Che cos’è il lavoro antropologico di M. Kilani Mondher Kilani è professore di antropologia nell’Università di Losanna, ha svolto lunghe ricerche sul campo e ha scritto molti libri di analisi critica del linguaggio specifico dell’antropologia e della teoria antropologica. Il brano che segue, tratto da un libro del 1997 intitolato L’invenzione dell’altro, è una spiegazione molto chiara, almeno nella prima parte, del lavoro di un antropologo, delle diverse fasi in cui si articola e degli obiettivi che ne sono alla base. Nelle prime righe Kilani espone in modo semplice e condivisibile ciò che fanno gli antropologi. La seconda parte del brano mostra, invece, che non tutto è così chiaro, che non tutto è così ben delineato, e che il lavoro antropologico nasconde numerosi ostacoli logici ed epistemologici, oltre che pratici. Il primo fra tutti, che ha del resto animato molte discussioni fra gli antropologi a partire dalla seconda metà del Novecento, riguarda il fondamento empirico dell’antropologia: il sapere, le conoscenze che l’antropologia costruisce su particolari gruppi umani (società, tribù, comunità ecc.) attraverso le ricerche sul campo e secondo le modalità così bene ricordate da Kilani hanno un aggancio reale con quegli uomini e con l’Uomo in generale? È una riflessione ovviamente non facile, che il brano qui riportato sintetizza nei suoi termini principali. In che cosa consiste il lavoro dell’antropologo e come lo si può rappresentare? Possiamo rispondere dicendo che l’antropologo ha in primo luogo un campo di ricerca che sceglie per ragioni sia scientifiche sia personali e nel quale soggiorna per un certo numero di mesi o anni. Sul campo egli fa l’apprendistato di una cultura e di un modo di pensare, interagisce con delle donne e degli uomini, fa delle scoperte, sperimenta errori, raccoglie dati, elabora le prime sintesi, formula delle ipotesi. A conclusione del lavoro sul campo, torna a casa con diversi “oggetti”, disponibili per essere pensati e trattati mediante concetti, termini tecnici e modelli teorici, nel quadro di un testo monografico. Insomma, al tempo del campo segue il tempo della scrittura. La finalità del lavoro dell’antropologo è, infatti, offrire un testo elaborato, attraverso il quale comunicare a un lettore potenziale – generalmente un collega, ma non solo – la propria visione dell’esperienza dei membri della società presso la quale ha soggiornato. Quanto detto rappresenta una schematizzazione del lavoro dell’antropologo, lavoro che in verità è assai più complesso. Anzitutto va respinta l’idea che vi sia una realtà – il campo – che esiste indipendentemente dal lavoro antropologico e che preesiste ad esso. Il campo non è un’entità già data che attende d’essere scoperta ed esplorata dal solitario e intrepido antropologo. L’immagine dell’antropologo che giunge sul posto, armato del suo solo sguardo, per raccogliere dei dati, suscettibili di essere trattati poi teoricamente, appartiene a una visione ingenua del lavoro sul campo, che si fonda su una duplice illusione. La prima illusione è credere che l’esteriorità dell’oggetto implichi di per sé l’oggettività. Questa concezione dimentica che la postulata differenza dell’oggetto dal soggetto che l’osserva non è una qualità intrinseca dell’oggetto, un’essenza, ma il prodotto di una storia differenziale che li costituisce entrambi – soggetto e oggetto – come differenti. La seconda illusione è credere nella simultaneità fra l’oggetto da vedere e l’atto di vedere, il che equivale ad assimilare la presenza dell’antropologo sul campo al presente dell’oggetto etnografico. Tale confusione, che annulla ogni distanza storica, è il risultato dell’idea oggettivistica secondo la quale l’oggetto dell’antropologo sarebbe un dato pronto da essere osservato e il discorso dell’antropologo sarebbe identificabile con il linguaggio dell’osservatore neutro. Ma, se il rapporto con il campo non è un rapporto tecnico neutro, ancor meno è un rapporto di fusione simpatetica con l’oggetto di studio: l’antropologo non deve confondersi con l’altro al punto da diventare egli stesso l’altro. Se procede in tal modo, se parla lo stesso linguaggio dell’indigeno, non è più in una situazione dialogica, non ha la possibilità di tradurre nel proprio codice e ancor meno di riferirci la sua esperienza. Insomma, la conoscenza antropologica è un lavoro di mediazione con la distanza e la differenza, lavoro che comincia già sul campo. In altri termini, il campo si definisce subito ed essenzialmente come un lavoro simbolico di costruzione di senso, nel quadro di un’interazione discorsiva, di una negoziazione di punti di vista fra l’antropologo e i suoi informatori. M. Kilani, L’invenzione dell’altro, Dedalo, Bari 1997, 51-52