Esclusione.
In difetto di una espressa previsione legislativa, il decreto di concessione della esecutorietà del
lodo, finché è pendente reclamo, non produce alcun effetto, dovendosi attendere per la sua
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
efficacia (e la conseguente efficacia esecutiva del lodo) la conclusione del suo procedimento
(complessivamente inteso, e quindi comprensivo anche della fase del reclamo (3).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con reclamo depositato il 13 ottobre 2009, Astaldi s.p.a. deduceva:
a) che con ricorso del 26 maggio 2009 il Consorzio di Bonifica Alli Punta di
Copanello proponeva opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso l’esecuzione promossa
— con pignoramento presso terzi — da Astaldi in base ad un lodo arbitrale emesso
inter partes e dichiarato esecutivo ex art. 825 c.p.c. con decreto del Presidente del
Tribunale di Roma;
b) che il suddetto lodo aveva condannato il Consorzio al pagamento in favore di
Astaldi della somma di euro 35.587.142,27;
c) che il Consorzio di Bonifica deduceva, a fondamento dell’opposizione, i seguenti motivi:
— il titolo azionato da Astaldi non avrebbe acquistato efficacia esecutiva;
— il decreto de quo sarebbe nullo in quanto emesso dal Presidente del Tribunale
di Roma e non dal Tribunale in composizione collegiale;
— il decreto de quo sarebbe nullo perché emesso dopo il rigetto di un’istanza di
ricusazione, ma senza una formale riassunzione;
— il decreto de quo sarebbe altresı̀ nullo perché emesso senza instaurazione del
contraddittorio;
— le somme pignorate sarebbero impignorabili;
— l’importo precettato sarebbe in parte compensabile con l’importo di euro
11.105.664,47 che Astaldi avrebbe dovuto restituire quale anticipazione contrattuale;
d) che il giudice dell’esecuzione del Tribunale di Catanzaro, ritenendo fondati i
motividell’opposizione,sospendevalaproceduraesecutivaconl’ordinanzareclamata;
c) che il provvedimento del giudice dell’esecuzione non poteva essere condiviso
poiché:
— la procedura di cui all’art. 825 c.p.c. sarebbe speciale e non potrebbe in alcun
modo essere ricondotta ai riti camerali, onde l’applicabilità ad essa dell’art. 741
c.p.c. — prospettata dal Consorzio — sarebbe del tutto errata;
— il decreto ex art. 825 c.p.c. avrebbe un solo oggetto, l’esecutività del lodo
relativamente al quale è chiesto, e se il decreto in parola non fosse immediatamente
esecutivo, “lo stesso decreto non avrebbe nessuna reale funzione”;
— competente ad emettere il decreto sarebbe il giudice monocratico (e quindi
anche il Presidente del Tribunale) e non il Tribunale in composizione collegiale, in
quanto il collegio giudicherebbe solo sulle cause di cui all’art. 50-bis c.p.c.;
— nessuna norma imporrebbe la sospensione del procedimento di exequatur in
attesa della definizione della procedura incidentale di ricusazione;
— la procedura di esequatur non richiederebbe alcuna instaurazione del contradditorio, trattandosi di procedimento a contraddittorio differito, che potrebbe essere
Decisioni commentate
683
instaurato solo a seguito dell’eventuale reclamo avverso il decreto che dichiara esecutivo il lodo,
— le somme di denaro ed i crediti della p.a. potrebbero dirsi impignorabili solo
per effetto di una disposizione di legge o di un provvedimento amministrativo che
nella legge trovi fondamento, gravando in ogni caso sull’amministrazione l’onere di
dimostrare l’esistenza del vincolo di impignorabilità, e nel caso di specie il Consorzio non avrebbe fornito alcuna prova in merito all’esistenza del suddetto vincolo;
— la compensazione invocata dal Consorzio non potrebbe riguardare la corresponsione degli interessi sulle somme da esso versate a titolo di anticipazione,
poiché le norme invocate dal Consorzio non sarebbero applicabili agli enti pubblici
economici.
Tanto premesso, Astaldi chiedeva l’annullamento dell’ordinanza del GE del 24
settembre 2009, e, per l’effetto, la prosecuzione dell’esecuzione.
2. Si costituiva nel giudizio di reclamo il Consorzio di Bonifica Alli Punta di
Copanello, il quale, riportandosi al proprio atto di opposizione all’esecuzione, ribadiva la fondatezza dell’opposizione dispiegata e la correttezza dell’ordinanza di sospensione della procedura esecutiva.
In particolare, il Consorzio affermava:
a) che il lodo arbitrale in forza del quale aveva avuto inizio l’esecuzione avrebbe
dovuto ritenersi privo di efficacia esecutiva, essendo (ancora) privo di effetti il decreto di exequatur;
b) che la suddetta conclusione dovrebbe fondarsi sugli artt. 737 c.p.c. ss. disciplinanti la procedura camerale, applicabili al procedimento ex art. 825 c.p.c.;
c) che il decreto sarebbe altresı̀ nullo in quanto emesso dal Presidente del tribunale di Roma, anziché dal collegio del Tribunale, in netto contrasto con l’art. 825
c.p.c. il quale fa menzione del “Tribunale”, intendendo con tale termine il collegio,
e non del Presidente del Tribunale, che al riguardo sarebbe privo di qualsivolglia
competenza;
d) che il decreto sarebbe ulteriormente viziato in quanto emesso a seguito di un
procedimento riattivato d’ufficio dopo la presentazione di un’istanza di ricusazione
del Presidente del Tribunale;
e) che il decreto sarebbe nullo perché emesso senza instaurazione del contradditorio tra le parti, in violazione degli artt. 24 e 111 Cost.;
f) che, infine, avrebbe dovuto essere portato in compensazione con il credito
azionato da Astaldi quello vantato dal Consorzio e pari ad euro 13.396.767, 87,
originato dalla quota dell’anticipazione contrattuale sui lavori, già erogata e non
ancora riassorbita.
3. All’esame dei motivi del reclamo deve premettersi un breve cenno alla disciplina relativa alla concessione dell’esecutorietà dei lodi arbitrali.
Essa trova il proprio referente normativo nell’art. 825 c.p.c. che, nella formulazione attualmente in vigore, recita: «[I]. La parte che intende fare eseguire il lodo
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
nel territorio della Repubblica ne propone istanza depositando il lodo in originale, o
in copia conforme, insieme con l’atto contenente la convenzione di arbitrato, in originale o in copia conforme, nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede
dell’arbitrato. Il tribunale, accertata la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. Il lodo reso esecutivo è soggetto a trascrizione o annotazione, in tutti
i casi nei quali sarebbe soggetta a trascrizione o annotazione la sentenza avente il
medesimo contenuto. [II]. Del deposito e del provvedimento del tribunale è data
notizia dalla cancelleria alle parti nei modi stabiliti dell’articolo 133, secondo comma.
[III]. Contro il decreto che nega o concede l’esecutorietà del lodo, è ammesso reclamo
mediante ricorso alla corte d’appello, entro trenta giorni dalla comunicazione: la
corte, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con ordinanza».
Tale formulazione è il frutto della novella introdotta dall’art. 23 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40; il testo previgente, a sua volta originato dall’intervento del legislatore attuato con l. 5 gennaio 1994 n. 25 e d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51, disponeva:
«[I]. Gli arbitri redigono il lodo in tanti originali quante sono le parti e ne danno
comunicazione a ciascuna parte mediante consegna di un originale, anche con spedizione in prico raccomandato, entro dieci giorni dalla data dell’ultima sottoscrizione. [II]. La parte che intende fare eseguire il lodo nel territorio della Repubblica
è tenuta a depositarlo in originale o in copia conforme, insieme con l’atto di compromessa o con l’atto contenente la clausola compromissoria o con documento
equipollente, in originale o in copia conforme, nella cancelleria del tribunale nella
cui circoscrizione è la sede dell’arbitrato. [III]. Il tribunale, accertata la regolarità
formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto. Il lodo reso esecutivo è soggetto
a trascrizione, in tutti i casi nei quali sarebbe soggetta a trascrizione la sentenza
avente il medesimo contenuto. [IV]. Del deposito e del provvedimento del tribunale
è data notizia dalla cancelleria alle parti nei modi stabiliti nell’articolo 133, secondo
comma. [V]. Contro il decreto che nega l’esecutorietà del lodo, è ammesso reclamo
entro trenta giorni dalla comunicazione, mediante ricorso al tribunale in composizione collegiale, del quale non può far parte il giudice che ha emesso il provvedimento reclamato; il collegio, sentite le parti, provvede in camera di consiglio con
ordinanza non impugnabile».
Sulla base di questa previgente disciplina, che prevedeva la possibilità di reclamo
solo per l’ipotesi di provvedimento di negazione dell’esecutorietà del lodo, la giurisprudenza e la dottrina affermavano l’immediata efficacia del decreto di concessione dell’esecutorietà del lodo, i cui eventuali vizi potevano essere fatti valere in
sede di impugnazione del lodo arbitrale, il quale assorbiva il decreto associandolo
alla propria sorte.
In particolare, la facoltà della parte di ottenere ex art. 830 c.p.c. (vecchia formulazione) la sospensione dell’esecuzione della sentenza arbitrale poteva consentire
un’immediata sterilizzazione degli effetti (immediatamente prodottisi del decreto
concessivo ipoteticamente invalido o erroneo (cfr. C. Cost. 4 marzo 1992 n. 80).
Decisioni commentate
685
Sempre riguardo alla disciplina previgente, la giurisprudenza — pur aderendo a
quella parte della dottrina che ritiene il procedimento in esame riconducibile
all’ambito della volontaria giurisdizione (altra parte della dottrina lo ritiene invece
un procedimento di accertamento con prevalente funzione esecutiva di diritti
nascenti da un dictum arbitrale) — riteneva che l’art. 825 c.p.c. rappresentasse una
procedura del tutto autonoma e specifica, onde l’exequatur non avrebbe mai
potuto trovare la propria disciplina nelle regole generali dettate per i procedimenti
in camera di consiglio ex artt. 737 e ss. c.p.c. (cfr. Cass. civ. 11 febbraio 1995
n. 1553).
Ancora parte della dottrina e la giurisprudenza ritenevano il procedimento in
oggetto caratterizzato da estrema rapidità e snellezza, e circoscritto al controllo sulla
tempestività del deposito e sulla regolarità formale del lodo, sı̀ da escludersi una
necessaria e preliminare instaurazione del contraddittorio. Quest’ultimo, tuttavia,
avrebbe trovato piena estrinsecazione: a) nel giudizio di reclamo avverso il decreto
che avesse negato l’esecutorietà del lodo: b) nel giudizio di impugnazione del lodo,
nel caso di decreto di concessione dell’esecutorietà, per il quale, come detto, era
escluso il reclamo.
In altre parole, la giiurisprudenza formatasi nel vigore della precedente disciplina
ricostruiva l’exequatur dei lodi arbitrali come procedimento a contraddittorio differito.
4. La novella introdotta con il d.lgs. n. 40 ha radicalmente mutato il quadro normativo sul quale era maturata l’elaborazione giurisprudenziale prima richiamata:
l’art. 825 c.p.c. ora prevede la possibilità di proporre reclamo, dinnanzi alla Corte
d’Appello, anche contro il decreto che concede l’esecutorietà del lodo.
Si pone allora la seguente questione: è immediatamente produttivo di effetti — e
pertanto determina l’immediata efficacia esecutiva del lodo arbitrale — il decreto
che concede l’esecutorietà in pendenza del reclamo proposto ex art. 825 c.p.c.?
La precedente giurisprudenza affermava l’immediata efficacia del decreto di esecutorietà del lodo; ma questa era l’ovvia conseguenza dell’impossibilità di reclamare
il decreto concessivo, mentre la questione neanche si poneva in relazione al decreto
negativo, poiché, in quel caso, l’esecutorietà del lodo sarebbe potuta discendere
solo dall’accoglimento del reclamo.
La questione, nella fattispecie per cui è causa, è determinante, posto che l’affermazione della inefficacia del decreto in pendenza del suo reclamo renderebbe nulla
la procedura esecutiva iniziata sulla base di un titolo (il lodo) non esecutivo al momento dell’intimazione del precetto; non rilevando l’eventuale sopravvenienza della
sua esecutività (cfr. ex multis Cass. civ. 16 settembre 2005 n. 18355).
Nel caso di specie, Astaldi ha iniziato l’esecuzione nei confronti del Consorzio
essendo ancora pendente il reclamo proposto dinnanzi alla Corte di Appello di
Roma avverso il decreto di concessione dell’esecutorietà del lodo arbitrale; l’udienza
di discussione del reclamo è infatti fissata per il 21 gennaio 2010.
686
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Orbene, il Consorzio ritiene applicabile alla procedura ex art. 825 c.p.c. del rito
camerale, in relazione al quale l’art. 741 c.p.c. stabilisce che i decreti acquistano
efficacia solo quando siano decorsi i termini per proporre reclamo.
Nel nostro caso, applicando la tesi del Consorzio, il decreto de quo non avrebbe
ancora prodotto effetti, essendo pendente il suo reclamo; solo il provvedimento della
Corte di Appello, definendo il reclamo, sarebbe produttivo di effetti e pertanto, in
ipotesi, idoneo a far acquistare l’efficacia di titolo esecutivo al lodo arbitrale.
La tesi non convince.
Pur se parte della dottrina e la giurisprudenza di legittimità riconducono alla
volontaria giurisdizione la procedura ex art. 825 c.p.c. e anche se la struttura del
procedimento di exequatur è, per certi aspetti, avvicinabile a quella dei procedimenti camerali ex art. 737 c.p.c. e ss., tuttavia non può che confermarsi, anche nel
vigore della nuova disciplina, l’affermazione per cui la disciplina contenuta nell’art.
825 c.p.c. è autonoma e speciale, e pertanto non trova un ulteriore referente normativo nella disciplina del rito camerale.
In tal senso depone non solo la peculiarità dell’accertamento cui è chiamato il
giudice dell’exequatur (competenza e regolarità formale del lodo) ma altresı̀ la specialità della procedura, che continua ad essere a contradditorio differito e pertanto
distinta da quella camerale.
Infatti, non è previsto che il tribunale, che deliba in prime cure sull’esecutorietà
del lodo, debba ascoltare le parti (come invece previsto nel rito camerale per procedimenti c.d. plurilaterali, ove il provvedimento camerale debba dispiegare i suoi
effetti nei confronti di due o più parti), mentre tale obbligo è espressamente indicato
per il giudizio di reclamo dinnanzi alla corte d’appello, che decide “sentite le parti”:
ove il legislatore — evidentemente consapevole della giurisprudenza emessa sulla
questione — ha voluto il contradditorio lo ha espressamente richiesto; ove il contraddittorio non era necessario — data la snellezza e rapidità che l’exequatur deve
avere, quantomeno nella delibazione riservata al Tribunale — il legislatore non lo ha
preteso.
Deve pertanto escludersi che al procedimento di dichiarazione di esecutorietà del
lodo possa trova diretta applicazione la normativa sui procedimenti in camera di
consiglio di cui agli artt. 737 c.p.c. e seguenti.
5. Ciò posto, deve individuarsi la disciplina degli effetti del decreto concessivo
della esecutorietà del lodo in pendenza del suo reclamo.
Al riguardo, priva di pregio giuridico si rivela la deduzione difensiva di Astaldi,
secondo la quale “il decreto previsto dalla norma (l’art. 825 c.p.c.) ha un solo oggetto: l’esecutività del lodo relativamente al quale è stato richiesto. Se non fosse
immediatamente efficace il decreto che rende il lodo esecutivo, lo stesso non
avrebbe alcuna reale funzione”, poiché essa si riduce ad una tautologia che non
spiega alcunché sulla disciplina degli effetti e, soprattutto, non tiene in considerazione le conseguenze prodotte dalla pendenza del reclamo.
Decisioni commentate
687
La norma in esame nulla dice in ordine all’eventuale (provvisoria) efficacia del
decreto in pendenza del suo reclamo: non dichiara il decreto immediatamente efficace; non concede al presidente della corte d’appello, in caso di grave pregiudizio
per la controparte, il sospenderne provvisoriamente gli effetti. Tuttavia, anche il
silenzio della norma può essere proficuamente impiegato nell’attività ermeneutica
dell’interprete.
È agevole riscontrare come il legislatore del processo civile, dove ha voluto riconoscere effetti inter partes a provvedimenti giurisdizionali non meramente ordinatori ed ancora suscettibili di impugnazione, ha avvertito la necessità di indicarlo
espressamente, posto che, in difetto di indicazione, avrebbe trovato applicazione il
generalissimo principio per cui il provvedimento giurisdizionale non produce effetti
finché non si è esaurito il procedimento (comprensivo anche dei gradi di impugnazione) preordinato alla sua emanazione.
Infatti, a titolo di esempio e senza pretesa d’esaustività, si ricorda che il legislatore ha espressamente sancito la provvisoria esecutività, si ricorda che il legislatore ha espressamente sancito la provvisoria esecutività delle sentenze di
condanna non ancora passate in giudicato (art. 282 c.p.c.), delle sentenze di pagamento ai sensi degli artt. 186-bis, 186-ter e 186-quater c.p.c., delle sentenze di
condanna nel processo del lavoro (art. 431 c.p.c.); ancora, ha dovuto prevedere in
via espressa la possibilità di concedere la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo (art. 642 c.p.c.); ha espressamente previsto l’esecutività dell’ordinanza
che convalida la licenza o lo sfratto (art. 663 c.p.c.); ha espressamente previsto
che, nel rito cautelare uniforme, la proposizine del reclamo non sospende l’esecuzione del provvedimento impugnato, salva la sospensione disposta per motivi
sopravvenuti ed in caso di grave danno, dal presidente del tribunale o della corte
investiti dal reclamo.
È proprio il rilievo per cui ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit che induce a
concludere nel senso che, in difetto di una espressa previsione legislativa, il decreto
di concessione della esecutorietà del lodo, finché è pendente reclamo, non produce
alcun effetto, dovendosi attendere per la sua efficacia (e la conseguente efficacia
esecutiva del lodo) la conclusione del suo procedimento (complessivamente inteso,
e quindi comprensivo anche della fase del reclamo).
Del resto, tale ermeneutica appare senz’altro confacente alla natura di procedimento a contraddittorio differito poc’anzi affermata; in mancanza di una norma
espressa (quale, ad esempio, l’art. 642 c.p.c. in tema di decreto ingiuntivo, che peraltro ammette la concessione della provvisoria esecuzione solo nelle ipotesi ivi contemplate), l’efficacia di un provvedimento emesso senza preventiva instaurazione
del contraddittorio non può che essere rimandata o alla scadenza dei termini per la
sua impugnazione o alla eventuale fase di impugnazione, ove si realizza il contraddittorio, sı̀ da consentire al giudice, chiamato a confermare, modificare o revocare il
provvedimento inaudita altera parte, un’adeguata deliberazione non solo delle ra-
688
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
gioni della parte istante, ma anche di quelle della controparte, nel rispetto del diritto
di difesa ex art. 24 cost.
Altrimenti detto, se si consente che un provvedimento giurisdizionale vincoli un
soggetto, deve previamente consentirsi che questo soggetto possa esporre al giudice
le proprie ragioni; altrimenti, in mancanza di una norma di legge — la quale, peraltro, deve essere costruita in modo da superare il vaglio di ragionevolezza — nessun
effetto può legittimamente discendere da un provvedimento giurisdizionale emesso
senza instaurazione del contraddittorio.
Per tale ragione, affermata la specialità della procedura ex art. 825 c.p.c., esclusa
l’applicabilità delle norme del rito camerale, non resta che applicare, alla disciplina
degli effetti del decreto concessivo della esecutorietà del lodo, il generale principio
secondo il quale un provvedimento giurisdizionale, non meramente ordinatorio, in
mancanza di una espressa disposizione di legge non produce effetti finché non si sia
concluso il procedimento preordinato alla sua emanazione.
6. Non incide sulle considerazioni che precedono la circostanza che nel decreto
concessivo il Presidente del Tribunale di Roma abbia affermato l’immediata efficacia del decreto; siffatta affermazione, oltre ad essere errata per quanto poc’anzi
detto, non risulta giustificata da alcuna norma — attributiva di un potere di concessione di immediata efficacia, cosı̀ come invece accade per il decreto ingiuntivo —
e pertanto non vincola questo Collegio.
Altresı̀, non sortisce alcuna conseguenza l’ordinanza del 16 aprile 2009 con la
quale, assai stringatamente, la Corte di Appello di Roma ha rigettato l’istanza di
inibitoria ex art. 830 c.p.c., posto che in quella sede la Corte è stata chiamata a
valutare il fumus boni iuris dell’impugnazione del lodo nonché l’eventuale periculum
discendente dalla esecuzione della sentenza arbitrale, mentre è rimasta devoluta al
giudice dell’esecuzione la valutazione dell’efficacia esecutiva del titolo posto a fondamento dell’esecuzione (al riguardo, si veda l’ordinanza di questo Tribunale, Pres.
Arcuri, Rel. Nania, nella causa RGR n. 87/2009, Ranieri-Pittelli c. Pittelli, secondo
cui mentre il giudice “naturale” dell’efficacia del titolo esecutivo è il giudice dell’esecuzione, il giudice dell’impugnazione è chiamato, in sede di inibitoria, a delibare sul fumus dell’impugnazione e sul periculum che l’esecuzione della sentenza
potrebbe arrecare all’impugnante, e l’eventuale sospensione dell’efficacia del titolo
che dovesse disporre è solo l’ovvio portato della suddetta deliberazione; per tale
ragione, una pronuncia del giudice dell’impugnazione sull’esecutività del medesimo, non vincola il giudice dell’esecuzione nella valutazione — che gli spetta in via
principale — dell’efficacia esecutiva del titolo).
7. Le argomentazioni che precedono valgono a giustificare il rigetto del reclamo in
esame, con conseguente conferma dell’impugnata ordinanza, dovendosi ritenere
assorbiti gli ulteriori motivi di impugnazione proposti da Astaldi. (Omissis)
RASSEGNA DELLE DECISIONI DELLA CASSAZIONE
4 TRIMESTRE 2009
O
a cura di Gabriella Tota
CORTE DI CASSAZIONE, S.U., 24 dicembre 2009, n. 27365 — Carbone Presidente — Forte
Relatore — Iannelli P.M. (concl. conf.); G.M.G. - Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Equa riparazione — Giudizio di cognizione e processo esecutivo e di ottemperanza —
Rapporto — Autonomia — Conseguenze.
In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del processo, il
processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile, nonché
quello cognitivo e quello di ottemperanza davanti al giudice amministrativo devono considerarsi
tra loro autonomi. Conseguentemente, la loro durata non può sommarsi per rilevarne una
durata complessiva dei due diversi processi, anche ai fini del rispetto del termine di proponibilità
dell’azione ai sensi dell’art. 4 della L. n. 89 del 2001 (1).
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso della G. deduce violazione della L. n. 89 del 2001,
artt. 4 e 2 e la disapplicazione dai giudici di merito degli artt. 26, 35, 6, 1, e 13, della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e
ratificata con l. 4 agosto 1955 n. 848, come modificata dal Protocollo n. 11 firmato
a Strasburgo l’11 maggio 1994, lamentando la insufficiente o omessa motivazione
del decreto e la sua contraddittorietà, in rapporto alla consolidata giurisprudenza
della Corte sovranazionale sul concetto di processo, nel quale vengono compresi la
fase di cognizione e quella di esecuzione considerate unitariamente, con conseguente errore di diritto del provvedimento impugnato che afferma invece l’autonomia dei due processi e la pone a base del rigetto delle domande, in contrasto con
l’interpretazione delle norme sovranazionali data dal loro giudice naturale, la Corte
europea di Strasburgo, costituente il diritto vivente, cui i giudici sono tenuti a conformarsi ai sensi di S.U. 26 gennaio 2004 n. 1338, 1339 e 1340 e per non essersi i
giudici di merito uniformati al principio enunciato da Cass. 18 aprile 2005 n. 7978,
che tale considerazione unitaria aveva deciso; con il secondo motivo, è dedotta
violazione degli artt. 111 e 117 Cost., in relazione alla denunciata disapplicazione
della Convenzione sovranazionale di cui sopra, trasformando in rimedio apparente
quello predisposto dalla L. n. 89 del 2001, a tutela dei soggetti danneggiati dalla
lesione del loro diritto ad una durata ragionevole del processo, attraverso la consi-
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
derazione disgiunta della fase cognitiva del processo amministrativo da quella d’ottemperanza.
1.2. Su tale ricorso, la prima sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 6442
dell’11 febbraio 2009, ha rilevato il contrasto esistente nella stessa sezione in ordine
alla considerazione unitaria o autonoma del processo amministrativo di cognizione
e di quello di ottemperanza, sia per il computo della durata ragionevole che per
determinare quale sia la decisione definitiva dalla cui data far decorrere il termine
semestrale di decadenza della L. n. 89 del 2001, art. 4, per chiedere l’equa riparazione.
L’ordinanza, rilevato che nel caso il processo presupposto non aveva ad oggetto
l’annullamento di un atto amministrativo ma solo l’attribuzione di emolumenti negati dall’Amministrazione di appartenenza alla G., afferma che “in questo caso,
orientamento risalente alla pronuncia n. 7978/2005 e costantemente ribadito, ha
ravvisato la sussistenza di uno stretto collegamento tra processo amministrativo e
giudizio di ottemperanza, poiché tale ultimo giudizio si connota come sostitutivo
dell’amministrazione inerte, mirando a soddisfare in senso effettivo l’interesse sostanziale riconosciuto dalla sentenza da adempiere con un provvedimento che
spesso si palesa integrativo di tale sentenza e ne specifica il contenuto”.
Consegue a tale premessa “che il momento in cui la decisione che conclude il
medesimo procedimento è divenuta definitiva, ai fini della proponibilità della domanda di equa riparazione della L. n. 89 del 2001, ex art. 4, va identificato con il
compimento della attività”. L’ordinanza, richiamato l’assetto normativo rilevante
per la decisione (L. 20 marzo 1865, n. 2248, art. 4, comma 2, all. E, che impone alla
P.A. di conformarsi al giudicato dei tribunali, L. 31 marzo 1889, n. 5992, istitutiva
della IV sezione del Consiglio di Stato, che ha introdotto il giudizio di ottemperanza, confermata dal R.D. 26 giugno 1924, n. 1054, art. 27, n. 4, T.U. sul Consiglio
di Stato e dalla L. 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 37), riassume la ratio della considerazione unitaria del processo amministrativo, di cui alla citata Cass. n. 7978 del
2005, in rapporto alla assenza, nel giudizio di cognizione dinanzi al giudice amministrativo “di un preciso jussum iudicis in ordine al contenuto dell’adempimento”
che la P.A. deve porre in essere per attuare il giudicato, con la conseguenza che la
pronuncia conclusiva del processo di ottemperanza “concorre ad identificare la volontà concreta con una sentenza determinativa, che integra le statuizioni della sentenza da adempiere” per soddisfare la posizione soggettiva azionata e decisa in sede
cognitoria.
Viene anche richiamata nello stesso senso la ordinanza di questa Corte n. 25511
del 20 ottobre 2008, per la quale “lo scrutinio dell’iter del processo presupposto
deve essere condotto tenendo conto della fase attuativa del giudizio conclusosi dinanzi al TAR, rispetto alla quale si pone un necessario distinguo, nel senso che,
laddove essa dovesse risultare omologa, quanto a contenuto e parti, nonché strumentale, rispetto al dictum da adempiere, i relativi tempi, saldandosi, concorrono a
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
691
determinare il computo unitario della ragionevole durata, segnando nel contempo il
dies a quo della decorrenza del termine di decadenza previsto per la presentazione
dell’istanza di equa riparazione. In ogni altro caso, per intendersi laddove il giudice
amministrativo abbia disposto l’annullamento di un provvedimento della P.A., detta
sommatoria... va invece esclusa”.
Viene quindi riportata la diversa soluzione adottata sulla stessa questione da varie
pronunce di questa Corte del 2009 (Cass. n. 1732 e 1733 del 23 gennaio, 2186 e
2187 e 2188 del 28 gennaio, 4189 e 4190 del 12 marzo), che negano “continuità tra
il processo amministrativo e quello di ottemperanza, affermando per l’effetto che
l’atto conclusivo, ai fini della decadenza sancita dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, deve
essere accertato all’interno di ciascuno dei due giudizi”, in quanto, agli effetti della
legge Pinto, “l’identità unitaria del processo va accertata tenendo conto della sua
introduzione e della sua conclusione con il provvedimento che esprime in senso
definitivo ed immodificabile il dictum del giudice, dunque con la cosa giudicata
formale... Nella cornice sistematica del codice di rito il processo di cognizione non
si collega organicamente all’azione esecutiva”. Come rilevano le decisioni del 2009 e
ripete l’ordinanza di rimessione, “diversamente opinando l’azione esecutiva fungerebbe quasi da condizione risolutiva della stessa definitività, procurando una sorta
di rimessione in termini della parte incorsa in decadenza”. Tanto giustifica pure
l’orientamento della giurisprudenza “che distingue i giudizi considerati ai fini dell’equa riparazione (Cass. 16 maggio 2006 n. 25529). Siffatta costruzione dualistica
non è estensibile tout court al processo amministrativo”.
L’ordinanza richiama le differenze riscontrate nelle sentenze del 2009, tra processo di esecuzione e quello di ottemperanza, per le quali potrebbe in astratto giustificarsi la loro differente considerazione rispetto a quello cognitivo, identificando
tali, differenze: “1) nella estensione della competenza anche al merito che, non estranea al processo esecutivo, è tipica del giudizio considerato; 2) nella coesistenza in
esso anche di una sfera cognitiva concretantesi nella verifica dell’obbligo di adempimento da parte della P.A. tenuta ad osservare il dictum della sentenza ovvero in
un’attività di accertamento sconosciuta al processo esecutivo; 3) nella sua ratio, tesa
a concretare la regola di prevalenza enunciata in precedenza dal giudice della cognizione; 4) nella esigenza d’integrità del contraddittorio, assente invece nel processo esecutivo, informato al più blando principio dell’audizione; 5) nell’ampiezza
dei poteri attribuiti al giudice in sede di ottemperanza, pur nel rispetto del limite
generale posto dalla L. 20 marzo 1865, art. 4, All. E”. Le diversità tra processo
esecutivo e di ottemperanza si esplicitano chiaramente se si considera che: il giudizio
di ottemperanza può essere promosso anche da soggetto che non ha partecipato al
giudizio di cognizione, laddove il giudicato sia efficace ultra partes, ovvero nei confronti di amministrazione diversa da quella evocata in causa; può avere un iter duplicato in più gradi, dal momento che contro la relativa sentenza possono essere
esperiti plurimi mezzi impugnatori — appello, opposizione di terzo, ricorso per cas-
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
sazione per difetto di giurisdizione; consente possibile regressione a giudice inferiore L. 8 dicembre 1971, n. 1034, ex art. 37, u.c., non assimilabile alla translatio
judicii prevista dal codice di rito; può essere promosso anche per le sentenze del
TAR provvisoriamente esecutive e finanche per le ordinanze cautelari; il termine per
la sua introduzione è in sostanza indeterminato, siccome si colloca entro il limite dei
10 anni proprio dell’actio judicati del R.D. n. 642 del 1907, ex art. 90, e ciò consentirebbe di procrastinare pressoché ad libitum il termine di decadenza di cui si discute.
Né si può escludere l’insostenibilità degli effetti di ordine sistematico laddove si
sottraesse dalla durata complessiva il tempo intercorso tra la sentenza e l’inizio del
giudizio di ottemperanza, imputandolo ex art. 2 legge Pinto al comportamento della
parte, benché non abbia natura endoprocessuale. Di qui l’evidente cesura tra processo amministrativo e giudizio di ottemperanza, che non possono che considerarsi
separatamente sia ai fini della durata del processo della cui ragionevolezza si controverte che in relazione alla definitività della pronuncia conclusiva o da cui far
decorrere il termine per chiedere l’equo indennizzo ovvero del processo pendente
di ottemperanza nel corso del quale proporre domanda relativa all’indennizzo dovuto per la durata di esso e del processo di cognizione da sommarsi per determinarne la ragionevolezza.
2.1. Il ricorso della G. si fonda sul primo dei due indirizzi ermeneutici riportati
nell’ordinanza di rimessione che precede, cioè quello che considera unitariamente
processo cognitivo e giudizio di ottemperanza e con esso si domanda a questa Corte
di applicare i principi ermeneutici adottati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo
di Strasburgo, giudice naturale della C.E.D.U. cui rinvia espressamente la L. 24
marzo 2001, n. 89, art. 1, comma 1, e che vincolano i giudici nazionali che ad essi
devono adeguarsi nel dare applicazione al rimedio interno attuativo dell’accordo
internazionale, come esattamente rilevato da queste stesse Sezioni unite nelle citate
sentenze n.ri 1338, 1339 e 2340 del 2004.
Deve rilevarsi che con la citata sentenza n. 25529 del 2006, questa Corte ha enunciato il seguente principio di diritto, certamente in contrasto con quanto dedotto nel
ricorso della G., sia pure in riferimento al processo di ottemperanza e al suo collegamento con quello di esecuzione: “in tema di violazione della ragionevole durata
del processo ai sensi della L. n. 89 del 2001, il processo di cognizione e quello
successivo di esecuzione forzata sono diversi e autonomi, per cui è in relazione a
ciascuno di essi che va computato l’eventuale periodo di irragionevole protrazione,
senza possibilità di sommatoria, a tal fine, dei tempi occorrenti per la definizione
dell’uno e dell’altro. Ne deriva ulteriormente, che all’interno di ciascuno di essi
devono essere individuati l’atto conclusivo e, con esso, il momento di assunzione
dalla correlativa definitività, al quale l’art. 4 della citata legge collega il dies a quo di
decorrenza del termine semestrale per la proposizione della domanda di equa riparazione. È pertanto da escludere che il suddetto termine, pur dopo la definitività per
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
693
consolidazione del giudicato della decisione che conclude il giudizio di cognizione
della cui irragionevole durata ci si dolga, resti inoperante ed inizi a decorrere solo
dal successivo primo atto satisfattivo adottato dal giudice dell’esecuzione”.
Tale principio nella giurisprudenza interna, sostanzialmente collegato ai principi
sottesi a tutte le pronunce di legittimità sul tema, non ha trovato deroga in quella
successiva.
2.2. Non può ritenersi corretto neppure quanto afferma la G. in ordine al fatto
che la Corte di Strasburgo, nell’interpretare la C.E.D.U. avrebbe elaborato un concetto di “giusto processo”, nel quale devono necessariamente considerarsi unitari o
come due fasi del “medesimo” processo (L. n. 89 del 2001, art. 4) sui “diritti e
obblighi di natura civile” (art. 6 Conv.), il giudizio di cognizione e quello solo eventuale di esecuzione, per considerare unica la loro complessiva durata con la conseguente ammissibilità della domanda di equa riparazione proposta in pendenza del
giudizio esecutivo o di ottemperanza ovvero entro sei mesi dal primo atto satisfattivo adottato dal giudice della fase esecutoria da qualificare come decisione che
conclude il procedimento, ai sensi dell’art. 4 citato ovvero come “decisione interna
definitiva” di cui all’art. 35 della Convenzione (nello stesso senso peraltro solo in
riferimento al processo di esecuzione forzata di un provvedimento di rilascio di
immobile adibito ad uso di abitazione in ordine al concetto di decisione definitiva,
Cass. 22 ottobre 2002 n. 14885).
Ove si fosse consolidato un siffatto principio ermeneutico in sede sovranazionale,
per il necessario conformarsi della giurisprudenza agli obblighi internazionali, cui
sono vincolati il legislatore (art. 117 Cost.) e ogni giudice degli Stati aderenti, questa
Corte avrebbe dovuto solo attenersi al diritto vivente, come elaborato dai giudici
sovranazionali (cosı̀ le citate S.U. n. 1338, 1339 del 2004); tale ultimo principio non
s’applica solo allorché il diritto giurisprudenziale sovranazionale contrasti con principi o norme della Costituzione (C. Cost. 27 ottobre 2007 n. 247 e 248).
Nessuna necessità vi è di qualificare come unico processo i due procedimenti,
cognitorio e di esecuzione, nel caso esistiti e posti a base della domanda di equa
riparazione, fondata sulla durata complessiva di essi, perché la Corte europea non
ha in realtà mai enunciato quanto dedotto in ricorso. Invero, il principio di effettività di cui all’art. 13 della Convenzione impone agli Stati aderenti di prevedere
rimedi interni per garantire il ripristino dei diritti violati riconosciuti in essa con
azioni giurisdizionali indennitarie davanti ai giudici nazionali, la cui durata va computata dalla data della domanda fino all’adempimento di quanto disposto dall’adito
giudice, principio valido anche quando la violazione di tali diritti sia commessa “da
persone agenti nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali” (cosı̀ la norma ora citata),
che non comporta però la necessaria considerazione non separata di ogni processo
cognitorio con quello successivo di esecuzione o di ottemperanza.
La Corte sovranazionale, in ordine a ricorsi nei quali è stata adita da cittadini degli
Stati contraenti che hanno lamentato la non effettività dei rimedi interni di cui
694
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
sopra, per il ritardo o la mancanza del tempestivo ripristino per equivalente dei
diritti riconosciuti dalla Convenzione e violati, considera insieme i tempi del processo di cognizione che decide la controversia sul diritto alla riparazione che si
svolge dinanzi alla Corte d’appello e di quello successivo di esecuzione o di ottemperanza determinato dall’inadempimento della P.A. tenuta a pagare l’indennizzo,
concluso con il pagamento almeno parziale di questo, come determinato in sede
cognitiva, da considerare dies a quo del termine decadenziale per iniziare l’azione da
violazione dei diritti di cui alle norme sovranazionali (cfr. C.E.D.U. Grande Chambre 31 marzo 2009, Smaldone c. Italie req. n. 22644/03, Scordino c. Italie, 29 marzo
2006, req. 36813/97 — esaminato con altri 9 ricorsi tutti relativi al rimedio interno
della L. n. 89 del 2001 e al nostro paese e per altri Stati, cfr. Burdov c. Russia, 7
maggio 2002, req. n. 59498/95, per l’azione indennitaria di vittime di un grave
disastro nucleare). Le sentenze citate della Corte sovranazionale, con altre in esse
richiamate, affermano che, per il principio di effettività, l’esecuzione della sentenza
deve essere considerata parte integrante del processo “affinché la lentezza eccessiva
del ricorso indennitario non ne comprometta il carattere adeguato” (sentenza Scordino cit., & 195), con palese considerazione dei soli giudizi interni di ripristino dei
danni da lesione dei diritti riconosciuti dalla Convenzione; il principio è quindi
privo di rilievo generale, tanto che, nella seconda parte della sentenza Smaldone c.
Italia, si afferma che il ritardo nella soddisfazione della “vittima” di un processo di
equa riparazione per il tempo irragionevole di durata lede pure il diritto “al rispetto
dei beni”, in ragione del danaro che gli spetterebbe, di sua proprietà, diritto quest’ultimo tutelato dall’art. 1, comma 1, del primo protocollo addizionale della Convenzione. La esigenza prescritta normativamente, della c.d. effettività del rimedio
interno predisposto per la reintegrazione per equivalente delle violazioni dei diritti
di cui alla Convenzione anche ai sensi dell’art. 35 di questa, comporta il rispetto
della esigenza di effettività di cui all’art. 13, norma comunque relativa solo a tale tipo
di azioni volte a reintegrare le vittime delle violazioni dei diritti riconosciuti da
norme convenzionali, ma che non esprime un principio generale per il quale debba
ritenersi, sempre e in ogni vicenda processuale, unico il tempo del processo di cognizione e di quello eventuale del giudizio di esecuzione o di ottemperanza, ad ogni
fine, in rapporto all’applicazione delle dette norme.
Il diritto dell’art. 6 della Convenzione è riconosciuto alle vittime della violazione
di esso, anche in caso di esito negativo del processo presupposto e di rigetto della
domanda introduttiva, allorché quindi non vi è alcunché da adempiere e manca un
qualsiasi processo di esecuzione o di ottemperanza, per cui il giudizio deve esaurirsi
necessariamente con la decisione di rigetto in sede cognitoria divenuta definitiva.
Se la diversità oggettiva di tale processo con esito negativo per il ricorrente, rispetto a quello in cui la domanda è accolta ai fini del computo della durata di esso,
potrebbe giustificare in astratto il complessivo calcolo dei tempi nei due casi, la
stessa non può invece rendere coerente al sistema lo spostamento del momento di
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
695
definitività della decisione del processo cognitorio, che invece coincide con la immodificabilità della pronuncia che lo conclude, ai sensi dell’art. 324 c.p.c., per la
formazione del c.d. giudicato formale, da cui decorre il termine semestrale di decadenza per proporre il ricorso di equo indennizzo (Cass., ord. 30 ottobre 2008
n. 25510, Cass. 23 novembre 2007 n. 24440, 30 novembre 2006 n. 25529, 29 settembre 2004 n. 19526, tra altre).
2.3. Non vi sono dunque principi vincolanti enunciati dalla giurisprudenza internazionale sulla considerazione unitaria o separata dei due processi, di cognizione e
ottemperanza, ai fini del computo della durata e della data della c.d. decisione definitiva, da cui far decorrere il termine per l’azione di equa riparazione, la quale, se
si sommano le durate dei due processi, potrebbe ammettersi sempre in pendenza
dei procedimenti per l’esecuzione o del processo di ottemperanza, pure oltre il
termine decadenziale di legge dalla definitività della pronuncia emessa in sede cognitoria.
Occorre allora procedere ad un esame diretto del dato normativo sovranazionale,
per rilevare se da esso emerga una nozione di “processo”, cui hanno diritto i cittadini degli Stati aderenti alla Convenzione e vincolante pure per il diritto interno, che
comporti comunque una considerazione complessiva o unitaria dei due indicati
procedimenti giurisdizionali ovvero consenta di tenere distinti gli stessi; a tale nozione devono conformarsi i singoli ordinamenti degli Stati convenzionati e i giudici
operanti in (omissis), se non in contrasto con la Costituzione.
2.4. Per l’art. 6 della Convenzione, costituisce “processo” quello che si svolge
“davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge” (interna agli
Stati aderenti), perché in esso si decida “in ordine alla controversia sui diritti e
obblighi di natura civile...”, cioè di carattere patrimoniale; l’accertamento, positivo
o negativo, delle situazioni soggettive controverse comporta, con la certezza della
loro esistenza o inesistenza, la conclusione del processo di cognizione e della inerente ansia da esito dello stesso che, per l’eccessiva durata, dà luogo ad una presunzione di danno non patrimoniale delle parti, da indennizzare per violazione del
diritto riconosciuto dalle norme convenzionali.
Per quanto già detto sui vincoli derivanti dagli accordi internazionali cui l’Italia ha
aderito, sempre rilevanti se non siano in contrasto con la Costituzione della Repubblica, occorre considerare che agli artt. 24, 103 e 113 la Carta fondamentale espressamente identifica gli “interessi legittimi”, come situazioni soggettive di rilievo patrimoniale, la cui tutela “nei confronti della pubblica amministrazione”, è riservata
ai giudici amministrativi, i quali, in alcune materie individuate dal legislatore ordinario, possono conoscere anche di diritti soggettivi (cfr. art. 103 Cost. e d.lgs. 31
marzo 1998, n. 80, come sostituito dalla L. 21 luglio 2000, n. 205, art. 7). Pertanto,
quando il tribunale adito è chiamato a decidere su interessi legittimi controversi nei
confronti della P.A., si ha il processo di cognizione riservato ai giudici amministrativi e anche esso soggetto all’art. 6 della Convenzione (cosı̀ Cass. ord. 24 gennaio
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
2008 n. 1520, 24 aprile 2003 n. 6519, tra altre e C.E.D.U., Salesi c. Italie 26 febbraio
1993, req. 13023/87).
Nel processo amministrativo cognitorio, la posizione di chi agisce si configura
come tutelabile in rapporto all’esercizio legittimo dei poteri autoritativi che su di
essa hanno inciso, per realizzare interessi pubblici.
Controversa nel processo amministrativo di cognizione è la situazione soggettiva
costituita da interessi legittimi di chi agisce e la conseguente legittimità degli atti e
delle condotte della P.A., dovendosi accertare se con essi si siano lese, con la
violazione delle norme di azione predisposte dal legislatore a carico dell’amministrazione stessa, le esistenti posizioni di utilità o vantaggio di chi agisce come
titolare di interessi legittimi, oppositivi ovvero si sia arrecato danno con il diniego o
il ritardo dei provvedimenti, chiesti da colui che è legittimato a ottenerli perché
titolare di interessi legittimi pretensivi, la cui esistenza rende i rifiuti o le omissioni
dell’amministrazione contrastanti con la legge e gli interessi pubblici cui essa è
vincolata.
Per la Convenzione sovranazionale gli interessi legittimi controversi su cui il giudice amministrativo decide identificano il “processo” amministrativo di cognizione,
di cui deve determinarsi la durata ragionevole analogamente a quanto accade per
quello davanti al giudice ordinario, in cui il procedimento giurisdizionale è identificato invece dal diritto e dall’obbligo oggetto di controversia ai sensi dell’art. 6 della
Convenzione. In entrambi i casi l’adito giudice è chiamato ad accertare la posizione
soggettiva controversa, ma la natura di questa incide sulla struttura del procedimento, con la conseguenza che, di regola, a differenza di quanto accade nel processo
di cognizione di cui al vigente codice di rito, la decisione che chiude il processo
amministrativo cognitorio determina solo genericamente il tipo di condotta o di atti
che la P.A. deve adottare, per esercitare legittimamente gli stessi poteri, di cui si è
riconosciuto l’esercizio abusivo, a tutela della posizione soggettiva del ricorrente,
con l’annullamento degli atti in cui l’abuso s’era evidenziato.
2.5. Afferma l’art. 6 della Convenzione che con il processo il tribunale adito “decide” sulle situazioni soggettive controverse: ciò può accadere in senso positivo o
negativo per l’istante e può affermarsi che, nel diritto interno, la decisione del processo cognitorio secondo il codice di rito, è di regola la “sentenza” che, quando
accoglie la domanda, costituisce pure “il titolo esecutivo”, da cui sorge il “diritto a
procedere ad esecuzione forzata” (art. 474 c.p.c., n. 1 e art. 615 c.p.c.), per ottenere
l’adempimento dell’obbligo del soccombente di adempiere la decisione esecutiva
emessa nel pregresso processo cognitorio, la quale, quando non è più impugnabile
o modificabile, costituisce giudicato formale e rende certa definitivamente la esistenza delle situazioni, controverse a base dell’azione in cognizione.
Nel processo amministrativo, di regola impugnatorio di un atto della P.A., l’accertamento positivo sull’esistenza dell’interesse legittimo e l’annullamento dell’atto
impugnato, violativo degli interessi pretensivi o lesivo della posizione di vantaggio a
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
697
base di quelli oppositivi, integra l’effetto demolitorio della pronuncia giurisdizionale sugli atti della P.A., cui può aggiungersi anche quello ripristinatorio, per il quale
l’amministrazione deve a volte emettere un nuovo atto legittimo in sostituzione di
quello annullato.
Non è dubitabile la diversità delle situazioni giuridiche controverse non solo nei
processi di cognizione (sia quello ordinario che quello amministrativo), ma anche
nei processi di esecuzione o di ottemperanza, entrambi fondati sul diritto sorto per
effetto del giudicato della decisione esecutiva di accoglimento della domanda e da
considerare comunque distinto e diverso dalle situazioni soggettive azionate e da
accertare, cioè controverse, oggetto del processo in sede cognitoria.
In caso di mancata attuazione spontanea di quanto disposto dal giudicato da parte
di qualsiasi soggetto ad esso vincolato, i diritti alla esecuzione o all’ottemperanza
sorti per la parte vincitrice, legittimano quest’ultima a ottenere la soddisfazione
concreta della posizione soggettiva controversa e per questo dubbia, divenuta certa
con la pronuncia che conclude il processo che li ha accertata.
In conclusione, ai sensi dell’art. 6 della Convenzione sovranazionale richiamata,
ogni processo s’identifica per la situazione soggettiva controversa su cui il giudice
adito decide, sia essa qualificabile come diritto, obbligo o interesse legittimo; dette
distinte posizioni soggettive comportano strumenti di tutela giurisdizionale diversi,
ciascuno autonomo dagli altri, da cui nascono processi separati regolati per legge,
che non possono considerarsi unitariamente, anche se decidono controversie tra
loro strettamente connesse, ai fini dell’equo indennizzo per la ragionevole durata di
ciascuno di essi (cfr. ad es. sull’autonomia dei giudizi sull’an e sul quantum, Cass. 7
luglio 2008 n. 18603, o su quella di azioni risarcitorie in sede penale e civile, Cass. 16
maggio 2006 n. 11493).
L’inadempimento del comando del giudice alla cui attuazione il soggetto che ha
agito ha un diritto diverso e distinto dalla posizione soggettiva originariamente azionata e successivamente accertata nel processo cognitivo, costituisce chiara soluzione
di continuità tra processo di cognizione, che tende a far cessare la controversia su
detta posizione originaria e l’eventuale processo di esecuzione forzata, che al precedente giudizio non necessariamente segue, la cui durata va considerata autonoma
ai fini della ragionevolezza, perché destinato a decidere sul diritto all’esecuzione
forzata di sentenze del giudice ordinario diverso da quello con queste accertato
(Cass. 4 aprile 2003 n. 5265, 26 luglio 2002 n. 11046, tra altre).
Tale distinzione dei processi che si è negata in rapporto a singoli atti, come la
procura, atto che può anche essere unico nei due processi di cognizione e di esecuzione (Cass. 29 settembre 2009 n. 20827 e 14 dicembre 2007 n. 26796), sussiste
certamente sul piano funzionale, essendo certa la diversità della posizione soggettiva
accertata nella sentenza costituente il titolo esecutivo rispetto al diritto all’esecuzione, che nasce dalla stessa pronuncia divenuta titolo esecutivo e non necessariamente coincide con il diritto azionato.
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
Per tale iato tra il riconoscimento del diritto controverso e il solo eventuale inadempimento dei conseguenti obblighi di chi deve osservare il comando del giudice,
s’è affermata l’autonomia e la separatezza del processo di esecuzione da quello di
cognizione del codice di rito.
3.1. La Cass. citata n. 22529 del 2006 afferma che il processo di cognizione e
quello di esecuzione di cui al codice di rito devono “considerarsi autonomi, soddisfacendo situazioni giuridiche diverse e distinte ai fini dell’equa riparazione da irragionevole durata”.
La succinta motivazione della sentenza che precede, preceduta e seguita da altre
pronunce sostanzialmente nello stesso senso, si rapporta alla chiara distinzione tra
titolo esecutivo “per un diritto certo, liquido ed esigibile” (art. 474 c.p.c.), che è a
base del processo di esecuzione e la decisione sulla situazione giuridica azionata
sede di cognizione, che dota il diritto stesso di certezza con l’accoglimento della
domanda.
L’autonomia dell’accertamento a base della sentenza costituente titolo esecutivo,
rispetto a quello sui diritti che da tale titolo derivano, comporta che non v’è di
massima pregiudizialità dell’accertamento del credito in sede cognitoria, rispetto
alla procedura esecutiva che può proseguire, anche se l’accertamento sia tuttora in
corso in rapporto a provvedimenti esecutivi ma non definitivi, cui debba darsi attuazione (Cass. 13 giugno 2008 n. 15909, 5 agosto 2005 n. 16601, 23 aprile 2003
n. 6448, e 24 maggio 2002 n. 7631).
Alla differenza funzionale tra i due tipi di giudizio dinanzi al G.O. e alla loro
corretta autonoma valutazione, fondata sulla diversità dei beni della vita di cui è
chiesta la tutela in sede giurisdizionale ai sensi del richiamato art. 6 della Convenzione, corrisponde nel diritto interno anche quella strutturale, ben evidenziata nella
citata sentenza n. 1732 del 2009, relativa al processo di ottemperanza, ma che rivisita
quest’ultimo in rapporto a quello di esecuzione.
Agli elementi indicati nella decisione che precede, possono aggiungersi altre differenze strutturali tra processo di cognizione del secondo libro del codice di rito
(artt. 163 e 473 c.p.c.) e quello di esecuzione del libro successivo dello stesso codice
(artt. 474 e 632 c.p.c.).
Il primo di detti processi inizia con una domanda di tutela della situazione soggettiva controversa e da accertare, si articola poi in più fasi, istruttoria e decisoria
(artt. 175 e 322 c.p.c.) e a volte in gradi (art. 323 e segg.), potendo, in genere nella
fase iniziale di esso, aversi pure procedimenti incidentali cautelari (art. 669 bis
c.p.c., e segg.); esso si conclude di regola con una sentenza, che diviene immodificabile e definitiva, se non impugnata da nessun soggetto legittimato nei termini di
legge, e passa in giudicato.
Il processo di esecuzione di cui sopra è invece preceduto dalla notifica del titolo
esecutivo (nel caso sentenze o provvedimenti aventi per legge efficaci a esecutiva,
come chiarisce il n. 1 dell’art. 474) e del precetto, consistente nell’intimazione ad
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
699
adempiere (artt. 479 e 480 c.p.c.), e si articola in una serie di procedimenti normativamente tipizzati, che si svolgono sotto la direzione del giudice dell’esecuzione, il
quale si pronuncia su eventuali incidenti che sorgano risolvendoli con ordinanza
(per l’espropriazione forzata cfr. art. 481), per chiudersi solo con l’attività materiale
o giuridica satisfattoria delle situazioni soggettive riconosciute come certe e definitive nel titolo esecutivo, salvo casi eccezionali di procedimenti incidentali cognitori,
come quelli di cui agli artt. 615 e 617 c.p.c., in cui possono aversi anche sentenze.
3.2. In conformità a quanto rilevato sulla incontestata autonomia del processo di
esecuzione rispetto a quello di cognizione dinanzi al giudice ordinario, si fonda la
analoga configurazione autonoma dei due processi, cognitivo e di ottemperanza
dinanzi al giudice amministrativo, di cui a più sentenze del 2009 (con Cass. n. 1732
del 2009 cit., cfr. Cass. 28 gennaio 2009 n. 2186, 20 febbraio 2009 n. 4190 e 12
marzo 2009 n. 5981).
Per tali pronunce infatti: “in tema di equa riparazione per la violazione del termine ragionevole di durata del processo ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, il
giudizio di ottemperanza, instaurato successivamente a quello di cognizione svoltosi
davanti al giudice amministrativo, sebbene realizzi lo scopo di dare piena ed effettiva soddisfazione al medesimo interesse sostanziale riconosciuto dalla sentenza da
adempiere, non costituisce una fase di un unico iter procedimentale, svoltosi senza
soluzione di continuità; pertanto, anche nell’ipotesi in cui sia stato esperito tale
strumento di tutela, ai fini della proponibilità della domanda della L. n. 89 del 2001,
ex artt. 2 e 4 e art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo il dies a quo
coincide con il momento in cui è divenuta definitiva la sentenza che ha concluso il
procedimento di cognizione”.
Invero, il processo di ottemperanza ha il fine di dare attuazione alle posizioni
soggettive azionate originariamente, che, per la loro natura di interessi legittimi,
possono ricevere tutela solo se con l’attuazione di essa non si violino gli interessi
pubblici che la P.A. deve perseguire, a cui il giudice amministrativo del processo di
ottemperanza deve dare rilievo per poter individuare modalità legittime e di opportunità per la esecuzione della sentenza cognitoria.
Proprio in rapporto al carattere eventualmente determinativo e integrativo del
contenuto del giudicato da ottemperare, che in vari casi rende necessaria l’esplicitazione, definizione e il completamento della regula iuris affermata in sede cognitiva,
le citate pronunce n. 7978 del 2005 e n. 25511 del 2008 hanno ritenuto necessaria
una considerazione unitaria dei due processi, per la sostanziale uniformità della loro
struttura, dal ricorso introduttivo, attraverso il processo cognitorio, fino alla decisione dell’ottemperanza che costituisce anche essa una sentenza, integrativa e completante quella del precedente giudizio, che in tal modo perde ogni rilievo come atto
conclusivo del procedimento al fine di determinarne la durata e costituire il termine
iniziale del semestre di decadenza di cui all’art. 4 della legge Pinto, per il principio
d’effettività.
700
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
I provvedimenti ora citati affermano però anche una deroga al principio enunciato, riconoscendo l’autonomia ai due processi, allorché le decisioni in sede di
ottemperanza non comportino una mera attività materiale per la soddisfazione della
posizione originariamente azionata, come ad esempio ove impongano un pagamento, quale si ha anche nell’azione di equa riparazione oggetto di questa causa, ma
incidano pure sulla validità di atti della P.A., impugnati con il ricorso in ottemperanza.
Tale deroga al principio enunciato rafforza la opposta tesi favorevole alla distinzione tra i giudizi, anche perché i provvedimenti adottati dalla P.A., al fine di eludere
o impedire l’esecuzione del giudicato sono nulli per carenza di potere della stessa
autorità che li ha emessi, ai sensi della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 21-septies,
introdotto dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, comma 1, che ha normativizzato
un indirizzo giurisprudenziale già affermato su tale questione, per cui la decisione
del giudice dell’ottemperanza su di essi sarebbe solo dichiarativa di una invalidità
prevista per legge. Peraltro la natura, di regola impugnatoria, del processo dinanzi al
giudice amministrativo di cognizione la cui decisione incide su un atto della P.A., ma
non sempre estende immediatamente i suoi effetti ai rapporti del ricorrente con
l’amministrazione, che debba reintegrare, per equivalente o in forma specifica, il
danneggiato dei beni della vita lesi in rapporto ai quali lo stesso ha potuto agire in
via cognitoria, fa rilevare l’esistenza d’un diritto alla ottemperanza, cui è legittimato
il privato vincitore in sede cognitiva, analogo a quello alla esecuzione forzata, dalla
cui violazione deriva la legittimazione a domandare, con il risarcimento in forma
specifica, pure la dichiarazione di caducazione degli effetti dei contratti stipulati
nelle more dell’annullamento della gara per la scelta del contraente in sede di cognizione, su cui di regola avrebbe invece giurisdizione il solo giudice ordinario (cfr.
S.U. ord. 13 marzo 2009 n. 6068 e 7 novembre 2008 n. 26790 e S.U. 28 dicembre
2007 n. 27169, 18 luglio 2008 n. 19805).
Il riconoscimento di un diritto all’ottemperanza del giudicato per il privato nei
confronti della P.A., per la cui lesione può chiedersi in questa sede il ripristino del
diritto violato neppure domandato in sede di cognizione e in rapporto agli interessi
legittimi azionali, sottolinea le differenti situazioni controverse tutelate nei due tipi
di procedimento, che quindi sono funzionalmente distinti, per quanto già detto.
In particolare, rispetto alla tutela chiesta con il ricorso introduttivo del giudizio di
cognizione, quella domandata in sede di ottemperanza per far conformare la P.A. a
quanto deciso in precedenza e per imporre il ripristino dei beni lesi dall’atto impugnato, può essere diversa e in ragione di tale diversità, la decisione su di essa è estesa
anche al merito amministrativo (R.D. n. 1054 del 1924, art. 27) e può persino accogliere le domande ripristinatorie del diritto alla ottemperanza di chi agisce (Cons. St.
Ad. Plen. 30 luglio 2008 n. 9, Cons. St. Sez. V 19 maggio 2009 n. 3070).
Detto orientamento determina un probabile mutamento della giurisprudenza dei
giudici amministrativi sulla autonomia dei due processi, di cognizione e di ottem-
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
701
peranza, rispetto all’indirizzo tradizionale che configura il secondo come mera attuazione della decisione in sede cognitoria e rileva un giudicato a formazione progressiva costituito dalla prima e dalla seconda sentenza che integra e completa la
pronuncia emessa nel primo processo (Cons. St. Sez. VI 3 marzo 2008 n. 796),
sottolineando maggiormente l’autonomia funzionale dei due procedimenti per la
diversità delle situazioni tutelate, che consente di domandare in sede di ottemperanza statuizioni non chieste prima.
A tale dualità di procedimenti pervengono le citate sentenze del 2009 favorevoli alla
separatezza dei due giudizi, che si collegano tutte alla L. n. 1732 del 2009, la quale,
dopo un’ampia e dotta analisi, storica e giuridica, del processo di ottemperanza, anche
in rapporto alla funzione e struttura di esso, conclude per la sua autonomia ai fini della
ragionevole durata rispetto al giudizio amministrativo di cognizione e per la individuazione dei termini da cui far decorrere quello semestrale di proponibilità della
domanda, aderendo, per tale profilo, all’analoga valutazione operata dalla citata Cass.
n. 25529 del 2006 del processo di esecuzione di cui al libro terzo del c.p.c.
Solo il superamento del concetto di ottemperanza come fase meramente integrativa della cognizione e l’autonomia del relativo processo rispetto a quello che lo
precede, rende possibile la questione di giurisdizione nella impugnazione per cassazione ai sensi dell’art. 362 c.p.c., della decisione in sede di ottemperanza, per
violazione dei limiti esterni della giurisdizione, indipendentemente dal passaggio in
giudicato della pronuncia conclusiva in sede cognitoria.
Nel caso si trattasse di un solo processo costituito dai due indicati giudizi, il
ricorso per motivi attinenti alla giurisdizione avverso la sentenza di ottemperanza
difficilmente potrebbe essere ammissibile (sul ricorso per violazione dei limiti
esterni della giurisdizione di decisioni emesse in ottemperanza, cfr. S.U. 19 agosto
2009 n. 18375, 31 ottobre 2008 n. 26302, 9 giugno 2006 n. 13431); infatti difficilmente una soluzione unitaria potrebbe superare la preclusione del giudicato, implicito o esplicito, sulla questione di giurisdizione della sentenza conclusiva del giudizio di cognizione, costituente fase dello stesso processo poi chiuso dalla pronuncia
sull’ottemperanza, in cui non potrebbero rivalutarsi i poteri concretamente esercitati, una volta affermata la conformità alla legge di essi in rapporto alla prima fase
dello stesso processo.
Pertanto, la decisione del giudice amministrativo in sede cognitoria, non più impugnabile o revocabile per il suo passaggio in giudicato e relativa alla controversia
sorta a tutela di interessi legittimi del ricorrente, definita con sentenza da cui far
decorrere i termini decadenziali dell’azione di equa riparazione (Cass. 7 marzo 2007
n. 5212), va tenuta distinta da quella che conclude il processo di ottemperanza, che
segue all’altro, al fine di imporre alla P.A. di conformarsi alle statuizioni esecutive
emesse in sede cognitiva (L. n. 2758 del 1865, art. 4, comma 2, all. F).
Il processo di ottemperanza è del resto utilizzato per dare esecuzione alle pronunce esecutive e alle sentenze passate in giudicato dei giudici amministrativi, ma
702
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
anche per “ottenere l’adempimento dell’obbligo dell’autorità amministrativa di
conformarsi, in quanto riguarda il caso deciso, al giudicato dei tribunali” anche
ordinari nelle sentenze emesse in sede cognitiva nel processo ai sensi del codice di
rito (R.D. n. 1054 del 1924, art. 27, n. 4); esso non può però seguire alle pronunce
solo esecutive e non definitive nel corso dei processi ora indicati e per tale ipotesi
appare ovviamente contraddittoria una considerazione unitaria di due giudizi, davanti a giudici appartenenti a giurisdizioni diverse (sulla legittimità costituzionale
del diverso trattamento normativo nei casi di inadempimento della P.A. ai provvedimenti dei giudici ordinari e di quelli amministrativi: cfr. C. Cost. ord. 8 febbraio
2006 n. 44 e 25 marzo 2005 n. 122).
La distinzione sussiste anche quando sia necessario, dal giudice dell’ottemperanza, l’accertamento della portata e degli effetti della pronuncia del G.A. da attuare, per chiarire anzitutto se ad essa l’amministrazione si sia conformata, potendo
solo tale giudice, in caso di inadempimento, dare le disposizioni che, pur tenendo
conto dei poteri autoritativi della P.A., e degli interessi pubblici che essa ha da
perseguire, possano dar luogo anche alla sostituzione della stessa P.A. nella emissione di atti con proprie disposizioni o con la nomina di un commissario ad acta, che
si surroghi all’amministrazione inadempiente. In rapporto alla durata del processo
dinanzi al G.A., la valutazione di essa correttamente si opera solo per il processo di
cognizione del giudice amministrativo, anche in rapporto a procedimenti amministrativi (non giurisdizionali) basati sul medesimo interesse legittimo su cui si è fondata la domanda di tutela in sede di processo di cognizione (Cass. 17 novembre
2005 n. 23314 e 28 aprile 2006 n. 9853), dato che è la condotta della P.A., inadempiente, già prima del giudizio, a concorrere a determinare i ritardi ingiustificati della
successiva tutela giurisdizionale dei medesimi interessi a base dell’istanze amministrative non accolte.
Tale conclusione, relativa ad una fase non giurisdizionale e solo amministrativa
precedente al processo, cui si è giunti dopo varie incertezze per adeguarsi agli
orientamenti della Corte sovranazionale, per la quale la lesione del diritto alla
durata ragionevole deve comunque addebitarsi a inadeguatezza dell’apparato pubblico preposto alla soddisfazione delle posizioni azionate dai propri cittadini, di cui
s’è invano chiesta tutela preventiva in sede di autotutela, non rileva in rapporto
al successivo procedimento giurisdizionale di ottemperanza, che ha ad oggetto
invece il diritto diverso, sorto dalla decisione da adempiere, cui la P.A. deve conformarsi.
4. L’assunto da cui muovono le citate sentenze di questa Corte del 2009 sulla
considerazione dualistica dei processi amministrativi di cognizione e di ottemperanza è in sostanza analogo e parallelo a quello della rilevata separazione tra i processi di cognizione e di esecuzione secondo il codice di rito, le cui differenze strutturali appaiono comunque molto più evidenti, in ragione della diversità dei vari
procedimenti esecutivi rispetto al processo di cognizione.
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
703
Le differenze esistenti tra processo di esecuzione in base al codice di procedura
civile e quello di ottemperanza del giudice amministrativo si giustificano, in sostanza, per il soggetto inadempiente degli obblighi sorgenti dal giudicato nei due
casi, dovendosi dare rilievo alla circostanza che, nel secondo, è inadempiente agli
obblighi scaturenti dal giudicato la P.A. Analogamente a quanto previsto per notifica del precetto e del titolo nel processo d’esecuzione, anche in quello di ottemperanza è espressamente previsto che esso inizi con un ricorso proponibile “finché
duri l’azione di giudicato”, cioè per i dieci anni necessari alla prescrizione di essa,
sancendosi che lo stesso venga notificato “non prima di trenta giorni da quello in cui
l’autorità amministrativa sia stata messa in mora di provvedere” (R.D. 17 agosto
1907, n. 642, art. 90, comma 2, sul procedimento dinanzi al Consiglio di Stato).
L’atto di messa in mora che precede, analogo al precetto notificato con il titolo
esecutivo, conferma l’esistenza di un diritto alla ottemperanza — simmetrico e simile a quello all’esecuzione — che giustifica la distinzione anche nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo, dei due processi, uno di accertamento della lesione
degli interessi legittimi azionati in sede cognitoria e l’altro per l’inadempimento del
giudicato da parte della P.A., processi tra loro distinti e autonomi.
Vi sono differenze tra i due giudizi di ottemperanza e di esecuzione, bene individuate, dalle citate pronunce di questa Corte del 2009: 1) nella estensione al merito
della cognizione del giudice dell’ottemperanza che non compete a quello dell’esecuzione; 2) nella natura contestualmente cognitoria ed esecutiva del processo dinanzi al G.A. che non vi è, se non incidentalmente ed eccezionalmente, nel processo
di esecuzione; 3) nella probabile mancanza in quest’ultimo, compatibilmente con i
principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., del contraddittorio, essendo
esso “informato al più blando principio dell’audizione” (Cass. n. 1732/09 cit.).
In realtà il dato normativo non prevede neppure la notifica del ricorso per l’ottemperanza alla P.A. (R.D. n. 642 del 1907, artt. 90 e 91), ma è stato superato dalla
giurisprudenza amministrativa, che impone tale notificazione a pena di inammissibilità e quindi il sostanziale rispetto del contraddittorio nel processo di ottemperanza, anche se la natura soprattutto esecutiva di questo emerge comunque nelle
norme di procedura citate che non prevedono detta notificazione.
La ampiezza maggiore dei poteri del giudice in sede di ottemperanza, rispetto a
quello dell’esecuzione, si ha anche rispetto al processo di cognizione del giudice
amministrativo e non giustifica una concezione unitaria dei due processi di cui anzi
sottolinea la differenza sostanziale, connessa ai fini da attuare con essi, anche a non
considerare la rilevata esistenza nei procedimenti tipici dell’esecuzione, di cui al
codice di rito, di alcuni di essi, nei quali si esercitano poteri cognitivi, per cui, sul
piano astratto e dogmatico, tal distinzioni non escludono comunque la diversità del
giudizio di ottemperanza e di quello di cognizione.
La possibile adozione, nel processo di ottemperanza, di misure cautelari di cui alla
L. n. 1034 del 1971, artt. 21 e 21 bis, connesse alla valutazione di merito di cui sopra
704
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
dal giudice adito, conferma l’esigenza di mantenere distinto il processo di cui sopra
da quello cognitorio, la cui considerazione unitaria comporterebbe un medesimo
processo, articolato in due fasi di tre gradi ciascuna, con misure cautelari astrattamente possibili in entrambi i procedimenti; tale processo sarebbe assolutamente
pletorico, destinato in ogni caso ad avere una durata irragionevole, ponendo in
contrasto con l’art. 111 Cost., l’intero quadro normativo di riferimento.
Se vi sono sentenze che chiudono il processo cognitivo eseguibili immediatamente, soprattutto dopo le modifiche della L. 21 luglio 2000, n. 205 e in specie nei
casi di giurisdizione esclusiva, di regola, nei casi di processo amministrativo limitato all’esame di interessi legittimi, il giudicato lascia permanere la stessa discrezionalità della P.A. in ordine alle modalità di esecuzione della statuizione del G.A. cui
la amministrazione stessa non può derogare per esigenze di interesse pubblico,
dovendosi ad essa conformare, anche se ciò può avvenire in modi non necessariamente unici, che lo stesso giudice potrà individuare direttamente in sede di ottemperanza.
Pure a ritenere il giudizio amministrativo non relativo al solo atto ma esteso ai
rapporti, come sembra propendere la dottrina più recente e appare certo almeno in
ordine al processo di ottemperanza, non si può correttamente affermare che il processo cognitivo del G.A. si concluda con l’attribuzione del bene della vita, strumentale o finale, agli interessi legittimi azionati alla parte che ha agito, limitandosi solo a
decidere sulla situazione soggettiva eventualmente lesa dalla P.A.
Nel diverso giudizio di ottemperanza, dovuto all’inadempimento degli obblighi di
conformarsi al giudicato da parte della P.A., deve essere individuato il bene della
vita di cui era stata chiesta originariamente tutela, azionando gli interessi legittimi,
con specificazione conseguente della regola iuris adottata dal giudicato della sede
cognitiva, che definisce la controversia sostanziale esaminata con l’affermazione o
negazione della esistenza delle posizioni soggettive controverse, la cui natura non
corrispondente a quella del diritto comporta la esigenza della cognizione del giudice
dell’ottemperanza per la individuazione dei beni della vita a tali posizioni sottostanti. Le differenze indicate del processo di ottemperanza rispetto a quello di esecuzione, in nessun caso impongono la considerazione unitaria del primo con quello
di cognizione amministrativa, come chiarito dalla approfondita disamina della pronuncia di questa Corte n. 1732/09, che sottolinea la chiara discontinuità tra i due
giudizi, per la possibile partecipazione al procedimento successivo a quello cognitorio, di soggetti che non hanno partecipato allo stesso, quando questo è concluso
da un giudicato con efficacia ultra partes.
L’ottemperanza può infatti chiedersi da soggetti che non sono stati parti nella fase
cognitiva o nei confronti di un’amministrazione diversa da quella resistente in quella
sede, con condotte processuali incompatibili con la pretesa esistenza di un unico
processo nel quale, salvo il caso di litisconsorzio necessario, nessun intervento di
terzi potrebbe configurarsi.
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
705
La rilevata differenza non ha però rilievo essenziale anche se le citate decisioni del
2005 e del 2008 che adottano la considerazione unitaria dei due processi la applicano
solo quando essi abbiano le stesse parti; l’intervento o l’iniziativa del terzo non rileva
ai fini della ragionevole durata, perché lo stesso comunque non può congiungere la
durata dell’ottemperanza a quella dell’altro processo al quale egli non ha partecipato.
Peraltro vi sono dubbi rilevanti in dottrina sulla ammissibilità del ricorso in ottemperanza di terzi, nel caso di annullamento di atti normativi o con più destinatari,
la cui invalidità si riflette anche su tali soggetti, ma solo in ordine all’annullamento di
tali provvedimenti e non ai conseguenti atti attuativi, da disporre in favore delle sole
parti del giudizio cognitorio che hanno visto riconosciuti i loro interessi legittimi e a
carico della P.A. soccombente.
I terzi potranno far valere l’inefficacia dell’atto nelle sedi competenti, ferma restando l’actio iudicati per le sole parti del giudizio di cognizione, legittimato ad agire
in ottemperanza, con conseguente irrilevanza della argomentazione per sostenere
l’una o l’altra tesi sul rapporto tra i due processi, che restano distinti, anche quando
non vi siano interventi di terzi.
La impugnabilità della sentenza emessa in sede di ottemperanza conferma, come
già detto, la duplicità dei giudizi, cosı̀ come la estensione del giudizio di ottemperanza anche a sentenze esecutive e non passate in giudicato, in pendenza di gravame,
o a provvedimenti cautelari, costituiscono tutti argomenti che sul piano pratico
rafforzano la tesi della dualità dei processi di cui alle numerose pronunce di questa
Corte del 2009.
I limiti dell’appello delle sentenze emesse in sede di ottemperanza, comunque
relativi alla cognizione esercitata in esse, secondo la giurisprudenza amministrativa,
non escludono il regime distinto di esso da quello di cognizione, ma anzi, per quanto
sopra rilevato, confermano la teoria dualistica.
L’ottemperanza estesa anche alle misure cautelari del giudizio di cognizione dalla
L. n. 1034 del 1971 , che hanno un proprio regime d’impugnazione e mai possono
acquisire idoneità a divenire giudicato, conferma la differenza dei due giudizi, potendo essa intervenire anche in rapporto a fasi meramente incidentali e non necessarie del processo cognitorio, con contemporanea pendenza con esso dell’altro giudizio, che procede autonomamente.
Anche la prevista regressione al Tar della ottemperanza delle sentenze del Consiglio di Stato, confermative di quelle di primo grado (L. n. 1034 del 1971, art. 37,
u.c.), sarebbe incompatibile, secondo le decisioni richiamate del 2009, con ogni
considerazione unitaria dei due processi, essendo fisiologica la “evoluzione ascensionale” dal giudice di primo a quello di secondo grado interrotta nel caso; ma tale
argomento appare compatibile con la libertà di scelta del legislatore nell’attribuire
competenze funzionali nel processo amministrativo.
In tale ambito, assume rilievo dirimente la circostanza che lo stesso legislatore non
ha modificato le norme sulla ottemperanza delle sole sentenze passate in giudicato
706
Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
del giudice emesse nel processo di cognizione di cui al codice di procedura civile,
consentendo che permanga un organo di diversa giurisdizione, cioè il giudice amministrativo, a stabilire le modalità di attuazione di sentenze del giudice ordinario:
in tal caso sembra indispensabile una considerazione distinta dei due processi, non
potendosi gli stessi considerarsi fasi del medesimo procedimento perché può escludersi che permanga nel secondo la medesima situazione giuridica azionata nel primo
in rapporto agli organi delle diverse giurisdizioni chiamati a decidere, e perché non
vi può essere una translatio iudicii che si attui su domande diverse da quelle originariamente proposte da far valutare al giudice che si ritiene avere giurisdizione su di
esse (S.U. 22 febbraio 2007 n. 4109 e Cass. 6 agosto 2009 n. 18015). (Omissis)
5. In conclusione, appare opportuno enunciare il seguente principio di diritto: “in
tema di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata del processo, questo va identificato, in base all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, in considerazione delle situazioni soggettive
controverse e azionate su cui il giudice adito deve decidere, le quali, per la citata
norma sovranazionale, sono “diritti e obblighi”, ai quali, per gli artt. 24, 111, e 113
Cost., devono aggiungersi gli interessi legittimi di cui sia chiesta tutela ai giudici
amministrativi.
In rapporto al criterio di distinzione della Convenzione sopra richiamato, il processo di cognizione e quello di esecuzione regolati dal codice di procedura civile come
quello cognitivo del giudice amministrativo e il processo di ottemperanza, teso a far
conformare la P.A. a quanto deciso in sede cognitoria, devono considerarsi tra loro
autonomi, in rapporto alla diversità delle situazioni soggettive azionate in ciascuno di
essi (nei primi, cognitori, diritti e interessi legittimi, e nei secondi esclusivamente diritti all’adempimento). Dalla differenza funzionale richiamata deriva la diversità della
struttura di ognuno di detti procedimenti, nascendo il processo di cognizione da una
domanda di accertamento di un diritto, obbligo o interesse legittimo controverso, e
il secondo dalla valutazione positiva di tali situazioni contenuta in una pronuncia
esecutiva, la cui inadempienza dal convenuto o resistente soccombente, comporta che
la stessa costituisca titolo esecutivo che, notificato con il precetto, introduce i procedimenti (alcuni anche cognitori) tesi a soddisfare quanto accertato dal giudice della
cognizione (cfr. libro terzo del c.p.c.), potendosi, qualora soccombente sia una pubblica amministrazione agire anche in ottemperanza, perché la predetta si conformi al
giudicato, ponendo in essere atti sostitutivi di quelli annullati perché illegittimi, a
seguito di notifica della messa in mora a provvedere nei sensi della decisione emessa
in sede cognitoria non osservata. Consegue alla detta autonomia dei diversi giudizi che
le loro durate non possono sommarsi per rilevarne una complessiva dei due processi,
di cognizione da un canto e di esecuzione o di ottemperanza dall’altro, e che solo dal
momento delle decisioni definitive in ciascuno dei processi sarà possibile, per ognuno
di essi, domandare, nei termini della L. n. 89 del 2001, art. 4, l’equa riparazione per
violazione dell’art. 6 della Convenzione”.
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
707
6. Il ricorso deve quindi essere rigettato, perché il computo della durata del processo di cognizione presupposto, autonomo rispetto a quello di ottemperanza, comporta che lo stesso, deciso con sentenza del Consiglio di Stato del 26 settembre
2001, deve ritenersi definito l’11 novembre 2002, con la conseguenza che la domanda di equa riparazione del 18 febbraio 2004 esattamente si è ritenuta tardiva e
inammissibile, per decorso del termine semestrale di cui alla L. n. 89 del 2001,
art. 1, mentre il processo di ottemperanza successivamente iniziato e ancora in corso
alla data di proposizione di detta domanda, in quanto concluso da sentenza del 28
febbraio 2004 è da ritenersi durato per un tempo ragionevole, con conseguente
infondatezza della domanda di equa riparazione.
In conclusione, il ricorso deve rigettarsi e nulla deve disporsi per le spese del
processo di cassazione, rimanendo a carico della ricorrente le spese del giudizio di
legittimità per non essersi difesa in questa sede la Presidenza del Consiglio dei
Ministri validamente intimata.
(1) In senso conforme alla pronuncia in rassegna v. Cass., S.U., 24-12-2009, nn. 27348 e 27349,
nonché, ex multis, Cass., 23-1-2009, n. 1732, GI, 2009, 1527; Cass., 30-11-2006, n. 25529; Cass.,
7-7-2008, n. 18603; Cass., 7-10-2005, n. 19629. Contra, v. invece Cass., 18-4-2005, n. 7978, FA CDS,
2005, 1669.
In argomento, Di Dio, Il risarcimento per violazione del termine ragionevole del processo: le modifiche
apportate dalla legge Finanziaria 2007 alla L. n. 89/2001 (cosiddetta “legge Pinto”), F, 2007, 509 ss.;
Pasquinelli, Legge Pinto ed irragionevole durata del processo. La cassazione ammette il danno morale per
gli enti collettivi, RCP, 2006, 283 ss.; Fanni, I “peculiari rapporti” tra l’art. 6 della convenzione europea
dei diritti dell’uomo e la “legge Pinto” nella recente giurisprudenza della corte di cassazione, DPT, 2005, I,
1053 ss.; Focarelli, La legge Pinto e l’applicabilità del diritto alla durata ragionevole del processo alle
indagini preliminari e ai giudizi tributari, GiC, 2005, 5163 ss.; Bozza, La ragionevole durata del giusto
processo, la legge Pinto e il processo fallimentare, Fa, 2002, 299 ss.; Berti Arnoaldi Veli, La legge Pinto
sull’equa riparazione dei danni per la non ragionevole durata del processo: problemi applicativi e interpretativi, RF, 2002, 19 ss.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezione III, 13 ottobre 2009, n. 21682 — Di Nanni Presidente —
Filadoro Relatore — Golia P.M. (concl. conf.); V.G. - C.R. e altro.
Esecuzione forzata — Immobiliare — Vendita — Decreto di fissazione dell’udienza per
l’autorizzazione della vendita — Mancata comunicazione al debitore — Conseguenze —
Nullità del decreto di aggiudicazione e di quello di trasferimento — Deducibilità del vizio
con l’opposizione agli atti esecutivi — Inopponibilità della nullità degli atti esecutivi anteriori alla vendita ex art. 2929 c.c. — Portata — Applicabilità all’acquirente che sia anche
creditore procedente — Esclusione — Fondamento.
In tema di esecuzione forzata immobiliare, la mancata comunicazione al debitore del decreto
con cui, a norma dell’art. 569 c.p.c., il giudice dell’esecuzione dispone l’audizione delle parti e
dei creditori iscritti non intervenuti, costituisce vizio incidente anche sui successivi provvedimenti di aggiudicazione e di trasferimento del bene pignorato, deducibile con l’opposizione agli
atti esecutivi nel termine di cui all’art. 617 c.p.c., il quale decorre dalla conoscenza legale del-
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
l’atto. La predetta nullità, ancorché anteriore alla vendita, risulta opponibile all’acquirente del
bene se (come nella specie), ne difetti la terzietà rispetto alle parti del procedimento, come
quando la vendita stessa sia stata disposta in favore di uno dei creditori procedenti, non trovando in tal caso applicazione la regola generale di cui all’art. 2929 c.c. (1).
(1) La giurisprudenza ha da tempo riconosciuto che la norma di cui all’art. 2929 c.c., vietando la
ripetizione delle somme pagate a seguito dell’esecuzione e non l’accertamento in sede di cognizione
piena delle ragioni creditorie reciproche delle parti, ha lo scopo di neutralizzare — salvo il caso di
collusione dell’assegnatario o acquirente con il creditore e sempre che assegnatario non sia il medesimo
creditore precedente — le conseguenze di vizi incidenti sugli atti che precedono l’assegnazione (ex
multis, Cass., 27-1-1995, n. 1018; Cass., 1-8-1991, n. 8471). Cass., S.U., 30-11-2006, n. 25507 [GI, 2007,
1717 ss., con nota di Ronco, Le Sezioni unite applicano il nuovissimo art. 187-bis disp. att. c.p.c. (sulla
salvezza degli effetti dell’aggiudicazione, anche provvisoria, in caso di estinzione del processo esecutivo);
REF, 2007, 343 ss., con nota di Spada, Aggiudicazione provvisoria dell’immobile ed estinzione del processo; FI, 2008, I, 1294 ss., con nota di Metafora, La stabilità nell’aggiudicazione provvisoria e la successiva estinzione del processo esecutivo], ha peraltro chiarito che la stabilità della vendita e dell’assegnazione non sopraggiunge soltanto con il loro perfezionamento, ma risulta anticipata già al momento
dell’aggiudicazione: ai sensi del nuovo art. 187-bis, disp. att. c.p.c., infatti, qualora in fase di vendita sia
intervenuta l’aggiudicazione provvisoria e successivamente il giudice dell’esecuzione abbia dichiarato
l’estinzione della procedura esecutiva in pendenza del termine per la presentazione delle eventuali
offerte in aumento ai sensi dell’art. 584 c.p.c., si deve ritenere che gli effetti dell’aggiudicazione, “anche
provvisoria”, restano fermi nei confronti degli aggiudicatari, anche se tali non in via definitiva. Tanto
l’aggiudicazione provvisoria che l’assegnazione sono ora da ritenersi atti indifferenti all’estinzione, la
quale, quindi, non ne determina la caducazione, con conseguente configurabilità del diritto dell’aggiudicatario provvisorio all’ottenimento del trasferimento del bene in suo favore.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezione III, ord. 22 ottobre 2009, n. 22488 — Preden Presidente —
Frasca Relatore; S.R. - S.M.
Opposizione all’esecuzione — Sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo disposta
dal giudice dell’esecuzione ex art. 624 c.p.c. — Reclamo al tribunale ex art. 669-terdecies
c.p.c. — Ordinanza di rigetto — Ricorso per cassazione ex art. 111, 7o co., Cost. —
Ammissibilità — Esclusione — Fondamento.
È inammissibile il ricorso per cassazione, ex art. 111, 7o co., Cost., contro l’ordinanza con cui
il tribunale, ai sensi dell’art. 624, 2o co., c.p.c. nel testo sostituito dall’art. 2, comma 3, lett. e),
del d.l. n. 35 del 2005, convertito nella legge n. 80 del 2005 e poi modificato dall’art. 18 della
legge n. 52 del 2006, respinga il reclamo avverso l’ordinanza di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, emessa dal giudice dell’esecuzione a seguito dell’opposizione proposta ai sensi
dell’art. 615 c.p.c., trattandosi di provvedimento privo di natura definitiva e decisoria, avente
natura cautelare e provvisoria. Il predetto principio si applica tanto nell’ipotesi di sospensione
disposta in sede di opposizione all’esecuzione non iniziata, sia quando la sospensione sia disposta ad esecuzione già iniziata (1).
(1) Esattamente in termini, Cass., 21-10-2009, n. 22486. Nel senso che nel regime di cui all’art. 624,
2o co., c.p.c., nel testo sostituito dal d.l. n. 35 del 2005, convertito nella legge n. 80 del 2005 e poi
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
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modificato dall’art. 18 della legge n. 52 del 2006, è inammissibile il ricorso per cassazione ex art. 111
Cost. contro l’ordinanza di sospensione dell’esecuzione, atteso che l’ordinamento prevede lo specifico
rimedio del reclamo ai sensi dell’art. 669-terdecies c.p.c., v. anche Cass., 12-3-2009, n. 6048, e T. Chieti,
16-1-2009. Già prima delle modifiche apportate dalla l. 24-2-2006, n. 52 all’art. 624 c.p.c. si riteneva del
resto pacificamente che lo strumento di controllo dell’ordinanza di sospensione dell’esecuzione fosse
rappresentato dall’opposizione agli atti esecutivi, esperibile anche contro il provvedimento di rigetto
dell’istanza di sospensione, da questo punto di vista non decisorio e, di conseguenza, non impugnabile
in cassazione ex art. 111 Cost. (in tal senso v. ad es. Cass., 5-3-2009, n. 5342; Cass., 18-9-2008, n. 23847;
Cass., S.U., 1-10-1993, n. 9801).
In dottrina, cfr. ex multis Locatelli, Il nuovo potere sospensivo del giudice dell’opposizione a precetto,
RDPr, 2008, 79 ss.; Barreca, La riforma della sospensione del processo esecutivo e delle opposizioni
all’esecuzione e agli atti esecutivi, REF, 2006, 655 ss.; Capponi, Appunti sulle opposizioni esecutive dopo
le riforme del 2005-2006, REF, 2007, 603 ss.; Menchini-Motto, Le opposizioni esecutive e la sospensione del processo di esecuzione, in Consolo (a cura di), Il processo civile di riforma in riforma, II, Milano,
2006, 171 ss.; Petrillo, Commento all’art. 624 c.p.c., in Briguglio-Capponi (a cura di), Commentario
alle riforme del processo civile, II, Padova, 2007, 612 ss.; Oriani, La sospensione dell’esecuzione (sul
combinato disposto degli artt. 615 e 624 c.p.c.), REF, 2006, 209 ss.; Recchioni, I nuovi artt. 616 e 624
c.p.c. fra strumentalità cautelare “attenuata” ed estinzione del “pignoramento”, RDPr, 2006, 643 ss.; Vittoria, La sospensione esterna del processo esecutivo. La sospensione disposta dal giudice dell’esecuzione,
REF, 2007, 401 ss.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezione III, 28 ottobre 2009, n. 22794 — Di Nanni Presidente —
Spirito Relatore — Scardaccione P.M. (concl. conf.); I.R. e altro - Intesa gestione cred. S.p.a.
Esecuzione forzata — Immobiliare — Vendita con incanto — Vendita delegata a notaio
— Omessa notifica dell’avviso di vendita da parte del professionista delegato — Rimedio
esperibile — Opposizione contro l’ordinanza di delega delle operazioni — Necessità —
Fondamento — Reclamo al giudice dell’esecuzione avverso l’omissione del notaio —
Inammissibilità.
In materia di vendita con incanto delegata dal giudice dell’esecuzione al notaio, ai sensi
dell’art. 591-bis c.p.c., l’omessa notifica dell’avviso di vendita può essere fatta valere soltanto
con l’opposizione contro l’ordinanza di delega al predetto professionista, spettando al giudice e
non al delegato inserire nel provvedimento le indicazioni relative alla data dell’incanto; ne
consegue che il reclamo al giudice dell’esecuzione avverso gli atti del notaio dev’essere dichiarato inammissibile (1).
(1) Non constano precedenti specificamente in termini. La massima è peraltro conforme ai principii
elaborati dalla giurisprudenza in materia di rapporti tra reclamo esecutivo ed opposizione agli atti
esecutivi nel particolare campo della vendita delegata. In argomento v. Cass., 21-3-2008, n. 7674, secondo cui nel processo esecutivo sussiste, quanto meno in linea generale, il principio (di cui la normativa contenuta nell’art. 591-ter c.p.c. è solo una applicazione) secondo cui, finché l’atto dell’ausiliario
non è stato conosciuto e valutato dal g.e., gli unici rimedi esperibili contro l’atto medesimo vanno
ricercati al di fuori dell’art. 617 c.p.c., e vanno individuati in varie attività comunque consistenti nel
sollecitare il potere di controllo di detto giudice, mentre solo dopo che il g.e. si sia pronunciato è
possibile utilizzare il rimedio dell’opposizione agli atti esecutivi contro tale pronuncia, e ciò in quanto
solo dopo quest’ultima si è di fronte ad un atto riferibile al g.e.; Cass., 26-6-2006, n. 14707, REF, 2006,
647, secondo cui la norma dell’art. 591-ter c.p.c., in tema di operazioni di esecuzione per espropriazione
di immobili delegate al notaio, quando, nel 2o co., dispone che «restano ferme le disposizioni di cui
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Rivista dell’esecuzione forzata 4/2009
all’art. 617 c.p.c.», dev’essere interpretata nel senso che l’opposizione agli atti esecutivi è il mezzo
esperibile contro le ordinanze del giudice dell’esecuzione pronunciate, sia a seguito del reclamo delle
parti del processo esecutivo contro i decreti pronunciati dal giudice dell’esecuzione su sollecitazione del
notaio delegato, in relazione a difficoltà insorte nelle operazioni di esecuzione, sia a seguito del reclamo
delle parti avverso gli atti del notaio delegato, restando, pertanto, esclusa ogni possibilità di diretta
impugnativa in sede giurisdizionale diversa dal reclamo tanto dei suddetti decreti quanto degli atti del
notaio delegato, e, quindi, la proposizione diretta dell’opposizione agli atti esecutivi contro di essi ed a
maggior ragione, data l’esistenza nel sistema dell’esecuzione forzata di un rimedio generalizzato contro
le invalidità del processo esecutivo, rappresentato proprio dal rimedio dell’art. 617 c.p.c., del ricorso
straordinario ai sensi del settimo comma dell’art. 111 Cost. V. anche Cass., 10-5-2007, n. 10925, Fa,
2007, 1163 ss., con nota di Trentini, secondo cui è inammissibile il reclamo ai sensi dell’art. 26 l. fall.
proposto avverso atto del notaio delegato alla vendita di immobili, ai sensi dell’art. 591-bis c.p.c., dal
giudice delegato al fallimento, atteso che il rimedio in questione è consentito esclusivamente avverso atti
del predetto giudice, al quale, peraltro, l’interessato può rivolgere reclamo ai sensi dell’art. 591-ter c.p.c.
avverso gli atti del notaio e, quindi, eventualmente reclamare, ai sensi dell’art. 26 cit., avverso il provvedimento in tale sede emesso dal giudice.
In dottrina, v. Besso, Espropriazione forzata e notai, GI, 1999, 12 ss.; Luiso, I rapporti fra notaio
delegato e giudice dell’esecuzione, REF, 2000, 5 ss.; Manna, La delega ai notai delle operazioni di incanto
immobiliare, Milano, 1999; Miccolis, La delega ai notai nelle espropriazioni immobiliari, RDC, 1999, I,
325 ss.; Oriani, Il regime degli atti del notaio delegato alle operazioni di vendita nell’espropriazione
immobiliare, FI, 1998, V, 397 ss.; Sensale, L’espropriazione immobiliare e la delega ai notai degli incanti,
REF, 2003, 337 ss.; Vaccarella, La vendita forzata immobiliare tra delega al notaio e prassi giudiziarie
«virtuose», REF, 2001, 293 ss.
CORTE DI CASSAZIONE, Sezione III, 17 novembre 2009, n. 24215 — Morelli Presidente —
D’Amico Relatore — Russo P.M. (concl. conf.); S.A. Prefettura - Matera.
Sanzione amministrativa pecuniaria — Notificazione della cartella esattoriale — Estinzione dell’obbligazione sanzionatoria successivamente alla formazione del titolo esecutivo — Rimedi esperibili — Opposizione all’esecuzione — Ammissibilità — Competenza
— Determinazione — Criterio — Mancata impugnazione e avvenuto pagamento — Azione
di ripetizione di indebito — Esperibilità — Esclusione.
A seguito della notificazione di una cartella esattoriale, dalla quale risulti l’iscrizione a ruolo
di un importo a titolo di sanzione pecuniaria amministrativa, l’interessato, al fine di far valere
fatti estintivi sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo, come la prescrizione, deve proporre opposizione all’esecuzione, per la quale è competente il giudice indicato dalla legge come
competente in ordine alla opposizione al provvedimento sanzionatorio. Ove ometta, invece, tale
opposizione e nondimeno provveda al pagamento onde evitare il pignoramento, egli non potrà
poi agire in via di ripetizione d’indebito (1).
(1) Esattamente in termini, Cass., 13-12-2001, n. 15741. V. anche Cass., 7-3-2006, n. 4891, secondo
cui a seguito della notificazione di una cartella esattoriale dalla quale risulti l’iscrizione a ruolo di un
importo a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, l’interessato, al fine di far valere fatti estintivi
sopravvenuti alla formazione del titolo esecutivo (prescrizione maturata dopo l’irrogazione della sanzione, pagamento, ecc.), non può proporre un’azione di accertamento negativo, ma ha la possibilità di
proporre opposizione all’esecuzione, per la quale, prima dell’inizio dell’esecuzione, giudice competente
deve ritenersi, in applicazione del criterio dettato dall’art. 615, 1o co. c.p.c., quello ritenuto idoneo dal
legislatore a conoscere della sanzione, cioè quello stesso indicato dalla legge come competente per
Rassegna delle decisioni della Cassazione - 4o trimestre 2009
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l’opposizione al provvedimento sanzionatorio, restando applicabile in toto il rito ordinario, con esclusione del procedimento a struttura semplificata previsto per tale opposizione, in particolare del termine
di decadenza di cui all’art. 22, l. n. 689 del 1981, anche quanto alle impugnazioni proponibili. Secondo
Cass., 13-3-2007, n. 5871, avverso la cartella esattoriale emessa ai fini della riscossione di sanzioni
amministrative pecuniarie è ammissibile l’opposizione ai sensi della l. n. 689 del 1981 soltanto ove la
parte deduca che essa costituisce il primo atto con il quale è venuta a conoscenza della sanzione irrogatale, in quanto sia mancata la notificazione dell’ordinanza-ingiunzione o del processo verbale di contestazione: in tal caso l’opposizione consente all’interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto
dalla legge riguardo agli atti sanzionatori. Qualora invece la cartella esattoriale sia stata notificata per
attivare il procedimento esecutivo di riscossione della sanzione, la cui debenza è stata già definitivamente accertata, il destinatario che voglia contestare l’esistenza del titolo esecutivo può esperire l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c. ovvero, se intenda dedurre vizi formali della cartella, l’opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., secondo le forme ordinarie.
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