CIBERCONDRIA TRA CONTROLLO E DIPENDENZA Gemma Brandi Psichiatra psicoanalista Direttore Salute in carcere della Azienda Sanitaria di Firenze Fondatore della rivista Il reo e il folle Mi permetto una fugace incursione nella psicopatologia per introdurre il concetto di ipocondria e i suoi rapporti con la cibercondria. Ipocondria è il timore e il desiderio al tempo stesso di essere malato di colui che fa del corpo il contenuto della propria esistenza, anziché sperimentarlo senza troppa attenzione. Si tratta, in senso psicoanalitico, di una nevrosi attuale (la cui causa è da rintracciare, cioè, nel mancato o inadeguato soddisfacimento sessuale del momento) di tipo narcisistico, spesso inaccessibile alla cura, che assume i contorni della ipocondria minor o maior, sconfinando in tal caso nella paranoia e nella melanconia, fino a comportare scelte suicidarie. La libido si sposta, dagli investimenti oggettuali che sostengono i rapporti con il mondo esterno, sul corpo, spesso su un organo, che diventa oggetto di un accumulo di libido narcisistica tale dinamica regressiva può essere facilitata da una fissazione narcisistica preesistente. Il malato riduce relazioni e attività e si ostina a percepire e osservare le proprie parestesie, senza mai descrivere i dolori con esattezza e calma, ma dando piuttosto l’impressione di essere impegnato in un lavorio intellettuale superiore alle sue forze, sotto il domino di un affetto penoso. Respinge, inoltre, qualsiasi definizione medica dei suoi dolori, trovando troppo povere le formule linguistiche tese a tradurre in parole sensazioni che considera uniche. Il malato immaginario, al di là della ironia del commediografo francese, è un vero malato. Il suo rapporto con il medico muove tra idealizzazione ed evitamento di cure che considera scontate, di diagnosi confortanti, di prognosi favorevoli. Chi cura occorre paradossalmente che non si predisponga a curare il male messo in mostra, se intende avere la meglio su resistenze tenaci alla guarigione; occorre che non rassicuri in alcun modo colui che è preda di un problema psichico che lo porta a ricercare pervicacemente l’incontro con la malattia; occorre che non si concentri sull’organo supposto in difficoltà dal soggetto, ma sposti l’attenzione sua, e del paziente, su altri aspetti della vita di questi, attraverso una conversazione terapeutica che distragga l’interlocutore dalle sue riflessioni sul corpo. Serve un aggiramento terapeutico che permetta di prendere alle spalle il nemico: quello che internet non sa fare. Ebbene, è proprio la impossibilità di essere curati andando su internet -una rete che non cura, non essendone questo lo scopo- a rendere internet particolarmente attraente per l’ipocondriaco, costituendosi come via di fuga dalla terapia. Non c’è di meglio per simili pazienti che restare perennemente insoddisfatti e continuare a ricercare, la risposta che non desiderano trovare, sui testi medici, ma ancora meglio su internet, che attraverso la ipertrofia e il caos della risposta alimenta la malattia e crea dipendenza. Cibercondria -o ipocondria digitale- è il termine con cui si definisce la gratuita preoccupazione, mutuata da ricerche su internet, di essere affetti da patologie comuni. Questo nuovo trend della più datata ipocondria desta l’allarme del mondo medico, anche perché connotata da fattori che ostacolano la diagnosi: da una parte l’ansia che si associa alla ricerca, dall’altra la presentazione manipolatoria di sintomi, che ha per obiettivo la conferma della autodiagnosi. Il quadro si colloca sul crinale che tiene insieme controllo e dipendenza e si innesta nella rivoluzione comunicativa degli ultimi decenni, introducendo un viraggio formale netto nelle manifestazioni ipocondriache: dalla inossidabile impermeabilità alle rassicurazioni mediche del secolo scorso, alla convinzione del paziente di saperne una, due, cento più del medico. La ricerca autonoma in rete di risposte, anche relative a salute e malattia, echeggia il bisogno di controllo che talora l’uomo tende ad avere sul funzionamento del proprio corpo. E’ però anche conseguenza della accidia informativa di certa medicina, una avarizia sostenuta dalla caduta di curiosità scientifica e dalla diffusa ignoranza di ritorno della quale il nostro tempo è testimone. I non addetti ai lavori, ancorché non ipocondriaci, cercano in rete i pareri che i curanti non forniscono loro, sperando di riempire i vuoti di interesse, quando non di impegno, cui assistono. Basterebbe, per comprendere cosa qui affermiamo, analizzare il caso delle terapie non convenzionali, bellamente ignorate dalla medicina allopatica, anche mentre i portatori di diagnosi, talora agghiaccianti, pongono quesiti al curante a proposito di soluzioni orecchiate di cui il medico preferisce non parlare, di cui decide di ignorare persino la esistenza. In simili condizioni il malato si rivolgerà inevitabilmente alla rete, rischiando di cadere nelle grinfie di ciarlatanerie fuorvianti, se non dannose alla salute, proprio mentre è a caccia di un po’ di benessere. Occorre che il medico torni a parlare con il paziente meno distrattamente di quanto oggi accada e si disponga a orientarsi rispetto al nuovo che avanza senza troppi pregiudizi o colpevoli pigrizie; occorre che avverta la sua responsabilità di mentore della salute. Soltanto così eviterà al suo assistito le trappole di una deriva esiziale nel caos della rete e una dipendenza autolesiva al pari di altre dipendenze. Il bisogno di controllo può assumere connotati parossistici e indurre il paziente ad escludere la presenza del medico al suo fianco. Le forme estreme di anoressia sono le manifestazioni esemplari di questa esigenza di supervisione sul corpo, al pari della ricerca e dell’acquisto in rete di anabolizzanti e di prodotti dimagranti o di bellezza, nella fede cieca in promesse impossibili da mantenere. Dal controllo alla dipendenza il passo è più breve di quel che si pensi, laddove ogni forma di dipendenza consiste di fatto nella delega passivizzante a qualcosa, a qualcuno del controllo della qualità della propria vita, della scelta del percorso da compiere. Affidare a internet la cura di sé è il modo per dipendere dalla rete in maniera né critica, né partecipe, bensì pervicace e sostenuta dalla coazione a ripetere che ne rivela la natura di equivalente masturbatorio. Certo può esistere la dipendenza dalla figura del medico, ma a differenza di internet il medico è in grado non solo di fare buon uso di questa dipendenza, inducendo il malato a scegliere le terapie adeguate, ma anche di curare l’inclinazione alla dipendenza del suo paziente. In questo senso è bene non confondere il medico con la rete, essendo escluso in internet l’aspetto relazionale della cura, l’incontro dal vivo con l’altro capace di portare avanti una conversazione professionale. Quale rapporto esiste tra l’ipocondria, descritta dagli psicoanalisti del secolo scorso, e la cibercondria? Va in primo luogo detto che il contenuto dei disturbi psichici risente della evoluzione dei costumi: oggi chi si direbbe Napoleone? Chi porterebbe alle estreme conseguenze la identificazione con il gestore di stregonesche promesse, a rischio di finire sul rogo? Internet non poteva restare estraneo al cannibalismo psicopatologico dei protagonisti di ogni periodo storico. Se da una parte, dunque, la ricerca delle malattie su internet non è da ridurre a novella malattia da internet, dall’altra la rete esercita una funzione orientativa sui percorsi della esistenza umana, e dunque anche della malattia mentale, più di quanto non facciano una singola personalità, pure di spicco, o un potere misterioso: in altre parole, internet non è Napoleone, né la stregoneria, ma qualcosa che, nel bene e nel male, va oltre tali identificazioni. E’ intanto facile intuire come la rete possa fornire una cassa di risonanza infinita alla ricerca parossistica di sempre nuovi particolari per trovare spiegazione a un dolore che ha catturato per intero l’attenzione dell’ipocondriaco. Eric Horvitz sostiene che la rete determina una escalation dell’ansia attraverso le spiegazioni che vengono fornite, in maniera disordinata e spesso contraddittoria, a chi non ha una formazione medica, con passaggio non improbabile a sfumature ipocondriache del comportamento. La rete può, inoltre, renderci suggestionabili e terrorizzati, accalappiando le deboli inclinazioni ipocondriache presenti in molti. Di fatto non può dirsi radicale la differenza tra cibercondria e ipocondria e non è internet a causare la ipocondria. Potrebbe però enfatizzarla o facilitarne la esplosione, sposando o snidando la misantropia e la tendenza a isolarsi dei soggetti ipocondriaci e favorendo lo spostamento della energia libidica su un organo o un apparato, una volta distratta dal mondo esterno. La “social solitudine” di cui Jonathan Franzen parlava in un recente articolo costituisce l’alimento di una manifestazione psicopatologica che ha nel ritiro della libido dal mondo esterno, per convogliarla sul soma, il suo meccanismo di formazione. Dal computer ci si può sentire più accuditi che dal medico e negli scambi in rete si finisce con il trovare quel senso di comunità che l’impoverimento dei rapporti umani, anche con il medico, ha assottigliato, soprattutto un senso di comunità più disimpegnato e meno compromettente, ma proprio per questo depauperante, disorientante e poco fertile. Il medico dovrebbe fare proprio il titolo del libro di Sherry Turkle Reclaiming Conversation, ricominciare ad avere interazioni vis à vis e a dialogare con il proprio paziente, l’unico, come osservava in una recente intervista Virgilio Sacchini, uno dei massimi chirurghi mammari del mondo, a potere indicare la migliore strada da prendere, persino al chirurgo. Che persone ipocondriache approdino alla rete resta un pericolo obiettivo. Brian Fallon, della Columbia University, asserisce che il novanta per cento di ipocondriaci che accedono ad internet diventano cibercondriaci, vale a dire gli ipocondriaci del 2000. Se una differenza può darsi tra ipocondria e cibercondria, questa è da ricondurre al rischio di dipendere dalla rete che incombe sulla seconda forma, nella quale l’aspirazione a esercitare il massimo controllo sul proprio corpo incontra la delega del controllo che sottende la dipendenza. Cercare in internet la spiegazione di un sintomo è la lectio facilior che produce panico, è il modo per bypassare banalizzanti rassicurazioni mediche e per nutrire la preoccupazione emergente. Confidando nell’elevato grado di autoconsapevolezza del proprio corpo che ciascuno ha, si tende a cercare volentieri da soli causa e terapia di una sofferenza, a sperimentare altre forme di incontro, a fare rete in segreto. Una rete su cui però rimbalza la domanda del poveretto di turno in un straordinaria quanto avventata carambola del caso, riducendo le possibilità di cura. Una rete ben diversa da quella che costruiscono le relazioni terapeutiche, una rete, quest’ultima, in grado di sostenere la caduta libera di chi è in preda all’angoscia e di favorirne il benessere, a partire dal rapporto medico-paziente.