Stagione
2013-2014
Sala Verdi del
Conservatorio
Quartetto di Cremona
Cristiano Gualco violino
Paolo Andreoli violino
Simone Gramaglia viola
Giovanni Scaglione violoncello
Ludwig van Beethoven
I 17 Quartetti per archi
Esecuzione integrale per i 150 anni
della Società del Quartetto, IV – V – VI
Martedì 18 febbraio 2014, ore 20.30
Martedì 11 marzo 2014, ore 20.30
Martedì 15 aprile 2014, ore 20.30
I concerti sono registrati da RAI Radio3
Di turno
18 febbraio: Marco Bisceglia, Mathias Deichmann
11 marzo: Franca Cella, Lodovico Barassi
15 aprile: Mathias Deichmann, Clemente Perrone da Zara
Consulente artistico
Paolo Arcà
Sponsor istituzionali
Stagione
2013-14
Con il contributo di
Con il patrocinio e il contributo di
Soggetto di rilevanza regionale
Sponsor Ciclo Beethoven
Progetto
“Verso il futuro,
dal nostro
passato”
Con il patrocinio di
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Sponsor
Media partner
In collaborazione con
È vietato, senza il consenso dell’artista, fare fotografie e registrazioni,
audio o video, anche con il cellulare.
Iniziato il concerto, si può entrare in sala solo alla fine di ogni composizione.
Si raccomanda di:
• disattivare le suonerie dei telefoni e ogni altro apparecchio con dispositivi acustici;
• evitare colpi di tosse e fruscii del programma;
• non lasciare la sala fino al congedo dell’artista.
Il programma è pubblicato sul nostro sito web il venerdì precedente il concerto.
Ludwig van Beethoven
I 17 Quartetti per archi
Esecuzione integrale per i 150 anni
della Società del Quartetto, IV – V – VI
Martedì 18 febbraio 2014
Quartetto n. 5 in la maggiore op. 18 n. 5
I. Allegro II. Menuetto III. Andante cantabile IV. Allegro
(ca. 24’)
Quartetto n. 10 in mi bemolle maggiore op. 74 “delle arpe” (ca. 30’)
I. Poco adagio - Allegro II. Adagio ma non troppo III. Presto - Più presto quasi prestissimo
IV. Allegretto con variazioni
Intervallo
Quartetto n. 14 in do diesis minore op. 131
(ca. 40’)
1. Adagio, ma non troppo e molto espressivo 2. Allegro molto vivace 3. Allegro moderato
4. Andante, ma non troppo e molto cantabile 5. Presto 6. Adagio quasi un poco andante
7. Allegro
Martedì 11 marzo 2014
Quartetto n. 1 in fa maggiore op. 18 n. 1
(ca. 26’)
I. Allegro con brio II. Adagio affettuoso e appassionato III. Scherzo. Allegro molto
IV. Allegro
Quartetto n. 17 in si bemolle maggiore op. 133 “Grande Fuga” (ca. 15’)
Overtura. Allegro - Fuga
Intervallo
Quartetto n. 2 in sol maggiore op. 18 n. 2 (ca. 23’)
I. Allegro II. Adagio cantabile III. Scherzo. Allegro e Trio IV. Allegro molto, quasi Presto
Martedì 15 aprile 2014
Dedicato al Quartetto Italiano
Quartetto n. 13 in si bemolle maggiore op. 130
(ca. 37’)
I. Adagio, ma non troppo - Allegro II. Presto III. Andante con moto, ma non troppo
IV. Cavatina V. Finale. Allegro
Intervallo
Quartetto n. 15 in la minore op. 132
(ca. 42’)
I. Assai sostenuto - Allegro II. Allegro ma non tanto III. Heiliger Dankgesang eines
Genesenen an die Gottheit, in der lydischen Tonart. Molto adagio - Andante
IV. Alla marcia, vivace assai V. Allegro appassionato
Ludwig van Beethoven
(Bonn 1770 – Vienna 1827)
Quartetto n. 1 in fa maggiore op. 18 n. 1
I. Allegro con brio II. Adagio affettuoso ed appassionato III. Scherzo. Allegro molto
IV. Allegro
Quartetto n. 2 in sol maggiore op. 18 n. 2
I. Allegro II. Adagio cantabile III. Scherzo. Allegro e Trio IV. Allegro molto, quasi Presto
Quartetto n. 5 in la maggiore op. 18 n. 5
I. Allegro II. Menuetto III. Andante cantabile IV. Allegro
Anno di composizione: 1879-1800
Anno di pubblicazione: Vienna, 1801
Nel 1792 il conte Ferdinand von Waldstein scrisse sull’album del giovane
Beethoven, in procinto di recarsi a Vienna: «Caro Beethoven! Partite ora per
Vienna a coronamento dei vostri desideri a lungo non soddisfatti. Il genio di
Mozart è ancora in lutto e piange la morte del suo allievo. Ha trovato rifugio, ma
non occupazione, presso il fecondissimo Haydn; attraverso di lui esso desidera
essere unito ancora una volta a qualcuno. Con uno zelo ininterrotto ricevete: lo
spirito di Mozart dalle mani di Haydn». Waldstein formulava un augurio, ma
allo stesso tempo indicava al talentoso giovanotto la strada da imboccare. Non
era facile vedere in quel musicista di provincia ruvido e permaloso l’artista in
grado di superare addirittura il “fecondissimo Haydn”. L’accenno allo zelo ininterrotto, inoltre, lasciava intendere quanto fosse ancora lontano il traguardo.
Negli anni Novanta del Settecento Vienna era chiamata la “città dei pianisti”,
a causa dell’inarrestabile afflusso di musicisti provenienti da tutte le provincie
dell’Impero in cerca di occasioni di lavoro. Beethoven arrivava a Vienna con
l’intenzione di diventare il miglior virtuoso della città, obiettivo raggiunto espugnando uno dopo l’altro, con strategia quasi militare, i palazzi delle grandi famiglie. Ma una volta conquistato il primo posto tra i pianisti, soppiantando la
fama di Mozart, Beethoven cominciava ad aspirare a un gradino più alto, quello
di principe della composizione. La produzione corrente di musica strumentale
era copiosa e la concorrenza forte. In questo panorama, però, Beethoven riteneva che l’unico confronto possibile fosse con la musica di Haydn e Mozart.
Cominciò dunque a misurare le sue forze con il genere del quartetto, essenziale
per conquistare la stima della nobiltà viennese. Su questo terreno però doveva
vedersela con la produzione del suo maestro Haydn, un rivale assai più temibile della pletora di concorrenti sul pianoforte. Il venerabile maestro di cappella
degli Esterházy, in quell’ultimo scorcio del Settecento, era ormai sul viale del
tramonto, ma godeva ancora di una immensa popolarità e non sembrava affatto
in declino sul piano artistico. A metà degli anni Novanta Haydn aveva scritto
alcuni dei suoi lavori migliori nell’ambito della musica da camera, come le raccolte dei Quartetti opp. 71, 74 e 76. L’augurio di Waldstein sembra calzare a
pennello alla prima serie di Quartetti di Beethoven, scritti tra il 1798 e il 1800
in contemporanea con i due lavori dell’op. 77 di Haydn. Le due raccolte infatti
nascevano su richiesta dello stesso committente, il principe Franz Joseph Max
von Lobkowitz. Il giovane Principe, appassionato violinista, era uno degli amateur più munifici di Vienna e riuscì a dissipare nel giro di vent’anni l’ingente
patrimonio per amore della musica e del teatro. Fu uno dei tre nobili, assieme al
principe Kinsky e all’arciduca Rodolfo, che firmarono nel 1809 il contratto che
impegnava Beethoven a rimanere a Vienna, in cambio di un cospicuo vitalizio.
In casa di Lobkowitz, Beethoven fece la conoscenza di alcuni tra i migliori strumentisti della capitale, come i violinisti Ignaz Schuppanzig e Josef Mayseder,
spesso impegnati a eseguire i quartetti commissionati dal generoso amateur.
I Quartetti op. 18 furono pubblicati in due fascicoli separati nel giugno e nell’ottobre 1801 dall’editore Tranquillo Mollo di Vienna, in un ordine diverso da quello di composizione. I quaderni di appunti mostrano con quanta cautela e determinazione Beethoven abbia affrontato l’impresa di sfidare Haydn sul terreno
a lui più congeniale, e allo stesso tempo con quanta attenzione abbia studiato i
risultati ottenuti da Mozart una dozzina d’anni prima. Ma benché i capolavori di
Haydn e di Mozart siano stati il punto di partenza, i Quartetti dell’op. 18 manifestano in ogni loro aspetto la personalità originale di Beethoven.
Il primo movimento del Quartetto in fa maggiore n. 1, scritto in realtà per secondo, presenta due temi dal carattere ritmico marcato. Il primo è segnato da
una sorta di gruppetto incespicante, mentre il secondo si sviluppa su una lunga
frase sincopata. L’influenza del ritmo imprime al movimento una spinta energica
formidabile, che si traduce in un’animata corsa in avanti verso la conclusione.
Non è contraddittorio sottolineare anche la presenza di una serie di elementi
che sembrano invece rallentare il movimento, come l’enfasi attribuita alle pause,
i pesanti accordi in sforzando, le note tenute con corona. In realtà, tutti questi
episodi servono a conferire un maggior slancio al processo dinamico del quartetto. Anche lo stile compositivo presenta dei contrasti significativi, che contribuiscono a creare la sensazione di una incessante forza propulsiva. La scrittura
infatti oscilla come un pendolo tra episodi all’unisono e omoritmici e passaggi
di stile imitativo, che portano i quattro strumenti a raggiungere il picco della
tensione sonora al culmine dello sviluppo su un accordo di dominante esteso su
quasi cinque ottave.
La vivacità ritmica dell’“Allegro con brio” iniziale trabocca anche nell’“Adagio
affettuoso e appassionato” in re minore. La splendida melodia cantabile del
tema, esposta prima dal violino e poi dal violoncello, è sospinta in avanti dalla
pulsazione ritmica dell’armonia. L’altra caratteristica dell’“Adagio” è la forma
dialogica, che si sviluppa attraverso un continuo passaggio del tema, nelle sue
svariate metamorfosi, tra i vari strumenti. L’ultima variazione del tema, carica di pathos ed espressione drammatica, vede la scrittura trasformarsi in uno
stile orchestrale a causa dell’agitato accompagnamento a note ribattute, che si
placa nella coda con una teatrale cadenza del violino. Nel quaderno di appunti,
Beethoven aveva iscritto a margine degli schizzi musicali delle piccole citazioni
tratte dalla versione francese del Romeo e Giulietta di Shakespeare. Naturalmente ogni riferimento letterario sparisce nella stampa, ma è significativo del
costante interesse dell’autore per il teatro e per Shakespeare in particolare. Lo
“Scherzo” riprende l’idea ritmica iniziale, sempre contrassegnata da una scrittura verticale e animata da un’energia quasi selvaggia. Lo stile eccessivo e impetuoso manifestato nel lavoro trova nell’“Allegro” finale la sua consacrazione.
Qui i vari elementi che avevano reso il Quartetto una sorta di bomba lasciata
sotto le vecchie forme settecentesche raggiungono l’espressione più potente, a
cominciare dalla forza devastante degli episodi all’unisono. La forma limpida del
rondò-sonata è animata da un’energia sprigionata in maniera incessante tanto
dalla vivacità ritmica, quanto dalla scrittura contrappuntistica, che alla fine travolge il movimento verso il trionfo definitivo della tonalità di fa maggiore con la
spettacolare coda e le svettanti guglie sonore inscenate dal violino.
Il Quartetto in sol maggiore op. 18 n. 2 si apre nel più puro stile di Haydn, ma
rivela ben presto il temperamento del suo autore. La cinguettante frase iniziale prende subito una piega drammatica, guidando il movimento attraverso
una sofferta fase di transizione verso un soggetto secondario di carattere serio
e marziale. In breve, pur rispettando i processi formali di Haydn, Beethoven
distrugge lo spirito equilibrato che li animava, come rivela senza equivoci la
sbalorditiva ripresa dell’esposizione, che conserva memoria del carattere combinatorio dello sviluppo nella scrittura indipendente delle quattro voci. È una
concezione nuova della forma, intesa come organismo dinamico e frutto di una
storia che non si dimentica del proprio passato. Questa tendenza si manifesta
altrettanto bene nell’“Adagio”, dove la coda finale è formata dal flebile ricordo
del sorprendente episodio centrale venuto a contrastare le tipiche colorature
violinistiche in stile Haydn della melodia. Non è da trascurare la ricerca di una
scrittura virtuosistica originale per gli strumenti ad arco, come si coglie particolarmente bene nello “Scherzo” e soprattutto nel Finale. Bisogna ricordare
che questa serie di lavori è legata all’amicizia profonda con il violinista e teologo
Carl Amenda, al quale Beethoven regalò il manoscritto della prima versione
del Quartetto in fa maggiore n.1 accompagnato da una frase toccante: «Tutte le
volte che lo suonerai, ricordati dei giorni passati insieme e del bene che ti volevo
e che ti voglio sempre».
Il Quartetto in la maggiore n. 5 invece è ricalcato sul modello del Quartetto
K 464 di Mozart. I due lavori non spartiscono solo la tonalità di la maggiore,
ma soprattutto la struttura globale, con lo spostamento al secondo posto del
“Menuetto” e il movimento lento in forma di tema con variazioni. Beethoven era
stato allevato nel culto di Mozart e i suoi protettori avevano sempre pensato a
lui come l’erede e il successore del maestro scomparso. Di tutti i lavori per quartetto di Mozart, il penultimo della serie dedicata a Haydn era quello che aveva
lasciato l’impressione più profonda su Beethoven, tanto da indurlo a copiarlo
per studio (metodo un tempo molto usato dai giovani artisti per imparare i segreti dei grandi maestri). Nel Quartetto di Mozart probabilmente lo colpiva la
capacità di combinare la qualità seria e colta della scrittura, che forse a Haydn
sarà parsa persino eccessiva, con una insuperabile leggerezza di espressione,
che si ritrova in misura insospettabile anche nel lavoro di Beethoven. Le analogie tra i due Quartetti vanno però cercate a un livello più profondo del semplice aspetto esteriore, che viceversa rivela la spiccata personalità del giovane
autore. Il tema principale dell’“Allegro”, scritto nel ritmo di 6/8, cosa insolita
per un movimento d’apertura, si sviluppa attraverso un dialogo tra le crome del
violoncello e del violino, che salgono dal la basso al fa# tre ottave e mezzo sopra.
Sarebbe un’impresa vana cercare nella produzione di Haydn e di Mozart una
analoga frammentazione tematica, così come una dinamica spesso compressa
nei piano improvvisi dopo un crescendo. L’influenza di Mozart si avverte invece
sul piano dei problemi artistici da risolvere, come per esempio il rapporto tra la
tonalità maggiore e minore. Il secondo tema infatti ruota attorno alla tonalità
di mi minore, anziché della dominante di mi maggiore, innestando un percorso
modulante che porta verso la coda brillante dell’esposizione.
Il “Menuetto” invece, pur non eguagliando la qualità di quelli di Mozart, è di
gran lunga il migliore di tutta la raccolta. La semplicità e la trasparenza della
scrittura sono la grande lezione imparata dal modello mozartiano, con in più
un’inclinazione naturale verso la danza tedesca che si ritrova solo nel miglior
Schubert. Il marchio di Beethoven è impresso sull’unico episodio in fortissimo
di un movimento tutto mantenuto in una sonorità sotto voce, un breve crescendo
guidato da un do# basso ostinato che sfocia in un perentorio accordo ribattuto di do diesis minore. Il punto di forza del Quartetto è l’“Andante cantabile”,
un raro esempio di movimento lento in forma di variazioni. Uno dei pochi casi
infatti è proprio il Quartetto in la maggiore di Mozart, che ne aveva dato una
versione magistrale e d’intensa espressione. Le variazioni di Beethoven sono
solo cinque e nessuna in minore, come vorrebbe la tradizione. Il tema è formato
da un semplice frammento di scala, che da fa# scende a la e poi risale di nuo-
vo a fa#, le stesse note del tema principale del primo movimento, solo ridotte
all’interno di un’unica ottava. A differenza del melanconico tema di Mozart, qui
il motivo è volutamente estraneo a qualunque inflessione melodica e rimane alla
larga da ogni forma di cromatismo. La cosa singolare è la definizione di cantabile per un movimento che in realtà organizza un perfetto congegno a orologeria,
nel quale spicca la scrittura orchestrale dell’ultima variazione, con il lungo trillo
acuto del violino, che anticipa simili episodi del Quartetto op. 131 scritto 25 anni
dopo. L’unico luogo dove però Beethoven riesce a battersi alla pari con Mozart è
l’“Allegro” finale, dove ritroviamo subito la frammentazione tematica ascoltata
all’inizio. Curiosamente, in questo rondò-sonata l’autore sente il bisogno di rendere un omaggio esplicito al suo modello, citando un tema secondario del lavoro
di Mozart, in un episodio in pianissimo a note lunghe. La scrittura del finale
manifesta una libertà nel trattare il linguaggio contrappuntistico in uno stile
arioso pari a quella di Mozart, pagando tuttavia il prezzo forse di annacquare un
po’ troppo il profilo personale del lavoro.
Quartetto n. 10 in mi bemolle maggiore op. 74 “delle arpe”
I. Poco adagio - Allegro II. Adagio, ma non troppo III. Presto - Più presto quasi prestissimo
IV. Allegretto con variazioni
Anno di composizione: 1809
Anno di pubblicazione: Lipsia, 1810
Il corpus dei 17 lavori per quartetto corrisponde in maniera esemplare alla tradizionale tripartizione della produzione di Beethoven, con due vistose eccezioni,
il Quartetto in mi bemolle maggiore op. 74 e quello in fa minore op. 95. Questi
due lavori isolati formano infatti una sorta di ponte tra il ciclo dei tre Quartetti
op. 59, scritti al culmine del dirompente periodo che ruota attorno alla Sinfonia
Eroica e al Fidelio, e il gruppo degli ultimi sconvolgenti Quartetti. Le due fasi
sono separate da un periodo meno produttivo e segnato da lavori di carattere
problematico e di ricerca. Il Quartetto in mi bemolle maggiore risale al 1809,
agli inizi di questo processo di ripiegamento. A dispetto di quanto appena affermato, tuttavia, il lavoro manifesta un carattere in apparenza solido e aperto,
privo di quel grumo di problemi sperimentali che rende così involuto il vicino
Quartetto in fa minore. Le condizioni di vita di Beethoven, in quello scorcio del
primo decennio dell’Ottocento, sembravano decisamente migliorate, con il vitalizio a suo favore sottoscritto dai tre Principi di Vienna. Quel che sembrava una
definitiva affermazione sociale tuttavia durò ben poco. Una serie di circostanze
avverse inflisse un duro colpo al suo equilibrio emotivo, prima il tramonto delle
speranze di sposare Therese Malfatti e in seguito la seconda occupazione di
Vienna, nel maggio 1809, da parte delle truppe francesi. I quaderni di appunti
di quell’anno non recano traccia di progetti realmente consistenti o del minu-
zioso lavoro preparatorio abituale degli anni precedenti. Beethoven non aveva
la tranquillità d’animo necessaria per lavorare a temi di grande respiro, ma era
pur sempre abbastanza ricco di emozioni per esprimere un solido mondo di valori musicali qual è il Quartetto op. 74. L’introduzione del primo movimento, “Poco
adagio”, rivela la natura profonda del Quartetto in mi bemolle maggiore, il primo composto in questa tonalità. Le 24 battute di questo episodio rappresentano
solo un ampio giro armonico della tonalità principale, tramite una serie di trasformazioni della triade fondamentale. L’autore non sente il bisogno di definire
due tonalità contrapposte, secondo i dettami della forma sonata. La lenta salita
cromatica del motivo iniziale, che prefigura il tema dell’“Allegro” strisciando
per così dire dalle tenebre di un accordo fortemente dissonante alla solare luminosità del mi bemolle maggiore, incarna la tendenza di questo Quartetto a
trasformare in modo dolce e pacifico il materiale. Il carattere drammatico non
gioca un ruolo fondamentale neppure nella successiva forma sonata dell’“Allegro”. Il ritorno all’esposizione, per esempio, al termine dello sviluppo centrale,
non avviene come se fosse partorito alla fine di un penoso travaglio della forma,
bensì rappresenta lo sbocco naturale di un processo di crescita non ostacolato
da alcuna forza contraria. Il ritorno al tema principale è preparato da un lungo
accordo tenuto di dominante, sul quale si sviluppa una serie di arpeggi distribuiti tra i quattro strumenti. L’aspetto nuovo e sorprendente del movimento
consiste in realtà nell’uso marcato di un tipo di sonorità come il pizzicato, che ha
fruttato al lavoro il soprannome di “Quartetto delle arpe”. Anche il lungo passaggio concertistico del primo violino nella coda rappresentava un effetto poco
convenzionale, per le orecchie degli ascoltatori del primo Ottocento. La maniera ingegnosa di chiudere un movimento così poco ortodosso è uno dei migliori
esempi d’intelligenza nel maneggiare la forma, malgrado la musica ostenti quasi
un atteggiamento disimpegnato e spontaneo.
Il Quartetto op. 74 non mette in scena una drammatica serie di conflitti, bensì
un sereno dispiegarsi degli affetti. Il movimento lento, “Adagio ma non troppo”, non è solo uno splendido momento lirico, ma anche una delle più alte vette melodiche raggiunte da Beethoven. Gli abbozzi dimostrano quanto lavoro di
preparazione si nasconda dietro la magnifica melodia in la bemolle maggiore,
cardine della struttura dell’intero movimento. La forma si sviluppa con estrema
semplicità, senza la tendenza a generare le dinamiche conflittuali tipica della
sonata. Anche in questo movimento la tensione si scioglie in un processo di trasformazione, che coinvolge soprattutto la relazione tra modo maggiore e modo
minore. La bemolle maggiore e minore si alternano fino alla fine, con splendide variazioni di colore nella scrittura delle parti. Lo “Scherzo”, indicato come
“Presto”, forma un potente contrasto espressivo con il movimento precedente,
travolgendo il dolce “Adagio” precedente con il tempestoso e selvaggio ritmo
del tema in do minore. La musica appartiene alla stirpe della Quinta Sinfonia,
ma con una differenza sostanziale. Mentre nella Sinfonia la tonalità lottava furiosamente per affermare il lato positivo del suo carattere, incarnato dal modo
maggiore, nel caso del Quartetto si dirige senza drammi verso il suo approdo, la
tonalità complementare di mi bemolle maggiore, dissimulando le sue vere intenzioni nella coda con una lunga transizione in pianissimo. Le sorprese infatti non
mancano, perché la conclusione del lavoro è affidata a un lieve ed elegante “Allegretto con variazioni”, una forma che Beethoven non aveva mai adottato come
finale nei precedenti Quartetti. Le sei variazioni si distribuiscono equamente nel
carattere: liriche, sommesse e arricchite da piccole sfumature armoniche quelle
pari; ritmiche, sonore e dritte al punto quelle dispari. Le qualità necessarie per
conferire lo slancio e l’eleganza a un movimento “leggero” non vengono spesso
associate a Beethoven, che in genere viene raffigurato come se fosse sempre
alle prese con profonde questioni esistenziali e i grandi temi dell’umanità. Il
Quartetto op. 74 esprime il desiderio di rimanere entro i confini di un linguaggio musicale consolidato e rinuncia per una volta all’obbligo morale di scrivere
qualcosa di completamente nuovo e originale. In questo forse consiste la vera
novità del lavoro.
Quartetto n. 13 in si bemolle maggiore op. 130
I. Adagio, ma non troppo - Allegro II. Presto III. Andante con moto, ma non troppo
IV. Cavatina V. Finale. Allegro
Anno di composizione: 1825
Prima esecuzione: Vienna, 21 marzo 1826
Quartetto n. 17 in si bemolle maggiore op. 133
“Grande Fuga”
Overtura. Allegro - Fuga
Anno di pubblicazione: Vienna, 1830
Il Quartetto in fa maggiore op. 135 è l’ultimo lavoro completo portato a termine
da Beethoven, ma non è stato però il frutto finale della sua produzione, perché
dopo aver finito il Quartetto l’autore accettò di separare la “Grosse Fuge” dal
Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 e di sostituirla con un nuovo movimento
conclusivo. La presenza della “Fuga” come movimento finale conferiva alla versione originaria del Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 un aspetto addirittura monumentale. La prima esecuzione del Quartetto nella versione originaria,
nel marzo 1826, lasciò sconcertato il pubblico, gli esecutori e ancor più l’editore
Artaria, che non riusciva a immaginare il futuro commerciale di una composizione così smisurata. Beethoven si lasciò convincere a ripensare il Quartetto con un
altro finale, di carattere più convenzionale. L’argomento principale a favore della separazione non consisteva nella difficoltà di comprendere l’aspro linguaggio
dissonante della “Fuga”, bensì di accettare la forma di un lavoro in apparenza
del tutto squilibrato, con un finale ampio quanto tutto il resto della composizione. La percezione del Quartetto muta in maniera radicale infatti a seconda della
versione, determinando una prospettiva ermeneutica del tutto differente. Per
capire quali fossero le strategie compositive di Beethoven conviene abbozzare
una rapida analisi dell’intero percorso. Il primo movimento costituisce la forma
sonata forse più elusiva mai scritta da Beethoven. Le aspettative dell’ascoltatore vengono continuamente disattese dal processo musicale, che rappresenta
una sorta di conflitto permanente tra due elementi, l’“Adagio ma non troppo”
iniziale e l’“Allegro”, connotato dalle rapide quartine di semicrome distribuite
tra gli strumenti. Il movimento successivo consiste in un ruvido “Presto” in si
bemolle minore, quasi rozzo nella parte centrale in maggiore, una sorta di grossolano ballo campestre. La tonalità di questo bizzarro momento d’umorismo si
lega al re bemolle maggiore del successivo “Andante con moto, ma non troppo”.
La didascalia “poco scherzoso” indica che anche questo movimento andrebbe
annoverato nell’area del tradizionale scherzo, benché le prime battute evochino in maniera ambigua il linguaggio espressivo di un adagio, subito smentito
però dall’indolente trotterellare del violoncello. Tanto era goffa la musica del
“Presto”, tanto appare fine e cesellata la scrittura di questa pagina magistrale,
strumentata con impareggiabile immaginazione e ricca di sottili intrecci armonici. Il sonoro accordo finale di re bemolle maggiore prelude a un nuovo e meno
prevedibile contrasto espressivo. Con un sorprendente balzo armonico, infatti,
il movimento seguente viene ambientato nella tonalità diametralmente opposta
di sol maggiore. “Alla danza tedesca” respira l’aria serena della festa paesana,
con un’ingenuità così disarmante da apparire sospetta. La maschera in effetti
sembra cadere nella coda, laddove il candido tema dell’allemanda si sbriciola in
una serie di frammenti, mostrando per un attimo un doloroso smarrimento della
coscienza. Il vero contrasto si manifesta però nella struggente “Cavatina”, che
rappresenta il punto culminante del linguaggio espressivo del Quartetto. Nessun Adagio di Beethoven riesce forse a toccare il cuore in maniera così commovente come questo canto dolce e rassegnato, che s’increspa in maniera drammatica solo in un breve episodio centrale in mi bemolle minore. I movimenti interni
potrebbero dunque costituire due coppie speculari, in una sorta di simmetria
espressiva che nasconde in filigrana la tradizionale articolazione di scherzo e
adagio. Restava da sciogliere il nodo del finale, che rappresentava il vero scoglio della visione filosofica dell’ultimo Beethoven. Riassumendo il percorso del
Quartetto, l’aspetto forse più caratteristico di questo lavoro consiste nella pervicace ricerca del contrasto. Il conflitto, in sintesi, sembra trasformare i mezzi
espressivi usati per creare le forme musicali, che non sono più il frutto di una
dialettica degli opposti, come avveniva nelle grandi opere degli anni precedenti,
bensì il soggetto vero e proprio del processo compositivo. Questo spiega, per
esempio, perché Beethoven abbia immaginato in origine di conferire al finale del
Quartetto la forma della “Fuga”, dopo aver toccato nella “Cavatina” il culmine
dell’espressione soggettiva. “Cavatina” e “Fuga”, una accanto all’altra, formano un contrasto poetico altrettanto dissonante quanto lo scontro di tonalità tra
l’“Andante con moto” e la “Danza tedesca”. Resta da domandarsi se un finale
tanto al di là di ogni convenzione, un tale “Monstrum aller Quartett-Musik” per
usare un’espressione di Anton Schindler, fosse in grado di riassumere, risolvere
o semplicemente trasfigurare le numerose discontinuità sulle quali si fondavano i movimenti precedenti. Beethoven stesso dovette dubitarlo, concedendo al
Quartetto in si bemolle un secondo finale, non meno contrastante del primo, ma
questa volta più radicato nel materiale musicale del primo movimento.
La fede di Beethoven nella coerenza del linguaggio musicale non vacillò mai,
neppure quando la fase dell’affermazione eroica dello spirito positivo era definitivamente tramontata. Le leggi dell’arte, secondo Beethoven, sono connaturate
ai fenomeni della vita e l’artista ha soltanto il dovere di penetrare i segreti della
natura e del linguaggio. La Grande Fuga aspirava a rappresentare il momento
culminante della lunga e duratura passione di Beethoven per la scrittura contrappuntistica. La forma più perfetta pertanto rappresentava anche la maniera
migliore per celebrare quel processo conflittuale, che costituiva sin dallo stile
del primo movimento la genesi della scrittura del Quartetto. La “Fuga” stessa riproduce le discontinuità osservate nei precedenti movimenti, a iniziare da
quell’inaudito unisono che costituisce la “Overtura” [sic] della pagina. Le tensioni armoniche, espressive, stilistiche riservate agli altri movimenti confluiscono
in questo immenso apparato digerente, che metabolizza il denso bolo di musica in una forma del tutto originale. Quale fantasia musicale avrebbe potuto
immaginare di scalare una parete tanto impervia, passando dal sol maggiore
dell’“Overtura” fino a raggiungere il si bemolle maggiore finale, attraverso
episodi in tonalità così lontane come sol bemolle maggiore e la bemolle maggiore, senza minare la coerenza e l’organicità del linguaggio contrappuntistico?
Qualunque fosse il motivo per il quale l’autore ha deciso di separare la “Fuga”
dal Quartetto in si bemolle, resta il fatto indiscutibile che non esiste nell’intera
produzione di Beethoven un movimento che si presti altrettanto bene a vivere
in piena autonomia.
Quartetto n. 14 in do diesis minore op. 131
1. Adagio, ma non troppo e molto espressivo 2. Allegro molto vivace 3. Allegro moderato
4. Andante, ma non troppo e molto cantabile 5. Presto 6. Adagio quasi un poco andante
7. Allegro
Anno di composizione: 1825/26
Prima esecuzione: Halberstadt, 5 giugno 1828
Il Quartetto in do diesis minore fu scritto tra la fine del 1825 e l’estate dell’anno successivo. Il lavoro reca il numero d’opus 131, sebbene sia posteriore al
Quartetto in la minore op. 132, in quanto venne pubblicato dall’editore Schott
di Magonza nel giugno 1827, mentre l’altro uscì presso l’editore Schlesinger di
Berlino in settembre. Beethoven scomparve prima di poter assistere alla prima
esecuzione del suo lavoro, che fu suonato per la prima volta il 5 giugno 1828 a
Halberstadt dal Quartetto Müller, formato da quattro fratelli di una delle più
prolifiche famiglie di musicisti della Sassonia.
La magistrale padronanza della scrittura musicale consentì a Beethoven, nelle ultime opere e in particolare nella serie degli ultimi Quartetti, di trattare
la forma con una libertà assoluta, lasciando sconcertati i suoi contemporanei
non meno dei musicisti venuti dopo di lui. Una semplice occhiata alla struttura
formale del Quartetto è sufficiente per capire quanto sia poco convenzionale
la concezione di questo lavoro. In realtà, osservando con attenzione i processi
che avvengono nel Quartetto in do diesis minore, balza all’occhio il desiderio
di Beethoven di trovare un carattere assolutamente unitario. L’aspirazione a
raggiungere un rapporto organico tra le varie forme strumentali aveva rappresentato una delle preoccupazioni fondamentali non solo di Beethoven, ma anche
di Mozart e di Haydn. Gli ultimi lavori di Beethoven oltrepassano di gran lunga
il confine sul quale si erano fermati i predecessori, che avevano rifiutato l’idea
di comporre musica per i posteri e non per i contemporanei. Avendo rinunciato
alla necessità di scrivere musica comprensibile all’ascoltatore del suo tempo,
Beethoven cercava di volta in volta le soluzioni che gli sembravano appropriate
ai problemi posti dalla musica. Vista sotto questa luce, la sequenza in apparenza
frammentaria degli episodi del Quartetto in do diesis minore, indicati con un
numero, richiede ai musicisti e agli ascoltatori soltanto di passare da un movimento all’altro senza interrompere la concentrazione e riprendere fiato, come
si usa fare di solito cambiando posizione sulla sedia o accordando di nuovo lo
strumento. L’autore voleva ottenere un senso di assoluta continuità, che nella
dimensione della musica significa la ricerca di coerenti relazioni temporali all’interno dell’intero lavoro. A parte questo aspetto, infatti, la musica non mostra di
discostarsi in maniera clamorosa dalla struttura tradizionale di un Quartetto. In
filigrana, la trama dei movimenti è abbastanza riconoscibile. I nn. 1 e 2 formano
una sorta di primo movimento con un’introduzione lenta. Il n. 3 rappresenta
un breve episodio di transizione, che porta al complesso “Andante” del n. 4. Il
“Presto” n. 5 ricopre il ruolo tipico dello scherzo, mentre l’“Allegro” n. 7 occupa
il posto del Finale, preceduto anche in questo caso da un breve episodio di transizione di carattere meditativo (n. 6 “Adagio”). Quindi come si vede la spregiudicata forma scelta da Beethoven per questo lavoro mantiene un nesso logico ben
più saldo di quanto non appaia a prima vista.
Il primo “movimento”, formato dai primi due numeri, non contiene una forma
sonata. L’“Adagio” esprime con commovente mestizia un dolore irrimediabile,
con un linguaggio del tutto influenzato dal contrappunto, senza trasformarsi in
una vera e propria fuga. Neppure l’“Allegro” successivo si discosta da una semplice forma ternaria. Il germe dialettico del contrasto consiste infatti non nella
forma dei singoli elementi, quanto nella loro contrapposizione complessiva. La
natura allo stesso tempo simile e opposta dei due numeri mette in luce la trasfigurazione della forma sonata in una struttura dinamica svuotata della dimensione drammatica. Lo sviluppo tematico, ridotto quasi a zero, non rappresenta più
infatti l’alimento principale della forma. La tensione si esprime, per esempio,
nella stridente contrapposizione delle tonalità, il do diesis minore dell’“Adagio”
contro il re maggiore dell’“Allegro”, così come nel metro (in tempo tagliato l’uno,
in 6/8 l’altro) e nello stile (antico e contrappuntistico il primo, moderno e melodico il secondo). Anche nel caso di questo lavoro, in maniera analoga a quanto
avviene in diverse opere dell’ultimo periodo, Beethoven conferisce al movimento in forma di variazioni un peso notevole. L’“Andante, ma non troppo e molto
cantabile” n. 4 si sviluppa da un tema senza ombre, che conferisce all’intero numero una leggerezza campestre e un sorriso leggiadro di fanciulla. L’armonia di
la maggiore rimane costante fino alla fine, senza neppure la canonica variazione
in minore. La tonalità di la maggiore è in stretta relazione sia con l’“Allegro”
precedente in re maggiore, sia con il successivo n. 5 “Presto” in mi maggiore.
Quest’ultimo, una sorta di scherzo, rappresenta forse la cosa più vicina a una
musica degli elfi che Beethoven abbia mai scritto. Di sicuro è stato una fonte
d’ispirazione per le musiche del Sogno di una notte di mezza estate di Mendelssohn, il quale tuttavia aveva scritto in quello stesso 1825 una musica altrettanto
mercuriale e animata come l’Ottetto per archi. Solo arrivando al numero finale,
“Allegro” n. 7, preceduto da un breve ma intenso adagio (n. 6) in sol diesis minore, il progetto ideale del lavoro prende forma. Dopo aver evitato in ogni maniera
la scrittura sonatistica nel corso dei movimenti precedenti, Beethoven corona il
gigantesco blocco assemblato senza soluzione di continuità ritrovando la forma
più connaturata al suo stile di musica, la sonata. Ogni tensione latente nelle varie forme attraversate in precedenza trova nel finale la soluzione, sia sul piano
espressivo, sia su quello dialettico. Il finale del Quartetto in do diesis minore,
con la sua potente forza espressiva e la sua chiarezza nello sciogliere gli enig-
mi accumulati nel processo degli avvenimenti, costituisce uno dei degli esempi
più riusciti di compimento perfetto della traiettoria compositiva, iniziata nei sei
numeri precedenti. La disperata frase dell’inizio, che con la sanguinante appoggiatura sottolineata dallo sforzando poneva una domanda inquietante, trova alla
fine una risposta nello squarcio di cielo luminoso della tonalità maggiore, alla
quale tendeva con ansiosa fiducia.
Quartetto n. 15 in la minore op. 132
I. Assai sostenuto - Allegro II. Allegro ma non tanto III. Heiliger Dankgesang eines
Genesenen an die Gottheit, in der lydischen Tonart. Molto adagio - Andante
IV. Alla marcia, vivace assai V. Allegro appassionato
Anno di composizione: 1825
Prima esecuzione: Vienna, 9 settembre 1825
Il principe Nikolaus Galitzin, nobile russo “jeune et charmant” secondo Romain
Rolland, vissuto da bambino a Vienna nei primi anni del secolo, detestava cordialmente “il cattivo gusto e la ciarlataneria degli italiani” e reputava Beethoven, al pari di Mozart e Haydn, “il Dio della melodia e dell’armonia”. Galitzin si
prodigò moltissimo per diffondere la musica di Beethoven in Russia e sopportò
con signorile pazienza il ritardo dell’autore nel consegnare la musica pattuita e
puntualmente pagata a peso d’oro. Benché si fosse impegnato a inviare il primo
lavoro entro il marzo del 1823, Beethoven fu in grado di spedire il manoscritto
del Quartetto in mi bemolle op. 127 non prima degl’inizi del 1825, mentre degli
altri due, il Quartetto in la minore e il Quartetto in si bemolle maggiore con la
Grande Fuga finale, soltanto alla fine dello stesso anno. A causa di una certa confusione tra gli editori degli ultimi lavori, il Quartetto in la minore fu pubblicato
postumo da Schlesinger, a Berlino, nel settembre del 1827 come op. 132, sebbene sia stato scritto subito dopo l’op. 127 e preceda i Quartetti op. 130 e op. 131.
A differenza della granitica forza espressiva del Quartetto in mi bemolle op. 127,
il Quartetto in la minore manifesta una fragilità emotiva a tratti sconcertante
e riflette le inquietudini di uno spirito sofferente. Il primo movimento, “Assai
sostenuto”, si apre in maniera misteriosa su un corale a mezza voce, che in una
manciata di battute concentra l’essenza del pensiero musicale. Le quattro note
del tema (re# - mi - do - si) sono sovrapposte tra le voci nelle forme fondamentali del contrappunto, che costituisce la dimensione principale della scrittura del
Quartetto. Beethoven sembra impegnato in primo luogo a ridurre la tensione,
man mano che sviluppa la forma sonata. La musica cerca in ogni maniera di evitare i contrasti, o quanto meno di smussare la loro natura aggressiva. Il tempo,
l’armonia, la sonorità cercano con vari espedienti di ritardare il momento di un
contrasto troppo impegnativo. L’esempio più lampante di questa fuga dai conflitti giunge, prima della coda, con il ritorno del secondo tema (teneramente, recita
l’indicazione espressiva), preparando con infinita delicatezza la trasformazione
della tonalità da minore a maggiore.
Beethoven mostra di usare la massima cautela per non compromettere l’equilibrio generale del Quartetto. Per isolare e separare in maniera netta il “modo
lidico” della “Canzona di ringraziamento” dalla tonalità di la minore del primo e
dell’ultimo movimento, inserisce a cuscinetto due movimenti in la maggiore, di
carattere leggero. Il primo, “Allegro ma non tanto”, consiste in una sorta di elegante scherzo, memore forse del Quartetto in la maggiore K 464 di Mozart, che
Beethoven aveva studiato con attenzione ai tempi del Quartetto in la maggiore
n. 5 dell’op. 18. La levigata perfezione del contrappunto, espressa già nelle prime battute dall’impeccabile combinazione delle due principali cellule tematiche,
si sposa con la sublime amabilità del rustico trio centrale. Il secondo, invece, è
rappresentato dall’energica marcia che precede il finale, introdotto da un appassionato recitativo del primo violino. Ma prima di commentare l’ultima pagina,
occorre soffermarsi su uno dei movimenti più visionari e moderni dell’intera
produzione di Beethoven, lo Heiliger Dankgesang. In margine al manoscritto
originale, una mano ignota ha vergato una zoppicante traduzione in italiano della didascalia in tedesco che precede il movimento, “Canzona di ringraziamento
offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico”. Il contrasto, evitato accuratamente da Beethoven all’interno dei singoli episodi, perviene in questo colossale
movimento (oltre 15’ di musica) all’espressione più radicale che si possa immaginare. L’Heiliger Dankgesang contrappone infatti due elementi, in forma A B
A B A: il “Molto adagio” della preghiera e l’“Andante” del Neue Kraft fühlend
(sentendo nuova forza). L’arcaismo del modo lidio (i tasti bianchi del pianoforte,
per intendersi) contro l’effervescenza mondana del re maggiore, la pulsazione
lenta e regolare della melodia nel tempo binario contro la vivacità di solfeggio
del ritmo di 3/8, il colore scuro di una tessitura racchiusa nell’introspezione contro la luminosa apertura di suono del registro acuto, lo stile severo contro lo stile
concertante: ciascuna delle due parti rivendica la più totale autonomia d’espressione. Eppure l’estrema divaricazione di queste due dimensioni non produce
tensione drammatica, bensì un senso di profonda pacificazione, convivendo in
maniera perfettamente logica all’interno della stessa forma. Le tre espressioni
del “Molto adagio” rappresentano un graduale incremento di luminosità della
musica. L’arcana polifonia della preghiera si sviluppa attorno a un ascetico cantus firmus nello stile di Palestrina, un gruppetto di quattro note (fa - mi - re - mi)
che nella notazione tedesca formano – probabilmente per caso, ma cionondimeno in maniera significativa – la parola F E D E. A ogni ripresa il cantus firmus
sale all’ottava superiore, mentre al di sotto della sua sfera il contrappunto tra
le voci diventa più complesso. La discesa dalle sublimi altezze di quest’immensa
pagina alle sconvolgenti pulsazioni dell’“Allegro appassionato” finale, sebbene
attutita dall’astratta ed enigmatica marcia introdotta in mezzo, risulta vertiginosa. Il mondo del primo movimento, dominato dall’inflessione dolorosa del
semitono e dall’oscurità del cromatismo, ritorna con estrema forza espressiva.
Il violoncello (lo strumento coltivato dal principe Galitzin) spinge sempre più in
alto il tema, che sale fino a sfociare nella sorprendente e frenetica coda finale in
la maggiore. La musica del Quartetto in la minore tocca davvero i confini più
estremi dell’animo umano, risultando, per dirla con Rolland, “l’œuvre la plus
ardue peut-être et la plus profonde de Beethoven”. Il paradiso e l’inferno convivono nell’anima di Beethoven, che fornì al contempo la più sfacciata parodia di
se stesso in un piccolo canone a quattro voci composto nel maggio 1825 a Baden.
Doktor sperrt das Tor dem Tod, Note hilft auch aus der Noth (Il medico sbarra
la porta alla morte, la musica pure aiuta nel bisogno) recita il testo sulle note del
modo lidio, con l’amara ironia di chi sentiva il proprio corpo disfarsi poco a poco.
Oreste Bossini
Quartetto di Cremona
Il Quartetto di Cremona nasce nel 2000 presso l’Accademia Stauffer di Cremona. Si perfeziona con Piero Farulli del Quartetto Italiano e con Hatto Beyerle
dell’Alban Berg Quartett, affermandosi in breve come una delle realtà cameristiche più interessanti sulla scena internazionale.
Viene invitato ad esibirsi regolarmente nei principali festival e rassegne di
tutto il mondo in Europa, Sudamerica, Australia e Stati Uniti: Beethovenhaus e Beethovenfest di Bonn, Bozar di Bruxelles, Festival di Turku, Kammermusik Gemeinde di Hannover, Konzerthaus di Berlino, Wigmore Hall di Londra, Perth Festival in Australia sono tra i palcoscenici calcati dal quartetto.
Dal 2010 è “Quartetto in residence” della nostra Società con un progetto di
concerti e di collaborazione che culmina nella stagione in corso con gli ultimi
tre concerti dell’integrale dei Quartetti di Beethoven in occasione dei 150 anni.
La stampa specializzata internazionale lo considera l’erede del Quartetto Italiano sottolineandone le qualità artistiche ed interpretative ed emittenti radiotelevisive di tutto il mondo (quali RAI, WDR, BBC, VRT, SDR, ABC) trasmettono regolarmente i loro concerti con un repertorio che spazia dalle prime
opere di Haydn alla musica contemporanea.
Rilevante è l’attività didattica svolta dal Quartetto in tutta Europa. Dall’autunno 2011 sono anche titolari della cattedra di Quartetto presso l’Accademia
Walter Stauffer di Cremona.
In campo discografico, nel 2011 è uscito per Decca l’integrale dei Quartetti di
Fabio Vacchi; nel settembre 2012, distribuito dalla Naxos, un CD dedicato ai
compositori italiani dal titolo “Italian Journey”. È in corso l’incisione dell’integrale dei Quartetti di Beethoven per la casa discografica tedesca Audite; i primi due volumi, pubblicati nel 2013 hanno ottenuto importanti riconoscimenti
dalla stampa internazionale: 5 stelle da Strad e BBC Magazine, Disco Star del
mese di giugno da Fono Forum. Il Quartetto di Cremona è stato scelto come
testimonial per il progetto “Friends of Stradivari”.
Cristiano Gualco suona un violino Nicola Amati del 1640, Paolo Andreoli un
violino P.A. Testore del 1750 ca. affidatogli dalla Fondazione Kulturfonds Peter
E. Eckes, Simone Gramaglia una viola A. Poggi del 1952, Giovanni Scaglione
un violoncello Capicchioni pater et filius del 1975.
Il Quartetto è stato ospite della nostra Società nel 2008, 2010, 2011 (8 febbraio
con Alessandro Carbonare al clarinetto e 22 febbraio), due volte nel 2012 (da
solo e con Andrea Lucchesini) e 3 volte nella stagione 2012/2013 per i primi tre
concerti dell’esecuzione integrale dei Quartetti di Beethoven.
Quirino Principe - I quartetti per archi di Beethoven
Milano 2014, Jaca Book con il contributo della Società del Quartetto, pp. 256
In sede e in Conservatorio: € 15 ai nostri Soci, 20 al pubblico (€ 25 in libreria)
La celebrazione dei 150 anni della nostra Società
e la contemporanea esecuzione dell’integrale dei
Quartetti per archi di Beethoven da parte del
Quartetto di Cremona, ci ha sollecitato a riproporre il saggio di Principe del 1993, da tempo
non più in commercio.
Il musicologo ha rivisto e aggiornato il suo lavoro arricchendolo con nuovi contributi, una
bibliografia aggiornata, un percorso discografico e un saggio sulla storia delle Integrali beethoveniane nella lunga attività musicale della
Società del Quartetto.