IPOCONDRIA L’ipocondria viene definita dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-IV tr) come la preoccupazione dovuta alla convinzione di avere una malattia grave. Tale convinzione erronea è causata dall’ interpretazione scorretta di alcune sensazioni corporee e persiste nonostante un’accurata valutazione medica escluda la presenza di una condizione di patologia tale da giustificare la preoccupazione ipocondriaca. Secondo il manuale (DSM-IV tr), i criteri per fare diagnosi di Ipocondria sono: La preoccupazione legata alla paura di avere, oppure alla convinzione di avere, una malattia grave, basate sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto. La preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriate. La convinzione di cui al Criterio A non risulta di intensità delirante (come nel Disturbo Delirante, Tipo Somatico) e non è limitata a una preoccupazione circoscritta all’aspetto fisico (come nel Disturbo di Dismorfismo Corporeo). La preoccupazione causa disagio clinicamente significativo oppure menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo, o in altre aree importanti. La durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi. La preoccupazione non è meglio attribuibile a Disturbo d’Ansia Generalizzato , Disturbo Ossessivo-Compulsivo, Disturbo di Panico (Senza Agorafobia e Con Agorafobia), Episodio Depressivo Maggiore, Ansia di Separazione, o un altro Disturbo Somatoforme. Dal punto di vista diagnostico, è stata evidenziata la necessità di disporre di un numero maggiore di “categorie” per classificare i disturbi ipocondriaci (Taylor e Asmundson, 2004) e in particolare per dare un nome a tutte le forme di eccessiva ansia per la salute che non soddisfano i criteri del disturbo ipocondriaco. Nello specifico, è stato proposto di concepire un’ulteriore sottocategoria diagnostica dell’ipocondria ovvero la categoria dell’”ansia eccessiva connessa allo stato di salute” (Health Anxiety) che possa essere utile per diagnosticare tutte le forme subcliniche di Ipocondria che non soddisfano i criteri diagnostici DSM per intensità o per durata. L’eccessiva ansia per la salute, ad esempio, a differenza dell’ipocondria, può avere una durata inferiore ai 6 mesi e può essere meno debilitante per il soggetto. Inoltre, nel caso dell’ansia eccessiva connessa allo stato di salute, la convinzione o la paura di essere gravemente ammalati può essere verosimilmente meno resistente che nell’ipocondria. Di fatto, però, ipocondria e ansia eccessiva connessa allo stato di salute rappresentano estremi diversi del medesimo fenomeno clinico. Tipicamente, il soggetto ipocondriaco attibuisce sensazioni corporee sgradevoli alla presenza di una malattia grave e, nel tentativo di scongiurare questa possibilità, cerca costantemente rassicurazioni sia da parte dei medici che lo hanno in carico che attraverso la ricerca frequente di informazioni sulla malattia da fonti diverse. I soggetti ipocondriaci spesso si oppongono all’ipotesi di avere o di un soffrire di un disturbo psicologico. I pazienti ipocondriaci, spesso, adottano uno stile di vita simile a quello di un malato cronico o di un invalido ed evitano attività che richiedono degli sforzi nel timore che questo possa nuocere alla loro salute. Soffrono molto e si lamentano della propria salute parlandone lungamente con chiunque li ascolti. Queste modalità d’interazione con gli altri conducono spesso il paziente ipocondriaco ad un progressivo logorio delle relazioni interpersonali, sia al di fuori che all’interno del nucleo familiare. Rabbia e frustrazione sia da parte del paziente che da parte del medico che lo ha in carico sono frequenti e portano spesso il paziente a cercare aiuto e rassicurazione da parte di medici diversi. L’Ipocondria può insorgere a qualsiasi età anche se si sviluppa più spesso nella prima età adulta (American Psychological Association, 2000). E’ ugualmente comune in uomini e donne (Creed & Barsky, 2004) e tipicamente insorge durante periodi di intenso stress, durante o dopo una grave malattia oppure dopo la perdita di un familiare (Barsky & Klerman, 1983). L’ipocondria ha spesso un decorso cronico, persiste per anni nel 50% dei casi e presenta una comorbidità con disturbi d’ansia, disturbi dell’umore e disturbi somatoformi (American Psychological Association, 2000). Negli anni sono state proposte numerose teorie e modelli esplicativi per l’Ipocondria e l’ansia per la salute. Ad oggi, però, il modello meglio articolato e soprattutto l’unico sostenuto empiricamente è il modello cognitivo comportamentale che ha portato alla costruzione di un approccio terapeutico di comprovata efficacia (Salkovskis et al., 2003; Taylor & Asmundson, 2004). Il concetto chiave di questo modello è che l’ipocondria derivi dall’esistenza di credenze disfunzionali riguardo la malattia, la salute, le cure mediche, la propria vulnerabilità. Queste credenze portano la persona a interpretare scorrettamente il significato e la pericolosità di sensazioni o perturbazioni corporee innocue. Tali sensazioni “benigne” possono derivare da diverse condizioni: perturbazioni corporee, disturbi minori, attivazione neurovegetativa procurata dall’ansia o da altre emozioni. Il corpo umano è “rumoroso”, particolari sensazioni corporee rappresentano la quotidianità anche per le persone sane (Pennebaker, 1982). I soggetti ipocondriaci, però, tendono a sovrastimare la pericolosità di queste sensazioni. La ricerca sul disturbo ha oramai ampiamente dimostrato che i soggetti ipocondriaci sono molto più sensibili e attenti ai segnali corporei dei soggetti non ipocondriaci (Hanback & Revelle, 1978). Studi recenti su gemelli monozigoti e dizigoti indicano che la componente genetica gioca un ruolo modesto nel dare conto dell’origine dell’Ipocondria e dell’ansia per la salute. I gemelli monozigoti e dizigoti, infatti, non ottengono punteggi molto differenti su scale che misurano l’ansia per la salute (Taylor et al., 2006). Le determinanti più importanti sembrano dunque essere quelle ambientali. Fattori ambientali importanti sembrano essere tutte le esperienze precoci di apprendimento (episodi di malattia, aver ottenuto cure o altri tipi di rinforzo solo se malati, aver osservato figure significative avere a che fare con la malattia) che portano il soggetto a formulare e convalidare credenze disfunzionali sulla propria debolezza e su quanto siano pericolose le perturbazioni e le sensazioni del corpo (Robbins & Kirmaier, 1996; Witehead et al., 1994). Una volta costituitesi, queste credenze possono essere attivate ogni qual volta il soggetto entri in contatto con informazioni correlate al disagio (sensazioni o cambiamenti del corpo, informazioni dai media ecc.). Perché le credenze disfunzionali di cui abbiamo parlato si consolidano e persistono nelle persone che soffrono di Ipocondria? Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, questi soggetti tendono a sperimentare molti “falso allarme” rispetto alla propria salute, ovvero sperimentano situazioni nelle quali sensazioni corporee spiacevoli da terrorizzanti diventano innocue. Queste esperienze a volte hanno il potere di disconfermare la credenza che la propria salute sia a rischio. Altre volte, però, si verifica il contrario, ovvero l’esperienza viene interpretata in maniera coerente e compatibile con la credenza. Ad esempio, il soggetto può ritenere che solo perché una sensazione corporea spiacevole, da terrorizzante si sia trasformata in innocua, questo non preclude la possibilità che a un certo punto nel futuro quella stessa sensazione spiacevole non possa essere dovuta realmente all’esistenza di una grave malattia (“Stavolta sono stato fortunato. La prossima volta potrebbe essere una cosa seria!”). In secondo luogo, i soggetti ipocondriaci tendono a mettere in atto comportamenti disadattivi con l’obiettivo di alleviare le proprie sofferenze e paure. Tra i più importanti comportamenti di coping maladattivi vi è la ricerca costante di rassicurazione (dai medici, dagli amici o da altri significativi) oppure tramite il controllo continuo del proprio corpo. Questi comportamenti tendono a ripetersi e perpetuarsi nel tempo perché, nel breve termine, riducono l’ansia del soggetto (Lucock et al, 1998). Nel lungo periodo, però, tali comportamenti mantengono in vita il disturbo. Vediamo come: Maggiore è la quantità di tempo che il soggetto trascorre discutendo della propria salute, maggiore è la quantità di informazioni che raccoglierà circa eventuali condizioni mediche gravi e maggiore, di conseguenza, sarà la sua preoccupazione. Rivolgendosi costantemente agli altri significativi per chiedere aiuto e rassicurazione, i soggetti ipocondriaci rinforzano un’idea di sé stessi in quanto deboli, vulnerabili, fragili e bisognosi degli altri Chiedere rassicurazione ai propri medici circa l’essere o meno affetti da una determinata patologia, espone a maggiore rischio di subire procedure diagnostiche (a volte non necessarie) che acutizzano l’ansia Comunicare ai propri pazienti da cosa non sono affetti (“Non hai problemi di cuore”) senza dare loro un’adeguata spiegazione dei loro sintomi e delle loro preoccupazioni (“Stai avendo normali alterazioni della frequenza dei battiti cardiaci per via dello stress, che tendi a notare più del dovuto perché concentri la tua attenzione su questi fenomeni”) favorisce il mantenimento del disturbo Non poter dare al paziente l’assoluta certezza dell’assenza del disturbo (raramente i test medici sono sicuri al 100% ma lo sono, magari, al 99%), lascia al paziente spazio per dubitare dell’accuratezza della diagnosi medica (“Il dottore dice che il test è negativo ma forse ha sbagliato qualcosa”). Le persone incapaci di tollerare l’incertezza delle diagnosi mediche spesso persistono nel cercare rassicurazione nella speranza di ottenere test o diagnosi che possano fornire dati certi al 100%. Ovviamente, l’impossibilità di ottenere una diagnosi sicura al 100% non fa altro che alimentare la necessità di cercarla. Il trattamento Fino agli anni 70 e 80 non esisteva alcun trattamento validato per la cura dell’Ipocondria. Solo negli anni 90, la considerazione che i meccanismi implicati nei disturbi d’ansia fossero molto simili a quelli tipici dell’ipocondria e che dunque le modalità di trattamento potessero essere assimilabili, ha portato la ricerca a elaborare e testare alcuni modelli di trattamento. Negli stessi anni si assiste ad un incremento anche delle ricerche in farmacoterapia per il trattamento dell’ipocondria. Sempre partendo dalla considerazione che l’ipocondria sia associata quasi sempre all’ansia e sovente anche a sintomi depressivi, la farmacoterapia del disturbo consiste oggi prevalentemente nell’associazione tra antidepressivi e ansiolitici. Oggi, la comunità scientifica internazionale riconosce alla terapia cognitivo comportamentale lo status di trattamento di comprovata efficacia per la cura dell’Ipocondria e ne suggerisce l’applicazione dal momento che la sua efficacia è stata validata in diversi studi sperimentali (Barsky & Ahern, 2004; Bouman & Visser, 1998; Clark, Salkovskis, Hackman, Wells, Fennell, Ludgate, Ahmad, Richards, & Gelder, 1998; Visser & Bouman, 2001; Warwick, Clark, Cobb, & Salkovskis, 1996; Taylor & Asmundson, 2004) e in setting clinici “reali” (Salkovskis et al. 2005). Il trattamento Cognitivo-comportamentale si basa sulla presentazione di un modello che preveda alternative al problema e che possa essere adottato dal paziente in sostituzione del modello basato sulla malattia. Da un certo punto di vista, l’intero trattamento può essere interpretato come un’estesa e dettagliata costruzione di un modello alternativo di comprensione dei sintomi corporei spiacevoli che il paziente sperimenta (Wells, 1999). Spesso I pazienti ipocondriaci provano vergogna nel parlare delle malattie che temono di avere. Sia i pazienti che i terapeuti cominciano la terapia con aspettative molto diverse l’uno dall’altro. I terapeuti credono che il paziente sia cosciente di avere un problema psicologico e ritenga che la terapia sia l’unica cosa di cui ha bisogno. I pazienti, invece, sono convinti di avere un problema medico e che la terapia sia l’ultima cosa di cui hanno realmente bisogno. Con queste premesse qualsiasi “aggancio terapeutico” risulta essere problematico. Prima di iniziare l’assessment, dunque, è molto importante che il terapeuta conosca molto bene il funzionamento del disturbo e sia preparato e consapevole delle criticità che la terapia di un paziente ipocondriaco presenta e delle difficoltà che si troverà ad affrontare. E’ molto importante, inoltre, che il paziente si senta compreso e avverta che i suoi problemi e le sue preoccupazioni sono stati considerati in maniera appropriata. Il terapeuta non dovrebbe mai dimenticare di riconoscere al paziente che i sintomi che egli sperimenta sono reali e devono essere presi sul serio. Questi pazienti, infatti, si sono sentiti ripetere probabilmente per lungo tempo che i loro sintomi sono “tutti nella mente” quando, in verità, i sintomi che sperimentano sono assolutamente reali. I pazienti ipocondriaci interpretano erroneamente le sensazioni corporee e le informazioni relative al proprio stato di salute attribuendo loro una pericolosità di gran lunga superiore a quella che in realtà hanno. Spesso, non prendono neppure in considerazione l’ipotesi meno pericolosa e più probabile in grado di dare conto dei sintomi che sperimentano. Il nucleo fondamentale della terapia del paziente ipocondriaco consiste nell’ aiutarlo a “dismettere” un’interpretazione dei sintomi basata sulla credenza dell’esistenza di una malattia fisica e di costruire insieme a lui un’ipotesi alternativa tramite delle specifiche tecniche cognitive e comportamentali. In generale, però, i pazienti Ipocondriaci si rivolgono difficilmente ai professionisti della salute mentale e ancora più difficilmente si impegnano in un percorso psicologico. Un intervento psicoeducativo, a tale proposito, può costituire un “passaggio intermedio” utile per il paziente sia nel caso che egli decida di rivolgersi poi ad una psicoterapia, sia per i benefici che esso stesso può offrire al paziente nel caso in cui egli non decida di intraprendere un percorso terapeutico. La psicoeducazione consiste in linea generale in alcune sessioni (condotte spesso in gruppo) che hanno l’obiettivo di fornire al paziente informazioni specifiche sul disturbo e nel farlo in maniera mirata. Il paziente e il clinico, all’interno del setting psicoeducativo, si trasformano in allievo e insegnante. Una recente ricerca ha evidenziato l’efficacia della psicoeducazione di gruppo nel trattamento di alcuni disturbi (Lukens & McFarlane, 2004), rilevando che la psicoeducazione soddisfa i criteri per essere classificata all’interno della Categoria 2 (intervento probabilmente o potenzialmente efficace) tra gli interventi terapeutici di comprovata efficacia (Chambless & Hollon, 1998). Da un punto di vista cognitivo comportamentale, la psicoeducazione rappresenta di per sé un intervento di “riattribuzione” molto importante che consiste nel fornire al paziente un modello di funzionamento del disturbo e un razionale di quella che potrebbe essere la terapia senza però intraprendere con lui un reale percorso psicoterapeutico. Il primo obiettivo è quello di modificare l’interpretazione che il paziente dà del suo stesso disturbo più che alleviare i suoi sintomi. Un’ imponente meta analisi degli studi sui trattamenti psicosociali e farmacologici per la terapia dell’ipocondria è stata condotta nel 2005 da Steven Taylor e Gordon Asmundson. La ricerca scientifica dimostra che la terapia cognitivo-comportamentale abbinata alla fluoxetina possa essere ritenuta il trattamento d’elezione per la terapia dell’ipocondria e di forme “attenuate” (abriged). La psicoeducazione risulta essere comunque indicata quanto la terapia cognitivo comportamentale nel trattamento di forme di ansia legata alla salute meno severe o che, per qualche motivo, non soddisfano pienamente i criteri diagnostici dell’ipocondria. Copyright © Studio Corvetto Milano P+ Psicologia e Psicoterapia Cognitivo Comportamentale INFO e CONTATTI Bibliografia Barsky, A.J., Klerman G. L. (1983). Overview: Hypochondriasis, bodily complaints and somatic styles. American Journal of Psychiatry, 140, pp. 273-283 Bouman, T.K., Visser, S. (1998) Cognitive and behavioral treatment of hypochondriasis. Psychotherapy and psychosomatics, 67 (4-5), pp.214-221 Bouman, T.K., Visser, S. (2001) The treatment of hypochondriasis: exposure plus response prevention vs cognitive therapy. Behaviour Research and therapy, 39, pp. 423-429 Chambless. D.L., Hollon, S.D. (1998) Defining empirically supported therapies. 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