LA MEDIA EDUCATION NELL’ERA DELLA TECNOLOGIA DIGITALE David Buckingham Institute of Education, University of London E’ passato più di un quarto di secolo da quando i primi microcomputer sono arrivati nelle scuole inglesi. Personalmente ricordo ancora la comparsa di una di quelle grosse scatole di metallo nero in una scuola del nord di Londra dove lavoravo alla fine degli anni settanta. E ricordo anche di aver preso parte ad un progetto di ricerca chiamato “Telesoftware”, che veniva spedito attraverso la linea telefonica e registrato su piccole cassette - cosa che al tempo ci sorprendeva molto. Più o meno nello stesso periodo, il guru americano della tecnologia Seymour Papert sosteneva che i computer avrebbero trasformato radicalmente il sistema dell’istruzione fino a rendere la scuola stessa superflua. “I computer”, scriveva in un libro pubblicato nel 1980, “condurranno ad un graduale ritorno del potere individuale di determinare i percorsi educativi. L’istruzione diverrà sempre piu’ un atto privato”. E quattro anni piu’ tardi affermò ancora piu’ bruscamente “Non ci saranno scuole nel futuro. I computer faranno saltare la scuola”. Le sue idee sono state riproposte in seguito da molti altri sostenitori dell’uso delle tecnologie nell’educazione e da un’entusiasta serie di venditori visionari, inclini ad usare la scuola come trampolino per l’ancora più prezioso mercato domestico. Naturalmente, la rivoluzione di massa prevista da Papert e altri, a quanto pare non ha avuto luogo: bene o male, la scuola come istituzione è ancora molto presente, e la gran parte di apprendimento e di insegnamento che al suo interno avviene, è rimasta totalmente intatta rispetto all’influenza della tecnologia. Infatti, c’è ancora scarsa evidenza di quanto l’investimento sulla tecnologia possa dare necessariamente risultati in termini di risultati in forme di apprendimento nuove o creative, o anche solo miglioramento nei risultati esaminati. Sono molti gli insegnanti che rimangono scettici riguardo ai benefici educativi della tecnologia informatica: sono più portati ad utilizzare l’informatica per l’amministrazione e la gestione scolastica e per preparare materiali didattici; la ricerca dimostra che sono molto pochi color che integrano realmente l’informatica nelle proprie materie di insegnamento. Tuttavia, la spinta ad inserire la tecnologia nell’istruzione continua a crescere velocemente. E questa spinta è in parte mossa dalle politiche del governo. Esiste un’ampia accettazione tra i politici di nebulose retoriche sulla “società dell’informazione”: la tecnologizzazione delle scuole è vista come mezzo indispensabile per la produzione di una forza lavoro preparata e per poter competere nel mercato globale. Gran parte del discorso politico è caratterizzato da una forma di determinismo tecnologico – la nozione di tecnologia digitale produrrà automaticamente alcuni effetti (ad esempio, in relazione agli “stili di apprendimento” o a particolari forme di cognizione) a prescindere dai contesti sociali nei quali viene usata, o dagli attori sociali che la utilizzano. Inoltre, l’avanzamento dell’informatica nell’istruzione è stato guidato dall’industria commerciale e dagli sforzi talvolta altamente interventisti che il governo ha fatto per supportarlo. Ovviamente i computer sono un grande business. Nel mezzo di una economia in rapido cambiamento, l’istruzione ha fornito un mercato relativamente stabile per quelle aziende ansiose di mantenere i propri margini di profitto, ed è stata ampiamente considerata come trampolino di lancio verso il remunerativo mercato domestico. In definitiva, è possibile che i computer andranno nella stessa direzione delle altre innovazioni tecnologiche nell’educazione. Esiste una lunga storia di esagerate affermazioni sul potere che la tecnologia avrebbe nel rivoluzionare il sistema dell’istruzione – di destituire media piu’ vecchi come i libri, di rendere gli studenti liberi e gli insegnanti superflui. 1 Thomas Edison faceva di queste affermazioni sul valore educativo delle immagini in movimento negli anni venti, e argomentazioni simili sono state apportate da allora sulle successive tecnologie, inclusa la radio, la televisione e le cosiddette “macchine educative” degli anni sessanta. Tuttavia in quasi tutti i casi, gli insegnanti hanno ampiamente ignorato questi apparentemente rivoluzionari mezzi: dopo ampi investimenti e (in alcuni casi) un periodo di iniziale fascinazione, proiettori e televisori sono stati relegati allo scaffale dell’aula o lasciati a raccogliere polvere. Nonostante questo, l’attuale livello di investimento nei computer e in altri mezzi digitali è inaudito, e pone alcune sfide significative per gli educatori. Come tutti sappiamo, la media education (l’insegnamento dei media) è spesso confuso con gli educational media (l’insegnamento attraverso i media) – cioè l’uso dei media finalizzato all’insegnamento di altre materie come la storia o le scienze. Questa confusione rischia di diventare ancora piu’ acuta nel momento in cui le tecnologie diventano sempre piu’ disponibili nelle scuole. A livello di finanziamenti e politiche, è difficile non rimanere sbigottiti dal modo in cui il “carrozzone” delle tecnologie abbia sorpassato la media education. In una ricerca internazionale che abbiamo realizzato per conto dell’UNESCO alcuni anni fa, esperti di diversi paesi si lamentavano delle difficoltà sperimentate nel porre ai politici la questione della media education, e notavano il contrasto stridente con l’entusiasmo affatto critico nei confronti delle ICT (Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione). Dunque, cosa devono fare i media educator in questo contesto? Vorrei dare qui alcuni suggerimenti. Prima di tutto, vorrei sottolineare che l’uso delle tecnologie nella scuola e’ attualmente piuttosto “arretrato” rispetto al modo in cui i ragazzi usano le tecnologie al di fuori della scuola. Un numero sempre piu’ alto di studenti trova che l’uso delle tecnologie a scuola sia limitato, noioso e inutile – in particolare se paragonato al modo loro stessi in cui usano la tecnologia nel tempo libero. Creare un ponte per arginare il digital divide tra casa e scuola richiederà una nuova e piu’ approfondita attenzione alle culture digitali giovanili. In secondo luogo vorrei sottolineare che i media educator devono lanciare una sfida all’uso meramente strumentale della tecnologia, all’idea cioè che la tecnologia sia semplicemente uno strumento per il “trasferimento” di informazioni. La contrario, bisogna definire e promuovere nuove forme di “alfabetizzazione digitale”, estendendo e forse ripensando il nostro consueto approccio critico ai nuovi media – come i computer e Internet. Comunque – in terzo luogo – vorrei sostenere che l’alfabetizzazione digitale non riguarda solo la capacità di decodificare (“reading”), ma significa anche saper codificare (“writing”) i nuovi media. Comunque, credo che tra le piu’ interessanti e positive possibilità date da queste tecnologie ci sia il modo in cui i giovani riescono ad utilizzarle per produrre e distribuire i propri media. Infine, non credo che i computer faranno “saltare” la scuola, ma credo che potrebbero contribuire ad un ripensamento piu’ ampio di quello che la scuola potrebbe rappresentare. Infanzia digitale? Se la scuola è rimasta relativamente inalterata dall’avvento della tecnologia digitale, non si può certo dire lo stesso della vita dei bambini al di fuori del contesto scolastico. Al contrario, l’infanzia contemporanea è oggi permeata, e in alcuni casi definita, dai media moderni – dalla televisione, dai video, dai videogiochi, da Internet, dai telefoni cellulari e dalla musica popolare, e dall’enorme varietà di oggetti di uso quotidiano collegati ai media che compongono la contemporanea cultura del consumatore. L’avvento delle tecnologie digitali ha prodotto ed e’ stato accompagnato da alcuni significativi cambiamenti nelle esperienze medianiche dei bambini. Non c’è ora bisogno di enumerarli qui, ma includono: la proliferazione dei mercati dei media; l’individualizzazione dell’accesso ai media; l’avvento dei cosiddetti media interattivi; la potenzialità crescente di utilizzo dell’uso dei media per la comunicazione e la partecipazione; e la stabile commercializzazione dei media. Come molti autori hanno sottolineato, questi cambiamenti hanno avuto implicazioni significative – e piuttosto ambigue – nei termini della nostra concezione dell’infanzia. Alcuni hanno sostenuto che i media moderni stanno realmente distruggendo l’infanzia – o almeno stanno confondendo i confini tra infanzia, giovinezza e età adulta – e che i tradizionali valori morali devono essere riaffermati. D’altro lato, i sostenitori della nuova “generazione digitale” considerano la tecnologia come una forza di liberazione per i bambini – un mezzo per loro di 2 superare la vincolante influenza degli adulti, e di creare nuove e autonome comunità e forme di comunicazione. Dal mio punto di vista, esistono buone ragioni per essere cauti rispetto alla retorica della “generazione digitale”. Come molte argomentazioni riguardo all’informatica applicata all’istruzione, queste sono caratterizzate da una forma di determinismo tecnologico – dalla convinzione che la tecnologia porterà cambiamenti sociali e psicologici al di la’ di chi sia ad usarla e di come la usi. Inoltre la nozione di “generazione digitale” schematizza i giovani e può portare a non considerare le differenze e le ineguaglianze che tra di essi esistono. Può indurre anche ad ignorare il fatto che esiste una banalizzazione dell’uso dei nuovi media. Studi recenti dimostrano che l’uso quotidiano che la maggior parte dei bambini fa delle nuove tecnologie è caratterizzato non tanto da spettacolari manifestazioni di innovazione e creatività, ma da forme relativamente ordinarie di comunicazione e di reperimento di informazioni. Si potrebbe dedurre quindi che per la maggior parte dei giovani, la tecnologia in sé è una preoccupazione relativamente marginale. Sono pochi quelli interessati alla tecnologia per il gusto di esserlo, o quelli che credono abbia poteri magici: sono semplicemente interessati all’uso che ne possono fare. Tuttavia, nonostante i limiti di queste affermazioni, resta il fatto che la maggior parte delle esperienze dei ragazzi con le tecnologie ha luogo al di fuori della scuola, nel contesto che è stato definito della “cultura tecno-popolare”. Il contrasto tra quello che accade al di fuori e quello che avviene in classe è spesso impressionante. Ad esempio, l’uso che i bambini fanno di Internet fuori scuola, tende a coinvolgere un’ampia varietà di attività. Magari fanno i compiti e contemporaneamente “chattano” in Internet e scambiano sms con gli amici. Cercano informazioni su hobby, sport e tempo libero. E poi giocano, a volte con altri ragazzi che vivono in altre parti del mondo. Fanno shopping – a almeno guardano le “vetrine” e scaricano musica e film. Un numero sempre crescente, poi, invia le proprie foto e la musica su siti Internet e blog. E ancora, forse più di ogni altra cosa, visitano siti legati al loro interesse per il mondo dei media – le soap-opera, i videogiochi, i reality show e le star della musica pop. Nel frattempo, cosa fanno i ragazzi a scuola con Internet? In molti casi, davvero poco. Sono poche le scuole che offrono un accesso esteso e non ristretto agli studenti; e molte utilizzano sistemi di filtro che rendono la navigazione sul web una corsa ad ostacoli. Molti dei corsi di informatica, coprono appena i rudimenti della ricerca delle informazioni, insieme alla videoscrittura e all’uso dei semplici fogli di calcolo. Alcuni insegnanti assegnano compiti a casa basati sull’uso del web, ma sono spesso ristretti ad alcuni siti in predefiniti. Naturalmente, esistono alcune ragioni valide per questi limiti. Ma non ci sorprende il fatto che molti bambini siano annoiati o si sentano frustrati dall’uso che fanno delle tecnologie informatiche a scuola. Se si paragono alle complesse esperienze multimediali che i ragazzi fanno al di fuori della scuola, il lavoro in classe diventa davvero poco stimolante. I bambini che usano Internet a casa tendono a sviluppare un forte senso di autonomia e di autorevolezza come fruitori delle tecnologie, e questo e’ esattamente quello che viene loro negato a scuola. Questo nuovo digital divide può essere visto come sintomo di un fenomeno molto piu’ ampio – il crescente abisso tra il mondo dei ragazzi al di fuori della scuola e le preoccupazioni di molti sistemi educativi. Le aule scolastiche di oggi potrebbero essere facilmente riconoscibili per i pionieri dell’istruzione pubblica della metà del diciannovesimo secolo: il modo in cui l’insegnamento e l’apprendimento sono organizzati, la valutazione di un certo tipo di capacità e conoscenze, e anche il contenuto dell’attuale curriculum scolastico, sono cambiati soltanto superficialmente da quei tempi. In verità, alcuni sostengono che il sistema scolastico stia tornando indietro, recedendo dall’incertezza del cambiamento sociale contemporaneo a favore dell’apparentemente confortevole stabilità di un nuovo “fondamentalismo educativo”, nel quale sia possibile ricostruire i tradizionali rapporti di autorità tra adulti e bambini. Esiste oggi uno straordinario contrasto tra gli alti livelli di attività ed entusiasmo che caratterizzano le culture di consumo dei bambini e la passività che in modo sempre piu’ crescente interessa la loro vita scolastica. I bambini sono ormai immersi in una cultura di consumo in cui sono collocati come attivi e autonomi; tuttavia, nella scuola, la maggior parte del loro apprendimento è passivo e ricolto all’insegnante. In questo contesto, non è molto sorprendente che i bambini arrivano a percepire la scuola come marginale rispetto alla propria identità e ai propri interessi – o al massimo, come una specie di lavoro di routine. 3 Fare collegamenti Da un lato, la scuola ha molto da imparare dalla cultura popolare dei bambini. L’uso quotidiano che i ragazzi fanno dei videogiochi o di Internet coinvolgono una serie di processi di apprendimento informali, nei quali esiste sempre una relazione molto democratica tra “insegnate” e “allievo”. I bambini imparano ad usare questi media per lo piu’ attraverso tentativi ed errori – attraverso l’esplorazione, la sperimentazione e il gioco; e la collaborazione con gli altri – sia faccia a faccia che nella modalità virtuale – è un elemento essenziale di questo processo. Giocare con il computer, ad esempio, implica una serie di attività cognitive: la memoria, la valutazione delle ipotesi, la predizione e la pianificazione strategica. Nel momento in cui i giocatori sono immersi nel mondo virtuale del gioco, il dialogo e lo scambio con gli altri diventano cruciali. E il “giocare” è un’attività’ che necessita della conoscenza di diversi linguaggi (“multi-literate activity”): implica il saper interpretare complessi ambienti virtuali tridimensionali, saper leggere sia i testi sullo schermo che quelli al di fuori (come le riviste di videogiochi e i siti Internet) e la capacità di elaborare informazioni uditive. Nel mondo dei videogiochi, il successo deriva dall’acquisizione di capacità e di conoscenze disciplinata e messa in pratica. Tuttavia se la scuola intende creare collegamenti con le culture digitali giovanili, dovrà impegnarsi a fare di più che non semplicemente importare il loro superficiale appeal. Al momento in Gran Bretagna, esiste un considerevole interesse nelle potenzialità dell’uso dei videogiochi in classe – in particolare come mezzo per stimolare la curiosità degli allievi meno interessati (che, nei dibattiti moderni, vengono quasi esclusivamente individuati nei ragazzi). Negli ultimi anni, i media, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione e quelle editrici sono state sempre più coinvolte nel mercato dell’istruzione. Quello che tipicamente emerge qui è una forma di edutainment, un ibrido tra educazione e intrattenimento che si basa fondamentalmente su materiale visivo, o su format narrativi o ludici, e su stili piu’ informali e meno didattici. Nonostante il fascino che questi prodotti esercitano sui genitori, i ragazzi trovano questo tipo di materiale assolutamente poco accattivante. Paragonati alla maggior parte dei videogiochi e dei siti Internet, i materiali educativi sul web e su Cdrom sono decisamente limitati. Sono poveri dal punto di vista visivo, carenti in termini di interattivita’ e poco avvincenti nei contenuti. Questo è in parte dovuto a questioni economiche: se si confronta il budget investito per la produzione di un qualsiasi gioco della Playstation con quello di un gioco educativo, non e’ difficile comprendere perché i giochi educativi siano così poco avvincenti. Inoltre, il contenuto formativo di questi giochi è spesso slegato dal gioco in sè: in genere il gioco funziona semplicemente come una specie di premio alle risposte corrette, o come una specie di medicina data con uno zuccherino – e nella nostra ricerca, abbiamo riscontrato che i bambini sviluppano velocemente l’abilità ad acchiappare lo zuccherino lasciando da parte la pillola. Infine, se si tenta di stimolare la curiosità dei ragazzi meno interessati, o di ricollegarsi alle culture giovanili extrascolastiche, la risposta è non abbellire il materiale didattico con campanelli e fischi computerizzati – per animare il curriculum con la superficiale lucentezza della cultura digitale che piace ai ragazzi. E neppure è il caso di adottare le tecnologie digitali per metterle a servizio di forme strettamente strumentali di apprendimento, nel tentativo di renderle più appetibili. Abbellire le verifiche o le moltiplicazioni con una vernice di “divertimento” è una strategia che molti bambini smaschereranno in fretta. Quello che serve è un ‘impegno molto piu’ diffuso e critico nei confronti delle culture digitali dei bambini. Verso l’alfabetizzazione digitale E’ qui che la media education deve entrare. Come ho già sostenuto, i media educator devono prendere una posizione forte contro l’uso strumentale della media education. Come ha scritto una volta Umberto Eco riguardo al potenziale dell’impiego della televisione nell’istruzione: “se si vuole usare la televisione per insegnare, bisogna prima di tutto insegnare ad usare la televisione”. Educare all’uso i media, sosteneva, è un prerequisito indispensabile per educare con e attraverso i media. Lo stesso vale per i media digitali. Se vogliamo utilizzare Internet o altri media digitali per insegnare, dobbiamo fornire agli studenti i mezzi per capire e per criticare i media stessi: non possiamo usarli in maniera meramente funzionale o strumentale. 4 La Media Education implica una forma di alfabetizzazione critica, ed è facile capire come questa possa essere proficuamente estesa ai media digitali. Naturalmente, l’alfabetizzazione digitale deve iniziare con alcune conoscenze basilari. A proposito di Internet, ad esempio, i bambini devono imparare come trovare e selezionare i materiali – come usare i browser, gli hyperlink e i motori di ricerca, e così via. Devono anche conoscere le misure di sicurezza, che emergono come fondamentali nel dibattito pubblico su questi argomenti. Bisogna distinguere l’alfabetizzazione digitale da una forma di alfabetizzazione strumentale o funzionale. Le capacità di cui i bambini devono disporre in relazione ai media digitali non sono limitate a quelle di reperimento delle informazioni. Come con la stampa, devono essere in grado di valutare di usare le informazioni in modo critico per poi trasformarle in conoscenza. Questo significa fare domande sulle fonti di informazione, gli interessi dei produttori, e i modi in cui rappresentano il mondo; e capire come questi sviluppi tecnologici siano collegati a più ampi cambiamenti sociali ed economici. A questo proposito, è evidentemente possibile applicare gli aspetti concettuali che abbiamo sviluppati in relazione ai media piu’ vecchi. Questi sono ciò che considero componenti chiave di un’alfabetizzazione digitale critica, ad esempio in relazione a Internet: • Rappresentazione. Come tutti i media, i media digitali rappresentano il mondo, piuttosto che rifletterlo semplicemente. Offrono particolari interpretazioni e selezioni della realtà che inevitabilmente incorporano valori e ideologie impliciti. Fruitori informati dei media devono essere in grado di valutare il materiale con cui vengono a contatto, ad esempio accertando le motivazioni di coloro che lo hanno prodotto e comparandolo con altre fonti di informazione, inclusa la propria esperienza diretta. Nel caso dei testi di informazione, questo significa porre domande sull’affidabilità, sul taglio e sull’accuratezza; ed è anche necessario che pongano domande piu’ ampie riguardo a coloro le cui voci si ascoltano e i cui punti di vista sono rappresentati. • Linguaggio. Un individuo realmente alfabetizzato è capace non soltanto di usare il linguaggio, ma anche di capire come funziona. Questo è in parte u fatto di comprendere la “grammatica” di particolari forme di comunicazione; ma implica anche una consapevolezza dei piu’ ampi codici e convenzioni di particolari generi. Ciò significa acquisire capacità analitiche e un metalinguaggio per descrivere come il linguaggio funziona. L’alfabetizzazione digitale deve dunque coinvolgere una consapevolezza sistematica di come i media sono costruiti, e delle “retoriche” tipiche della comunicazione interattiva – ad esempio nei termini della costruzione e del design grafico dei siti Internet. • Production. L’alfabetizzazione riguarda il capire chi sta comunicando a chi e perché. Nel contesto dei media digitali, i giovani devono essere consapevoli della crescente importanza delle influenze commerciali – in particolare perché queste sono spesso invisibili agli utenti. C’è un aspetto di “sicurezza” in questo senso: i bambini devono sapere quando costituiscono l’obiettivo di interessi commerciali, e come le informazioni che loro stessi forniscono possono essere utilizzate dalle aziende commerciali. Ma l’alfabetizzazione digitale implica anche una consapevolezza piu’ ampia sul ruolo globale della pubblicità, della promozione e delle sponsorizzazioni, e come questi elementi possano influenzare la natura delle informazioni che vengono messe in primo piano. E naturalmente, questa consapevolezza dovrebbe anche estendersi alle fonti non commerciali e ai gruppi di interesse, che usano sempre più il web come mezzo di persuasione e di influenza. • Audience. Infine, l’alfabetizzazione critica implica la comprensione di come il pubblico viene individuato, e come il pubblico reale risponde. Rispetto a Internet, questo implica la comprensione di come funzionano i motori di ricerca, come gli ipertesti e i link sono strutturati per incoraggiarci a navigare in direzioni precise, come vengono raccolte informazioni sui fruitori, e come l’attività’ degli utenti sia governata e costretta dalle forze tecnologiche e commerciali. Significa anche capire la natura delle “community online”, e i molti altri modi in cui gli utenti individuali sono invitati ad “interagire”. Questo ci porta ben oltre la nozione di audience così come viene convenzionalmente compresa e definita dagli studi sui media e sulla cultura. Queste domande possono anche essere applicate ad altri testi digitali, come i videogiochi. In un certo senso, si tratta di prendere concetti e approcci che sono già ben fondati in merito ai media “più 5 vecchi” come i film e la televisione, e trasporli nei nuovi media. Comunque, i nuovi media richiedono, in qualche modo, che si ripensi questo consueto framework concettuale. Ad esempio, le nozioni convenzionali di narrativa e genere, che sono spesso usate nell’analisi dei film e della televisione, non si trasportano facilmente ai videogiochi; e la nozione di audience sembra un modo stranamente limitato e alla “vecchia maniera” di pensare a quello che succede quando si gioca ai videogame. Writing digital media L’alfabetizzazione ai media implica il saper “produrre” i media quanto “leggerli”; e qui, di nuovo, la tecnologia digitale presenta alcune importanti nuove sfide e possibilità. Con i pacchetti digitali, bambini piuttosto piccoli possono facilmente produrre testi multimediali, e anche ipermedia interattivi, nella forma di siti Internet o Cdrom, combinando testo scritto, immagini, semplici animazioni e materiale audio e video. Questi strumenti possono aiutare gli studenti a concettualizzare l’attività di produzione in modi molto piu’ significativi. Ad esempio, quando si tratta di produzione video, la tecnologia digitale può rendere evidenti e visibili alcuni aspetti chiave del processo di produzione che spesso rimane al di fuori quando si usano le tecnologie analogiche. Questo è particolarmente evidente al momento del montaggio, in cui domande complesse riguardo alla selezione, manipolazione e combinazione di immagini (e, nel caso del video, del suono) possono essere affrontate in modo molto piu’ semplice di quanto non sia possibile usando tecnologie analogiche. Così facendo, i confini tra analisi critica e produzione pratica – o tra “teoria” e “pratica” – divengono sempre piu’ velati. Il tipo di lavoro a cui mi riferisco e’ gia’ ben sviluppato in alcune scuole in cui lavoriamo con il nostro centro di ricerca. Ad esempio, abbiamo recentemente concluso un progetto con i bambini immigrati e rifugiati in sei paesi europei, insegnando loro la tecnica della produzione video digitale e spiegando come inviare e discutere le loro produzioni in Internet. Stiamo attualmente lavorando ad un altro progetto con due esperti di scuole d’arte e media e con una società commerciale che produce software, per sviluppare uno strumento che permetta ai bambini di creare da soli i propri videogiochi. Queste scuole – e altre come queste – stanno trovando modi innovativi di usare i media digitali per costruire sulle esperienze extrascolastiche degli studenti. Gli studenti lavorando in progetti di produzione trasversali al curriculum scolastico nella progettazione web o nei video digitali, che possono coinvolgere la collaborazione e la comunicazione con studenti di altre scuole e con la comunità. Cosa più importante, i nuovi media sono usati qui contemporaneamente come oggetto di studio e come mezzo di apprendimento; e le dimensioni critica e creativa sono fortemente integrate. Stiamo anche esplorando il potenziale di questo tipo di lavoro in ambienti informali e extrascolastici. Ad esempio, abbiamo lavorato per molti anni con una grande organizzazione artistica giovanile nel nord di Londra su una serie di progetti di ricerca e sviluppo. In passato, abbiamo guardato all’uso di Internet da parte di bambini molto piccoli e al gioco creativo; e il nostro prossimo progetto sara’ uno studio sull’uso creativo delle tecnologie digitali da parte dei ragazzi con disabilità nell’apprendimento. In progetti come questo, i ragazzi disabili usano le tecnologie digitali, non soltanto per realizzare siti Internet, ma in una serie di molto piu’ ambiziose forme di produzione multimediale, inclusi i video digitali e la progettazione di videogiochi. In questo contesto, il web offre mezzi di distribuzione – attraverso lo streaming di immagini in movimento e di materiale audio – di creazione di dialogo con altri ragazzi, sia a livello locale che globale. Qui possiamo constatare l’emergere di una “sfera pubblica giovanile” nella quale i ragazzi stessi iniziano a prendere il controllo dei mezzi di produzione. Conclusioni In ultima analisi, dunque, la mia proposta è molto più ampia di una semplice “chiamata” per la media education. La metafora dell’alfabetizzazione – seppure non senza problemi – ci da’ la possibilità di immaginare un approccio piu’ coerente ed ambizioso. Il crescente convergere dei media significa che dobbiamo affrontare le capacità e le competenze – le alfabetizzazione multiple – che sono richieste dall’intera serie di forme contemporanee di comunicazione. Piuttosto che aggiungere semplicemente l’alfabetizzazione ai media o l’alfabetizzazione digitale al curriculum scolastico, oppure staccare le tecnologie dell’informazione e della comunicazione 6 in una materia separata, abbiamo bisogno di una riconcettualizzazione più ampia di quello che intendiamo per alfabetizzazione in un mondo che è, in modo sempre crescente, dominato dai media elettronici. Questo non e’ per dire che l’alfabetizzazione verbale non sia piu’ rilevante, o che i libri debbano essere abbandonati. Tuttavia, è per sostenere che il curriculum non può più essere confinato ad una concezione ristretta di alfabetizzazione che e’ definita solo nei termini del linguaggio scritto. Che cosa implica questo per l’istituzione della scuola? Io sono ovviamente scettico rispetto all’idea che la tecnologia in sé possa radicalmente trasformare l’istruzione – e persino determinare la fine della scuola. Tuttavia i media digitali sono arrivati ad occupare un ruolo centrale nella vita della maggior parte dei ragazzi fuori dalla scuola. Come ho sostenuto, siamo testimoni di un divario che va aumentando tra la cultura della scuola e la cultura dei bambini fuori dalla scuola. Colmare questo divario richiederà molto piu’ di superficiali tentativi di combinare l’istruzione e l’intrattenimento, o di un uso meramente strumentale delle tecnologie come una sorta di “supporto didattico”. Naturalmente, la scuola non è in procinto di scomparire. Questo in parte perché assolve funzioni sociali (e anche economiche) che non sono confinate al suo ruolo in relazione all’insegnamento: storicamente, la scuola ha sempre operato in parte come agente di custodia del bambino. Nondimeno, in un ambiente sempre piu’ dominato dalla proliferazione di media elettronici e dalle richieste e gli imperativi della cultura di consumo, abbiamo urgente bisogno di definire un ruolo molto più proattivo per la scuola come istituzione chiave della sfera pubblica. Come la sfera pubblica di Habermas del diciottesimo secolo, la scuola dovrebbe offrire una piattaforma per una comunicazione aperta e un dibattito critico, e dovrebbe mediare le operazioni sia dello stato che del mercato. Io credo che la scuola debba avere un ruolo nel consentire un accesso egualitario alla tecnologia, compensando le ineguaglianze che persistono nella società a livello piu’ ampio – sebbene, nel fare questo, dovremo riconoscere che l’accesso non è solo una questione di tecnologia, ma anche di acquisizione delle competenze che sono richieste per farne uso. Ma credo anche che la scuola possa e debba giocare un ruolo ancora più determinante nel fornire sia prospettive critiche sulla tecnologia sia opportunità creative perché venga usata. Infine, questo significa che dobbiamo smettere di pensare meramente in termini di tecnologia, e cominciare a pensare da capo all’apprendimento, alla comunicazione e alla cultura. 7