Tra Comunità e l`Altro: appunti di Antropologia Culturale.

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Antrocom 2010, vol. 6, n. 1
39-45
Antropologia Culturale
Tra Comunità e l’Altro: appunti di Antropologia Culturale.
Michele F. Fontefrancesco *
Durham University
Abstract
L’interrogativo circa il ruolo svolto oggi della ricerca antropologica rispetto le culture studiate si
lega all’evoluzione epistemologica del concetto di Altro in Antropologia culturale. Ripercorrendo
l’evoluzione di tale categoria, l’autore vuole proporre una soluzione a tale interrogativo sul piano
teoretico e pratico capace di contrapporsi al pessimismo antropologico delle più recenti critiche alla
Modernità.
Keywords
Modernità, Altro, Antropologia culturale, Noi, Comunità.
Alcune domande iniziali.
Nel momento in cui è richiesto trasformare il lavoro di una ricerca sul campo in uno scritto, fruibile
al pubblico si pongono al ricercatore interrogativi fondamentali per la stesura stessa della ricerca:
dove si colloca il ricercatore rispetto all’oggetto della sua ricerca? Che ruolo ha il suo lavoro per
questa comunità? Queste due domande possono sembrare quasi una pruderia od un inutile
schiribizzo filosofico, ma attraverso ad esse si può rileggere l’intera evoluzione epistemologica del
concetto di Altro all’interno dell’Antropologia culturale. Nelle prossime pagine, voglio offrire un
prospetto indicativo di tal evoluzione, arrivando ad proporre una possibile attuale risposta a questi
quesiti, considerando le recenti critiche alla Modernità. Prima di iniziare intendo, però, ringraziare
Matei Candea per il prezioso aiuto datomi per lo sviluppo delle idee presentate in questa sede.
1.
Nellie ultime decadi del XIX secolo, l’Antropologia si affermò come la disciplina che studiava la
cultura dell’Umanità, ovvero “[the] complex whole which includes knowledge, belief, art, morals,
law, custom, and any other capabilities and habits acquired by man as a member of society" (Tylor
1903 [1871]). Spronati intellettualmente dalle teorie di Darwin e dalle nuove scoperte legate alla
conquiste coloniali di fine Ottocento, i padri fondatori della disciplina affrontarono lo studio di
comunità più o meno geograficamente remote ponendosi come obbiettivo la comprensione
dell’evoluzione della cultura umana sin dai sui primordi (Claessen 2002).
Questa ricerca partiva da un presupposto teorico che fu successivamente dibattuto e superato già nel
corso del Ottocento: tutte le culture possono esser paragonate alla luce di un unico e comune
modello evolutivo il cui compimento si trovava nell’Occidente. Poggiandosi su questo modello
epistemologico, l’antropologo s’identificava con la società Occidentale senza interrogarsi sul suo
ruolo sociale o sulle possibili differenze ed incongruenze culturali che potevano sussistere
nell’occidentale avanzato. Dagli antropologi, la società Occidentale era vissuta, se non
* Michele F. Fontefrancesco è impegnato nella sua attività di ricerca presso la Durham University. Oggi si occupa
dell’effetto della crisi economica globale sul tessuto industriale italiano, con attenzione particolare al settore della
gioielleria. Si occupa inoltre di studio delle tradizioni popolari e forme di economie tradizionali del Nord Ovest
italiano. Email: [email protected]
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esplicitamente riconosciuta, come un Noi. Il ricercatore, quindi, si percepiva sodale con il proprio
pubblico e chiaramente distinto dal proprio oggetto di ricerca, a causa delle differenze “razziali”,
linguistiche, religiose, economiche, etc., che questo presentava. L’oggetto di ricerca era, dunque, un
altro culturale, l’Altro, che si contrapponeva al Noi. Riallacciandoci alle nostre domande iniziali,
agli albori della disciplina, l’antropologo s’identificava culturalmente con il proprio pubblico,
creando una barriera con il proprio oggetto di ricerca. All’interno di un’ottica evoluzionistica che
poggiava sulla presupposta superiorità della cultura Occidentale, lo studio dell’Altro implicitamente
confermava e suffragava questo senso di una superiorità, senza obbligare l’antropologo ad
incontrare con la comunità studiata.
2.
A fissare la divisione tra ricercatore e soggetto di studi è da sottolineare la complessiva rarità degli
studi sul campo di questi primi antropologi (per un’eccezione si veda il lavoro di Frank H. Cushing:
Cushing and Green 1990) . Le informazioni erano acquisite principalmente da informatori
(missionari, agenti coloniali, pubblici ufficiali, eruditi locali, etc.) ed analizzate dagli studiosi nelle
loro sedi universitarie. L’Antropologia era quindi una disciplina speculativa in cui l’interazione
diretta tra antropologo e cultura studiata non era considerata elemento necessario per il buon esito
della ricerca stessa (Gaillard 2004 [1997], 1-39): la mancanza di un rapporto diretto può esser
considerato un ulteriore elemento rafforzante la barriera tra Noi e Altro.
Ad infrangere questa barriera contribuì l’influente lavoro di Malinowski: Argonauts of Western
Pacific (Malinowski 2002 [1922]). Con questo volume, venne affermata e consacrata la necessità
dello studio diretto dell’Altro da parte dell’antropologo ed entrò a far parte del bagaglio
metodologico della disciplina la tecnica etnografica. Per comprendere, quasi assimilare, il “punto di
vista del nativo” (Geertz 1984), questa tecnica di ricerca (Sanjek 2002), si basava sull’acquisizione
delle informazioni attraverso il contatto diretto dello studioso con la comunità studiata.
L’etnografia, quindi, portò ad una ridefinizione del ruolo dell’antropologo culturale: l’antropologo,
chiamato a vivere a contatto diretto, a guancia a guancia, con l’Altro, divenne ponte tra culture,
l’agente di un dialogo tra la cultura del Noi, dell’antropologo e del suo pubblico, e quella dell’Altro,
dell’oggetto della ricerca etnografica. In questo dialogo, l’alterità non era solo spiegata, come nel
caso degli scritti di Benedict (e.g. Benedict 1967, 1989 [1935]), ma poteva servire come punto di
riflessione per una critica sociale e culturale del Noi, come nel caso del lavoro di Boas (e.g. Boas
1940) e Mead (e.g. Mead 1975 [1928]).
3.
Grazie al successo dell’Antropologia, in Europa e negli Stati Uniti, un numero crescente di studenti
non occidentali si affacciò a questa, obbligando, a partire dagli anni Trenta, una riconsiderazione di
quello che era stato dato per certo nei primi decenni di vita della disciplina: la riconducibilità del
ricercatore alla cultura del proprio pubblico. Come abbiamo visto, sin dall’Ottocento,
l’Antropologia si era basata su questo presupposto nella definizione del ruolo intellettuale
dell’antropologo. Questa nuova generazione di studiosi, non potevano rivendicare questa
appartenenza; al contrario, in particolare nel caso in cui questi ricercatori si impegnarono nello
studio delle loro culture natie in quello che Malinowski definì “[…] the most arduous, but also the
most valuable achievement of a fieldworker” (Malinowski 1939, xix), essi espressero una
appartenenza alla cultura studiata, a quello che il pubblico vedeva come l’Altro (per un esempio
significativo di questi primi lavori si veda: Fei 1962 [1939]). Da questa situazione emergeva un
modo nuovo di far antropologia, in cui l’antropologo era parte integrante della cultura che studiava
e non più agente ad essa esterna.
Questo approccio, che apriva nuovi interrogativi epistemici, e l’analisi del ruolo dell’antropologo
indigeno nello studio delle culture, in particolar modo, non occidentali ( Fahim 1982 ),
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rappresentarono alcuni degli elementi fondamentali del dibattito antropologico degli anni Sessanta e
Settanta (Kuper 1994). In un momento culturale legato alla decolonizzazione e che coincise con la
messa in discussione ed il superamento dell’ idea dell’indiscussa e indiscutibile “superiorità”
culturale dell’Occidente rispetto al resto del mondo, all’interno della comunità scientifica fu
teorizzato un modo di far antropologia “dall’interno”, in cui l’antropologo non era più parte della
cultura Occidentale, ma membro della cultura indigena, dell’Altro. La Native Anthropology aveva
non solo l’implicito compito di creare un dialogo tra l’Altro e quella Occidentale, ma diventava lo
strumento epistemologico attraverso il quale la stessa comunità indigena poteva prendere coscienza
di sé, facendo riemergere e riappropriandosi di tratti culturali dimenticati a seguito del periodo di
colonizzazione.
4.
Se il dibattito antropologico degli anni Settanta si caratterizzò per la critica del concetto di Altro (si
pensi per esempio a Said 1978), a seguito della riflessione sul fenomeno della de-colonizzazione,
l’evoluzione della disciplina nella decade successiva fu segnata dalla ricezione, da parte della
comunità scientifica, dei lavori dei filosofi post-esistenzialisti, quali per esempio Barthes, Foucault,
Derrida, Deleuze. L’impatto di queste filosofie, che spronavano l’individuo, quindi il ricercatore, ad
un analisi di sé e del proprio agire in chiave decostruttivista, si concretizzò nel grande risalto dato al
concetto di riflessività nell’agire dell’antropologo (Ruby 1980 (revisited 1997)). Attraverso questa
capacità, il ricercatore era chiamato ad auto-interrogarsi sul “why [the researcher] is there, who sent
him, what his relationships are with his respondents, for whom he will write up his study and what
specific problems he faced in the field.” (Ahmed 1980, 18-19) In tal senso, l’antropologo diventava
oggetto egli stesso della sua ricerca in quanto, come concludeva Ahmed, “[t]o answer to these
question may provide insight into the mind of the researcher and his own relationship with the topic
of his study.” (Ahmed 1980, 18-19). L’analisi del ruolo sociale svolto dal ricercatore e dal suo
lavoro all’interno della comunità studiata divenne, quindi, parte integrante della ricerca etnografica
(in questo senso, sono particolarmente rappresentativi di questo clima culturale i saggi del volume:
Clifford and Marcus 1986).
La centralità della riflessività non ebbe come unico risultato quello di far assumere alla disciplina
un’allure solipsistico (criticato dalla famosa barzelletta di Marshal Sahlins, vedi: Jessor, et al. 1996,
21-25), ma rinnovò il dibattito interno alla disciplina circa il ruolo dell’antropologo all’interno
della società da lui studiata, l’impatto dell’interazione tra lui e la comunità studiata, il legame tra il
ricercatore ed il suo oggetto di studio, il modello stesso di sapere che un’analisi fondata
sull’osservazione partecipata poteva offrire. Da questo fermento e dall’idea maturata all’interno del
dibattito legato alla Native Anthropology dell’antropologo impegnato all’interno della sua cultura,
si crearono i presupposti di quella che divenne conosciuta in campo internazionale come
Antropology at Home. Tra gli entusiasmi (Herzfeld 1987, 1992; Jackson 1987; Messerschmidt
1981) e perplessità (Gellner 1992) che essa sollevò, questo modo di far Antropologia, obbligando
l’antropologo allo studio della sua stessa comunità, costrinse ad una profonda riflessione sul
concetto di Altro culturale come pre-requisito dell’analisi antropologica: laddove l’alterità
dell’oggetto di studio era stata difesa nei decenni precedenti come garanzia di oggettività d’analisi,
il lavoro in un contesto noto e/o natio negava tale presupposto. Questa semplice constatazione portò
a riconsiderare i concetti d’indigenità dell’antropologo e di alterità culturale, ridefinendoli in chiave
dinamica. Come sintetizzò Narayan: “we might more profitably view each anthropologist in terms
of shifting identifications amid a field of interpenetrating communities and power relations. The loci
along which we are aligned with or set apart from those whom we study are multiple and in flux.
Factor such as education, gender, sexual orientation, class, race, or sheer duration of contacts may at
different times outweigh the cultural identity we associate with insider or outsider status.” (Narayan
1993, 671-672) L’applicazione di tale concezione fluida di alterità comportava, quindi, uno sforzo
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maggiore del ricercatore nel senso della riflessività (Edwards 2000, 11-12) al fine di creare
nuovebasi per l’analisi di qualsiasi realtà culturale e di comprenderne le sue sfaccettature e le
criticità.
5.
Ancora negli anni Novanta, a seguito all’intensificarsi della interconnessione mondiale delle
economie, e delle culture nazionali (Castells 1996, 1997, 1998), il tema dell’Altro ha continuato a
svolgere un ruolo di primo piano all’interno delle Scienze Sociali. Le critiche alla Modernità
globalizzata (e.g. Bauman 1999 [1998]; Bauman 2000; Connerton 2009) partendo da un analisi del
concetto d’Altro, hanno messo in dubbio la stessa possibilità di definire un Noi, laddove il dibattito
scaturito dall’Anthropology at Home aveva già evidenziato implicitamente la fragilità di ogni
costruzione di un Noi, in quanto intaccato dalla dinamica natura dell’alterità, senza però negar la
possibilità di una tale costruzione. Nel mondo globale, infatti, a causa dell’intensificarsi della
velocità di spostamento di persone e merci e l’accrescimento del ruolo dei media e della loro
rilevanza nella vita quotidiana di ogni individuo, avrebbero messo in crisi ruoli sociali e paradigmi
culturali pregressi, concludendo nella multiple otherness (Gomez-Pena 1993, 21; Jandt and Tanno
2004, 209) dell’individuo globale: la sua incapacità di identificarsi stabilmente in alcuna forma di
Noi. A questo conseguirebbe che l’individuo, non potendo aderire ad un Noi, un modello di
comunità a cui egli si sente di appartenere, sarebbe circondato da innumerevoli Altri, e nel
contempo sarebbe egli stesso Altro di sé stesso, non essendo più capace di formulare neppure un
modello soddisfacente individuo a cui aderire.
Oggi, quindi, l’Antropologia si trova a confrontarsi sul piano dell’analisi del reale con tali
concettualizzazioni del mondo, intrinsecamente antitetici con qualsiasi studio che abbia come
obbiettivo la definizione e la descrizione di una comunità. Per trovare una risposta al pessimismo
antropologico di cui queste critiche sono impregnate è, quindi, necessario ripartire rivedendo l’idea
stessa di comunità.
Preliminare a ciò è opportuna una considerazione: l’idea di “comunità” è tutto fuorché estirpata
dalle dinamiche sociali e culturali dell’Occidente, il cosiddetto epicentro della globalizzazione.
Seppure il sentimento di solitudine possa essere un fenomeno diffuso e caratteristico del cittadino
metropolitano del XXI secolo (Bauman 2001), è da sottolineare come, proprio a causa di questo
sentire, a partire dagli anni Novanta, in Europa si era affermato il fenomeno della “fuga” dai centri
urbani di un numero crescente di persone che hanno deciso di abbandonare le città cercando una
residenza nell’hinterland metropolitano: alla base di queste “fughe” non v’è solo una ragione
economica (per esempio, la ricerca di un’abitazione più ampia e meno costosa rispetto a quelle
disponibili in città), ma una motivazione culturale che si incarna nella ricerca di un posto “in cui
farsi terra e paese”, usando l’espressione pavesiana. Nella ricerca del Paese (Clemente 1997) si
esprime il tentativo dell’individuo di ritrovare la dimensione perduta della vita all’interno di una
comunità. Questo seppur non neghi la possibile inquietudine o senso di solitudine dell’individuo di
fronte al mondo, dimostra la sopravvivenza del concetto di comunità e la sua fattuale importanza
all’interno del mondo globalizzato.
Avendo constatato il perdurare di tale idea e come l’individuo della Modernità agisca attivamente
nel tentativo di una concretizzazione di questa idea (e.g. Grimaldi 1996, 2009), resta necessario
comprendere cosa sia oggi una comunità e come una sua definizione possa esser compatibile con il
fenomeno della multiple otherness. Di fronte al proprio oggetto di studio l’antropologo si trova,
quindi, nella necessità di definire tale realtà e, possibilmente, a ridare ai propri soggetti di studio gli
strumenti utili perché essi stessi si possano riappropriare di un Noi, eventualmente perso.
Laddove oggi la pratica etnografica può dare risposte specifiche a questa domanda, in questa sede,
volgendo al termine di questo articolo, voglio proporre il mio contributo per una soluzione sul piano
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teorico a quest’interrogativo.
6.
La condizione di multiple otherness ed il concetto di comunità possono esser riconsiderati
attraverso un ragionamento che parte da Foucault. Nella sua famosa lezione inaugurale al College
de France (Foucault 1971), egli presentava una visione del mondo dialogica, in cui le azioni di ogni
singolo individuo non dovevano esser considerate finite e dotate di senso per sé, ma elementi di
una più grande entità significante, quella del Discorso. Nell’accezione foucultiana, il Discorso è la
grande meccanica culturale attraverso la quale si sviluppa il procedere della Storia e il continuo
mutare degli scenari umani. Le caratteristiche di questo non si manifesterebbero universalmente in
maniera univoca. La fenomenologia del Discorso sarebbe quindi caratterizzata da discontinuità
(Foucault 2002 [1969]): il grande discorso “Illimitato, continuo e silenzioso” (Foucault 1971) si
presenterebbe “come pratiche discontinue che si incrociano, si affiancano talora, ma anche che si
ignorano o si escludono”(Foucault 2001 [1994], 30). Le pratiche del discorso sono il momento
aggregante nella filosofia foucaultiana: attorno ad esse si congregano tutti gli individui che
partecipano alla stess’evoluzione di un’idea. Attraverso lo studio archeologico di un qualsiasi
concetto si potrebbe, quindi, definire una comunità di individui accomunati dalla mutua
partecipazione allo sviluppo di tale pratica del discorso. Dato che le singole pratiche del discorso si
svilupperebbero su traiettorie, spaziali e temporali, diverse, e che l’individuo nell’ottica foucaultina
contribuirebbe, nell’arco della sua vita, allo sviluppo di più pratiche, di ogni individuo risulterebbe
chiamato inevitabilmente ad esser membro di più comunità.
Una tale interpretazione della realtà umana può esser applicata per offrire una rinnovata analisi della
Modernità. Alla luce di questa interpretazione, infatti, il fenomeno di appartenenza a multiple
comunità sarebbe, sin dall’origine stessa del Discorso, un’inevitabile condizione antropologica di
ogni individuo e non una tragica innovazione comportata dalla Modernità: l’accresciuta mobilità e
possibilità di comunicazione, avrebbero semplicemente esteso il numero, la distanza e la forma
delle comunità a cui ognuno partecipa.
In Foucalt non è comunque negata l’indubbia difficoltà psicologica che l’appartenenza a più
comunità può arrecare all’individuo e che può sfociare nel fenomeno di multiple otherness, ma essa
stessa è ricondotta ad una sorta di normalità antropologica dell’Umanità. In tale ottica, pur tenendo
a mente la fluidità intrinseca della categorida di Altro, è possibile riconosce l’intera complessità e
non esclusività di ogni senso di appartenenza, rintegrando e ristabilento la categoria di Noi nel suo
ruolo di fondamentale colonna portante della ricerca antropologica.
Conclusioni
In questi appunti antropologici ho cercato di delineare un breve sommario indicativo di
un’evoluzione del concetto di Altro all’interno dell’evoluzione della disciplina. Osservando le varie
tappe di questo percorso ci si accorge come parallelamente ad una messa in discussione dell’entità
dell’Altro culturale si sia arrivati a porre in discussione l’idea stessa di un Noi, o più in generale
della capacità di ogni individuo di aderire ad una comunità. Volendo ribadire, a dispetto di alcune
critiche della Modernità, che ancora oggi l’idea di comunità e di appartenenza ad essa sia un
concetto forte e diffuso nel mondo globalizzato, ho voluto, quindi, offrire un modello teorico
neutralizzante il pessimismo antropologico che tali critiche implicano attraverso l’appropriazione di
alcuni elementi dell’apparato filosofico foucaultiano.
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