Jean Paul Sartre
Cenni sulla filosofia del Novecento, sull’esistenzialismo e le sue caratteristiche.
Biografia e opere di Sartre, la coscienza per Sartre, brani antologici e aforismi
del filosofo
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4.5.
4.6.
scena
4.7.
4.8.
Il teatro come tribuna
L’esistenza messa in
La logica rivoluzionaria
Dalla lotta politica alla
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1. Cenni sulla filosofia del
Novecento
1.1. Lo spiritualismo
francese
1.2. La fenomenologia
1.3. L’esistenzialismo
1.3.1. L’esistenzialismo:
un’atmosfera storicoculturale
1.3.2. Le origini della
diffusione del
“clima”esistenzialista
1.3.3. L’incontro tra
esistenzialismo e tradizione
storicista e marxista
1.3.4. L’esistenzialismo
ateo di Sartre
1.4. Il Circolo di Vienna e
il neopositivismo
1.5. La scuola di
Francoforte
1.6. Il neo-criticismo
tedesco
1.7. L’esistenzialismo e la
cultura religiosa
1.8. Le caratteristiche
dell’esistenzialismo italiano
1.9. Altre figure
dell’Esistenzialismo
2. L'Être et le Néant. Essai
d'ontologie
phénoménologique
2.1. L’essere e il nulla
2.2. L’Essere e il nulla : le
strutture immediate del per
sé
2.3. Al centro dell’essere
e il nulla…la libertà
2.4. La libertà
scrittura
4.9. Un impegno permanente
4.10. Il “romanzo vero”
5. Sartre e Heidegger
5.1. Essenza e esistenza per
la realtà umana in Essere e
tempo di Heidegger
5.2. L’esistenzialismo di
Sartre e di Heidegger
5.3. L’esistenza “autentica” o
“inautentica”
5.3.1. La convergenza di
marxismo, ebraismo ed
esistenzialismo: Bloch, Buber,
Rosenzweig
6. La coscienza per Sartre: dalla
coscienza posizionale ai margini
dell’idealismo
6.1. La coscienza come
nullificazione: Sartre
7. Malafede e fuga
dall’infondatezza
7.1. Malafede e menzogna
7.2. I comportamenti della
malafede
9. La nausea
9.1. La nausea nel linguaggio
di tutti i giorni
9.2. La Nausea come
categoria esistenziale
9.3. Nausea, nulla e
progettualità umana
9.4. Inattualità di Sartre, al
giorno d’oggi
10. Il muro
11. L’esistenzialismo è un
umanismo
12. La Critica della ragione
dialettica
13. L’immaginazione in Sartre
13.1. Che cos’è dunque
l’immagine per Sartre?
13.2. C’è differenza con
l’immagine?
14. Il pensiero di J.P.Sartre
14.1. Sartre: una filosofia
dell’esistenza la sua
14.2. Sartre: il linguaggio e
la coscienza, una nuova filosofia
della soggettività
15. Coscienza, emozione ed
immagine in Sartre
16. L’antropologia esistenziale
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nell’esistenzialismo
2.5. Il Marxismo
2.6. L’essere e il nulla tra
ontologia e psicologia
2.6.1. Due differenti
piani coscienziali
2.7. Il Ventesimo secolo e
la crisi dell’ontologia
3. Biografia di Sartre
3.1. Il suo periodo
glorioso: l’apoteosi
esistenzialista
3.2. Sartre: compagno di
strada del PCF (Partito
Comunista Francese)
3.3. La guerra d’Algeria
3.4. Strutturalismo,
Flaubert e premio Nobel
4. Opere di Sartre
4.1. Sartre:
dall’insegnamento alla
Scrittura
4.2. Dalla scrittura
all’esistenzialismo
4.3. «L'esistenza precede
l’essenza»
4.4. «L'esistenzialismo è
un umanesimo»
di Sartre: condannati ad essere
liberi
16.1. L’incontro di Sartre con
la fenomenologia
16.2. L’analisi esistenziale
17. Articolo su J.P. Sartre e
Simone de Beauvoir
18. Sartre, la passione della
critica
19. Jean Paul Sartre: un
intellettuale “impegnato” con la
nausea di vivere
20. Jean Paul Sartre e la poesia
21. Il concetto di alienazione da
Marcuse a Sartre
22. Brani antologici
22.1. Da l’essere e il nulla
22.2. Brani tratti da La
nausea
22.3. Brano tratto da Le
mani sporche
22.4. Brano tratto da
L’esistenzialismo è un
umanismo
22.5. J.-P. Sartre,
L'esistenzialismo è un
umanismo
23. Sartre…un centenario dopo
24. Aforismi di J. P. Sartre
25. Citazioni di J. P. Sartre
1. Cenni sulla filosofia del Novecento
1.1. Lo spiritualismo francese
Lo “spiritualismo” francese può essere definito come una filosofia che è maturata a cavallo tra l’Ottocento e il
Novecento e che tende a dare grande importanza alla vita spirituale dell’uomo, cercando di sottolinearne la
specificità rispetto a quella materiale; ci sarà perfino chi, come Bergson (nell’ Evoluzione creatrice), negherà
ogni autonomia alla sfera materiale, riconducendola interamente a manifestazione di quella spirituale, sulla
scia di quanto aveva già fatto Leibniz secoli prima.
Lo spiritualismo nasce e si sviluppa soprattutto
in Francia in quanto si tratta di una filosofia di
derivazione essenzialmente cartesiana: proprio
Cartesio, infatti, aveva prospettato con l’idea
del “cogito” la ricerca della verità nell’interiorità
spirituale, riducendo la materia (“res extensa”)
a pura e semplice estensione nello spazio
priva di ogni forma di spiritualismo e vitalità. La
contraddizione del pensiero cartesiano, d’altra
parte, scaturiva dal fatto che il pensatore
francese non era stato in grado di spiegare in
maniera convincente il rapporto tra lo spirito
(“res cogitans”) e la materia (“res extensa”), tra
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l’anima e il corpo, con la conseguenza che tutti
i pensatori a lui successivi avevano tentato di
risolvere il problema in modo migliore: c’era
chi, come La Mettrie, si era sbarazzato
dell’ingombrante idea di anima e dalla
concezione
cartesiano
dell’
“animalemacchina” era direttamente passato a quello
dell’ “uomo-macchina”, e chi, invece, aveva
esasperato la sfera spirituale e l’indagine
interiore del “cogito”.
Proprio dall’attenzione per le istanze spirituali muove i suoi passi lo spiritualismo francese, che si colloca
pertanto in modo critico nei confronti del meccanicismo e si inserisce bene nel contesto di quelle filosofie
vitalistiche (prima fra tutte quella nietzscheana) che si opponevano al Positivismo e al suo culto acritico della
ragione. Tra i numerosi pensatori che hanno aderito al nuovo movimento francese merita senz’altro di essere
ricordato Émile Boutroux, che con la sua filosofia ha inciso in modo rilevante sul pensiero di Bergson: alla
teoria da lui elaborata egli stesso dà il nome di “contingentismo”; alla base di essa vi è il riconoscimento di
una certa contingenza all’interno dei fenomeni che avvengono nel mondo; una cosa è contingente quando
c’è ma potrebbe tranquillamente non esserci.
Il nucleo dell’argomentazione di Boutroux è piuttosto semplice e fa perno su quel concetto che da sempre sta
alla base del determinismo: il principio di causalità. Esso prescrive che ogni fatto sia causato in modo
necessario da un altro fatto, ma Boutroux riesce a scoprire una specie di indeterminazione nella causalità:
accettando il concetto di causa, infatti, siamo costretti a riconoscere causa ed effetto non siano la stessa
cosa, il che vuol dire, detto in maniera molto schematica, che l’effetto non è tutto già contenuto nella causa,
ma presenta qualcosa di nuovo e di differente rispetto ad essa.
Il risultato di questo ragionamento è prevedibile: nel mondo, dice Boutroux, devono per forza esistere
elementi di contingenza per cui gli effetti han sempre qualcosa di nuovo, che non c’era nella causa. E se
Comte diceva che le leggi di una disciplina (ad esempio, la fisica) non sono riconducibili in tutto e per tutto a
quelle di un’altra (ad esempio, la matematica), Boutroux ci spiega il perché, facendo notare, appunto, come
l’effetto non derivi in maniera così necessaria dalla causa, ma come anzi presenti un qualcosa di
contingente. Così, se è vero che diciamo che 2+3 è uguale a 5, quasi come se lo causasse in modo del tutto
necessario, non ci sogneremmo mai di dire che lo sfregamento del fiammifero sia uguale all’accensione della
fiamma, sebbene in effetti la fiamma venga accesa dallo sfregamento del fiammifero: questo perché l’effetto
non si identifica pienamente con la causa, checchè ne pensasse Schopenhauer nella “Quadruplice radice
del principio di ragion sufficiente”.
Non è un caso che negli anni in cui Boutroux sviluppa il suo pensiero, Heisenberg elabori il principio di
indeterminazione, secondo cui è impossibile determinare con rigore al tempo stesso il moto e la posizione di
una particella: né Heisenberg né Boutroux mettono in dubbio l’esistenza di regolarità nel mondo e, per
questo motivo, continuano a ritenere valido il principio di causalità, ma avanzano l’ipotesi che sia scorretto
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ridurre ogni cosa al meccanicismo, facendo considerazioni piuttosto simili, nella sostanza, a quelle fatte
duemila anni prima, circa, da Epicuro con la sua teoria del “clinamen”. E del resto il rifiuto di Boutroux e di
Bergson e, più in generale, degli spiritualisti francesi, non nasce da una loro ignoranza delle problematiche
scientifiche, ma anzi da un’ottima conoscenza di esse, di cui colgono i limiti e le contraddizioni: si tratta,
potremmo dire, di un superamento della scienza da parte di chi la conosce a fondo.
ll poeta italiano Eugenio Montale si dichiarerà apertamente sostenitore della filosofia di Boutroux e, non a
caso, la sua poetica cerca qua e là delle vie di fuga dall’ordine oppressivo della realtà e può essere ben
rappresentata dall’immagine, tipicamente montaliana, del muro coperto da cocci di vetro (che rappresenta il
limite che impedisce di attingere l’essenza più intima della realtà) che presenta qualche fessura, ovvero
qualche tenue possibilità di cogliere l’essenza della realtà; in Montale è, infatti, costante l’idea di una “maglia
che non tiene”, del muro dalle cui fessure si può sbirciare e cogliere, in modo extra-meccanicistico, la realtà
più profonda, anche nei momenti più banali (quando, ad esempio, si sente l’odore dei limoni, dice Montale),
che possono rivelarsi invece momenti di fuga dall’ordine soffocante.
1.2. La fenomenologia
Una delle principali fonti dell’esistenzialismo è la “fenomenologia”; molti dei grandi pensatori esistenzialisti
(Sartre e Heidegger, ad esempio) sono prima stati fenomenologici: in particolare, Heidegger è stato
discepolo dell’eroe della fenomenologia, Edmund Husserl. La tesi fenomenologica formulata da Husserl parte
dal recupero di alcune nozioni della tarda-scolastica, prima fra tutti l’ “intenzione”: per Ockham l’intenzione
era l’atto con cui la mente si riferisce a qualcosa, per cui se penso ad un oggetto, l’atto con cui la mente si
riferisce ad esso è un’intenzione, proprio come un segnale stradale si riferisce a quella precauzione che
suggerisce con un’intenzione. Inoltre Husserl riprende la tradizione cartesiana (nel 1931 scrive un’opera
intitolata “Meditazioni cartesiane”): fondamentalmente egli mutua dal filosofo francese l’esigenza di arrivare a
costruire un sapere assolutamente certo, una filosofia come scienza.
E, sotto questo profilo, Husserl ha la pretesa di
costruire una filosofia che non si limiti a concetti
elaborati in passato, ma che parta dai dati della
realtà così come essi si manifestano e proprio
per questo motivo la sua filosofia prende il nome
di “fenomenologia” ( fainomenon indica appunto il
manifestarsi). In questa ricerca di un’assoluta
certezza, Husserl si domanda, cartesianamente,
se quando ho in mano un oggetto, supponiamo
una penna, vi sia qualcosa di certo. E finisce per
dire che del fatto che esiste un mondo a me
esterno non posso averne certezza e per questo
motivo decide di sospendere il giudizio sul
mondo ricorrendo al concetto di epoch ,
elaborato dagli antichi Scettici, che significa
appunto “sospensione di giudizio”: con tale atto,
Husserl, com’egli stesso afferma, mette il mondo
“tra parentesi” perché problematico, in quanto
non certo.
C’è una cosa, però, dice Husserl, di cui ho certezza ed è il fatto di pensare e di avere percezioni (tattili,
visive, ecc) di quel mondo messo tra parentesi, sicchè posso costruire una scienza di idee che metta fra
parentesi la corrispondenza tra le idee presenti in me e il presunto mondo a me esterno.
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E, in un certo senso, Husserl vuole ricollocare tutta la filosofia all’interno della coscienza perché ciò gli
permette di attribuire alla filosofia stessa una veste di assoluta certezza. Ma questo non toglie che
nell’ambito della coscienza sussista un rapporto di intenzionalità: il soggetto percepisce idee, ma che ad
esse corrisponda qualcosa in un mondo esterno viene messo tra parentesi; ma, compiuta quest’operazione e
quindi escluso l’oggetto come esistente fuori di me, si crea un rapporto soggetto/oggetto nella coscienza.
Infatti, quando percepisco il nero, sto percependo, in qualità di soggetto, un oggetto e non è vero, dice
Husserl, che i princìpi logici e matematici sono il riflesso del funzionamento della nostra mente, come
sosteneva lo “psicologismo”, secondo il quale 2 + 2 = 4 solo perché la nostra testa funziona così: non è
possibile, in altri termini, che le leggi logiche e matematiche siano fondate dalla psiche umana.
Un po’ come era per Platone, anche per Husserl 2 + 2 = 4 è un oggetto del pensiero ma, a differenza di
Platone, per Husserl non è un oggetto esistente in modo indipendente: viceversa, l’esistenza della verità 2 +
2 = 4 risiede nel fatto che all’interno della coscienza esiste un rapporto di intenzionalità per cui quando dico 2
+ 2 = 4 non mi sto muovendo fuori dall’alveo della coscienza, ma è un gioco tutto interno alla mia mente. Ma
anche se tutto avviene nella mia mente, ciononostante, distinguo tra atto del pensare (noesiV) qualcosa
dall’idea che viene pensata (noema ), nel nostro caso2+2=4. In altri termini, nel pensare sono sempre
compresenti e distinti l’atto del pensare e l’oggetto di tale atto: l’uno si riferisce all’altro con un rapporto
intenzionale.
1.3. L’esistenzialismo
Quando l’esistenzialismo nasce, nel Novecento, è un atteggiamento culturale a tal punto di ampia portata da
investire, proprio in quanto filosofia dell’esistenza, ogni ambito della cultura del tempo e tende spesso a
sfuggire alla trattazione filosofica e, talvolta, ad assumere l’aspetto di una moda letteraria. Senz’altro la fonte
principale dell’esistenzialismo è il pensiero di Kierkegaard e il suo interesse per l'io come singolo, ovvero per
l'io concreto, sganciato dalla nebulosa astrattezza in cui l'aveva avvolto Hegel. Del resto, osservava molto
acutamente Kierkegaard, checchè ne pensi Hegel, noi siamo nel mondo come singoli, ancor prima che come
umanità e spirito.
L’indagine esistenzialista, pertanto, viene proiettata
sull’esistenza dell’io come singolo e sul significato
della vita e non è un caso che spesso tenda a
slittare verso forme che esulano dal pensiero
filosofico, quali la filosofia o la letteratura: del resto
già Aristotele aveva fatto notare che la scienza è,
per definizione, sempre scienza dell’universale,
cosicchè lo studio del singolo uomo e della sua
esistenza non è rigorosamente definibile, ma anzi
sfugge ad ogni inquadramento intellettuale, con la
conseguenza che per indagare l’esistenza del
singolo occorre percorrere strade alternative. E
così l'esistenzialismo di Kierkegaard, di Lutero e di
Pascal provava la via religiosa, mentre quello del
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Novecento prova, con Sartre e Camus, quella del
teatro e della letteratura, poiché il teatro, la
letteratura e la religione consentono di presentare
situazioni concrete ed individuali.
La categoria fondamentale è, dunque, l’esistenza e non l’essenza, sicchè a contare non è ciò che l’uomo è in
sé, ma ciò che l’uomo può fare di sé progettando il proprio destino: non vi è nell’uomo un’essenza che
determini deterministicamente ciò che egli sarà; viceversa, l’esistenza è una navigazione nel vuoto: si è
gettati nel mondo e si deve cercare di dare un senso ad un’esistenza che, priva di senso, ne è sprovvista.
Altri grandi esistenzialisti del passato erano stati Pascal e Lutero, i quali si erano interessati non tanto se Dio
esistesse, quanto piuttosto che senso avesse per l’esistenza dell’uomo credere in Dio.
Nel Novecento, accanto agli esistenzialisti credenti e a quelli difficili da catalogare, come Heidegger (Vattimo
dà di lui un'interpretazione non-religiosa), vi saranno anche esistenzialisti atei che riprenderanno le riflessioni
di Kierkegaard, rimproverando però al filosofo danese e, in generale, all'esistenzialismo religioso di aver
tradito l'istanza esistenzialistica originaria ricorrendo a Dio: infatti, l'esistenzialismo è tutto incentrato sulla
possibilità ed essa, per essere tale, non può agganciarsi a Dio, perchè così facendo si approda al porto
sicuro della fede e si tappa l'enorme falla del nulla, tipica della ricerca esistenzialista.
Camus, ad esempio, insisterà vivamente sul concetto di assurdo e sull'accettazione da parte dell'uomo
dell'assurdità dell'esistenza; l'uomo di Camus saprà dunque vivere fino in fondo la condizione di ineliminabile
assurdità dell'esistenza, paragonata ad un’inutile fatica di Sisifo. Tuttavia, contro la critica mossa
dall'esistenzialismo ateo, si può spezzare una lancia in favore di Kierkegaard, facendo notare come per lui la
fede non rinneghi la matrice esistenzialista: infatti, egli non la concepisce in modo tranquillo e sereno, come
un porto in cui trovar riparo; al contrario, la vive in modo drammatico e problematico (l'immagine della fede è
per lui Abramo), come l'avevano vissuta Tertulliano, san Paolo, Lutero e Pascal, non in modo tranquillo e
sereno come Erasmo e Tommaso. Il pensiero kierkegaardiano e, con esso, l’esistenzialismo rinasce, dopo
più di mezzo secolo di oblìo, negli anni della prima guerra mondiale e non è un caso che abbia i suoi
momenti d’oro subito dopo le due guerre mondiali, quando gli eventi bellici, con tutta la loro drammaticità,
tendono a far nascere un vivissimo senso dell’insensatezza dell’esistenza (già peraltro sottolineato dal
Dadaismo in campo artistico).
Le due guerre mondiali, però, hanno lasciato un senso diverso nella coscienza della gente: la fine della
prima guerra mondiale suggerisce l’idea di un crollo dei sistemi tradizionali tanto nei Paesi vincitori quanto in
quelli vinti (atteggiamento che traspare benissimo da “Il tramonto dell’Occidente” di Splenger); con il secondo
conflitto mondiale, invece, si assiste a genocidi sconvolgenti, mai verificatisi in passato, ma ciononostante si
aprono maggiori spiragli di speranza poiché, se la prima guerra mondiale aveva chiuso tragicamente
un’epoca in fin dei conti felice (la “bella époque”), con la seconda è crollato un mondo, ma il mondo in
questione è quello dominato dai nazisti. All’indomani della fine del secondo conflitto mondiale, alberga la
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speranza e la voglia di rivivere nell’animo di tutti e la stessa Resistenza, che aveva valorosamente saputo
opporsi alle dittature, non aspirava solo a liberare il mondo dai fascismi, ma anche a creare una società
nuova e più vivibile.
E così si può dire che tra l’esistenzialismo fiorito all’indomani della prima guerra mondiale e quello
sviluppatosi dopo la seconda intercorre una differenza accostabile a quella prospettata da Nietzsche tra
nichilismo passivo e nichilismo attivo: come abbiam detto, l’esistenzialismo prevede la mancanza di
un’essenza rigorosamente determinata nell’uomo e questo rievoca, per molti versi, l’assenza di essere
prospettata da Nietzsche; dallo sgomento che nasce dal sentirsi mancare la terra sotto i piedi si origina un
nichilismo passivo, che fa sì che si provi nostalgia per il passato, in cui vi erano valori saldi a cui far
riferimento.
Al nichilismo passivo, però, subentra quello
attivo:
cessato
lo
sgomento
scaturito
dall’assenza di punti di riferimento, ci si accorge
che non resta che crearne di nuovi. Qualcosa di
analogo vale anche per l’esistenzialismo
novecentesco: è come se nel primo nichilismo,
che va dalla prima guerra mondiale alla
seconda, prevalesse il nichilismo passivo e
pessimista, che intende l’esistenza come
smarrimento dell’uomo, come “amhcania”
ineliminabile; l’uomo è, leopardianamente,
gettato nel mondo a condurre un’esistenza priva
di senso e la libertà di cui egli gode è vista più
come una condanna che non come un
privilegio: Sartre dice, a tal proposito, che
“l’uomo è condannato ad essere libero:
condannato perché non si è creato da se
stesso, e pur tuttavia libero, perché, una volta
gettato nel mondo, è responsabile di tutto ciò
che fa”, sottolineando come si sia liberi di tutto
fuorchè di scegliere se venire al mondo. Dopo
la
seconda
guerra
mondiale, invece,
l’esistenzialismo si colora di ottimismo e tende
sempre più a leggere la possibilità come facoltà
di progettare liberamente il proprio futuro.
Negli anni della seconda guerra mondiale, più precisamente nel 1943, Sartre pubblica invece “L’essere e il
nulla”, un trattato filosofico in cui compare un’immagine che chiarisce il nuovo atteggiamento sartreano nei
confronti dell’insensatezza dell’esistenza: egli afferma come in un mondo e in un’esistenza privi di senso sia
l’uomo a poter conferire un significato ad essi; proprio come parliamo, convenzionalmente, di “mezza luna”
ma potremmo tranquillamente definirla “luna” e chiamare invece “doppia luna” quella che abitualmente
chiamiamo “luna”, così possiamo dare un significato a tutte le cose del mondo, visto che esse, di per sé, non
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ce l’hanno. Se Sartre negli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, sull’onda dei drammi bellici, non
guardava con simpatia alla libertà di dare un senso al mondo, ora che la guerra sta del tutto volgendo al
termine dà una svolta ottimistica al suo pensiero.
A guerra ultimata, nel 1946, compone un opuscolo (al quale risponderà lo stesso Heidegger) intitolato
“L’esistenzialismo è un umanismo”, con cui guarda in modo attivo alla filosofia dell’esistenza: se il mondo è
caratterizzato dall’assenza di un significato e di un’essenza predeterminata, allora mi trovo a scegliere
liberamente cosa diventare e quando scelgo, nota Sartre, scelgo anche per coloro che verranno al mondo
dopo di me, dal momento che si sceglie sempre facendo riferimento a valori consolidati da secoli e da una
miriade di persone. Ne consegue che sono quel che decido di essere, ovvero attraverso l’esistenza
determino l’essenza mia, ma anche degli altri. Ecco perché se l’umanesimo ha messo, nel Cinquecento, al
centro del mondo l’uomo, inteso, secondo la felice espressione sallustiana, “faber fortunae suae”,
l’esistenzialismo ora rappresenta il culmine della tradizione umanistica, in quanto è l’uomo a dare un senso
alla propria esistenza e al mondo stesso.
A tal proposito può essere interessante l’itinerario filosofico di Sartre fra le due guerre mondiali: negli anni
successivi alla prima guerra mondiale egli scrive (nel 1938) il celebre romanzo “La nausea”, con cui esprime
quel senso di disagio quasi fisico nei confronti del mondo e della sua insensatezza: in uno dei passaggi forse
più famosi del libro, il protagonista, seduto in una panchina nel parco, osserva le radici contorte di un albero
che si spingono nella terra senza senso alcuno e ciò gli fa cogliere tutto d’un colpo l’insensatezza
dell’esistenza e gli provoca un forte senso di nausea; in un’altra parte del libro, ha un incubo ad occhi
aperti: immagina delle trasformazioni anatomiche stravolgenti (un terzo occhio o la lingua che si trasforma
in un insetto ripugnante).
Con ciò, Sartre vuole sottolineare come siamo tutti abituati a vedere l’uomo in una sola maniera, perché ha
una sua essenza che determina ciò che è; ma nel momento in cui perdiamo il senso delle cose, tutto
diventa possibile e in questo periodo Sartre legge la possibilità come altamente negativa, quasi come una
condanna che implica l’insensatezza del mondo: come a dire che il mondo, quando può diventare ciò che
vuole, diventa una mostruosità.
Naturalmente questa nuova prospettiva sartreana è altamente ottimista, in quanto il filosofo francese è
alimentato dalla speranza, tipica del dopoguerra, di ricostruire un nuovo mondo e non a caso questo è il
periodo in cui Sartre è impegnatissimo politicamente nel Partito Comunista: affiora nella sua filosofia il
concetto di “impegno” esistenziale e politico, che farà sì che Sartre tenti un’ibridazione tra il marxismo e
l’esistenzialismo, in virtù del fatto che l’esistenzialismo, in quanto filosofia dell’esistenza, può essere
innestato un po’ ovunque.
Nel 1947 Heidegger pubblica la “Lettera
sull’umanismo”, con la quale capovolge la
prospettiva
sartreana
emersa
in
“L’esistenzialismo è un umanismo” e
interpreta il compito del pensiero come
impegno non per l’uomo, ma per l’essere.
In questo modo, il pensatore tedesco
prende le distanze dall’esistenzialismo, a
cui rinfaccia di assegnare il primato a
quell’ente che è l’uomo, dimenticandosi
dell’essere. Ma l’uomo, dice Heidegger, è
solo il “pastore dell’essere”, colui al quale
è affidato il compito di salvaguardare e
custodire
nel
pensiero
la verità
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dell’essere.
L’esistenzialismo risente, come abbiamo visto, dell’influenza della filosofia fenomenologica: in particolare, in
Heidegger resta l’idea husserliana che la coscienza sia sempre costitutivamente intenzionale; la coscienza,
in altri termini, si riferisce sempre a qualcos’altro, qualsiasi atto umano è un riferirsi a qualcosa, cosicchè
pensiamo, facciamo, vogliamo sempre qualcosa.
L’atteggiamento di Husserl, però, è iperclassico, porta all’esasperazione la tendenza teoretica riservata da
Aristotele alla filosofia, quasi sganciandosi dal mondo (che non a caso veniva da Husserl messo tra
parentesi). L’esistenzialismo, però, si trova agli antipodi rispetto alla concezione aristotelica e husserliana
della filosofia come “sapere per il sapere”: infatti, la sua indagine verte sull’esistenza e quest’ultima implica
l’essere immersi in quel mondo sul quale Husserl sospendeva il giudizio.
Dunque Heidegger eredità la nozione husserliana di “intenzionalità”, ma respinge nettamente l’ipotesi che
essa resti interna solo all’orizzonte della coscienza: ne consegue che per Heidegger il carattere intenzionale
non implica tanto il tendere alle idee, quanto il tendere e il riferirsi al mondo; questo atteggiamento, proprio di
Heidegger, rispecchia in realtà buona parte delle posizioni esistenzialistiche, che per lo più vedono come
marginale l’aspetto teoretico, tanto caro ad Husserl, perché l’esistenza è, in primo luogo, essere nel mondo.
1.3.1. L’esistenzialismo: un’atmosfera storico-culturale
L’esistenzialismo anche se con una sensibilità in senso lato spirituale e religiosa è particolarmente presente,
nella riflessione di antropologi e sociologi, proprio per il fatto che criticano un atteggiamento di caduta di
tensione esistenziale. Augè in un libro dal titolo “Perché viviamo?” a carattere marcatamente esistenzialista,
lamenta nell’attuale temperie, un crollo di tensioni ideologiche tranne quelle legate strettamente al
consumismo ed alla spettacolarizzazione: all’effimero. Le filosofie innovative, per Abbagnano erano il
materialismo storico, ossia la riflessione sulla storia, il pragmatismo e l’esistenzialismo. L’esistenzialismo,
quindi, è una delle correnti più rilevanti del Novecento ed esso ha influenzato la cultura di tutto il secolo.
I caratteri dell’esistenzialismo
Dopo la seconda guerra mondiale, nell’ambito della situazione d’incertezza della società europea, dominata
dalle distruzioni materiali e spirituali della guerra, la cosiddetta letteratura esistenzialistica, e in primo luogo
l’opera letteraria di Sartre, costituisce l’anello di congiunzione tra la situazione di quel momento e le forme
concettuali dell’esistenzialismo. Infatti questa letteratura si è fermata soprattutto a descrivere le situazioni
umane che recano in sé fortemente impressa la traccia della problematicità radicale dell’uomo, sottolineando
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