841100991 Due modelli di industrializzazione Agli inizi dell’Ottocento l’economia britannica era la più avanzata in Europa: lo dimostrano l’alto grado di industrializzazione, il livello tecnologico, il grado di urbanizzazione, la produttività del lavoro. La Gran Bretagna potava costituire per molti versi un modello per gli altri stati europei e i meccanismi che avevano prodotto lo sviluppo industriale inglese potevano teoricamente riprodursi anche in altre realtà. Di fatto, dopo molti dibattiti politici e molte tensioni sociali, l’Inghilterra divenne il modello per molti paesi europei; tuttavia la rincorsa allo sviluppo economico inglese fu ardua; ancora per più di mezzo secolo gli immediati inseguitori faticarono anche solo ad avvicinarsi ai livelli inglesi. Come mai la rivoluzione industriale inglese si dimostrò così difficilmente esportabile nel resto dell’Europa? In realtà la creazione di un sistema industriale è un fenomeno di estrema complessità, che mette in gioco molteplici fattori, nessuno dei quali tuttavia è sufficiente da solo ad avviare il processo di industrializzazione. I fattori dell’industrializzazione La superiorità inglese dipendeva in parte dal suo maggiore avanzamento in fatto di tecnologie industriali. Queste in teoria potavano essere esportate e copiate all’estero; ciò però non avvenne immediatamente e dove avvenne non bastò ad assicurare il successo. Un secondo fattore della superiorità inglese era dato dal possesso di materie prime strategiche come il ferro e il carbone. Tuttavia anche altri paesi ne possedevano, ma solo il Belgio seppe mettere a frutto le sue miniere di carbone; invece l’attivazione delle ingenti risorse minerarie posseduta dalla Francia e dalla Germania fino alla metà del secolo fu relativamente lenta e divenne trainante solo dopo il 1860. Sempre a proposito di materie prime strategiche, bisogna ricordare che d’altra parte l’Inghilterra non produceva cotone grezzo e solo il suo ruolo nel commercio mondiale le consentiva di procurarsi negli Stati Uniti questa fibra tessile per le sue manifatture. I fattori immediati come la tecnologia e la disponibilità di materie prime non bastano dunque a spiegare il processo dell’industrializzazione. Ci sono anche dei fattori più remoti: uno di essi è la presenza di un mercato nazionale, cioè di una larga base di possibili acquirenti di prodotti agricoli e di prodotti industriali. Ai primi dell’Ottocento l’Inghilterra era l’unico paese europeo che avesse già sviluppato un solido mercato interno: questa caratteristica può essere quindi considerata un fattore determinante nel successo del processo di industrializzazione in Inghilterra I caratteri capitalistici dell’agricoltura inglese Ma come si era formato il mercato nazionale inglese? Si era formato nel secolo precedente attraverso la penetrazione del capitalismo nell’agricoltura. Parlare di agricoltura capitalistica significa riferirsi ai seguenti quattro fattori: 1. la presenza di una classe di proprietari che traeva i suoi redditi più dai massicci investimenti (allevamento, canali, colture specializzate) che dalla sottrazione ai contadini di una quota di reddito, destinato però a rimanere basso data l’arretratezza delle attività agricole; 2. l’instaurazione di un sistema di grandi aziende mercantili gestite da affittuari con mentalità e mezzi capitalistici; 3. una produzione fatta per lo più per la vendita sui mercati urbani e non destinata alla sussistenza dei contadini; 4. l’eliminazione della proprietà familiare e dei coltivatori diretti, trasformati in salariati oppure espulsi dalle campagne verso le città manifatturiere e trasformati in operai di fabbrica: da produttori diretti, essi erano diventati acquirenti di derrate agricole e di prodotti industriali. 1 841100991 La trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura inglese aveva dunque consentito la formazione di un mercato nazionale ed era stata quindi determinante per la nascita del sistema industriale inglese. Ma le interazioni tra agricoltura e industria non si fermavano qui: l’agricoltura capitalistica inglese era stata infatti coinvolta in misura crescente dal 1820 al 1830 nello stesso processo di rivoluzione industriale e le macchine, prima attrezzi mossi dal lavoro umano e poi veri congegni meccanici mossi dal vapore, come le mietitrici e le trebbiatrici, avevano accresciuto enormemente la produttività del lavoro nel settore agricolo. L’arretratezza delle agricolture europee La situazione dell’agricoltura continentale era nel suo insieme assai arretrata rispetto a quella inglese. In Europa i sistemi agrari prevalenti erano riconducibili a tre modelli: 1. l’immenso latifondo spezzettato in piccole unità coltivate da famiglie contadine con prevalenza di colture come i cereali, poco redditizie sul mercato, ma destinate al consumo contadino; questo modello corrispondeva spesso a una situazione sociale molto arretrata: in Russia e in gran parte dell’Impero asburgico esisteva ancora la servitù; in Italia meridionale e in Spagna la soggezione personale dei contadini solo formalmente era diversa dalla servitù; 2. la piccola proprietà contadina, con un grado maggiore di inserimento nel mercato, ma ancora fondata sul consumo diretto del prodotto; questo modello era assai diffuso in Francia e in Germania; 3. la mezzadria, forma di conduzione della media proprietà, che prevedeva una certa partecipazione del proprietario agli investimenti e che consentiva l’esistenza di coltivazioni finalizzate alla commercializzazione (vite, ulivo) accanto a quelle di sussistenza; i mezzadri, che erano il tipo di coltivatore più comune nell’Italia centrale e anche in quella settentrionale, avevano redditi monetari molto bassi e scarsi incentivi ad accrescere la produttività di poderi troppo piccoli e tendenzialmente autosufficienti. Se questi erano gli orientamenti di fondo dell’agricoltura europea, esistevano però anche delle zone meno arretrate. Concrete possibilità di uno sviluppo diverso esistevano in Olanda e in Danimarca, paesi dipendenti in fatto di consumi cerealicoli, ma capaci di esportare beni agricoli di trasformazione derivanti dall’allevamento e da un’agricoltura tecnicamente molto avanzata. Condizioni analoghe si trovavano nelle grandi proprietà terriere prussiane, dove la servitù era stata abolita nel 1807, e nell’Italia padana. Il latifondo prussiano esportatore di grani o la proprietà borghese piemontese e lombarda esportatrice di riso e produttrice di materia prima per l’industria della seta avevano la possibilità di trasformarsi in aziende capitalistiche moderne. Questo poteva consentire la formazione di mercati nazionali e a sua volta l’avvio dell’industrializzazione. Le diverse forme dell’intervento dello stato I dati a nostra disposizione mettono in evidenza quanto grande fosse il ritardo fra l’industria inglese e l’industria del resto dell’Europa. Il distacco non era però uguale in tutti i settori; esso rimase a lungo molto cospicuo nei tre settori portanti del tessile, del carbone e della siderurgia, ma si ridusse nel corso degli anni quaranta nel settore ferroviario. Nel 1850, senza contare gli Stati Uniti d’America, che avevano già una rete di oltre 14 500 chilometri, ai 10 000 chilometri della Gran Bretagna corrispondevano il 5800 della Germania e il 3000 della Francia. Questo fatto è particolarmente significativo: lo sviluppo delle ferrovie infatti era promosso o fortemente stimolato dalle autorità statali che in questo modo collegavano più rapidamente le varie regioni del paese alla capitale. Altri settori produttivi che le autorità governative erano interessate a sviluppare erano poi quelli strategici degli armamenti e dei cantieri navali. Tutto ciò da solo non bastava a favorire lo sviluppo di tutti i settori dell’economia, però indicava una nuova via di sviluppo e l’importanza di un nuovo fattore: l’intervento dello stato nell’economia. Questo intervento peraltro non si limitava al finanziamento di costruzioni ferroviarie; ancora più importante fu la regolamentazione del mercato effettuata attraverso l’istituzione di dazi. Manifatture tessili tradizionali o ai primi passi dell’industrializzazione esistevano in varie regioni europee, dai setifici di Lione e della Val padana alle botteghe del lino e del cotone in Slesia e in Sassonia. Dopo la sconfitta di Napoleone, i governi 2 841100991 e i produttori si accorsero che la fine del blocco continentale significava una pericolosa esposizione delle manifatture nazionali alla concorrenza inglese, che poteva esportare tessuti di cotone a buon mercato diretti al consumatore medio. La miglior difesa era il ricorso a un barriera doganale che, innalzando i prezzi dei prodotti importati (ma non delle materie prime), proteggesse il prodotto interno, creando nel contempo una fonte di entrata per lo stato. L’unione doganale tedesca Gli sviluppi della politica protezionistica furono molto significativi in Germania. Alla fine del Settecento il mondo tedesco era diviso in oltre trecento stati, ciascuno con propri dazi e dogane. La semplificazione della geografia politica tedesca, voluta prima da Napoleone e confermata poi dal congresso di Vienna, aveva in concreto mostrato che lo sviluppo economico non dipendeva solo dalle macchine e dal possesso di materie prime, ma anche dalla presenza di mercati ampi e unificati. Anche dopo il 1815 tuttavia la Germania restava troppo frammentata e lo sforzo ulteriore dovette consistere in un aggiramento dell’assetto imposto dagli equilibri politici internazionali, attraverso l’unificazione doganale di quasi tutti gli stati tedeschi, che si realizzò tra il 1826 e il 1834. Nel 1834 esisteva ormai un mercato tedesco di oltre 26 milioni di abitanti (Zollverein) e nello stesso anno cominciava la costruzione della rete ferroviaria, insieme causa ed effetto della costituzione del mercato interno. Tra il 1840 e il 1850 le ferrovie consentirono una riduzione di venti volte del costo di trasporto del carbone; l’incentivo economico alle costruzioni ferroviarie veniva così a sommarsi a quello politico e la grande linea che univa la regione industriale renana alla Prussia poté aggiungersi ai tronchi prussiani che facevano capo a Berlino. Protezionismo e libero scambio A questo punto però cambiarono anche le funzioni e il senso delle politiche protezionistiche: non si trattava più di difendere le manifatture tessili dalla concorrenza inglese, ma di consentire alle industrie minerarie e metallurgiche una radicale difesa e uno sviluppo protetto, dovuti al distacco tecnologico e finanziario rispetto alle industrie inglesi. In questo ruolo il protezionismo non era del tutto incompatibile con l’opposta politica del libero scambio, che poteva condurre a una divisioe razionale del lavoro internazionale e a un aumento vantaggioso per tutti del commercio tra stati. Le industrie nascenti andavano protette, ma dopo una fase di collaudo solo il libero scambio poteva dimostrare se per un paese era più conveniente specializzarsi nell’una o nell’altra produzione. Almeno così la pensavano gli economisti inglesi favorevoli al liberismo economico tra stati. La crescente capacità produttiva inglese imponeva al paese di esportare i suoi manufatti, ma in cambio esso poteva importare materie prime e prodotti agricoli di origine continentale. Naturalmente per ottenere questi vantaggi l’Inghilterra doveva rinunciare al protezionismo e in particolare alle tariffe doganali che colpivano le importazioni granarie. I borghesi sostenitori del libero scambio crearono, dal 1836, un’associazione contro la legge sui grani e svolsero un’intensa propaganda nel paese, dimostrando che i proprietari terrieri protezionisti difendevano i loro particolari interessi a scapito di quelli generali del paese: importare i meno costosi grani europei avrebbe consentito di abbassare il prezzo del pane e allo stesso tempo avrebbe accresciuto il mercato potenziale dell’industria inglese, attraverso le esportazioni e aumentando i redditi operai spendibili in manufatti. Il movimento dei liberoscambisti creò negli anni quaranta un fronte liberale-operaio contro i proprietari terrieri conservatori, che avevano la maggioranza in parlamento, e alla fine il governo fu costretto ad abolire il dazio sul grano. 3