F. Sollazzo, Totalitarismo, democrazia, etica pubblica. Scritti di Filosofia morale, Filosofia politica, Etica, Aracne Editrice, Roma 2011, pp. 257 Il volume Totalitarismo, democrazia, etica pubblica di Federico Sollazzo, ricercatore di Filosofia morale e Filosofia politica presso l’Università degli Studi Roma 3, nasce dalla rielaborazione della Tesi di Dottorato in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane Tra totalitarismo e democrazia: la funzione pubblica dell’etica. Il testo, articolato in tre parti (filosofia morale, filosofia politica, etica), affronta i temi del totalitarismo e della democrazia partendo dall’uomo come soggetto, e li analizza sia nella loro dimensione di categorie concettuali che nella loro contingenza di eventi storici realizzati o realizzabili nella storia. L’epoca delle ideologie, secondo l’Autore, non può dirsi finita: esse hanno assunto caratteri differenti che necessitano di nuove chiavi di lettura. Che si tratti di dittatura, oppure di democrazia, è necessario un costante esercizio che non permetta al pensiero critico e all’azione umana di assopirsi e allontanarsi dalle questioni politiche. Il merito del lavoro sta proprio nel sottolineare, attraverso una scrittura scorrevole e chiara, come la stessa democrazia porti con sé dei rischi da non dimenticare, in quanto non può mai essere la ‘creazione di pochi’, ma il ‘vivere di tutti’; diversamente rientrerebbe anch’essa in un’ottica simile a quella dispotica. La riflessione parte dall’analisi dei mutamenti delle forme di controllo contemporanee rispetto alle precedenti: il potere cambia forma in quanto non è più giustificato in maniera fideistica e sentimentalistica, imponendosi, invece, attraverso un conformismo così diffuso da rendere impossibile il pensiero autonomo, addirittura facendo credere di operare in libertà quando invece la propria scelta non è quella di una possibilità tra le tante, ma l’unica percorribile. Per Patočka, pensatore dell’Est Europa, il compito della filosofia diviene proprio quello di riscoprire le altre possibilità, per permettere una riassunzione autentica di libertà e responsabilità da parte del singolo. Sollazzo individua nei concetti di Sistema e Impero i termini chiave che aiutano a leggere queste nuove modalità di dominio, solo in apparenza democratiche. Il termine Sistema, interpretato attraverso la riflessione marcusiana, è l’affermazione di una modalità di pensiero deterministico e positivistico che non lascia spazio a nulla che non sia già scritto. La realtà, letta attraverso le categorie dell’efficienza e della produttività, non permette attribuzioni di senso che vadano oltre ciò che oggettivamente viene esperito, al punto che il pensiero diviene mero strumento di giustificazione e prevedibilità rispetto alla positività dei fatti. La parola Impero, invece, indica un nuovo soggetto politico, che prende il posto degli ormai tramontati Stati Nazionali. Il concetto di sovranità muta forma, in un sistema che non coincide più con un territorio dai precisi confini geografici, ma che si estende oltre, arrivando a comprendere tutto il pianeta, in particolare il mondo occidentale. Attraverso forme di controllo subdole e difficili da identificare in maniera definita, la modernità è caratterizzata dalla dissoluzione del pensiero autonomo e, pertanto, del pericolo di perdere la propria libertà personale. E’ possibile, in risposta a questa apparente assenza di autonomia, individuare un’etica minima, condivisa universalmente, sulla quale basarsi per compiere scelte personali davvero libere e per questo differenti e peculiari? Per rispondere è fondamentale aprire una riflessione che parta sulla natura umana, essendo l’uomo il soggetto che sta al centro di tutta la riflessione. Analizzando le tesi antropologiche di Gehlen, Plessner, Schleler, viene evidenziata la complessità di una natura umana che è, da una parte res extensa, biologia, corpo, dall’altra res cogitans, emozione, autocoscienza. Questa duplicità, lungi dall’essere semplice somma matematica di due aspetti, rende l’uomo quello che è, caratterizzandolo come essere ambivalente, «costituito dall’interdipendenza di due elementi che, comunque li si voglia definire e nominare, risultano, allo stesso tempo, profondamente diversi e profondamente congiunti e dipendenti l’uno dall’altro, così da rendere pressoché impossibile (se non attraverso categorizzazioni ‘normalizzanti’) l’individuazione dei rispettivi perimetri»(p. 44). Proprio per questi caratteri, che ci accomunano in quanto uomini, è possibile vedere la possibilità di fondare un’etica che riguardi tutti. Biologicamente ci si riferisce in particolar modo ai bisogni/necessità fisiologiche, che se non soddisfatte generano sofferenza. Per la componente emozionale si fa riferimento soprattutto alla capacità empatica, che permette di partecipare ai dolori e alle gioie degli altri uomini. Il riconoscimento di questa comune costituzione, non vuole tuttavia negare il pluralismo, soprattutto culturale, al quale sempre più dobbiamo dar conto per i noti, attuali, fenomeni di globalizzazione. Come conciliare omologazione (se parliamo di etica minima universale) e differenziazione (parlando di diritto alla diversità)? Attraverso il rispetto che, come sottolinea Charles Taylor nella sua opera Multiculturalismo, si deve basare non sull’onore (legato per sua natura alla contingenza) ma sulla dignità come capacità comune a tutti. Questo avviene solo se si riconosce l’altro una persona. La tolleranza è da sempre considerata il fondamento della convivenza tra uomini ma, come già accennato è il rispetto, che nasce dal riconoscersi tra persone come persone, a essere la forma adatta a una convivenza più vera. Solo in questo modo è possibile incontrarsi, conoscersi, condividere, senza perdere la propria autonomia e irriducibilità, anzi facendo di essa il terreno proprio del confronto autentico. Nella seconda parte del lavoro, l’Autore delinea le forme e le modalità assunte dal pensiero totalitario. La lotta per la sopravvivenza, caratterizzata dalla violenza e dal tentativo di dominare gli uomini e la natura, nel XX secolo perde le sue eventuali giustificazioni (come la mancanza e il conseguente accaparramento delle risorse), dato il progresso che ha nettamente migliorato le condizioni generali di vita nei paesi occidentali. Eppure, è proprio nei paesi più avanzati dal punto di vista del benessere economico che nascono i grandi regimi totalitari. Per capire quali siano le condizioni che hanno permesso, o addirittura favorito, l’insorgere di tali manifestazioni storiche e politiche, si propongono le riflessioni arendtiane proposte nel testo Vita activa. Per la Arendt, le attività umane per eccellenza sono il lavoro (inteso come riproduzione della vita, e quindi legato alle necessità della sopravvivenza), l’opera (progettazione e fabbricazione di strumenti che costituiscono il mondo artificiale), l’azione (caratteristica prettamente umana, che si slega dalle sole necessità istintuali/biologiche, manifestandosi nella relazione, resa possibile dal linguaggio, e che trova il suo massimo dispiegamento nell’azione politica). Queste tre dimensioni, collocate tra gli spazi del pubblico e del privato, oggi assumono connotazioni distorte. Dapprima abbiamo una riduzione dell’homo faber (colui che opera) all’ animal laborans (colui che lavora). Il fabbricare viene assunto come produzione unicamente finalizzata al consumo, unica attività che riempie il tempo restante. Ma la criticità più grande è che mentre l’homo faber, in qualche modo, partecipa allo spazio pubblico entrando nel mercato con le proprie merci, l’animal laborans ne rimane fuori, riducendo tutta la sua attività alla sfera privata. L’essere al di fuori dello spazio pubblico genera una spoliticizzazione che per la Arendt è il terreno più fertile per la nascita dei totalitarismi, e ne porterà, appunto, alla nascita. Le dittature europee del Novecento nascono proprio dallo smarrimento del senso politico e dalla successiva perdita della possibilità di agire (ricordiamo che l’azione era la terza attività umana, collocata nella relazione e nell’azione politica) partecipando alla costruzione del mondo. Pare ovvio che la risposta al controllo totalizzante del regime dittatoriale sia la democrazia. Tuttavia non è scontato che essa si nutra di pensiero politico davvero critico, rendendo possibile il più alto dispiegarsi dell’azione umana, nonostante questo sia l’auspicio migliore. E’ necessario analizzare quale sia il legame tra il modello della democrazia e quello totalitario, in quanto le dittature nascono partendo proprio dalle democrazie. La democrazia, tipica del progredire moderno, crea degli spazi vuoti dati dall’assenza di dogmi, quindi di regole, valori e verità incontestabili. La via della delega, in principio pensata come scelta responsabile e vigilata, può portare alla via della deresponsabilizzazione, dell’allontanamento da sé delle questioni politiche e, di conseguenza, del mandato cieco. L’eccessiva burocratizzazione, impersonalità, indipendenza e autoreferenzialità dell’entità stato non aiutano, producendo un distacco della società civile. E’ proprio a partire da questi spazi vuoti, che allenano ad un non utilizzo critico della ragione, che si innesca il modello totalitario: Jaspers parla di perdita di responsabilità, Arendt di crisi della capacità di giudizio. Tutto questo apre la strada a una politica sempre più incentrata sulla vita delle persone, una bio-politica, presente non soltanto nei modelli totalitari, ma in tutta la modernità, con il risultato di un controllo pervadente dell’intera esistenza. L’alternativa non è quella di un abbandono totale di interesse della vita da parte della politica, piuttosto un suo inchinarsi di fronte a un’etica umana, di cui la politica diviene mezzo di raggiungimento, non calata dall’alto, ma riscritta e riassunta in libertà dalle persone. Interessante come l’autore si soffermi più volte sul concetto di persona, ritenuto più adatto rispetto a quello di individuo, poiché rimanda all’interazione, e al suo essere ontologicamente in relazione di scambio con gli altri. Lo stesso giudizio, inteso in senso kantiano, non è sapienza, ma comunicazione, condivisione con altri: non esiste in solitudine. Ma la proposta di un modello di democrazia autentica, è possibile solo se si considerano i rischi ad essa annessa, e le possibili derive: una degenerazione dello Stato, una tirannia della ‘maggioranza’, una cristallizzazione di regole e procedure, una delega che produce uno scarto esagerato tra chi amministra e chi è amministrato. Solo garantendo a tutti gli strumenti e le condizioni necessarie per riflettere a determinare le proprie azioni è possibile una strada alternativa; secondo Alexis de Tocqueville la democrazia poggia proprio su questa garanzia. In questo modo è possibile perfino imparare a disobbedire in senso positivo, contro la violenza, proponendo dal basso alternative e ricollocamenti rispetto l’idea di Stato, in un movimento che si mantenga sempre orizzontale. Non si deve cedere, del resto, alla tentazione di istituzionalizzare in maniera eccessivamente rigida la democrazia, perché essa, come sostiene Noberto Bobbio, non è da vedere come status quo, ma come un ideale al quale tendere. Essa è perseguita, non seguendo regole rigorose e formule prestabilite, ma costruendola giorno dopo giorno, rivisitandola sistematicamente. Anche l’idea di giustizia, come quella di democrazia va necessariamente problematizzata. Essa non coincide in toto con la giustezza, alla quale in ogni caso deve tendere e della quale è funzione ed è la fonte da cui il diritto trae le sue leggi, ma non deve essere mai un meccanismo acritico. Come per la democrazia la ricerca della giustizia è un processo infinito, che deve costruirsi e decostruirsi, senza rigidità e dogmatismi. Nell’ultima parte del lavoro si ripercorrono diverse proposte, per capire dove e come poter fondare un’etica minima. Con la crisi dei grandi sistemi di pensiero, che avevano come fine l’interpretazione del mondo in maniera totalizzante, si è creata una situazione di disorientamento e di mancanza di validi capisaldi. In questo clima si rafforza l’idea che tutti i cittadini debbano partecipare al dibattito sulla società, al fine di fondare delle etiche pubbliche condivise. Gadamer, con il movimento della Rehabilitierung der pratischen Philosophie, e Habermas, con la proposta di un’etica del discorso che scopra principi razionali che possano precedere l’agire, seguono questa pista di riflessione. L’etica comunicativa di Habermas, in particolare, porta avanti l’idea che si debba sviluppare un discorso pubblico che coinvolga e impegni tutte le persone. Se con l’epoca borghese questo si è da un lato realizzato, in quanto teoricamente tutti godono di uguali diritti, d’altro canto questo non basta, perché non tutti si trovano in condizione (economica, sociale e, soprattutto, culturale) di poter esercitare questa facoltà. Nella contemporaneità il problema persiste: la mercificazione culturale, l’omologazione del pensiero, il conformismo diffuso delle idee portati avanti dalla cultura di massa, impediscono un autentico e libero esercizio dell’opinione personale. «In questo modo, l’opinione pubblica, degenera da strumento di liberazione ad istanza di conformismo ed oppressione» (Ivi p. 177). Vengono poi presentate posizioni estreme a cui le problematiche etico-sociali hanno portato, nel dibattito contemporaneo. Da un lato abbiamo pensatori liberali, come Robert Nozick e Friedrich A. von Hayek, per i quali nel concetto di giustizia sta l’idea di un individuo padrone di se stesso, la cui proprietà è inviolabile in quanto frutto del suo lavoro e impegno. La giustizia distributiva è vista qui come un anti-giustizia; l’unico stato possibile è uno Stato Minimo, che si riduca al minimo necessario per mantenere l’ordine sociale. Dall’altra parte abbiamo l’idea comunitarista, che vede nell’identità e nella storia dell’individuo, e in quella della comunità (dotata di una soggettività propria) una forte corrispondenza che deve essere coltivata e mantenuta. Invece, con la Naturphilosophie, e in particolare il pensiero di Hans Jonas, i valori sono ricercati nelle leggi di natura, e il bene si realizza nel rispetto di queste e nel mantenimento dell’ordine naturale. I grandi sviluppi tecno-scientifici danno ulteriore criticità a una linea di pensiero di questo tipo, che per essere valido deve pensare che «il rispetto dell’uomo per la natura deve intersecarsi con il rispetto dell’uomo per l’uomo» (p. 227). In conclusione del lavoro è interessante il delinearsi della proposta di Federico Sollazzo, che si distingue da tutte quelle presentate. Solo partendo dall’Altro come categoria di riferimento, in contrapposizione con un cogito autoreferenziale che rimane in solitudine è possibile costruire un discorso etico come nel lavoro è stato inteso. L’assunzione di responsabilità del soggetto, non può avvenire senza confronto, ma deve sempre esserci la relazione. Attraverso la lettura dei filosofi Emmanuel Lévinas, Paul Ricœur e Jacques Derrida l’Autore mette in evidenza come la responsabilità diviene una risposta per l’altro, presente oggi, oppure in futuro (alterità come nuova generazione). Per affrontare questioni politiche, sociali, etiche non si può mai prescindere dal soggetto come persona libera, e porre come necessità il suo sviluppo continuo verso un senso critico, un’assunzione di responsabilità e una vigilanza sempre attenta a tutte le questioni che lo riguardano. Michela Della Morte