Indice
1. Introduzione ..................................................................................................................................... 3
2. Vitalismo e spiritualismo contro i canoni scientifici ........................................................................ 3
3. L'intuizione: il metodo filosofico ................................................................................................... 13
4. L'acqua, i cristalli e una cascata gelata .......................................................................................... 18
5. Verso una nuova psicologia: la dilatazione psichica nell'ultimo Jung ........................................... 23
6. La sincronicità ed i nessi acausali .................................................................................................. 27
7. Sul “principio d'individuazione” e l'inconscio collettivo ............................................................... 31
8. La cura della “Signora X”, fra arte ed analisi ................................................................................ 38
9. Conclusione.................................................................................................................................... 42
10. Bibliografia .................................................................................................................................. 43
1. Introduzione
Quando si può, al giorno d'oggi, rintracciare un metodo esclusivamente filosofico, è difficile ch'esso
si proclami spontaneamente anti-scientifico. Alle particolarità che i pensatori più intraprendenti
attribuivano alle proprie riflessioni è subentrata, sempre più soventemente, una forma di verifica dei
dati e d'analisi logica dei contenuti: complice la tradizione della filosofia analitica anglosassone,
anche nei saggi fermamente distanti da tale presa di posizione si può intravedere come un qualcosa
di “non dimostrato” sia comunemente reputato falso. Eppure nel corso del XX secolo molti sono
stati i pensatori a-sistematici e proprio dalle loro opere si sono diramate delle nuove tradizioni,
aventi in comune il desiderio di rottura ed il cambiamento di metodologia; potremmo citare in
questo contesto l'approccio fenomenologico di Edmund Husserl. In questo articolo cercheremo di
dare una prima ricostruzione della critica e della presa di distanza dal metodo comunemente
etichettabile come “scientifico-analitico” nella concezione dello spazio e del tempo dell'interiorità e
della psiche di pensatori come Bergson (con l'intento d'istituire una nuova filosofia basata sulla
“intuizione”) e Jung (per il desiderio di estendere alla psicologia in quanto tale alcune categorie,
valide per la psicanalisi, ritenendo intrappolata la prima nelle catene delle spiegazioni
esclusivamente “causali”).
2. Vitalismo e spiritualismo contro i canoni scientifici
Ciò che riguarda la psiche umana non è, per Bergson, il fine dell'indagine sulla realtà. A differenza
d'un semplice umanismo ricercato, del «noli foras ire» agostiniano, la dimensione psicologica può
essere vista al contrario come punto di partenza per la ritrattazione di tutto quanto sia stato già
esplicitato dalla scienza. La profondità fenomenologica dell'Io investe un abisso di verità e
rivelazione, ammanta la riflessione d'una spontaneità che altrove s'è persa: il motivo di tale povertà,
riscontrata nelle scoperte asettiche, quand'anche esatte e precise, è che la ricostruzione d'un modello
coerente si realizza come succedaneo, nelle sembianze d'una dimensione parallela e simile a quella
vitale. Spesso sono stati accostati termini come “spiritualismo” e “vitalismo” per descrivere
l'approccio bergsoniano: la realtà comune è quella, previa definizione, di non escludere nulla di
quello che l'empiria ci offre spontaneamente, semmai di tornare ad una pura descrizione di
fenomeni, e di conseguenza ammettere quanto di compromesso e compromettente il filosofo deve
scorgere nelle scienze esatte.
Termini contrapposti e dicotomici sono quelli messi in gioco da Bergson: per la nostra ricostruzione
partiremo dai saggi contenuti in “La pensée et le mouvant”, legati insieme dall'autore stesso come
summa del proprio pensiero. Coppie come tempo e spazio, intelligenza e coscienza/pensiero, analisi
ed intuizione, saranno obiettivi teoretici della nostra trattazione. Occorre, per prender le mosse da
ciò che pervade tutta l'opera e l'intento critico del filosofo francese, fare riferimento soprattutto a
quella dote che dovrebbe assistere i pensatori, la loro abilità più cara e splendente fra la schiera di
“strumenti” a loro disposizione (ma, come vedremo, la peculiarità della medesima è tale che non
sarà possibile annoverarla troppo semplicemente nel medesimo insieme): l'esprit de finesse. Scrive
Bergson, in un saggio intitolato “La posizione dei problemi”, appositamente concepito a guisa
d'introduzione alla collezione dei lavori edita nel 1938:
«(La scienza positiva) se non è assicurata dalla fisica e dalla chimica, non muove un passo all'interno del
mondo organizzato; preferisce appigliarsi a ciò che vi è di psicochimico nei fenomeni vitali piuttosto che
all'elemento propriamente vitale nel vivente. Grande è il suo imbarazzo quando giunge dinanzi allo spirito.
[…] Su questo nuovo terreno, la scienza non avanzerà mai, se si muove, come è sua abitudine, confidando
nella sola forza della logica. Bisogna passare senza sosta dallo “spirito geometrico” allo “spirito di
penetrazione” (esprit de finesse): non si sfugge a quel residuo metaforico che sopravvive nelle formule, per
astratte che siano. È come se l'intelligenza fosse obbligata a trasporre lo psichico in fisico per comprenderlo
ed esprimerlo 1».
Molti elementi essenziali dell'approccio “spiritualista” sono messi sulla scacchiera, anche se in
ordine sparso. Possiamo subito osservare come la definizione “spiritualista” non venga data
unicamente a posteriori: il mondo spirituale è contrapposto (differentemente dalla religione, nella
quale è spesso presente “la carne” come secondo elemento) a quello della scienza positiva;
quest'ultima si ritrova «in imbarazzo» nell'analizzare quanto v'è di puramente incorporeo (resta da
chiarire il contenuto di tale sfera) nella realtà. Per fronteggiare i propri limiti con gli unici strumenti
a sua disposizione, le scienze positive (che costruiscono e fondano più che descrivere) riconvertono qualcosa che ha una sua peculiarità nella modalità più misurabile e fruibile di risultati
approssimativamente corretti: in questo caso lo psichico-spirituale è ricondotto allo psico-chimico,
l'insieme di ricostruzioni che vengono dalla fisica e dalla chimica che non potranno mai esaurire
l'insondabilità dell'interiorità umana. Lo «spirito geometrico» delle scienze positive ha bisogno di
unità che, accostate l'una all'altra, possano costituire un senso combinandosi e operando fra di loro;
l'acume, invece, dello spirito di penetrazione del filosofo ha a che fare con un “seguire da vicino”,
con una descrizione di quanto avviene nello spirito priva di preconcetti e quanto più
fenomenologica.
Questo non comporta necessariamente una mancanza di criteri e regole che il pensatore deve
seguire. È, anzi, apparentemente più difficile studiare noi stessi piuttosto che il mondo circostante:
il nostro spirito si manifesta «come uno straniero 2 », nonostante sia quanto di più intimo e
costitutivo abbiamo; tale paradossalità porterà il filosofo, in un arco temporale che occupa tutta la
sua produzione, a definire un legame molto più coeso e continuo fra l'intelligenza, gli strumenti e la
materia, rispetto a quello che collega la coscienza e lo spirito. La facilità che riguarda l'analisi della
“materia esterna” è dovuta a delle regole; la difficoltà della comprensione degli elementi spirituali è,
inversamente, dovuta alla libertà necessaria che si deve investire nell'indagine, tramutatasi in
un'auscultazione. Sembra quasi d'uscire dal campo della naturalità (ma non della naturalezza, visto
e considerato come un dialogo interiore caratterizzi la nostra formazione d'esseri umani), di dover
intraprendere uno sforzo: «tutti avranno potuto notare che è più difficile avanzare nella conoscenza
di sé che in quella del mondo esteriore. Fuori di sé, lo sforzo per apprendere è naturale, si dà con
una facilità crescente, si applicano delle regole. All'interno, l'attenzione deve restare tesa e il
progresso deve divenire sempre più faticoso, come se si trattasse di risalire la china della natura.
Non vi è in questo qualcosa di sorprendente?3».
Una domanda dovuta, a questo punto, è la seguente: per quale motivo non possiamo applicare il
metodo scientifico all'indagine della nostra interiorità, considerando la maggiore agevolezza che
tale sentiero ci promette? Abbiamo già accennato al fatto che molto verrebbe tralasciato a causa
della forzata “ricostruzione”, della “riconversione” in categorie positive: ma si tratterebbe d'una
perdita quantitativa, che in ogni caso ci permetterebbe di scendere a compromessi, o qualsiasi forma
d'analisi psicochimica fa deragliare completamente la ricerca qualitativa dello spirituale?
Cercare di capire cosa differenzia un metodo scientifico da un metodo filosofico/intuitivo in senso
stretto ci porterà a delineare anche le funzionalità distintive della filosofia 4 . Fra gli aspetti che
bisogna elencare, seppur in modo desultorio e non certamente esaustivo, il carattere di utilità d'un
sapere va assolutamente messo in risalto: la predominanza dei saperi che hanno storicamente
assunto finalità pragmatiche è incorporata da Bergson nel motto latino «primum vivere». La genesi
1
Henri Bergson, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano, 2010, pagina 30.
Ivi, pagina 34.
3
Ibidem.
4
Interrogativi di questo tipo devono essere affrontati, prima o poi, da chiunque impieghi le proprie energie in quelli che
più estesamente vengono definiti «studi umanistici»; le risposte meta-classificatorie, che vedono l'arte come
creatrice spontanea di manufatti e le discipline ad essa affini come commenti e classificazioni dei prodotti della
psiche collettiva umana, possono esaurire tutt'al più la giustificazione d'una preparazione culturale e letteraria. È
evidente che se la filosofia ha un metodo, se le sue domande hanno un perché sostanzialmente diverso dal quomodo
degli esperimenti tecnici-scientifici, essa debba occuparsi di circoscrivere le proprie caratteristiche ed essere
cosciente della distanza da altre tipologie d'analisi.
2
d'ogni facoltà mentale ha a che fare con una domanda collegata all'esterno, con un'esigenza: «nel
labirinto degli atti, stati e facoltà dello spirito, il filo che non si dovrà mai lasciare è quello che
fornisce la biologia. […] esse sono ciò che sono perché sono utili, necessarie alla vita 5». L'animale
umano deve, prima d'ogni altra cosa, adattarsi alla sopravvivenza: si ritorna, in un certo senso,
all'aneddoto ironico del Talete caduto in una fossa perché assorto nella contemplazione della natura
o al rischio implicito nella caricatura socratica delle “Nuvole” di Aristofane: quello che aggiunge il
filosofo è che la natura ha dovuto, forse per il nostro bene, allontanarci dall'attrazione in noi innata
verso lo spirituale proprio per permetterci di risolvere le difficoltà più imminenti e dedicarci a degli
scopi:
«Il punto è che una certa ignoranza di sé è forse utile a un essere che deve esteriorizzarsi per agire, risponde,
cioè, a una necessità della vita. […] La natura, in fondo, non ci chiede che un colpo d'occhio all'interno di noi
stessi: noi percepiamo bene allora lo spirito, ma è uno spirito che si prepara a plasmare la materia, che si
adatta in anticipo a essa, che dà a se stesso un non so che di spaziale, di geometrico, di intellettuale. Una
conoscenza dello spirito, in ciò che vi è di propriamente spirituale, ci allontanerebbe piuttosto dallo scopo6».
Un metodo (termine che nella sua etimologia racchiude la parola “ὁδός“, ossia “cammino”) deve
agevolare il passaggio fra le varie difficoltà conoscitive; avviene, invece, che in molti casi si cambi
completamente lo scopo iniziale e dalla pura indagine “aperta” alle novità, tesa a scoprire qualcosa
di sostanzialmente nuovo, si effettui un'epurazione di tutto quanto v'è d'incoerente ed imprevisto,
passando dal “cammino” ad un tunnel totalmente artificiale, isolato dall'ambiente circostante: «il
metodo procede dunque in direzione contraria allo scopo: se doveva, in teoria, estendere e
completare la percezione, è obbligato, nei fatti, a domandare alla folla delle percezioni di arretrare,
affinché una soltanto tra loro possa divenire rappresentativa delle altre 7 ». Le riflessioni ed il
tentativo di comprendere la ψυχή non solo non fanno minimamente eccezione per quanto concerne
tale impoverimento riduttivo dei contenuti e della complessità del campo d'indagine, ma
paradigmaticamente, nell'incarnazione della “psicologia” come scienza (prima la stessa poteva
considerarsi parte organica dell'apparato filosofico), il filosofo francese ravvisa un modo d'operare
decisamente lontano dal reale della qualità psichica. Come ogni scienza, la psicologia ha bisogno di
elementi primi, stabili e fissi, attorno ai quali costruire le proprie teorie: questi sono i «fatti
psicologici8 », stati irrelati dello spirito, apparentemente astratti dalla “personalità portante”, che
vengono selezionati per il loro essere o meno interessanti e fuori da una norma; tutto ciò
presuppone un escludere anelli di congiunzione e continuità che potrebbero essere le principali
chiavi di volta per risalire ad un passato 9 e ricollegarsi ad un'aspettativa futura. Lo psicologoanalista deve, prima di tutto, proteggersi dietro uno schermo che gli permetta di non lasciarsi
affascinare o travolgere dal quid del paziente; quand'anche fosse egli fosse un individuo
apparentemente noioso e privo di charme, non sarà di certo lo “studioso della psiche” (in senso
scientifico) ad estrarre almeno una peculiarità da quella poltiglia uniforme: inversamente sarà
necessario, per procedere con una terapia canonica, ricondurre le “escrescenze” patologiche ad un
glossario comune e lavorare sulla risoluzioni dei singoli problemi, che inceppano il macchinario,
piuttosto che sulla comprensione integrale della singolarità. Scrive l'intellettuale parigino: «egli (lo
psicologo) comincia col trascurare la colorazione particolare della persona, che non si lascia
esprimere in termini conosciuti e comuni. Poi si sforza di isolare, nella persona già così semplificata,
5
Ivi, pagina 45.
Ivi, pagina 34.
7
Ivi, pagina 125.
8
«La psicologia, infatti, procede per analisi come le altre scienze. Risolve l'io, che in un primo momento le è stato dato
attraverso un'intuizione semplice, in sentimenti, rappresentazioni, ecc., che studia separatamente. Sostituisce dunque
all'io una serie di elementi: i fatti psicologici. Ma questi elementi possono dirsi parti? […] È incontestabile che ogni
stato psicologico, per il solo fatto di appartenere a una persona, riflette l'insieme di una personalità. Ogni sentimento,
per quanto semplice, racchiude virtualmente il passato e il presente dell'essere che lo prova e può separarsene e
costituire uno “stato” soltanto attraverso uno sforzo di astrazione o di analisi». Ivi, pagina 159.
9
Di ciò non può essere accusata, differentemente, la psico-analisi tradizionale. Pensiamo, ad esempio, al ruolo
dell'abreazione nelle primissime terapie d'ipnosi o all'interpretazione dei sogni freudiana.
6
questo o quell'aspetto che si presta a uno studio interessante10».
Fra i vantaggi che una ricostruzione sintetica, come quella che le scienze che mirano ad
approssimarsi alla perfezione possiedono, v'è specialmente la possibilità, avendo isolato un fatto dal
continuum psichico, non solo di paragonare due fatti verosimili ma d'identificarli totalmente, alla
stregua dell'identità matematica 1=1, 2=2, ecc.. La categoria dell'identità sarebbe sconsigliata, a
dispetto della semplicità, non solo ai filosofi ma anche a quegli scienziati, a cui l'autore si sentiva
spesso molto vicino e di cui commentava le teorie, che potremmo definire a posteriori “vitalisti”
(un esempio fatto da Bergson è quello dei «biologi evoluzionisti»); come spesso accade nelle
trattazioni filosofiche, modello di libertà conoscitiva e finezza d'animo è l'arte e la categoria, propria
dell'estetica, della rassomiglianza, che nel passo seguente viene contrapposta all'equazione
identitaria:
«Ora, per quanto una logica semplice pretenda che la rassomiglianza sia un'identità parziale e l'identità una
rassomiglianza completa, l'esperienza ci dice tutt'altra cosa. Se si cessa di dare alla parola “rassomiglianza” il
senso vago e in qualche modo corrente in cui lo assumevamo inizialmente, se si cerca di precisare
“rassomiglianza” attraverso un confronto con “identità” si troverà, crediamo, che l'identità è propria del
geometrico e la rassomiglianza del vitale. La prima sottolinea la misura, l'altra è piuttosto di dominio dell'arte:
è spesso un sentimento tutto estetico che spinge il biologo evoluzionista a supporre una parentela tra forme di
cui egli è il primo a percepire una rassomiglianza 11».
Quanto detto basti, al momento, per ciò che va perso nella connotazione scientifica dell'irriducibile
particolarità e singolarità di un soggetto nel confronto con altri. Da aggiungere, però, è che
l'imprecisione e la riduttiva semplicità della schematizzazione delle scienze positive giunge a
deformare anche l'aspetto dialettico e dinamico della singola psiche, pur non paragonata ad altre
simili; il processo che connota l'attività d'uno spirito è la perenne ed instancabile creazione di nuovi
contenuti, un movimento (mouvant è la parola scelta da Bergson) che bisogna seguire come
un'ondulazione percepita sopra la superficie, appositamente iper-ricettiva, della sensibilità. Nel
pensiero bergosniano abbiamo una polarità che fa da contraltare a quella sopra esposta di identità e
rassomiglianza, la contrapposizione fra le due facoltà eterogenee dell'uomo, l'intelligenza e
l'intuizione12. Lo sbaglio, più volte ripetuto dal determinismo, è quello di elencare una successione
per rendere conto d'uno status psichico o emotivo (che, in quel caso, sarebbe un risultato, analogo a
una somma combinatoria di probabilità ed eventi); viene così ignorato il labor animae, la pressoché
illimitata capacità di rielaborazione e personalizzazione dei contenuti esperiti dai sensi ed
immagazzinati in maniera differente nella forma del ricordo. Il mouvant, che devia la prevedibilità
d'un risultato, viene dall'intelligenza tutt'al più catalogato come accidente. Nelle parole del filosofo:
«L'intelligenza parte abitualmente dall'immobile e ricostruisce, bene o male, il movimento con delle
immobilità giustapposte. L'intuizione parte dal movimento, lo pone o piuttosto lo percepisce come la realtà
stessa e vede nell'immobilità solo un momento astratto, un'istantanea presa dal nostro spirito su una mobilità.
L'intelligenza si dà abitualmente alcune cose, intendendo con ciò cose stabili, e fa del mutamento un
accidente che vi si aggiungerebbe in più. […] L'intuizione, legata a una durata che è accrescimento, vi
percepisce invece una continuità ininterrotta di imprevedibile novità; essa vede e sa che lo spirito trae da se
stesso più di quanto abbia, che la spiritualità consiste precisamente in ciò, e che la realtà, impregnata di
spirito, è creazione. Il lavoro abituale del pensiero è agevole e si prolunga fin quanto si vuole. L'intuizione è
faticosa e non saprebbe durare13».
Se il pensiero (razionale) procede liscio come l'olio, l'intuizione comporta fatica, è simile ad un
elastico che si tende sempre più, ad un'apnea in acque sempre più profonde e pericolose.
L'approccio intuitivo è strettamente connesso, per quanto riguarda la nostra auspicata psicologia
10
Ibidem.
Ivi, pagina 50.
12
Tale distinzione verrà diffusamente analizzata nel capitolo 3 del nostro saggio.
13
Ivi, pagina 27.
11
alternativa/filosofica, alla percezione d'una «continuità interrotta d'imprevedibile novità». Questa
dimensione d'interconnessione e reciproca dipendenza di ogni contenuto interiore viene man mano
caratterizzata sempre più precisamente da Bergson, con un costante confronto con il parallelo
insufficiente della «giustapposizione» della serie; il motivo per cui il paradosso zenoniano ci
inquieta è, prima di tutto, il presentarci un qualcosa d'innaturale (ancor più della spiegazione
canonica dell'incrocio categoriale): la continuità degli eventi e di passato-presente-futuro è un
esserci innegabile sul quale è stata calata una griglia semplificante solo successivamente. L'Io è
come una melodia continua, mutevole e cangiante, la sua comprensione 14 implica un abbandonarsi
all'ascolto:
«L'esperienza è alla portata di tutti, e coloro che hanno voluto farla non hanno provato nessuna fatica a
rappresentarsi la sostanzialità dell'io (moi) come la sua stessa durata. È la continuità indivisibile e
indistruttibile di una melodia, in cui il passato entra nel presente e forma con esso un tutto indiviso, che resta
indiviso e anche indivisibile a dispetto di ciò che vi si aggiunge a ogni istante, o piuttosto, grazie a ciò che vi
si aggiunge15».
I contenuti polemici della disposizione bergsoniana sono molteplici e carichi d'implicazioni
destabilizzanti. Il filosofo, tuttavia, li cristallizza in maniera così schietta solamente alla fine della
sua carriera; egli stesso cerca di elencare le varie tappe che gli hanno permesso di concepire una
critica al pensiero scientifico così sistematica ed essenziale ed il punto di partenza da lui individuato
è uno dei suoi primi sforzi intellettuali, risalente al 1889, il “Saggio sui dati immediati della
conoscenza”. La problematica che veniva posta all'apertura del libro ruotava attorno al complesso
legame fra il determinismo dei fatti fisici e chimici della biologia e l'auto-evidente sensazione di
libertà interiore dell'essere umano, la sua capacità di trasformarsi dall'interno. Attraverso un
percorso particolarmente tortuoso ed originale, Bergson approda a delle conclusioni sul ruolo del
cervello in rapporto alla psiche; attenendosi ad un campo molto specifico, quello delle afasie (i
disturbi clinici relativi alla capacità di parlare), il pensatore francese dà una spiegazione che
interessa un malfunzionamento della capacità di ricordare per poi analizzare la struttura stessa della
memoria come facoltà umana essenziale.
La facoltà della memoria è principalmente simbolica: simile ad una “RAM 16” informatica, non è
l'intero insieme delle parole conosciute ad essere perennemente presente nella nostra coscienza (ciò
causerebbe un sovraccarico che renderebbe impossibile l'azione comunicativa); vi è, invece, una
sorta di network (di “rete di rimando”, potremmo dire), che permette, ad esempio, di necessitare del
solo incipit d'una frase per poi ricordarla interamente nell'atto stesso di pronunciarla 17. Lo stesso
14
Quanto appena detto può essere agevolmente esteso alla più profonda comprensione dell'alterità. A partire dalla
concezione dell'Io come flusso continuo, il filosofo suggerisce che non sia possibile, per un legame adeguato di due
psiche, fermare e “compattare” quello che dell'Altro si recepisce per meglio chiarirlo; accordandosi con la tematica
romantica delle affinità elettive, Bergson usa la metafora dell'endosmosi, ossia l'attraversamento di un liquido
dall'esterno verso l'interno tramite una direzione, per poter suggerire che la stessa coscienza individuale può essere
attraversata dalla corrente altrui e trascinata nella sua unicità. «Tra la nostra coscienza e le altre coscienze la
separazione è meno decisa che tra il nostro corpo e gli altri corpi, poiché è lo spazio che fa le divisioni nette. La
simpatia e l'antipatia irriflesse, così spesso profetiche, testimoniano una possibile compenetrazione delle coscienze
umane. Vi sarebbero dunque fenomeni di endosmosi psicologica»; ivi, pagina 25.
15
Ivi, pagina 63.
16
Random Access Memory, è la memoria corta dei processi in corso o appena conclusi, la capacità di usufruire di più
elementi che determina uno dei fattori di potenza dell'apparecchio e si distingue dalla memoria “fissa” di tutti i dati.
17
«L'esperienza interna allo stato puro, nell'offrirci una “sostanza”, la cui stessa essenza è di durare e di conseguenza di
prolungare senza sosta nel presente un passato indistruttibile, ci avrebbe dispensato e anche impedito di cercare il
luogo in cui il ricordo è conservato. Esso si conserva da sé, come tutti ammettono quando pronunciano, a esempio,
una parola. Per pronunciarla, occorre che ci ricordiamo della sua prima metà nel momento in cui articoliamo la
seconda. Nessuno penserà infatti che la prima metà venga subito riposta in un cassetto, cerebrale o altro, per dar
modo alla coscienza di cercavi l'istante successivo. Ma se accade così per la prima metà di una parola, non accadrà
lo stesso per la parola precedente, che fa corpo con quella per il suono e per il senso? Non accadrà lo stesso per
l'inizio della frase e della frase anteriore, e per ogni discorso che, se avessimo voluto, avremmo potuto rendere
indefinitamente lungo?. Ora, la nostra vita intera, dal primo risveglio della nostra coscienza, è qualcosa come questo
vale per la prima parte d'una parola composta, per una parola singola e la sua sillaba iniziale, e così
via. Emerge, di conseguenza, che il ruolo cerebrale è un ruolo in primo luogo pragmatico, di
selezione e semplificazione; esso è come il bibliotecario che gestisce un immenso archivio e deve
scegliere che tomo selezionare per primo. La coscienza, invece, è più simile a questo procedere, a
questo tenere presente; ma allora dove sono i ricordi? Sono in un luogo o in un non-luogo? Che tipo
di esistenza possiedono?
Giunti a questo punto, il rischio è d'invischiarsi in una difficoltà particolare. La posizione della
filosofia bergsoniana potrebbe sembrare sfuggevole: da una parte la psiche è il regno della
continuità, ove più ci si sforza di scendere in profondità più vi si trovano tesori; dall'altra il cervello
e la coscienza, per un corretto funzionamento, devono contare su questa continua selezione, tanto da
far sembrare in realtà tutta la psiche galleggiante, nella sua struttura, in una sorta di essenza metaoperativa. Quello che può venirci in soccorso, a mo' di bandolo della matassa, è il concetto di
«piano del sogno», diversificato da quello della memoria. In quello che di primo acchito può
richiamare un cartesianesimo, il piano dello spirito ed il piano del corpo (nel quale includiamo, in
questo caso, il cervello) vengono ampiamente differenziati per quanto riguarda le rispettive funzioni
ed il cervello diventa l'organo di attenzione alla vita: «il ruolo del corpo consisteva così nel mettere
in gioco la vita dello spirito, nel sottolinearne le articolazioni motrici, come fa il direttore
d'orchestra con una partitura musicale; il cervello non aveva come funzione quella di pensare, ma di
impedire al pensiero di perdersi nel sogno; era l'organo di attenzione alla vita 18 ». Viceversa la
memoria-conscia, il ricordo vivo nel presente, in una metafora che ricorda molto il campo
semantico freudiano dell'iceberg del conscio-subconscio, è solo il piano più alto d'una grande
piramide, la cui base è il «piano del sogno». Alla memoria spetta un misto di percezione attuale e
potenzialità volta al collegamento-ricordo, al piano del sogno è connessa invece un'estensione
illimitata di tutte le esperienze vissute ed archiviate. Nelle parole dell'autore: «Si parte dal “piano
del sogno”, il più esteso di tutti, sul quale è disposto, come sulla base di una piramide, tutto il
passato di una persona, fino ad arrivare al piano, paragonabile alla cima, in cui la memoria non è
che la percezione dell'attuale con azioni nascenti che la prolungano19».
Alle domande che c'eravamo posti prima, dunque, è possibile rispondere: la posizione di Bergson è
quella d'ammettere l'esistenza d'una realtà più inclusiva di quella della memoria, da lui legata al
“sogno”, che potremmo in un certo qual modo definire potenzialmente onni-comprensiva. È un
attributo divino (l'avere tutto) che viene spostato dal cielo all'interiorità umana; ma la sua esistenza
è difficile da dimostrare senza quell'auto-evidenza, quella tacita ammissione di presenza dello
“spirito” che caratterizza il movimento vitalista nel suo complesso. I tentativi che vengono fatti per
mettere in risalto una sorta di riconoscimento di questa vasta distesa sotterranea ed inconscia sono
presi in prestito dall'area estetica; contro la concezione d'un campo dell'esperienza composto d'un
numero preciso di elementi, rispecchiante un altrettanto determinato insieme della memoria, fatto
d'un numero di ricordi, è possibile citare l'abilità degli artisti di vedere ciò che gli altri non vedono:
«Si dirà che questo allargamento è impossibile. Come chiedere agli occhi del corpo, o a quelli dello spirito,
di vedere ciò che non vedono? L'attenzione può precisare, chiarire, intensificare: non fa nascere, nel campo
della percezione, ciò che non vi si trova inizialmente. Ecco l'obiezione. È confutata, secondo noi,
dall'esperienza. Vi sono in effetti, da secoli, uomini la cui funzione è giustamente quella di vedere e di farci
vedere ciò che noi non vediamo naturalmente. Sono gli artisti 20».
discorso indefinitamente prolungato. La sua durata è sostanziale, indivisibile in quanto durata pura». Ivi, pagina 66 e
67.
18
Ivi, pagina 66.
19
Ivi, pagina 68.
20
Ivi, pagina 126. Eppure avevamo visto prima che Bergson caratterizzava la psiche come continua creazione; bisogna
chiedersi, allora, di che tipo di creazione si può discutere: si tratta forse di un continuo ri-conoscere? Di un riscoprire sempre più dettagliato? In questo caso non dovremmo, più scrupolosamente, usare perifrasi come “continua
messa a fuoco” piuttosto che creatio (ai quali, noi occidentali, leghiamo subito «ex nihilo»?)
Ed è un “vedere”soltanto nominale; in realtà s'intende anche l'udire, il toccare 21: siamo di fronte ad
una più generale capacità d'affinamento dei sensi (o “sensibilità”) che l'artista si ritrova in sé innata
ma che il filosofo, lo scienziato o l'uomo comune che voglia riscoprire ciò che di veramente
speciale c'è nel sue esperire la realtà deve continuamente allenare tramite lo sforzo dell'intuizione. Il
passaggio “evolutivo” da voyeur (semplicemente “colui che guarda”) a voyant (il “veggente”) non
riguarda, dunque, solo l'artista in senso stretto: si può passare indiscriminatamente dalla prospettiva
del rapporto fra il soggetto ed il mondo a quella del rapporto fra la persona ed il proprio Io: una
certa sensibilità nel districarsi agevolmente nella memoria, la facilità, che si sarà appresa, che ci
permetterà di scendere fino al piano del sogno e risalire, ci farà guadagnare contemporaneamente
una «familiarità col mondo22» ed i suoi dettagli che sta alla base dell'atteggiamento filosofico.
Per quanto l'artista possa costituire l'archetipo d'una percezione sopraffine ed elevata da imitare, nel
contesto sociale e dietro una lente scientifica ed intellettiva (per il significato che dà Bergson ad
“intelligenza” e che analizzeremo meglio nel capitolo successivo) egli non può che apparire come
un «distratto»; la visione dell'uomo comune, scialba e riduttiva rispetto al sondare creativo
dell'artista, non è votata esclusivamente al comprendere: semmai la priorità assoluta spetta alla vita
pratica, al destreggiarsi (di cui si occupa il cervello, come abbiamo già notato) fra una marea di
inputs da scartare per selezionare solo quelli più utili alla sopravvivenza ed al soddisfacimento di
bisogni materiali. La capacità dell'esteta, del letterato, del pittore e di altre categorie simili è, in
questo caso, la stessa che viene attribuita dall'alba dei tempi al filosofo classico, la contemplazione:
«per quale motivo, essendo più distaccato dalla realtà, arriva a vedervi più cose? Non lo si
comprenderà, se non si comprende che la visione che abbiamo abitualmente della realtà è ristretta e
svuotata dal nostro attaccamento alla pratica, dal nostro bisogno di vivere e agire. Nei fatti, non è
difficile comprendere che più siamo preoccupati di vivere, meno siamo inclini a contemplare e che
le necessità dell'azione tendono a limitare il campo della visione 23 ». E non è solo l'operare
contemplativo che viene riabilitato e messo in gioco; nell'aggiungere esempi che possano rendere
più chiaro quanto avviene nella percezione quotidiana, col suo tralasciare inconsapevole,
riscontriamo un altro caposaldo della filosofia occidentale che da Leibniz in poi ha tormentato le
spiegazioni più razionalistiche del funzionamento della memoria: le petites perceptions, qui
ripresentate sotto la formula di «dissolving views» (potremmo tradurre con visioni che si dissolvono
nel nulla). Scrive il filosofo francese:
«Approfondiamo ciò che proviamo davanti a un Turner o un Corot: troveremo, nell'accettarli e ammirarli,
che vi abbiamo già percepito qualcosa di ciò che ci mostrano. Ma l'abbiamo percepito senza accorgercene.
Per noi, era solo una visione brillante ed evanescente, perduta nella folla di visioni egualmente brillanti,
egualmente evanescenti, che si sovrapponevano nella nostra esperienza consueta, come delle dissolving
views, e che costituivano, attraverso la loro reciproca interferenza, la visione pallida e scolorita che abbiamo
abitualmente delle cose. Ma il pittore le ha isolate: le ha così bene fissate sulla tela che, ormai, non potremo
impedirci di percepire nella realtà ciò che egli stesso ha visto 24».
21
Un esempio che si spinge oltre il mero sensibilismo è quello, considerato dal filosofo, dell'intuizione letteraria,
strettamente imparentata con l'intuizione concettuale: «Chiunque si sia esercitato con buon esito nella composizione
letteraria sa bene che, una volta che l'argomento sia stato lungamente studiato e tutti i documenti raccolti, tutti gli
appunti presi, occorre, per attaccare il lavoro di composizione vero e proprio, qualcosa di più: uno sforzo, spesso
penoso, per collocarsi d'un tratto nel cuore stesso dell'argomento e per andare a cercare alla maggiore profondità
possibile un impulso a cui, in seguito, semplicemente abbandonarsi». Ivi, pagina 187 e 188.
22
«Non si ottiene infatti dalla realtà un'intuizione, cioè una simpatia spirituale con quanto essa ha di intimo, se non ci si
è guadagnati la sua fiducia grazie all'assidua familiarità con le sue manifestazioni superficiali»; Ibidem. Sulla
familiarità si può leggere anche un riferimento alla simpatia/empatia che rafforza ancor di più il nostro ricollegare
questa schiera semantica bergsoniana alla definizione di “sensibilità”: «(Lo scienziato) è obbligato a giocare
d'astuzia con la natura, ad adottare di fronte a essa un'attitudine di diffidenza e di lotta, il filosofo la tratta con
familiarità. La regola della scienza è quella già posta da Bacone: obbedire per comandare. Il filosofo non obbedisce
né comanda, cerca di legare (sympathiser). Da questo punto di vista, l'essenza della filosofia è lo spirito di
semplicità». Ivi, pagina 116 e 117.
23
Ivi, pagina 127.
24
Ibidem.
Perciò tutto ciò che vediamo e percepiamo ha, con sé, un'ombra significativa che si estende dietro la
parvenza ritagliata dalla nostra ricerca d'adattamento. Eppure, nonostante la possibile assuefazione
alla pragmaticità imposta dalla vita, riusciamo a riscoprire, ad esempio tramite la visione di un
paesaggio impressionista, qualcosa che evidentemente è nelle nostre possibilità di percezione. Non
esiste un'ispirazione elettiva che separi nettamente il pittore o il filosofo dall'uomo comune; si tratta,
semmai, d'intuire che dietro ad ogni reale v'è un cono rovesciato di potenzialità inespresse e ciò
riguarda la spazialità, come nel caso dei quadri, ma anche il tempo (aspetto, come vedremo a breve,
assolutamente centrale) ed ogni singola esperienza. Gli snodi più esclusivi della filosofia
spiritualista sembrano ricongiungersi con i giudizi antichi delle prime culture occidentali riguardo
l'arte e la σοφία in generale; per Bergson (ed anche per il Baudelaire delle “Corrispondances”, per
fare un esempio) ogni poesia vera può essere considerata come una ri-velazione poiché rende
visibile ciò avevamo ormai accantonato e ci sembrava perduto. Una metafora particolamente
espressiva che concerne questo rapporto fra virtuailità e realtà effettiva è quello della lastra
fotografica:
«(Gli artisti) non verrebbero compresi da alcuno, se ciò che dicono di altri non fosse da ognuno osservato in
se stesso, almeno fino a un certo punto. Via via che essi ci parlano, ci appaiono sfumature di emozione e di
pensiero, che potevano forse essere presenti in noi da lungo tempo, ma che restavano invisibili, come
l'immagine fotografica, che non è ancora stata immersa nel bagno in cui si rivelerà. Il poeta è questo
rivelatore25».
Avvalorare la tesi bergsoniana del virtuale come permanente presenza di possibilità che si cela
dietro alla realtà pratica da noi percepita dovrebbe comportare, ad avviso di chi scrive, una rilettura
attenta e scrupolosa della teoria platonica dell'anamnesi, troppo spesso ridotta esclusivamente al suo
contesto mitico. La reminiscenza, più che un artefatto nel quale il padre dell'Accademia si rifugia
per fuggire da un'impasse argomentativo, non è forse una formulazione precoce strettamente
imparentata con quelle dissolving views esperite ed annebbiate o con quelle sensazioni ed emozioni
che la poesia ri-sveglia nell'animo del lettore? L'aver già avvertito qualcosa non potrebbe essere,
paradossalmente, la conditio sine qua non di una posteriore comprensione26?
Molti dei paragoni di cui ci siamo serviti, per descrivere il modo corretto di filosofare, hanno avuto
a che fare con la visione e la vista: gli artisti, i veggenti, gli scrittori, i dettagli. Ma se il vedere è
connesso in particolar modo alla spazialità, bisogna iniziare ad affrontare i cambiamenti
rivoluzionari che verrebbero ad affrancare il tempo dalla eccessive schematizzazioni e
frammentazioni della scienza e del senso comune.
Abbiamo già accennato al fatto che un presupposto d'una scienza positiva, che mira ad un'esattezza
geometrica, è la scomposizione: in istanti, in fatti psicologici, in elementi singoli di un ordine
chiuso. Quando si ripercorre, invece, la melodia dell'Io sulla scia dello spirituale, privo di
preconcetti, s'incontra una dimensione temporale che, proprio perché temporale, è continua. La
substantia del tempo è costituita, per Bergson, dal concetto di “durata”: se pensiamo all'accezione
comune del verbo italiano durare27 abbiamo, sì, un senso di prolungamento e di fine come lento
affievolirsi, ma presupponiamo sempre un durare “da...” “...a”; nell'interiorità, invece, a parere del
filosofo, si può riscontrare, anche nell'uomo comune che vi presta attenzione, un sentore basilare di
unità fra il passato ed il futuro. In nessun caso il tempo della nostra percezione interiore può dirsi
arrestato in vita: si può, semmai, riflettere sulla nascita e sulla morte come inizio e fine assoluti,
cosa che in questa sede non faremo. Ciò che qui ci interessa maggiormente è ammettere che una
25
Ivi, pagina 126.
A questo riguardo rimando a qualche traccia d'una rilettura più moderna dell'anamnesi nel capitolo “Quel che Socrate
non sapeva” (pagine 3-11) di Stefano Velotti, Storia filosofica dell'ignoranza, Laterza, Bari, 2003.
27
La terminologia risale all'attributo latino «durus», che è naturalmente resistente, inflessibile. Si può dedurre, dunque,
come già nella semantica originaria sia presente il concetto d'un “resistere” ad una distruzione. Si direbbe
immediatamente “distruzione del tempo”, ma nel definire il tempo come durata alla stregua di Bergson, in maniera
sostanziale e non negativa, sarebbe più corretto osservare che proprio il risultato di tale resistenza è il passaggio del
mutamento su un qualcosa, che segna ed incide per noi la dimensione temporale.
26
volta che la coscienza vive, essa si articola e continua a coniugarsi, come in un discorso senza fine;
la letteratura moderna,in particolar modo quella anglosassone, ha approfondito questo aspetto nella
stilistica dello «stream of consciousness».
La difficoltà di descrivere tale durata, che quindi non si può prendere da un capo o dalla coda ma
che bisogna intuire tutta d'un fiato, se così si può dire, è la complessità che la filosofia si propone di
domare; scrive Bergson a questo proposito: «l'intuizione di cui parliamo riguarda innanzitutto la
durata interiore. Essa coglie una successione che non è giustapposizione, ma accrescimento
dall'interno, prolungamento ininterrotto del passato in un presente che sconfina nell'avvenire. […]
Al posto di stati contigui a stati, che diverranno parole giustapposte ad altre parole, ecco la
continuità indivisibile, e per ciò stesso sostanziale, del flusso della vita interiore 28». Se volessimo
spingerci ancora più in là, usando dei termini che il pensatore francese non utilizza ma che ci
sembrano appropriati, abbiamo dinnanzi a noi una vera e propria questione di priorità ontologica;
siamo noi ad aver bisogno di diversi supporti per poter cogliere più agevolmente il movimento, che
è sia un divenire che un mutare di forma e contenuto. Siamo sempre noi, soggetti, che dividiamo il
tutto in «stati inerti» e «cose morte29», perché l'Essere del tempo, la melodia della realtà, è fluida e
indivisibile 30 alla stregua della nostra psiche: «in luogo di una discontinuità di momenti che si
sostituirebbero in un tempo infinitamente diviso, lo spirito percepirà la fluidità continua del tempo
reale che scorre indivisibile. […] Coglierà un solo e medesimo cambiamento che va sempre
estendendosi, come in una melodia in cui tutto è divenire, ma in cui il divenire, essendo sostanziale,
non ha bisogno di supporto31».
I principali cambiamenti che si ottengono dando un giusto peso alla fluidità della durata e al metodo
intuitivo (pur con la difficoltà e lo sforzo intellettuale che comporta) sono diversi; in principio, per
chiudere momentaneamente la pars destruens della riflessione bergsoniana, bisogna precisare che
ciò che il pensiero scientifico faceva nei confronti del tempo era, in aggiunta, frutto di quello che
potremmo definire un “equivoco categoriale”: la pretesa di poter misurare qualcosa che scorre in
maniera esatta e di poter adottare dei criteri combinatori è un tradurre e convertire la sostanzialità
del tempo in quella dello spazio. Ci troviamo di fronte ad un tempo «spazializzato», che dovrebbe
possedere una fisicità rigida, un'estensione. Tanto siamo assuefatti dalla materialità pragmatica
dell'utile e delle scienze applicate che trasliamo qualsiasi cosa nel campo del misurabile con
presunta certezza: nonostante sia possibile, come abbiamo precedentemente visto, assumere che
anche lo spazio abbia un suo doppio ed una sua ombra da scoprire e che ogni percezione rappresenti
sia il frutto d'una congerie di possibilità precedenti sia una scelta selettiva, la dimensione temporale
è assolutamente centrale per poter parlare di spiritualismo. Lo spirito è nel tempo, si conosce e si dà
attraverso il tempo; la stessa intuizione del flusso interiore è una «visione diretta dello spirito ad
opera dello spirito» che rimane, aggiungeremmo noi, simile ad un riflesso all'interno dello spirito
cosmico che collega ogni cosa in quanto continuità inesauribile e non scomponibile. Tutto questo è
chiaramente formulato da Bergson, che invita il filosofo e l'esteta ad abbandonare i criteri spaziali e
materiali nel momento in cui si avvicinano al tempo, in passi come questo:
«dal momento che l'insufficienza di questa visione dipende innanzitutto dal fatto che quest'ultima poggia
sullo spirito già “spazializzato” e distribuito in compartimenti intellettuali in cui la materia si inserirà,
liberiamo lo spirito dallo spazio in cui si distende, dalla materialità che esso si dà per applicarsi sulla materia:
lo renderemo a se stesso e lo coglieremo immediatamente. Questa visione diretta dello spirito a opera dello
spirito è la funzione principale dell'intuizione, così come noi la comprendiamo 32».
Cosa aggiunge di totalmente nuovo la filosofia di Bergson al pensiero occidentale? In termini di
utilità, nonostante l'acume e la finezza d'analisi, potremmo rispondere «nulla»: ad un primo
28
Henri Bergson, Pensiero e Movimento, pagina 25.
Ivi, pagina 118.
30
Tale intuizione è presente nella filosofia classica greca per la maggioranza delle scuole; pensiamo, fra tutti, a
Parmenide e Plotino.
31
Ibidem.
32
Ivi, pagina 35.
29
approccio si potrebbe essere tentati dal definire la sensibilità e la capacità d'intuizione della
continuità delle doti endogene che variano da individuo ad individuo, sulle quali la filosofia può
speculare ma che non può instillare dall'esterno. Tuttavia tale modo di rispondere accetta, come
principio, proprio ciò che il pensatore francese mira a criticare: la concezione della filosofia come
scienza che, “illuministicamente”, deve continuamente superare se stessa e giungere a qualcosa di
nuovo e più “esauriente” in termini esplicativi. Il pensiero bergsoniano non mira ad un pubblico
settoriale e s'inserisce, spesso esplicitamente, nella tradizione dei saperi umanistici, che si pongono
come fine la riflessione sul vissuto e sull'affinamento delle capacità spirituali e contemplative
dell'essere umano (fra i tanti scopi). A questo riguardo potremmo solamente menzionare l'ingente
numero di artisti che sono stati influenzati, nel XX secolo, dal filosofo parigino: un esempio illustre
di scrittore e letterato che seguì personalmente le lezioni di Bergson alla Sorbonne fu Marcel Proust,
che sembra liberamente richiamarsi a quanto detto (e quanto si dirà) sul tempo nel titolo della sua
opera più celebre, “À la recherche du temps perdu”. Inoltre, a detta del maître à penser parigino, la
speculazione spirituale (lato sensu, oltre che filosofica) deve avvantaggiare la vita di tutti i giorni,
che necessita d'essere «riscaldata e illuminata33»; i dettami della praticità (e dell'intelligenza stessa)
ci riducono ad abitare un mondo che finisce per sembrarci estraneo, dove quanto c'è di più intimo, il
nostro spirito, è qualcosa di cui vergognarsi o da nascondere. L'aspetto interiore del ri-elaborare e
del ri-tornare entro se stessi è visto come una perdita di tempo che si può, tutt'al più, sbrigare in una
sorta di dimensione residuale ove i ricordi divengono cascami della vita vera e pratica: il bisogno
della filosofia si fa sempre più cogente per salvaguardare l'animo umano «poiché il mondo in cui i
nostri sensi e la nostra coscienza ci introducono abitualmente non è altro che l'ombra di se stesso; ed
è freddo come la morte34».
La contrapposizione fra l'uomo pragmatico e l'uomo dello spirito non potrebbe essere più chiara nei
differenti modi di porsi che essi assumono dinnanzi ai ricordi; la “memoria corta” che l'intelligenza
ci impone, sollecitandoci ad agire, fa rassomigliare l'atto compiuto del rimembrare a «un fatto
strano o in ogni caso estraneo, un soccorso prestato allo spirito dalla materia 35». Per andare alla
ricerca del tempo perduto, se ci è concesso prendere in prestito l'espressione proustiana, è
assolutamente d'obbligo fare prima un lavoro su se stessi, per il quale la riflessione filosofica è
adatta, che ci permette d'allentare gli argini del senso comune per quanto concerne il tempo e, in
particolare, in rapporto con il passato e l'attesa del futuro, al fine del rendersi conto che siamo «in
un presente denso e, in più, elastico, che possiamo dilatare indefinitamente all'indietro, facendo
arretrare sempre più lontano lo schermo che ci maschera a noi stessi 36».
Nel nostro modo di concepire il tempo e lo spazio sono presenti, più di quanto ci saremmo aspettati,
molti punti fermi ed inconsci; l'invito della filosofia, e non solo di quella occidentale, a
riabbracciare la sensazione d'un Tutto che fluisce e tracciare i limiti epistemici del proprio realismo
come tratti confinanti l'essere umano qua talis, ci permette di mettere a fuoco alcuni snodi decisivi.
Uno di questi, che era già emerso en passant nel discorrere della fluidità, riguarda la classificazione
di qualcosa come presente e come passato: quale confine più sfumato, più simile ad una transizione,
viene interpretato in maniera più arbitraria per motivi psicologici o storici? In una serie di
conferenze, tenute presso l'università di Oxford nel 1911 e intitolate “La percezione del mutamento”
Bergson tentava di spiegare l'arbitrarietà di tale liminalità, usando una sfera di argomentazioni che
oggi si potrebbe classificare fra il fenomenologico e il costruttivistico, tramite il paragonare
l'attenzione psichica all'intervallo di un compasso:
«il mio presente, in questo momento, è la frase che sono occupato a pronunciare. Ma solo perché mi piace
limitare alla frase presente il campo della mia attenzione. L'attenzione può allungarsi ed accorciarsi, come
l'intervallo fra due punti di un compasso. Per il momento, i punti si allontanano abbastanza per andare
dall'inizio alla fine della mia frase. Ma, se avessi voglia di allontanarli ulteriormente, il mio presente
33
Ivi, pagina 119.
Ibidem.
35
Ibidem. È evidente, in questo caso, il concetto di spazializzazione dello spirituale che avevamo ipotizzato sopra.
36
Ibidem.
34
abbraccerebbe, oltre alla mia ultima frase, quella che la precedeva: mi sarebbe sufficiente adottare un'altra
punteggiatura37».
Qualsiasi scandire temporale, in questo caso, è il risultato d'una sistemazione che risponde a
necessità d'ordine pratico: così potevano essere considerati i segni d'interpunzione nella trascrizione
della conferenza di Bergson, così possono oggi venir classificati i periodi di questo stesso scritto. Le
pause della nostra esistenza, di qualsiasi tipo esse siano, fanno da contraltare ad una dimensione di
“presente” o, per meglio dire, di “capacità a tenere-presente”, che può in larga parte variare: «la
distinzione che facciamo tra il nostro presente e il nostro passato è dunque, se non arbitraria, almeno
relativa all'estensione del campo che può abbracciare la nostra attenzione alla vita 38».
Giunti a questo punto, dopo una lunga rassegna d'insieme su alcuni concetti cardine di “La pensée
et le mouvant”, sarà opportuno osservare più da vicino come si esperisce esattamente un'intuizione
filosofica e ritornare sulle divisioni di spazio e tempo; ciò ci permetterà di evidenziare come per
pensatori “spirituali”, provenienti da tradizioni ed ambienti del tutto eterogenei come nel caso di
Bergson e Jung, si sia resa necessaria, tramite una valutazione della scienza, una più profonda
critica al concetto di causalità che ad essa soggiace.
3. L'intuizione: il metodo filosofico
Molti elementi sono sparsi sulla nostra tavola. Se dovessimo decidere di analizzarne alcuni
particolarmente essenziali, attraverso i quali poter porre le basi di future riflessioni filosofiche,
scrutare la natura dell'intuizione, la sua possibilità d'essere esperita dal pensatore e dall'uomo, è
certamente il primo passo da compiere. Attraverso il discorrere dell'intuizione Bergson auspica un
vero e proprio rinvigorimento della filosofia dei suoi tempi, intrappolata nella rete scientista e
dell'astrazione concettuale, ma non solo: il filosofo parigino non esita a ridefinire il nuovo dominio
filosofico come «metafisico», nonostante il senso da lui attribuito al termine sia sostanzialmente
diverso da quello tradizionale, trascendentistico. Un “fare” metafisico è un operare intuitivo che
consiste nel «seguire le ondulazioni del reale39». Più concretamente, si tratta di superare (e nello
spiritualismo ciò dev'essere reso davvero concretamente possibile) la zona della coscienza abituale
di tempo e spazio attraverso uno scandagliare ed un immergersi; la differenza con l'analisi
psicanalitica, ad esempio, è che la prospettiva filosofica può utilizzare la psiche come modello per
un'indagine ontologica e fenomenica ancora possibile, per una comprensione sempre più estendibile
del mondo. Ricollegandoci a quanto già detto, l'intuizione è «impregnata di spiritualità 40» nell'apnea
temporale proprio perché scopre (o ri-scopre) la «durata reale»: considerando il piano dei fenomeni
esterni alla nostra psiche, la realtà della durata riguarda anche le cose ed i fenomeni; è il
«mutamento puro41», il πάντα ῥεῖ, sul quale il misuratore pragmatico della realtà non ha nessun
interesse a soffermarsi.
Rimanendo in questa frequenza d'onda è possibile circoscrivere in maniera abbastanza schematica
quali sono le facoltà che stanno dietro la vita pratica o intellettivo-pratica e che fanno da
corrispettivo dell'intuizione per la scienza positiva. Nell'insieme dei saggi che costituiscono “La
pensée et le mouvant” ritroviamo a più riprese un contrasto fra le modalità del filosofare puro ed
intuitivo e, da una parte, l'«intelligenza» (che ricalca molto l'«intelletto» della prima Critica
kantiana, come vedremo), dall'altra i «concetti» o le «idee generali».
L'intelletto possiede, in primis, un legame di rimando con la materia e l'esigenza della
manipolazione (nell'accezione letterale del termine); esso non è di certo una facoltà dello spirito, se
si vogliono scindere in maniera accurata due campi come spiritualità e pragmaticità, e si può
37
Ivi, pagina 142.
Ibidem.
39
Ivi, pagina 24.
40
Ivi, pagina 26.
41
Ibidem.
38
considerare come una proiezione ed un «prolungamento dei nostri sensi 42 ». La dimensione
dell'intelligenza racchiude la potenzialità baconiana, permette di dominare ciò che si discerne:
tuttavia abbiamo bisogno, almeno nella maggior parte dei casi riguardanti le cose, che la superficie
renda il segnale che ci aspettiamo, che il “controllo” delle reazioni sia regolare; nulla ci impone di
scalfire la scorza dell'apparenza del mondo nel momento in cui il nostro fine, antropocentrico, è
stato perseguito o sta per essere ottenuto. Una promessa, uno stato di aspettativa ed insicurezza si
verifica soltanto nel momento in cui il fine dell'uomo si identifica con la conoscenza: tale
condizione, ciò nonostante, non può essere del tutto equiparata a quella dell'aspettativa pratica
poiché presuppone un'apertura al non-noto (se si vuole, anche all'ignoto e all'inquietante nel senso
originario), un attesa che può comprendere anche il dis-attendere dei propri obiettivi. Tutto ciò
risulterà immotivato ed inspiegabile all'intelligente che Bergson qui tratteggia; un esempio
d'impoverimento, accettato come “prezzo da pagare”, della visione del reale è la spiegazione
matematica e geometrica dei legami (spaziali e non), ricercata con lo scopo della precisione.
Leggiamo fra le righe bergsoniane che:
«l'intelligenza deforma, trasforma, costruisce il suo oggetto, ne tocca soltanto la superficie, non ne coglie che
l'apparenza. […] Tra intelligenza e materia vi è effettivamente simmetria, concordanza, corrispondenza. Da
un lato, la materia sempre più si risolve, agli occhi dello scienziato, in relazioni matematiche e, dall'altro, le
facoltà essenziali della nostra intelligenza funzionano con precisione assoluta solo se si applicano alla
geometria43».
Questa è la «maniera umana di pensare44» a seguito d'una interiorizzazione filogenetica. L'aspetto
organizzativo dell'intelletto lo rende poco affine all'indagine sul tempo o alle indagini nel tempo: la
maggiore nettezza dei confini dei solidi, il campo dell'esteriorità rispetto a quello dell'interiorità,
l'apparente45 fermezza dei fenomeni, è il cerchio disegnato dall'intelligenza. Essa «si muove con
facilità solo nello spazio e si sente a suo agio solo nell'inorganizzato. Originariamente tende alla
fabbricazione46».
Bergson non accetta una disposizione sistematica in cui l'intelligenza sia l'unica forma
rappresentativa dello spirito umano né, di conseguenza, quelle forme di epistemologia che
riconoscono all'ordinare ed al categorizzare una funzione esclusiva e fondamentale per la
comprensione delle cose; ciò che è necessario per lo sviluppo biologico e pratico non va per questo
disprezzato, ma diversi e molteplici sono gli equivoci filosofici se si conferisce all'intelletto un
ruolo centrale o primario. Ad esempio, interi secoli di filosofia sono stati attanagliati da alcuni
equivoci, se così possiamo dire: il chiedersi come si passa dal Caos all'Ordine, dal Nulla all'Essere.
Sebbene la nostra ricostruzione delle argomentazioni bergsoniane possa sembrare estremamente
desultoria, a parere del nostro autore tali problemi ed altri del medesimo genere non hanno motivo
d'esistere (se non per pura “sportività concettuale”): il fenomenico non necessità certo d'una
giustificazione e d'una fondazione per essere quello che è; simili elementi possono servire, semmai,
all'edificazione delle scienze umane. Non vi è un Caos primigenio e non vi sono percezioni che
hanno bisogno d'essere sistemate: la realtà ha dei suoi caratteri ed è già disposta in un suo ordine; il
42
Ivi, pagina 31.
Ibidem.
44
Ivi, pagina 70.
45
Perché d'una apparenza si tratta, a nostro parere, visto e considerato l'aspetto d'equivalenza fra movimento e
mutamento e il travalicare della dimensione dinamica anche nello spazio comunemente concepito. Si affronta, però,
una difficoltà, visto e considerato il tempo come spazializzato e, proprio per questo, degradato; autori come Karl
Marx e György Lukács, in ambiti diversi (ad esempio nella spiegazione del fenomeno alienante della «reificazione»
umana) torneranno ad utilizzare un campo semantico simile; se si vuole ricondurre ad un unico fil rouge l'uso
negativo che dello spazio viene fatto nei confronti del tempo, specialmente nei pensatori del XX secolo, sarà
opportuno considerare tale dimensione come quella del quantificabile, conditio sine qua non anche della razionalità
moderna a detta di Max Weber. Nella filosofia contemporanea si disserta anche sul deterioramento, in un ambito che
ricorda quello del vitalismo bergsoniano, del senso dello spazio, del viaggio, del tragitto; si può pensare, in area
francese, all'ecologia grigia di Paul Virilio o alle conseguenze dell'ecologia politica di André Gorz.
46
Ibidem.
43
fatto che vi si possa avere accesso solo attraverso determinati strumenti (per esempio, gli organi
sensoriali) non invalida la possibilità di avvertire qualcosa di un “Essere”, di una dimensione altra
rispetto a quella dei filtri. Tali prese di posizioni, decisamente forti, possono essere descritte come
realismo metafisico: è una prospettiva dalla quale Bergson si scontra con Kant e lo classifica, forse
con una lettura leggermente parziale e circoscritta, per la sua diffidenza nei confronti della
possibilità d'una «intuizione sensibile47»: «assurdo supporre che il disordine preceda logicamente o
cronologicamente l'ordine. Il merito del kantismo è stato quello di sviluppare in tutte le sue
conseguenze, e di presentare sotto la sua forma più sistematica un'illusione naturale. Ma esso l'ha
conservata, ed è su di essa che riposa. Dissipiamo l'illusione: restituiamo subito allo spirito umano,
attraverso la scienza e la metafisica, la conoscenza dell'assoluto 48».
Così l'intelligenza è ricondotta al suo ruolo, ridotta alla sua vena strumentale; la si può
caratterizzare come un reticolo che si estende sulle esperienze in senso esteso, le sue «articolazioni»
devono produrre dei risultati, «applicarsi esattamente su quelle della materia49». Diametralmente
opposta sarà l'intuizione, per ciò a cui si rivolge e per il suo modus essendi; è doveroso, però,
specificare come il filosofo spiritualista sia conscio del pericolo che si cela nella sua
categorizzazione e voglia evitare un dualismo rigido, dalle parti reciprocamente impermeabili, come
quello cartesiano: ciò che l'intuizione può cogliere sarà sempre ritradotto, dai grandi geni, in forme
linguistiche o “pubblicamente” comprensibili. È dunque necessaria una ritraduzione nell'ambito
dell'intelligenza subito dopo una grande intuizione: per il linguaggio è, ipso facto, debellata una
chiusura ermetica di un tipo di sapere rispetto all'altro; come un sogno al risveglio, «l'intuizione si
comunicherà del resto solo attraverso l'intelligenza 50».
Un'altra categoria, che abbiamo posto come eterogenea rispetto all'intuitività, è quella dei concetti e
delle idee generali; rompendo con una lunga tradizione filosofica che negli universali vedeva un
carattere ontologico rivelatore, il filosofo francese, come i nominalisti e gli empiristi, tarpa le ali
alle astrazioni, relegando la loro origine alla comodità della classificazione; le idee generali esistono
per “comodità” dell'essere umano, affinché in un solo termine si possano raggruppare più elementi
simili o si possano abbozzare definizioni di elementi prima indeterminati. Ogni parola è, d'altra
parte, un concetto, considerata la sua raison d'être51. V'è, perciò, una continuità fra l'intelligenza e la
dimensione concettuale, che sottende l'intero processo di civilizzazione della nostra specie. La
familiarità umana con le idee generali va considerata come parte integrante del principio vichiano
«verum ipsum factum»: l'uomo è faber e si trova a suo agio in ciò che egli stesso ha concepito per
ritagliarsi il proprio habitat filosofico. Nella penna di Bergson:
«L'uomo è essenzialmente homo faber. La natura, negandogli alcuni strumenti come, a esempio, quelli degli
insetti, gli ha donato l'intelligenza, vale a dire, il potere di inventare e di costruire un numero indefinito di
strumenti. […] Tutta la nostra civilizzazione riposa così su un certo numero di idee generali, di cui
conosciamo adeguatamente il contenuto poiché l'abbiamo fatto, e il cui valore è eminente poiché non
potremmo vivere senza di esse52».
Questa forma d'empirismo rinnovato, che a prima vista può sembrarci molto vicina alla
contemporaneità, cozza in realtà con l'idea, ancora oggi ripresa da più parti, d'una conoscenza
oggettiva indipendente dall'essere umano; basti pensare al cosiddetto «terzo mondo», teorizzato da
Frege e Popper, riguardante i «contenuti oggettivi» dei concetti, confrontabili per mezzo di criteri di
47
Ci sembra che Bergson insista molto sulla prima Critica e poco sulla terza; in particolar modo il suo riferimento va ai
«sistemi di preformazione della ragion pura».
48
Ivi, pagina 58.
49
Ivi, pagina 32.
50
Ivi, pagina 45.
51
«Sarà sufficiente dire che si conviene chiamare idea generale una rappresentazione che raggruppa un numero
indefinito di cose sotto il medesimo nome: la maggior parte delle parole corrisponderà così a un'idea generale».
Ibidem.
52
Ivi, pagina 53.
perfettibilità o falsificabilità, avulsi dalla loro genesi antropologica 53 . Ammessa la natura
strumentale delle categorie dell'intelletto e dei concetti, il vero problema che spinge il pensatore
francese a spingersi oltre rispetto agli schemi esistenti in filosofia (e nel pensiero scientifico) è
semplicemente la constatazione che essi sono già «stati dati»: uno dei movimenti teorici comune a
tutte le correnti “spiritualistiche” che si sono succedute nel pensiero occidentale è quello che
riguarda il richiamo al rinnovamento e la filosofia bergsoniana non fa eccezione. La filosofia
dev'essere conscia della dimensione sociale delle categorie in cui l'individuo si trova e si muove ma
non può accontentarsi d'esse: è «umano» l'utilizzo di strumenti forniti dalla comunità ma ciò che si
persegue col confronto intuitivo fra il singolo individuo (il filosofo, l'artista, il rivelatore) e la sua
dimensione interiore o quella reale dilatata con collegamenti più fini e complessi, che vanno più in
là o si protendono verso un oltre prima non scorto, è quello «slancio vitale»che sta alla base, non
solo di nuove teorie, ma anche di nuove società (e dunque valori). La filosofia è indissolubilmente
saldata alla creazione ed invita a prendere parte al pensiero in maniera attiva, creando qualcosa di
nuovo e diverso, rispetto all'intelligenza dello scienziato che si limita a muoversi al fine d'ordinare
meglio e dominare quanto già intuito:
«Una tale filosofia, diciamo, si distoglierà, per la maggior parte delle volte, dalla visione sociale dell'oggetto
già dato; ci chiederà di partecipare nello spirito dell'atto che si compie. Ci riporterà dunque su quel punto
particolare che va nella direzione del divino. È propriamente umano, in effetti, il lavoro di un pensiero
individuale che accetta come tale il suo inserimento nel pensiero sociale e che utilizza le idee preesistenti
come ogni altro strumento fornito dalla comunità. Ma vi è qualcosa di quasi divino nello sforzo, per modesto
che sia, di uno spirito che si reinserisce nello slancio vitale, generatore delle società che sono generatrici di
idee54».
Come si spiega, allora, la scoperta scientifica? In che modo la scienza progredisce, se il suo unico
vero obiettivo è quello di rendere più facile e semplice quanto già conosciuto? Il contrasto fin qui
delineato, in realtà, va concepito come uno scontro fra due formae mentium: si potrebbe azzardare
che ogni scoperta, in quanto tale, implica un'apertura mentale che non ha a che fare unicamente con
l'intelligenza, concepita come studio del già dato, ma necessita d'una intuizione “spirituale”. Le
intuizioni sono riconosciute esplicitamente da Bergson nei processi che hanno più di altri
rivoluzionato le stesse scienze positive e tale capacità trans-disciplinare viene descritta come
un'abilità nel sondare il reale, seguendone la sua durata pura (i mutamenti ed i movimenti sciorinati
nella loro integrità): «Riteniamo che molte grandi scoperte – di quelle, almeno, che hanno
trasformato le scienze positive, o che ne hanno create di nuove – siano state altrettanti “colpi di
sonda” nella durata pura. Quando più il vivente era la realtà toccata, tanto più profondo era stato il
colpo di sonda55».
Nonostante la capacità intuitiva abbia una potenzialità pura, che può produrre articolazioni utili e
scientifiche così come speculazioni estetiche o teoretiche prive di pragmaticità, qualcosa rimane
distintivo della filosofia rispetto alla scienza: se l'analisi56 dei dati che compie quest'ultima riguarda
la materia ed essa può intuire nuove variazioni del flusso continuo della realtà che prima restavano
celate, il punto di partenza della filosofia spiritualista è la dimensione interiore, psichica, e questa
può essere utilizzata come prototipo d'indagine per osservare persino quanto c'è d'esteriore alla
53
«Quello che conta, ai suoi occhi, è ciò che egli chiama il «terzo mondo», che comprende la «conoscenza o pensiero in
senso oggettivo, consistente in problemi, teorie ed argomentazioni in quanto tali» o, con le parole di Frege, «non
l'atto soggettivo del pensare, ma il suo contenuto oggettivo». Non soltanto le ragioni non sono riducibili alle cause,
ma il «terzo mondo» (quello delle ragioni) è «totalmente indipendente dall'affermazione o pretesa di conoscere
avanzata da chicchesia». Stefano Velotti, Storia filosofica dell'ignoranza, pagina 29.
54
Henri Bergson, Pensiero e movimento, pagina 54.
55
Ivi, pagina 182.
56
Un altro punto che lascia intendere una compatibilità fra l'intuizione e l'intelligenza/l'analisi: «dall'intuizione si può
passare all'analisi, ma non dall'analisi all'intuizione». Ci sarebbe, in sostanza, una priorità cronologica che non può
essere invertita. A questo riguardo possiamo notare come il termine «-analisi» della psicanalisi rappresenti un
perfetto ibrido fra l'auspicata metodologia d'indagine sulla continuità di Bergson e lo statuto di “scienza”
tradizionale.
nostra coscienza. Per riprendere un concetto già espresso all'inizio del nostro saggio, per lo
spiritualismo anti-scientista della prima fase del XX secolo (fra le declinazioni dello stesso includo
anche la fenomenologia) la psiche è spesso un modello per la conoscenza della realtà: la
particolarità della filosofia rispetto alla scienza è che la prima riguarda un riflesso dello spirito
umano su se stesso, una (ri)flessione in senso letterale, e non uno sforzo dello spirito sulla materia.
Vi sono, dunque, campi in comune di due funzioni diverse: la scienza e le sue articolazioni sulla
materia sono, in ogni caso, decisamente più “naturali” e “spontanee” perché facenti parte del
repertorio necessario alla sopravvivenza; il sapere filosofico ed intuitivo “innaturali”, in un certo
qual modo, perché implicano una sorta di movimento innaturale, uno sforzo non richiesto causato
dal risalire «la pendenza delle abitudini contratte a contatto con la materia 57».
Il confine fra il concetto di “intuizione” e quello di “slancio vitale”, se sussiste, è molto labile:
questo slancio, generatore di idee e società, si ottiene attraverso l'intuizione delle grandi menti o è,
se vogliamo, già presente nelle loro intenzioni più o meno consce. Ma in che modo l'intuizione
contempla sia la distruzione dei presupposti scientifici precedenti che la costruzione di nuovi
supporti per il pensiero? Parlare positivamente della sua distruttività è un passaggio che va
compiuto cum grano salis poiché solo attraverso determinati risultati, che effettivamente portino a
dei miglioramenti funzionali e ad una maggior chiarezza concettuale, è possibile descrivere tale
forma di processo spirituale (che altrimenti, non seguendo il teorema della causalità razionale
tradizionale, non sarebbe giustificabile e comprensibile in un approccio comune). Un paragone che
Bergson usa per circoscrivere il mistero dell'intuizione è quello fra essa e la potenza inconscia ed
innata nel genio del δαίμων socratico e della «potenza di negazione 58 » che tale “possessione”
comportava (nella classica forma, all'interno dei dialoghi platonici, dell'ἔλεγχος, il confutare le varie
accezioni onto-epistemologiche degli interlocutori).
Nell'interpretazione bergsoniana, ciò che veniva compiuto dal demone degli spiriti filosofici era
proprio un mettere in guardia rispetto alla sicumera che poteva derivare dalla disposizione delle
apparenze fenomeniche dinnanzi ai sensi e ai fondamenti, fittiziamente supposti come ultimi, delle
scienze tecniche: «arrestava la volontà del filosofo a un momento dato, e gli impediva di agire, più
che prescrivere ciò che doveva fare 59». L'intuizione spinge al proseguimento del dubbio verso una
nuova e più precisa osservazione della realtà, è ἐποχή che allo stesso tempo stimola ad un'azione
altra; ci si trova davanti al paradosso, dunque, per cui ogni meditazione inizia con un rifiutare, con
un “no” o una sorta di ribellione nei confronti dell'insieme dei saperi costituitisi nei tempi o imposti.
Lo spirito e/o il demone sussurra al filosofo che qualcosa non va, enuncia un «impossibile» e un
non plus ultra dal quale tutto inizia:
«Davanti a idee correntemente accettate, tesi che sembravano evidenti, affermazioni che erano passate sino a
quel momento per scientifiche, essa sussurra all'orecchio del filosofo la parola: Impossibile. Impossibile,
perché una certa esperienza confusa forse, ma decisiva, ti parla attraverso la mia voce, dicendo che è
incompatibile con i fatti che le si attribuiscono e le ragioni che se ne danno, e che dunque i fatti debbono
essere mal osservati e i ragionamenti falsi. Forza singolare questa potenza intuitiva di negazione! […] Non è
forse chiaro che il primo passo del filosofo, quando il suo pensiero è ancora malfermo e la sua dottrina non è
definitiva, consiste nel rifiutare fermamente alcune cose? 60».
Un primo aspetto da inquadrare è, quindi, quello di rottura e rigenerazione (a nostro parere,
fenomenologica anche in Bergson) del pensiero, nella filosofia, a dispetto delle categorie
scientifiche autoreferenziali: è questa una delle teste dello spiritualismo. L'intelligenza, che è una
facoltà essenzialmente fabbricatrice e manipolatrice, non può assolvere a questa funzione: filosofare
sarebbe inutile se, ad esempio, i sensi avessero «una portata illimitata61». O meglio: per quanto
concerne l'utilità biologia e la costruzione del senso, tutto verrebbe colto e mancherebbe quella
57
Ivi, pagina 70 e 71.
Ivi, pagina 101.
59
Ibidem.
60
Ivi, pagine 101 e 102.
61
Ivi, pagina 122.
58
evidente richiesta ad andare oltre l'osservazione immediata per «colmare dei vuoti» ed «estendere la
portata della percezione 62 ». Anche il procedere spirituale, però, segue i dettami di una qualche
forma di utilità, o comunque ricerca delle soddisfazioni; se non nella formula del “conoscere meglio
per vivere meglio” (che è di per sé più inclusiva di quella baconiana del dominare meglio), v'è un
trait d'union fra la necessità di superare alcuni limiti ed imperfezioni delle nostre percezioni e della
formulazione strettamente razionale dei ragionamenti logici e la nascita della filosofia:
«l'insufficienza delle nostre facoltà di percezione – insufficienza constatata dalle facoltà di
concezione e di ragionamento – ha dato luogo alla filosofia63».
Se la definizione di una “scienza” prevede un rifarsi costante e fondativo ai cosiddetti «percetti», la
filosofia non è una scienza; e lo stesso vale per una catalogazione delle scienze leggermente più
estesa e meno empirica, che conferisca un carattere oggettivo e dirimente a concetti ed idee generali.
Le astrazioni sono come i «biglietti di banca», la loro utilità per il trasporto di dati è lapalissiana ma
non possono ambire ad uno statuto diverso da quello della promessa: «non nego l'utilità delle idee
astratte o generali – non più di quanto contesti il valore dei biglietti di banca. Ma come la banconota
non è che la promessa di oro, così una concezione vale solamente per le eventuali percezioni che
rappresenta 64 ». L'unico modo per professare un autentico ritorno alla «metafisica intuitiva», da
Bergson auspicato, è il libero e cosciente utilizzo, da parte del filosofo (ma anche del letterato e
dell'intellettuale, nell'accezione più estesa della parola), dell'intuizione (1), che estende i
collegamenti nel tempo e nello spazio (vedremo meglio questo aspetto nel capitolo successivo),
lasciando aperta la sensazione di una Totalità, di un Assoluto, e dell'esprit de finesse (2) del singolo,
a condizione che quest'ultimo riesca a riflettersi sull'intelligenza e possa tradurre i risultati del suo
sondare l'ignoto in un linguaggio comune: «non v'è pensiero senza spirito di penetrazione (esprit de
finesse), e lo spirito di penetrazione è il riflesso dell'intuizione nell'intelligenza65».
4. L'acqua, i cristalli e una cascata gelata
Lo spiritualismo, tramite le intuizioni, chiede di ripensare molte delle categorie comuni e
scientifiche. Su questo, come vedremo, si trovano d'accordo un filosofo come Henri Bergson e uno
psicanalista come Carl Gustav Jung: eppure sembra che tale sollecitazione non possa essere relegata
a dei momenti storici e faccia parte, come un organo, del destino della conoscenza in quanto tale.
Una teoria è solo una teoria, si potrebbe dire. Inoltre, se si segue una contrapposizione, voluta in
parte dagli autori stessi, nei riguardi del pensiero “scientifico-tradizionale”, una forma di update
potrebbe risultare obbligata dagli stravolgimenti confermati e pubblicamente accettati dagli stessi
scienziati; sia Bergson che Jung, da questo punto di vista, non tacciono quanto lavoro ancora vada
fatto per aggiornare categorie e concezioni basilari dell'uomo a seguito delle “scoperte” della
relatività einsteiniana e della fisica quantistica.
A buon diritto può essere riscontrato un primo punto di sutura fra gli studi di Bergson e Jung
proprio da tali riferimenti nei riguardi delle scoperte della fisica; ciò che colpisce entrambi gli autori
sono le conseguenze, nel trattare il concetto di «ordine psichico», che comporta la constatazione di
modi diversi di determinazione della materia, dei suoi movimenti e delle sue leggi, riscontrato
nell'ordine microscopico. I fenomeni quantici incrinano la fiducia nel “determinismo” della materia,
nella regolarità dell'esteriorità a cui filosofi e psicologi nei secoli si sono appoggiati per consigliare,
guidare e modellare l'interiorità; a detta di Bergson, l'adattamento della psiche al caos in cui è
immersa avviene anche attraverso una forma di limite auto-imposto che riguarda le grandezze da
percepire e, soprattutto, la «condensazione della loro durata66»: l'attenzione della vita deve ritagliare,
62
Ibidem.
Ivi, pagina 123. Poco oltre: «Tutti, antichi e moderni, sono d'accordo nel vedere nella filosofia una sostituzione del
concetto al percetto. Tutti si affidano, a causa dell'insufficienza dei sensi e della coscienza, a facoltà dello spirito che
non sono più percettive, voglio dire alle funzioni di astrazione, di generalizzazione e di ragionamento».
64
Ivi, pagina 122.
65
Ivi, pagina 72.
66
Ivi, pagina 247.
63
come nella celebre carmina di Orazio67, anche le sensazioni (o meglio, l'attenzione ad esse prestata
da parte dello spirito) nel loro reciproco intreccio se non vuole che i soggetti si dissolvano nella
continuità infinita degli eventi in successione. In termini diversi lo psicanalista ed antropologo
svizzero nota, en passant, come la fisica quantistica abbia conferito, a quelle che prima potevamo
chiamare «leggi naturali», una «validità relativa»: «le leggi naturali sono verità statistiche, cioè
sono per così dire interamente valide soltanto quando si tratta di grandezze macrofisiche 68».
Con un metodo che si riscontra spesso nella filosofia libera da schemi scientifici e che non può
essere sovrapposto totalmente, senza qualche sbavatura, al Gedankenexperiment o all'analisi
fenomenologica, Bergson analizza ciò che sta facendo nell'atto dello scrivere i suoi saggi e il
supporto materiale sul quale compie il medesimo gesto, il legno della sua scrivania. Analogamente
al Cartesio delle Meditazioni metafisiche («il mio corpo, questo foglio, questo fuoco» ecc.), il
filosofo parigino si chiede cosa succederebbe alla sua percezione della scrivania se la sua vista
“potesse” spingersi oltre i suoi limiti naturali e guardare “tutto” (entro il cerchio del corpuscolare
scoperto dalla scienza dei suoi tempi):
«Cosa diventerebbe il tavolo sul quale scrivo in questo momento, se la mia percezione, e di conseguenza la
mia azione, fosse fatta per l'ordine di grandezza al quale corrispondono gli elementi, o piuttosto gli
avvenimenti costitutivi della sua materialità? La mia azione sarebbe dissolta, così come la mia percezione si
troverebbe ad abbracciare, nel luogo in cui vedo il mio tavolo e nel breve momento in cui lo guardo, un
universo immenso e una non meno interminabile storia. Mi sarebbe impossibile comprendere come questa
immensità mutevole possa divenire, affinché io agisca su di lui, un semplice rettangolo immobile e solido.
Accadrebbe lo stesso per tutte le cose e per tutti gli avvenimenti: il mondo in cui viviamo, con le azioni e
reazioni delle sue parti le une sulle altre, è ciò che è in virtù di una certa scelta operata sulla scala delle
grandezze, scelta determinata essa stessa dalla nostra potenza di agire 69».
Si otterrebbe, perciò, un'impraticabilità per l'intelletto e per la sopravvivenza dell'uomo nel mondo
(una sorta di incubo per la mente) e, contemporaneamente, l'apertura, per lo spirito puro e la sete
della facoltà contemplativa 70, non solo ad un «universo immenso», ma ad una «storia infinita»:
l'aspetto della durata come reale scorcio d'infinità è qui palesato e, come vedremo, si contrapporrà
nella schematizzazione bergsoniana alla spigolosità di origine e fine dettate dalle spiegazioni basate
sul principio di causalità. La più banale scelta, quella delle grandezze, racchiude in sé una inconscia
e significativa selezione da parte del nostro organismo e solo tramite essa è possibile agire (alcune
malattie mentali possono essere lette, da autori vitalistici come quelli che stiamo trattando, come la
rottura di argini intellettivi e la comunicazione diretta con un mondo reale più puro e meno filtrato).
Ma cosa vuol dire, nel contesto della speculazione sul nostro spirito, superare il nostro stesso corpo
ed i canoni che la scienza ci impone? Giungere alla realtà, alla vera realtà: sembra una meta
misteriosa e misterica. Eppure, sembra dirci Bergson, è dall'inizio del filosofare occidentale che tale
obiettivo viene inseguito: nonostante gli accorgimenti, le categorie sono state dei tentativi di
raffigurare, sul piano del linguaggio e del pensiero, gli elementi comuni dell'esistenza, delle
percezioni e delle conoscenze sul mondo. Queste hanno fatto riferimento, per secoli, allo spazio e al
tempo: in un certo qual modo la distinzione fra queste due, se così possiamo definirle, dimensioni
dell'esperibile si è sempre rilevata necessaria.
Il filosofo francese sembra voler scardinare il rapporto fra il soggetto conoscente e le categorie
spazio-temporali da un lato, dall'altro vorrebbe introdurre nuovi concetti, come il movimento e il
mutamento, che a suo modo di vedere coglierebbero maggiormente la vera radice della realtà e del
suo “scorrere”. Al primo tentativo apparteneva l'esempio del tavolo scomposto, ipoteticamente, nei
suoi elementi costitutivi a livello molecolare (per quanto riguarda lo spazio), ma va ribadito ancora
67
Mi riferisco al verbo latino «resecare», utilizzato nella ode oraziana del Carpe Diem: «vina liques et spatio brevi spem
longam reseces. Dum loquimur, fugerit invidia aetas: carpe diem, quam minimum credula postero».
68
Carl Gustav Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, Bollati Boringhieri, Torino, 2013, pagina 17.
69
Henri Bergson, Pensiero e movimento, pagina 52.
70
È lecito, dunque, supporre un collegamento sistematico, e non casuale, fra la contemplazione e l'autodistruzione? La
mistica, in certe sue accezioni, sarebbe un esempio in grado di dare una risposta al nostro quesito.
una volta che lo stesso concetto di tempo necessita d'una liberazione più profonda dalle categorie
spaziali che su di esso sono state imposte. L'intelletto spazializza il tempo, l'intuizione no: il primo
lavora sul «fantasma della durata 71 », sacrificando, per la determinatezza e l'ordine, la mobilità
infinita del trascorrere, la sua fluidità: «per passare dall'intellezione alla visione, dal relativo
all'assoluto, non occorre uscire dal tempo (ne siamo già usciti); bisogna, al contrario, riprendere
posto nella durata e cogliere di nuovo la realtà nella mobilità che ne è l'essenza 72 ». Questo
protendersi della materialità e della spazialità sul tempo, che potrebbe essere la categoria classica
più vicina alla descrizione maggiormente verosimile della matrice della realtà, danneggia anche il
concetto stesso di movimento/mutamento, che è al centro della filosofia bergsoniana (un po' come
per Eraclito) e dal quale deve muoversi qualsiasi filosofia spiritualista e sensistica allo stesso tempo
(un empirismo rinato, potremmo dire). L'operazione della scienza è la stessa che soggiace al
paradosso zenoniano; piuttosto che ammettere un eterno mutamento, senza un inizio e senza una
fine (che nel testo viene spesso liberamente accostato all'Assoluto), ed avvertire la limitatezza d'ogni
spiegazione causale riguardo ad un passaggio di stato, all'individuazione di un momento esatto in
cui y non è più x per delle cause z a b ecc., un unica estensione viva viene suddivisa in tante «entità
immobili73» (i secondi, i centimetri, gli atomi, per fare degli esempi): il risultato è il reale sezionato
delle scienze esatte. Scrive il filosofo:
«la conoscenza usuale è costretta, come la conoscenza scientifica e per le medesime ragioni, a prendere le
cose in un tempo polverizzato, in cui un istante senza durata succede a un istante che non dura ulteriormente.
Il movimento è per essa una serie di posizioni, il cambiamento una serie di qualità, il divenire, in generale,
una serie di stati. Tale conoscenza parte dall'immobilità […] e, attraverso un'ingegnosa disposizione di entità
immobili, ricompone un'imitazione del movimento che sostituisce al movimento stesso: operazione
praticamente comoda ma teoricamente assurda, piena di tutte le contraddizioni, di tutti i falsi problemi che la
Metafisica e la Critica incontrano davanti a sé 74».
Andare contro il sapere combinatorio, in senso opposto alla fondazione (Grund) dell'essere in degli
elementi ultimi fissi ed immobili: sono alcuni dei presupposti che lo spiritualismo bergsoniano
raggiunge. Per quanto riguarda la combinazione, il tentativo artificiale di ricostruire la realtà, un
esempio particolarmente suggestivo, e allo stesso tempo paradossale, che viene fatto dal pensatore
francese è quello di uno studioso di lettere (allegoria dello scienziato) che volesse carpire il senso
complessivo d'un poema che, per un gioco del destino, è pervenuto fra le sue mani in un ordine
sparso ed incomprensibile, tentando di ricomporlo daccapo dopo aver individuato tutte le singole
lettere75. La realtà è una ed è già data una volta per tutte; ciò nonostante, la sua essenza, la sua
particolarità, è il movimento/mutamento: per cui potremmo dire che qualcosa propriamente è
quando si muove o muta. Il vitalismo di Bergson liquida con pochi movimenti il “Nulla” come
concetto presente o, quantomeno, funzionale; frutto di un equivoco dell'applicazione di categorie
intellettive in ciò che è sostanzialmente il terreno dello spirituale, l'assenza, in quanto “sparizione”
di qualcosa che esiste in un universo ontologico, altro non può essere altro che un'illusione. Il
riferimento ai paradossi di Zenone viene oculatamente prolungato con massimo rigore, nonostante
faccia parte anch'esso di una serie di domande tortuose e non immediatamente giustificate
dall'esperienza sensibile: così come l'allievo desiderava trascinare i suoi uditori, portati
precedentemente nel dubbio, alla filosofia del maestro (Parmenide), il nostro autore si dimostra in
un certo senso “parmenideo” e più vicino al senso della continuità infinita del reale delle filosofie
71
Ivi, pagina 23.
Ibidem.
73
Ivi, pagina 117.
74
Ivi, pagina 118.
75
«Supponiamo che mi si presentino, mescolate a caso, le lettere che entrano nella composizione di un poema a me
sconosciuto. Se le lettere fossero parti del poema, potrei cercare di ricostruirlo con esse provando diversi
aggiustamenti possibili, come il fanciullo fa con i pezzi di un gioco di pazienza. Ma non penserei in questo modo
neppure per un istante, dato che le lettere non sono parti componenti, bensì espressioni parziali, che è tutt'altra cosa».
Ivi, pagina 161.
72
orientali (il ciclo) piuttosto che alla drammatica cesura di vita e morte ed Essere e Nulla occidentale.
La “sparizione” non sarebbe altro che una “sostituzione”, la distruzione una generazione e così via;
sulla riga di Bergson possiamo dire che «in realtà non vi è il vuoto. Noi non percepiamo e non
concepiamo che il pieno. Una cosa scompare solo perché un'altra l'ha sostituita76».
Eppure resta da spiegare, considerato come punto fermo il principio di utilità e l'obiettivo della
sopravvivenza come raison d'être delle categorie del pensiero comune e scientifico, (A) in che
modo si sia resa possibile la percezione del mondo dell'esistenza ed il passaggio da una presunta
confusione primordiale, reale e continua, ad una fittizia e regolata e (B) se si possa andare al di là
delle intuizioni filosofiche, che potrebbero rimanere ai più delle velleità iperuraniche e chimeriche, e
fare degli esempi più concreti per indicare la sensazione della “durata”.
Per quanto riguarda (A), ciò di cui, de facto, si discute è una delle tematiche più pregnanti della
filosofia classica e moderna: le condizioni di possibilità dell'esperienza umana. Qualsiasi soluzione
“convenzionale”, secondo la quale un individuo o un gruppo abbiano potuto istituire dei canoni che
permettessero di regolare le varie conoscenze e deviassero da una confusione di base, è inefficiente:
la dimensione storico-umana non può addentrarsi oltre e spiegare in quale modo un “corpo
primordiale” possa essersi adattato a livello cognitivo. Più in là si spinge la delucidazione evolutiva
e genetica: ma l'interiorizzazione di alcune situazioni, la vecchia scuola dell'ereditarietà dei
caratteri77 o qualsiasi esplicazione evolutiva non sfiora minimamente il problema del movimento e
della percezione in esso, così come viene fatto da Bergson. Se “tutto” è in continuo divenire, da
dove è sorta la possibilità di un “percetto” come unità immobile, analogo ad un “atomo
epistemologico”? In che modo è stato possibile formarsi un'idea del movimento, da cui, dapprima
s'è diramata la concezione della stabilità e della fissità e poi la riscoperta della durata interminabile
in ambito spirituale?
Il filosofo francese dà una risposta molto particolare, e allo stesso tempo precisa, a tali quesiti: la
percezione del movimento, perciò la percezione in quanto tale essendo «il movimento la realtà
stessa78», è resa possibile da un fenomeno fisico-psicologico empiricamente osservabile; si tratta
della constatazione che due corpi aventi una stessa velocità e una stessa direzione possano interagire
fra loro senza problemi e, analogamente, due soggetti nella stessa situazione potrebbero condividere
la medesima “illusione di stabilità”, che costituirebbe anche il loro universo comune. Uno degli
esempi più famosi, emblema della finezza dell'analisi bergsoniana, è quello dei due treni che
viaggiano su binari paralleli alla stessa velocità:
«a dire il vero, non vi è immobilità autentica, se intendiamo con ciò un'assenza di movimento. Il movimento
è la realtà stessa e ciò che chiamiamo immobilità è un certo stato di cose analogo a ciò che si produce quando
due treni procedono alla stessa velocità nello stesso senso su due binari paralleli: ognuno dei due treni è
allora immobile per i viaggiatori seduti nell'altro. Ma una situazione di questo genere, che è in definitiva
eccezionale, ci sembra essere la situazione regolare e normale, perché ci permette di agire sulle cose e
permette anche alle cose di agire su di noi: i viaggiatori dei due treni possono tendersi la mano dal finestrino
e chiacchierare insieme solo se sono “immobili”, vale a dire se marciano nello stesso senso e alla stessa
velocità79».
Questa situazione, dal filosofo stesso definita «eccezionale» e che tutti incontriamo nei manuali di
fisica, è la regolarità della nostra vita: il tendere la mano da un finestrino all'altro o le chiacchiere
che i due passeggeri possono scambiarsi rappresentano le azioni che quotidianamente compiamo nel
movimento e tramite dei movimenti (basti pensare al nostro essere parte di una movenza planetaria,
all'interno di un altro equilibrio cosmico muoventesi). Bisogna aggiungere, inoltre, che il concetto di
«mouvant» del titolo bergsoniano non concerne esclusivamente casi astratti legati al percorrere uno
76
Ivi, pagina 89.
In maniera, a nostro parere, erronea, si considera superficialmente superata in quanto tale la forma dell'ereditarietà dei
caratteri. Nonostante le enormi evoluzioni rispetto alle leggi di Mendel, gran parte degli studi biologi contemporanei
verte sul fenomeno dell'ereditarietà genetica, a partire dalle stesse scoperte di Watson e Crick.
78
Ivi, pagina 134.
79
Ibidem.
77
spazio da parte di un corpo; il modo più diretto attraverso il quale ci si può rendere conto di quanta
ampiezza venga colmata da questa parola nell'opera del filosofo è accorgersi dell'uso quasi
sinonimico (e dei continui accostamenti) che viene fatto per “movimento” e “mutamento”. A questo
riguardo si può leggere quanto Bergson stesso aggiunge poco oltre: «se il mutamento è continuo in
noi ed è continuo anche nelle cose, affinché il mutamento ininterrotto che ciascuno di noi chiama
“io” possa agire sul mutamento ininterrotto che chiamiamo “cosa”, occorre che i due mutamenti si
trovino, l'uno in rapporto all'altro, in una situazione analoga a quella dei due treni di cui parlavamo
poco fa80». Non si ha, perciò, una situazione problematica d'un corpo statico che deve spiegarsi il
mutamento, né tanto meno il caso inverso: la comunicazione e la comprensibilità del rapporto
soggetto-oggetto è spiegata attraverso l'ubiquità del cambiamento che pervade ogni aspetto
dell'esistente. Si può solo accennare alle conseguenze che tale constatazione ontologico-metafisica
ha sull'intersoggettivà e sulla psicologia degli individui: la reciproca comprensione degli esseri
umani sarebbe, a sua volta, direttamente proporzionale alla loro capacità di sentirsi partecipi di un
costante mutare e facenti parte d'un divenire, dalla corsa dei treni paralleli alla sincronia delle
metamorfosi (e, di conseguenza, molto dell'incomprensibilità nella sua accezione essenziale e
filosofica sarebbe da addurre a posizioni fittiziamente rigide e incrollabili).
Anche la spiegazione della fermata e dell'immobilità potrebbe risultare unitamente sui generis e
familiare. L'unità onto-topologica di un qualcosa, ferma nello spazio e nel tempo, è, come abbiamo
precisato nel corso della nostra analisi dei passi bergsoniani, un'astrazione irreale; nonostante ciò, è
possibile definire qualcosa di immobile come «veduta» su un “mobile”, a guisa di una prospettiva;
non si tratta di guardare, più specificamente, un oggetto soltanto da una diversa angolazione, perché
ciò presupporrebbe unicamente una diversa finestra sulla durata, ma della dimensione virtuale, nella
quale prevediamo un determinato spostamento e ci aspettiamo che in quel punto il movimento si
fermerà. Ogni arresto, in quanto possibile, è una «supposizione d'arresto81» e tutti gli elementi che
richiamano la fissità fanno parte della sfera virtuale del nostro esperire.
Per quanto interessa il punto (B), esempi di come si possa auscultare la durata reale delle cose sono
offerti nelle stesse righe delle opere del filosofo, in una sorta di procedere empirico meta-letterario
(come abbiamo visto, solo in parte, con l'esempio della scrivania di legno). Accanto a tali elementi è
doveroso menzionare la differenziazione che viene fatta fra i vari organi di senso ed il rapporto fra
essi ed il movimento/mutamento: la vista ed il tatto sono stati strettamente connessi, per motivi
evolutivi, alla sopravvivenza e nonostante il loro potenziale possa essere liberato in ogni momento
dall'esteta, per trascendere il loro valore strumentale, per gli occhi e le dita è quasi istintivo
ritagliare il campo percettivo in sezioni discontinue e definite, affinché il soggetto percepente possa
appoggiarsi su una certa stabilità. L'argomento varia se si presta attenzione all'udito, che è forse un
senso che offre meno sollecitazioni a livello di sopravvivenza fisica, e del rapporto fra esso e i suoi
oggetti: come abbiamo visto nel capitolo 2, Bergson torna molte volte sull'espressione della melodia
e la musica è uno dei suoi esempi prediletti per esprimere l'impossibilità di fissare un senso reale a
degli elementi fissi combinati fra loro. Scrive il filosofo:
«Ma faremmo già meno fatica a percepire il movimento e il mutamento come realtà indipendenti, se ci
rivolgessimo al senso dell'udito. Ascoltiamo una melodia e lasciamoci cullare da essa: non abbiamo forse la
sensazione chiara di un movimento non vincolato a un mobile, di un mutamento senza niente che muti?
Questo mutamento basta a se stesso, è la cosa stessa. E per quanto assorba un certo tempo, è indivisibile.
Senza dubbio abbiamo una tendenza a dividerla e a rappresentarci, anziché la continuità ininterrotta della
melodia, una giustapposizione di note distinte. Ma perché? Perché pensiamo alla serie discontinua di sforzi
che faremmo per ricomporre approssimativamente il suono udito cantando noi stessi, e anche perché la
nostra percezione uditiva ha preso l'abitudine di impregnarsi di immagini visive».
80
81
Ivi, pagina 136.
«Lungo tutto il movimento io posso rappresentarmi possibili fermate: le chiamerò “posizioni” del mobile o punti per
cui il mobile passa. Ma con le posizioni, fossero anche infinite di numero, non farò mai un movimento. Esse non
sono parti del movimento, ma altrettante vedute prese su di esso; sono soltanto, potremmo dire, supposizioni
d'arresto». Ivi, pagina 161.
La melodia non può essere fermata prima o fatta cominciare dopo senza perdere non “una parte di
sé” ma il suo stesso carattere, la sua essenza; inoltre l'esigenza della scrittura delle note sul
pentagramma rappresenta perfettamente quanto detto sulle «fermate virtuali» del movimento. Ci
dicono quanto otterremmo a seguito d'una brusca interruzione, simile a un taglio (pensiamo all'eco
di una nota e all'affievolirsi nell'aria della vibrazione): solo allora si potrebbe isolare una nota dalle
altre, ma l'irrealtà di tale supposizione ci porterebbe contemporaneamente in un punto distante
rispetto alla comprensione del senso della composizione musicale che stavamo ascoltando.
In conclusione, è arduo schematizzare tanti inviti decostruttivi in un'unica teoria. La concezione del
tempo di Bergson è certamente agli antipodi dell'esigenza semplificante delle scienze “certe” ma
non è assimilabile nemmeno ad altre, enormi, tradizioni di pensiero nell'ambito filosofico. Sul
mutamento s'era espresso, nell'antica Grecia, Eraclito, variando in più accezioni l'immagine
dell'acqua di un fiume che scorre; a questa “intuizione 82” il filosofo francese si sente maggiormente
vicino rispetto ad altri due estremi presenti nella storia del pensiero occidentale. Il primo riguarda
l'idealismo (considerato molto liberamente, in questo contesto), che tende ad avvertire una
continuità infinita ed eterna a livello metafisico ma la estrapola dal contesto della vita, rendendo la
storia (a livello del pensiero, del movimento spirituale) una «cascata gelata». Agli antipodi vi
possono essere soltanto gli “attimi” delle misurazioni pratico-scientifiche (qui ricondotti da Bergson
ad un'imprecisa corrente realista), che riescono a mantenere un legame più stretto con l'utilità
biologica, dialogando con l'attribuzione di senso dei singoli, ma nella loro limitatezza rassomigliano
a degli «aghi cristallizzati». Le filosofie occidentali dell'avvenire potrebbero intuire ancora lo
scroscio delle acque eraclitee, ma «non appena tornassero in sé, esse fisserebbero il movimento o in
un'immensa cascata gelata, o in un'infinità di aghi cristallizzati, sempre, comunque, in una cosa che
necessariamente partecipa della immobilità propria di un punto di vista83».
5. Verso una nuova psicologia: la dilatazione psichica nell'ultimo Jung
Accomunare Bergson e Jung sotto la relativa egida dello spiritualismo potrebbe sembrare, a buon
diritto, azzardato: uno dei motivi principali consisterebbe probabilmente nel constatare che,
considerando che la produzione bergsoniana abbonda dell'utilizzo del termine esprit, lo stesso non
accade nella variegata opera dello psicanalista svizzero. Intellettuale di difficile definizione,
ecletticamente volto verso interessi paleo-antropologici e storici, si è scelto volutamente d'adottare
nel titolo del presente capitolo il termine “psicologia” riferendoci ai contenuti junghiani non tanto
per una schematizzazione diffusa sui manuali (il che, difatti, non corrisponderebbe alla verità) nella
catalogazione dell'autore, ma per la latente, benché insistente, esortazione da parte dello stesso Jung
ad un rinnovamento delle chiavi interpretative della “scienza della psiche”. Da questo punto di vista,
una rigenerazione spirituale della disciplina conoscitiva accomuna entrambi gli autori.
Come abbiamo osservato, “La pensée et le mouvant” trabocca di osservazioni riguardo il modo
classico, razionale (se così si può definire), di considerare il tempo e lo spazio. Analogamente, si
potrebbe considerare la tematica dominante del saggio, edito nel 1952, sulla Synchronizität
junghiano (il cui titolo intero in italiano è “La sincronicità come principio di nessi acausali”) la
critica al principio di causalità, cardine assoluto della “scienza” in quanto tale, come metodo
esaustivo dell'interpretazione dei fenomeni.
È già emerso, nel nostro riferirci alla fisica quantistica, come la fiducia nell'ordine fenomenico si sia,
o si sarebbe dovuta, incrinare: ma in maniera più universalmente filosofica Jung analizza in più
punti come tale fede possa tutt'al più essere etichettata come una conoscenza di una certa
regolarità 84 approssimativa. Il tentativo junghiano di scoprire i limiti di tale principio e delle
82
Qui, è il caso di dirlo, l'utilizzo del termine non è fortuito.
Ivi, pagina 175.
84
In maniera simile a Jung (e Bergson) argomentava il fisiologo e fisico Hermann von Helmholtz, tramite il concetto di
«legalità generale» delle percezioni. A questo riguardo si può consultare il capitolo 3 del mio saggio L'assente nella
percezione, presso: http://www.athenenoctua.it/?p=4590
83
spiegazioni su di esso basate si connette alla scoperta della diversità della dimensione psichica pura
rispetto alla sua ricostruzione, surrettiziamente esatta ma artificiale, che viene compiuta dalla
scienza, in questo specifico caso rappresentata dalla psicologia accademica e dalla psichiatria. I
pregiudizi nati da questo modo di considerare i processi psichici cozzano con la loro complessità,
fino a pauperizzare estremamente alcuni eventi altamente significativi per la psiche stessa,
ridicolizzandone la portata: tali sono gli eventi sincroni fra il soggetto percepente ed il mondo
esterno, delle specie di correspondances altamente enigmatiche.
La causalità è un vero e proprio «principio filosofico» (di tutta la Grecia classica, ma
eminentemente analizzato da Aristotele) che «sta alla base della nostra concezione della regolarità
delle leggi di natura 85 »; questo non creerebbe problemi se la mente umana e le discipline
scientifiche, nel loro irrigidirsi86, non arrivassero ad escludere tutti i fenomeni che secondo tali
criteri non possono essere spiegati interamente, relegandoli alla non-esistenza o ad un adattamento
estremamente artificiale (la sperimentalità è vista, in questo contesto e nello “spiritualismo” in
senso generico, come ripiego negativo). Il principio causale dovrebbe ridimensionarsi; scrive lo
psicanalista a questo riguardo: «se il rapporto tra causa ed effetto dimostra di aver solo validità
statistica e soltanto una verità relativa, in ultima analisi anche il principio causale può essere
applicato solo in misura relativa nell'interpretazione di processi naturali, e presuppone quindi
l'esistenza di uno o più fattori diversi che sarebbero necessari ai fini della spiegazione di tali
fenomeni87».
Domandare cos'è un evento, cosa avviene nella natura e che rilevanza ha per la nostra psiche
esclude categoricamente la possibilità di schedare e scomporre l'avvenimento stesso in un ambiente
distante, asettico e sperimentale (o, per quanto riguarda l'estrapolazione dal contesto temporale
piuttosto che spaziale, la sua scomposizione in diverse fasi non percepite come tali dalla psiche).
Una tradizione che faceva parte del procedere scientifico originario, privo della pretesa assoluta
d'esattezza, era il procedere descrittivo, che non inficiava la verosimiglianza di eventi unici: l'unicità
di un qualcosa, al contrario, diventa un problema in una rete schematica che dispone ed incastra i
saperi in modo coerente e comprensivo di tutto. Il desiderio di riproducibilità si scontra perciò, a
parere di Jung, con una vera apertura all'evento eccezionale, da ammettere nella sua possibilità:
«nelle scienze naturali la formulazione di un problema mira a eventi regolari e, nella misura in cui il
problema è di ordine sperimentale, a eventi riproducibili. In tal modo eventi che si verificano una
sola o poche volte non vengono presi in esame. Inoltre l'esperimento impone alla natura condizioni
restrittive perché vuole indurla a rispondere a domande formulate dall'uomo 88».
Esiste, dunque, una categoria che si opponga alla causalità e che possa assumere un criterio per
riferirsi ad una schiera di fenomeni tagliati fuori dalle scienze esatte (fra cui, ricordiamo ancora,
Jung inserisce un modo d'intendere la psicologia diametralmente opposto al suo)? Nel saggio del
1952, dopo una lunga maturazione intellettuale, questo polo è positivamente occupato dal termine
«casualità»: causalità e casualità si avversano irrimediabilmente e la seconda risulta in qualche
modo cancellata nella cultura occidentale moderna, vittima d'una forma di violenza epistemica che
diventa quasi invisibile ed inconscia. Con le seguenti parole Jung introduce e descrive la
dimensione della casualità:
«la nostra esperienza ci offre un campo smisurato, la cui estensione fa per così dire da contrappeso al
dominio della causalità: è il mondo del caso, che sembra non legato da rapporto di causa col fatto coincidente.
[…] Si è avvezzi a presupporre, a proposito del caso, che esso sia ovviamente suscettibile di spiegazione
causale, e che sia definito “caso” o “coincidenza” solo perché la sua causalità non è o non è ancora stata
scoperta. Essendo persuasi, per forza d'abitudine, della validità assoluta della legge causale, la si considera
85
Carl Gustav Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, pagina 17.
In un senso sicuramente eterogeneo, ma per certi aspetti analogo, è possibile rinviare alla critica fatta dal pensiero
marxista rispetto all'economia politica, alla sociologia e alle discipline storiche, colpevoli d'aver assunto una rigidità
traditrice di intenzioni meno ingenue di quelle conoscitive. Per l'argomento si può consultare il mio saggio Pensiero
borghese e proletario in 'Storia e coscienza di classe'., presso: http://www.athenenoctua.it/?p=5303
87
Ibidem.
88
Ibidem.
86
una spiegazione sufficiente del caso. Ma se il principio causale ha soltanto validità relativa, ne risulta che –
sebbene la stragrande maggioranza dei casi possa essere spiegata in senso causale – tuttavia deve esservi un
residuo che è acausale. Ci troviamo quindi di fronte al compito di vagliare gli eventi causali e di separare i
fenomeni acausali da quelli suscettibili di spiegazione causale 89».
Il casuale coincide, dunque, con l'a-causale. È un reticolo interpretativo sotterraneo molto forte,
quasi viscerale, che impedisce ad alcuni individui di non tradurre immediatamente alcune
“manifestazioni” in termini di cause ed effetti («Per quale motivo si è prodotto questo risultato?»,
«Secondo quali fattori?», «Chi lo ha voluto?»); il che non implica per forza ammettere che l'ignoto
non possa divenire noto (cosa che non auspicava lo stesso Jung, a dispetto degli interpreti che hanno
voluto estremizzare la sua distanza da Freud), ma che non vada affrontato con pretese conoscitive
tipiche della misurazione delle scienze esatte. Tali commistione di metodi produce soventemente
una chiusura mentale che causa in più luoghi manifestazioni d'insofferenza da parte dell'autore nei
confronti dell'ambiente accademico e scientifico dei suoi tempi: «la superficialità o la prevenzione
da parte dell'osservatore potrebbe lasciarsi facilmente sfuggire i fenomeni acausali che sono
relativamente rari90».
È, inoltre, un dato di fatto che il Caso, sin dai primordi, trascini l'uomo con un'attrazione
impareggiabile rispetto ad ogni altro aspetto dell'esistenza. L'accadere e l'idea presentano una
parentela etimologica significativa per Jung, che su di essa pone più volte l'accento; scrive infatti:
«il termine Zu-fall (ciò che “cade verso”, “accade a”= caso), come il termine Ein-fall (= “caduta”,
ma anche nel senso di ciò che “cade” o sorge spontaneo nella mente, e quindi: idea, trovata), è
quanto mai calzante: è ciò che si muove verso qualcuno come se ne fosse attirato 91».
L'evento, il mysterium 92 , non aspetta l'arrivo dell'uomo presso di esso, tanto meno la sua
interpretazione, ma gli si avvicina o lo tocca; se si preferisce, lo avvolge. Tale campo semantico ed
esperienziale è, com'è noto, indicato da Jung col termine «numinosità» e viene chiaramente
percepito solo in determinate condizioni. Un primo aspetto, che abbiamo già accennato, è una forma
d'apertura mentale rispetto ad un atteggiamento scientifico stricto sensu basato esclusivamente sul
principio di causalità. Un secondo criterio che ci rende possibile comprendere la dimensione
numinosa della casualità è l'andare oltre le categorie classiche di tempo e spazio ed è proprio in
questo che si avverte una profonda assonanza con la filosofia bergsoniana. La possibilità di uscire
dai canoni spazio-temporali della percezione della nostra vita quotidiana ha a che fare con la giusta
comprensione di tali categorie, che Jung, in una forma decostruttiva paleo-storica, considera come
condizioni psichiche che in sé e per sé non esistono affatto93. L'orientamento nel mondo nasce dalla
psiche per la psiche stessa, ha un'origine; la stabilità delle acquisizioni filogenetiche (su questo Jung
procede come un antropologo) è solo il risultato di un lungo processo evolutivo che deve
necessariamente comportare una fase meno salda, di dis-equilibrio e confusione.
Spazio e tempo non sono né caratteri né forme (di kantiana memoria) a priori, bensì «concetti
ipostatizzati dall'attività discriminante della coscienza 94». Affinché affiori la possibilità di percepire
un qualcosa che sia al di fuori di un tale ordine (poiché la spazialità e la temporalità, intese in un
senso razionalistico, forniscono entrambe delle spiegazioni di carattere causale di un fenomeno) la
mente non deve far altro che riscoprire la propria potenzialità di creatrice del senso comune,
89
Ivi, pagine 19 e 20.
Ibidem.
91
Ibidem.
92
Terminologia latina risalente al verbo greco μυω, che indica il “chiudere”. Di conseguenza l'atto del chiudere le labbra,
da cui si ritiene si sia alterato tale prefisso fino alla formazione di mistero (gli iniziati ai misteri erano coloro che
rimanevano in silenzio, nell'accezione sia letterale che metaforica) e mistica.
93
Parafrasando: «si direbbe che spazio e tempo siano in rapporto con condizioni psichiche o che in sé e per sé non
esistano affatto e siano “posti” solo dalla coscienza». Ivi, pagina 33.
94
«Nella concezione originaria (cioè presso i primitivi), spazio e tempo sono cose quanto mai incerte. Sono diventati
concetti “stabili” solo con il procedere dell'evoluzione spirituale, e precisamente con l'introduzione della
misurazione. Di per sé spazio e tempo non consistono in nulla. Emergono come concetti ipostatizzati solo
dall'attività discriminante della coscienza, e formano le coordinate indispensabili per la descrizione del
comportamento di corpi in movimento». Ibidem.
90
tornando alla sua condizione originaria di tabula rasa pre-cognitiva; un atto ove ciò è
immediatamente osservabile è, nella stessa direzione indicata dal filosofo francese, un ritorno
all'interiorità come regno della libertà e dell'autenticità. Nei reami della fenomenologia psichica
«spazio e tempo sono proprietà apparenti di corpi in movimento prodotte dalle necessità intellettive
dell'osservatore, la loro relativizzazione ad opera di una condizione psichica non è più in ogni caso
un che di prodigioso, ma rientra nell'ambito del possibile. Questa possibilità sorge però quando la
psiche osserva non già i corpi esterni ma se stessa 95». Osservazioni di questo tipo tangono anche la
metodologia dell'analisi terapeutica nelle circostanze di disturbi dissociativi riguardo lo spazio e il
tempo, come nel caso delle sindromi schizoidi: lo psicanalista potrà, in qualche modo, risalire allo
stato mentale del paziente, o quanto meno avvertirlo, considerando il libero (in questo caso
patologico) assemblaggio una condizione primigenia umana riscontrabile in stati interiori.
Nondimeno, sia per quanto riguarda il «caso» che per quel che concerne un altro spazio e un altro
tempo, ci sembra d'essere di fronte a delle rarità, a dell'esperienze difficilmente accessibili in
maniera volontaria. Per specificare ancor meglio ciò vengono introdotte altre due condizioni, che
limitano la possibilità d'esperire tutto il residuale della “scienza causale”. Una caratteristica
facilmente riscontrabile è l'essere investiti da una carica emotiva molto forte, al limite del
patologico: tale alterazione della normalità psichica apre le porte sia agli archetipi (concetto molto
complesso della psicologia junghiana, che al momento potremmo limitarci a definire come
«risposte collettive a un inconscio collettivo») che all'inconscio: «gli archetipi hanno una “carica
specifica”: sviluppano effetti numinosi che si manifestano come affetti. L'affetto provoca un
parziale abaissement du niveau mental 96 , elevando un determinato contenuto a un livello di
chiarezza superiore al normale, ma sottraendo anche in pari misura agli altri possibili contenuti
della coscienza tanta energia che essi si oscurano, diventano inconsci 97 ». Dunque abbiamo una
quarta condizione per superare il limite del razionale ed immergersi nello spirituale: la carica
affettiva dev'essere accompagnata da un abbassamento del livello (le niveau) mentale, concetto
inserito fra la coscienza e la più comune “soglia dell'attenzione”. Il funzionamento di un tale
processo, inoltre, prescrive l'investimento di altre energie (di altre “cariche”) in differenti contenuti,
a guisa d'una energia termica, prima distribuita in maniera equilibrata, che ora andrebbe a
concentrarsi in un singolo punto e non va in alcun modo dispersa altrove: pena l'interruzione
dell'esperienza spirituale 98 . Come ombre sospinte lontano dalla luce della ragione, differenti da
quelle del quadro di Goya perché non riconducibili solamente a dei caratteri (come può essere il
mostruoso) ma massimamente all'In-forme categoriale, si palesano alla psiche, liberata dai paletti
della coscienza, «contenuti inattesi, che di norma sono inibiti o inconsci. Tali contenuti sono non di
rado di natura inferiore o primitiva e tradiscono quindi la loro origine archetipica99».
La teoria della sincronicità, che vedremo meglio nel prossimo capitolo, s'interseca a più livelli con
la complessa formulazione junghiana degli archetipi e dell'inconscio, da un altro, e con quanto
abbiamo detto riguardo all'importanza della casualità per la psiche umana. Un esempio
assolutamente pertinente da questo punto di vista è l'interpretazione di un sogno, uno dei principali
presi in esame nel saggio di Jung, in relazione a un evento realmente accaduto qualche giorno dopo:
la manifestazione dello stesso elemento sognato, in questo caso uno scarabeo dorato (da Jung
ricondotto antropologicamente ad uno degli archetipi esprimenti il senso di rigenerazione e rinascita
dello spirito, adatto a scalfire lo scetticismo e la rigidità alienante della paziente in cura) apparso nel
giorno stesso della seduta. Racconta Jung che:
«una giovane paziente fece un sogno, in un momento decisivo della cura. Nel sogno essa riceveva in dono
95
Ibidem.
L'espressione fu formulata per la prima volta dallo psicologo francese Pierre Janet, a cui Jung fa esplicito riferimento
sia per quanto riguarda l'aspetto pionieristico del modo di trattare la dimensione inconscia sia per gli autorevoli studi
sulla dissociazione nei casi psichiatrici.
97
Ibidem.
98
È innegabile ricondurre le quattro condizioni di accesso agli insegnamenti classici delle sette religiose, dell'iniziazione
misterica e della mistica nelle loro varie manifestazioni storiche.
99
Ivi, pagina 34.
96
uno scarabeo d'oro. Mentre mi raccontava questo sogno, io stavo seduto, voltando la schiena alla finestra
chiusa. D'un tratto udii alle mie spalle un rumore, come se qualcosa bussasse piano contro la finestra. Mi
voltai e vidi un insetto alato che, dall'esterno, urtava contro la finestra. Aprii la finestra e presi al volo
l'insetto. Era l'analogia più prossima a uno scarabeo d'oro che si possa trovare alle nostre latitudini, ossia uno
scarabeide, una Cetonia aurata, il comune coleottero delle rose, che evidentemente proprio in quel momento
si era sentito spinto a penetrare, contrariamente alle sue abitudini, in una camera buia 100».
L'interpretazione junghiana di tale evento, conseguentemente a quanto egli stesso riteneva
significativo e non certamente imputabile ad un mero caso/coincidenza, è la seguente:
«si trattava di una paziente eccezionalmente difficile che, fino al momento del sogno che ho riferito, non
aveva fatto un solo passo avanti. Il motivo principale di questo insuccesso – devo ricordarlo per far
comprendere la situazione – era l'Animus della mia paziente, educato alla filosofia cartesiana e talmente
radicato nel suo rigido concetto di realtà che non erano bastati gli sforzi di tre medici (io ero appunto il terzo)
per ammorbidirlo. Ci voleva evidentemente, per ottenere un risultato del genere, un evento irrazionale, che io
però non potevo ovviamente produrre. Il sogno stesso era già riuscito a scuotere leggermente l'atteggiamento
razionalistico della mia paziente. Ma quando lo scarabeo entrò realmente dalla finestra, la sua essenza
naturale riuscì a infrangere la corazza costituita dall'ossessione dell'Animus, e anche il processo di
trasformazione che accompagnava la cura poté per la prima volta mettersi in moto. Mutamenti sostanziali
dell'atteggiamento significano rinnovamenti psichici, che quasi sempre sono accompagnati da simboli di
rinascita espressi in sogni e in fantasie. Lo scarabeo è un simbolo classico di rinascita. Secondo la
descrizione dell'antico libro egiziano “Amduat”, il defunto dio del sole si trasforma alla decima stazione in
kheperâ, lo scarabeo, e in questa forma sale ringiovanito nel cielo mattutino 101».
La sincronicità significativa, lontana nel tempo, del sogno e dell'evento reale, sta alla base della
guarigione della paziente; in questo caso l'apertura alla spiritualità coincide con la possibilità di
riprendere in mano la propria vita ed è per questo che il racconto rappresenta un esempio
abbastanza riuscito per simboleggiare una rinascita che, in maniera traslata, lo studioso sta cercando
di suggerire all'uomo moderno genericamente. Eppure non sarebbe stato possibile, per la paziente,
fruire della funzione purificatrice dell'incontro con l'Archetipo e percepire l'Evento se non avesse
prima di tutto accettato la possibilità della sincronicità di due avvenimenti fra loro irrelati da un
punto di vista causale e la reciproca comunicazione fra il mondo psichico ed il mondo esterno.
6. La sincronicità ed i nessi acausali
La contemporaneità fra alcuni eventi, fisici ed esterni, e gli affetti del nostro mondo interiore creano
delle analogie che non possono essere ignorate. Esse ci appaiono come “numinose”, frutti di un
linguaggio dimenticato ma non incomprensibile: compito di chi riconosce tale forma di «inconscio
collettivo 102 » è quella di non reprimerlo, confinando elementi simili nella non-esistenza o
nell'allucinatorio, e sciogliere il nodo dell'enigma riconducendoli soprattutto alla loro natura
comune, tipica della specie umana: il mito, l'ambiguità del simbolo, l'archetipo, categorie che
segnano una continuità comprensiva di storia collettiva e tentativi di «individuazione» dell'essere
umano. La concezione dell'inconscio junghiana possiede allo stesso tempo, dunque, un'assonanza e
una divergenza rispetto a quella freudiana, alla quale accenneremo nel Capitolo 7.
La categoria della «sincronicità», com'è evidente, non può rappresentare una mera com-presenza di
carattere spazio-temporale (nell'italiano attuale diremmo “una coincidenza”): per fugare una
sovrapposizione, lo psicanalista svizzero utilizza il termine “sincronismo” per indicare tale tipologia
100
Ivi, pagina 35.
Ivi, pagina 36.
102
Ad una prima lettura dei saggi junghiani si potrebbe notare un miscuglio ambiguo su quanto viene riferito
all'inconscio e quanto all'archetipo, inteso come risposta al primo. L'archetipo è già un baluardo ma non va confuso
con un'elaborazione conscia e razionale: si trova in una zona liminale difficilmente semplificabile, così come i
“simboli” (ad esempio grafici e narrativi) in cui si cristallizza, sempre ambigui ed aperti a più interpretazioni.
101
di casi. Affinché vi sia sincronicità è necessario che il “συν” venga riconosciuto in base alla sua
significatività per il soggetto psichico, altrimenti non vi sarebbe nemmeno un motivo per notare tali
corrispondenze. Sulla distinzione fra “sincronicità” e “sincronismo” scrive Jung:
«ho scelto questo termine perché la contemporaneità di due eventi connessi quanto al significato, ma in
maniera acausale, mi è sembrata un criterio essenziale. Io impiego dunque in questo contesto il concetto
generale di sincronicità nell'accezione speciale di coincidenza temporale di due o più eventi non legati da un
rapporto causale, che hanno uno stesso o un analogo contenuto significativo. Uso quindi il termine
“sincronicità” in opposizione a “sincronismo”, che rappresenta la semplice contemporaneità di due eventi.
Sincronicità significa allora anzitutto la simultaneità di un certo stato psichico con uno o più eventi esterni
che paiono paralleli significativi della condizione momentaneamente soggettiva e – in certi casi – anche
viceversa103».
La sincronicità è, dunque, una chiave di lettura del mondo dei fenomeni che trascende il riferimento
al “tempo” presente nella forma lessicale scelta dall'autore. Nel saggio sono presenti diverse
schematizzazioni che indicano una forma tetraedrica d'interpretazione del mondo: fra lo spazio ed il
tempo, disposti in relazione verticale uno rispetto all'altro, è possibile avere o una risposta costante
e prevedibile, la causalità, ricostruibile attraverso una continuità seriale, o una sincronicità, intesa
come forma di relazione alternativa ed imprevista, fra spazi e tempi che possono essere totalmente
slegati fra loro (FIGURA 1104).
FIGURA 1
In realtà non si tratta necessariamente di una relazione fra un evento nello spazio e nel tempo
(Evento 1) e un altro (Evento 2), spiegabile tramite la dimensione psichica di chi li considera. La
sfera di condizioni che attrae maggiormente Jung, come abbiamo visto nel caso del sogno dello
scarabeo d'oro, riguarda una corrispondenza fra un prodotto della psiche (Contenuto Psichico 1) e
un evento del mondo esterno (Evento 1). Il modo attraverso cui la psiche e l'essere umano possono
produrre dei risultati sul mondo esterno è, più frequentemente, quello di ottenere un effetto tramite
una serie di cause indotte; ma se si considera da un lato il continuum dello spazio-tempo e dall'altro
quell'energia indistruttibile e altrettanto “continua”, la psiche umana in una forma unitaria che
potremmo chiamare “Spirito” (in quanto non scomponibile, premessa perfettamente conforme alle
analisi sull'eterogeneità di tempo e spazio intra-psichici ed extra-psichici fatta da Henri Bergson), è
possibile avvertire un “senso” di sincronicità, totalmente acausale, che non insiste sulla volontarietà
di un'azione producente degli effetti ma sull'omogeneità di anima e mondo, tanto da incarnare un
desiderio primigenio e radicalmente umano di possessione e protezione dal non-senso e l'esistenza
di un “Mundus Unus” (mondo unico), aspirazione prometeica incarnata spesso nella ricerca di Jung
nelle pratiche alchemiche medievali e rinascimentali (FIGURA 2 105).
103
Ivi, pagina 39.
Ivi, pagina 109.
105
Ivi, pagina 111.
104
FIGURA 2
Scendendo più in profondità, è possibile scoprire come, in realtà, una specificazione relativa al
tempo vi sia anche nella relazione sincronistica e casuale; essa ha a che fare con uno status
fenomenologico del soggetto ed è la paradossale consapevolezza d'essere «out of joint» (secondo la
fortunata metafora shakespeariana), avulso dal continuum dello spazio-tempo consueto. È qui che le
riflessioni di Jung si avvicinano al loro fulcro mistico più puro: l'abbassamento del livello mentale,
lo stato di trance, diverso da soggetto a soggetto, comporta l'abbattimento delle barriere della
causalità e dell'orientamento spazio-temporale nel medesimo istante: «stando all'esperienza, spazio
e tempo sembrano in determinate circostanze ridotti approssimativamente a zero; cade con ciò
anche la causalità, legata all'esistenza di spazio e tempo e di mutazioni dei corpi, dal momento
ch'essa consiste nella successione di causa ed effetto 106 ». Quello che è facilmente riscontrabile,
nella letteratura psichiatrica, esoterica e mistica, ha per Jung un significato profondo, che ci
avvicina alla comprensione dell'uso dei nostri filtri più performativi: il semplice rilevare che la
causalità abbia un suo spazio ed un suo tempo, che nei reami della sincronicità sono totalmente
eterogenei, comporta una simmetria ed un legame di genere fra le coordinate d'una dimensione e
quelle dell'altra; l'acausalità, ad esempio, non è per sua essenza priva di costanti o di motivazioni.
Essa e la possibilità d'ammetterla nell'orizzonte terapeutico della psicanalisi, diventano
precondizione necessaria per proseguire negli studi delle corrispondenze sincronistiche: «il
fenomeno della sincronicità non può essere per principio posto in relazione con alcuna
rappresentazione causale. Il legame tra fattori coincidenti quanto a significato deve quindi essere
pensato necessariamente come acausale107».
La capacità di percepire «eventi paralleli108» trascina il pensatore verso l'osservazione dei processi
che, da un punto di vista scientifico, sembrano comprimere e contrarre le forme tradizionali della
cinestesia psicologica umana. Gli «affetti intensi» sono cause di restringimento e contrazione del
senso spazio-temporale, afferente la sincronicità; la «coscienza universale» della mistica e la
dilatazione cognitiva stanno all'opposto, pur appartenendo sempre al regno eminentemente psichico.
Contrazione e dilatazione sono, perciò, due effetti che possono essere osservati all'interno dello
spirito umano: criteri liberi dell'immaginazione molto distanti dalla misurazione universalmente
riconosciuta delle grandezze fisiche esterne. Direttamente nelle righe di Jung si può trovare tale
teorizzazione:
«spazio e tempo sono grandezze costanti in un sistema definito solo se vengono misurati prescindendo da
condizioni psichiche. È quanto accade di regola negli esperimenti che hanno per oggetto le scienze naturali.
Ma se l'evento viene osservato senza limitazioni sperimentali, può sorgere nell'osservatore un certo stato
emotivo che modifica spazio e tempo nel senso d'una contrazione. Ogni stato emotivo causa una
modificazione della coscienza, […] un “abaissement du niveau mental”: ciò significa che subentra un certo
restringimento della coscienza e al tempo stesso un rafforzamento dell'inconscio, come anche i profani della
106
Ivi, pagina 43.
Ibidem.
108
«Alla psiche inconscia spazio e tempo sembrano relativi, ossia la conoscenza si trova in un continuum spaziotemporale in cui lo spazio non è più spazio e il tempo non è più tempo. Se quindi l'inconscio sviluppa e mantiene un
certo potenziale alla coscienza, nasce la possibilità di percepire e “conoscere” eventi paralleli». Ivi, pagina 78.
107
materia possono facilmente costatare specialmente in presenza di affetti intensi 109».
Non è certo facile spiegare tecnicamente come sia possibile una tale corrispondenza: il rischio di
cadere, senza mezze misure, in quello che volgarmente viene chiamato oggi «paranormale» è
elevato. Si può rilevare che anche per Bergson il tempo (la durata) interiore seguiva un'ordine
diverso da quello esterno; Jung aggiunge elementi inediti ed originali a tale quadro. Una differenza
di fondo, però, è che mentre il passato che riemerge, prima come morto, permette all'artista-filosofo
di dilatare la propria coscienza “dietro” e dentro di sé e cogliere più continuità di quanto l'uomo
comune e di scienza colga, la percezione della sincronicità e della casualità junghiana, pur
implicando in parte la stessa apertura mentale, sembra travalicare gli stessi confini della soggettività
in maniera molto più decisa. Una spiegazione forzatamente scientifica di un fenomeno
significativamente sincrono ad un altro potrebbe spingersi, nella sua inadeguatezza, a «ipotizzare un
processo energetico di trasmissione, che sarebbe necessario affinché il fenomeno si realizzi 110». Il
soggetto, come nella magia popolare e nella fantascienza, riuscirebbe a “materializzare” qualcosa in
base ad un suo desiderio o ad entrare in contatto con delle vere e proprie forze esterne realmente
esistenti. Questa soluzione non è minimamente presa in considerazione da Jung, che risponderà al
perché e al da dove delle sue ipotesi formulando la teoria dell'inconscio collettivo (che tenteremo di
abbozzare nel capitolo successivo); quel che è da salvaguardare dalle costruzioni totalmente avulse
dalla realtà psichica è «un che di simile a una conoscenza a priori o, meglio, una “presenza” a priori
svincolata da ogni base causale 111 ». L'essere umano entrerà in rapporto con un'entità sopraindividuale: scavando più a fondo scoprirà lo strato d'adattamento degli archetipi, sorto a sua volta
nella nuda terra del caos e dello spaesamento; qui troverà delle unità, formatesi nei millenni oscuri
della sua storia, che rispecchiano ancora un'unione fra lo psichico e il fisico sia nella loro essenza
simbolica che nella possibilità d'incidere sul piano percettivo (evento reale) e sul piano psichico
(affetto, abreazioni e catarsi) con un unico atto.
Prima di procedere, in conclusione al nostro lavoro, ad un opera di visione d'insieme della cornice
entro la quale la teoria junghiana della sincronicità si situa, sarà opportuno rimarcare la liaison
spiritualistica che unisce Bergson, Jung e altri pensatori della prima metà del XX secolo: lo
spiritualismo e lo scientismo, in una contrapposizione grossolanamente ricostruita e che forse non
sarebbe nemmeno accettata dagli autori ai quali oggi viene attribuita questa categorizzazione,
propongono in qualche modo diversi «canali di accesso» alla realtà, basati corrispettivamente sul
modello psichico della nostra vita interiore e sul modello manipolatorio ed esteriore degli strumenti
artificiali inventati nella storia evolutiva della specie umana. Parallelismi significativi possono
essere rintracciati fra gli autori riguardo la critica nei confronti di un metodo scientifico gretto ed
escludente la maggioranza degli elementi rappresentativi dell'esistenza. Uno dei motivi
fondamentali della ricerca filosofica è cogliere (o accennare a-, diremmo noi) la totalità: «cogliere
la totalità – sintetizza Jung – è ovviamente lo scopo anche della scienza naturale. Ma questo scopo
si trova necessariamente a una distanza assai remota, perché la scienza naturale procede, sempre che
sia possibile, per via sperimentale e in ogni caso statistica 112». Il sapere che si basa sul calcolo di
strumenti artificiali è un sapere costruito, nonostante non gli venga negata la sua utilità; è per
questo motivo che si trova una descrizione negativa dell'esperimento in entrambi gli autori, che
condividono le stesse argomentazioni. Un esperimento è propriamente il porre alla natura delle A)
condizioni restrittive per ottenere o augurarsi di ottenere delle B) risposte più univoche possibili. La
tendenza spiritualistica della conoscenza, rifiutando questa “ricostruzione” ad hoc e reputandola
falsificante, considera essenziale per la conoscenza della totalità adottare come punti di partenza
quei centri d'attenzione e ingegno spontanei e propriamente umani; per ottenere una risposta sincera
dal mondo è quasi d'obbligo imporre il meno possibile condizioni e filtri. A questo riguardo lo
psicanalista svizzero dedica un lungo paragrafo sulla logica dell'esperimento scientifico, dipingendo
109
Ivi, pagina 44.
Ivi, pagina 45.
111
Ibidem.
112
Ivi, pagina 49.
110
il suo pensiero critico in questo modo:
«L'esperimento consiste però nel porre il problema in una maniera determinata, che esclude per quanto è
possibile ogni elemento perturbatore e non pertinente. Esso pone condizioni, le impone alla natura e in tal
modo la costringe a dare una risposta orientata sul problema dell'uomo. Procedendo così, s'impedisce alla
natura di rispondere attingendo alla massa delle sue possibilità e limitandole al massimo. A questo scopo si
crea in laboratorio una situazione artificialmente ristretta al problema, situazione che costringe la natura a
dare una risposta quanto più univoca possibile. In tal modo si esclude completamente che la natura agisca
nella sua totalità illimitata. Ma per conoscere l'azione bisogna che il problema a cui vogliamo rispondere non
ponga affatto condizioni – o ne ponga il minor numero possibile – e affidi quindi alla natura il compito di
rispondere con piena spontaneità113».
Nonostante l'acume e la profondità, dal punto di vista filosofico, del saggio di Jung, numerose sono
state le interpretazioni eccessivamente letterali o confuse del medesimo. Jung stesso, d'altra parte,
compie numerosi riferimenti a branche del sapere che oggi vengono definite senza dubbio
“pseudoscientifiche”, essendo conscio d'attirarsi diffidenza e provocare incredulità con tali
riferimenti; l'esempio che risalta maggiormente è la lunga sezione dell'opera, che ne costituisce
quasi un quarto della sua lunghezza complessiva, in cui l'autore compie un'indagine statistica
sull'oroscopo in relazione a coppie di uomini e donne, sposate e non, seguendo diversi parametri e
concludendo egli stesso di non esser riuscito a rintracciare abbastanza corrispondenze tali da poter
considerare l'astrologia come campo di studio della sincronicità empirica in senso stretto. Molte
pagine vengono, inoltre, spese nell'analisi della divinazione cinese presente nel testo classico dell'I
Ching e sull'aspetto misterico in esso attribuito ai numeri e alle loro combinazioni114. Su questa
linea, infine, è possibile aggiungere che Jung spezza più lance a favore degli studi sulle cosiddette
“ESP”, le extra-sensory perceptions 115 , sottolineando come uno «scetticismo esagerato»
dell'ambiente scientifico ed accademico danneggi gravemente le probabilità d'apprendere qualcosa
in più in merito ad eventi psichici di grande rilevanza come le premonizioni o, più genericamente,
tutti gli accadimenti ascrivibili alla dimensione della sincronicità.
7. Sul “principio d'individuazione” e l'inconscio collettivo
Esiste un collegamento fra “spiritualismo” e le teorie psicologiche sull'inconscio? Nonostante sia
spesso ricondotto alla religione e alla metafisica medievale, “Spirito” è certamente un termine che
rinvia sotto tutti i riguardi al sovra-individuale: in tale concetto è già presente, in nuce, la possibilità,
per un “Io” limitato e circoscritto, di ritrovarsi sommerso e travolto. Fa parte dello Spirito, inoltre,
per un filosofo come Bergson, il carattere della continuità, della non-divisibilità, così come per
Parmenide fra gli attributi principali dell'Essere in quanto tale era senz'altro da considerarsi
113
Ibidem.
Sull'I Ching (fine del II millennio a.C.) si può leggere: «Due saggi cinesi cercarono già nel dodicesimo secolo della
nostra era di rimediare a questo inconveniente, tentando – in base all'ipotesi dell'unità di tutta la natura – di spiegare
come concordanza significativa la contemporaneità di uno stato psichico con un processo fisico. In altre parole: essi
supposero che sia nello stato psichico che in quello fisico si esprima la stessa realtà. Per verificare quest'ipotesi
occorreva però, in questo esperimento apparentemente illimitato, una condizione ancora, ossia una certa forma del
processo fisico, un metodo o una tecnica che costringesse la natura a formulare la sua risposta mediante numeri pari
e dispari. In quanto rappresentanti di Yin e Yang, questi numeri sono propri sia dell'inconscio che della natura in
forma di opposti, ossia di madri e di padri di tutto ciò che accade, e costituiscono quindi il tertium comparationis tra
il mondo psichico interiore e il mondo fisico esterno. I due saggi trovarono così un metodo che permetteva di
rappresentare uno stato interiore come esteriore e viceversa». Ivi, pagina 50.
115
«Lo scetticismo esagerato verso l'ESP non ha realmente ragioni sufficienti da addurre in suo favore. La sua ragion
d'essere sostanziale è data soltanto dall'ignoranza che purtroppo accompagna come conseguenza quasi inevitabile gli
specialisti, e che chiude l'orizzonte – che per forza di cose è già di per sé ristretto – degli studi specialistici in
maniera sgradita e dannosa, precludendo loro l'accesso a punti di vista più alti e più ampi. […] Soltanto la radicata
convinzione dell'onnipotenza della causalità crea difficoltà alla comprensione e fa apparire impensabile che possano
verificarsi o esistere eventi privi di causa». Ivi, pagina 114.
114
l'indivisibilità (insieme all'immobilità, all'unicità, all'eternità, al non essere generato e mortale:
attributi senz'altro diversi, e in alcuni casi contrapposti, da quelli che darebbe il filosofo francese
allo Spirito). Per quante teorie diverse della spiritualità esistano, riscontriamo una varietà di
impostazioni simile nei confronti del concetto di “inconscio” nel campo della psicologia del XX
secolo; sarà opportuno, in questa sede, unire sotto un unico tetto le osservazioni sul tempo e sullo
spazio presenti nel saggio sulla sincronicità junghiano nella teoria più complessa dell'inconscio
collettivo e del processo d'individuazione: questo ci permetterà di offrire ancora meglio un
resoconto delle critiche che l'autore rivolgeva alla psicologia a lui contemporanea, medica e
personalistica (non si vede come oggi la situazione non debba dirsi identica), per certi versi nate da
una preoccupazione simile a quella di Bergson nei riguardi della filosofia di quello stesso periodo
storico.
In un saggio del 1934, intitolato “Gli archetipi dell'inconscio collettivo”, l'argomentazione
junghiana si snoda a partire dalla definizione d'inconscio emersa nelle opere di Freud, o più
precisamente dalla definizione tipicamente negativa di esso: inconscio è ciò che è stato rimosso da
un paziente. Nonostante Freud stesso abbia intuito la similitudine fra processi inconsci che riescono
a trovare una forma di espressione in dei fenomeni e le rappresentazioni e «le modalità di pensiero
arcaico-mitologiche116», la scuola psicanalitica dei suoi allievi ha deciso di porre al centro della
riflessione la persona, l'individuo, di non andare al di là dell'ambito terapeutico per formulare delle
teorie generali sull'essere umano basate sulla corrispondenza evidente fra casi presi singolarmente e
forme storiche diffuse, rapportando l'immaginario alla filogenesi. Vi sono due strati inconsci, per
dirla con Jung: «un certo strato, per così dire, superficiale dell'inconscio è senza dubbio personale:
noi lo chiamiamo “inconscio personale”. Esso poggia però sopra uno strato più profondo che non
deriva da esperienze e acquisizioni personali, ma è innato. Questo strato più profondo è il cosiddetto
“inconscio collettivo”117».
Ammettere l'esistenza di un “inconscio collettivo” può causare molta confusione
nell'interpretazione degli studi junghiani. Come si può parlare esplicitamente d'inconscio? Qualcosa
che si può esaminare (ossia descrivere con un livello sufficiente di chiarezza) è già di per sé conscia
(quantomeno per chi ne parla); era lo stesso problema di captazione che affliggeva il primo Freud
dell'”Interpretazione dei sogni”. Il dilemma si presenta con più vigore in Jung, che utilizzerà nel
corso delle sue trattazioni dei casi clinici della sua carriera psichiatrica soltanto per superarli e
tentare di dimostrare la comunanza di certi stati emotivi, il loro essere “latenti” (come vedremo) in
ogni essere umano.
Se vi sono diversi “strati” di inconscio, quello personale e quello collettivo ad esempio (niente
esclude che non ve ne possano essere di più), dovendo definire il campo di studi di un autore sui
generis come Jung riferendoci alla maggior parte dei suoi saggi è possibile dire che lo psicanalista
svizzero insista su un altro strato, distinto da quello dell'inconscio collettivo in maniera quasi
impercettibile e spesso apparentemente fuso con esso in alcune fasi di transizione: lo strato
archetipico. Non si può, infatti, dire che gli archetipi primitivi, la loro relazione con l'Io ed il loro
agire sulla psiche non rispondano ad una logica, così come sarebbe una forzatura non ammettere
rischi che possono derivare da una loro influenza protratta sull'individuo che vada oltre il
normalmente sopportabile. Se pensiamo ad una paura inconscia, comune a tutta l'umanità, che
precede la formazione di un “Io” ben definitivo, se immaginiamo la condizione esistenziale umana
dell'essere «gettato nel mondo» di sartriana memoria e cerchiamo di ricondurla alle sterminate ere
che invisibilmente separano la nascita della specie umana dalle prime civiltà di cui v'è qualche nota
storica, è ben possibile ipotizzare una gamma di “risposte” a tale situazione iniziale, incapsulate col
tempo nella psiche. Gli archetipi sono delle difese, tipicamente umane, che sono semi-consce:
permettono all'uomo di fuggire dalla pressante presenza del “Nulla” (dalla sua illusione o dai
sentimenti che derivano da un tale postulato o, se preferiamo, dalla relatività del tempo, dalla
sofferenza e dall'incertezza che scuotono la vita); creazioni in qualche modo introiettate all'interno
di noi stessi, riemergono in situazioni di affettività intensa e pericolo (pensiamo all'insistente
116
117
Carl Gustav Jung, Opere, volume 9. Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino, 2011, pagina 3.
Ibidem.
simbologia della rigenerazione nel caso del sogno dello scarabeo dorato, analizzato nel capitolo 5,
spinta fino al riconoscimento d'un dialogo fra il mondo e la psiche nella circostanza di un evento
concreto). Da questo punto di vista è possibile scorgere l'immensa distanza fra l'allievo e il maestro:
se per certi versi le caratteristiche tenebrose delle pulsioni istintuali convergono in descrizioni simili,
in Jung è decisamente diversa la modalità di risposta della psiche, la reazione compensatoria. Forse
ancor più dell'inconscio, ciò che qui è totalmente assente è il Super-Io: questa barriera intermedia, il
mondo degli archetipi, come ogni filtro e difesa in diretto collegamento sia con l'inconscio
(collettivo) che col conscio (l'Io), non censura, non inibisce. Si palesano nell'uomo sull'orlo del
baratro e del tracollo psichico le difese simboliche che hanno permesso ai suoi antenati di ripararsi
dalla follia: «nelle tradizioni primitive della tribù gli archetipi si presentano modificati in una
speciale accezione. Certamente non si tratta più di contenuti dell'inconscio: essi si sono ormai
trasformati in formule consce, perlopiù tramandate in veste di “insegnamento esoterico”, tipica
forma di trasmissione di contenuti collettivi originariamente derivanti dall'inconscio 118».
Formulazioni119, dunque, non totalmente irrazionali, ma primitive: più che in senso storico, comuni
e costanti risposte, ormai cristallizzatesi in simboli (mai univoci), a comuni e costanti difficoltà
della fragile psiche umana nel suo rapporto con tutto ciò che è diverso da lei. Ciò che sconvolge
nell'immediatezza la creatura umana è l'alterità dell'universo, la potenza indipendente delle cose che
può rivolgersi contro di lui o la realizzazione della sua insignificanza: è per questo che gli archetipi
più antichi e più essenziali si sviluppano attorno al tentativo di erodere tale superficie immutabile e
penetrare all'interno dei meccanismi degli astri e degli elementi. L'uomo non può accettare di buon
grado che il mondo psichico sia solo suo e lo proietta nelle cose, crea un mundus unus nel quale
raccapezzarsi e rivedere una possibilità di comprensione:
«al primitivo non basta veder sorgere e tramontare il sole: quell'osservazione esteriore deve costituire al
tempo stesso anche un “accadimento psichico”, e cioè il sole nel suo peregrinare deve rappresentare il
destino di un dio o di un eroe il quale, in fin dei conti, non vive che nell'anima dell'uomo. Tutti i fenomeni
naturali mitizzati, come estate e inverno, fasi lunari, stagioni delle piogge ecc., non sono affatto allegorie di
quegli avvenimenti oggettivi, ma piuttosto espressioni simboliche dell'interno e inconscio dramma dell'anima
il quale diventa accessibile alla coscienza umana per mezzo della proiezione, del riflesso cioè nei fenomeni
naturali. La proiezione è così radicata che sono occorsi alcuni millenni di civiltà per separarla, sia pure in
misura relativa, dall'oggetto esterno 120».
La proiezione degli archetipi, che permette d'intrecciare mondo e psiche in un'unità organica, si
riscontra nell'astrologia e nell'alchimia come campi dove tale esigenza è quasi esplicita (la
caratterizzazione delle stelle, il legame fra elementi e stati organici, l'ipotesi prometeica
dell'homunculus). Questo modus operandi ha portato alla creazione di archetipi comuni per tutta
l'umanità: ciò non implica che essi non mutino forma e sostanza, che non possano tornare in auge in
maniera più forte in determinati periodi storici che richiedono una certa reazione. D'altra parte sorge
dalla comune fonte della mente umana un altro modo di relazionarsi col mondo, l'intelletto, l'ideale
della ragione; nonostante Jung ribadisca più volte tale posteriorità cronologica ed epistemologica, il
movimento di un intelletto puro, ossia empirico e basato sui sensi121, entrerà irrimediabilmente in
118
Ivi, pagina 4 e 5. Corsivo mio.
Andare oltre e forzare la sottile distinzione fra archetipo e inconscio può esser fatto. Nonostante Jung la mantenga in
molti suoi scritti e in altri giochi con tali categorie con ambiguità, è possibile ragionare sul fatto che un contenuto
umano, di qualsiasi tipo esso sia, sorga necessariamente con una sembianza: se non si vuole parlare di inconscio
come mera mancanza di contenuti, come animalità ed affettività pura difficilmente immaginabile dal punto di vista
teoretico, si potrebbe asserire che nel momento in cui si scorgono le prime presenze abissali, le paure dell'esistenza,
si manifestano quasi immediatamente le forze di risposta e di compensazione, i simulacri che rendono possibile la
sopravvivenza psichica dell'individuo. Ma sarebbe necessario approfondire molte altre opere dell'autore, cosa che
non può esser fatta in questa sede per non uscir troppo dall'occasione del confronto fra autori che ci eravamo
preposti.
120
Ivi, pagina 5 e 6.
121
In realtà anche l'archetipo, nella sua genesi, conta sui sensi. Abbiamo qui quattro diramazioni: il senso interiore
(rappresentato dal terzo occhio), che ha nella formazione degli archetipi un ruolo predominante, e i sensi
119
conflitto con l'originaria protezione psicologica degli archetipi. I «baluardi 122», nell'originale lessico
junghiano, sono destinati agli assalti di vari tipi di “illuminismo”: e se gli archetipi sono spesso
rappresentanti da simboli ed una parete di immagini (nelle quali è stato intrapreso un notevole
investimento semiotico per generazioni) si frapponeva fra gli individui e il reale, l'intelletto userà
come arma principale la tendenza periodica all'iconoclastia, causando qualcosa di simile ad «una
breccia nel baluardo formato dalle immagini sacre 123». L'intelletto è anch'esso una creatura della
psiche umana, non si tarderà molto a scorgere pure alcuni tratti innegabili della fede (lo scientismo è
un contesto dove ciò diviene palese); intelletto e spirito (così come intelletto ed intuizione, in
Bergson) rivaleggiano per il trono dell'anima: «ma quando lo spirito diventa pesante, si trasforma in
acqua; allora l'intelletto, con luciferina presunzione, si impossessa della sede sulla quale un tempo
troneggiava lo spirito. Lo spirito può, sì, rivendicare la patria potestas dell'anima124».
Il successo dell'ideale di ragione nel razionalismo può comportare un nuovo malessere, il disagio
della modernità nell'ottica di Jung: in un contesto psicanalitico e clinico abbiamo già notato che una
delle pazienti dello psichiatra svizzero poteva considerarsi affetta dal proprio cartesianesimo, inteso
liberamente qui come un irrigidimento eccessivo dovuto all'unica fede nella ragione. L'unica
soluzione possibile era stata lo scontro con una dimensione evenemenziale, l'incontro inaspettato
con il mondo, proteso verso di lei nel simbolo dello scarabeo aureo. Per quanto concerne la
collettività, un immaginario fittiziamente asettico e messo sotto giudizio da una verificabilità
scientifica permanente, produce, in realtà, la condizione per delle pericolose ricadute nel terreno
dell'inconscio e per repentine svolte storico-politiche; l'assenza di fantasia integrata e cosciente si
rovescerà in delle tendenze di massa inconsce o nell'identificazione totale (patologica, come
vedremo, simile ad una possessione) in archetipi emergenti, allo stesso tempo superficialmente
nuovi ma riecheggianti da un passato profondo. Su questa frequenza d'onda (in più punti si accenna
fra le righe, qui e in altri scritti posteriori sempre più insistentemente, al nazionalsocialismo tedesco)
si ritrova la polarità pace-guerra: nonostante la razionalità imperante (o che dovrebbe imperare)
nella modernità si pronunci sempre più spesso per la pace, gli Stati non possono fare a meno di
prepararsi alle guerre continuamente, in maniera tanto più frenetica quanto più, paradossalmente, la
paura e la diffidenza dell'Altro vengono in pubblico/internazionalmente smentite: «primitiva o no,
l'umanità sta sempre sull'orlo di azioni che essa stessa compie ma non controlla. Per fare solo un
esempio, il mondo intero vuole la pace, e il mondo intero si arma per la guerra, seguendo il detto: si
vis pacem, para bellum125».
Si tratta, dunque, di rivalutare complessivamente le forze (qui quasi letteralmente) in gioco nella
organolettici da una parte; il puro percepire, totalmente umano, e la sperimentalità (la caratteristica del metodo
scientifico par excellence, ossia la facoltà di riprodurre un evento in determinate condizioni in un laboratorio)
artificiale dall'altra.
122
Potremmo accostarli agli idoli nietzschiani, se non fosse per la connotazione negativa conferita dal filosofo tedesco
nel Crepuscolo degli idoli. Sulla metafora della muraglia si veda il seguente paragrafo: «Basta infatti che l'inconscio
ci sfiori, perché noi ci trasformiamo in esso, in quanto diveniamo inconsci di noi stessi. È questo il pericolo
primigenio, istintivamente noto e oggetto di terrore per il primitivo che si trova ancora così vicino a questo pleroma.
La sua coscienza è ancora insicura e poggia su basi barcollanti; è ancora infantile, appena emersa dalle acque
primordiali. È facile che un'ondata dell'inconscio la travolga, e che egli dimentichi chi è, e faccia allora cose nelle
quali non si riconosce. Perciò i primitivi temono gli affetti incontrollati, nei quali più che facilmente la coscienza
naufraga cadendo in preda a fenomeni di possessione. Per questo gli sforzi dell'umanità sono stati interamente volti
al consolidamento della coscienza mediante i riti, le représentations collective, i dogmi: che erano le dighe, le
muraglie erette contro i pericoli dell'inconscio, i perils of the soul. Per questo il rito primitivo consiste in esorcismi,
liberazione dalle stregonerie, eliminazione del malocchio, propiziazione, purificazione e produzione analogica, ossia
magica, dell'accadimento salutare». Ivi, pagina 20 e 21.
123
Ivi, pagina 11. Oltre al movimento iconoclasta dell'VIII secolo possiamo pensare, in una ricostruzione che prenda in
considerazione la teoria dei cicli storici e delle “risposte a-”, le contrapposizioni e l'esigenza delle stesse fra il
cristianesimo cattolico e quello protestante o fra entrambi e l'islamismo.
124
Ivi, pagina 15.
125
Ivi, pagina 21. Confrontiamo questo spaventoso binomio, per saggiare la sua verosimiglianza con la realtà, a formule
tipiche della Guerra Fredda quali «equilibrio del terrore» o «distruzione mutua assicurata», per non parlare delle
politiche contemporanee di force de frappe, giustificate sul piano internazionale con argomentazioni esclusivamente
preventive.
corretta comprensione dei meccanismi psichici umani. L'Io ha una sua composizione, erosa già
dalla psicanalisi freudiana, che aveva aperto ad una presenza inconscia; da un punto di vista
filogenetico Jung insiste su quanto la formazione di una “coscienza”, di un Io, debba ad un processo
sotterraneo e cancellato nel silenzio dei millenni, fatto anch'esso di tentativi di stabilizzazione in un
mondo avverso; giocando sull'etimologia del termine latino personam (dal greco «πρόσωπον»,
maschera di tragedie e commedie e allo stesso tempo volto caratterizzato in maniera precisa), Jung
limita la portata cosciente del proprio esistere e ribadisce quanto il “cercare se stessi” possa essere
considerato un «rischio» se si tengono in conto le potenze che in noi scorrono ma delle quali non
sappiamo dare una spiegazione: «chi guarda nello specchio dell'acqua vede per prima cosa, è vero,
la propria immagine. Chi va verso se stesso rischia l'incontro con se stesso. Lo specchio non lusinga;
mostra fedelmente ciò che in esso si riflette, e cioè il volto che non esponiamo mai al mondo perché
lo veliamo per mezzo della Persona, la maschera dell'attore. Ma dietro la maschera c'è lo specchio
da cui il vero volto traspare126».
Che conseguenze comporta una teoria del genere, volta con tutta la sua forza alla valorizzazione
completa dell'esistenza universalmente umana dell'inconscio e degli archetipi, nell'applicazione
pratico-terapeutica? Nonostante la saldezza dell'Io ed il suo processo di “individuazione”
coincidano con uno stato di controllo sufficiente ed imprescindibile per la salute del paziente, Jung
riconosce alle potenze archetipiche un ruolo spesso soccorritore e compensatorio e valuta
attentamente i rischi di una loro rimozione o la loro classificazione in idiosincrasie personali. Al di
là dell'interesse culturale dell'intellettuale, la conoscenza dell'appartenenza ad un sostrato
immaginario collettivo diventa un elemento fondante dell'analisi, è la ricostruzione di un cordone
ombelicale che può riportare il paziente alienato e psicotico ad un senso di appartenenza comune. A
questo riguardo scrive Jung, in conclusione al saggio del '34:
«una simile ammissione, che ha il vantaggio di essere onesta, sincera e leale, permette di porre la base per
una reazione compensatoria da parte dell'inconscio collettivo: ecco che adesso ci sentiamo inclini a prestare
orecchio a un'idea utile o a percepire pensieri cui prima non permettevamo di formularsi. E magari facciamo
attenzione ai sogni che si verificano in quel momento o riflettiamo a certi eventi che si producono in noi
proprio allora. Se assumiamo un simile atteggiamento, forze soccorritrici sopite nei più profondi recessi della
natura umana si destano e intervengono, poiché impotenza e debolezza sono l'esperienza eterna e l'eterno
problema dell'umanità, per il quale esiste anche un'eterna risposta, altrimenti l'uomo sarebbe già da tempo
perito127».
È dunque, l'inconscio, una potenza a cui bisogna prestare ascolto; nel suo confine-limite con
l'archetipo, nello stato semi-conscio che permette la relazione con una dimensione altra rispetto a
quella tangibile (che può esigere il superamento del principio di causalità) si può trovare soccorso,
correzione, contenimento di stati che stanno per portare l'uomo alla follia 128.
È ben visibile quanto tali postulati siano lontani da una psicologia classicamente intesa e non solo: i
riferimenti si faranno sempre più espliciti in Jung quando, qualche anno più tardi, criticherà
direttamente la scuola psicanalitica di Freud e Adler; in un saggio del 1936, intitolato “Il concetto di
inconscio collettivo”, il pensatore svizzero farà oscillare la sua critica nei confronti dei colleghi
entro i poli dell'appiattimento fisiologico (definendo la psicologia che diventa estensione della
fisiologia 129 «psicologia medica») e della personalizzazione dell'inconscio, degli archetipi e dei
problemi psichici all'interno della terapia: «la psicologia medica, sviluppandosi, come ha fatto, dalla
pratica professionale, insiste sulla natura “personale” della psiche. Mi riferisco qui alle concezione
di Freud e di Adler. La loro è una “psicologia della persona”, in cui i fattori etiologici o causali sono
126
Ivi, pagina 19. Due specchi, uno di fronte all'altro, che ignorano la maschera.
Ibidem.
128
È il caso d'ammettere una relazione “normale”, collaborativa, fra conscio ed inconscio, e stati psicopatologici ove tale
equilibrio è stravolto; tecnicamente questi stati possono essere spiegati, nell'opera di Jung, sia come identificazione
con un archetipo sia con una perdita di controllo sulle potenze inconsce più amorfe.
129
In particolare la chiosa: «da dare quasi l'impressione che la psicologia fosse un'appendice della fisiologia degli
istinti». Ivi, pagina 58.
127
ritenuti di natura quasi interamente personale130».
Per quanto riguarda l'approccio personalistico delle terapie, perciò, conseguenze pratiche
esclusivamente negative possono trasparire nel disconoscimento d'una dimensione storica, comune
ed universale. Oltre a far crescere il divario fra paziente ed analista con uno scarto di conoscenze
silenziose (quando esse vi sono e non sono considerate con superficialità dalla categoria degli
psicologi) che non vengono prese in seria considerazione, è possibile che il tentativo di riduzione
del contatto con l'archetipo a qualcosa di personale e di illusorio possa portare dei pericoli maggiori
di quelli che si vogliono fugare: «una psicologia puramente personalistica, riducendo ogni cosa a
cause personali, fa di tutto per negare l'esistenza di motivi archetipici e cerca, con l'analisi personale,
addirittura di distruggerli. Considero questo un procedimento piuttosto pericoloso, che non può
essere giustificato sul piano medico. Oggi è possibile giudicare meglio di vent'anni fa la natura delle
forze coinvolte131». Per quel che concerne, invece, la riduzione fisiologica di eventi e stati che sono
principalmente spirituali e che rispondono a dei criteri differenti, ritroviamo ancora una volta la
tematica della chimera psico-chimica; eppure, si potrebbe replicare, tale tentativo è “umano” negli
stessi termini junghiani (pensiamo al mundus unus e alla rivalorizzazione dei saperi alchemicimagici compiuta dall'autore stesso), si potrebbe incappare in un circolo chiuso. Conscio della
naturalezza del tentativo prometeico di conoscere i meccanismi intimi della natura proiettando in
essi aspettative e volontà umane, lo psicanalista svizzero, più che criticare la ricerca scientifica in sé,
mette in guardia da quell'arroganza che porta lo scienziato comune ad irridere i percorsi spirituali,
sentendosi profondamente diverso, più “oggettivo” ed “immacolato”, rispetto ai suoi predecessori
alchimisti. Scrive Jung a questo proposito che:
«non c'è quindi motivo di considerare l'anima, la psiche, come qualcosa di secondario o un epifenomeno; ci
sono invece ragioni sufficienti per interpretarla – almeno ipoteticamente – come un fattore sui generis, e ciò
fino a quando non sia stato sufficientemente provato che il processo psichico può essere fabbricato anche in
laboratorio. Si è derisa come impossibile la pretesa dell'alchimia di costruire un lapis philosophorum
composto di corpus et anima et spiritus. Per conseguenza non bisogna portarsi appresso nemmeno la
conseguenza logica dell'assunto medievale – ossia il pregiudizio materialistico relativo all'anima – il quale
presume che le sue premesse siano fatti accertati 132».
Dobbiamo dedurre da queste parole e altri passi analizzati che se la psicologia non si può ridurre ad
una scienza medica e neanche ad un approccio terapeutico personale, l'augurio della sua rinascita
volge verso un'apertura più ampia alla storia, alla collettività e a criteri diversi, basati su grandezze
non quantificabili e misurabili. C'è, dunque, un ritorno allo spiritualismo all'interno della psicologia,
o, se si vuol circoscrivere tale augurio retrospettivamente, quantomeno una restituzione di tale
disciplina all'orizzonte filosofico in cui si era sempre sviluppata prima del cambio di percorso alla
fine del XIX secolo e la sua metamorfosi a “scienza applicata”. La ripresa degli studi “spirituali”
all'interno della psicologia, in tale contesto, permetterà di tornare a volgere lo sguardo su quella che
si può definire la condition humaine: alla conclusione del saggio, Jung fa numerosi cenni alla
situazione socio-politica del periodo in cui scrive, riferendosi alla molteplicità di «fedi» diffuse,
occultanti il loro aspetto totalmente spirituale e psicologico in fittizi presupposti razionalistici
super-partes: «si può essere in buona fede convinti di non possedere idee religiose. Ma nessuno può
essere talmente diverso dagli altri da non aver più nessuna représentation collective dominante: il
suo materialismo, ateismo, comunismo, socialismo, liberalismo, intellettualismo, esistenzialismo
ecc. testimoniano contro la sua innocenza. Egli è in un modo o nell'altro, poco o tanto, posseduto da
un'idea che lo domina, da un'idea di ordine superiore, sovraordinata 133». Non è ben chiaro quale sia
il confine concettuale fra immaginario e archetipi, nei lavori che abbiamo analizzato finora. Non
sembra uno degli obiettivi principali del pensatore pronunciarsi in maniera diretta su quali demoni e
quali angeli ossessionino o curino i disturbi del cittadino europeo degli anni '30; è invece
130
Ivi, pagina 44.
Ivi, pagina 48.
132
Ivi, pagina 61.
133
Ivi, pagina 64.
131
esplicitamente ripresa, a volte con ironia, la dubbia fede nel «non-aver fede» dell'intellettuale
moderno: «chi riesce a sbarazzarsi del manto della fede, può farlo solo a patto di averne a
disposizione un altro: plus ça change, plus ça reste la même chose! Nessuno sfugge alla condizione
umana134».
Tre anni più tardi, in uno dei lavori di Jung più critici nei riguardi delle altre teorie, assistiamo ad
una vera e propria ricostruzione storica dell'idea di inconscio nella letteratura, nella filosofia e nella
psicologia: si tratta di “Coscienza, inconscio ed individuazione” (1939). In questo scritto l'autore
compie un passo in avanti, che può fare ulteriore chiarezza su quanto abbiamo già ripercorso,
adducendo come spiegazione plausibile alla base personalistica delle teorie precedenti (fra i fautori
di esse, oltre Freud ed Adler, aggiunge anche Janet) un'esperienza medica e psichiatrica concentrata
soprattutto sulle patologie nevrotiche. L'esperienza eterogenea a cui fa riferimento Jung, estraendo
casi dalla sua competenza di psichiatra, riguarda invece la psicosi e gli stati di alienazione e
dissociazione. Nelle nevrosi e nelle sindromi ossessive-compulsive v'è quantomeno una “continuità
personale” nella misura in cui, confrontandole coi casi di psicosi, il paziente alienato e schizoide
non è più “in sé”; ciò che interessa particolarmente Jung in questo contesto è trarre da queste
patologie un esempio di alterità e predisposizione ad essere altro rispetto ad un Io. Nelle sue analisi,
poi, si cerca di evidenziare come stati di delirio psichiatrico ed elementi apparentemente sconnessi
presentino, in realtà, punti di sutura ed accordi con archetipi ancestrali, atteggiamenti mistici o
visioni religiose, considerati nella “norma” o no ad libitum nel corso della storia. Nelle parole di
Jung:
«le teorie sopra citate sono principalmente basate su esperienze nell'ambito delle nevrosi. Né Freud né Janet
dispongono di un'esperienza specificamente psichiatrica. Se l'avessero avuta, sarebbero stati sicuramente
colpiti dal fatto che l'inconscio possiede contenuti totalmente dissimili da quelli della coscienza, così estranei
ad essa che nessuno, né il paziente né il terapeuta, riesce a comprenderli. Il malato è inondato da un flusso di
pensieri estranei, alieni a lui quanto all'individuo normale. Per questo lo chiamiamo “alienato”: capir le sue
idee ci è impossibile. Noi comprendiamo infatti qualcosa soltanto se disponiamo delle necessarie premesse.
Ma in questo caso le premesse sono altrettanto estranee alla nostra coscienza quanto alla mente del paziente
stesso, prima della sua alienazione. Se non fosse così, non sarebbe mai divenuto un malato mentale 135».
Questa sorta di “possessione”, che si rende possibile in molte patologie, eccede i limiti delle nevrosi
e rappresenta uno stato più profondo di legame con l'inconscio rispetto a quello che si può osservare
nelle nevrosi (o, se si ipotizza una natura diversa fra questi due inconsci, un collegamento diretto
con contenuti sovra-individuali studiabili come tali). La psicosi è caratterizzata dalla potenzialità,
per l'inconscio, di «assumere il ruolo dell'Io» e trascinarlo dentro il suo «sistema»; con sistema non
s'intende, dunque, una totale anomia ma una forma di “attorialità” particolare (l'inconscio prende
una parte, la assume e la dirige) indisgiungibile da una predisposizione umana ad essere dominati da
potenze esterne: «i contenuti nevrotici possono essere integrati senza un danneggiamento
sostanziale dell'Io; le idee psicotiche, no. Essere rimangono inafferrabili e si può dire che soffochino
la coscienza dell'Io. Esse rivelano inoltre una spiccata tendenza a trascinare l'Io dentro il loro
“sistema”. Casi siffatti dimostrano che in determinate circostanze l'inconscio è in grado di assumere
il ruolo dell'Io136».
La permanenza dell'inconscio nelle nostre esistenze non è un'ombra che grava sulla coscienza e
sull'Io, una minaccia da considerare negativamente e nei confronti della quale occorre prendere
delle precauzioni; non è nemmeno, come si è intravisto, il calderone nel quale si originano le
patologie. Un normale equilibrio psichico prevede un miscuglio di ragionamento e credenza, di
fiducia in se stessi e fiducia negli archetipi semi-coscienti; da un punto di vista antropologico, se
non viene annullata del tutto, viene comunque ridotta la distanza fra il malato di mente e l'uomo
134
Ivi, pagina 65 e 66. Nello stesso luogo si legga anche: «Un uomo privo di représentation collective dominante
sarebbe un fenomeno del tutto abnorme».
135
Ivi, pagina 269. Nello stesso luogo: «il materiale di una nevrosi è umanamente comprensibile; quello di una psicosi,
no».
136
Ibidem.
sano: anche nel caso di chi non si sente travolto o scosso da potenze esterne (che tendono anch'esse
all'autonomia e al prendere vita sotto la “maschera” della nostra persona), si tratta sempre e
comunque di un'energia in uno «stato quiescente137», una «realtà in potenza138». Oltre a sottolineare
quanto labili possano essere i confini fra una normalità che “fa uso” di processi inconsci e si
relaziona con gli archetipi e una malattia che o non li riconosce correttamente o ne viene totalmente
travolta139, l'attenzione di Jung su tale precarietà si rivolge anche alla psicologia delle masse, ad
epifenomeni come l'ondata di entusiasmo o di allarmismo, l'effetto “panico” e la fascinazione
collettiva. Stati di affettività estrema agevolano il sorgere ed il diffondersi di quelle che lo
psicanalista chiama «epidemie psichiche» e vi possono essere degli eventi in grado di modificare la
posizione dell'asticella della coscienza in intere popolazioni: «non ci vuol molto: amore e odio,
gioia e dolore, bastano spesso per provocare uno scambio di ruoli tra l'Io e l'inconscio. Idee anche
molto bizzarre possono in tali occasioni impadronirsi di uomini peraltro sani. Gruppi, comunità e
anche popoli interi possono essere in questo modo colpiti nella forma di epidemie psichiche 140».
Nella formula del semi-cosciente, l'archetipo, e dell'amorfa vita inconscia dovuta all'insicurezza
drammatica della condizione umana, la presenza dell'irrazionale è molto più forte di quanto appare
superficialmente; variando fra gli aspetti negativi, di eteronomia e minaccia e quelli di spiritualismo
ed equilibrio, Jung finisce per utilizzare una categoria che abbiamo ripreso più volte nella nostra
trattazione sull'opera di Bergson, l'intuizione. Per un verso l'intuizione viene definita una
«percezione per via inconscia141» (pensiamo a tutti i contenuti che si rendono manifesti solo a chi
accetta, ad esempio, il principio di sincronicità): la possibilità di rendersi conto di come qualcosa,
indipendente dalle nostre volontà, stia agendo dentro di noi e ci stia cambiando può essere solo
intuita e questa intuizione può fare la differenza in un cammino analitico che miri alla
consapevolezza di sé. Per l'altro, in una situazione di sovra-razionalizzazione nell'individuo (in
termini freudiani potremmo pensare ad un esondare annichilente del potere del Super-Io) ricorrere
all'aiuto compensatorio degli archetipi può essere l'unico modo per superare un'impasse e riscoprire
un «equilibrio perduto142».
8. La cura della “Signora X”, fra arte ed analisi
Un'occasione sui generis, che ci permette di vedere all'opera le categorie junghiane in un contesto
terapeutico documentato passo per passo, si presenta in un saggio posteriore di un decennio rispetto
a quelli analizzati; se negli anni '30 la produzione di Jung è concentrata nell'elaborazione di nuove
categorie psicologiche, poco prima di dedicarsi alla teoria della sincronicità (suffragata
dall'influenza teorica e dalla frequentazione personale del fisico austriaco Wolfgang Ernst Pauli),
negli anni '50, lo psicanalista inizia a comporre dei diari che descrivono le analisi ed i casi
psichiatrici più adatti per mettere in evidenza le sue teorie sulla psiche. Nel 1950 viene pubblicato il
saggio “Empiria del processo di individuazione”, nel quale è presente un lungo resoconto del
rapporto terapeutico fra Jung stesso e la “Signora X”, una paziente che sarà presente nella sua vita
per più di vent'anni, dall'animo estremamente sensibile e da una spiccata propensione
all'espressione artistica nella pittura.
137
Ivi, pagina 270.
Ibidem: «Noi chiamiamo l'inconscio “nulla”, e invece esso è una “realtà in potenza”».
139
«Non abbiamo motivo di supporre che l'inconscio abbia la facoltà di divenire autonomo solo in determinate persone,
quelle predisposte alla malattia mentale. È assai più probabile che la tendenza all'autonomia sia una proprietà più o
meno generale dell'inconscio. Il disturbo mentale è in un certo senso solo la punta emergente di uno stato latente ma
generale». Ibidem.
140
Ibidem.
141
«Un altro esempio è costituito dall'intuizione, la quale poggia essenzialmente su processi inconsci di natura altamente
complessa. Proprio per questa caratteristica io ho definito l'intuizione “una percezione per via inconscia”». Ivi,
pagina 273 e 274.
142
«La cooperazione dell'inconscio è sagace e diretta allo scopo, e anche quand'esso si comporta in contrasto con la
coscienza, la sua espressione è sempre compensatoria in modo intelligente, quasi volesse cercar di restaurare
l'equilibrio perduto». Ibidem.
138
La paziente di Jung si ritrova ad affrontare uno stato di disagio, non definitamente clinico, in
occasione di un ritorno nelle terre natie dopo un lungo periodo di esodo; l'occasione le offre, quasi
spontaneamente, ispirazione per una serie di quadri, collegati a sogni e “sensazioni” di diverso
tipo143, che vengono analizzate da Jung con una metodologia che potremmo definire semioticapsicologica. Ogni tavola, riportata nell'originale junghiano, corrisponde ad una fase di chiarezza e
ricerca del sé. Più specificamente, nel saggio ritroviamo un τόπος della psicologia e della filosofia,
espresso nei termini di principium individuationis: in questo contesto vengono chiamate in causa,
più delle categorie spaziali e temporali, le condizioni minime per l'equilibrio e la formazione di un
“Io” coeso e classificabile come “unità”. L'etimo latino della parola “in-dividuus” indica proprio
una non-divisibilità, collante per la delimitazione di una psiche stabile ed in equilibrio; ma, come
abbiamo già intravisto, l'essere umano che riesce a trovare una tale garanzia di stabilità non è quello
che chiude la propria identità in un recinto di contenuti consci e certezze. Nella ricerca dell'identità,
nell'atto del riflettersi e del rispecchiarsi, la psiche scopre dei processi inconsci che saranno
fondamentali per la grandezza-unità “individuo” ma che non rientreranno nell'Io; si delinea dunque
una sfera dell'Individuo che trascende quella dell'Io e che prevede la presenza (non interamente
dispiegantesi ma visibile in stati di contatto con essa) dell'inconscio e degli archetipi:
«uso il termine “individuazione” per designare quel processo che produce un “individuo” psicologico, vale a
dire un'unità separata, indivisibile, un tutto. Si suppone generalmente che la “coscienza” coincida con la
totalità dell'individuo psicologico. Ma la somma di esperienze inesplicabili senza il ricorso all'ipotesi di
processi psichici inconsci fa dubitare che l'Io e i suoi contenuti siano realmente identici al “tutto”. Se i
processi inconsci in generale esistono, sicuramente appartengono alla totalità dell'individuo, anche se non
sono parti costitutive dell'Io cosciente 144».
La scelta dei quadri della signora X non è casuale: nonostante vi siano diversi soggetti illustrati,
dipinti da altri pazienti, che rispecchiano lo stesso processo, Jung si serve della successione delle
tele per mostrare in che modo si sia evoluta la guarigione psichica della sua paziente nella ricerca
dell'equilibrio interiore; per far questo si prendono le mosse da tele strettamente figurative, che
vengono dalla signora X ricondotte ad episodi precisi della sua sfera personale e che non la
soddisfano (interpretazione, fra le righe, che ricalca la critica alla parzialità personalistica della
psicanalisi freudiana nell'ottica dell'autore). Nella prima immagine (FIGURA 3 145) la figura umana
nasce dalla roccia, per un certo verso inespressiva, per l'altro sofferta; la continuità fra i tratti
distintivi della creatura ed il materiale terrestre rimandano ad una riemersione dalla comune matrice
inconscia, caotica e primordiale radice di ogni esistenza. Il petto è sul punto d'essere trafitto dalla
punta di una figura piramidale, la sensazione di angoscia viene così rappresentata. Ma a questi
livelli di figuratività l'interpretazione si perde nel cercare di ricollegare quel viso inespressivo ad
una persona realmente esistente o alla cornice ambientale della città natale nella quale la paziente è
stata costretta a tornare e dove rincontra la sua famiglia.
143
Ci si può rendere conto, en passant, della profonda differenza che intercorre fra Jung e la scuola freudiana
tradizionale, considerando soltanto i materiali che vengono presi in esame nel corso dell'analisi e dell'interpretazione.
Nonostante Jung faccia spesso riferimento alla categoria di «criptomnesia» come rischio di alterazione della
memoria che illude il soggetto di concepire come sostanzialmente nuovo un ricordo o un contenuto in realtà
pregresso, il meccanismo della censura della coscienza ha un ruolo decisamente minore rispetto alla psicanalisi
tradizionale e clinica: vengono prese in seria considerazione anche le rielaborazioni del paziente stesso e, per quanto
riguarda i sogni, le spiegazione che egli stesso dà ai suoi ricordi, che possono affiorare in superficie anche dopo
lunghe gestazioni interiori.
144
Ivi, pagina 267.
145
Tavola I/A. Tutte le figure originali si trovano a partire dalla pagina 401 dell'edizione sopracitata.
FIGURA 3
Un elemento che a prima vista potrebbe sfuggire all'osservatore occasionale, ma che risalta
all'occhio analitico del pensatore svizzero, è l'insieme di sfere che si stagliano in primo piano nel
quadro. La forma definita, chiusa, il loro essere indipendenti l'una dall'altra, differenzia il loro
essere rispetto alla figura umana e alle forme piramidali. La sfera rappresenta perfettamente il
concetto di individuazione ed identità; la paziente, che ben conosceva le teorie di Jung e che, in
realtà, prosegue la sua indagine introspettiva in maniera abbastanza indipendente, elabora una serie
di tele che diverranno sempre più astratte ed essenziali e nelle quali le connotazioni figurative
scompariranno per lasciar spazio ad una geometrica e significativa disposizione di elementi
simbolici. Il passaggio rilevante dalla prima immagine alla seconda (FIGURA 4 146) viene avvertito
come un progresso enorme dalla paziente stessa: è pressoché evidente la centralità che assume la
sfera, qui in primo piano, unica area colorata insieme ad un fulmine dorato. La saetta, richiamante
l'aiuto di un deus ex machina, viene vista come la rappresentazione dell'autorità e dell'aiuto dello
psicanalista; la luce separa la sfera dall'indistinto inconscio, la dota di una prima differenziazione
fra un centro (rosso), una campitura (anch'essa dorata) e un bordo nero, spesso e “forte”, che riesce
a consolidare la delimitazione individuale.
FIGURA 4
L'atto della disgiunzione introduce ad un movimento che verrà mantenuto nel corso di tutto il
processo di catarsi artistica, innestato in questa terapia sui generis. La sfera dell'Io fluttua in uno
146
Tavola II/A.
sfondo indefinito, che nonostante la sua mancanza di riferimenti lascia intendere uno scorrimento,
una dimensione dinamica e temporale; una fascia argentea la tiene insieme, aiuta a mantenere una
rotazione ed un baricentro. Il fulmine, invece, si converte analogicamente nell'emblema del serpente
dorato, che come ogni simbolo inizia a sottintendere un'ambiguità ermeneutica (FIGURA 5 147).
FIGURA 5
Basandoci sulla geometria di tali figure potremmo avere l'impressione d'uno sviluppo progressivo,
di una svolta ormai compiutasi. In realtà questi primi due passaggi rappresentano, sì, un grande
miglioramento della situazione psicologica della pittrice, ma non sono che l'inizio di un lungo
percorso che verrà caratterizzato (e in questo v'è sicuramente un qualcosa di universalmente
estendibile al genere umano) da un'alternanza di fasi costruttive e distruttive. Per rimanere
nell'ambito dell'immagine della sfera, il consolidamento iniziale della sua finitudine lascerà il passo
ad una differenziazione complessa del suo interno (FIGURA 6 148). L'elemento, dapprima esterno,
che suppliva la funzione della “fascia” che sostiene ed aiuta, viene interiorizzato ed inglobato in un
intreccio di membrane e microstrutture; più importante ancora è la metamorfosi del serpente, da
simbolo salvifico ad elemento critico e perturbante, caratterizzato adesso dal colore nero. In un
primo momento, in una chiave plausibilmente (o forse troppo superficialmente) freudiana, terapista
e paziente cercano d'interpretare il quadro, le sensazioni e l'insieme di sogni ad esso connesso come
una risultante d'un cambio di atteggiamento nei confronti della terapia: che il transfert medicopaziente si sia incrinato o che si possa ravvedere nel tentativo di penetrazione ed incursione del
simbolo curvilineo una trasposizione schematica dell'elemento fallico, attinente alla sfera sessuale, è
una prima ipotesi, discussa nel saggio. Successivamente tale pista viene abbandonata per una
spiegazione più antropologica dei disegni, che verrà suffragata maggiormente dalla continuità della
serie di quadri che avranno come protagonista ancora la sfera-Io.
147
148
Tavola III/A.
Tavola IV/A.
FIGURA 6
Il processo d'individuazione, il consolidamento dell'identità, è per l'appunto solo ai suoi inizi. Il
fulcro interpretativo che seguirà in tutte le immagini successive sarà l'indagine di un rapporto
dialettico, in continua evoluzione, fra l'Io e un qualcos'altro: tale alterità, però, non si manifesterà
mai in modo assolutamente informe. I simboli sono un punto di mediazione essenziale e sono già
introiettati all'interno della psiche umana; il pensare è già essenzialmente simbolico. Ciò che
soggiace alle costruzioni, fortunatamente evidenti nei casi dei pazienti in grado d'esprimersi con
mezzi artistici, è un insieme di figure interconnesse e sempre correlate fra di loro secondo alcuni
canoni di equilibrio e misurazione. Un paragone che rende più che unica la teoria junghiana e che
ossessionerà lo psicologo per intere decadi della sua produzione sarà quello fra tali espressioni
spontanee, determinantesi in un contesto di ricerca del Sé da parte di soggetti “fragili”, ed i simboli
ricorrenti nell'alchimia e nell'induismo; nel caso specifico della signora X Jung ricorre
esplicitamente ad un accostamento con i mandala e man mano che la sfera-Io, nella tavolaIndividuo, si articola e si complica inglobando sempre più elementi eterogenei, si ha l'impressione
d'una stretta connessione fra la disposizione numinosa delle immagini di culto e le tavole dei
pazienti.
Quella che abbiamo chiamato l'incursione, l'inglobare degli elementi esterni, dapprima
incontrollabili, è la chiave di volta sia per la guarigione (nel caso di un equilibrio compromesso da
qualcosa) sia per l'individuazione (indipendentemente dalle psicopatologie, come cardine della
normalità). La sfera, che equivale all'Io solo in una fase di transizione che permette di elevarsi dalle
rocce del caotico, inizia a comprendere altro: funziona solo con un metabolismo organico, con
un'integrazione che deve superare l'eteronomia fra conscio e inconscio, fra Io e Non-Io. Quello che
è permesso al conscio è quello di ricercare la posizione centrale, un centro attorno al quale, però,
ruotano i processi complessi delle credenze e delle fedi che coinvolgono gli archetipi: «è apparso
invece evidente che questa totalità deve necessariamente includere non solo la coscienza ma anche
lo sterminato campo degli accadimenti inconsci, e che l'Io può essere solo il centro della
coscienza149».
149
Ivi, pagina 268.
FIGURA 7
Nell'ultima immagine (FIGURA 7 150 ) viene riconosciuto sia dalla paziente che dal terapeuta
l'immagine del dolore cosmico (Weltschmerz in tedesco): qualsiasi forma grafica rappresentante la
protezione è scomparsa, la membrana ha lasciato spazio ad un contrastante abbinamento fra il rosso
e il nero. L'accettazione del «principio oscuro151» non è ancora stabile, nonostante non vi sia mai un
termine di compiutezza: ma la sensazione di angoscia non è stata ancora dimidiata dal mandala
interiore. La resistenza del conscio rinasce, però, in un movimento appena accennato dalle forme in
divenire, diramantesi dal nucleo, accostate dall'autore all'originale svastica indiana; nel proseguo
della serie verrà ad accentuarsi proprio quel movimento, le tavole rappresenteranno cambiamenti
dovuti a traumi o sensazioni che verranno di volta in volta assimilati e masticati all'interno del
processo di formazione dell'individuo umano.
9. Conclusione
Alle conclusioni spetta sempre, in un modo o nell'altro, una sorta di azzardo. Così possiamo
presumere che ripensare ancora oggi le categorie di tempo e spazio, come hanno fatto Bergson e
Jung, potrebbe apparire sterile in un contesto in cui alla filosofia spettano ben altre priorità o nel
quale la medesima è soventemente ridotta al ruolo di coordinatrice generale dei saperi e delle
conoscenze. Eppure basterà un esempio, a nostro avviso, a sollecitare i lettori alla necessità d'una
tale impresa, da ri-attualizzare in maniera permanente dopo ogni grande cambiamento; in un senso
molto più tecnico e fattuale rispetto a quello dei termini bergsoniani, ci ritroviamo a vivere in un
mondo dove reale e virtuale sono ormai commisti in un nesso indissolubile. Si è composta una vera
e propria lega che ormai non si riuscirà, probabilmente, a scindere. Così è lecito chiederci: in che
spazio ci immergiamo, adesso? E che tipo di percezione temporale può avere un soggetto
totalmente immobile dinnanzi ad uno schermo che interagisce con lui?
A prescindere da qualsiasi rimando all'alienazione ed alla reificazione delle nostre facoltà umane, si
può intuire come le categorie classiche e fisiche di tempo e spazio, che si confrontavano con una
serie di eventi o spostamenti reali in successione, oggi siano profondamente in crisi nel momento in
cui rientra nella pratica comune e più quotidiana in assoluto lo spostarsi senza muoversi ed il
trascorrere molte ore senza averne nessun sentore. Così è d'obbligo chiedersi se tutto questo ci
avvicinerà, in un certo senso, alla vera “contemplazione”, rendendo le nostre attività sempre più
“filosofiche”, o se le categorie neutralizzate dell'oggi non possano, a lungo andare, erodere la tanto
apprezzata sensibilità che schiere di pensatori “spiritualistici” e “vitalistici” come Bergson e Jung
hanno
cercato
di
dipingere
in
tutta
la
sua
nobiltà
esistenziale.
150
151
Tavola VIII/A.
Ivi, pagina 327.
10. Bibliografia
Henri Bergson, Pensiero e movimento, Bompiani, Milano, 2010.
Henri
Bergson,
Materia
e
memoria,
Editori
Laterza,
Roma-Bari,
2013.
Stefano
Velotti,
Storia
filosofica
dell'ignoranza,
Laterza,
Bari,
2003.
Carl Gustav Jung, La sincronicità come principio di nessi acausali, Bollati Boringhieri, Torino,
2013.
Carl Gustav Jung, L'io e l'inconscio, Bollati Boringhieri, Torino, 2014.
Carl Gustav Jung, Opere, volume 9. Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, Torino,
2011.