DIRITTO PENALE
- CORSO DI PRIMO LIVELLO -
AVV. FLORIA CARUCCI
INTRODUZIONE
La normativa del diritto penale sostanziale vigente è contenuta
sia nel codice penale sia in alcune leggi speciali che disciplinano
singole materie la cui regolamentazione non è contenuta nel codice
penale.
Il codice penale è suddiviso in una parte generale (nella quale
sono disciplinati i principi – appunto – generali, in quanto tali
valevoli indistintamente per qualsivoglia tipo di reato) ed una parte
speciale nella quale trovano, invece, puntuale regolamentazione le
singole ipotesi di reato previste dal vigente ordinamento penale
sostanziale.
Nella parte generale, il codice penale prevede e disciplina –
preliminarmente – la fondamentale distinzione tra:
1.
l’elemento oggettivo del reato, vale a dire l’insieme di
tutti i fatti materiali che devono concorrere insieme
perché possa dirsi realizzata la fattispecie materiale
tipica di reato;
2.
l’elemento soggettivo del reato, che attiene – invece –
allo stato psicologico nel quale versava il soggetto al
momento di commettere un fatto previsto dalla legge
come reato.
Le questioni relative ai principi generali di diritto penale
comportano, inoltre, l’esame della disciplina:
a) delle circostanze del reato,
b) del delitto tentato,
c) del concorso oggettivo e soggettivo nel reato.
Infine, per doverosa completezza dell’argomento trattato, sarà
– quindi – necessario esaminare la posizione e le questioni sia
sostanziali sia procedurali relative alla persona offesa dal reato,
unitamente agli strumenti di tutela e garanzia alla stessa
riconosciuti dall’ordinamento penal-processuale vigente.
Ritenuto, inoltre, che sulle caratteristiche generali della
responsabilità penale dell’amministratore condominiale non si
rilevano particolari differenze rispetto alla ordinaria disciplina
codicistica di parte speciale genericamente dettata dal legislatore,
l’esame dei reati comuni dell’amministratore riguarderà, per
evidenti ragioni di opportunità, non tutte le ipotesi di delitti e
contravvenzioni regolate dalla normativa vigente ma soltanto quelle
1
ritenute, a sommesso parere di chi scrive, maggiormente attinenti
la specifica attività professionale.
PARTE I
1. I PRINCIPI GENERALI DEL DIRITTO PENALE ITALIANO
Come già anticipato, i principi fondamentali dell’ordinamento
penale italiano sono contenuti sia nel codice penale sia in alcune
leggi speciali di diritto penale che regolano particolari ipotesi di
reato. Corollario necessario ai principi che informano
l’ordinamento penale sostanziale vigente – sia di parte generale sia
di parte speciale – sono, poi, le disposizioni contenute nel codice di
procedura penale, che regola e stabilisce le modalità di svolgimento
del procedimento e del processo nel sistema penale nazionale.
La figura dell’amministratore di condominio non rappresenta,
per l’ordinamento penale sostanziale italiano, un soggetto
destinatario di particolari norme ovvero di specifica disciplina, non
rilevandosi alcuna differenza rispetto alla normativa di parte
speciale dettata dal legislatore in via generale e risultando –
conseguentemente
–
applicabili
alla
menzionata
figura
professionale le disposizioni ordinarie attualmente vigenti,
indistintamente riferibili a qualunque soggetto presente sul
territorio nazionale, salvo la previsione di alcuni reati
specificamente attribuiti allo stesso da leggi speciali.
IL SOGGETTO ATTIVO DEL REATO
Alla luce di quanto sopra sinteticamente esposto, pare
opportuno precisare come nell’attuale sistema penale venga
distintamente prevista e regolata la figura:
1. del soggetto attivo del reato (il reo);
2. della persona offesa dal reato (la vittima).
E’ chiaro che l’amministratore di condominio, tanto nella sua
vita privata e personale quanto nell’esercizio della sua professione,
può indistintamente assumere, come qualunque altra persona,
l’una o l’altra veste.
Il soggetto attivo o autore dell’illecito penale è colui che pone in
essere un fatto previsto dalla legge come reato, tanto che si tratti di
una persona fisica sia che si tratti di una persona giuridica,
intendendosi per reato quel “comportamento umano che, a giudizio
del legislatore, contrasta coi fini dello Stato ed esige come sanzione
una pena”1.
Assunto, infatti, come condivisibile il concetto secondo il quale
il reato è violazione di un comando imposto dallo Stato, non risulta
essere concepibile un reato che non sia commesso da colui che
1
F. ANTOLISEI, “Manuale di diritto penale. Parte generale. Milano, Giuffrè Ed., 1991, pag. 152
2
viene indicato come soggetto attivo del reato e che il codice
frequentemente individua come “reo”.
L’ELEMENTO OGGETTIVO DEL REATO: a) LA CONDOTTA
Affinché possa dirsi realizzata un’azione intesa dalla legge
come reato, è necessario che risultino soddisfatti alcuni requisiti
previsti dalla legislazione ai fini della realizzazione della fattispecie
tipica di reato.
Come già anticipato, tali requisiti sono rappresentati.
1. dall’elemento oggettivo del reato, inteso come
l’insieme di tutti quegli aspetti esterni e “materiali”
del fatto illecito;
2. dall’elemento soggettivo del reato, attinente,
invece, alla sfera psichica del soggetto agente.
Mancando anche uno soltanto di questi elementi, il reato non
può dirsi “perfetto” e, dunque, realizzato ovvero consumato.
L’elemento materiale del reato, a sua volta, viene poi
suddiviso in diversi elementi la cui completa e totale ricorrenza
appare necessaria ai fini della sussistenza del reato sotto l’aspetto
tipicamente oggettivo.
Tali elementi sono, come già anticipato:
1. la condotta,
2. l’evento,
3. il nesso causale tra la condotta e l’evento di reato.
Il primo e fondamentale requisito dell’illecito penale, analizzato
sotto l’aspetto squisitamente oggettivo, è la condotta che può
consistere tanto in un’azione quanto in un’omissione.
Sono reati di azione quelli che si concretizzano in una serie
consequenziale di atti contestualmente collegati tra loro, posti in
essere al fine di raggiungere un certo fine consapevole (come, a
titolo di mero esempio, il delitto di furto, previsto, regolato e punito
all’art. 624 c.p.) mentre – invece – sono reati di omissione o reati
omissivi quelli che si pongono in essere con una condotta
omissiva (come, ad esempio, il delitto di omissione di soccorso,
disciplinato all’art. 593 c.p.) ovvero – ancora – i reati a condotta
mista nei quali ricorrono sia un’azione sia un’omissione (come, ad
esempio, il reato di insolvenza fraudolenta regolato dall’art. 641
c.p.).
Chiaramente, non tutte le condotte omissive sono considerate
come giuridicamente rilevanti ai fini penali, venendo – invece – in
considerazione soltanto quelle omissioni che consistono nel
mancato compimento di un’azione giuridicamente dovuta perché
prescritta dall’ordinamento vigente.
In assenza di prescrizione giuridica impositiva della condotta
poi in concreto omessa può, infatti, parlarsi di mera connivenza
che, sebbene biasimabile sotto l’aspetto civico e sociale, non rileva
ai fini della sussistenza del reato.
3
Non ogni forma di connivenza o di passiva assistenza
rappresenta, infatti, per la legge penale una forma di azione
omissiva punibile, consistendo i reati omissivi esclusivamente nel
mancato compimento di un’azione possibile che il soggetto aveva il
dovere giuridico di compiere. Proprio la doverosità converte l’inerzia
in omissione.
1.2.1. segue: b) L’EVENTO
Altro elemento necessario ed indefettibile ai fini della
sussistenza dell’elemento oggettivo del reato è il c.d. evento, vale a
dire il “risultato dell’azione o dell’omissione”, penalmente rilevante
soltanto nell’ipotesi in cui dalla condotta materiale posta in essere
dal soggetto agente derivi, come conseguenza, un evento
costituente offesa o violazione dell’interesse giuridico protetto dalla
norma penale che si assume essere stata violata con il proprio
comportamento.
1.2.2. segue: c) IL NESSO DI CAUSALITA’
Ultimo e fondamentale requisito necessario ai fini della
sussistenza del reato sotto l’aspetto oggettivo è il nesso di
causalità, vale a dire quel necessario collegamento che deve
immancabilmente sussistere tra il comportamento del soggetto
agente e l’evento di reato verificatosi.
L’art. 40 c.p. stabilisce, infatti, “che nessuno può essere punito
per un fatto preveduto dalla legge come reato se l’evento dannoso o
pericoloso da cui dipende l’esistenza del reato non è conseguenza
della sua azione o omissione”.
Tale principio assume, poi, ulteriore fondamentale importanza
ove si assuma che l’art. 27, primo comma Cost. sancisce che “La
responsabilità penale è personale”, così escludendo – innanzitutto –
che possa mai sussistere una responsabilità penale per fatto altrui
e innalzando a principio costituzionale la sussistenza della sola
responsabilità penale per fatto proprio, che postula in primo luogo
il nesso di causalità tra la condotta e l’evento di reato.
Attualmente, la dottrina e la giurisprudenza prevalenti sono
orientate nel ritenere che l’azione è causa dell’evento quando,
secondo la migliore scienza ed esperienza del momento storico,
l’evento è conseguenza certa o altamente probabile dell’azione (cd.
teoria scientifica).
Il rapporto di causalità è – dunque – escluso, con conseguente
venir meno anche della responsabilità penale, da alcune specifiche
cause di esclusione della colpevolezza che sono il caso fortuito e la
forza maggiore.
L’art. 45 c.p. prevede espressamente, infatti, che “Non è
punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore”,
così lasciando intendere mediante l’utilizzo dell’espressione
“commettere” l’esistenza e ricorrenza di un nesso causale tra la
condotta e l’evento di reato.
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Concettualmente, il caso fortuito e la forza maggiore stanno ad
indicare un insieme di avvenimenti obiettivamente ritenuti
conseguenza non probabile o addirittura non possibile di quel tipo
di condotta umana. Il caso fortuito abbraccia tutti quei fattori
causali, non solo sopravvenuti ma anche preesistenti o
concomitanti, che hanno reso eccezionalmente possibile il
verificarsi di un evento che si presenta come conseguenza del tutto
improbabile secondo la migliore scienza ed esperienza.
La forza maggiore si identifica, invece, in tutte quelle forze
naturali esterne al soggetto che lo determinano, pur esse
scientificamente improbabili (esempio tipico è l’uccisione di un
passante da parte di un operaio precipitato da un’impalcatura per
una improvvisa tromba d’aria).
In entrambi i casi si verifica, dunque, una esclusione del
rapporto di causalità tra condotta ed evento con conseguente
esclusione anche della colpevolezza, quale riflesso soggettivo del
fatto che l’agente non poteva prevedere come probabile ciò che tale
non era neppure per la migliore scienza ed esperienza.
Il nesso di causalità assume aspetti particolari e specifici in
relazione alle ipotesi di reato omissivo, espressamente statuendo
sul punto l’art. 40 c.p. che “Non impedire un evento che si ha
l’obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo”, ritenuto che,
per poter equiparare il “non impedire” al “cagionare”, l’ordinamento
penale italiano prevede la necessaria sussistenza in capo al
soggetto dell’obbligo di impedire l’evento, c.d. obbligo di garanzia.
Per obbligo di garanzia deve intendersi l’obbligo giuridico –
gravante su determinate e specifiche categorie, preliminarmente
individuate, di soggetti previamente forniti degli adeguati poteri
giuridici – di impedire eventi offensivi di beni altrui, affidati alla
loro tutela per l’incapacità dei legittimi titolari di adeguatamente
proteggerli.
IL PRINCIPIO DI OFFENSIVITA’ DEL DIRITTO PENALE
ITALIANO: L’OGGETTO GIURIDICO E L’OFFESA
L’ordinamento penale italiano si fonda, tra l’altro, sul c.d.
principio di offensività, secondo il quale non può sussistere alcuna
condotta penalmente rilevante se non risulta offeso – o, quanto
meno pregiudicato – il bene giuridico protetto dalla norma
asseritamente violata, vale a dire l’interesse giuridico che il
legislatore mirava a tutelare mediante la proibizione di un
determinato comportamento e che può consistere sia in un bene
costituzionalmente
rilevante
sia
in
beni
ricavabili
dal
contemporaneo contesto socio-culturale e costituzionalmente
compatibili.
L’ELEMENTO SOGGETTIVO DEL REATO
Come più volte sottolineato nel corso del presente elaborato, ai
fini della sussistenza di un reato, è necessario che ricorrano tutti
5
gli elementi previsti dalla legge ai fini della configurabilità
dell’elemento oggettivo del reato, senza poter prescindere – però –
dall’accertamento circa la sussistenza anche dell’elemento
soggettivo o psicologico del reato medesimo.
L’art. 42, primo comma c.p. stabilisce, infatti, che “Nessuno
può essere punito per un’azione od omissione preveduta dalla legge
come reato se non l’ha commessa con coscienza e volontà”, come a
volere sottolineare che la condotta umana, prima ancora che
dolosa o colposa, deve essere innanzitutto cosciente e rientrare –
quindi – nella sfera di volontà del soggetto agente così da
differenziarsi sia dagli accadimenti naturali sia dalle inerzie
meramente meccaniche.
La responsabilità penale presuppone, dunque, la coscienza e
la volontà della condotta e tale principio non ammette eccezione
alcuna nel nostro ordinamento non potendo sussistere né dolo né
colpa senza la coscienza e la volontà del comportamento,
intendendosi per tali tutte le condotte attribuibili alla volontà del
soggetto agente, che prendono origine da un impulso cosciente, o
anche dall’inerzia del volere, ma che con uno sforzo della volontà
avrebbero potuto essere impedite.
1.4.1. IL DOLO.
Dal combinato disposto degli artt. 42 e 43 c.p. appare
possibile dedurre ed affermare come il dolo rappresenti l’aspetto
originario, primario e fondamentale dell’elemento soggettivo del
reato, stabilendo l’art. 42, secondo comma c.p. che “Nessuno può
essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto se non
lo ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o
colposo espressamente preveduti dalla legge” fornendo – poi – al
successivo art. 43, primo comma c.p. una importante definizione
secondo la quale “Il delitto è doloso, o secondo l’intenzione, quando
l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato dell’azione od
omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto è
dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della propria
azione od omissione”.
Pare, innanzitutto, importante evidenziare come l’art. 43 c.p.
faccia riferimento, non già al reato, ma al delitto così da porre una
netta distinzione in ordine all’elemento psicologico tra delitti e
contravvenzioni.
L’ordinamento penale vigente, infatti, distingue i reati in
delitti e contravvenzioni che si differenziano tra loro per
disciplina, in ordine alle pene da applicare – sia principali sia
accessorie – in ordine all’elemento psicologico, all’applicabilità
dell’istituto del tentativo, della dichiarazione di abitualità e
professionalità a delinquere, per la prescrizione, l’oblazione ecc.
Il dolo consiste, dunque, nella rappresentazione da parte del
soggetto agente della fattispecie materiale tipica di reato – vale a
dire del fatto previsto dalla legge penale come reato – e nella
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contestuale volontà di porre in essere proprio quella condotta
vietata dalla norma così da perseguire l’evento che la legge mira ad
evitare per tutelare il bene giuridico protetto dall’ordinamento.
Il dolo esige, dunque, che tanto la condotta quanto l’evento
siano voluti, consistendo – come già chiarito – nella
rappresentazione del fatto e nella volontà dell’evento ovvero
accettazione del rischio della causazione dell’evento.
Il dolo si distingue, innanzitutto, in:
a) dolo intenzionale o diretto, che si ha quando la volontà
ha direttamente di mira l’evento tipico ed è diretta alla
realizzazione del medesimo;
b) dolo eventuale o indiretto, che si ha quando la volontà
non si dirige direttamente verso l’evento, ma l’agente lo
accetta come conseguenza eventuale, “accessoria” alla
propria condotta.
Appare evidente come l’evento di reato possa dirsi accettato in
entrambe le ipotesi ma, mentre nel dolo diretto il soggetto agente si
rappresenta e vuole proprio l’evento materiale tipico di reato, nel
dolo eventuale il soggetto attivo si rappresenta la probabilità che
l’evento di reato possa realizzarsi e, nel dubbio, accetta comunque
tale eventualità, ovvero accetta il rischio2, e si determina ad agire.
Un’altra importante distinzione in ordine al concetto di dolo è
costituita dalla differenza tra dolo generico e dolo specifico:
a) il dolo generico è proprio della maggior parte dei reati e
consiste nella semplice coscienza e volontà del fatto
materiale, essendo indifferente ai fini della sussistenza del
reato il fine per il quale si agisce;
b) il dolo specifico, invece, sussiste nell’ipotesi in cui sia la
stessa legge ad esigere, oltre alla coscienza e volontà della
condotta, anche che il soggetto agisca al fine di perseguire
e raggiungere un fine determinato e specifico che è,
appunto, previsto come elemento soggettivo costitutivo
della fattispecie legale.
1.4.2. LA COLPA
La colpa rappresenta, rispetto al dolo, una forma più lieve di
colpevolezza, definita – secondo il disposto normativo contenuto
all’art. 43 c.p. – nei seguenti termini: “Il delitto è colposo, o contro
l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto non è voluto
dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o
imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o
discipline”.
Gli elementi caratterizzanti la colpa sono, quindi:
1. la assoluta mancanza di volontà del fatto materiale tipico
di reato;
2
F. MANTOVANI, Diritto Penale, CEDAM, Milano, 2001, pag. 325
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2. l’inosservanza di regole di condotte dirette a prevenire
danni ai beni giuridici;
3. la attribuibilità di tale inosservanza all’agente, dovendo
avere egli la capacità di adeguarsi a tali regole e
potendosi, pertanto, esigerne da lui la osservanza.
La colpa, penalmente rilevante ai fini della sussistenza
dell’elemento soggettivo del reato, consiste – quindi – nella assoluta
mancanza di volontà in capo al soggetto agente del fatto materiale
tipico di reato che comunque viene a realizzarsi, però, a causa di
una condotta imperita, negligente o imprudente in capo al soggetto
attivo ovvero, ancora, per mancata osservanza – in capo allo stesso
– di leggi, regolamenti, ordini e discipline.
La colpa viene generalmente distinta tra:
a) colpa incosciente, quando l’evento non è voluto e
neanche previsto dall’agente;
b) colpa cosciente, che si ha – invece – quando l’evento, pur
non essendo voluto, è tuttavia previsto dall’agente come
conseguenza concretamente possibile dell’inosservanza
della regola cautelare. Come nel dolo eventuale, anche
nella colpa cosciente il soggetto si rappresenta la
possibilità del verificarsi dell’evento. Ma, mentre nel primo
caso egli permane nella convinzione o anche soltanto nel
dubbio che l’evento possa verificarsi – e, ciononostante,
agisce accettando il rischio – nella colpa cosciente il
soggetto ha il preciso convincimento che l’evento di reato
non si verificherà avendone escluso la realizzazione.
L’imprudenza è propriamente l’avventatezza, l’insufficiente
ponderazione.
La negligenza esprime, invece, un atteggiamento psichico
alquanto diverso: si tratta della trascuratezza, della mancanza o
deficienza di attenzione oppure di sollecitudine.
Per quanto concerne l’imperizia è generalmente riconosciuto
che, per potersi parlare di responsabilità colposa, non basta la
semplice deficienza di abilità professionale: occorre una
insufficiente preparazione o una inettitudine di cui l’agente, pur
essendo consapevole, non abbia voluto tener conto.
La colpa, al pari del dolo, è un atteggiamento antidoveroso e,
quindi, riprovevole della volontà, poiché il soggetto – che aveva la
possibilità e il dovere di essere cauto ed attento – ha, invece, agito
con leggerezza. Proprio siffatto modo di comportarsi giustifica la
punizione del reato colposo.
Un’altra importante distinzione in ordine al concetto di colpa è
quella che pone l’accento sulle fonti delle regole cautelari indicando
come:
a) colpa generica, quella legata alla mancata osservanza di
regole di condotta non scritte, quali sono – appunto – le
regole sociali di diligenza (che prescrivono di tenere una
determinata condotta positiva), di prudenza (che vietano
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certe azioni o modalità di esse) e di perizia (che
prescrivono l’osservanza di particolari regole tecniche per
lo svolgimento di determinate attività);
b) colpa specifica, quella legata all’inosservanza di regole di
condotte scritte, vale a dire cristallizzate in leggi, penali o
extrapenali, in regolamenti (vale a dire in atti
amministrativi normativi generali), in discipline (atti
normativi, diversi dai suddetti ed emanati dalla autorità
pubblica o privata), in ordini (contenenti regole individuali
poste dall’autorità pubblica o privata).
Altra importante distinzione può essere costituita dalla
differenza posta tra:
a) colpa comune, che riguarda le attività pericolose non
giuridicamente autorizzate;
b) colpa speciale (o professionale: medica, sportiva,
stradale, ecc,), che riguarda attività rischiose ma
giuridicamente autorizzate perché socialmente utili, se ed
in quanto mantenute nei limiti segnati da regole cautelari
(le c.d. leges artis) scritte o non scritte, che prescrivono
non l’astensione dall’attività ma l’esercizio della stessa in
presenza di determinati presupposti o secondo certe
modalità, allo scopo di prevenire non il “rischio
consentito”, perché insito nella stessa attività autorizzata,
ma un ulteriore rischio non più consentito (il c.d.
“aumento del rischio” o “superamento del rischio
consentito”).
1.4.3. LA PRETERINTENZIONE
L’art. 43 c.p. sembra prevedere tra il dolo e la colpa una terza
forma di colpevolezza c.d. “oltre l’intenzione”: la preterintenzione.
La menzionata disposizione normativa sancisce, infatti, che “Il
delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione
od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di
quello voluto dall’agente”.
La struttura del delitto preterintenzionale consiste nella
rappresentazione e volontà in capo al soggetto di un evento di reato
meno grave rispetto a quello che poi – in concreto – viene a
realizzarsi nella realtà dei fatti, il cui evento non è voluto
dall’agente neanche a titolo di dolo eventuale ma che è pur sempre
conseguenza della condotta posta in essere dal soggetto agente.
La preterizione può, quindi, essere considerata come dolo
misto a colpa generica e in concreto, nel quale il dolo si riferisce
alla condotta prevista e voluta dal soggetto agente e la colpa
attiene, invece, all’evento di reato più grave che in concreto si
realizza.
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1.4.4.
L’ELEMENTO
PSICOLOGICO
DELLE
CONTRAVVENZIONI
L’ordinamento penale vigente ha riservato all’elemento
psicologico della contravvenzione una particolare disciplina,
stabilendo l’art. 42, quarto comma c.p. che “Nelle contravvenzioni
ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente e
volontaria, sia essa dolosa o colposa”, precisando – ancora –
all’ultimo comma del successivo art. 43 c.p. come “La distinzione
tra reato doloso e reato colposo, stabilita da questo articolo per i
delitti, si applica altresì alle contravvenzioni, ogni qualvolta per
queste la legge penale faccia dipendere da tale distinzione un
qualunque effetto giuridico”.
Pare, innanzitutto, doveroso sottolineare come ai fini della
configurabilità del reato contravvenzionale, la legge vigente preveda
quale elemento soggettivo del reato la sussistenza del dolo o della
colpa, potendo indifferentemente esserci il dolo o la colpa, ma
essendo pur sempre necessaria quantomeno la colpa.
Nelle contravvenzioni, così come nei delitti, l’accertamento
circa la ricorribilità del dolo o della colpa assume una particolare
rilevanza in ordine a molteplici questioni, prima fra tutte il tipo e la
quantificazione dell’eventuale pena da infliggere in concreto al
responsabile del reato.
Ai sensi dell’art. 133 c.p., infatti, il giudice deve tenero conto
della intensità del dolo e del grado della colpa e le contravvenzioni
dolose debbono necessariamente essere punite più gravemente di
quelle colpose.
Peraltro, l’accertamento del dolo o della colpa è essenziale per
la stessa punibilità del fatto rispetto a quelle ipotesi di
contravvenzioni che, per la loro intrinseca natura o per la tecnica
di formulazione legislativa, possono essere soltanto dolose oppure
soltanto colpose.
LE CIRCOSTANZE DEL REATO
Il reato può assumere aspetti particolari che, se pur non
essenziali alla sua esistenza e sussistenza, danno luogo a delle
conseguenze giuridicamente rilevanti e diverse.
Le circostanze sono, infatti, elementi accidentali ed accessori
al reato, in quanto tali non necessari ai fini della configurabilità
dell’ipotesi criminosa ma incidenti sulla sua gravità ed idonei a
rilevare quali indicatori della capacità a delinquere del soggetto,
comportando – di conseguenza – una modificazione quantitativa o
qualitativa della pena, trasformando un reato semplice in un reato
circostanziato, sia esso aggravato sia esso attenuato.
La concreta applicazione delle circostanze del reato assume
aspetti di particolare ed imprescindibile importanza in ordine,
soprattutto, alla rilevanza edittale della pena e – conseguentemente
– al periodo necessario per la prescrizione del reato, alle condizioni
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di procedibilità, alla competenza e, infine, in merito alla possibile
applicabilità o meno delle misure cautelari personali e dell’arresto.
Le circostanze del reato si distinguono in:
a) circostanze comuni e circostanze speciali, a seconda
che siano previste per un numero indeterminato di reati,
cioè per tutti i reati con cui non siano incompatibili,
oppure per uno o più reati determinati;
b) circostanze aggravanti e circostanze attenuanti, a
seconda che comportino un inasprimento ovvero una
attenuazione della pena prevista per il reato semplice;
c) circostanze ad efficacia comune e circostanze ad
efficacia speciale, a seconda che la legge stabilisca la
variazione della pena in misura frazionaria fino ad un
terzo della pena semplice oppure stabilisca una pena di
specie diversa (come ad esempio in tema di omicidio l’art.
577 c.p.) o ne determini la misura in modo indipendente
da quella ordinaria del reato, cioè entro una nuova
cornice edittale o in modo frazionario superiore ad un
terzo;
Le circostanze aggravanti comuni sono disciplinate all’art.
61 c.p. e sono:
1. “L’avere agito per motivi abietti o futili”, intendendo
per motivo abietto quello turpe, spregevole, che rivela nel
soggetto agente un tale grado di perversità da suscitare,
secondo il comune sentimento, un senso di ripugnanza.
Si tratta di una aggravante comune soggettiva;
2. “L’avere commesso il reato per eseguirne od
occultarne un altro, ovvero per conseguire o
assicurare a sé o ad altri il profitto o il prezzo ovvero
l’impunità di un altro reato”, che rappresentano le tre
ipotesi di connessione teleologica o consequenziale dei
reati. Per la sussistenza di tale aggravante, anch’essa
soggettiva, è sufficiente che il soggetto agente commetta il
reato per uno dei fini indicati dalla norma, anche se non
pone in essere il reato-fine o non consegue lo scopo
prefissatosi;
3. “L’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la
previsione dell’evento”. Tale circostanza aggravante
comune rappresenta un’altra ipotesi di circostanza
soggettiva che trova applicazione – però – ai soli delitti e
non già alle contravvenzioni e che riguarda la c.d. colpa
cosciente – le cui caratteristiche sono già stata sopra
meglio affrontate3;
3
Sul punto, Cassazione Penale, sentenza del 08.03.1968, in Giust. Pen., 1968, II, 722; Cassazione Penale, sentenza del
17.11.1970, ivi, 1970, II, 893; Cassazione Penale, sentenza 21.01.1981, ivi, 1981, II, 634; Cassazione Penale, sentenza
del 06.03.1984, in Riv. Pen., 1985, 1074.
11
4. “L’avere adoperato sevizie, o l’avere agito con
crudeltà verso le persone”, intendendo per sevizia
l’inflizione di una sofferenza atroce di natura fisica e per
crudeltà la inflizione di un patimento morale che rivela la
assoluta mancanza di umanità. Si tratta, ancora una
volta, di una circostanza soggettiva;
5. “L’avere profittato di circostanze di tempo, di luogo o
di persona tali da ostacolare la pubblica o la privata
difesa”, generalmente considerata come una circostanza
oggettiva, tenuto conto del fatto che basta che il soggetto
abbia tratto obiettivamente vantaggio dalla particolare
situazione anche senza conoscerla ma purché conoscibile;
6. “L’avere il colpevole commesso il reato durante il
tempo in cui si è sottratto volontariamente alla
esecuzione di un mandato o di un ordine di arresto o
di cattura o di carcerazione, spedito per un
precedente reato”. Si tratta di una circostanza
soggettiva, concernente le condizioni o qualità personali
del colpevole, la cui ratio va individuata nella maggiore
ribellione
posta
in
essere
dall’agente
all’ordine
precostituito;
7. “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che
comunque offendono il patrimonio, ovvero nei delitti
determinati da motivi di lucro, cagionato alla
persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
rilevante gravità”, rilevando come trattati di una
circostanza oggettiva applicabile – peraltro – soltanto ad
alcuni tipi di delitti e giammai a contravvenzioni;
8. “L’avere aggravato o tentato di aggravare le
conseguenze del delitto commesso”. Tale circostanza,
di natura soggettiva, ricorre quanto l’agente, con una
condotta posteriore alla consumazione del delitto ne
aggrava o cerca di aggravarne gli effetti dannosi”;
9. “L’avere commesso il fatto con abuso dei poteri o con
violazione dei doveri inerenti ad una pubblica
funzione o ad un pubblico servizio, ovvero alla
qualità di ministro di un culto”. Tale circostanza, di
natura soggettiva, richiede il possesso in capo all’agente
di specifiche qualifiche oltre all’abuso dei poteri o la
violazione dei doveri;
10. “L’avere commesso il fatto contro un Pubblico
Ufficiale o una persona incaricata di un pubblico
servizio, o rivestita della qualità di ministro del
culto cattolico o di un culto ammesso nello Stato,
ovvero contro un agente diplomatico o consolare di
uno Stato estero, nell’atto o a causa delle funzioni o
del servizio”. Questa circostanza di natura oggettiva
12
appresta una tutela rafforzata a taluni soggetti in
considerazione dello specifico ruolo svolto;
11. “L’avere commesso il fatto con abuso di autorità o
di relazione domestiche, ovvero con abuso di
relazione di ufficio, di prestazione d’opera, di
coabitazione o di ospitalità”. Aggravante di natura
soggettiva, tale circostanza concerne casi non rientranti
nell’ipotesi di cui all’art. 61, n. 9 c.p. Benché il più delle
volte possa ravvisarsi anche un abuso di fiducia, il
rapporto fiduciario non è però necessario e non si deve, di
conseguenza, provarne l’esistenza. L’abuso di autorità
(intesa in senso privatistico poiché diversamente
ricorrerebbe la circostanza di cui al n. 9) si ha quando
l’agente approfitta di una situazione giuridica di
preminenza rispetto al soggetto passivo per commettere il
reato. La relazione domestica si ha tra gli appartenenti ad
un unico nucleo famigliare, anche se non legati da vincoli
di parentela e non vi è coabitazione (come ad esempio la
collaboratrice domestica). Si ha relazione di coabitazione
allorché più persone fruiscano dello stesso spazio
abitativo con una certa continuità. Si ha relazione di
ospitalità allorché vi è una convivenza, anche
momentanea ed occasionale del soggetto agente con altri
soggetti da cui è ricevuto e nel cui domicilio può, anche
temporaneamente o di fatto, lecitamente trattenersi. La
relazione di ufficio sussiste, invece, nel caso in cui
soggetti diversi svolgano un ufficio pubblico o privato
nello stesso luogo. La relazione di prestazione d’opera
consiste nei rapporti che sorgono dalla prestazione
attuale di un lavoro o servizio di qualsiasi genere.
Le circostanze attenuanti comuni, di cui alcune aventi
carattere spiccatamente speculare rispetto alle circostanze
aggravanti comuni, sono regolate dall’art. 62 c.p. e sono:
1. “L’avere agito per motivi di particolare valore morale
o sociale”. Ai fini della applicabilità di tale circostanza
soggettiva sembra opportuno chiarire come valore morale
si intenda il motivo meritevole di particolare approvazione
secondo la coscienza etica umana. Diversamente, per
valore sociale quello che è valutato favorevolmente
secondo le concezioni e le finalità della comunità sociale
organizzata;
2. “L’avere reagito in stato d’ira, determinato da un
fatto ingiusto altrui”. Tale circostanza soggettiva viene
generalmente indicata come “provocazione”, consistente in
uno stato d’ira che determina, per sua natura, un reato di
impeto avulso da ogni premeditazione o antecedente
programmazione;
13
3. “L’avere agito per suggestione di una folla in
tumulto, quando non si tratti di riunioni o
assembramenti vietati dalla legge o dalla Autorità e
il colpevole non è delinquente o contravventore
abituale, o professionale, o delinquente per
tendenza”. Si tratta, anche in questo caso, di una
circostanza di natura soggettiva che trova la sua
giustificazione nella minore resistenza psichica che si
determina nell’agente per l’influenza nel suo animo di
fattori esterni contagianti, rappresentati dallo stato di
eccitamento della folla tumultuante;
4. “L’avere, nei delitti contro il patrimonio, o che
comunque, offendono il patrimonio, cagionato alla
persona offesa dal reato un danno patrimoniale di
speciale tenuità, ovvero, nei delitti determinai da
motivi di lucro, l’avere agito per conseguire o l’avere
comunque conseguito un lucro di speciale tenuità,
quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di
speciale tenuità”. Si tratta di una circostanza oggettiva
applicabile esclusivamente ad alcuni specifici tipi di delitti
e giammai alle contravvenzioni;
5. “L’essere concorso a determinare l’evento insieme con
l’azione o l’omissione del colpevole il fatto doloso
delle persona offesa”. Si tratta di una circostanza
oggettiva riferibile ad ipotesi di reato nelle quali la
condotta posta in essere dalla persona offesa ovvero il
consenso dalla stessa prestato rappresentano un
elemento costitutivo del reato stesso;
6. “L’avere, prima del giudizio, riparato intermente al
danno, mediante il risarcimento di esso e, quando
sia possibile, mediante le restituzioni; o l’essersi
prima del giudizio e fuori dal caso preveduto
dall’ultimo capoverso dell’art. 56 c.p. adoperato
spontaneamente ed efficacemente per elidere o
attenuare le conseguenze dannose o pericolose del
reato”. Tale circostanza oggettiva rappresenta un tipico
istituto di diritto c.d. premiale.
Le circostanze attenuanti generiche sono regolate all’art. 62
bis c.p. a norma del quale “Il Giudice, indipendentemente dalle
circostanze previste nell’art. 62 c.p. può prendere in considerazione
altre circostanze diverse, qualora le ritenga tali da giustificare una
diminuzione della pena. Esse sono considerate in ogni caso, ai fini
dell’applicazione di questo capo, come una sola circostanza, la quale
può anche concorrere con una o più delle circostanze indicate al
precedente arti. 62 c.p.
Ai fini dell’applicazione del primo comma no si tiene conto dei
criteri di cui all’art. 133, primo comma, n. 3) e secondo comma, nei
casi previsti dall’art. 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti
14
dall’art. 407, secondo comma, lettera a), del codice di procedura
penale, nel caso in cui siano puniti con la pena della reclusione non
inferiore nel minimo a cinque anni”.
Si tratta di circostanze in senso tecnico a tutti gli effetti
(diminuzioni subedittali della pena, bilanciamento, estensibilità ai
concorrenti, computo ai fini della prescrizione) e della più ampia
ipotesi di circostanza indefinita, essendo le circostanze attenuanti
generiche comuni ed applicabili indistintamente a tutti i reati.
IL DELITTO TENTATO
L’istituto giuridico del delitto tentato è previsto e regolato
all’art. 56 c.p. a norma del quale “Chi compie atti idonei, diretti in
modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto
tentato se l’azione non si compie o l’evento non si verifica.
Il colpevole di delitto tentato è punito: con la reclusione non
inferiore a dodici anni se la pena stabilita è l’ergastolo; e, negli altri
casi, con la pena stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due
terzi.
Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace
soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano
per sé un reato diverso.
Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena
stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà”.
Ritenuto che il reato penalmente rilevante consta, ad ogni
buon conto, di una condotta umana, sembra possibile poter
suddivere questa condotta in un iter che, passando attraverso fasi
diverse e progressive, giunge fino al perfezionamento della condotta
materiale tipica di reato.
Il tentativo punibile e, quindi, penalmente rilevante è soltanto
quello consistente nell’attivarsi al fine di commettere un reato,
senza però riuscire in tale proposito criminoso per cause
impeditive assolutamente estranee, indipendenti ed esterne alla
volontà dell’agente.
Come ogni altra ipotesi di reato, il delitto tentato è costituito
da un elemento oggettivo e da un elemento soggettivo.
Per quanto attiene l’elemento soggettivo, il delitto tentato è di
tipo doloso non soltanto perché il concetto stesso di “tentare” è del
tutto incompatibile con l’ipotesi del delitto colposo, ma anche sulla
scorta del principio contenuto all’art. 42, secondo comma c.p.,
mancando nell’ordinamento vigente una espressa previsione di
delitto colposo tentato.
Sotto il profilo oggettivo, il delitto tentato è costituito da:
a) un elemento negativo, consistente nel mancato
compimento della azione o nel non verificarsi dell’evento.
Indicando alternativamente queste due ipotesi, il
legislatore ha voluto significare che si ha delitto tentato
sia nel caso in cui il soggetto abbia posto in essere l’intera
condotta che avrebbe potuto produrre l’evento sia nel
15
caso in abbia soltanto iniziato, ossia realizzato solo in
parte, ma non portato a termine, l’attività diretta –
secondo il suo concreto piano criminoso – a commettere il
delitto.
Tale mancata perfezione del delitto deve essere imputabile
a fattori impeditivi estranei alla condotta, vale a dire a
cause esterne, diverse ed estranee al mutato proposito
dell’agente o all’erronea convinzione di avere già
perfezionato il reato. Il tentativo si perfeziona non appena
compiuto quel minimum necessario e sufficiente di atti
idonei ed univoci e si consuma nel momento in cui viene
meno la possibilità del compimento dell’azione o del
verificarsi dell’evento (e, quindi, anche della desistenza e
del recesso);
b) un elemento positivo, consistente nel duplice requisito
della idoneità degli atti e della univoca direzione degli
stessi. La idoneità degli atti è il requisito primo per la
pericolosità del tentativo, intendendo per tali gli atti che si
presentano adeguati alla realizzazione del delitto perfetto,
in quanto potenzialmente idonei a causarne o favorirne la
verificazione.
La univocità degli atti è, poi, l’ulteriore requisito limitativo
avente la funzione di assicurare il concreto pericolo di
realizzazione del delitto e, quindi, di riportare il tentativo
punibile entro limiti ragionevoli, intendendo per “univocità
di direzione degli atti” la loro attitudine a fondare un
giudizio probabilistico sulla realizzazione del delitto
perfetto e, quindi, anche sulla verosimile intenzione
dell’agente di portare a termine il proprio proposito
criminoso.
Tali elementi devono, comprensibilmente, essere valutati con
un giudizio ex ante, ponendosi cioè al momento in cui il soggetto
agente ha iniziato la propria condotta, valutando tutte le
circostanze realmente esistenti nel singolo caso concreto.
L’UNITA’ E LA PLURALITA’ DI REATI
Si ha concorso di reati quando un individuo vìola più volte la
legge penale e, conseguentemente, viene chiamato a rispondere
contemporaneamente di più reati.
Il concorso di reati può essere sia un concorso formale sia un
concorso materiale.
Nel caso di concorso materiale, l’agente pone in essere più
reati con una pluralità di azioni o di omissioni. Il concorso
materiale può, peraltro, essere omogeneo – se viene violata più
volte la medesima norma penale – ovvero eterogeneo – se vengono
violate norme diverse.
In ordine al criterio scelto dal legislatore per l’applicazione
della sanzione da irrogare in concreto in caso di concorso materiale
16
di reati, è previsto il c.d. cumulo materiale temperato, consistente
nel cumulo materiale delle pene al quale, però, sono apportati
temperamenti consistenti nell’impossibilità di superare un limite
massimo di pena preventivamente fissato.
Diversamente, nell’ipotesi di concorso formale (sia esso
omogeneo sia eterogeneo), il soggetto realizza una pluralità di reati
(dolosi, colposi o dolosi e colposi) con una sola azione od omissione
che, da un punto di vista sanzionatorio, viene regolata dal
principio del c.d. cumulo giuridico stante la previsione di cui all’art.
81, primo comma c.p. a norma del quale “E’ punito con la pena che
dovrebbe infliggersi per la violazione più grave aumentata fino al
triplo chi con una sola azione od omissione viola diverse disposizioni
di legge ovvero commette più violazioni della medesima
disposizione”.
Diverso è, invece, il concetto di reato continuato, previsto e
disciplinato all’art. 81, secondo e terzo comma c.p. secondo il quale
“Alla stessa pena soggiace chi con più azioni od omissioni, esecutive
di un medesimo disegno criminoso, commette anche in tempi diversi
più violazioni della stessa norma o di diverse disposizioni di legge.
Nei casi preveduti da questo articolo, la pena non può essere
superiore a quella che sarebbe applicabile a norma degli articoli
precedenti”, così considerando le distinte violazioni di legge come
un unico reato.
Tre sono, dunque, i requisiti del reato continuato:
1. il medesimo disegno criminoso, che rappresenta il
coefficiente psicologico capace di unire episodi criminosi
distinti e che sostanzia l’elemento di distinzione tra il
reato continuato ed il concorso di reati.
Affinché possa ragionevolmente parlarsi di medesimo
disegno criminoso è necessaria e sufficiente la iniziale
programmazione e deliberazione di compiere una pluralità
di reati in vista del conseguimento di un unico fine
prefissato sufficientemente specifico
2. più violazioni di legge, che possono consistere sia in più
violazioni della medesima norma sia di disposizioni di
legge diverse. La eventuale eterogeneità delle norme
violate, infatti, non inficia in modo alcuno la richiesta
identità del disegno criminoso, sempre che le ripetute
violazioni si presentino – comunque – come mezzi
utilizzati al fine del raggiungimento dell’obiettivo ultimo
alla cui realizzazione il soggetto mira.;
3. pluralità di azioni o omissioni.
IL CONCORSO DI PERSONE NEL REATO
La realizzazione di un reato può avvenire ad opera di una sola
persona ovvero di più persone, nel quale ultimo caso ricorre quella
che viene generalmente indicata come compartecipazione al reato o
17
compartecipazione criminosa, designata dal nostro codice penale
come concorso di persone nel reato.
Il concorso di persone nel reato è disciplinato dall’art. 110
c.p. il quale statuisce che “Quando più persone concorrono nel
medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo
stabilita”.
Il sistema penale attualmente vigente ha adottato il principio
della pari responsabilità dei concorrenti in ordine alla causazione
del reato (art. 110 c.p.) ammettendo – però – al tempo stesso la
possibilità di una concreta graduazione sia attraverso il
riconoscimento di specifiche aggravanti ed attenuanti, sia in virtù
del principio contenuto all’art. 133 c.p. che riconosce al Giudice il
potere di commisurare la pena in ragione della particolare
condizione di ogni singolo concorrente.
Nel nostro sistema penale gli elementi indispensabili per
l’esistenza del concorso criminoso sono:
1. la pluralità di persone. Affinché possa parlarsi di
concorso di persone nel reato è, chiaramente, necessario
che alla realizzazione della fattispecie materiale tipica di
reato concorrano più persone di quelle astrattamente
previste dalla legge come necessarie per la sussistenza del
particolare reato. Appare essere, dunque, una logica
deduzione affermare che nei reati monosoggettivi
saranno necessarie e sufficienti almeno due persone. Nei
reati plurisoggettivi (nei quali la presenza di più persone
rientra già nella tipicità del reato stesso) il concorso di
persone risulta essere ipotizzabile mediante l’apporto di
condotte atipiche rispetto alla fattispecie plurisoggettiva
di reato;
2. la realizzazione di un reato. Ritenuto che l’art. 110 c.p.
fa riferimento al concorso di persone nel reato, appare
evidente come il secondo elemento costitutivo del
concorso di persone sia rappresentato proprio dall’aver
posto in essere un fatto materiale di reato, consumato o
tentato. L’espresso riferimento alla nozione di reato
consente ragionevolmente di escludere che possa darsi
luogo a concorso ex art. 110 c.p. nel caso in cui due o più
persone si accordino allo scopo di commettere un reato e
questo non sia commesso, neanche nella forma del
tentativo punibile ex art. 56 c.p.. Alle medesime
conclusioni deve, peraltro, giungersi nell’ipostesi in cui
taluno istighi altri a commettere un reato, sia nel caso in
cui l’istigazione non sia accolta, sia nel caso in cui
l’istigazione venga accettata ma il reato non sia
commesso, poiché la mera istigazione ed il semplice
accordo sono – per l’ordinamento italiano – qualcosa
meno del tentativo punibile ex art. 56 c.p. che
18
rappresenta – già – il punto di partenza minimo affinché
possa parlarsi di responsabilità penalmente rilevante;
3. l’apporto o contributo causale dei concorrenti alla
causazione del fatto. Si ha partecipazione quando
l’agente, nella fase ideativa, preparatoria od esecutiva del
reato abbia apportato un contributo (materiale o morale)
necessario ed indispensabile ai fine della realizzazione del
reato, ovvero abbia partecipato con un contributo
agevolatore (morale o materiale) idoneo a facilitare la
realizzazione del reato, rendendo più probabile o anche
solo più facile o grave la realizzazione del reato;
4. la volontà di cooperare alla commissione del reato,
che rappresenta l’aspetto psicologico del concorso di
persone nel reato. Secondo il nostro codice è configurabile
sia un’ipotesi di concorso doloso nel reato doloso sia un
concorso colposo nel reato colposo.
PARTE II
2. IL SOGGETTO PASSIVO DEL REATO
Per soggetto passivo del reato si indente la persona offesa
dalla condotta materiale tipica di reato posta in essere dal soggetto
agente, il titolare del bene giuridico protetto dalla norma e
asseritamente violato dal reato, vale a dire la c.d. vittima del reato
la cui figura giuridica è regolata agli artt. 120 e ss. c.p. a norma del
quale “Ogni persona offesa da un reato, per cui non debba
procedersi d’ufficio o dietro richiesta o istanza, ha diritto di querela”.
L’accertamento e l’esatta individuazione della persona offesa
dal reato non risulta essere sempre operazione di facile
espletamento, considerato che – molto spesso – la condotta
criminosa reca contemporaneamente, almeno in astratto, danno a
più persone.
Per procedere a tale accertamento, è necessario verificare –
innanzitutto – quale sia l’interesse giuridico tutelato dalla norma
penale violata e chi ne sia il legittimo titolare.
Accertato ed individuato tale interesse si individua –
conseguentemente – in modo indefettibile anche la persona offesa
dal reato, titolare dell’interesse giuridico violato, considerato che
importanti esponenti della dottrina italiana hanno ritenuto di poter
definire il soggetto passivo del reato come quel soggetto “titolare
dell’interesse la cui offesa costituisce l’essenza del reato”4.
Non può, conseguentemente, essere considerata come persona
offesa dal reato chiunque subisca eventualmente un danno dal
reato, essendo tale soltanto ed esclusivamente il titolare del bene
4
F. ANTOLISEI, Op. cit., pag. 165
19
costituente oggetto giuridico del reato e, quindi, colui che subisce
l’offesa essenziale e necessaria per la sussistenza del reato.
Persona offesa dal reato può essere sia una individuo sia un
ente giuridico, così come può anche darsi il caso che più siano
contemporaneamente le persone offese dal reato.
Dalla persona offesa dal reato va, però, puntualmente distinto
il c.d. danneggiato, intendendosi per tale colui che – pur non
essendo il titolare del bene giuridico protetto dalla norma e leso dal
reato – ha, comunque, dovuto sopportare dei danni risarcibili in
ragione della condotta criminosa posta in essere dal reo,
legittimato a richiedere la restituzione ed il risarcimento.
La Giurisprudenza della Suprema Corte ha, peraltro, chiarito
come “La persona offesa dal reato alla quale spetta il diritto di
querela ai sensi dell’art. 120 c.p. è il titolare dell’interesse
direttamente protetto dalla norma penale, la lesione o esposizione a
pericolo del quale costituisce l’essenza del reato, e non anche il
titolare di interessi che solo in via eventuale sono pregiudicati
dall’azione delittuosa. Quindi, la nozione di persona offesa non
coincide con quella di danneggiato perché la prima riguarda un
elemento che appartiene alla struttura del reato, mentre la seconda
riflette le conseguenze privatistiche dell’illecito penale. Solo la
persona offesa è titolare del diritto di querela, mentre il danneggiato
è legittimato ad esercitare l’azione civile nel processo penale”5.
2.1. LE CONDIZIONI DI PROCEDIBILITA’. LA LEGITTIMAZIONE
A PRESENTARE DENUNCIA – QUERELA
L’attività della persona offesa può rilevare dopo la
consumazione del reato ai fini della perseguibilità e della concreta
punibilità del fatto, come nei non pochi casi di reati perseguibili a
querela o istanza di parte.
L’ordinamento penale processuale vigente, infatti, distingue
tra reati procedibili di ufficio e reati procedibili a querela della
persona offesa, in ragione del bene giuridico protetto dalla norma e
dell’interesse specifico dello Stato alla persecuzione penale della
particolare condotta, rimettendo – così – la procedibilità del reato
alla esclusiva volontà della persona offesa.
La querela rappresenta, quindi, “un atto processuale di natura
negoziale, con la quale il soggetto privato, titolare del relativo diritto,
indica, con dichiarazione unilaterale di volontà, il fatto per il quale
chiede che l’organo pubblico di giustizia inizi l’azione penale”6.
La normativa vigente non prevede alcuna specifica formalità in
ordine al contenuto della querela, limitandosi a stabilire all’art.
336 c.p.p. che “La querela è proposta mediante dichiarazione nella
quale, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, si
5
6
Cassazione Penale, 20.02.1987, Occhipinti, CP, 88, 852; GP, 88, III, 227.
Cassazione Penale, 17.01.1983, Werner, CP 84, 558; GP 84, III, 100.
20
manifesta la volontà che si proceda in ordine ad un fatto previsto
dalla legge come reato”.
Nonostante sia opinione largamente diffusa quella secondo la
quale – ai fini della procedibilità – la querela debba contenere la
c.d. “istanza di punizione”, la Cassazione, negli ultimi anni, ha
chiarito in modo pressoché uniforme come “la sussistenza della
volontà di punizione da parte della persona offesa, non richiede
formule particolari e può essere riconosciuta dal Giudice anche in
atti che non contengono la sua esplicita manifestazione; ne consegue
che tale volontà può essere riconosciuta anche nell’atto con il quale
la persona offesa si costituisce parte civile”7 ovvero nel fatto stesso
di recarsi presso gli Uffici dell’Autorità Giudiziaria al fine di
presentare querela.
La querela deve essere presentata personalmente dalla
persona offesa o dal suo legale rappresentante o, ancora, da un
suo procuratore speciale entro e non oltre il termine di tre mesi
dalla notizia del reato; è sufficiente che venga formalizzata anche
da uno soltanto dei soggetti passivi e si estende a tutti i
partecipanti al reato anche se presentata contro uno soltanto di
questi.
La querela non è esercitabile se vi è stata rinuncia espressa o
tacita, vale a dire un comportamento del soggetto passivo
incompatibile con la volontà di presentare querela.
Con la remissione di querela, vale a dire con la rinuncia alla
stessa in un momento successivo alla sua presentazione, il
soggetto passivo pone in essere una causa di estinzione del reato.
Pare opportuno, allora, chiarire a chi sia attribuita la
legittimazione a presentare denuncia – querela nell’ipotesi in cui
persona offesa dal reato sia il condominio generalmente e
complessivamente considerato.
La Giurisprudenza pare univocamente orientata nel ritenere
che – nell’ipotesi in cui persona offesa sia un ente di mera gestione
privo di personalità giuridica, come è appunto il condominio – “il
diritto di querela deve essere esercitato a mezzo di rappresentante
specialmente autorizzato dallo Statuto o da tutti insieme i condomini,
componenti dell’ente collettivo. Quando lo Statuto non preveda un
rappresentante speciale, il rappresentante ordinario dell’ente non ha
veste di querelarsi per l’ente stesso e deve essere munito della
procura speciale di tutti i componenti dell’ente medesimo”8.
In tema di legittimazione a proporre querela, infatti, per la
proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un
condominio di edifici, occorre la preventiva manifestazione di
volontà da parte dei condomini, volta a conferire all’Amministratore
7
8
Cassazione Penale, sentenza 19.10.2001, Cosenza, CP 03, 386
Cassazione Penale, sentenza 16.10.1950, Silvestri, GP 51, II, 274.
21
l’incarico di perseguire penalmente un soggetto in ordine ad un
fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune9.
Parimenti, però, ogni singolo condomino ha diritto di
presentare querela in ordine a reati commessi in danno del
condominio10.
Recentemente, la Suprema Corte di Cassazione è stata
chiamata a pronunciarsi circa la legittimazione dell’Amministratore
di condominio a presentare querela in ordine a reati in danno del
condominio.
La Cassazione ha sul punto chiarito come “(…) Il condominio di
edifici non è un soggetto giuridico dotato di personalità giuridica
distinta da quella dei suoi partecipanti (Cass. Civile, Sez. II,
sentenza 29.08.1997, n. 8257; Cass. Civile, II, sentenza
27.01.1997, n. 826; Cass. Civile, Sez. II, sentenza 12.03.1994, n.
2393), bensì uno strumento di gestione collegiale di interessi comuni
dei condomini, che non è suscettibile, in quanto tale, di essere
portatore di propri autonomi interessi direttamente protetti
dall’ordinamento penale, la cui violazione, prescindendo dalle
diverse formalità eventualmente imposte dalla natura ordinaria o
straordinaria dell’atto, possa consentire una legittimazione
all’esercizio del diritto di querela dell’amministratore che lo
rappresenta.
Un tale esercizio da parte dell’amministratore non è ipotizzabile,
inoltre, in relazione alla lesione degli interessi individuali, anche se
collettivi dei partecipanti, dal momento che l’amministratore esplica,
come mandatario dei condomini, soltanto le funzioni esecutive,
amministrative, di gestione e di tutela dei beni e servizi a lui
attribuite dalla legge, dal regolamento di condominio o
dall’assemblea, a norma degli artt. 1130 e 1131, comma primo c.c.,
ed esclusivamente nell’ambito di queste ha la rappresentanza degli
stessi e può agire in giudizio.
Non può, infatti, ricomprendersi la querela tra gli atti di gestione
dei beni o di conservazione dei diritti inerenti alla parti comuni
dell’edificio, anche se avente ad oggetto un fatto lesivo del
patrimonio condominiale, costituendo la stessa un presupposto della
validità del promovimento dell’azione penale e non un mezzo di
cautela processuale o sostanziale, ed il competere il relativo diritto in
via strettamente personale alla persona offesa dal reato esclude
anche che, in assenza dello speciale mandato, previsto dagli artt.
122 e 336 c.p.p., lo stesso possa essere esercitato da un soggetto
diverso dal suo titolare.
Corretta, pertanto, appare la decisione del Giudice che ha
negato, in assenza di una unanime manifestazione di volontà dei
condomini che si procedesse penalmente in ordine al fatto contestato
all’imputato e di un corrispondente unanime specifico incarico
9
Cassazione Penale, sentenza 29.11.2000, Panichella, CP 02, 1719.
Cassazione Penale, sentenza 9 giugno 1958, Cecchi, GP 59, II, 140.
10
22
conferito all’Amministratore, l’esistenza e la legittimazione del
rappresentante del condominio alla presentazione della querela (cfr.
Cassazione Penale, sentenza 16.10.1950, Silvestri)11”.
Pare opportuno sottolineare come la Giurisprudenza della
Suprema Corte di Cassazione sia oramai univocamente orientata
nel ritenere che “In tema di legittimazione a proporre la querela, per
la proposizione di una valida istanza di punizione da parte di un
condominio di edifici occorre la preventiva unanime manifestazione
di volontà da parte dei condomini volta a conferire
all’amministratore l'incarico di perseguire penalmente un soggetto in
ordine ad un fatto ritenuto lesivo del patrimonio comune”12
2.2. LA LEGITTIMAZIONE ALLA COSTITUZIONE DI PARTE
CIVILE IN GIUDIZIO
Alla persona offesa dal reato ovvero a colui che del reato ha
sopportato il danno risarcibile (c.d. danneggiato) l’ordinamento
processuale penale vigente riconosce il diritto di agire in giudizio
per il riconoscimento – a seguito dell’accertamento della
responsabilità penale del soggetto attivo – del risarcimento di tutti i
danni patiti in ragione della condotta di reato contestata
all’imputato.
Lo strumento attraverso il quale poter agire in sede penale per
formalizzare la propria richiesta di risarcimento danni è
rappresentato dalla costituzione di parte civile, disciplinata agli
artt. 74 e ss. c.p.p., che inserisce l’esercizio dell’azione civile
all’interno del processo penale.
L’art. 185 c.p. stabilisce, infatti, che “Ogni reato obbliga alle
restituzioni a norma delle leggi civili. (artt. 2043-2059 c.c.).
Ogni reato che abbia cagionato un danno patrimoniale o non
patrimoniale (art. 2059 c.c.) obbliga al risarcimento il colpevole e le
persone che a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto
di lui”.
In tema di parte civile, l’art. 74 c.p.p. dispone, innanzitutto,
che “l’azione civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno
di cui all’art. 185 c.p. può essere esercitata nel processo penale dal
soggetto al quale il reato ha recato danno ovvero dai suoi successori
universali, nei confronti dell’imputato e del responsabile civile”.
La legittimazione a costituirsi parte civile nel processo penale è
riconosciuta – dunque – al “soggetto” offeso o danneggiato dal
reato. Di conseguenza, tale legittimazione compete non solo ad una
persona fisica oppure ad un ente o associazione forniti di
personalità giuridica ma, altresì, ad un soggetto non munito di tale
personalità quale un comitato o una associazione non
riconosciuta. Inoltre, vengono indicati come soggetti legittimati
11
12
Cassazione Penale, Sez. II, 29.11.2000, Presidente dott. N. ZINGALE
Cassazione Penale, Sezione II, 05.01.2001, n. 6, Panichella.
23
anche i “successori universali” ricomprendendo in tal modo nella
previsione dell’art.74 c.p.p. la successione universale tra enti.
L’azione civile per il risarcimento del danno può essere
esercitata esclusivamente nel processo penale e non già nel
procedimento penale, così presupponendo necessariamente
l’intervenuto esercizio ai sensi degli artt. 405 ss. c.p.p. dell’azione
penale da parte del Pubblico Ministero.
L’art. 74 c.p.p. fa, infatti, riferimento al “processo penale” e
l’art. 79 c.p.p. prevede che la costituzione della parte civile possa
avvenire per “l’udienza preliminare e, successivamente, fino a che
non siano stati compiuti gli adempimenti previsti dall’art. 484 c.p.p.”
(vale a dire la costituzione delle parti in giudizio).
Tenuto conto del combinato disposto di cui agli artt. 185 c.p. e
74 e ss. c.p.p., si pone il problema se legittimato alla costituzione
di parte civile sia soltanto colui che ha subito un danno diretto
dalla condotta del soggetto agente ovvero possa ritenersi compreso
anche il danno indiretto e, conseguentemente, se ex art. 74 c.p.p.
possa costituirsi parte civile solo colui che abbia subito un danno
diretto ovvero anche chi abbia subito un danno indiretto.
La Suprema Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul
punto, ha chiarito come l’ammissibilità della costituzione di parte
civile sia subordinata al fatto che il danno risarcibile sia
conseguenza diretta ed immediata del reato, con ciò – però – non
volendo affermare che il soggetto danneggiato dal reato coincide
necessariamente con il soggetto titolare dell’interesse specifico
direttamente tutelato dalla norma violata.
Tale coincidenza, infatti, rappresenta la regola, ma la Corte di
Cassazione ha –comunque – lasciato intendere che in talune
situazioni può risultare legittimato a costituirsi parte civile anche
un danneggiato diverso dal soggetto passivo del reato, sempre che
il danno da questi subito sia diretto ed immediato.
Va da sé che il danneggiato diverso dalla persona offesa dal
reato dovrà essere titolare di una situazione soggettiva
giuridicamente protetta lesa dal comportamento criminoso
contestato all’imputato.
Pur non rilevandosi specifiche pronunce giurisprudenziali sul
punto, pare corretto ritenere che l’Amministratore di condominio
possa validamente rilasciare ad un difensore procura speciale ex
artt.76 ss. c.p.p. ai fini della costituzione di parte civile in giudizio
penale soltanto se – a sua volta – preventivamente e specificamente
autorizzato sul punto con delibera unanime dell’assemblea
condominiale, ritenuto che portatore dell’interesse giuridicamente
protetto e leso dal reato è solo ed esclusivamente il condominio.
24
PARTE III
3.1. I REATI IN PARTICOLARE
Come già anticipato, sulle caratteristiche generali della
responsabilità penale dell’amministratore condominiale non si
rilevano particolari differenze rispetto alla ordinaria e generale
disciplina codicistica di parte speciale dettata dal legislatore per
qualsivoglia altra persona, potendo questi incorrere in
responsabilità penale quando nell’esercizio delle sue funzioni (così
come nello svolgimento della sue quotidiane e personali mansioni)
si trovi a commettere dei reati.
Pare, innanzitutto, importante chiarire come ai fini della
sussistenza
della
responsabilità
penale,
la
figura
dell’amministratore condominiale non necessiti di una formale
nomina ovvero di un formale investimento di poteri, dovendo –
piuttosto – essere intesa in modo ampio così da ricomprendere
anche tutti quei soggetti che, comunque, svolgono un’attività di
amministrazione, come gli amministratori di fatto, il sostituto, il
curatore speciale, ecc.13.
Appare ad ogni modo opportuno evidenziare come –
nell’esercizio della sua attività professionale – l’Amministratore
possa incorrere più frequentemente in alcune determinate ipotesi
di reato.
3.1.1. I REATI DI TIPO COMUNE: a) IL DELITTO DI
INGIURIA E DIFFAMAZIONE
Alla luce delle premesse appena esposte, occorre distinguere
tra i reati di tipo comune che l’amministratore condominiale può
commettere da quelli più strettamente legati alle sua proprie
funzioni.
I reati comuni sono previsti e regolati dalle vigenti norme
contenute nel codice penale, sicché nessuna particolarità di rilievo
per gli amministratori si nota rispetto alla disciplina generale14.
Il primo gruppo di reati che vengono ad assumere rilievo sono
quelli relativi all’onore ed al decoro delle persone: vale a dire, il
delitto di ingiuria (regolato all’art. 594 c.p.) ed il delitto di
diffamazione (disciplinato dall’art. 595 c.p.).
L’ordinamento penale vigente prevede e sanziona, infatti,
alcuni reati che offendono l’onore, il decoro e la reputazione delle
persone, intendendo per “onore” il complesso di tutte quelle
condizioni da cui dipende il valore sociale della persona e delle
altre qualità che concorrono a determinare il pregio dell’individuo
nell’ambiente in cui vive.
13
14
Sul punto, particolare importanza ha rivestito la sentenza emessa dalla Cassazione Penale, 04.03.1969, n. 1562
A. DE RENZIS, A. FERRARI, A. NICOLETTI, R. REDIVO, “Trattato del Condominio”, Milano, CEDAM, 2004,
pag. 573
25
Diversamente, il “decoro” attiene alla dignità fisica, sociale ed
intellettuale di una persona, con la conseguenza che il bene
giuridico protetto può, in questi casi, essere offeso non soltanto da
frasi o espressioni direttamente e immediatamente ingiuriose, ma
anche da espressioni che – per la loro volgarità – colpiscano
l’individuo nel sentimento della sua dignità fisica, anche se
trascendenti la vera e propria ingiuria.
La “reputazione” è, invece, il senso della dignità personale
nell’opinione degli altri, la stima diffusa nell’ambiente sociale,
l’opinione che gli altri hanno del decoro e dell’onore di una
persona.
Il codice penale vigente disciplina all’art. 594 c.p. il delitto di
ingiuria, sanzionando la condotta di “Chiunque offende l’onore ed il
decoro di una persona presente”, parimenti punendo “chi commette
il fatto mediante comunicazione telegrafica o telefonica, o con scritti
o disegni diretti alla persona offesa”, prevedendo un aumento di
pena nell’ipotesi in cui “l’offesa consista nell’attribuire un fatto
determinato” ovvero “sia commessa in presenza di più persone”.
Il successivo art. 595 c.p. disciplina, invece, il delitto di
diffamazione, sanzionando la condotta di “Chiunque – fuori dai casi
indicati nell’art. 594 c.p. – comunicando con più persone, offende
l’altrui reputazione”, prevedendo – anche in questo caso – un
aumento di pena per l’ipotesi in cui “l’offesa consista nell’attribuire
un fatto determinato” ovvero sia recata “con il mezzo della stampa o
di qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico” o,
ancora, se “l’offesa è arrecata ad un Corpo politico, amministrativo o
giudiziario o ad una sua rappresentanza, o ad un’Autorità costituita
in collegio”.
Appare evidente, dunque, come l’elemento discriminante tra le
due diverse ipotesi di reato consista nella presenza o meno della
persona offesa, vale a dire di colui al quale sono, in concreto,
indirizzate le offensive affermazioni, considerando – peraltro – come
più grave l’ipotesi del delitto di diffamazione stante l’assenza
dell’interessato e – conseguentemente – l’impossibilità per lo stesso
di potersi difendere, giustificare o, più semplicemente, rispondere
al biasimo che gli viene rivolto.
Fatta eccezione per quelle espressioni incontestabilmente e
convenzionalmente considerate come “offesa”, sembra opportuno
evidenziare come – talvolta – il significato della manifestazione
offensiva, per quanto collegato con le parole pronunciate o scritte
ovvero con i gesti effettuati, possa assumere un diverso valore e
significato in relazione al contesto e alla persona alla quale è
rivolta.
In questi casi, infatti, il senso dell’espressione utilizzata
dipende fortemente sia dall’ambiente in cui il fatto si svolge sia
dall’opinione mediamente accolta dalla generalità delle persone in
un determinato contesto storico-sociale.
26
A titolo meramente esemplificativo, indicare – ad esempio – un
condomino come “moroso” nel corso di un’assemblea condominiale,
nella quale si esamina la situazione economica e si verifica la
regolarità dei dovuti pagamenti, rappresenta un modo
giuridicamente corretto e sintetico per indicare colui che non ha,
ancora, ottemperato ai richiesti versamenti.
Utilizzare – però – la medesima espressione come epiteto o
appellativo per individuare ed additare malamente qualcuno, al di
fuori dello specifico contesto in cui questo aspetto assume
rilevanza e fuori dai casi in cui la situazione contributiva del
condomino stesso rappresenti un elemento di particolare interesse,
potrebbe assumere i caratteri della condotta materiale tipica di
reato sopra meglio descritta e punita agli artt. 594 e 595 c.p.
Questo a conferma del fatto che il valore offensivo di
un’espressione riveste – in molti casi – carattere estremamente
relativo, variando notevolmente con i tempi, i luoghi e le
circostanze in cui l’azione si sviluppa.
Anche la Suprema Corte di Cassazione, chiamata a
pronunciarsi sul punto, ha – infatti – chiarito che “In materia di
ingiuria verbale occorre distinguere tra le espressioni di per sé
obiettivamente lesive dell’onore e del decoro, tali cioè da offendere
per il loro significato qualunque persona in quanto titolare di questi
beni, e le espressioni che, non avendo di per sé tale carica
ingiuriosa, possano acquistarla in relazione a particolari circostanze,
come la personalità delle parti, i rapporti tra loro eventualmente
intercorrenti, l’ambiente in cui il fatto si svolge, gli antecedenti del
fatto stesso e così via”15.
Così, ad esempio, non è lecito dare del “ladro” ad un individuo
che abbia riportato una condanna per furto, né dire “sciancato” ad
una persona che presenta un tale difetto fisico, poiché la verità
della qualifica o del fatto attribuito ad una persona non esclude, di
per sé, il carattere offensivo dell’azione. Anche lo sciancato ed il
ladro hanno, infatti, diritto di essere rispettati e di non subire
umiliazioni che non siano necessarie, potendo la verità del fatto
escludere l’illegittimità della condotta solo nei casi espressamente
previsti e stabiliti dalla legge.
Ritenuto, poi, che il condominio riveste per l’ordinamento
vigente natura di “ente – di fatto – di gestione”, sia pure privo di
personalità giuridica e privo di autonomia patrimoniale, esso
stesso può – nel suo complesso e nella indeterminata generalità dei
suoi componenti – essere considerato, in quanto rappresentativo di
un interesse collettivo unitario ed indivisibile in relazione alla
finalità perseguita, quale persona offesa nel delitto sia di ingiuria
sia di diffamazione, non essendo – peraltro – preclusa la
configurabilità di una concorrente offesa all’onore o al decoro delle
singole persone che del condominio fanno parte.
15
Cassazione, 17.03.1978, Dufferin, CED 139491; Cassazione, 29.03.1978, Vecchiet, ivi 139036.
27
La Cassazione ha, infatti, chiarito come “Possono assumere la
veste di soggetti passivi dei delitti contro l’onore anche le persone
giuridiche, le associazioni non riconosciute e gli enti di fatto”16 “e non
è preclusa la configurabilità di una concorrente offesa all’onore e
alla reputazione delle singole persone che dell’ente fanno parte”17.
Ne deriva che, esprimere valutazioni offensive, qualificazioni
degradanti o considerazioni ingiuriose nei confronti del condominio
complessivamente considerato, con espressioni del tipo “E’
un’accolta di filibustieri” potrebbe assumere i caratteri del reato di
ingiuria o diffamazione.
Peraltro, in sede giurisprudenziale si è discusso soprattutto
dell’avviso di convocazione dell’assemblea del condominio redatto
dall’Amministratore, il cui contenuto deve essere pubblicizzato
mediante affissione nell’atrio dell’edificio condominiale. In relazione
a tale fattispecie è stato deciso che l’avviso, contenente all’ordine
del giorno la comunicazione che un condomino era stato
denunciato dall’Amministratore e quindi iscritto nel registro degli
indagati ex art. 335 c.p.p., costituisce comunicazione a più
persone e integra il delitto di diffamazione, in quanto anche
persone estranee al condominio possono venire a conoscenza della
qualità di indiziato di reato in capo ad un condomino18.
3.1.2. Segue: b) IL DELITTO DI VIOLAZIONE DI DOMICILIO
Il delitto di violazione di domicilio è sanzionato all’art. 614 c.p.
a norma del quale “Chiunque si introduce nell’abitazione altrui, o in
altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la
volontà espressa o tacita di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero si
introduce clandestinamente o con inganno, è punito con la reclusione
fino a tre anni.
Alla stessa pena soggiace chi si trattiene in detti luoghi contro
l’espressa volontà di chi ha diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene
clandestinamente o con l’inganno.
Il delitto è punibile a querela della persona offesa.
La pena è da uno a cinque anni, e si procede d’ufficio, se il fatto
è commesso con violenza sulle cose o alle persone, ovvero se il
colpevole è palesemente armato”.
Il delitto si consuma nella prima forma, con l’introdursi nel
luogo di privata dimora contro la volontà del titolare del diritto di
escluderlo oppure in modo clandestino o con l’inganno; nella
seconda forma, il delitto può considerarsi come consumato
allorché il soggetto, già presente all’interno di uno dei luoghi
specificamente indicati dalla norma, ivi si trattenga contro la
volontà del titolare del diritto di escluderlo o allontanarlo ovvero in
uno degli altri modi suddetti penalmente sanzionati.
16
Cassazione, 11.03.1980, Novi, CPMA 81, 746; GP 80, II, 593.
Cassazione, 24.11.1988, Scalfari, CP 89, 593.
18
Cassazione penale, 08.06.1973, n. 4562.
17
28
L’elemento psicologico del reato in esame consiste nel dolo
generico, vale a dire nella semplice coscienza e volontà di
introdursi o trattenersi all’interno della altrui dimora in modo
clandestino o con l’inganno ovvero, ancora, con la consapevolezza
del dissenso del soggetto passivo titolare del menzionato, e
protetto, diritto di esclusione.
Per quanto specificamente attiene l’attività professionale
dell’Amministratore di condominio, pare opportuno evidenziare
come all’Amministratore non sia consentito di introdursi o
trattenersi nell’appartamento di un condomino, contro la volontà di
costui, ad esempio con l’obiettivo di verificarne la superficie
radiante.
In questo caso, infatti, la condotta dell’Amministratore non
potrebbe ritenersi scriminata dall’adempimento di un dovere, così
come previsto e disciplinato dall’art. 51 c.p., neanche nell’ipotesi in
cui avesse agito, ad esempio, in esecuzione di un incarico
formalmente ricevuto dall’assemblea condominiale.
Di fronte all’atteggiamento di resistenza del condomino che
non permette l’ingresso nel suo appartamento, infatti,
l’Amministratore non può porre in essere una condotta di
imposizione, dovendo – piuttosto – desistere e rivolgersi al Giudice.
3. Segue: c) IL DELITTO DI APPROPRIAZIONE INDEBITA
L’art. 646 c.p. disciplina il delitto di appropriazione indebita
stabilendo che “Chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto
profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a
qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa,
con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino ad €1.032.
Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito
necessario, la pena è aumentata.
Si procede d’ufficio, se ricorre la circostanza indicata nel
capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate al n. 11
dell’art. 61 c.p”.
Tale disposizione normativa completa la fattispecie criminosa
del furto, previsto e punito agli artt. 624 e ss. c.p.: entrambe le
norme, infatti, tutelano le cose mobili altrui.
Mentre, però, il delitto di furto implica nell’autore del reato la
mancanza del preventivo possesso della cosa oggetto di sottrazione,
consistendo il reato nel fatto di procurarselo indebitamente,
l’appropriazione indebita presuppone – invece – che l’agente sia già
in possesso delle cose medesime.
Presupposto indefettibile per la configurabilità della fattispecie
criminosa in esame è, quindi, il possesso a qualsiasi titolo da parte
del soggetto agente del denaro o di altra cosa mobile altrui.
Secondo la maggioritaria Giurisprudenza, espressa nel corso degli
anni dalla Suprema Corte di Cassazione, la nozione di possesso cui
fa riferimento l’art. 646 c.p. trova soddisfazione nella mera
attribuzione al soggetto della qualità di possessore e, quindi, nella
29
concessa facoltà da parte del proprietario di disporre della cosa
fuori dalla sua sfera di sorveglianza19.
Si è anche precisato come, ai fini della configurabilità del reato
in esame, il soggetto agente debba essere venuto in possesso del
denaro altrui o della cosa mobile altrui in modo legittimo, vale a
dire senza sottrazione, frode o violenza, pur essendo assolutamente
ininfluente ai fini della ricorribilità della responsabilità penale la
qualificazione civilistica del rapporto dal quale il possesso ha,
originariamente, tratto origine.
Sembra superfluo sottolineare come l’appropriazione consista
non solo nel fare atti di disposizione sulla cosa uti dominus, vale a
dire come se si trattasse di cosa di proprietà, ma si manifesti
anche con il dare alla cosa una destinazione incompatibile con il
titolo e le ragioni che ne giustificano il possesso, ovvero mediante
rifiuto ingiustificato della restituzione.
Appropriarsi di una cosa altrui – ai fini della sussistenza del
reato in esame – significa, dunque, comportarsi verso l’oggetto
posseduto come se fosse proprio.
Il delitto si consuma nel momento in cui avviene
l’appropriazione del denaro o della cosa mobile altrui, non
occorrendo anche che l’agente abbia effettivamente conseguito un
profitto. Ritenuto, poi, che l’omessa o ritardata restituzione della
cosa, non accompagnata da un concreto atto di disposizione della
stessa, non integra gli estremi dell’appropriazione, porta ad
escludere la possibile configurabilità dell’ipotesi del tentativo di
reato punibile ai sensi dell’art. 56 c.p.
L’elemento soggettivo del reato in esame consiste in un dolo
specifico dovendo il soggetto agire al fine di trarre un ingiusto
profitto.
Può chiaramente accadere che l’Amministratore si appropri di
somme di denaro o di altri beni di spettanza del condominio ovvero
ricevuti dal condominio per l’espletamento di attività o pagamenti
da effettuare favore dell’ente e, proprio in ragione della specifica
attività professionale svolta, sono sorte in Giurisprudenza
questioni circa la configurabiltà dell’aggravante di cui all’art. 61, n.
11 c.p..
Il riconoscimento di tale aggravante ha grande rilievo, in
quanto il delitto di appropriazione indebita aggravata è reato
perseguibile d’ufficio, diversamente dall’ipotesi di reato che
semplice che è, invece, perseguibile soltanto a querela della
persona offesa dal reato.
La prospettata questione non ha avuto in Giurisprudenza una
univoca soluzione poiché in alcune pronunce è stato sostenuto che
l’aggravante in parola ricorre quando il soggetto attivo del reato ha
19
Cassazione Penale, sentenza 17.06.1988, n. 7079.
30
violato la fiducia in lui riposta, il che può avvenire in presenza di
un mandato20.
In altre decisioni è stato invece affermato che l’aggravante in
questione presuppone la formazione tra le parti di uno stabile
rapporto di natura lavorativa che non si può identificare con il
semplice mandato21.
Con riguardo, però, alla specifica figura dell’Amministratore la
Cassazione
ha
chiarito
espressamente
la
configurabiltà
dell’appropriazione indebita aggravata nel caso di mancata resa del
conto e di mancata restituzione del denaro di proprietà dei
condomini22.
La Suprema Corte, infatti, con orientamento pressoché
uniforme ha, infatti, stabilito che la circostanza di cui all’art. 61, n.
11 è “sempre ricorrente nell’ambito di rapporti giuridici che
comportino l’obbligo di un facere e vi sia tra le parti un rapporto di
fiducia che agevoli la commissione del fatto, a nulla rilevando la
sussistenza o meno di un vincolo di subordinazione e dipendenza
(per tutte Cass., Sez. II, ud. 20 maggio 1988, 181.994). Situazione
fiduciaria ancor più pregnante nel caso di specie proprio per essere
l’amministratore soggetto "interno" al condominio”23.
3.1.4. Segue: d) IL DELITTO DI OMICIDIO COLPOSO ED IL
DELITTO DI LESIONI COLPOSE
In danno dell’Amministratore possono, altresì, prospettarsi i
delitti di omicidio colposo (art. 589 c.p.) e di lesioni colpose (art.
590 c.p.) come diretta conseguenza della omissione delle
necessarie misure di sicurezza (ad esempio degli impianti elettrici
condominiali), nonché della mancata effettuazione di lavori urgenti
relativi alle parti comuni condominiali (come ad esempio caduta di
un cornicione pericolante, distacco di intonaci, ecc.).
L’art. 589 c.p., stabilisce, infatti, che “Chiunque cagiona per
colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi
a cinque anni.
(…) Nel caso di morte di più persone, ovvero di morte di una o
più persone e di lesioni di una o più persone, si applica la pena che
dovrebbe infliggersi per la più grave delle violazioni commesse
aumentata fino al triplo, ma la pena non può superare gli anni
dodici”.
Gli elementi oggettivi costitutivi della fattispecie materiale
tipica dell’omicidio colposo sono gli stessi dell’omicidio doloso, con
l’unica differenza che nell’ipotesi prevista dall’art. 589 c.p. l’agente
non solo non vuole la morte della vittima, ma neanche l’evento
lesivo da cui deriva la morte. L’omicidio colposo sussiste, pertanto,
in tutti quei casi in l’agente compie per negligenza, imperizia,
20
Cassazione Penale, sentenza 31.05.1974, n. 3866; Cassazione Penale 02.02.1972, n. 630.
Cassazione Penale, sentenza 17.03.1971, n. 978.
22
Cassazione Penale, sentenza 13.07.1966.
23
Cassazione Penale, Sez. II, 20.09.1999, n. 11264, Vitanza.
21
31
imprudenza ovvero per violazione o inosservanza di leggi,
regolamenti, ordini e discipline, un atto da cui deriva – poi – la
morte di una persona.
In tema di omicidio colposo assume una particolare rilevanza
il problema della causalità omissiva, ritenuto che nei reati omissivi
– per accertare o meno la sussistenza del necessario nesso di
causalità tra condotta ed evento – non si può far riferimento ad un
accertamento positivo di fatto, dovendo – piuttosto – fondarsi
l’accertamento su un giudizio ipotetico, ricostruendo – sulla base
della migliore tecnica, scienza, conoscenza ed esperienza del
momento storico – cosa sarebbe successo laddove, invece, fosse
stata compiuta l’azione doverosa, in concreto omessa.
Tale accertamento, generalmente indicato come giudizio
controfattuale, porta a ritenere sussistente la responsabilità per
omissione e, dunque, il nesso di causalità tra l’evento e la mancata
attivazione del soggetto che era tenuto a attivarsi, quando l’azione,
correttamente e tempestivamente intervenuta, avrebbe avuto serie
ed apprezzabili possibilità di successo nell’evitare l’evento di reato.
Il successivo art. 590 c.p., in tema di lesioni colpose, dispone
che “Chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione è punito con
la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino ad € 309.
Se la lesione è grave la pena è della reclusione da uno a sei
mesi o della multa da € 123 a € 619 ; se è gravissima, della
reclusione da tre mesi a due anni o della multa da € 309 ad €
1.239.
(…) Nel caso di lesione di più persone si applica la pena che
dovrebbe infliggersi per la più grave della violazione commesse,
aumentata fino al triplo; ma la pena della reclusione non può
superare gli anni cinque”.
Secondo le disposizioni normative vigenti le lesioni sono:
- lievissime, se ne deriva una malattia di durata non
superiore a venti giorni;
- lievi, se la durata della malattia patita dalla vittima ha
una durata compresa tra venti e quaranta giorni;
- gravi, se dal fatto deriva una malattia che metta in
pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o
incapacità ad attendere alle ordinari occupazioni per un
tempo superiore a quaranta giorni o – ancora – se ne
consegue l’indebolimento permanente di un senso o di un
arto;
- gravissime, se dal fatto deriva una malattia certamente o
probabilmente insanabile; la perdita di un senso; la
perdita di un arto, una mutilazione che lo renda
inservibile, la perdita dell’uso di un organo o della
capacità di procreare ovvero una permanente e grave
difficoltà della favella; la deformazione ovvero lo sfregio
permanente del viso.
32
Il delitto di lesioni colpose è un delitto a consumazione
istantanea con evento di danno che si consuma con il verificarsi
della lesione, benché gli effetti siano eventualmente permanenti.
Le lesioni colpose – a prescindere dalla gravità delle stesse –
sono sempre perseguibili a querela della persona offesa, fatta
eccezione per le ipotesi di lesioni riportate a seguito della violazione
delle disposizioni sulla circolazione stradale, sulla prevenzione
degli infortuni sul posto di lavoro o che abbia determinato una
malattia professionale.
In entrambi i casi l’elemento soggettivo è la colpa e non è
ipotizzabile il tentativo punibile ex art. 56 c.p. stante
l’incompatibilità con l’elemento psicologico e la mancata espressa
previsione di delitti colposi tentati.
3.1.5. Segue: e) I DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA
Il titolo VII del Libro II del codice penale è intitolato “Dei delitti
contro la fede pubblica”. Tale titolo è, a sua volta, diviso in quattro
capi:
- Capo I: Della falsità in monete, in carte di pubblico
credito e in valori di bollo;
- Capo II: Della falsità in sigilli o strumenti o segni di
autenticazione, certificazione o riconoscimento;
- Capo III: Della falsità in atti;
- Capo IV: Della falsità personale.
I reati che, in particolare, possono interessare la figura
professionale dell’Amministratore del condominio sono
quelli
disciplinati al Capo III in ordine alla falsità degli atti, tenendo –
comunque – presente che il bene giuridico generalmente tutelato
nel Titolo del codice penale relativo ai delitti di falso è la fede
pubblica, intesa come la fiducia che l’ordinamento ripone in
determinati oggetti o simboli, sulla cui genuinità o autenticità deve
potersi fare affidamento al fine di rendere certo o sollecito lo
svolgimento del traffico economico e giuridico.
Di fondamentale importanza ai fini della corretta definizione
dei reati contro la fede pubblica è la distinzione tra:
1. falso
materiale, consistente nella contraffazione
dell’oggetto, del documento, ecc. che ricorre – quindi –
quando il documento non è genuino;
2. falso ideologico, consistente nella alterazione volontaria
del contenuto ad esempio di atto nella consapevolezza
della non veridicità di quanto in esso riportato, che ricorre
quando il documento non è veritiero.
Ai fini della punibilità dei delitti di falso assumono – poi –
particolare rilevanza i concetti di:
a) falso
grossolano,
consistente
nel
falso
macroscopicamente rilevabile e, quindi, non idoneo a
trarre in inganno persona alcuna;
33
b) falso innocuo, che – se pure non grossolano – non risulta
essere in concreto idoneo a ledere la genuinità o la
veridicità del documento;
c) falso inutile, consistente nella falsificazione di un
documento già di per sé giuridicamente inesistente.
Prima di trattare le fattispecie di reato previste dal Capo III del
Titolo VII, poste a tutela della fede pubblica documentale, intesa
come fiducia e sicurezza che la legge attribuisce a determinati
documenti, è necessario delineare la nozione di documento.
A tal proposito, si precisa che non tutti i documenti sono
tutelati dalla norma penale, ritenuto che le norme in esame
tutelano solo gli atti pubblici e le scritture private.
Ai fini della tutela penalistica, quindi, documento è ogni
scrittura riportata sopra un mezzo idoneo, dovuta ad autore
determinato, atto a suffragare una pretesa giuridica o a provare un
fatto giuridicamente rilevante.
I requisiti del documento sono la forma scritta, l’espressione di
un pensiero, la riconoscibilità del suo autore o della provenienza,
la pretesa giuridica ovvero il fatto giuridicamente rilevante.
Per l’ordinamento vigente, sono atti pubblici ai fini penali:
1. tutti gli atti pubblici che sono tali anche per il diritto
civile (cfr. artt. 2699, 2700 c.c.);
2. tutti gli atti interni dei pubblici uffici, quando hanno
attitudine ad assumere carattere probatorio e rilevanza
esterna ai fini della documentazione di fatti inerenti
l’attività spiegata e la regolarità delle operazioni
amministrative dell’ufficio pubblico cui i loro autori sono
addetti;
3. tutti gli atti in cui si concreta la corrispondenza ufficiale
degli organi della pubblica amministrazione;
4. tutti gli atti redatti dai pubblici impiegati incaricati di un
pubblico servizio nell’esercizio delle loro attribuzioni.
La categoria delle scritture private ha, chiaramente, carattere
residuale: sono scritture private, infatti, tutti i documenti che non
presentano le caratteristiche dell’atto pubblico.
La nozione di scrittura privata, tuttavia, non deve essere
ristretta alla sola categoria degli atti che contengono una
dichiarazione di volontà, dovendosi – piuttosto – estendere a tutte
quelle scritture formate dal privato per assolvere una funzione
probatoria di situazioni dalle quali possono derivare effetti
giuridicamente rilevanti.
Come noto, nel condominio si pone l’esigenza sia di
documentare, ai fini della gestione amministrativa, i rapporti
interni tra i condomini sia quelli esterni tra il condominio ed i terzi
estranei.
Tale necessità trova la sua giustificazione nella necessità di
porre i condomini nella condizione di controllare puntualmente
l’attività dell’Amministratore e assicurare la continuità della
34
gestione, consentendo all’Amministratore subentrante di conoscere
quanto compiuto nel periodo precedente dal suo predecessore.
Il codice civile non prevede alcuna specifica ed organica
disciplina relativa ai criteri che l’Amministratore deve seguire nella
gestione, né stabilisce quali registri o documenti questi sia tenuto
a formare o conservare, potendo – di conseguenza – le norme
regolamentari dettare una disciplina particolareggiata indicando
quali registri debbano essere tenuti e come debba essere redatta la
contabilità.
Dalla normativa del codice civile si deduce che
l’Amministratore è obbligato a tenere due soli registri: il primo si
riferisce alla trascrizione delle deliberazioni dell’assemblea dei
condomini (art. 1136 c.c.), il secondo concerne l’annotazione del
regolamento di condominio nonché della nomina e cessazione, per
qualsiasi causa, dell’Amministratore (artt. 1129 e 1138).
Quanto al registro ex art. 1136 c.c. va osservato che
l’Amministratore è tenuto ad effettuare la trascrizione delle delibere
assembleari e, ove tale registro manchi, l’Amministratore stesso
deve istituirlo, venendo meno in caso contrario al suo dovere di
diligenza fissato all’art. 1710 c.c.
L’art. 485 c.p. punisce “Chiunque, al fine di procurare a sé o ad
altri un vantaggio o di recare ad altri un danno, forma, in tutto o in
parte, una scrittura privata falsa, o altera una scrittura privata vera,
e poi ne faccia uso o lasci che altri ne faccia uso”, considerando
come alterazioni anche le aggiunte falsamente apposte a una
scrittura vera, dopo che questa fu definitivamente formata.
Poiché il fatto materiale di reato consiste nella contraffazione o
nell’alterazione, escludendo, quindi, la genuinità e non la veridicità
del documento, è evidente che il reato in esame è una ipotesi di
falso materiale.
L’uso necessario a consumare il reato si ha quando la
scrittura privata falsa viene concretamente utilizzata, essendo
necessario – di conseguenza – che il documento venga destinato in
concreto a produrre effetti nell’ambito di un particolare rapporto
giuridico.
L’elemento psicologico del reato consiste in un dolo specifico,
dovendo il soggetto agente non soltanto volere la falsificazione, con
la consapevolezza di offendere gli interessi protetti, ma deve avere
anche l’intenzione di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di
recare ad altri un danno mediante l’utilizzo dei quel documento.
L’art. 489 c.p. punisce “Chiunque, senza essere concorso nella
falsità, fa uso di un atto falso”.
Tra gli atti compresi nella previsione legislativa rientrano
anche i fogli firmati in bianco da altri riempiti e non per ordine di
chi ne fa uso, nonché gli atti pubblici e privati da altri falsificati.
La condotta materiale tipica di reato consiste nell’uso
volontario dell’atto, consumandosi il reato con l’uso senza che
35
occorra altresì il verificarsi di evento alcuno, come per esempio il
danno a terzi.
In ordine all’elemento psicologico del reato, occorre distinguere
alcune ipotesi:
- se l’atto falso utilizzato è un atto pubblico, basta il dolo
generico, vale a dire la semplice coscienza e volontà
dell’uso con la consapevolezza della falsità in atto;
- se l’atto falso è una scrittura privata, occorre il dolo
specifico, cioè il fine di procurare, con l’uso del
documento, a sé o ad altri un vantaggio o di cagionare ad
altri un danno.
L’art. 490 c.p., infine, punisce il reato di soppressione,
distruzione o occultamento di atti veri, punendo “Chiunque, in tutto
o in parte, distrugge, sopprime od occulta un atto pubblico o una
scrittura privata veri”.
L’antigiuridicità del fatto è esclusa soltanto quando l’agente
aveva la piena disponibilità giuridica del documento e non aveva
alcun obbligo di restituirlo o esibirlo.
Il delitto si consuma con la distruzione, soppressione od
occultamento; non è richiesto che in concreto vi sia stato un
danno, essendo sufficiente ai fini della configurabilità dell’ipotesi
delittuosa il semplice potenziale nocumento24.
Ritenuta la descrizione della condotta materiale tipica di reato,
sembra corretto ipotizzare l’applicazione della disciplina del
tentativo ex art. 56 c.p.
In ordine, poi, all’elemento psicologico del reato si tratta di un
dolo specifico dovendo l’agente commettere il reato al fine di
eliminare un mezzo di prova.
3.1.6. Segue: f) IL DELITTO DI VIOLENZA PRIVATA
L’art. 610 c.p. prevede e disciplina il delitto di violenza privata
sancendo che “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe taluno a
fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione
fino a quattro anni”, stabilendo – poi – un aumento di pena per
l’ipotesi in cui ricorra alcuna delle circostanze previste all’art. 339
c.p. ovvero il reato sia commesso mediante l’uso di armi, da
persona travisata, da più persone riunite, con scritto anonimo o in
modo simbolico ovvero usando la forza intimidatrice derivante da
associazioni segrete, esistenti o supposte.
Il delitto in esame rappresenta un’ipotesi di reato sussidiario,
nel senso che un determinato fatto sarà punibile a titolo di violenza
privata solo se non specificamente previsto come elemento
costitutivo o circostanza aggravante di altro reato. Così, ad
esempio, se la violenza è diretta ad ottenere un ingiusto profitto
24
Cassazione Penale, sentenza 24.06.1980.
36
con altrui danno ricorre il delitto di estorsione e non già quello di
violenza privata25.
L’elemento materiale nel reato in esame consiste, dunque, in
una violenza o minaccia che abbia l’effetto di costringere taluno a
fare, tollerare ovvero omettere una determinata cosa, senza alcuna
giustificazione giuridica.
Il delitto si consuma nel momento in cui la volontà della
persona offesa risulti essere stata coartata e quest’ultima sia
rimasta – di fatto – costretta a fare, tollerare o omettere una cosa
voluta dal soggetto agente.
Alla
luce
delle
caratteristiche
giuridiche
che
contraddistinguono l’istituto del tentativo punibile ex art. 56 c.p.,
pare possibile ritenere che sia ipotizzabile rispetto al reato di
violenza privata l’ipotesi del delitto tentato, ritenuto trattarsi di un
reato di danno a carattere commissivo rispetto al quale non può
escludersi l’eventualità che, malgrado la violenza o la minaccia
posta in essere dal soggetto agente, il costringimento non si sia
verificato.
Per quanto riguarda, infine, l’elemento psicologico del reato
sembra superfluo sottolineare come si tratti di dolo generico,
rilevando non già il fine per il quale il soggetto agisce ma la sola
consapevolezza di agire nonostante il dissenso della persona offesa.
Pur se non direttamente afferente l’attività professionale
dell’Amministratore di condominio, pare opportuno richiamare per
doverosa completezza espositiva una recente sentenza della Corte
di Cassazione riportante l’uniforme orientamento giurisprudenziale
in ordine all’incivile utilizzo dei parcheggi condominiali.
In particolare, la Quinta Sezione Penale della Suprema Corte
di Cassazione con sentenza del 20.04.2006, n. 16571 ha chiarito
come il parcheggio irregolare in area condominiale possa integrare
il delitto di violenza privata.
Nel caso particolare, l’imputato si era introdotto con la propria
vettura in altrui area condominiale ed aveva parcheggiato il mezzo
in modo tale da impedire l’uscita sulla pubblica via alle auto dei
condomini, rifiutandosi di spostarsi una volta invitato da un
condomino che doveva uscire. Il giudice di prime cure riconosciuta
la sussistenza della responsabilità penale dell’imputato lo aveva
condannato per violenza privata, punita all’art. 610 c.p.
Ad avviso della Suprema Corte “nel reato di violenza privata
(articolo 610 Cp), il requisito della violenza, ai fini della
configurabilità del delitto, si identifica con qualsiasi mezzo idoneo a
privare coattivamente della libertà di determinazione e di azione
l’offeso, il quale sia, pertanto, costretto a fare, tollerare o omettere
qualcosa contro la propria volontà; nella specie, la sentenza ha
descritto un fatto di voluta intenzione dell’imputato di mantenere il
proprio veicolo – già parcheggiato irregolarmente in un’area
25
Così, Cassazione Penale, sentenza 05.11.1997, n. 9958.
37
condominiale alla quale non aveva diritto di accedere (“condominio a
lui estraneo”) – in modo tale da impedire alla persona offesa di
transitare con il proprio veicolo per uscire sulla pubblica via,
rifiutando reiteratamente di liberare l’accesso, pretendendo “con
evidente protervia ed arroganza” che la persona offesa attendesse
secondo proprie necessità (la “discesa” della sorella), e tanto basta
per integrare la violenza quale normativamente prevista”26.
Il delitto di violenza privata si perfeziona, quindi, in tutti i suoi
elementi costitutivi nel momento in cui il soggetto, invitato a
liberare il passaggio, si rifiuti di farlo: il delitto in esame, infatti,
presenta sotto il profilo soggettivo un quid pluris essendo la
condotta diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere
qualcosa, con evento di danno costituito dall'essersi l'altrui volontà
estrinsecata in un comportamento coartante27.
3.1.7. Segue: g) IL DELITTO DI MINACCIA
L’art. 612 c.p. stabilisce che “Chiunque minaccia ad altri un
danno ingiusto è punito a querela della persona offesa con la multa
fino ad € 51. Se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi
indicati nell’art. 339, la pena è della reclusione fino ad un anno e si
procede d’ufficio”.
Come la violenza privata, anche la minaccia rappresenta
un’ipotesi di reato generico e sussidiario che ricorre come figura
autonoma solo quando il fatto della minaccia non sia
espressamente previsto come elemento costitutivo o come
circostanza aggravante di altro reato.
La fondamentale differenza tra il delitto di minaccia e quello di
violenza privata è rappresentato dal fatto che nell’ipotesi di reato
disciplinata all’art. 612 c.p. la minaccia è fine a se stessa,
diversamente da quanto previsto all’art. 610 c.p. ove la minaccia è,
invece, finalizzata a costringere il soggetto passivo a fare, tollerare
od omettere qualcosa.
L’elemento oggettivo del reato in esame consiste nel
prospettare ad altri un danno ingiusto il cui verificarsi dipende
esclusivamente dalla volontà del soggetto agente28.
La minaccia deve, chiaramente, essere idonea a turbare la
tranquillità della persona, la cui contestuale presenza – però – non
è necessaria ai fini della sussistenza del reato, ritenuto che appare
sufficiente che questi venga, comunque, a conoscenza della
minaccia indirizzatagli, a condizione – però – che la comunicazione
del terzo sia stata attuata per specifica volontà dell’agente.
Il delitto si consuma non appena la persona offesa ha
percezione della minaccia ricevuta, con la conseguenza che
assolutamente problematica appare la configurabilità dell’ipotesi
26
Corte di Cassazione, Sez. V, 20 aprile-16 maggio 2006, n. 16571, (Presidente Foscarini – Relatore Marini).
Nota di Giuseppe Buffoni in www.Altalex.it del 18.05.2006.
28
Cassazione Penale, sentenza 11.06.1999, n. 7571.
27
38
del tentativo punibile ex art. 56 c.p. ritenuto che una volta che il
soggetto passivo abbia avuto conoscenza della minaccia il reato è
già consumato e che – diversamente – non sussisterebbe reato
alcuno.
L’elemento psicologico richiesto ai fini della sussistenza del
reato oggetto di esame è il dolo generico, vale a dire la semplice
coscienza e volontà di minacciare ad altri un danno ingiusto.
In ordine, infine, alla condizione di procedibilità la legge
distingue a seconda che la minaccia sia semplice o aggravata,
prevedendone la procedibilità a querela di parte nel primo caso e di
ufficio nel caso, considerando aggravata la minaccia eseguita da
più persone, con armi, con scritto simbolico o anonimo o valendosi
della forza intimidatrice delle associazioni segrete (esistenti o
supposte) ovvero con armi.
3.1.8. Segue: h) IL DELITTO DI ESTORSIONE
Ai sensi dell’art. 629 c.p. risponde del delitto di estorsione
“Chiunque mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare
o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto
profitto con altrui danno”.
Oggetto specifico della tutela penale nel reato di estorsione è
l’inviolabilità del patrimonio, associata all’interesse concernente la
libertà individuale contro fatti di coercizione, commessi al fine di
costringere altri a fare o ad omettere qualche cosa per procurare a
sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno29.
Per l’esistenza del delitto di estorsione occorre, innanzitutto,
una violenza o una minaccia che costringa la persona offesa ad un
atto di disposizione patrimoniale – dovendo la vittima essere
costretta a compiere un atto positivo (come ad esempio pagare una
somma di denaro) ovvero un atto negativo (come, ad esempio
rinunciare a recuperare un proprio credito) – dal quale derivi un
ingiusto profitto a favore sia del soggetto agente sia di terzi allo
stesso collegati.
Il delitto di estorsione si consuma nel momento in cui l’autore
del reato riesce a conseguire il profitto con altrui danno, risultando
– peraltro – ipotizzabile anche il tentativo di estorsione per il caso
in cui alla perpetrata violenza o la minaccia non faccia seguito
l’evento di dazione o omissione desiderato dall’agente.
L’elemento psicologico nel delitto in esame è rappresentato dal
dolo specifico dovendo il responsabile agire al fine determinato di
procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto.
3.1.9. Segue: i) LA CONTRAVVENZIONE DI OMISSIONE DI LAVORI
IN EDIFICIO O COSTRUIZIONI CHE MINACCIANO ROVINA
L’art. 677, testualmente stabilisce che “Il proprietario di un
edificio o di una costruzione che minacci rovina ovvero chi è per lui
29
Cassazione Penale, sentenza 11.07.1986, n. 7390.
39
obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della
costruzione, il quale omette di provvedere ai lavori necessari per
rimuovere il pericolo, è punito con la sanzione amministrativa
pecuniaria da € 154 a € 929.
La stessa sanzione si applica a chi, avendone l’obbligo, omette
di rimuovere il pericolo cagionato dall’avvenuta rovina di un edificio
o di una costruzione.
Se dai fatti preveduti dalle disposizioni precedenti deriva
pericolo per le persone, la pena è dell’arresto fino a sei mesi o
dell’ammenda non inferiore ad € 309”.
Come appare evidente, a seguito della depenalizzazione
intervenuta con la Legge 25.06.1999, n. 205, è stata mantenuta,
quale fattispecie penalmente rilevante, soltanto l’ipotesi contenuta
al terzo comma del citato articolo che punisce il proprietario o chi è
obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio con la pena
dell’arresto fino a sei mesi o dell’ammenda non inferiore ad € 309
se dall’omissione dei lavori deriva pericolo per le persone.
La Giurisprudenza in applicazione di tale normativa ha
considerato come possibile soggetto attivo della contravvenzione
anche l’Amministratore, il quale ha l’obbligo di rimuovere il
pericolo derivante dalle parti comuni dell’edificio30.
Sul punto, infatti, la Cassazione ha più volte stabilito che
“L’amministratore di un condominio può essere chiamato a
rispondere del reato di cui all’art. 677, terzo comma c.p. giacché le
sue funzioni comportano la titolarità dei poteri attinenti alla
conservazione delle cose e dei servizi comuni, fra i quali rientrano
anche quello di attivarsi per la eliminazione di situazioni
potenzialmente atte a causare la violazione del principio del
neminem laedere”31
La responsabilità dell’Amministratore riguarda – chiaramente
– i lavori necessari per la manutenzione ordinaria dell’edificio,
mentre
per
la
straordinaria
manutenzione
l’obbligo
dell’Amministratore si riferisce solo alle opere urgenti ed
improrogabili32.
L’amministratore è, infatti, titolare per legge – salvo diverse
disposizioni statutarie o regolamentari – non soltanto del dovere di
erogazione delle spese attinenti alla manutenzione ordinaria e alla
conservazione delle parti e servizi comuni dell'edificio, ai sensi
dell'art. 1130 nn. 3 e 4 c. c., ma anche del potere di "ordinare lavori
di manutenzione straordinaria che rivestano carattere urgente" con
l'obbligo di "riferirne nella prima assemblea dei condomini", ai sensi
dell'art. 1135 comma 2 c. c. ; di talché deve riconoscersi in capo
allo stesso anche l'obbligo giuridico di attivarsi senza indugio per
30
Cassazione Penale, sentenza 04.05.1973, in Giust. Pen., 1973, II, 432; Cassazione Penale, 25.05.1965, Foro Nap.,
1966, 38; Cassazione Penale, 09.03.1959, Foro It., 1960, II, 63.
31
Tra le numerose altre, Cassazione Penale, Sez. I, 03.12.1996, n. 10385.
32
Cassazione Penale, 16.05.1960, Foro It., II, 108.
40
l'eliminazione delle situazioni potenzialmente idonee a cagionare la
violazione della regola del neminem laedere33.
La stessa giurisprudenza ha escluso qualsiasi responsabilità
del singolo condomino, sul quale non grava alcun obbligo giuridico
di provvedere, a meno che per cause accidentali l’Amministratore
non possa adoperarsi con la necessaria urgenza per rimuovere il
pericolo di rovina già manifestatosi e allora sul condomino sorge
un obbligo in via autonoma34.
Il condomino, poi, è pienamente responsabile quando il
pericolo di rovina trae origine dalla parte dell’edificio di cui è
proprietario esclusivo35.
Più recentemente la Suprema Corte di Cassazione ha fatto
applicazione dell’art. 677 c.p. affermando che tale norma sanziona
penalmente la condotta omissiva del proprietario di un edificio o di
una costruzione che minacci rovina o di quella di chi è per lui
obbligato alla conservazione o alla vigilanza dell’edificio o della
costruzione, sicché, nella fattispecie riguardante un condominio
con due soli condomini senza amministratore, l’obbligo grava sui
proprietari, obbligo che prima ancora che dall’art. 677 c.p. è – ad
ogni buon conto – sanzionato anche dall’art. 2053 c.c.36.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, infatti,
“L’obbligo giuridico del proprietario di rimuovere il pericolo derivante
dalla minacciante rovina di parti comuni di un edificio e` del tutto
indipendente dalla causa che ha determinato il pericolo, sicché è
irrilevante l’origine del pericolo stesso e, tanto meno, la sua
attribuibilità al caso fortuito o alla forza maggiore, quale addirittura
un terremoto; nel caso si tratti di condominio, in assenza
dell’amministratore, la gestione e la manutenzione della cosa
comune spetta a ciascuno ed a tutti i condomini, secondo i principi
che
disciplinano
la
comunione”37 .
3.1.10. Segue: l) LA CONTRAVVENZIONE DI INOSSERVANZA DEI
PROVVEDIMENTI DELL’AUTORITA’
L’art. 650 c.p. punisce “Chiunque non osserva un
provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia
o di sicurezza pubblica, o di ordine pubblico o di igiene, se il fatto
non costituisce reato più grave”.
Tale reato, di natura contravvenzionale, è punito con l’arresto
fino a tre mesi o con la ammenda fino ad € 206.
33
Così, Cassazione Penale, Sez. I, 25.02.2003, n. 9027. Sul principio anche Cassazione Penale, sez. I, 04.03.1997,
Cancelliere; Cassazione Penale, 19 giugno 1996, Vitale; Cassazione Penale, sez. IV, 6 maggio 1983, Scarabelli, rv.
159977; Cassazione Penale, sez. VI, 22 aprile 1980, Lavagna, rv. 145901; Cassazione Penale, 4 maggio 1973, Parisi,
rv. 125614; Cassazione Penale, sez. IlI, 13 luglio 1962, La Marca, rv. 98901).
34
Cassazione Penale, sentenza 04.05.1973, in Giust. Pen., 1973, II, 432.
35
Cassazione Penale, sentenza 28.08.1972, n. 2745.
36
Cassazione Penale, Sez. II, sentenza 03.10.1986, n. 1000, Brizzi.
37
Tra le numerose altre, Cassazione Penale, Sez. I, 20.11.1996, n. 9866.
41
L’art. 650 c.p. secondo il prevalente orientamento rappresenta
un’ipotesi di norma in bianco che pur non prevedendo – per
quanto
di
specifico
interesse
–
la
particolare
figura
dell’Amministratore ha avuto ampia applicazione nell’ambito
condominiale, in quanto l’Autorità amministrativa ha il potere di
ordinare l’esecuzione di opere sulle parti comuni dell’edificio aventi
le caratteristiche indicate da tale disposizione.
La condotta consiste nella mancata osservanza di un
provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragioni di
giustizia, pubblica sicurezza, ordine pubblico o igiene, intendendo
per provvedimento qualsiasi atto che prescriva una determinato
comportamento negativo o positivo con carattere di obbligatorietà.
Al riguardo la Giurisprudenza ha esaminato il caso di un
Amministratore il quale, non ottemperando ad un’ordinanza del
Sindaco che ingiungeva di eseguire opere per eliminare rumori
molesti provocati dall’impianto termico di un edificio, ometteva di
porre fine a tale situazione e motivava il comportamento negligente
in base alla considerazione che l’assemblea dei condomini aveva
all’unanimità addebitato alla ditta che aveva installato l’impianto i
rumori molesti.
La Suprema Corte di Cassazione riconosceva la responsabilità
penale dell’Amministratore per violazione dell’art. 650 c.p. poiché
era suo dovere vigilare sulla regolarità di un servizio comune come
quello di riscaldamento e adottare le misure idonee per eliminare o
diminuire i rumori molesti e non poteva ritenersi esonerato da tale
incombenza limitandosi a darne comunicazione all’assemblea
condominiale38.
In ordine alla violazione del disposto di cui all’art. 650 c.p. –
ritenuto che, trattandosi di contravvenzione, l’elemento psicologico
può consistere indifferentemente in dolo o colpa – l’elemento
soggettivo è escluso soltanto quando il soggetto attivo non sia stato
messo nelle condizioni di conoscere le ragioni in base alle quali il
provvedimento che lo riguarda è stato emesso.
Sembra importante chiarire come la Corte di Cassazione abbia
più volte sottolineato che “ai fini della sussistenza della
contravvenzione di cui all'art. 650 c.p. è necessario che il
provvedimento, emesso per ragioni di giustizia e di sicurezza, di
ordine pubblico o di igiene, sia adottato nell'interesse della
collettività e non di privati individui. Di modo che i provvedimenti del
Giudice, che riguardano sempre un interesse particolare, non
possono rientrare nella previsione dell'art. 650 c.p. che ha come
oggetto specifico della tutela penale interessi di carattere generale,
costituendo unica eccezione i casi in cui l’inosservanza del
38
Cassazione Penale, sentenza 06.12.1979; Cassazione Penale 15.03.1980.
42
provvedimento del Giudice sia espressamente prevista come reato
da una specifica norma penale come nel caso dell’art. 388 c.p.”39.
Nel caso particolare esaminato dalla Suprema Corte,
l’Amministratore di condominio era stato imputato per il reato ex
art. 650 c.p. perché nella sua qualità di Amministratore non aveva
ottemperato al provvedimento di urgenza adottato per ragioni di
giustizia ex art. 700 c.p.c. dal Giudice nel corso della causa civile
promossa da alcuni condomini, con il quale gli veniva imposto di
eseguire i lavori ritenuti necessari dal consulente tecnico di ufficio
per l'eliminazione delle infiltrazioni di acqua piovana attraverso il
tetto dello stabile da lui amministrato, che aveva causato danni
alle pareti ed ai soffitti degli appartamenti sottostanti. Ad ulteriore
conferma della insussistenza, nel caso particolare, del reato ex art.
650 c.p. la Suprema Corte di Cassazione specificava che
“all'inottemperanza del provvedimento del Giudice, da qualsiasi
ragione determinata, è conseguita l'esecuzione coattiva dei lavori,
affidata dal Giudice al consulente tecnico di ufficio, anche per tale
ragione, deve escludersi la sussistenza del reato previsto dall'art.
650 c. p.”.
Parimenti,
va
esclusa
la
responsabilità
penale
dell’Amministratore
di
condominio
in
ordine
al
reato
contravvenzionale punito all’art. 650 c.p. nel caso di “mancata
osservanza dell’ordinanza sindacale che gli imponeva di effettuare
lavori per l’eliminazione di infiltrazioni di acqua nell’appartamento di
un solo condomino, apprestando a quest’ultimo l’ordinamento un
diverso titolo di tutela da farsi valere nella competente civile” stante
la assunzione dell’ordinanza per ragioni private e non legate
all’interesse collettivo40.
39
Cassazione Penale, Sez. I, 02.04.2001, n. 12924. Sul principio anche Cassazione Penale, Sez. I, 04.12.1985 n. 3510,
Riannetti
40
Così, Cassazione penale, Sez. I, 29.12.2004, n. 49910.
43