Storia Economica - betaomegachi.com

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4.La Prima Rivoluzione Industriale (1720-1870)
La Gran Bretagna verso l’economia industriale Alla fine del ’700, la Gran Bretagna, con largo
anticipo su altri paesi, stava diventando la prima nazione industriale del mondo, grazie ad una
grande produzione delle industrie siderurgiche e dell’industria tessile e a una diminuzione della
percentuale della popolazione attiva che lavorava nel settore primario (53% contro l’80% delle
campagne continentali). Siamo immersi in una complessa costruzione culturale e sociale che avviò
trasformazioni graduali, cumulative, e con il tempo dimostratesi irreversibili negli assetti
preesistenti. Perché tutto questo cominciò proprio in Inghilterra dopo la metà del ‘700? Perché
laggiù un insieme di fattori materiali e culturali, da tempo entrati sommessamente in azione,
aveva precostituito condizioni favorevoli al dispiegarsi di un nuovo modo di produrre la ricchezza
per mezzo di macchine sempre più potenti e perfezionate, avendo ridotto alla condizione di merci
l’ambiente, gli uomini e la moneta.
L’ambiente: le infrastrutture di collegamento Il canale della Manica funzionò come ostacolo per
gli aggressori e come elemento di connessioni con le regioni continentali. Il profilo frastagliato
delle coste e i larghi estuari dei fiumi che conducono a centri interni di stoccaggio e consumo
moltiplicarono gli approdi e promossero i trasferimenti di beni da una regione all’altra via mare. I
terreni prevalentemente pianeggianti favorirono il miglioramento o la costruzione di strade da
parte di società che riscuotevano pedaggi, anche se i viaggi via strada costavano il quadruplo
rispetto a quelli via mare. La forma allungata, piatta e stretta del paese ebbe un ruolo
fondamentale nel favorire una precoce integrazione delle diverse economie regionali in un mercato
nazionale. Dal 1750 cominciò a profilarsi un mercato nazionale delle materie prime industriali, di
alcuni generi d’importazione e coloniali. I dati danno conto di due fenomeni:
1.Del gigantismo di Londra fin dal primo ‘700;
2.Della grande crescita, nel secondo ‘700, dei porti affacciati sul braccio di mare che separa il
Galles dall’Irlanda. La struttura urbana inglese prese forma grazie ai traffici internazionali e alle
attività di servizio e di lavorazione delle materie prime importate.
L’ambiente: il mondo rurale Alla fine del ‘600, l’agricoltura inglese e gallese:
1.Aveva grandi riserve di terra;
2.In molte parti del paese produceva per il mercato;
3.La produttività del frumento oscillava tra i 9 e i 10 quintali per ettaro;
4.I raccolti erano stabili nel medio periodo, in virtù di favorevoli condizioni meteo-climatiche.
La popolazione: la dinamica generale Dopo una lenta crescita tra ‘600 e inizio ‘700, la
popolazione quasi triplicò entro metà ‘800 e la durata della vita si allungò. I dati mostrano
differenziazioni demografiche in relazione con i caratteri economici prevalenti: nelle aree a
prevalenti attività manifatturiere e commerciali, la popolazione crebbe maggiormente. Alla fine del
secolo, la maggior parte della popolazione, viveva ancora nelle contee poste ai margini del
processo di crescita industriale. Poiché nel 1831 la quota residente nelle contee era ancora il
55%, ciò significava che le campagne svolsero un ruolo decisivo sia perché fornirono un crescente
numero di braccia alle aree in cui stavano prendendo slancio le attività industriali, commerciali e
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di servizio, sia perché proprio nel settore agricolo si profilarono quegli aggiustamenti tecnici,
economici e delle mentalità che promossero e sostennero l’industrializzazione. Nella storia
demografica inglese il caso di Londra rappresenta un caso a parte, poiché già dalla fine del ‘600
era la città europea più popolata, e col passare degli anni, la popolazione londinese fu in
costante aumento. Questa crescita non avrebbe potuto proseguire senza i mutamenti intervenuti
nel mondo rurale circostante. Il potere d’acquisto relativamente elevato di quei operatori i cui
salari erano i più alti del paese, e a quello dei quasi centomila bottegai attivi nella città ai primi
anni del ‘700, fu un decisivo fattore di crescita della domanda aggregata di beni e servizi, che
da Londra si radiava in tutta l’Inghilterra.
Le istituzioni: la sovranità del Parlamento La Gran Bretagna di fine ‘700 aveva quasi completato
un processo istituzionale colto a rafforzare l’unità nazionale e a limitare il potere della corona,
della chiesa e della grande aristocrazia feudale. Nel 1629, con la Petizione dei Diritti , la Camera
dei Comuni aveva limitato il potere sovrano. Nacque un acceso conflitto tra corona e parlamento.
Le elezioni di nuovi deputati, mercanti, uomini di legge e proprietari fondiari, rafforzarono gli
avversari dell’assolutismo regio. Essi, infatti, votarono una norma sulla tolleranza religiosa e
invalidarono ogni tassazione non approvata dal Parlamento. I contrasti tra monarchici e avversari
portarono a una guerra civile tra esercito regio ed esercito del Parlamento. Olivier Cromwell, nel
1647, incarcerò il Re, lo sottopose a giudizio e lo fece condannare a morte. Abolita la Camera
dei Lord e cancellati i privilegi della grande aristocrazia, Cromwell instaurò una repubblica, il
Commonwealth, governata da un consiglio di stato composto dai suoi fedeli. Nel 1651 Cromwell
fece votare l’Atto di Navigazione, con il quale si chiudevano al naviglio estero tutti i porti
britannici, creando una vasta area riservata ai mercati nazionali. Con la morte di Cromwell (1658)
terminò la sua repubblica, e dal 1660 Carlo II Stuart riprese il trono, ma il sospetto di simpatie
papiste, assieme alla sua arrendevolezza verso il re francese, indusse i ceti borghesi e quelli
affaristici liberali ad avviare un’energica politica internazionale e a contrastare il riemergente
assolutismo regio. Un primo successo fu la promulgazione dell’Habeas Corpus Act (1679), con il
quale fu sancita la libertà personale dei sudditi e interdetta la carcerazione arbitraria. Alla sua
morte, i Whig non riuscirono a impedire l’ascesa al trono del fratello Giacomo II. I parlamentari
inglesi i appellarono al genero del nuovo re, Guglielmo II d’Orange, nobile protestante olandese,
che nel 1689 fu proclamato re, non prima, però, di avergli fatto giurare la Bill of Rights a
conferma delle prerogative parlamentari:
1.Libertà di parola
2.Approvazione dei tributi e controllo della finanza statale;
3.Proibizione al monarca di tenere un esercito stabile al suo servizio.
L’Inghilterra divenne, così, una Monarchia Costituzionale. Nel 1694 fu fondata la banca
d’Inghilterra e organizzato un mercato per i titoli pubblici e privati. Il potere esecutivo fu
temperato dall’esistenza di leggi che riconoscevano ai sudditi inglesi un insieme di libertà
individuali sconosciute nel resto d’Europa. Lontano da Londra, gli squires, i rampolli della nobiltà
rurale, esercitavano le funzioni amministrative e giurisdizionali in condizioni di completa
indipendenza e senza alcuna limitazione governativa. Così l’Inghilterra divenne una monarchia a
guida doppiamente aristocratica, al centro come nelle periferie.
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Le istituzioni: verso l’individualismo concorrenziale. Tre questioni istituzionali ebbero decisive
conseguenze economiche. La prima riguardò le chiusure delle campagne, la seconda la
regolamentazione del lavoro artigianale, e la terza l’eliminazione di monopoli e privilegi di
concessione regia.
1. Alla fine del ‘400 alcuni proprietari ricchi presero a recintare i loro terreni; le chiusure dei
campi minacciavano il livello di vita di quei contadini poveri che sopportavano le conseguenze del
graduale avvento di un sistema imperniato sull’individualismo agrario, che metteva a repentagli
l’equilibrio sociale. Il 1597 coincise con l’ultimo decreto contrario a sacrificare la cerealicoltura a
vantaggio del pascolo. Nel 1608 fu promulgata la prima norma chiaramente favorevole alla
chiusura dei campi. Nel 1621 il parlamento votò l’Enclosure Bill , legge quadro che disciplinava
organicamente la materia. Nel 1624 fu abrogata ogni norma avversa alle chiusure dei campi
aperti. Ma, solo nel 1801 fu emanato un General Act of Enclosure, che uniformò la disciplina.
2. Nel 1751, un’inchiesta parlamentare scoprì che “le fabbriche più utili e prospere sono
principalmente gestite in quelle città e in quei luoghi che non sono soggetti a leggi locali sulle
corporazioni” ed affermava, inoltre, che le leggi relative al commercio ed all’industria dovevano
essere annullato poiché, nelle presenti congiunture, erano dannose per il commercio. In realtà il
sistema corporativo inglese era in via di smantellamento sin dal 1688 e, negli anni successivi, il
Parlamento rifiutò più volte il ripristino delle antiche norme corporative. Nel 1694, fu abrogata la
norma dello Statute of Artificiers, che vietava ai figli dei contadini l’esercizio di attività artigianali,
legalizzandone l’impiego nelle manifatture tessili. Infine, l’eliminazione dell’apprendistato, a fine
‘700, offrì agli imprenditori l’opportunità di impiegare donne e bambini. Una situazione tanto
gravida di conflitti economici e sociali vene controllata grazie all’esistenza di leggi sui Poveri, Poor
Laws (1579-1601), secondo le quali ogni parrocchia doveva distribuire sussidi ai bisognosi
utilizzando fondi prelevati dai gettiti dell’imposta fondiaria. Il preambolo dell’Act of Settlement
(1662), legava gli indigenti alla parrocchia d’origine: pertanto la legge riconosceva a due giudici di
pace il potere di rispedire alla parrocchia d’origine gli indigenti; ma, in realtà, i nascenti centri
industriali divennero sempre più permissivi e a Londra la legge non fu mai applicata.
3.Il terzo aspetto riguarda dapprima la limitazione e poi la soppressione del diritto sovrano
d’accordare monopoli e privative commerciali dietro pagamento d’onoranze e canoni al Tesoro
della corona. Lo Statuto dei Monopoli del 1624, cancello ogni privilegio economico ed introdusse
nel diritto inglese il sistema dei brevetti che garantiva solo lo sfruttamento economico di
autentiche innovazioni, per un limitato periodo di tempo.
Le gerarchie sociali
Fra fine ‘700 e inizio ‘800, la Gran Bretagna conservava i caratteri di una società rurale, anche se
nelle isole britanniche fin dal ‘600 era andata profilandosi una struttura sociale imperniata sul
primato di grandi proprietari fondiari (Lords e Gentry ). Essi concedevano le loro campagne a
fittavoli in cambio di un canone, ed essi si avvalevano di braccianti ingaggiati stabilmente e altri
operai precari. Alla fine del ‘600 l’assetto della società rurale inglese era: concentrazione del 70%
della terra nelle mani di 16.200 casate aristocratiche, fatto che testimonia un’accentuata
sperequazione nella distribuzione della risorsa di base (terra). Inoltre, a questo dato, dobbiamo
aggiungere circa 40.000 famiglie che controllavano poderi di almeno 40 ettari. Il piccolo
proprietario inglese di fine ‘600 era in un’ottima situazione economica e finanziaria. La riforma
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protestante ebbe 2 effetti sociali e culturali di rilievo: cancellazione del calendario liturgico di un
gran numero di festività religiose, fatto che aumentò i giorni lavorativi, la fatica, ma anche il
reddito dei salariati; e la diffusione dell’istruzione di base, fatto che incrementò l’indipendenza di
opinione ed anche la pubblicazione di opere in inglese. Nel 1695 fu abolita la censura preventiva,
fatto che aiuto l’Inghilterra a essere il primo paese a conoscere l’avvento della pubblica opinione
e a servirsi della stampa quotidiana e periodica come strumento di pressione politica.
L’economia agricola La maggior parte della ricchezza prodotta in GB e la percentuale più alta di persone economicamente attive
lavorava nelle campagne. La produttività dell’agricoltura raddoppiò per effetto della diffusione dell’individualismo agrario e di novità agronomiche di rilievo come:
1.Conversione dei maggesi in campi coltivati;
2.Semina di piante da foraggio;
3.Applicazione del principio della selezione nell’allevamento bovino;
4.Introduzione delle prime macchine per seminare, sarchiare, segare foraggi e mietere e trebbiare i cereali.
Fino agli anni ’60 del ’700, l’Inghilterra fu il maggiore esportatore di grano e di farina dell’Europa occidentale.
L’agricoltura inglese del ‘700 era caratterizzata dalla presenza dominante di fittavoli imprenditori agricoli
(farmers). La stipulazione di contratti d’affitto di lunga durata permettevano loro di fare investimenti migliorativi sulle terre e di poterne raccogliere i frutti. Pertanto, a differenza di quanto accadeva nelle
campagne continentali, nelle campagne inglesi:
1.Gli agricoltori erano una maggioranza e, i contadini, una minoranza;
2.La maggior parte dei prodotti era orientata allo scambio interno ed estero;
3.Al mercato dei prodotti si affiancò quello dei fattori produttivi;
4.Il pagamento dei salari in moneta divenne la regola;
5.La grande dimensione delle aziende agricole e le perfezionate rotazioni agrarie permisero di integrare
agricoltura e allevamento. A dispetto delle pessimistiche previsioni di Malthus, durante i decenni del primo
sviluppo industriale, l’agricoltura inglese riuscì a sfamare una popolazione in rapida crescita, mettendo il paese al riparo dal pericolo di dover ricorrere ad onerose importazioni di cereali. Inoltre si formò un circuito
virtuoso, domanda crescente-prezzi in flessione, che concorse a sostenere un mercato di massa di beni
industriali.
Manifattura tessile
Fin dal ‘400 l’Inghilterra aveva strappato alle Fiandre il primato di
maggiore esportatore europeo di tessuti di lana. Sotto l’aspetto organizzativo nel lanificio, linificio
e setificio, ricorrevano 3 strutture ineguale peso economico e sociale:
1.Lavoro domiciliare (putting-out system): largamente prevalente, era imperniato su u mercanti
imprenditori, che fornivano la materia prima da lavorare al domicilio; trascorso il periodo
concordato, i mercanti tornavano a ritirare il prodotto e pagavano in denaro il compenso pattuito;
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si trattava di organizzare la produzione a partire dalla fase di rifinitura dei tessuti e
commercializzazione; i lavoratori mantenevano una certa indipendenza e padroneggiavano
attrezzature e tempo ma, ricevevano compensi assai bassi.
2.Industria Domestica: il protagonista era un artigiano che utilizzava strumenti tecnici propri,
aiutato dai familiari e da qualche garzone; i tessuti prodotti erano direttamente smerciati dai
fabbricanti nei centri urbani vicini; la struttura produttiva laniera era strettamente legata
all’agricoltura facendone parte integrante.
3.Manifattura accentrata: un imprenditore riuniva in un opificio un certo numero di telai accuditi
da tessitori a tempo pieno pagati a cottimo; egli controllava ogni fase produttiva; vendeva spesso
i propri tessuti a grossisti che li piazzavano sul mercato interno ed estero. Gli inizi del cotonificio
L’avvio della lavorazione del cotone in Inghilterra risale al 1550. L’imitazione delle tele indiane in
Inghilterra fu stimolata dal divieto di importare stoffe votata nel 1701 e nuovamente nel 1722. La
proibizione fu sollecitata dai produttori di lana che si sentivano minacciati dalla fortuna crescente
delle tele asiatiche di basso prezzo. Da dopo il 1730, importazioni e consumi conobbero una
dinamica sostenuta, e in particolare i tessuti misti di cotone ebbero un successo crescente. Solo
le trasformazioni tecniche di fine ‘700 fecero del cotonificio inglese uno dei settori trainanti
dell’economia del paese.
Le attività minerarie e metallurgiche
A metà ‘700, in Inghilterra e Galles, si estraevano 5
milioni di tonnellate di carbone l’anno. Le operazioni di estrazione erano appaltate a capimastri
che ingaggiavano squadre di minatori pagati a cottimo. A inizio ‘700 a causa della scarsità di
legname adatto per fare carbone vegetale e l’abbondanza di giacimenti di carbon fossile,
moltiplicarono i tentativi di sostituire nelle operazioni di fusione dei minerali metalliferi il vegetale
con il fossile, assai meno costoso. Nel 1709, A. Darby riuscì ad ottenere il coke, un combustibile
d’elevato potere calorifico che sostituì il carbone di legna nel forno per fondere il ferro. L’utilizzo
del coke si affermò lentamente in tutta la fusione metallurgica: nel 1788 l’80% delle ferriere
inglesi adoperava il coke. Lo sfruttamento allargato di giacimenti minerari pose problemi di
areazione, d’illuminazione e dell’uso di cariche esplosive nelle gallerie, ma soprattutto evidenziò la
questione del drenaggio delle acque sotterranee. Soluzioni a quest’ultimo problema furono
introdotte col passare del tempo:
1.1698, T. Savery, Pompa a vapore, detta “Amico del minatore”;
2. 1717, J. Newcomen, la rese più grande, più potente e più affidabile;
3. 1769, J. Watt, brevettò la sua prima Macchina a vapore;
4. 1775, Boulton & Watt, perfezionarono la precedente di Watt, con un nuovo motore, ottennero
un brevetto di 25 anni;la grande innovazione fu che il moto rettilineo che caratterizzava le
precedenti, venne modificato in moto rotatorio, fatto che rese la macchina a vapore, il primo
potente motore universale.
L’accelerazione del mutamento Fra la fine del ‘600 e i primi anni ’70 del ‘700, periodo
d’incubazione della R.I., le infrastrutture e i settori economici del paese furono in costante
crescita. Tutte le grandezze economiche registrate progredirono contemporaneamente, secondo un
principio di crescente interdipendenza in un sistema economico. Nella prima metà del ‘700 la
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percentuale di forza lavoro in agricoltura calò, mentre quella maschile addetta ad attività
industriali crebbe; ma il dato più scioccante fu dato dal fatto che la quota di ricchezza prodotta
non consumata crebbe di tre volte e mezzo liberando risorse per investimenti in infrastrutture,
capitale fisso e capitale circolante. L’Inghilterra sperimentò una crescita tendenziale della ricchezza
prodotta in agricoltura, nell’allevamento e nelle manifatture già prima dell’avvio della R.I.: gli
studiosi riconoscono al settore agricolo il ruolo di motore del mutamento economico. I guadagni
d’efficienza in agricoltura favorirono anche una diminuzione dei costi e dei prezzi che migliorò il
potere d’acquisto dei consumatori. La crescente richiesta di combustibili e di materie prime
stimolò la sostituzione di risorse organiche e di fonti energetiche animali con minerali e fonti
d’energia inanimate: ne derivarono inevitabili aggiustamenti tecnologici. Tra fine ‘600 e metà ‘700,
una lievitazione del reddito reale fu all’origine di un proporzionale incremento della domanda
aggregata e di una crescente diversificazione dei generi richiesti. Il reddito medio pro capite era
nettamente superiore a quello di ogni altro operaio in Europa e era interamente corrisposto in
denaro.
La tecnologia nel mondo rurale La possibilità di depositare brevetti e di avere proventi derivanti
dal loro esclusivo sfruttamento, promosse in Inghilterra grappoli d’innovazioni e d’invenzioni. Nel
mondo rurale le prime macchine furono la seminatrice e la zappatrice trainate da cavalli inventate
a inizio ‘700 da J. Tull. Negli stessi anni la diffusione dell’aratro Rotherham migliorò le tecniche
d’aratura. Tra il 1770 ed il 1840 si ebbe un profondo mutamento tecnologico. L’uso delle
macchine per operazioni ad altro fabbisogno di manodopera avventizia mutò il calendario dei
carichi di lavoro, modificò il mercato della manodopera rurale e liberò la parte sottoccupata.
L’impiego del motore a vapore L’impiego della macchina a vapore in siderurgia, permise agli
impianti di funzionare senza interruzione, ma anche di disporre in modo “concentrato” di
sufficiente energia da poter riunire in un solo impianto le tre fasi di forno, fucina e officina. Nel
mondo delle miniere prese forma l’idea della locomotiva. Il primo esemplare si deve a R.
Trevithick (1801), che utilizzo una macchina a vapore ad alta pressione; nel 1804 il primo
esemplare era pronto per l’impiego. Il punto debole di questo nuovo sistema era rappresentato
dai freni, dagli assali, dalle mole e dall’armamento dei binari. Nel 1825 G. Stephenson costruì una
locomotiva a vapore che trascinava vagoni pieni di carbone tra 2 giacimenti. Nel 1829 riuscì a
perfezionare la sua Rocket e un anno dopo fu inaugurata la prima linea ferroviaria.
Innovazioni tecnologiche nel tessile Nel settore cotoniero, le macchine che resero più rapida ed
efficiente la filatura furono inventate tra il 1760 e il 1780:
1.1733, J. Kay invento la “Navetta Volante” per il telaio, raddoppiando la produttività dei tessitori
e moltiplicando la domanda di filo;
2. 1769, R. Arkwright, “Water Frame”, filatoio idraulico imponente e costoso che utilizzò la forza
idraulica dei mulini;
3. 1770, J. Hargreaves, “Spinning Jenny”, piccolo filatoio; ebbe grande successo poiché costava
poco, era facile da usare e permetteva ad una sola persona di realizzare una grande quantità di
filo per ogni giornata di lavoro;
4. 1774-1779, S. Crompton, “Mule”,ottenuto combinando i principi della water frame e della
spinning jenny, permetteva di ottenere diversi tipi di filo
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5. 1790, W. Kelly, riuscì a costruire mule automatiche mosse da una ruota ad acqua dotate di
circo 300 fusi l’una e si rivelò di grande affidabilità e di diffuse a macchia d’olio sempre più
spesso mossa da macchine a vapore. I progressi nella tessitura furono più lenti. Tra il 1841 e il
1845, i telai meccanici raggiunsero una tale perfezione tecnica da divenire il sistema di gran lunga
più economico poiché un solo sorvegliante accudiva più macchine, con sensibili risparmi dei costi
di produzione e minor impiego di manodopera qualificata. Le operazioni di rifinitura dei tessuti
furono le più lente a meccanizzarsi.
Il primo paese industriale Nel 1851 ci fu la prima esposizione industriale della storia a Londra,
durante la quale i visitatori si accorsero che le tecnologie inglesi non avevano eguali: a metà ‘800
la Gran Bretagna era la massima potenza economica del pianeta. I destini economici della
popolazione. Nei primi 50 anni dell’800 gli abitanti erano quasi raddoppiati. Non si tratto
solamente di una vistosa crescita, ma anche la struttura demografica mutò profondamente:
1. Negli anni ’40 la popolazione urbana sopravanzò quella rurale;
2. Crebbero le città industriali;
3. La popolazione si spostò verso settori a maggior produttività rispetto a quelli di provenienza.
La crescente integrazione del sistema economico inglese è attestata dall’espansione degli addetti al
secondario a spese del primario e dal progresso delle attività d’intermediazione, distribuzione,
credito, assicurazione e servizio alle persone. Fin dal 1831, l’Inghilterra era un paese a economia
industriale, poiché l’agricoltura cedette il primato all’industria nella formazione della ricchezza
nazionale. La crescita del ‘700 divenne sviluppo, sicché la ricchezza prodotta nel paese in 50 anni
crebbe di tre volte e mezzo. Nel ventennio 1811-1831 vi fu il massimo sviluppo economico
inglese, ben prima che facessero la loro comparsa le ferrovie; il tenore di vita medio migliorò
sensibilmente, con un’impennata del reddito pro capite negli anni proprio negli anni 20.
L’assenza di barriere all’entrata Nel primo ‘800 lo sviluppo industriale fu favorito anche dalla
modesta quantità di capitale necessario per gli investimenti. I dati confermano che per 60 anni
circa, in Inghilterra fu possibile divenire industriali senza dover disporre di ingenti risorse. Una
volta avviate, le imprese si ingrandirono grazie all’investimento di una parte dei profitti.
Ruolo e peso del capitale fisso Il capitale fisso rappresentava, nei cotonifici, poco più della metà
di tutte le risorse investite, e negli altri settori rappresentava anche una quota inferiore. Un freno
agli investimenti in capitale fisso provenne dalla larga ed elastica offerta di manodopera a basso
salario, connessa al declino del putting-out system, e all’alto ritmo di crescita della popolazione. I
mulini, in ritirata, resistevano solo dove non era indispensabile disporre di un moto continuo e
regolare delle apparecchiature. I progressi della siderurgia e la crescente domanda di manufatti
metallici favorirono la nascita del settore metalmeccanico attorno agli anni 20.
Investimenti in infrastrutture Nella prima metà dell’800 il capitale venne investito principalmente
nella costruzione e manutenzione dei canali: essi svolsero un ruolo decisivo nella formazione del
mercato nazionale. Essi favorirono anche la specializzazione dei trasporti in 3 settori:
1.Cabotaggio lungo le coste;
2.Acque interne;
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3.Strade; pretesero l’impiego di risorse enormi.
Imprese credito e moneta Fino a metà ‘800 quasi tutte le imprese britanniche furono individuali
o familiari. Il Bubble Act del 1720, promulgato per tutelare i risparmiatori dopo lo scandalo della
South Sea Bubble, una bolla speculativa scoppiata a Londra in quell’anno, prevedeva solo società
in nome collettivo (partnerships), così ogni socio rispondeva con i propri beni dei debiti degli altri
soci. Le società anonime non erano sconosciute, ma per la loro costituzione era necessario
ottenere un atto speciale del parlamento assai costoso. Il Bubble Act fu abolito nel 1825, anche
se la responsabilità limitata (Limited Company ) fu introdotta solamente nel 1825 con i Joint-Stock
Company Acts. Nel 1885 le Limited Company erano in netta minoranza fra le imprese
manifatturiere e si concentravano nella cantieristica, siderurgia e nel cotonificio. Più numerose
erano le società azionarie costituite con semplice scrittura privata (Limited Private Company ),
legalmente riconosciute solo dal 1907: fu la formula preferita per controllare le imprese familiari.
L’identità fra impresa e famiglia fu uno dei caratteri fondanti de, imprenditoria inglese e limitò le
fonti d’approvvigionamento di capitali:
1.Alle relazioni familiari e societarie fra persone;
2.Al credito commerciale, in forma d’allungamento dei termini di pagamento delle materie prime e
dei semilavorati;
3.A facilitazioni prestate da grossisti agli industriali, loro fornitori;
4.All’autofinanziamento derivante dalla mancata o parziale distribuzione di utili. La principale forma
di finanziamento fu largamente rappresentata da credito commerciale a breve, offerto da banchieri
che scontavano cambiali avvallate da terzi.
La sospensione della convertibilità in oro e argento della cartamoneta emessa dalle banche
moltiplicò i mezzi di pagamento fiduciari mentre prezzi e salari continuavano a crescere e il
debito pubblico aumentò di tre volte e mezzo. Con il Pell Act del 1819, si decise di ancorare il
valore della sterlina all’oro e di limitare l’emissione di moneta cartacea alle disponibilità di metalli
preziosi esistenti presso le banche. Dal 1821 la convertibilità fu reintrodotta di fatto: l’Inghilterra
inaugurava così il GOLD STANDARD, un sistema monetario che avrebbe semplificato i rapporti
commerciali internazionali per tutto l’800 e fino allo scoppio della prima GM. La Banca
d’Inghilterra divenne così ‘istituto di riscontro finale. La riforma del 1844 (Bank Charter Act ),
regolò rigidamente l’emissione di moneta cartacea, essendo prevalsa la convinzione che la
mancanza di vincoli all’emissione incoraggiava le speculazioni.
Le reazioni della società al capitalismo industriale Tra il 1795 e il 1815, il rialzo dei prezzi
raddoppiò le rendite fondiarie. Analogamente crebbero anche i profitti della seconda generazione
degli industriali, ma alla fine delle guerre napoleoniche il clima cambiò perché segui un periodo di
deflazione che porto a un generale malcontento ed ad una serie di tumulti. I modi di lavorare
avevano subito enormi cambiamenti. L’industrializzazione sostituì al servo l’operaio, l’uomo fu
ridotto a merce fittizia. I domestici si salvarono dal processo di massificazione. Nella fabbrica, il
lavoro alle macchine impose una monotonia che era sconosciuta agli operai preindustriali.
L’industrializzazione portò con sé la tirannide dell’orologio, del tempo dettato dal fischio della
sirena della fabbrica e dal ritmo della macchina. Poiché uomini, donne e bambini non si
adattavano spontaneamente a mutamenti tanto radicali, si dovettero costringere con una ferrea
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disciplina e con ammende, con leggi sul lavoro dipendente come quella del 1824 che prevedeva
la prigione per gli operai che rompessero un contratto di lavoro. Anche i salari bassi cooperarono
alla normalizzazione. A causa della rapida industrializzazione e del conseguente inurbamento, le
città spesso mancavano di servizi pubblici elementari, e ciò contribuì alla diffusione di diverse
malattie come tifo, colera e tubercolosi. Le città distrussero anche le tradizionali relazioni umane:
credenze, morali, religione e cultura non offrivano alcune linee guida per i comportamenti richiesti
dal nuovo mondo industriale, e la completa ignoranza del miglior modo di vivere rendeva la vita
quotidiana ancor più penosa e difficile per i poveri. Nella prima metà dell’800 sul paese si
abbatterono periodiche ondate di malcontento e malessere sociale. Nel 1832 il Reform Bill , una
nuova legge elettorale, modificò i collegi elettorali uninominali accrescendo i seggi cittadini a
scapito di quelli delle contee; fu, poi, istituito il suffragio censitario.
Tenore di vita e assistenza ai poveri Il periodo che va dal 1818 al 1824 venne contraddistinto da
un drastico calo dei prezzi ma, in realtà, solo pochi salari nominali furono diminuiti sicché, allo
stesso tempo, crebbe anche il loro potere d’acquisto. Il processo di deflazione durò fino agli anni
’50 e i salari nominali resistettero o calarono di meno; l’unica eccezione furono i salari dei
tessitori, radicalmente diminuiti. Il periodo aureo dei salariati (1818-1825) si spiega con una serie
di circostanze almeno in parte fortuite come:
1.Severa politica deflazionistica orientata al ripristino della convertibilità della sterlina;
2.Tradizionale vischiosità dei salari ereditata dall’età preindustriale;
3.Maggiore volatilità dei prezzi di derrate agricole e manufatti industriali;
4.Mutamenti strutturali intervenuti nella società e nell’economia inglese che indussero il
Parlamento a rivedere la politica assistenziale verso i poveri; infatti, le 1834, fu introdotto un
nuovo sistema di assistenza sociale (il sistema di Speenhamland) che integrava le entrate dei
poveri quando queste non assicuravano adeguate razioni quotidiane di pane.
Il sistema dei sussidi tratteneva la forza lavoro nei luoghi d’origine e addossava ai proprietari
fondiari della parrocchia l’onere del finanziamento dell’assistenza; inoltre istituiva anche case di
lavoro parrocchiali o interparrocchiali nelle quali le autorità riunivano i disoccupati. In tal modo
prevaleva una mentalità che identificava nel povero un fannullone da istituzionalizzare e
controllare.
L’Inghilterra dal primato al declino Verso il libero scambio internazionale L’esportazione svolse un
ruolo strategico nella crescita economica e nello sviluppo inglese fin dai primi decenni dell’800. Di
fronte ad un calo consistente dei prezzi del grano che fece fallire numerosi fittavoli, nel 1815 il
Parlamento votò la legge protettiva del grano nazionale (Corn Law ) volta a impedire le
importazioni di cereali a basso prezzo. A varie riprese i dazi furono progressivamente inaspriti.
Presto si notò che i dazi sui grani mantenevano artificiosamente alti i prezzi dei beni di prima
necessità e anche i salari correlati al carovita. Si profilava un conflitto tra interessi degli agrari e
interessi degli industriali. Nel 1820 i fautori del libero scambio riproposero le loro tesi con una
petizione presentata in Parlamento. Nel 1822 furono ridotti i dazi sulle materie prime e sui
prodotti industriali, furono oppresse alcune proibizioni e attenuati gli atti di navigazione. Nel 1828
fu votata la scala mobile dei dazi sul grano che riduceva il protezionismo sui cereali. Nel 1833
furono ritoccate al ribasso anche le tariffe doganali. Formidabile ostacolo al libero scambio era
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dato dal fatto che il gettito delle dogane rappresentava larga parte dell’entrata del bilancio
pubblico inglese, insieme alla protezione tradizionalmente accordata in sede politica agli interessi
dei proprietari fondiari, i cui rappresentanti sedevano tanto nella camera alta, quanto in quella dei
comuni. La riforma elettorale del 1832 portò in parlamento numerosi mercanti, industriali convinti
assertori del libero scambio; essi affermarono che i diritti doganali riducevano le dimensioni del
mercato nazionale e di quello estero perché limitavano anche la capacità d’acquisto dei paesi
esportatori. Il successo di queste tesi venne dalla prima mobilitazione dell’opinione pubblica e
culminò con l' Anti-Corn-Law League fondata nel 1836; 6 anni più tardi, nel 1842, R. Cobden e i
gli altri sostenitori del libero scambio ottennero un attenuamento della scala mobile del grano.
Tutti i dazi furono abbassati, eliminati i divieti d’entrata di talune merci e fissate al 5% le tariffe
sulle materie prime. Un quadro generale dei rapporti economici intrattenuti dalla Gran Bretagna
con l’estero permette di soppesare il ruolo dei movimenti di merci, l’importanza dei proventi
ottenuti da servizi e il crescente peso dei profitti realizzati investendo capitale all’estero. La
dipendenza commerciale dall’estero è talmente evidente da giustificare la preoccupazione di aprire
le porte alle merci straniere. La vera forza dell’economia inglese consisteva nei servizi, nella
riesportazione di coloniali e nell’esportazione di capitali. Se la bilancia dei pagamenti fu
costantemente in avanzo, ciò si dovette alle cosiddette partite invisibili (finanza, assicurazioni,
banca e noli marittimi) che concorsero ad accrescere le riserve auree inglesi.
L’Inghilterra verso il declino Con l’introduzione del libero scambio, la dipendenza inglese dal
commercio internazionale si accentuò e vennero al pettine molti nodi connessi a uno dei caratteri
originari dello sviluppo britannico: la ristrettezza del mercato interno. La popolazione non era
abbastanza numerosa né danarosa da sostenere un apparato industriale e commerciale in continua
crescita. Inoltre i salariati inglesi erano stati tenuti troppo a lungo in condizioni di sottoconsumo
perché alimentassero un’adeguata domanda aggregata di beni e servizi non indispensabili. Fino al
1875 circa, le esportazioni inglesi aumentarono più rapidamente del reddito nazionale; in altri
termini, una quota crescente della ricchezza prodotta in Gran Bretagna e ne andava all’estero. Alla
lunga il primato britannico fu messo in discussione. Le economie in via di sviluppo, una volta
appropriatesi delle conoscenze necessarie all’avvio dell’industrializzazione, abbracciavano il
protezionismo per consolidare standard tecnici tanto elevati da permettersi di affrontare e battere
sui mercati esteri la concorrenza britannica. Solo tra il 1846 e il 1873 Gran Bretagna, aree in via
di sviluppo e regioni sottosviluppate trassero un mutuo vantaggio dal libero commercio
internazionale. Il periodo aureo dell’economia inglese fu tra il 1840 e il 1870, periodo durante il
quale il commercio mondiale crebbe enormemente, ma quella fu anche l’epoca dalla quale il
paese cominciò a perdere il suo primato industriale. Le interpretazioni del declino inglese hanno
soprattutto insistito sulla “stanchezza” della terza generazione d’imprenditori i cui avi avevano
profittato di condizioni favorevoli al successo e i cui padri lo avevano consolidato. Taluni fattori
esterni contribuirono ad aggravare la situazione socio-culturale per molti versi statica:
1.Né il sistema scolastico né il sistema universitario britannico furono all’altezza della sfida posta
dal crescente fabbisogno di capitale umano e all’esigenza di trasmettere conoscenze scientifiche e
tecniche d’alto profilo;
2.L’avvento tardivo di nuovi settori industriali ad altra intensità tecnologica, insieme al ritardo
nell’adeguamento tecnologico in settori tradizionalmente forti;
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3.Lo stile di vita e valori culturali di riferimento del mondo imprenditoriale erano quanto di più
lontano potesse esistere dall’ingegneria industriale e dal management; anche nel mondo della
finanza l’accentuato conservatorismo istituzionale divenne presto un fattore d’arretratezza. Una
prova della caduta del potenziale economico inglese nel corso del 1800 proviene anche dal
raffronto tra livelli percentuali del reddito prodotto nel settore industriale, dagli investimenti
effettuati e dalla quota di spesa pubblica rispetto agli standard medi europei.
5. L’Europa industriale (1830-1914)
I primi imitatori continentali Nel 1815, a Vienna, i sovrani che sconfissero Bonaparte
ridisegnarono l’Europa, e Francia, Portogallo, Spagna e Italia rimisero sui troni gli antichi regnanti.
Dagli anni ’20 in qualche regione si profilarono mutamenti economici analoghi a quelli intervenuti
nell’Inghilterra del secondo ‘700. Il trasferimento di tecnologie pretese condizioni di base e
dotazione infrastrutturali:
1.Potenziali di crescita della produttività nel settore agricolo;
2.Disponibilità di carbon fossile e ferro;
3.Corsi d’acqua con portate costanti per tutto l’anno;
4.Vie di comunicazione efficienti e bassi costi di trasporto;
5.Facile accesso ai porti atlantici per l’approvvigionamento del cotone grezzo importato;
6.Collegamenti con i maggiori centri del commercio e della finanza internazionale;
7.Elevata specializzazione della manodopera artigiana;
8.Brevettabilità delle invenzioni:
9.Alti livelli di alfabetizzazione.
Questo insieme di requisiti mise una ristretta cerchia di regioni d’Europa nella condizione di
imitare l’Inghilterra fin dal terzo decennio dell’800. Solo dal 1824 in poi, artigiani inglesi poterono
espatriare e dal 1825 fu possibile costruire macchine all’estero su licenza. Una completa
liberalizzazione si ebbe solo dal 1843, con l’adozione del libero scambio delle merci. L’industria
belga fu la prima a decollare e, di conseguenza, trasmise esperienze tecnologie e capitali alla
Francia settentrionale, alla Germania e alla Russia.
Il Belgio, primo paese industriale del continente Il congresso di Vienna (1814) unificò le ex
Provincie Unite olandesi con I paesi Bassi e il granducato del Lussemburgo. Le differenze
economiche e culturali portarono alla secessione del Belgio nel 1830, divenuto monarchia
costituzionale l’anno successivo. Precocità e alto ritmo di sviluppo belga dipesero da almeno 4
fattori:
1. La vicinanza all’Inghilterra e l’integrazione entro uno spazio economico che comprendeva Olanda,
alta Rennania e Francia settentrionale;
2.Le abbondanti riserve di carbon fossile e ferro;
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3.La presenza in numerosi centri di una solida manifattura tessile:
4.L’iniziativa economica dei sovrani che nel 1822 promossero la Société Genérale: la prima banca
d’affari europea e nel 1835 fondarono la banca centrale (Banque de Belgique) sottoscrivendo metà
delle azioni. Lo stato realizzo in pochi anni un’ampia rete ferroviaria. Nella vallata della Mosa, dal
1805, prese avvio una trasformazione tecnologia e organizzativa che dalla siderurgia si estese al
settore metalmeccanico. Tra il 1815 e il 1834 si affermarono 3 grandi imprese: nel 1809 quella di
W. Cockerill, nel 1821 quella dei fratelli Orban e nel 1829 quella di G.A. Lamarche: esse
controllavano e sfruttavano i giacimenti coi metodi più avanzati; fu il primo esempio d’integrazione
verticale. Spesso alcune imprese incontrarono problemi di finanziamento, risolti con il concorso
pubblico e con investimenti di capitalisti industriali e grandi mercanti. Il settore che ebbe il
maggiore sviluppo, evoluto sin dal ‘300, fu quello della tessitura nella regione di Gand che venne
organizzandosi secondo lo schema della grande manifattura accentrata. Dopo aver ottenuto il
monopolio generale del cotone proveniente dalle indie olandesi, dal 1819-182, Gand divenne il
maggior centro cotoniero continentale, zona nella quale furono importati anche numerosi filatoi
automatici inglesi. La rapida meccanizzazione delle operazioni di filatura e tessitura accelerò
l’avvento della fabbrica e garantì guadagni di produttività e stimolò concentrazione e integrazione
verticale. L’esperienza storica dell’industrializzazione belga presenta alcuni caratteri peculiari:
1.La precocità dovuta al facile accesso alla tecnologia innovativa inglese;
2.L’intraprendenza degli industriali locali, primi organizzatori del sistema di fabbrica, e la
disponibilità di capitale finanziario;
3.I rapporti sempre più serrati del sistema bancario con le industrie;
4.Una politica statale favorevole all’industrializzazione.
La Svizzera, un’eccezione al modello inglese L’industrializzazione fu relativamente precoce anche in
Svizzera. Il suo caso conferma che le piccole dimensioni territoriali e demografiche costituirono un
fattore di facilitazione del primo viluppo industriale. La manifattura domestica rurale vi si era
rafforzata nel secondo ‘700 grazie a 5 condizioni:
1 Il particolarismo politico istituzionale, con leggi diverse da cantone a cantone;
2.Un’agricoltura talmente povera da esigere integrazioni dei redditi tramite manifattura domestica;
3.La vicinanza ai mercati francese e tedesco sui quali avviare esportazioni;
4.L’assenza di controllo delle corporazioni artigiane urbane nei confronti delle attività
manifatturiere dei vicini cantoni rurali;
5 La realizzazione di un’unione doganale, postale e monetaria. La particolare morfologia del paese
rappresentava una difesa. Nel primo ‘800, il settore cotoniero, avendo impiantato moderni filatoi,
produsse le matasse di base. L’abbondanza di corsi d’acqua indusse ad incrementare lo
sfruttamento dell’energia idraulica, e l’alto costo del carbone fece si che le poche macchine a
vapore importate funzionassero solo come macchine ausiliari. L’accoglienza delle stoffe pregiato sui
mercati esteri, favorì un vero e proprio boom dell’export svizzero in un settore oltretutto privo di
concorrenti. La posizione di nicchia, ormai consolidata nell’800, permise di continuare a usare telai
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a mano e filatoi idraulici dispersi entro un vasto comprensorio. Nel settore serico furono applicati
principi analoghi:
1.Lavorazioni tecnicamente accurate eseguite in piccoli opifici;
2.Qualità eccellente;
3.Forte orientamento all’esportazione.
Il terzo settore orientato ai mercati esteri era l’orologeria: il sistema produttivo s’imperniava
sull’attività domiciliare di centinaia di artigiani, e grazie alla standardizzazione dei componenti e
l’uso crescente di macchine e di utensili di precisione modificarono le fasi del montaggio. Prima
Vacheron e Costantin e poi Patek, Philippe & Co., intrapresero la produzione per l’esportazione di
orologi standardizzati d’oro e d’argento. A metà ‘800, già una delle regioni più industrializzate
d’Europa, la Svizzera si scoprì anche una vocazione turistica elitaria. Poco dopo anche l’agricoltura
cominciò a migliorare e sorsero industrie agrarie innovative, come quelle del latte condensato,
dell’estratto di carne per brodo e del cioccolato. Un settore chimico e farmaceutico d’alto profilo
tecnico scientifico si affermò nel secondo ‘800 , riuscendo a piazzare quali il 90% della sua
produzione all’estero. La Francia divenne il maggior partner negli scambi di merci. Con il tempo la
quota dell’export svizzero andò calando, per converso aumentò l’esportazione di capitale tecnico e
finanziario che era poco meno che doppio rispetto a quello inglese. Nell’alta Italia, gli svizzeri
erano fra i principali protagonisti del nascente settore della filatura del cotone. Durante l’800 la
crescita economica del paese fu costante ed equilibrata, fatto che portò ad un aumento del PIL
pro capite che raggiunse i livelli di quello inglese e belga. Fra i fattori che concorsero a un
risultato tanto appariscente, vi furono anche requisiti di carattere sociale e culturale, come:
1.Il livello d’istruzione e d’ingegnosità della popolazione;
2.Un’ampia disponibilità di energia idraulica;
3.Esportazione di prodotti di pregio e di nicchia;
4.Secolare abitudine al risparmio;
5. Combinazione di redditi agricoli e da manifattura domestica;
6.Protezionismo agricolo che assicurò redditi adeguanti ai contadini e li trattenne dal cercare in
massa lavoro nell’industria;
7.Alta qualità delle produzioni nel cotonificio, nel setificio, nell’orologeria e più tardi nella
farmaceutica e nella chimica;
8.Il prestigio di cui godettero i manufatti svizzeri.
Il gigante lento:la Francia
La popolazione Nel 1801, la Francia era il paese più popolato dell’Europa occidentale, anche se la quota dei
giovani era inferiore a quella degli anziani. La caduta della fecondità, fu determinata dalle morti che
portarono le guerre napoleoniche, e rafforzata, in seguito, dagli effetti successori del Codice civile, che
distribuiva il patrimonio paterno fra i figli impoverendo le famiglie numerose. L’inurbamento dei rurali, 13
solo in parte derivò dall’industrializzazione. Le città erano anzitutto centri amministrativi, d’artigianato e di servizi che smistavano i prodotti del mondo rurale circostante. La crescita urbana fu alimentata dal
sovrappopolamento delle campagne. Ne derivarono 4 processi di notevole portata economica e sociale:
1. L’inurbamento in piccoli e medi centri che crebbero di dimensione:
2.Controllo della fecondità praticato dalla popolazione rurale;
3.Incremento del volume delle produzioni agricole;
4.Regresso dell’artigianato rurale. L’agricoltura La suddivisione dei suoli tra le diverse coltivazioni, nel 1840, prova il grado d’arretratezza
delle campagne francesi. Per tutto l’800 esistettero diversi sistemi agrari, separati da una linea ideale che tagliava diagonalmente il paese da nord-ovest a sud-est. A nord prevalevano grandi poderi dati in affitto e
condotti direttamente dai proprietari. A sud coesistevano due agricolture contadine; una sussistenziale,
fatta di piccoli proprietari che avevano saltuari contati con il mercato, e l’altra monoculturale. Un lento processo di modernizzazione coincise con il regno di Luigi Filippo di Orleans (1831-1847), durante il quale si
affacciarono le prime colture industriali. Il crescente potere d’acquisto degli abitanti delle campagne fu un decisivo fattore di crescita per l’economia dell’intero paese. Verso il mercato nazionale: comunicazioni e trasporti Nel periodo tra il 1830 e il 1860, ingenti investimenti
nel sistema delle comunicazioni favorirono l’avvento del mercato nazionale. Il sistema viario era tra i più evoluti ed efficienti del paese, e fece un miglioramento con il completamento della rete interna di canali.
Tra il 1852 e il 1870, le grandi linee ferroviarie furono completate. Un calo netto dei costi di trasporto
abbassò i costi di produzione, allargò il mercato interno e rese più competitive le merci francesi all’estero. Risorse naturali, energia, tecnologie L’abbondanza delle acque e l’alto costo del carbone spiegano la lenta penetrazione in Francia della macchina a vapore. La protezione doganale favorì la nascita di un solido
settore meccanico. Con i primi anni ’60, l’energia delle macchine a vapore eguagliò quella prodotta dai
motori idraulici, i cui rendimenti erano stati migliorati con l’applicazione di turbine; per di più, pregiudizi culturali ostili all’uso del carbone, ritardarono l’utilizzo del coke. Per questa somma di ragioni la siderurgia
francese raggiunse livelli produttivi analoghi a quelli inglesi solo dopo il 1870. La siderurgia francese
assunse i caratteri della grande impresa moderna solo dal 1870 con:
1.L’integrazione verticale;
2.La concentrazione finanziaria in società anonime;
3.Impianti d’enormi dimensioni;
4 L’evoluzione verso l’oligopolio; 5.L’abbattimento della concorrenza con un cartello che avrebbe evitato crisi di sovrapproduzione e mantenuto alti i prezzi interni, grazie anche alle consistenti difese doganali.
Le industrie tessili L’editto regio del 1762, con il quale si permetteva ai campagnoli di fabbricare ogni tipo di stoffa, sancì una diffusa e preesistenze situazione di fatto. L’industria tessile francese seguì il modello inglese. Superato il periodo delle guerre e del blocco napoleonico, nel 1815 la filatura era in linea con le
tecniche più aggiornate. La regione cotoniera francese fu l’Alsazia. Il successo commerciale stimolò l’avvio 14
d’attività locali di filatura e tessitura. La tessitura subì trasformazioni altrettanto profonde. Il cotonificio
alsaziano stimolò la strutturazione di un indotto che comprendeva la chimica e la meccanica. L’Alsazia divenne una delle aree più industrializzate di Francia perché al cotonificio, alla chimica e alla meccanica si
aggiunsero imprese siderurgiche lanifici, cappellifici, cartiere e raffinerie di zucchero da barbabietola. Nel
cotonificio l’adozione di filatoi meccanici fu più rapida per almeno tre motivi: 1.Il cotone aveva parzialmente sostituito il lino e la lana causando una riduzione dei loro tradizionali sbocchi
di mercato;
2.La larga disponibilità di manodopera rurale a basso costo ritardò la meccanizzazione e concentrazione
della filatura;
3. Ci furono notevoli difficoltà tecniche da superare. L’ultimo comparto tessile a dotarsi di macchine fu
quello del lino. Ancora più lenta fu la diffusione di telai automatici.
Capitale Finanziario e credito Attorno al 1815, in Francia, la moneta aveva un ruolo modesto come
intermediario degli scambi. Per di più la circolazione monetaria era intralciata dalla presenza di un’infinità di vecchie monete divisionali, nazionali ed estere, di valore intrinseco largamente inferiore al nominale. Ci
fu un grande ritardo all’avvento di un mercato monetario moderno e della nascita di un sistema creditizio
capillarmente diffuso. Del resto, la Banca di Francia non contribuiva certo a promuovere l’uso di moneta fiduciaria, poiché per gran parte dell’800 banconote e depositi svolsero un ruolo economico marginale. Napoleone tentò di rilanciare il credito agganciando il franco all’oro e fondando la Banca di Francia, ma la severità delle procedure scoraggiò il ricordo alla BC e favorì il proliferare di scontisti privati che applicavano
alti tassi d’interesse e impedivano la formazione d’un mercato creditizio trasparente. Il Codice di commercio del 1808, oltre alla società di persone, contemplò la società in accomandita e l’anonima. Gli investimenti nelle imprese commerciali e industriali vennero soprattutto dai patrimoni familiari degli
imprenditori e dal reimpiego di profitti. I patrimoni familiari comportarono due gravi conseguenze:
1.Le piccole dimensioni impedirono di sfruttare e economie di scala;
2.Vi fu un’accentuata indipendenza dalle banche.
Del resto i banchieri francesi non ambivano a sostenere le industrie. Le casse di risparmio versavano la loro
raccolta, fatta nelle periferie, alla nazionale Cassa Depositi e Prestiti, che permetteva al governo di
realizzare investimenti pubblici infrastrutturali. Un freno allo sviluppo economico provenne dall’attitudine francese a impiegare risparmi in investimenti sicuri: pertanto, solo un po’ meno della metà del risparmio netto francese fu investito nell’agricoltura e nell’industria del paese. Il commercio internazionale e l’andamento del reddito nazionale Rivoluzione e primo impero intralciarono
non poco le relazioni francesi con l’esterno, anche per via dell’embargo commerciale del 1806. Dopo la caduta di Napoleone, le importazioni di materie prime crebbero sotto lo stimolo dell’industrializzazione. La bilanci commerciale francese rimase in deficit fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Il lungo periodo
libero-scambista facilità le importazioni di materie prime, ma causò anche una depressione agricola. Poiché
due terzi dei francesi viveva ancora nelle campagne, vi fu un peggioramento dei loro redditi, fatto che
rallentò la dinamica economica compressiva. Per di più ci fu la sconfitta contro i prussiani, che portò alla
perdita dell’Alsazia, maggior polo dell’industria cotoniera, e della Lorena, giacimenti di carbone e ferro. La
caduta delle protezioni daziarie rivelò la debolezza del sistema economico francese. La miscela di vincoli e
limiti dell’economia francese dell’800 può essere così riepilogata: 15
1. Lo svantaggio derivante dalle dimensioni geografiche e demografiche insolitamente ampie;
2.Un’agricoltura arretrata imperniata u coltivazioni volte ad assicurare la sussistenza; 3.La notevole arretratezza del sistema monetario e creditizio;
4.Una persistente mentalità orientata soprattutto all’impiego del risparmio in investimenti a basso rischio; 5.Un ingente debito pubblico che impegnava, per il pagamento degli interessi, una grossa parte del bilancio
statale;
6.Una domanda interna depressa a causa della stagnante dinamica demografica e per la lenta crescita del
reddito pro capite.
Un mondo rurale conservatore e tradizionalista, insomma, ebbe una parte non secondaria nella vicenda
del lento sviluppo economico del paese. Nell’800 divenne il massimo produttore di grano e di vino
dell’Europa occidentale. Si riconosce, in generale, una tendenza a non sacrificare il settore tradizionale favorire quello avanzato.
Scienza e tecnica al servizio dell’industria Dall’empirismo alla scienza Nel secondo ‘800 prese il sopravvento l’adattamento all’industria dei risultati della ricerca scientifica nelle discipline chimiche, fisiche e meccaniche. La “tecnologia invisibile”, derivante dalla scoperta di fenomeni invisibili a occhio nudo, fu trasferita alla siderurgia, alla chimica di base, all’elettricità e alla meccanica: tutti settori nei quali conoscenze scientifiche e tecnologiche si tradussero in invenzioni e innovazioni. In campo siderurgico, il
progresso decisivo consistette nella messa a punto di tecniche che resero assai meno costosa la produzione
dell’acciaio. Nel 1856, H. Bessemer brevettò un sistema di fabbricazione dell’acciaio dalla ghisa, che permetteva di abbassare e controllare la percentuale di carbonio presente nel metallo allo stato liquido, ma
solo possibili con alcuni minerali ferrosi. Nel 1870, Martin e Siemens escogitarono un nuovo forno, più lento
e più costoso del Bessemer, che, alimentato con minerali ferrosi ricchi di fosforo frammisti a rottami di
ferro, forniva acciaio di migliore qualità. Nel 1878-1879 S. G. Thomas e P. C. Gilchrist brevettarono un
ingegnoso metodo di correzione basica del fosforo acido presente nei minerali ferrosi, che permise di
sfruttare nelle acciaierie i minerali di vasti giacimenti fosforosi. La chimica contribuì alla scoperta e
all’utilizzo di nuovi metalli come cromo, manganese e tungsteno e allo sfruttamento di zinco, nichel, magnesio e alluminio. Dal 1856 la chimica industriale aprì la strada al fondamentale settore dei coloranti
artificiali. Si avviarono così 4 nuovi settori:
1.Principi attivi farmaceutici;
2.Esplosivi;
3.Reagenti fotosensibili;
4.Fibre sintetiche.
L’elettricità fu il campo della fisica nel quale susseguirono scoperte teoriche più tardi tradotte in applicazioni economicamente sfruttabili. Nel 1821 M. Faraday inventò il motore elettrico e, 10 anni dopo, la
dinamo. Però, vi furono problemi di produzione e distribuzione, e l’elettricità a livello industriale fu sfruttata soprattutto per trasmettere informazioni via telegrafo. Il telefono dell’americano G. Bell (1876)
rese private le comunicazioni. T. A. Edison, inventore del fonografo e della lampadina ad incandescenza, si
occupò soprattutto di generazione e distribuzione dell’energia per l’illuminazione pubblica e privata. La
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produzione di corrente alternata e del trasformatore permisero di trasferire anche a grandi distanze
l’energia elettrica usata per illuminazione, trazione, elettrochimica, elettrometallurgia e forza motrice. L’ingegneria meccanica, dal 1840 in avanti, ebbe il suo settore più dinamico nelle linee ferroviarie e nel
materiale rotabile. Anche i piroscafi mutarono tempi e volumi dei trasporti via acqua. Fra il 1838 e il 1854,
la cantieristica costruì le prime grandi navi di ferro mosse da motori di crescente potenza; negli anni ’60 si
passo alla produzione di scafi d’acciaio. Nel campo della meccanica fondamentali innovazioni riguardarono l’editoria. Altra invenzione che ebbe reali conseguenze sui sistemi produttivi fu la macchina da cucire comparsa nei primi anni ’50: essa penetrò nell’economia domestica e diede un forte impulso all’industria dei guanti, selleria, confezione di calzature. La bicicletta (1885) e soprattutto l’automobile, messa a punto da K. Benz, mossa da un motore a scoppio a quattro tempi, ebbero un crescente successo dai primi del
‘900.
Lo stato protagonista economico Uno sguardo d’insieme La prima industrializzazione si era svolta all’insegna dello stato quasi assente. La classe dirigente prelevò, infatti, ricchezza con imposte sui commerci interni ed esteri, decentrò l’esercizio della giustizia affidandola a giudici non professionisti, eliminò le corporazioni, i monopoli e le privative, e costruì la proprietà individuale. L’azione della cosiddetta “mano invisibile” evocata da A. Smith, vale a dire la generalizzazione degli scambi che promosse, poi, la divisione e
la specializzazione del lavoro e permise agli individui e alle imprese di perseguire il massimo tornaconto
nell’acquistare e nel cedere fattori produttivi, merci e servizi, in Gran Bretagna fu il motore della crescita
mentre il governo lasciava fare. Notevole contributo all’abbattimento dei costi di transazione in Gran Bretagna fu l’istituzione, dal 1840, di un servizio postale prepagato. La stessa amministrazione postale sviluppò, di lì a poco, una rete telegrafica. Nel secondo ‘800, il pensiero degli economisti, indusse a considerare innaturali quei processi che si discostavano da quello del primo paese industriale del mondo: in
realtà si trattavate di un caso unico e irripetibile, poiché l’Inghilterra poté godere di un monopolio
tecnologico per più di 10 anni circa; una condizione che aveva reso assai difficili le condizioni di crescita e
sviluppo di eventuali concorrenti e permise ai produttori anglosassoni di realizzare margini di profitto
talmente alti da permettere loro di autofinanziare la crescita delle loro imprese. In secondo luogo, il
primato della flotta commerciale inglese spalancò le porte di un enorme mercato internazionale. Quei paesi
che intrapresero con “ritardo” il difficile cammino dell’industrializzazione, dovettero ricorrere a quelli che
gli economisti chiamarono fattori sostitutivi nell’impianto dell’economia industriale:
1.Protezionismo doganale;
2.Spesa pubblica;
3.Credito mobiliare d’investimento nelle società anonime industriali;
4.La diretta gestione statale di imprese industriali.
Negli stati del continente, la tradizione regolativa dei mercati interni e dei commerci esteri delle monarchie
assolute e dei despoti illuminati produsse riflessioni teoriche e prassi politiche e amministrative favorevoli
all’intervento dello stato nell’economia. Il primo e più diffuso intervento fu dato dalle tariffe doganali; nel secondo, lo stato disincentivava l’esportazione di prodotti nazionali considerati strategici. L’idea che il protezionismo fosse la chiave di volta dell’avvio della trasformazione dell’economia nazionale in senso industriale, fu propugnata dal tedesco F. List, economista che pose le basi teoriche dell’azione economica degli stati volta a proteggere la crescita e il consolidamento delle industrie nascenti, in aperta
contraddizione con la tesi dominante del free trade. Dagli anni ’80 dell’800, le forme d’intervento dei poteri politici delle nazioni economicamente arretrate furono numerose (misure politiche riguardanti):
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1.Esigenza di raccogliere ingenti capitali: molti paesi avviarono politiche fiscali assai onerose; in tal modo lo
stato drenò risorse finanziarie che altrimenti non sarebbero state spontaneamente investite in maniera
mirata e produttiva;oppure venivano lanciati prestiti pubblici nazionali e internazionali;
2.Istituzionalizzazione di sistemi bancari capaci di controllare il credito e la moneta e di finanziare le grandi
imprese; una banca abilitata dal governo ad emettere banconote fu il primo prerequisito comune a tutti i
paesi; secondo passo fu aprire istituti di credito privati in forma di società anonime; in Belgio le Banche
universali o miste svolsero un ruolo decisivo nello sviluppo dei rispettivi comparti industriali;
3.Fattore lavoro; in tutti i paesi in cui l’industria andava affermandosi i parlamenti: •Limitarono l’età lavorativa dei minori; •Limite all’orario di lavoro giornaliero; •Vietarono il lavoro notturno ai minori e alle donne;
•Previdero assistenza per le lavoratrici gestanti;
-Disposero misure igieniche e di sicurezza nei luoghi di lavoro;
•Vararono assicurazioni contro le malattie e contro gli incidenti sul lavoro;
•Organizzarono sistemi di pensionamento dai 65 anni.
La Germania: territorio e popolazione Nel 1800 i territori del futuro impero tedesco contavano 24,6 milioni
di abitanti, concentrati nelle regioni a suoli più fertili, e lungo le grandi vie di comunicazione. Tutto l’800 fu caratterizzato dalla alta mortalità infantile e da una bassa natalità. Mentre la popolazione aumentava, una
quota crescente di tedeschi si trasferiva dalle campagne alle città (inurbamento). Poiché gli inurbati erano
giovani, la loro fecondità accentuò il tasso di natalità delle città industriali, già in crescita per via
dell’immigrazione. Dogane e trasporti: verso un mercato nazionale Una politica di rigore finanziario permise ai governanti
prussiani di riequilibrare il bilancio dello stato e di affrancare parte del debito pubblico. Le misure più
gravide furono prese in campo daziario. Nel 1819, dazi e gabelle, furono sostituiti da un’unica tariffa applicata alle merci che superavano le frontiere, trasformando così il regno in un’unica area commerciale, così fabbricanti e commercianti dovettero misurarsi con i prodotti esteri. Con una lungimirante politica dei
piccoli passi, la Prussia allargava la sfera d’influenza del suo “mercato comune”. Nel 1829 fu raggiunto un
accordo che, dal 1833, prevedeva l’unificazione dell’associazione doganale del nord con quella del sud. Entro il 1867 tutti gli stati tedeschi vi aderirono formando una Germania economica con un’unica frontiera tariffaria esterna. A metà ‘800 in Germania erano già sviluppate molte ferrovie. In fatto di regolazione pubblica, i diversi stati si valsero di tutte le possibili soluzioni: stile belga, francese o inglese.
I Prerequisiti materiali e sociali La formazione di un vasto mercato comune con modeste difese daziarie agì
come prerequisito dell’avvio dell’industrializzazione tedesca. L’industria sorse su basi moderne, lontano dai
centri tradizionali. L’emancipazione dei servi della gleba favorì un miglioramento della produttività agricola assieme a una crescente mobilità della manodopera. L’agricoltura era in costante crescita, grazie a: abbandono del maggese che permise l’aumento della superficie produttiva e l’aggiornamento agronomico. Le grandi tenute orientali degli Junker .
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L’incubazione dello sviluppo (1848-1873) A metà ‘800, la Germania produceva ed esportava materie prime e derrate agricole dell’est e cominciava a fabbricare manufatti industriali. Dopo un boom durato dal 1852 al
1857, l’economia tedesca continuò a crescere impetuosamente. Fra il 1848 e il 1873, il settore tessile fu investito dai mutamenti più incisivi, con alla testa il comparto cotoniero. L‘industria della lana si modernizzò più lentamente perché buona parte della materia prima era esportata. Il settore tessile meno dinamico e
tecnicamente arretrato continuò a essere il linificio. Le leggi minerarie prussiane del 1851 diedero notevole
impulso all’estrazione di carbone e ferro. Fu inoltre dimezzata la tassa gravante sulle materie prime estratte. Non mancarono apporti di investitori stranieri, di banche e di singoli risparmiatori, favoriti dalla
creazione di società minerarie anonime. Dal 1850 in poi, la domanda di prodotti siderurgici esplose. Le
esportazioni di materie prime e semilavorati tennero un ritmo altissimo. La classe politica e i burocrati
governativi compresero che lo sviluppo andava programmato favorendo la ricerca scientifica e l’istruzione tecnica organizzando efficacemente le imprese e proteggendo con una politica doganale aggressiva. La
Germania preferì stipulare trattati bilaterali di commercio moderatamente protezionisti. Il mondo
tradizionale e aristocratico della terra si alleò a quello spregiudicato e nuovo dell’industria. La tariffa protezionistica del 1879 inaugurò la fase di maturazione del capitalismo tedesco.
Dalla crescita allo sviluppo (1873- 1896) La Germania, unificata nel 1871, era un paese in via di sviluppo
che stava realizzando colossali investimenti industriali. Dal 1872 una lunga fase depressiva colpì le
economie più avanzate. Il cancelliere Bismarck introdusse il Gold standard 81873) simile a quello inglese e
limitò l’emissione di carta moneta a 34 banche (1875). Fu anche promulgata una legge sui marchi di
fabbrica (1875) e una sui brevetti (1877). In agricoltura andava profilandosi un processo di riconversione
produttiva, grazie al crescente utilizza di macchine e fertilizzanti. Anche l’apparato produttivo industriale
non smise di crescere. Nel tessile, il cotonificio continuò a consolidarsi e a completare la meccanizzazione.
La manifattura serica ebbe uno sviluppo sensibilissimo sulla base di una meccanizzazione intensiva di ogni
fase produttiva, tanto da portare il setificio tedesco al secondo posto in Europa. Si svilupparono anche
grandi fabbriche di capi d’abbigliamento di serie, di bottoni e di calzature. La crescita urbana favorì lo sviluppo dell’edilizia civile e delle imprese di servizi quali la distribuzione d’energia elettrica, di gas, tramvie, telegrafi e telefoni. La chimica si affermò nel panorama industriale tedesco della fine dell’800: in Germania crebbero medie e grandi industrie chimiche operanti in 5 differenti settori:
1.Chimica di base;
2. Fertilizzanti agricoli artificiali;
3.Catrame, i coloranti minerali e artificiali;
4Esplosivi;
5.Cosmetici e prodotti farmaceutici.
Verso una posizione di primato Da 1870 al 1913, La Germania esportò sempre meno derrate agricole e
sempre più prodotti industriali ad alto valore aggiunto. A partire dal 1880, l’economia tedesca ebbe un equilibrato sviluppo che coinvolse agricoltura, commercio e servizi accanto all’industria, il settore dei
massimi investimenti in tecnologia. Il successo industriale tedesco per gran parte dipese dalle grandi
dimensioni aziendali e dai continui investimenti migliorativi in tecnologia, favoriti anche dagli stretti legami
intrecciati fra industria credito e finanza. Altro fattore di crescita fu la rinuncia alla concorrenza
antagonistica sui prezzi, a vantaggio di accordi e di combinazioni fra imprese. Dai primi anni ’70 nacquero attitudini favorevoli alla stipulazione di cartelli industriali, veri e propri patti di non aggressione mirati a
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mantenere sul mercato un discreto numero di imprese d’analoga dimensione, bandendo la concorrenza. Questi cartelli giunsero a regolare prezzi e produzioni, a distribuire le quote di mercato tra imprese e a
formare potenti gruppi d’acquisto delle materie prime. L’industria tedesca condusse anche una politica commerciale aggressiva di dumping, vendendo all’estero a prezzi inferiori ai costi per inibire la nascita di competitori entro i paesi più arretrati; questa pratica era l’effetto delle sempre più energiche difese daziarie messe in atto dalla maggior parte dei paesi a quell’epoca in via di sviluppo. Banca centrale, sistema creditizio e investimenti. Il rapporto tra moneta, credito, finanza e investimenti è
centrale nello sviluppo economico tedesco. Prima dell’unificazione, in Germania esistevano molte monete metalliche; una prima razionalizzazione coincise con la riforma monetaria del 1871, che impose il marco
d’oro. Nel 1875, fu riordinato il sistema d’emissione fondando la Reichbank e prendendo a modello la legge bancaria inglese del 1844: essa svolgeva le normali operazioni di credito commerciale e fungeva da banca
delle banche. Dopo la crisi politica del 1848, comparvero i primi istituti di credito in forma societaria,
cooperative e accomandite per azioni; in seguito ci fu una grande proliferazione di società bancarie, delle
quali, dagli anni ’60, tre assunsero il primato: la Deutsche Bank, la Commerz und Disconto Bank, e la
Dresdner Bank. I maggiori istituti di credito fecero investimenti soprattutto nell’industria. In un area economica priva di tradizioni mercantili e arretrata sotto il profilo manifatturiero, le banche svolsero un
ruolo fondamentale nel dirigere gli investimenti. Un’attività creditizia tanto rischiosa indusse le banche
miste, che facevano contemporaneamente operazioni di credito a breve, medio e lungo termine, ad avere
imponenti mezzi propri piuttosto che valersi dei depositi della clientela.
I contraccolpi sociali dello sviluppo economico La trasformazione della Germania da paese agricolo e
tradizionale a potenza industriale nell’arco di tre generazioni fu all’origine d’inevitabili quanto diffusi malesseri sociali, sia nelle aree rurali che in quelle urbane, protagoniste di una crescita sostenutissima. Nel
1862 nacque il movimento cooperativo che si allargò rapidamente fino a comprendere parecchi settori
produttivi, della trasformazione e del consumo. I gettiti della tariffa doganale permisero di finanziare
misure di politica sociale volte ad attenuare i disagi esistenti presso vasti strati della popolazione meno
abbiente. Un’altra parte servì per finanziare un sistema assistenziale fondato su 4 settori d’intervento: 1.Pensioni di vecchiaia;
2. Provvidenze per malattia;
3.Assistenza per infortuni sul lavoro;
4.Sussidi per disoccupati, che non ebbero corso a causa dell’irriducibile opposizione del mondo imprenditoriale.
L’allontanamento di Bismarck interruppe l’efficace e lungimirante politica conservatrice intesa a controllare il malessere sociale interno e minò la posizione di centralità dell’azione diplomatica tedesca in Europa. La sostituzione dell’accorta realpolitik bismarckiana con una ben più rozza politica di pura potenza portò al progressivo isolamento della Germania sulla scena diplomatica europea.
Dal Feudalesimo al Capitalismo La Russia verso l’emancipazione dei servi Verso il 1850, la Russia era una società feudale, con tecniche arretrate e si avvaleva soprattutto del fattore lavoro. Il governo autocratico
degli zar controllava un immenso paese sottopopolato. La società russa era polarizzata agli estremi della
scala sociale: una ristretta cerchia di famiglie aristocratiche, i pomesciki , controllava la terra lavorata da
una massa di contadini poveri dispersa in villaggi. I diritti dei nobili sulla terra comprendevano il pieno
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controllo degli uomini che lavoravano. Ogni maschio adulto sposato riceveva in uso un lotto di terra,
secondo una ripartizione operata dal consiglio degli anziani, il mir , tenuto conto del numero dei
componenti della famiglia. I servi russi erano tenuti a prestare la loro opera sulle terre del signore oppure a
pagare ogni anno un’onoranza in natura e in moneta. L’agricoltura era ancora allo stadio di attività di riproduzione, tuttavia si trattava del settore economico del quale proveniva la maggior parte della ricchezza
annualmente prodotta nell’impero. L’esito della guerra di Crimea (1854-1856) assestò un duro colpo
all’immagine interna ed esterna della potenza russa: la Russia uscì sconfitta e umiliata a causa
dell’arretratezza tecnologica e organizzativa accumulata rispetto alle altre potenze europee. L’emancipazione dei servi era necessaria per attenuare l’ostilità esistente tra i contadini e i loro proprietari, ed era preferibile che essa avvenisse dall’alto anziché dal basso. Il governo temeva che nelle campagne scoppiassero sommosse e rivolte, ma prevaleva il timore di avviare mutamenti alla lunga incontrollabili.
Anche gli intellettuali osteggiavano l’industrializzazione perché ne percepivano l’estraneità rispetto ai valori tradizionali della Santa Russia. Tra il 1858 e il 1868 fu abolita la servitù e distribuita la terra. La riforma
agraria poneva gravi questioni sociali: se i nobili preferivano vendere in modo da fronteggiare i loro debiti, i
contadini non volevano comprare, mancando loro le risorse per farlo. Due tipi di aziende agrarie prevalsero
all’indomani della riforma: il latifondo, che interessava la quarta parte dei suoli coltivati, e le terre dei mir controllate dai contadini ex servi. La bassa produttività e l’insufficiente produzione dei piccoli poderi autarchici dei contadini ne induceva i titolari a cercare lavoro come braccianti presso i latifondi nobiliari.
Alla lunga, l’incremento della popolazione e l’aumento percentuale di quella residente nei centri urbani
accrebbero la domanda interna di cereali e di patate e fecero del suolo un fattore sempre più scarso.
L?imponente crescita demografica nelle campagne causò una suddivisione dei poderi familiari nei mir e
aggravò l’indebitamento e l’impoverimento del mondo rurale. Una minoranza di contadini intraprendenti e privi di scrupoli che prestava a usura, i kulaki , moltiplicò le proprie risorse monetarie e continuò ad
acquistare terreni: essi erano il ceto più dinamico delle campagne. La consistente crescita demografica
favorì l’avvio di u processo di urbanizzazione e di emigrazione verso le pianure siberiane e dell’Asia centrale. Le trasformazioni strutturali avvenute nel mondo rurale sul finire dell’800 e l’aggiornamento agronomico accrebbero la produttività cerealicola, portando il volume medio dei raccolti quasi a
raddoppiare sull’arco di un decennio. In realtà non sempre fu soddisfatto il fabbisogno interno di derrate alimentari; permase, quindi, il fantasma della carestia.
Dalla manifattura tradizionale all’industria La manifattura non esercitò alcuno stimolo su una
società del tutto priva di un ceto borghese. Per di più dal 1822, con l’adozione di tariffe
doganali, l’economia nazionale fu sottratta agli stimoli derivanti dall’importazione di manufatti di
largo consumo. La sostenuta crescita della popolazione comportò anche l’ampliamento della
rudimentale base manifatturiera. I dati mostrano un alto numero di addetti per opificio, spiegabile
con l’assenza di macchinari, e la minima percentuale di manodopera impegnata nelle fabbriche. La
nobiltà non riuscì mai a trasformarsi in un ceto imprenditoriale. Attorno al 1830 in Russia
cominciarono a comparire grandi impianti tecnologicamente all’avanguardia. I dazi protettivi sui
filati esteri, assieme all’importazione di macchinari e di tecnici inglesi, tra il 1838 e il 1853
favorirono un boom della filatura. Contemporaneamente il governo rilanciò l’espansione territoriale
in Asia centrale, sia per avviarvi la coltivazione del cotone, sia per smaltirvi le eccedenze
produttive del mercato interno.
Intervento statale, industria e finanza Come altrove in Europa, anche in Russia la costruzione di
strade ferrate impresse una svolta all’economia. Iniziate da compagnie private; con il passare del
tempo il governo intensificò il suo intervento. Nel 1878 lo stato prese il controllo di numerose
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società ferroviarie e riscattò le compagnie più importanti. Dal 1881 al 1903 i tre ministri
succedutisi al Tesoro favorirono investimenti di capitale finanziario e tecnologico straniero,
promossero lo sviluppo d’infrastrutture e accentuarono il protezionismo doganale. Il governo
aumentò la pressione fiscale sui contadini per diminuire i consumi e stornare risorse destinate alla
costruzione d’infrastrutture viarie e all’impianto d’industrie. Poiché la manodopera rissa era
inefficiente e indisciplinata e i possidenti non erano interessanti a investire nell’industria, il
governo decise di ricorrere a imprenditori stranieri che padroneggiassero le tecniche più moderne:
alla manodopera abbondante ma inefficiente e indisciplinata, il governo sostituì il fattore capitale.
Dal 1890, lo sviluppo della grande industria si fece tumultuoso. Negli stessi anni una ditta belga
avviò la costruzione di uno stabilimento siderurgico modernissimo nel cuore del bacino carbonifero
in Ucraina. Il governo incoraggiò e sostenne anche le attività metalmeccaniche, che dal 1880 in
poi crebbe rapidamente fino a produrre telai automatici per le industrie tessili; grazie alla
formazione di cartelli il settore riuscì a espandere le esportazioni. Nel settore petrolifero e in
quello del credito, si crearono veri e propri trust. La crescita del ceto borghese produsse un
mutamento sociale soprattutto nelle città, nelle quali l‘artigianato tradizionale cominciò a
tramontare. Al finanziamento delle infrastrutture pubbliche e dell’industria privata parteciparono sia
i capitali esteri, inglesi e tedeschi, sia quelli nazionali: in alcuni settori la finanza estera dominava.
Dal 1870 in poi, la finanza russa incontrò crescenti problemi, e il basso gettito fiscale e il
ricorrente deficit di bilancio, non fecero che aggravare il processo inflazionistico. Nel tentativo di
mettere sotto controllo la moneta, anche la Russia, nel 1897 adottò il gold standard, e la
stabilizzazione del rublo funzionò come una svalutazione che allineò il valore interno della moneta
con quello estero. Fu così incoraggiato l’afflusso di capitali esteri investiti in titoli del debito
pubblico russo. I sensibili progressi ottenuti nel campo industriale non si diffusero nel resto
dell’economia, anzi il passare del tempo accentuò il contrasto fra tradizione e innovazione. Dal
1906, sempre più spesso il governo dovette controllare e reprimere movimenti rivoluzionari favoriti
dal malessere economico e sociale diffuso tanto nelle campagne quanto nelle aree industriali.
L’economia italiana (1861-1914) I problemi d’impianto del nuovo stato liberoscambista Nel 1861,
L’Italia era uno degli stati europei più densamente popolati. L’arretratezza socio-culturale è provata
dai moltissimi analfabeti, dai pochissimi italiani capaci di comunicare per iscritto nella lingua
letteraria, dagli alti tassi di mortalità infantile, da diete alimentari mediamente povere e squilibrate
e da un suffragio elettorale limitato. Rispetto a quella dei maggiori stai europei, l’economia
italiana era arretrata e depressa. Essa era divisa in molti mercati particolari e risentiva di alcune
caratteristiche sfavorevoli all’avvio di un processo di crescita industriale. L’agricoltura era tra le
meno produttive d’Europa: pochi suoli adatti alle coltivazioni, condizioni climatiche sfavorevoli,
arretratezza agronomica e mancanza di macchine e fertilizzanti chimici non garantivano nemmeno
l’autosufficienza cerealicola del paese. Il basso reddito assicurato dal dominante settore primario
impediva anche l’accantonamento di risparmi. Il paese era privo delle risorse naturali
indispensabili per l’impianto di una siderurgia moderna e per fare massiccio uso della macchina a
vapore. Negli anni ’60-’70, l’azione del governo a favore delle imprese fu relativamente blanda. I
politici e gli economisti italiani erano convinti che il paese non potesse che dedicarsi alle
produzioni agricole, da esportare in cambio di manufatti industriali. Dalla seconda metà degli anni
’70, l’agricoltura italiana subì l’assalto dei grani russi e statunitensi, a prezzi notevolmente inferiori.
Alla lunga, il riassetto dell’agricoltura più orientata al mercato, favorì un visibile incremento della
ricchezza prodotta nel settore economico dominante. Quali misure presero i governi italiani per
sostenere e favorire le attività industriali?
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L’unificazione del mercato nazionale fu la prima preoccupazione dei governi liberali della destra
storica. Dal 1862 fu realizzata l’unione monetaria prendendo a modello la lira piemontese a base
decimale. Nel dicembre del 1865 l’Italia aderì all’Unione Monetaria Latina, impegnandosi a coniare
monete d’oro e d’argento uniformi per titolo, peso e dimensione. Dal 1862 furono uniformati i
pesi e le misure adottando il sistema metrico decimale: si procedette a un paziente lavoro di
fissazione delle equivalenze delle centinaia di misure d’ascendenza medievale. Dal 1865 entrò in
vigore il Codice di commercio, in modo da regolare in maniera organica le relazioni commerciali e
la costituzione di società di persone e di capitali. Il 25% della spesa pubblica fu destinato alla
promozione e alla realizzazione di infrastrutture. Il primo caso d’intervento governativo a favore
di una singola impresa riguardò la Società Italiana delle Acciaierie Fonderie e Altiforni di Terni.
Fondata nel 1884, le furono garantiti finanziamenti bancari e commesse pagate anticipatamente
rispetto all’esecuzione degli ordinativi. La Terni ebbe seri problemi economici sia nel 1887 che nel
1893: in entrambi i casi il governo ne ripianò le perdite. Vi furono anche interventi pubblici
miranti a migliorare l’immagine estera del paese, con ricadute economiche di qualche peso.
L’esigenza di disporre una flotta da guerra favorì i cantieri navali nazionali. La politica fiscale della
destra storica mirò al contenimento dell’indebitamento pubblico. La spesa per ‘istruzione
elementare va equiparata a un grande investimento in infrastrutture.
Il sostegno all’industria nel periodo protezionista (1887-1914) Nella prima metà degli anni ’80, il
governo della sinistra promosse l’insediamento di società estere capaci d’assicurare produzioni
strategiche, e varò un piano decennale di aiuti alla cantieristica. Nel 1887 il Parlamento diede una
decisa sterzata protezionistica. Il maggior contributo alla crescita industriale italiana provenne dal
settore cotoniero: esso progredì quasi ininterrottamente fino al 1915, quando arrivò a lavorare un
volume di materia prima 11,5 volte superiore rispetto al 1875. Le barriere doganali a difesa della
filatura promossero l’insediamento in Lombardi di cotonieri svizzeri, francesi e tedeschi che
trasferirono macchinari e conoscenze. Sul mercato interno, la crescita del settore agricolo allargò il
consumo dei tessili a buon mercato e garantì una stabilizzazione della domanda di beni di massa.
L’adozione delle prime macchine, dei fertilizzanti chimici e di novità agronomiche, promosse un
netto incremento della produttività nelle campagne e una crescita dei redditi, dei consumi e dei
risparmi affidati alle banche. Dal 1896 produzione e prezzi presero a crescere sui mercati
internazionali con vantaggi per quei paesi, come il nostro, arrivati ultimi all’industria che pagavano
bassi salari. Il settore tessile fu ulteriormente rafforzato e tecnologicamente aggiornato: si affermò
la siderurgia del rottame, e l’elettricità divenne la forma energetica emergente, in concorrenza con
le macchine a vapore. La fondazione di due banche miste (Banca Commerciale Italiana 1894, e
Credito Italiano 1895) sostenne le maggiori società anonime industriali, sorte nell’alta Italia
occidentale fin dagli anni ’80, con aperture di credito, acquisto di azioni e di obbligazioni, oltre
alla partecipazione diretta di funzionari ai consigli d’amministrazione. Dagli ultimi anni dell’800, le
attività industriali presero un forte slancio soprattutto nelle periferie di Milano, Genova e Torino.
L’impiego di una crescente quantità di capitale produsse un raddoppio della produttività del lavoro
fra il 1870 e il 1913 e concentrò nelle tre regioni del nord-ovest dai due terzi ai tre quarti della
forza motrice installata nei 4 settori: tessile, meccanico, elettricità-gas-acqua, e meccanica
artigianale. Nel 1905 il governo decise di nazionalizzare quasi tutte le linee ferroviarie. Nel 1907
una crisi economica internazionale ebbe ripercussioni pesanti nel settore siderurgico e cotoniero:
era la prima crisi industriale italiana a soli 9 anni di distanza dall’ultima carestia. Nel 1911 la
Banca d’Italia costrinse i maggiori istituti di credito a organizzare il salvataggio dei due più
importanti gruppi siderurgici italiani. Nell’aprile del 1912 nacque l’INA (Istituto Nazionale
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Assicurazioni). Lo stato gestì anche direttamente la prima rete telefonica. L’economia italiana
rimase quasi immobile nel ventennio 1871-1891 e accelerò decisamente negli anni 1891-1911. Gli
anni della grande guerra (1914-1918), con la “mobilitazione industriale”, comportarono un’assidua
regolazione amministrativa delle oltre mille imprese che partecipavano allo sforzo di produrre
rifornimenti adeguanti. La P.A. avrebbe garantito le scorte di materie prime, le fonti energetiche e
la manodopera necessaria, che fu equiparata alle truppe arruolate. Nei febbrili anni della guerra,
le grandi imprese siderurgiche e meccaniche divennero colossi perché approfittarono di una
legislazione che prevedeva facilitazioni fiscali per i profitti reinvestiti in ampliamenti e in nuovi
impianti. La certezza dei margini di utile e la ristrettezza del mercato nazionale frenarono gli
investimenti in tecnologia, la creazione di organizzazioni manageriali complesse e di estese reti
commerciali. L’Italia uscì vittoriosa dalla guerra, ma con enormi disavanzi di bilancio statale e
debiti esteri ingenti, con prezzi più che quadruplicati, troppo cartamoneta in circolazione e
potenziali produttivi industriali largamente superiori alla più ottimistica capacità d’assorbimento
della domanda interna. L’agricoltura era in condizioni anche peggiori.
6.L’industria fuori d’Europa
La società e l’economia giapponese: dal feudalesimo all’industria Un paese chiuso in movimento
Nel 1639, l’impero del Sol levante chiuse i suoi porti alle navi europee. Fino al secondo ‘800, per
contro dell’imperatore, il potere politico fu ininterrottamente esercitato da un capo militare, lo
shogun, della nobile casata Tokugawa, preservando il paese da ogni influsso culturale, religioso e
tecnologico esterno e perpetuandovi un assetto sociale fondato sul feudalesimo e sulle caste. Tra
‘500 e ‘700 un quarto del Giappone apparteneva ai Tokugawa, il resto era suddiviso fra 247
famiglie feudali: i daymno, che esercitavano un potere assoluto nei rispettivi feudi, avendo diritto
di vita e di morte sui sudditi, che battevano moneta, prelevavano imposte e armavano eserciti.
Essi avevano al loro servizio i samurai : la nobiltà minore che forniva i quadri della burocrazia
amministrativa e padroneggiava l’uso delle armi. L’economia era basata sull’agricoltura e la base
della dieta era il riso; accanto ad altri cereali si coltivavano in particolare soia e tè. Nei tempi
morti dei lavori agricoli, i contadini residenti presso le coste si dedicavano alla pesca e quelli che
abitavano nell’entroterra, alla filatura e tessitura del cotone, della canapa e della seta.
Un’organizzazione analoga all’industria domiciliare europea metteva al lavoro i contadini fornendo
loro le materie prime e limitandosi a rifinire e a commercializzare i manufatti. Nelle città
operavano mercanti e artigiani riuniti in corporazioni a numero chiuso. Nelle campagne abitava la
gran massa della popolazione che deteneva la terra in semplice uso. L’appartenenza per nascita a
un ceto decideva i destini individuali, essendo vietato cambiare residenza e occupazione o
mestiere. Ai daymno e ai samurai era proibito commerciare. L?esistenza di numerosi centri
urbani densamente popolati fu un potente fattore d’evoluzione economica sociale. Nelle città,
infatti, durante il ‘700 i mercanti garantivano l’offerta di derrate agricole e di manufatti e i
banchieri prestavano a usura. Insomma, nonostante una politica improntata alla conservazione
dell’assetto sociale tradizionale, nel lungo andare i Tokugawa on riuscirono a evitare che, nelle
città come nelle campagne, prosperasse una borghesia orientata agli scambi e al credito,
mantenuta in condizioni d’inferiorità sociale e culturale nonostante controllasse una crescente
quota di ricchezza fondiaria e mobiliare. L’isolazionismo giapponese terminò nel 1853, quando gli
USA proponevano l’avvio di normali relazioni diplomatiche e commerciali. Gli americani, in effetti,
avevano bisogno di uno scalo tecnico in Giappone per arrivare fino in Cina, con la quale avevano
inaugurato una linea commerciale. Nel marzo 1854, lo shogun Tokugawa concesse agli statunitensi
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in diritto di risiedere e commerciare in due porti. Tra il 1854 e il 1859, sulla base del privilegio
concesso agli americani, altri paesi imposero al Giappone trattati commerciali analoghi. Nacquero,
di conseguenza, movimenti nazionalisti contro gli stranieri e contro lo shogun rimproverato di aver
leso la dignità nazionale. Nel novembre del 1864 l’imperatore fu costretto a firmare un trattato
che aboliva ‘autonomia doganale del Giappone fino al 1899 e che prevedeva un tetto massimo
del 5% per i diritti doganali applicati sul valore delle importazioni. Nel gennaio del 1867 il
quattordicenne Mitsuhito saliva al trono; all’inizio del 1868 egli proclamò la fine dello shogunato.
Subito scoppiò una guerra civile che portò alla vittoria i filo imperiali. Gli effetti del commercio
internazionale provocarono un crescente malcontento presso la popolazione. Le esportazioni
avevano fatto crescere i prezzi. L’uscita dal paese di grandi quantità di metallo giallo diminuiva la
massa monetaria pregiata e accresceva il peso relativo di quella divisionale d’argento e di rame,
aggiungendo inflazione a quella causata dal calo dell’offerta interna rispetto alla domanda.
L’avvio della modernizzazione Conclusa vittoriosamente la guerra civile, il giovane imperatore
stabilì la capitale a Tokyo e abolì le tradizionali strutture feudali. Dal 1871 cadde ogni distinzione
di ceto fra i sudditi. I daymno furono concentrati a Tokyo e il governo li tacitò con una pensione
annuale pari alla decima parte delle entrate che erano abituate a ricavare dai loro feudi. Anche i
samurai perdettero i loro privilegi e le funzioni militari in cambio di una piccola pensione. Il
governo favorì netti miglioramenti della produttività agricola inviando esperti all’estero a far
pratica dei metodi agronomici più aggiornati, fondando scuole agrarie. Dal 1880 al 1917, la
produzione risicola del paese crebbe fortemente e quella del grano raddoppiò. L’accresciuta
produzione di derrate agricole e di materie prime, permise di pagare le importazioni di tecnologia
per l’industria. Per di più, la neutralità mantenuta in occasione della prima guerra mondiale
assicurò ai prodotti giapponesi crescenti sbocchi esteri. L’obiettivo centrale del governo era
l’industrializzazione. Dal 1868 al 1880, lo stato finanziò in proprio le imprese. Il Giappone si
avvantaggiò delle esperienze tecniche maturate altrove, specialmente in GB e negli USA. Dagli anni
’70, il paese realizzò un’esperienza di politica economica per molti aspetti eccezionale. Il
tradizionale ceto fondiario divenne protagonista della finanza privata e le risorse pubbliche
indispensabili per procedere a investimenti infrastrutturali provennero dalla tassazione sui terreni.
L’introduzione della regola della trasmissione della terra a un solo erede per ogni generazione
stabilizzò le dimensione delle aziende agrarie favorendone la ricomposizione fondiaria, diede vita a
imprese artigiane e industriali nelle campagne e provocò l’inurbamento di rurali in cerca
d’occupazione fuori dal settore agricolo. Dal 1872, il governo diede grande impulso all’istruzione
primaria e dal 1886, la scuola dell’obbligo previde la frequenza di quattro annualità. Il governo
avviò anche attività industriali e bancarie. Nel 1869, fondò un’agenzia per il commercio estero che
faceva incetta di tè, seta e riso da vendere all’estero. Accanto a costoro, agirono però anche
uomini di livello sociale inferiore. Nonostante le numerose innovazioni istituzionali e
amministrative, il sistema di relazioni economiche e sociali continuò a essere imperniato sul
modello culturale della famiglia, con una felice sintesi di tradizione e di adattamento al moderno.
Fra tradizione e innovazione L’economia privata andò organizzandosi sulla base di società
finanziare in accomandita per azioni che controllavano un gran numero di imprese minori collegate
secondo il modello del clan familiare. La società madre era governata dal capo della famiglia
mentre gli altri componenti del gruppo si occupavano della direzione e dell’amministrazione delle
società minori. Si trattava del sistema chiamato Zaibatsu. Ne erano protagoniste famiglie di
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mercanti e burocrati tradizionalmente dediti alla gestione e amministrazione dei feudi la cui
mentalità era orientata al rispetto degli indirizzi governativi. Con il passare del tempo, otto grandi
famiglie giunsero a controllare metà di tutto il capitale investito: tre di queste detenevano la
quarta parte della ricchezza nazionale. Il modello di sviluppo giapponese coniugava un potere
finanziario altamente concentrato a un’elevata dispersione delle attività manifatturiere e industriali.
Fino a tutti gli anni ’30 del ‘900, fu evitata la concentrazione delle industrie nelle periferie
urbane e il conseguente malessere sociale e culturale da inurbamento di larga parte della
popolazione. Si verificò, inoltre, un graduale miglioramento del tenore di vita di larghi strati della
popolazione, e le tensioni sociali si attenuarono. Nel commercio internazionale, dopo una prima
fase durante la quale il paese esportò materie prime e prodotti agricoli, furono venduti all’estero
i manufatti tessili Solo dopo aver costruito una solida base industriale, il Giappone si lanciò nella
diversificazione delle attività. Nel arco di 40 anni, il nazionalismo imperialista giapponese condusse
tre guerre vittoriose nello scacchiere asiatico. La prima contro la Cina 1894-95, rese un’ingente
quantità d’oro; la seconda contro l’impero russo nel 1904-1905, impose il paese all’attenzione del
mondo, e la terza con l’invasione della Manciuria nel 1931m inaugurò il colonialismo del Sol
levante. La politica statale degli armamenti concorse allo sviluppo della siderurgia, della meccanica,
dell’industria cantieristica e dell’aeronautica. Tra il 1868 e il 1938, la crescita economica
giapponese ristagnò nel decennio delle guerre, ma successivamente fu continua e sostenuta.
L’economia giapponese moderna offre uno dei più riusciti esempi di sviluppo economico diretto
dal governo e dalla burocrazia pubblica. La prima e principale ragione del successo consiste
nell’avere accettato, senza complessi d’inferiorità culturale, il ruolo di paese economicamente
arretrato. La permanente capacità di apprendere, imitare, adattarsi e perseguire l’ottimo possibile
è il segreto del successo giapponese. Il processo di rapida modernizzazione avvenne senza
implicazioni ideologiche e su base eminentemente empirica, facilitato dalla proverbiale frugalità dei
contadini. La prevalenza del gruppo sul singolo, il valore riconosciuto alla cooperazione e
all’armonia piuttosto che all’antagonismo e alla rivalità, il rispetto ossessivo per le differenze di
rango e per i cerimoniali, l’importanza accordata alle relazioni personali, sono altrettante
testimonianze della tenuta di un mondo di relazioni e di valori ereditato dalla tradizione; un
mondo che non ha impedito al paese di diventare modernissimo senza tradire la propria identità
culturale.
Dalla sconfitta militare all’eccellenza economica Uscito sconfitto dalla seconda guerra mondiale, Il
Giappone rinunciò ad avere un esercito e intrattenne con il suo vincitore, gli USA, relazioni tanto
strette da diventare suo alleato nel 1951, e da imitare le tecniche di gestione aziendale. Di fronte
all’altissima concentrazione di proprietà industriali e bancarie, il comando americano occupante
stabilì rigorose regole per avviare una democratizzazione dell’economia: l’intento era eliminare gli
zaibatsu. Le holding furono dichiarate fuorilegge e suddivise in molte nuove imprese, le grandi
famiglie dovettero cedere il loro pacchetti azionari, che furono collocati presso il pubblico. Infine
attraverso imposte straordinarie sui patrimoni, le ricchezze familiari furono drasticamente ridotte. Il
governo invertì la rotta favorendo una ricomposizione degli antichi potentati senza tuttavia
eliminare un diffuso azionariato popolare. Al posto degli zaibatsu comparvero i Keiretsu, che
raggruppano in senso verticale e orizzontale aziende minori sotto l’egida di una grande impresa
dominante. Nel 1962 l’autorità parlamentare d’inchiesta sugli assetti appurò che le 156 aziende
“madri” controllavano in media ciascuna 16 società “figlie”. Dopo una fase di ristagno, dal 1914
al 1945, il volume del commercio mondiale quadruplicò dal 1953 al 1977. Con il passare del
tempo prevalsero i prodotti industriali ad alto valore specifico e il Giappone continuò ad
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accrescere la sua quota di esportazioni vendendo all’estero più di quanto importava, perché i suoi
prodotti avevano prezzi concorrenziali e perché il governo nipponico ha sempre adottato politiche
commerciali difensive, mantenendo bassi i consumi interni.
Il trionfo del diverso: l’economia statunitense
I difficili esordi Nel 1607 gli inglesi fondarono la prima colonia, la Virginia, di là dall’Atlantico. Un
più saldo controllo del territorio fu iniziato, però, solamente negli anni ’20. Gli insediamenti inglesi
si consolidarono attorno a Boston, NY e la Filadelfia dei quaccheri. Raggiunta l’indipendenza dalla
madre patria nel 1783, le colonie si diedero una costituzione nel 1787 e nel 1789 il primo
governo federale presieduto da G. Washington, cominciò a operare. Nel 1790 a popolazione
statunitense era dedita alle attività agricole, di pesca, trasporto e commercio marittimo ed
estrazioni minerarie. Alla fine del ’700, la flotta commerciale statunitense era seconda solo a
quella inglese e i celebri clippers americani frequentavano ogni porto del mondo. Cotone, tabacco,
riso e canna da zucchero erano i quattro prodotti dell’agricoltura di piantagione degli stati del sud
orientati all’esportazione. La diffusione della macchina sgranatrice di Eli Whitney moltiplicò
coltivazione e produzione. NY divenne il centro delle funzioni d’intermediazione, credito
assicurazione e trasporto marittimo. Fino agli anni ’40 dell’800, le officine e le botteghe
americane erano piccole imprese familiari, spesso attive nei tempi morti dell’agricoltura, simili a
quelle del’’artigianato domestico europeo. La precoce adozione di filatoi e telai idraulici favorì nel
tessile l’avvento della fabbrica integrata. Molti tecnici americani migliorarono i filatoi importati, in
modo da ottenete più prodotto nella stessa unità di tempo. Gli eccellenti rendimenti dei capitali
finanziari investiti nel cotonificio moltiplicarono le innovazioni e stimolarono la meccanizzazione di
ogni fase lavorativa. La mancanza di manodopera rurale, orientò gli industriali a adottare processi
di fabbricazione che facevano largo ricorso alle macchine per economizzare la forza lavoro. I
continui guadagni di produttività promossero l’accumulazione di capitale tecnico. La crescita della
domanda nell’ampliare le dimensioni del mercato fin dal primo ‘800 orientò l’industria verso la
produzione di massa, la standardizzazione e l’organizzazione delle fasi produttive in catena. La
suddivisione delle operazioni lavorative in un processo continuo e integrato, era comparsa fin dal
1872, con il celebre mulino di Oliver Evans. Nel quale una serie di automatismi trasformava il
cereale in sacchi di farina. Nel 1818, Eli Whitney, costruì le prime armi da fuoco leggere con
elementi standardizzati e intercambiabili. Specializzazione del lavoro, alta intensità di capitale
tecnico aiutarono all’avvio della meccanica delle armi, grazie anche alle commesse governative. Dal
settore delle armi, i metodi produttivi rimbalzarono nella metalmeccanica che produceva aratri,
seminatrici e trebbiatrici. L’occupazione nel settore primario, nell’arco di 40 anni, diminuì del 20%.
Negli anni ’40 dell’800, il mondo agricolo americano faceva già uso di utensili e macchine
prodotte industrialmente come aratri metallici, seminatrici, … Superata la fase autarchica, i coloni
producevano derrate da vendere a grossi mercanti e altri che le avrebbero trasferite sui mercati
orientali. I corsi d’acqua naturali e i canali scavati erano le vie maggiormente usate dai
trasportatori indipendenti che movimentavano i prodotti agricoli, il carbone e i metalli estratti
dalle miniere. L’economia statunitense della prima metà dell’800 rappresenta un caso particolare
d’avvio dell’industrializzazione perché le condizioni dei fattori economici risultano invertite rispetto
all’esperienza europea. La terra era così abbondante da essere ceduta gratuitamente o con
vendite all’asta a bassissimo prezzo dallo stato federale. Fattore sovrabbondante nel vecchio
continente, negli USA la manodopera continuò a essere così scarsa da orientare i sistemi
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produttivi verso un massiccio ricorso al capitale tecnico. A metà ‘800, lo spazio statunitense era
diviso in 3 aree:
1.Nord-est atlantico: specializzato nell’industria, nel grande commercio e nella finanza, oltre che
nell’agricoltura ortofrutticola e nel settore lattiero-caseario;
2. Ovest: i pionieri si erano spinti fino a una linea che andava dal Texas al Michigan, che si stava
specializzando nella produzione di cereali, mais e di carne da macello;
3.Sud: specializzato soprattutto nella produzione di cotone. Il nord-est vendeva i suoi prodotti
industriali all’ovest, il quale spediva le sue derrate agricole a sud via acqua. Quest’ultimo
esportava in Europa la maggior parte delle sue produzioni di piantagione. La costruzione di
ferrovie permise di collegare ancora più strettamente le tre grandi regioni economiche e mise in
relazione diretta le vaste pianure centrali produttrici di cereali, mais e carne con l’area industriale
altamente urbanizzata del nord-est.
Dal conflitto economico alla guerra di secessione La scoperta di ricche miniere d’oro in California,
nel 1848, accelerò l ritmo di immigrazione negli USA e quello di trasferimento verso ovest di
pionieri-coloni e di cercatori d’oro. La crescente disponibilità dell’oro ebbe 2 conseguenze sul
mercato americano:
1. Preferenza per l’oro come metallo di riserva, a garanzia della circolazione di cartamoneta
prodotta dalle banche;
2.Tendenziale incremento dei prezzi, sia dei prodotti agricoli sia di quelli industriali.
Tra il 1847 e il 1855 giunsero negli USA 300.000 emigrati all’anno e, dalla piazza di Londra,
affluirono capitali finanziari da investire soprattutto nelle grandi società ferroviarie che costruivano
tronchi di penetrazione verso ovest. Il conflitto tra gli interessi di alcune migliaia di latifondisti del
sud e gli interessi degli industriali, dei commercianti e dei banchieri del nord, esplose a proposito
della politica doganale, degli investimenti federali nei canali al nord e della questione schiavista. I
sudisti avversavano il protezionismo doganale favorevole alle industrie del nord perché avrebbero
potuto acquistare merci industriali a prezzi inferiori. Si opponevano alle spese federali per la
costruzione dei canali di collegamento fra le miniere del nord e i porti della costa alto-atlantica e
contrastavano l’abolizione della schiavitù proposta dai parlamentari nordisti. Gli instabili conflitti
portarono a una lunga guerra civile (1861-1865) che causò 600.00 morti e in occasione della
quale il potenziale industriale a disposizione di uno dei continenti si rivelò decisivo per il
successo: c’era un’enorme differenza di potenziale produttivo fra i due antagonisti. Per l’economia
nordista, la guerra fu occasione di formidabile crescita in ogni settore, agricoltura e allevamento
compresi; essa non cessò mai di crescere. Al contrario, l’economia dei confederati, imperniata
sulle piantagioni schiaviste, dipendente dalle esportazioni di materie prime e dalle importazioni di
manufatti industriali, priva di naviglio commerciale, povera di risparmi e di credito interno e
internazionale, entrò rapidamente in crisi. Gli stati del nord uscirono dalla guerra
economicamente rafforzata nella siderurgia, nella meccanica delle armi e delle macchine agricole,
nella conservazione dei cibi, nel lanificio e nella confezione di abiti e scarpe. Il sud, teatro di
aspri combattimenti, ebbe gravi distruzioni civili, fallimenti di banche e industrie, alti tassi
d’inflazione, perdite dei risparmi investiti in titoli del prestito pubblico e un’agricoltura in
ginocchio. L’impoverimento dei latifondisti ebbe durature e vistose conseguenze sulla distribuzione
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della proprietà fondiaria. Nell’arco di un ventennio, in tutto il sud, la superficie media delle
fattorie calò, mentre decine di migliaia di proprietari diretti coltivatori bianchi e di mezzadri neri
prendevano il posto nella manodopera schiava.
Verso imprese di grandi dimensioni Dal 1856 al 1914 lo sviluppo dell’economia statunitense
proseguì quasi ininterrotto contemporaneamente in tutti i tre settori: l’agricoltura e l’allevamento,
l’industria pesante, il terziario delle assicurazioni e delle banche, ma soprattutto dei trasporti
navali e ferroviari. In circa 80 anni, la popolazione crebbe di circa 6 volte, facendo del paese il
primo mercato di massa del mondo. La ricchezza mediamente disponibile per ogni cittadino
americano aumentò. La ricchezza mediamente prodotta da ogni persona economicamente attiva
crebbe sensibilmente. Il progresso tecnico e organizzativo riguardò ogni settore. L’introduzione di
tecniche di vendita innovativa accelerò la creazione di un mercato nazionale in continua
espansione perché la manodopera non cessava di crescere, soprattutto grazie all’immigrazione. La
macchina a vapore dal 1870 prese il sopravvento sull’energia idraulica e, dal 1869, la ferrovia
collegò le coste atlantiche a quelle del pacifico completando il processo di unificazione e
integrazione del vasto mercato nazionale. Da 1847 era iniziato lo sfruttamento commerciale del
telegrafo, che si rivelò decisivo nella diffusione di informazioni riguardanti prezzi, quantità e
movimenti delle merci. Vigendo un regime di concorrenza, il calo dei costi si tradusse in una
diminuzione dei prezzi , sicché la domanda aggregata aumentò. Negli USA, negli ultimi 30 anni
dell’800, l’avvento della fabbrica come organizzazione produttiva dominante fu favorito da un
complesso di fattori:
1.Offerta crescente del carbon fossile a basso costo;
2.Disponibilità di macchine a vapore sempre più potenti ed efficienti:
3. Possibilità di raggiungere un gran numero di mercati di sbocco senza limitazioni stagionali;
4.Capacità di comunicare e scambiare informazioni, anche a grande distanza, in tempi brevi
(telefono a fine ‘800);
5.Costante crescita della domanda interna.
Il settore economico più bisognoso di organizzazione, coordinamento e controllo degli uomini e
degli impianti era quello ferroviario a causa delle gigantesche dimensioni delle imprese, per la
forma di società anonima e per l’esigenza di gestire uomini e impianti dislocati entro una vasta
rete di unità operative interdipendenti. La gestione delle ferrovie pretese il ricorso a un’inedita
figura professionale: l’alto dirigente stipendiato e impegnato a tempo pieno. Gli ingegneri civili e
industriali cominciarono a essere identificati come i professionisti culturalmente meglio attrezzati
per svolgere il ruolo di dirigenti nelle grandi imprese a organizzazione complessa. L’adozione di
macchine a ciclo continuo, indusse le imprese a riversare sul mercato internazionale una parte
crescente della produzione. La vittoria dei nordisti, portò al raddoppio delle tariffe doganali dopo
la fine della guerra civile, così da riservare ai produttori nazionali il mercato interno sul quale
andavano peraltro dispiegandosi tecniche di vendita (marketing) innovative. Dai secondi anni ’70, i
cereali delle grandi pianure centrali raggiunsero i mercati europei a prezzi imbattibili; come
conseguenza, le esportazioni sopravanzavano le importazioni con vantaggio per la bilancia dei
pagamenti. Il mercato interno non era sufficiente ad assorbire i crescenti volumi dei prodotti
agricoli e industriali. Tra il 1880 e il 1910, l’economia statunitense seppe trovare sbocchi al’’estero
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per le proprie crescenti produzioni. Una vittoriosa guerra con la Spagna nel 1898 permise agli
USA di allargare la loro influenza diplomatica ed economica sulle filippine, su Guam, Portorico,
Cuba e Panama. Nell’ultimo ventennio dell’800, fusioni e incorporazioni di società causarono una
diminuzione del numero d’imprese. Nel 1888 con l’Interstate Commerce Act e nel 1890 con lo
Scherman Act , il Parlamento approvò alcune regole quadro che rendevano incostituzionale ogni
collusione fra le imprese volte a stipulare cartelli ma, stimolava la formazione di gruppi, holdings,
sempre più grandi. Nonostante l’iterazione di norme antitrust, per riuscire a spezzare due
giganteschi gruppi che controllavano l’offerta del petrolio e del tabacco, dovette intervenire la
Corte Suprema. La soluzione manageriale diveniva sempre più la modalità di gestione prevalente
presso le gigantesche imprese, e il coordinamento manageriale la tecnica organizzativa e gestionale
più idonea a trarre il massimo vantaggio dalle dimensioni.
7.La prima globalizzazione fra ‘800 e ‘900 La formazione di un mercato mondiale Nei 40 anni che precedettero lo scoppio della prima GM, l’Europa raggiunse il massimo potere economico, insieme rappresentato dal primato nella produzione di beni
industriali e dal dominio sul commercio internazionale. L’esistenza di un’imponente rete di trasporti in
Europa e nell’America settentrionale, accelerò il processo d’integrazione dell’economia mondiale avviato dalla Gran Bretagna a metà ‘800 con l’eliminazione delle dogane e la libera circolazione internazionale delle merci. Tra secondo ‘800 e primo ‘900, il trapianto di quasi 22 milioni di europei nelle Americhe, in Sud Africa e in Australia, diffuse un gran numero di potenziali consumatori di prodotti industriali. Tutte le zone
coloniali ricevettero forza lavoro dall’Europa meno progredita e capitale finanziario, tecnico, ingegneri e
operai specializzati dalle regioni economicamente più evolute. In Europa cominciarono ad affluire masse di
merci di relativamente basso valore specifico. L’abbattimento di noli marittimi sulle lunghe distanze.
L’apertura dei canali di Suez e Pana e la comparsa di navi frigorifere permisero alle terre più lontane di aggiungere alle tradizionali esportazioni di minerali ad alto valore intrinseco, grandi quantità di cereali,
farine e carni congelate: gli emigrati migliorarono, così, il loro tenore di vita abbastanza da divenire
acquirenti di manufatti industriali europei. Assistiamo allo sviluppo del commercio internazionale. I paesi
tropicali accomunati dalla bassa produttività agricola, mobilitarono le loro risorse più abbondanti e meno
costose (terra e manodopera) specializzandosi in una sola merce la cui domanda era in rapida crescita.
L’integrazione del mercato globale comportò un livellamento dei prezzi dei coloniali e la scomparsa della pluralità di produttori dislocati nei viversi continenti che aveva contraddistinto l’economia coloniale del ‘600-‘700. Gli USA divennero i maggiori esportatori mondiali di cotone e tabacco e per alcuni decenni furono quasi monopolisti del mercato internazionale del grano,e, il Giappone, di seta e tè.
Guerre doganali e rivalità tecniche e commerciali L’aumento dell’offerta in Europa di derrate agricole di base a prezzi nettamente inferiori, in un mercato effettivamente aperto avrebbe dato origine a
un’inevitabile quanto pronta riorganizzazione delle coltivazioni. Dagli ultimi anno ’70, gli agricoltori
dell’Europa occidentale riuscirono ad evitare di dover procedere a radicali riconversioni ottenendo dai governi energiche difese doganali. L’introduzione e l’inasprimento di tariffe, innescò una reazione a catena di conflitti commerciali fra paesi europei, che in qualche caso sfociarono in vere e proprie guerre doganali.
Solo la Gran Bretagna rimase fedele al dogma liberoscambista perché l’opinione pubblica inglese non accettava l’idea che i prezzi dei beni alimentari potessero aumentare. Le regioni dell’impero britannico,
prive di autonomia, non poterono che allinearsi alla madrepatria, sicché andò formandosi un duplice
mercato internazionale: quello inglese, improntato sul libero scambio, e quello dei paesi in via
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d’industrializzazione, contraddistinto da regimi doganali che disincentivavano gli scambi e favorivano le
relazioni commerciali preferenziali con partner ai quali erano legati anche da affinità politiche e
diplomatiche. La fede inglese al liberoscambio fece sì che s’invertisse la corrente di importazioni ed
esportazioni di manufatti industriali da e verso i paesi dell’Europa continentale. I consumatori inglesi beneficiarono dei prezzi più bassi, ma l’apparato produttivo del paese incontrò crescenti ostacoli nel conservare le dimensioni e le posizioni acquisite durante il trentennio liberoscambista (1843-1873). Dalla
fine dell’800, insomma, nell’Europa continentale e negli USA il nazionalismo economico prevalse sul liberalismo concorrenziale.
Qual era il ruolo degli stati nell’opera di sostegno e di promozione dello sviluppo delle economie nazionali?
I governi non potevano disinteressarsi del finanziamento di basilari infrastrutture, della promozione di
un’essenziale struttura industriale e dell’industria pesante. Nel medesimo tempo era indispensabile
attenuare il disagio indotto dall’avvento dell’industrializzazione nei settori tradizionalmente meno efficienti, come l’agricoltura e commercio al dettaglio. Il diffuso irrigidimento doganale ebbe l’effetto di stimolare i maggiori gruppi produttori di beni a superare gli ostacoli commerciali aprendo stabilimenti
all’interno dei paesi protezionisti. In tal modo si trasferirono capitali finanziari e tecnologie e si diede vita a gruppi multinazionali che avviarono imprese ad alta tecnologia là dove, spontaneamente, non sarebbero
sorte. L’avvento di processi e la realizzazione di prodotti ad alto contenuto tecnico alimentarono la rivalità tra paesi europei che esportavano in concorrenza con la Gran Bretagna. Dopo aver umiliato la Francia, la
Germania strappò alla Gran Bretagna il primato industriale in Europa a cominciare dalla siderurgia
dell’acciaio. Per la Gran Bretagna un altro fattore di crisi provenne dalla formazione di un mercato globale del carbone. Venivano, così, meno le condizioni che avevano lungamente permesso all’economia inglese di sopportare i costi più bassi per produrre energia e calore. Inoltre, la concentrazione delle esportazioni
inglesi principalmente sui due settori del carbone e dei tessuti di cotone, impediva di applicare ai rispettivi
processi produttivi innovazioni tecniche capaci di abbattere consistentemente i costi. Nella chimica
industriale la Germania vantava un altro netto vantaggio competitivo rispetto alla Gran Bretagna, derivante
dall’esistenza in quel paese di numerose istituzioni culturali e scientifiche d’alto profilo, fatto che, insieme a ricerche e finanziamenti ingenti, permise alla chimica organica di svilupparsi secondo ritmi che non avevano
paragoni in Europa e di imporre sul mercato internazionale i suoi brevetti e i suoi prodotti. La tradizionale
preferenza inglese per un apprendimento realizzato sul campo, impedì o ritardò la creazione nell’isola di grandi industrie a elevato tenore tecnologico e dirette da manager. L’Inghilterra conservò la propria posizione di primato nella cantieristica e nei servizi finanziari, bancari e assicurativi concentrati a Londra, la
prima piazza finanziaria del mondo. Gli USA, anch’essi in ascesa, ebbero un impatto meno violento sugli equilibri del commercio internazionale perché riversarono la maggior parte delle proprie energie finanziarie
e industriali su due frontiere interne: la conquista dell’Ovest e la rapida crescita della popolazione urbana lungo la costa orientale. Visto dall’Europa, il giovane gigante americano era soprattutto il granaio del
mondo che riforniva di cereali tutti quei paesi europei e asiatici bisognosi di approvvigionamenti. Dall’inizio del ‘900, crescenti quote della produzione statunitense di grano, carne, cotone e tabacco furono assorbite dal mercato interno, con un inevitabile ridimensionamento delle esportazioni. La tradizionale attitudine del
paese a sostituire le importazioni di manufatti esteri con prodotti nazionali di pari qualità e minor prezzo
rallentò la crescita del volume d’interscambio con l’estero e contribuì allo sviluppo di settori industriali
nuovi, come l’elettromeccanica, la chimica organica e dei coloranti. Crebbero, per contro, le importazioni di materie prime industriali come lana, seta, gomma, cuoio e pelli. Rispetto a quelle inglesi, le esportazioni
statunitensi aumentarono molto di più soprattutto per due ragioni:
1.Perché si trattava di prodotti il cui consumo mondiale stava crescendo;
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2.Perché finivano sui mercati di quei paesi che avevano uno sviluppo economico superiore alla media
La concorrenza americana causò una caduta dei prezzi, dei redditi e del potere d’acquisto di contadini e agricoltori tradottosi in un ripiegamento della domanda di concimi e macchine agricole.
Alle origini del SOTTOSVILUPPO: il secondo colonialismo La superiorità di strumenti tecnici e concettuali,
assieme alla superiore arte della guerra, del governo e del credito, dal 1400 permisero agli europei di
stabilizzare il loro dominio su popolazioni di altri continenti. Alla lunga, i bianchi prevalsero ovunque
affermando la loro superiorità tecnica e concettuale mediante il diritto, il potere e l’organizzazione. Attorno al 1760, quando l’Inghilterra muoveva i primi passi verso l’industria, le popolazioni dei diversi domini coloniali ammontavano a 27 milioni di abitanti, mentre l’Europa ne contava già 130. Nel 1830, quando la decolonizzazione di gran parte delle Americhe aveva ridotto a un terzo la superficie del dominio coloniale
europeo, le popolazioni colonizzate superavano quelle europee (senza la Russia). Tra il 1760 e il 1938
l’assetto coloniale subì una doppia trasformazione: l’America cedette il suo primato d’area coloniale all’Asia. Analogamente, nel 1830, il primato del controllo dei bianchi sul resto del mondo passò dalla Spagna al Regno Unito. Anche il Portogallo non era più una potenza marittima e commerciale. Alla vigilia
della prima GM, le merci importate in Europa ammontavano a 20 milioni di tonnellate (50 volte i
quantitativi del 1790). Tra il 1830 e il 1912, mentre la R.I. si diffondeva nella vecchia Europa, negli USA e in
Giappone, la dinamica dei trasferimenti tenne ritmi sostenuti e subì una straordinaria accelerazione nei
primi dodici anni del ‘900. Tre processi condizionarono la diversificazione dei prodotti importati dalle
colonie:
1.La progressiva industrializzazione europea ne rese quasi impossibile l’esportazione dalle colonie e creò le premesse di un’inondazione in periferia di prodotti industriali europei e nordamericani; 2.L’innalzamento sensibile dei tenori di vita degli europei moltiplicò gli sbocchi per l’offerta di quei prodotti tropicali fino ai primi dell’800, percepiti come beni di lusso esotici; 3.L’abbattimento progressivo dei costi di trasporto sulle lunghe distanze rafforzò le due tendenze ricordate.
Nessun paese non occidentale, a parte il Giappone, riuscì ad avviare un processo di sviluppo economico
prima del 1960, quando le “quattro tigri” asiatiche (Hong Kong, Corea, Taiwan e Singapore) misero in moto uno sviluppo così rapido che, nel 1980 ormai rientravano tra i paesi economicamente avanzati.
Come spiegare la durevole condizione d’arretratezza economica del Terzo Mondo (ex - coloniale) a
sessant’anni dall’avvio della decolonizzazione (1947)? Innanzitutto, la diffusione delle innovative tecniche agricole inglesi nel sud del mondo fu ostacolata da
condizioni climatiche assai diverse: è stato più semplice ambientare in Europa riso, mais e patata che
diffondere altrove il frumento. Per di più, la bassa densità della popolazione stanziata nelle campagne
europee favorì l’adozione di macchine che aumentarono la produttività delle coltivazioni. Le politiche economiche adottate dai governi metropolitani non cessarono di favorire la produzione di semilavorati e di
prodotti agricoli che è impossibile coltivare nelle zone temperate. Infine, quattro limitazioni
contraddistinsero ovunque le relazioni commerciali fra colonia e madrepatria:
1.I prodotti coloniali erano esportabili solo nella madrepatria, che a sua volta poteva riesportarli;
2.Nella colonia le importazioni di merci e servizi potevano venire solo dalla madrepatria;
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3.Nella colonia era vietato produrre materie prime e manufatti in concorrenza con quelli della madrepatria;
4.Le relazioni commerciali, creditizie e di trasporto tra colonia e madrepatria erano riservate alle imprese
metropolitane.
8. Da una guerra all’altra (1914-1945)
L’Europa nella prima guerra mondiale La grande guerra (1914-1918) alterò i regimi politicoistituzionali, modificò gli assetti sociali, coinvolse le economie, incise pesantemente sugli assetti
demografici, alterò i rapporti di forza fra i partiti ed ebbe conseguenze persistenti sulle mentalità
collettive e sulle ideologie. L’intesa (Serbia, Russia, Francia, Inghilterra e Belgio) cui si aggiunsero
Italia (1915) e Stati Uniti (1917), fronteggiò gli imperi centrali: Austria - Ungheria e Germania e
dal 1917 quello Turco ottomano. Il prolungarsi del confronto e la mobilitazione generale di risorse
umane e materiali accrebbero la domanda di armamenti , esplosivi, proiettili, mezzi di trasporto di
terra, navi, aeroplani, abbigliamento militare, calzature, materiale sanitario, medicinali, bendaggi e
razioni alimentari per le truppe: emerse l’esigenza, con il prolungarsi del conflitto, di predisporre
adeguati rifornimenti per i fronti. Gli ammassi obbligatori delle derrate agricole, il razionamento
dei generi alimentari, il contingentamento d’importazioni ed esportazioni, la requisizione di mezzi
di trasporto, la nazionalizzazione delle risorse energetiche, allargarono la sfera normativa e
amministrativa delle istituzioni pubbliche centrali e periferiche sull’economia. Iniziò, accanto alla
guerra combattuta sul fronte, anche una guerra economica tendente a colpire il nemico nelle sue
strutture produttive e nei rifornimenti all’estero di materiali energetici e di beni alimentari.
Germania e Austria – Ungheria furono isolate dall’embargo degli alleati. La Germania replicò con
la guerra sottomarina.
Le conseguenze demografiche Decine di milioni di uomini presero parte al conflitto. La guerra
moltiplicò i decessi e limitò i concepimenti. Sui fronti morirono 9 milioni di soldati e 20 milioni
furono gli invalidi e i mutilati, oltre alle 6 milioni di vittime civili. Alla fine della guerra
mancavano all’appello 28 milioni di persone. Alla già grave situazione si aggiunse una terribile
epidemia influenzale: la “spagnola”. Le perdite subite in vari modi dalla popolazione, furono, tra
il 1914 e il 1921, attorno i 56 e i 60 milioni di individui.
Le conseguenze politiche I quadri politici tradizionali furono sconvolti e un po’ ovunque i
movimenti operai contestarono sia i tradizionali assetti sociali, sia la proprietà privata. I nuovi
stati sorti in europeo dopo lo smembramento dell’impero austro-ungarico e parte del russo, non
disponevano né di personale politico, né di solidi ceti dirigenti borghesi. Mancavano quadri sociali
che si interponessero fra la ristretta cerchia dei grandi agrari nobili e la massa indistinta di
contadini discendenti dai servi della gleba. I livelli di analfabetismo e disoccupazione erano
altissimi e manca una pubblica opinione. Le istituzioni parlamentari funzionavano male e
facilmente furono spazzate via da regimi autoritari. I movimenti conservatori e nazionalisti
guadagnarono una larga base popolare. Fra il 1920 e il 1930, il liberalismo parlamentare fu in
vario modo scalzato e sostituito da regimi autoritari e dittatoriali. Gli unici paesi che non subirono
notevoli cambiamenti furono quelli del nord europeo e dell’area baltica: Olanda, Belgio, Francia,
Gran Bretagna e le monarchie Scandinave. Le conseguenze sociali Le conseguenze sui rapporti
politici e sugli assetti sociali furono enormi. Apparve una figura inedita: l’ex combattente reduce.
Quel numeroso gruppo di persone era animato da orgoglio e fierezza, da acceso nazionalismo,
fedeltà alla memoria dei compagni caduti, ostilità verso le divisioni partitiche, disistima verso la
classe politica e i sistemi parlamentari. I reduci trovarono una società ben più polarizzata di quella
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prebellica: nuovi ricchi e una maggioranza delle vittime degli effetti economici della guerra.
Costoro avevano sopportato pesanti tagli del potere d’acquisto dei loro redditi e del valore stesso
dei titoli. Nemmeno il mondo rurale fu risparmiato dalle conseguenze economiche della guerra.
Quanti erano considerati marginali, scioperati, fannulloni, nella nuova veste di reduci, cominciarono
a premere sui partiti politici portando alla ribalta l’inedita questione economica e sociale della
disoccupazione.
Le conseguenze economiche Le distruzioni d’infrastrutture, edifici civili, impianti industriali e di
scorte di merci si concentrarono soprattutto nelle regioni ad alta densità industriale teatro degli
scontri. Secondo calcoli accurati, le materie prime, i capitali e il lavoro sprecati e distrutti nella
grande guerra ammontarono alla ricchezza che, in condizioni di pace, l’Europa avrebbe potuto
produrre in 3-4 anni. Alle distruzioni bisogna aggiungere l’abbandono o la perdita degli
investimenti esteri. La Gran Bretagna sopportò grandissimi danni alla flotta mercantile e cedette
parte dei suoi investimenti esteri per finanziare lo sforzo bellico. Anche i francesi perdettero gli
investimenti esteri, ma gli svantaggi maggiori si concentrarono soprattutto nel settore del debito
pubblico e delle partecipazioni azionarie in quei paesi, dove avvennero radicali trasformazioni
istituzionali. Bisogna considerare, inoltre, che i governi finanziarono le ingenti spese belliche in
parte con una nuova moneta cartacea, che accrebbe la massa fiduciaria esistente causando un
processo inflattivo fuori controllo, e in parte con il ricorso all’emissione dei titoli del debito
pubblico largamente sottoscritti dalle banche. In condizioni davvero difficili erano Germania,
Austria, Francia, Belgio e Italia. Per i governi, la pace portò con sé il pesante fardello delle
pensioni a favore di orfani e vedove dei caduti. L’erogazione di indennizzi e sussidi pretese
un’organizzazione burocratica senza precedenti. La corresponsione di pensioni ebbe un peso
rilevante e concorsero a rendere ancora più difficile il ritorno a pareggio fra entrate e uscite.
Nel caso dei tre imperi sconfitti, gli oneri derivanti da interessi del debito pubblico e pensioni si
aggiunsero alle riparazioni o danni di guerra importi soprattutto alla Germania.
Il difficile ritorno alla normalità Finita la grande guerra, in Europa il rapporto fra stato e imprese
private mutò profondamente: il ritorno a condizioni di pace fu lento e graduale. I problemi
comuni a tutti gli stati usciti dalla guerra erano:
1.Ricostruire le infrastrutture e il capitale tecnico distrutti o danneggiati;
2.Gestire i debiti di guerra interni e internazionali e le riparazioni dei paesi sconfitti;
3.Rientrare dall’inflazione, ricostruire le riserve d’oro e di valute estere convertibili in ora in modo
da ritornare alla base aurea della moneta e da ripristinare il gold standard;
4 Ridurre l’eccesso di capacità produttiva in alcuni settori industriali enormemente cresciuti durante
il conflitto;
5.Attenuare la dilagante disoccupazione, reperire risorse per corrispondere sussidi pubblici ai reduci
di guerra invalidi;
6. Limitare le importazioni troppo costose, tenuto conto dell’inflazione. Nell’immediato dopoguerra,
ci si illuse di tornare in breve al dinamismo economico dei primi tre lustri del ‘900, quando la
produzione era stata costantemente in crescita e gli scambi internazionali avevano continuato a
lievitare. Da paesi strutturalmente esportatori di beni, la guerra ridusse Gran Bretagna e Francia
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alla condizione di debitori, mentre gli USA, divenuti il primo paese esportatore di beni e di
servizi, assunsero il ruolo di massimo creditore. L’effetto più dirompente venne, però, dalle misure
di limitazione e di quotazione prese dal governo USA a partire dal 1921, che vennero presi tra il
1923 e il 1925 anche da Canada e Australia. Per tutti gli anni ’20, solo l’America continuò ad
accogliere emigranti come prima della guerra. In Europa, il ritorno dell’agricoltura e dell’industria a
condizioni produttive analoghe a quelle prebelliche, non fu né semplice né rapido. Il lento e
stentato ritorno a standard produttivi simili, che avevano sensibilmente accresciuto le rispettive
esportazioni, favoriti dall’esigenze delle nazioni belligeranti di rifornirsi e dal simultaneo calo
dell’offerta di manufatti dei maggiori paesi industriali impegnati nella guerra. Le relazioni
internazionali erano complicate anche dall’enormità dei debiti interalleati di guerra:il principale
debitore era la Francia, poi Italia e Belgio. Le riparazioni addossate alla Germania erano di 33
miliardi di dollari, con annualità proibitive; nel 1923 fu ristrutturato e dilazionato, anche se
l’inflazione proseguiva inarrestabile. Negli anni ’20, lo sviluppo tecnologico e la diffusione dei
moderni processi costruttivi allargarono l’offerta sul mercato mondiale. Sorsero rivalità e tensioni
fra vecchi e nuovi sistemi produttivi, tanto sui mercati interni quanto su quello internazionale. Gli
USA favoriti da quella congiuntura, ma anche il Giappone ne approfittò per compiere vistosi
progressi tecnologici e divenire un serio concorrente su molti mercati esteri periferici riforniti dagli
europei fino al 1913. Con il deprimere le importazioni e con lo stimolare il nazionalismo
economico, la guerra ridusse la domanda internazionale di manufatti tradizionalmente provenienti
da alcune precise aree produttive. Nel biennio 1925-26, dappertutto i processi si ricostruzione
economica erano pressoché completati e il commercio internazionale era in ripresa; quasi ovunque
in Europa, però, la ricchezza pro capite era ancora inferiore a quella del 1913. Non a caso, i
paesi che dal 1919 al 1928 realizzarono i maggiori tassi di crescita del PIL furono quelli neutrali.
La grande crisi degli anni ‘30 Fra il 24 e il 29 ottobre del 1929, la borsa di NY subì un crack.
Il crollo dei corsi dei titoli mentre nel paese c’era un boom di consumi di beni, causò i primi
fallimenti di agenti di cambio e banche che avevano prestato ai clienti dollari per speculazioni
borsistiche, mentre il costo del denaro cresceva notevolmente per scoraggiare le speculazioni a
breve. Molte imprese industriali persero più della metà dei capitali investiti, con conseguenze
gravissime sull’equilibrio finanziario. Dai primi d’agosto del 1929, i prezzi all’ingrosso delle materie
prime minerali e agricole avevano cominciato a scendere su tutte le maggiori piazze internazionali.
Il calo dei prezzi delle merci importate negli USA accelerò quello delle merci interne, inducendo le
imprese industriali a corto di liquidità a vendere le scorte di materie prime. La consistente
crescita dell’offerta, a prezzi costantemente in calo, e l’attendismo della domanda avviarono una
spirale involutiva che causò una netta diminuzione del volume degli affari. Le prime misure
anticrisi prese dal governo per emettere liquidità nel sistema economico consistettero nel
riacquisto di 370 milioni di dollari di titoli del debito pubblico assieme all’abbassamento del tasso
ufficiale di sconto dal 5% al 4,5%. Nei primi mesi del 1930, il presidente Hoover ridusse la
pressione fiscale per stimolare la domanda e varò una tariffa doganale protettiva, che innescò
ritorsioni da parte dei paesi esportatori di merci in America. Il prezzo del grano era dimezzato,
gettando nella crisi più nera il mondo rurale statunitense che aveva ancora un peso notevole
nell’economia e nella politica nazionale. La percentuale di disoccupati dal 3,7% del 1929 era
passata al 24,9% 1933. Il crollo della borsa americana contagiò le piazze europee. Dai primi mesi
del 1930 si ebbero insolvenze e fallimenti a catena. I numerosi licenziamenti causarono un crollo
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della domanda dei prodotti industriali e un progressivo calo dei prezzi. A una decina d’anni dalla
fine della guerra, sotto la pressione dell’opinione pubblica, istituzioni e meccanismi a suo tempo
per fronteggiare le emergenze belliche furono ripristinati nell’intento di contrastare una crisi senza
precedenti nella storia economica mondiale perché deflazione e disoccupazione non si erano mai
presentate insieme per un periodo così lungo. Contemporaneamente calavano le entrate fiscali e
cresceva la spesa pubblica per indennità di disoccupazione. Il capovolgimento da paese creditore a
paese debitore mise in crisi la fiducia nella sterlina come stabile mezzo di pagamento
internazionale. Il calo di valore della maggiore valuta internazionale colpì gli interessi di quei paesi
che avevano anche riserve in sterline (Gold Exchange Standard ). La situazione divenne insostenibile
e il 21 settembre 1931 il governo inglese decise di sospendere la convertibilità in oro della
sterlina. Era la fine del gold standard . Cinque mesi dopo, il Parlamento inglese ripristinò le Corn
Laws, abrogate nel 1846. Era la fine del liberoscambismo. 25 paesi seguirono la sterlina nel suo
ribasso. Per tutti gli altri fu, di fatto, una rivalutazione delle rispettive monete dell’ordine del 40%,
con effetti depressivi sui prezzi interni che continuarono a diminuire. Negli USA i prezzi delle
materie prime subirono cali oscillanti fra il 10%e il 34%. Il 20 aprile del 1933, F. D. Roosevelt
svalutò il dollaro senza sganciarlo dall’oro e avviò una politica economica e sociale dirigista,
chiamata New Deal , che introdusse misure in materia di disoccupazione, anzianità, casa mutua
malattia, orario di lavoro, salario minimo, lavoro minorile, prelevano risorse dalla tassazione dei
grandi patrimoni. Le misure anticrisi all’epoca adottate nei diversi paesi furono:
1.L’abbandono del gold standard e la svalutazione della moneta;
2.L’avvio di grandi lavori pubblici ad alto impiego di fattore lavoro;
3.Controlli dei cambi per evitare deficit della bilancia dei pagamenti e cali del potere d’acquisto
internazionale delle monete nazionali;
4.Tariffe doganali più alte;
5.Politiche orientate allo sfruttamento autarchico delle risorse nazionali e dei prodotti del paese;
6.Trattati commerciali con i maggiori partner allo scopo di contingentare i generi e i valori.
Dal biennio 1933-34, alcuni governi, avviando un’intensa politica di rinnovo e ampliamento degli
armamenti, sostennero i settori siderurgico, cantieristico, metalmeccanico, automobilistico e
aeronautico.
Le politiche economiche e sociali in alcuni paesi europei In Gran Bretagna, dal 1934 il governo
intervenne a sostegno dei settori minerario, cotoniero e dei cantieri navali. Dal 1937 furono offerti
incentivi alle imprese che s’installavano in aree economicamente depresse. Furono promosse
costruzioni immobiliari, piani regolatori urbani e di sviluppo di nuovi centri. In Francia, il governo
mantenne il gold standard e tentò una politica di deflazione controllata. Il ribasso dei prezzi fece
aumentare i disoccupati e calare i profitti, mentre i costi di produzione erano il lenta discesa. Gli
agricoltori furono i più colpiti dal ribasso dei e dalla perdita dei loro risparmi per fallimento di
molte banche locali. Con la vittoria del fronte popolare si abbandonò la parità aurea, svalutò il
franco e avviò opere pubbliche. Nel 1937, per effetto delle misure governative, fu raggiunto il
pieno impiego della forza lavoro. La Svezia non ricorse al protezionismo, né attivò pratiche
monetarie deflattive. Il governo regolò la spesa pubblica per controbilanciare le fluttuazioni
dell’economia. Nel 1933 quasi un quarto dei disoccupati aveva un impiego statale sostitutivo.
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Furono varati lavori pubblici lanciando prestiti redimibili. Dopo il 1935, i lavori pubblici furono
ininterrotti e i prestiti rimborsati accrescendo la liquidità a disposizione del sistema. Il basso costo
del denaro favorì l’edilizia abitativa e gli investimenti migliorativi nelle industrie. La ripresa delle
esportazioni di prodotti industriali fece da traino all’economia generale. La Svezia fu il primo
paese ad applicare un’attiva quanto efficace politica economica anticiclica: la miscela di misure più
efficaci fu escogitata e messa in atto in Svezia. I regimi totalitaristi accrebbero il reddito pro
capite ad un ritmo compreso tra il +4,4% e il +4,6% l’anno. Lo stesso Giappone realizzi nel
decennio 1929-1938 un tasso di crescita da decollo industriale. Tra i paesi europei industrializzati,
solo la Gran Bretagna non smise di crescere nonostante le difficoltà e le contrarietà interne e
internazionali.
I totalitarismi (1917-1945) Dopo la prima GM, l’itinerario politico verso la democrazia fu arrestato
in molti paesi dall’eliminazione dei partiti e dalla presa del potere da parte di un solo partito
politico. Il totalitarismo, come esperienza comune al comunismo sovietica (1917), al fascismo
italiano (1922) e al nazionalsocialismo (1933), fu un tragico esperimento di dominio politico
attuato da un partito rivoluzionario guidato da un capo carismatico che instaurò un regime a
partito unico, fondato sul terrore e sulla demagogia populistica, assoggettò la popolazione
irriggimentandola in organizzazioni proprie e impose la propria ideologia come una religione
politica di massa. Ogni regime totalitario presenta sei elementi distintivi:
1.Il partito e la sua ideologia;
2.L’assoggettamento e il controllo delle forze armate;
3.L’organizzazione di una polizia segreta e la repressione/eliminazione fisica degli oppositori:
4.La propaganda insistita, la censura e il controllo dei mass media;
5.Il culto della personalità del capo, identificato come eroe-dio mitico;
6.Il controllo dell’economia attraverso una politica economica dirigista e/o di pianificazione che
limita e programma l’economia di mercato o la sostituisce del tutto con una gestione burocratica
delle relazioni economiche interne e con l’estero.
Nell’ottobre del 1917, quando scoppiò la rivoluzione a San Pietroburgo, la Russia conservava una
struttura sociale arcaica e un’agricoltura tradizionale e arretrata. Nel grande paese si erano
sviluppate solo le infrastrutture pubbliche e la grande industria con capitali esteri. Al principio, i
bolscevichi si limitarono a istituire consigli operai con lo scopo di controllare le decisioni operative
degli imprenditori. Le reazioni di questi ultimi, nel 1918, indussero Lenin a nazionalizzare le
banche, le grandi industrie, le imprese che commerciavano con l’estero e a cancellare l’ingente
frazione del debito pubblico ereditato dallo zar in mano a investitori esteri. Il partito optò per
uno sfruttamento collettivista dei suoli appartenenti alla borghesia e alla nobiltà. Per sopprimere il
mercato, il governo organizzò ammassi pubblici dei prodotti di base e ne impose la distribuzione
in natura, con effetti pratici catastrofici. L’economia andò incontro a una totale paralisi anche
perché era in corso una guerra civile, sicché il governo fu costretto fu costretto a rivedere
radicalmente la sua politica economica. Introdotta da Lenin nel 1921, la nuova politica economica
(NEP) ripristinò la proprietà privata contadina e quelle delle imprese industriali che impiegava fino
a venti addetti. Fu ripristinato l’uso della moneta e permesso ai piccoli produttori artigianali e
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contadini di vendere i loro prodotti direttamente. La NEP ebbe successo. La produzione crebbe.
Nelle campagne, l’emergere di una classe di contadini arricchiti dalla produzione per la vendita, i
kulaki , fu visto dal governo come segnale del ritorno dell’odiato capitalismo. Dal 1928, Stalin
abbandonò la NEP e decise la socializzazione del commercio e la collettivizzazione delle terre,
ingaggiando una lotta senza quartiere con i kulaki. Nei primi 30 anni, la liquidazione dei kulaki
come “classe” procedette senza soste né pietà, causando molti milioni di morti. Nella Russia
rurale divampò una vera e propria lotta contadina che innescò feroci repressioni da parte
dell’esercito, e dal 1933 indusse Stalin a rallentare il ritmo della collettivizzazione dei suoli. Nel
1928, fu inaugurata, inoltre, la politica di pianificazione economica sistematica della produzione e
distribuzione della ricchezza, poi proseguita fino al 1957. La politica di piano era ispirata a tre
principi generali:
1.Lo spirito di partito;
2.Il centralismo democratico, che prevedeva una divisione di responsabilità fra centro e periferia;
3.Il principio settoriale: ogni impresa statale dipendeva da un ministero tecnico, secondo la natura
della produzione.
Nel 1930 si procedette alla collettivizzazione della terra completata in 10 anni. Da quel momento
comparvero i kolkoz, le grandi fattorie cooperative, e i sovkoz, le fattorie statali. Le aziende
industriali governative, dalla fine degli anni ’30 furono raggruppate in trust, che comprendevano
le imprese appartenenti al medesimo settore produttivo oppure in Combinat che integravano
verticalmente le aziende. Le aziende commerciali erano di due generi: i negozi di stato e le
cooperative di consumo. Le cooperative agricole ricevevano dallo stato in possesso grandi fattorie
di alcune migliaia di ettari, simili ai latifondi nobiliari d’epoca zarista. I kolkoz, piccoli
appezzamenti coltivati individualmente, contemperavano l’individuo contadino con il collettivismo
socialista. L’incentivo del tornaconto individuale manteneva alte le rese nel kolkoz. I sovkoz,
enormi aziende statali di circa 8000 ettari l’una, erano assai più rari. Vi lavoravano operai
salariati, in tutto paragonabili alla manodopera industriale. Le disponibilità di macchine (capitale)
assieme a un’agricoltura estensiva, accresceva la produttività del lavoro. Gli effetti economici del
primo piano quinquennale (1928-1933) sono impressionanti. Gli economisti occidentali hanno
calcolato che il tasso annuo di crescita si aggirasse attorno al 13-15%. Anche il settore edilizio ebbe
uno sviluppo vistoso. Nell’insieme, la produzione industriale fu moltiplicata per otto volte e mezzo. Non
bisogna peraltro dimenticare che la programmazione coercitiva di Stalin era simile a “un’economia di
guerra” e che la Russia andò del tutto esente dagli effetti devastanti sugli apparati industriali occidentali
della crisi del 1929. Alla fine della seconda GM, il paese rifiutò gli aiuti del piano Marshall e rilanciò la
pianificazione economica (1946-1951). Nel 1949 la produzione sovietica aveva già riguadagnato i livelli della
vigilia della guerra, ma dopo la morte di Stalin (marzo 1953), riemersero le disastrose condizioni
dell’agricoltura, il settore economico sino allora più trascurato. Dagli anni ’60, l’agricoltura cominciò a
registrare preoccupanti cali produttivi di cereali, carne e latte. Il basso tenore di vita della popolazione di un
paese ormai economicamente avanzato posa la questioni di riorganizzare i principi stessi della
pianificazione, attribuendo la stessa dignità alla produzione di beni di consumo rispetto a quella di beni
strumentali e armamenti. Mentre l’economia sovietica dal 1930 al 1960 aveva sperimentato una costante
espansione, dal 1960 al 1989 andò progressivamente incontra al ristagno. Quando, dagli anni ’50,
l’economia capitalista si dedicò al soddisfacimento della crescente domanda privata di elettrodomestici,
automobili, elettronica, aeronautica civile, chimica farmaceutica comunicazioni, l’URSS non riuscì a imitarla.
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I flussi del commercio estero russo da e verso il mondo capitalistico occidentale, testimoniano
efficacemente il progressivo deterioramento cui andò incontro l’economia sovietica esportatrice
soprattutto di beni primari, gas naturale e petrolio, e importatrice di derrate alimentari, metalli e prodotti
chimici. Dopo il crollo del 1989, l’economia russa andò incontro al disastro. Nel giro di pochi anni il PIL
dimezzò. L’economia fu distrutta da manovre speculative della nomenklatura, dalle prescrizioni
astrattamente liberistiche del Fondo Monetario Internazionale (FMI), da alcuni economisti occidentali e dai
loro colleghi russi, inesperti di capitalismo, chiamati a ruoli di grande responsabilità. L’eredità permanente
dello statalismo sovietico ha distrutto la società civile. Il radicamento della democrazia è difficile in un
mondo orfano di un’identità collettiva, dove i flussi del potere e del denaro condizionano le istituzioni
economiche e sociali emergenti. La Russia attuale somiglia in maniera impressionante allo zarismo primo
novecentesco.
L’economia autarchica di uno stato dirigista: l’Italia 1922-1945 Alla fine del 1922, Benito Mussolini
ricevette dal re l’incarico di formare il governo. Le prime misura economiche, di carattere liberista,
favorirono l’alta finanza e la borghesia industriale e agraria. Il governo abolì il monopolio statale delle
assicurazioni sulla vita, diminuì l’imposta patrimoniale ed eliminò quella di successione per i discendenti
diretti. Furono ridotti i dazi doganali sulle importazioni e la produzione agricola migliorò. Dal 1925 il
governo abbandonò la politica liberista fino allora praticata e ne avviò una di risanamento monetario di
crescente protezionismo e dirigismo statale. Con il 1925 fu inaugurata una politica agricola volta a
migliorare la condizione produttiva del settore primario. Mussolini bandì la “battaglia del grano” con
l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza produttiva dell’alimento base della popolazione per non dover
dipendere da massicce importazioni. Nel 1926, dopo l’emanazione delle “leggi fascistissime”, la Banca
d’Italia ebbe l’esclusiva del diritto d’emissione di cartamoneta. Nel 1927 fu ripristinato il gold Exchange
standard: la misura era una premessa per la rivalutazione della lira. La lira fu innegabilmente
sopravvalutata. La domanda estera calò e la struttura produttiva nazionale fu orientata a produrre per il
mercato domestico, riducendo violentemente l’apertura verso l’economia internazionale. Prezzi al
consumo, stipendi e salari diminuirono senza apprezzabili vantaggi per i consumatori e la disoccupazione
triplicò. Grazie al ripristino di un dazio protettivo sul grano, l’Italia arrivò a reperire all’estero un quarto del
grano importato 10 anni prima. L’ampliamento della superficie destinata a frumento danneggiò le altre
colture e l’alto prezzo del pane abbatté i consumi interni di derrate agricole e manufatti. La “battaglia del
grano”, tuttavia, stimolò la produzione nazionale di trattori, macchine agricole e fertilizzanti chimici, anche
perche, nel 1928, fu varata la legge di bonifica integrale, che prevedeva la collaborazione fra stato e
proprietari fondiari per prosciugare palude acquitrini e trasformarli in campagne modernamente coltivate.
Negli anni ‘320, le banche miste italiane erano gli azionisti di controllo delle maggiori imprese industriali. La
crisi finanziaria ne dissestò i bilanci e minò la fiducia della clientela depositante. Alla fine del 1931, il Credito
Italiano (CREDIT) e la banca Commerciale Italiana (COMIT) cedettero le loro partecipazioni azionarie a due
società finanziare controllate dalla Banca d’Italia e si impegnarono a cessare di svolgere operazioni tipiche
delle banche universali. Con la fondazione dell’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) nel 1933, il
governo affrontò il problema della riorganizzazione tecnica, economica e finanziaria delle attività industriali
acquisite dalle banche miste. Dal 1937 l’IRI fu un organo permanente di gestione delle partecipazioni
azionarie dello stato nei settori commerciale, industriale e creditizio del paese. Nel settore elettrico, da solo
o in partecipazione con privati, lo Stato controllava la rete del mezzogiorno. Lo stimolo alla concentrazione
industriale prodotto dalla crisi si estese anche alle imprese private, mentre si moltiplicavano consorzi o
cartelli tra i produttori dei diversi settori al fine di eliminare la concorrenza e di sostenere i prezzi. Il
governo stesso incoraggiò la costituzione di consorzi, quando non lo rese addirittura obbligatori nel giugno
del 1932. I consorzi obbligatori in un grande numero di settori agricoli o industriali assicurarono ai
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produttori posizioni monopolistiche, e abbaterono anche l’efficienza produttiva del sistema. In conclusione,
dai primi anni ’30, quanto al livello di statalizzazione dell’economia, l’Italia fu seconda solo alla Russia. Il
risanamento del sistema bancario, avviato nel 1926, fu concluso nel 1936. Gli istituti che operavano in più
di 30 province furono definite “banche d’interesse nazionale” (COMIT, CREDIT, Banco di Roma) abilitate a
concedere solo finanziamenti a breve termine. Nacquero poi gli Istituti di Credito di Diritto Pubblico e,
come ultime, la Banche di Credito Ordinario. La chiusura delle frontiere di numerosi paese in condizioni
economiche critiche, creò difficoltà crescenti alle imprese esportatrici; per di più l’aumento dei disoccupati
e la diminuzione dei salari, ebbero effetti depressivi anche sulla domanda interna. Alla fine del 1935, la
Società Delle Nazioni proclamò l’embargo su armi e munizioni e vietò ai paesi membri le importazioni di
merci italiane e la concessione di prestiti dia parte di banche straniere. La risposta di Mussolini fu la
proclamazione dell’autarchia, vale a dire la produzione nazionale, per imitazione, di quei beni di consumo
che non si sarebbero più potuti importare. Così l’economia italiana venne a trovarsi in una condizione
d’isolamento, e, in occasione della seconda GM, nel mondo industriale della penisola non accade nulla di
paragonabile a quanto era avvenuto fra il 1915 e il 1918, ai tempi della generale mobilitazione dopo
l’entrata nella fornace della grande guerra.
Il nazionalsocialismo tedesco (1933-1945) La repubblica parlamentare e federale sorta dalla sconfitta
tedesca, dal 1919 fu governata dai socialisti e dai loro alleati di centro. Parlamento, partiti e la politica
stessa furono però oggetto di un irriducibile disprezzo da parte di quanti attribuivano alla compattezza e
alla disciplina un valore primario e che nel confronto delle differenti opinioni vedevano un lusso
insopportabile. Concretezza, ordine e dignità erano valori irrinunciabili proclamati a ogni piè sospinto dalla
destra. Nel 1920, il centrosinistra perse le elezioni. Nel 1922 fu assassinato Walter Rathenau, industriale
illuminato di origine ebraica favorevole alla partecipazione operaia alla gestione delle imprese e ministro
degli esteri. Nel 1923, le truppe belghe e francesi entrarono nella Ruhr per costringere i padroni di casa a
spedire oltre confine convogli ferroviari di carbone in parziale pagamento delle riparazioni di guerra. Gli
anni dal 1923 al 1928 furono relativamente tranquilli anche perché fu raggiunto un onorevole
compromesso sulla questione delle riparazioni. Il partito nazionalsocialista di Adolf Hitler si convertì alla
legalità ma non riuscì a ottenere in controllo dell’elettorato di destra. Gli effetti a distanza della crisi di Wall
Street, diffuse sfiducia nella repubblica parlamentare presso gran parte dell’elettorato. Alle elezioni del
1930, i nazionalsocialisti raccolsero 6 milioni e mezzo di suffragi contro i 600.000 ottenuti nel 1928. Una
guerra civile strisciante accrebbe il prestigio delle Squadre d’Assalto naziste presso l’elettorato
conservatore. Nel gennaio 1933 Hitler ricevette dal presidente della Repubblica Hindenburg l’incarico di
formare il governo in alleanza al centrodestra. Messi fuori legge i comunisti e ottenuta l’investitura
popolare con nuove elezioni, Hitler sciolse tutti i partiti tranne il suo e attuò energici processi
centralizzazione del potere, eliminando l’articolazione federale dello stato. Nel 1934, Hitler cumulò
alla carica di cancelliere quella di presidente della repubblica, concentrando ogni potere nelle sue
mani. Dopo il 1932, l’economia tedesca realizzò la ripresa più rilevante fra quelle dei paesi
economicamente avanzati. La disoccupazione era scesa; in seguito furono soppressi i sindacati,
razionate le risorse. I nazisti lanciarono un vasto programma di lavori pubblici. Gli effetti positivi
sull’occupazione e la domanda non si fecero attendere. Dal 1934 lo sforzo fu concentrato sul
riarmo e sui preparativi remoti di una nuova guerra. La spesa statale aumentò consistentemente,
mentre veniva avviata una pianificazione economica selettiva. Il prelievo fiscale fu inasprito per
spostare risorse dai consumi alla produzione. Lo sforzo industriale del riarmo garantì grandi
commesse statali alle industrie siderurgiche, cantieristiche, metalmeccaniche e chimiche. Il governo
divenne il maggior investitore e il maggior consumatore dell’economia nazionale. La Germania
stabilì relazioni commerciali offrendo loro la possibilità di pagare con materie prime e prodotti
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agricoli le importazioni di manufatti e di macchinari tedeschi. La penetrazione economica
germanica spianò la strada alla conquista politica e militare dei paesi partner. Austria e
Cecoslovacchia furono annesse al Reich Hitleriano nel 1938-1939 e, di lì a poco, la conquista della
Polonia avrebbe innescato lo scoppio della seconda guerra mondiale.
La seconda guerra mondiale e le sue conseguenze La guerra del 1939-1945 fu totale in un
duplice senso: perché ebbe un’estensione geografica davvero mondiale e durò 68 mesi in Europa
e 44 mesi in Asia, dove cominciò nel 1941 con l’attacco a Pearl Harbour, e finì con il
bombardamento atomico sul Giappone nel 1945. Fu una guerra generale con mobilitazione
altrettanto generale; militari e civili ne furono equamente coinvolti e ne seguirono, in molti casi,
guerre partigiane. Per la prima volta vi furono anche bombardamenti a tappeto sulle periferie
industriali delle città. Pianificazione e controllo centralizzato delle risorse economiche dei paesi
belligeranti furono molto più estesi di quanto fosse avvenuto con la grande guerra, anche per
effetto degli interventi statali avviati negli anni ’30 con i programmi di politica economica e
sociale anticrisi. Dovunque, lo sforzo bellico fu realizzato operando in tre principali direzioni:
1.Accrescendo la produzione;
2.Contenendo i consumi privati a favore di quelli pubblici;
3.Rinunciando a nuovi investimenti e tralasciando di rinnovare le infrastrutture e il capitale tecnico
logorato dall’uso e dal passare del tempo.
Il massimo sforzo economico per la guerra fu sostenuto dagli USA che produssero, impiegarono e
distribuirono agli alleati un terzo di tutti i mezzi adoperati nei combattimenti. Fu, insomma, un
vero e proprio boom. Massicci e nuovi investimenti realizzati negli USA accrebbero del 50% la
capacità produttiva dell’industria rispetto alle condizioni precedenti il 1939. La Gran Bretagna
destinò metà della ricchezza annualmente prodotta al finanziamento della guerra. Per contro, fino
agli ultimi mesi di guerra, l’economia tedesca trasse vantaggio dal conflitto. La Germania impose
pesanti tributi alle popolazioni dei territori occupati. Il Reich risucchiò risorse e popolazione attiva
non solo dalle regioni occupate, ma anche da quei paesi alleati con la Germania. I peggiori effetti
sulle economie nazionali dell’occupazione germanica si ebbero in Polonia, Belgio, Francia, Olanda e
Grecia. L’invasione tedesca devastò l’economia russa, che perche circa la metà del proprio
potenziale industriale entro i primi due ani di guerra. I livelli di vita crollarono. La seconda GM
causò direttamente dai 37 ai 44 milioni di morti, 17 dei quali caddero in combattimento. Tra i
morti civili (da 20 a 27 milioni) rientrano anche i quali 7 milioni di ebrei e le centinaia di
migliaia di zingari, omosessuali e testimoni di Geova vittime dello sterminio nazista. Le
conseguenze territoriali, riguardarono soprattutto la Germania, ed ebbero effetti sulle economie dei
vari paesi. La Germania, divisa in due, cessò di essere la prima potenza economica del continente
e la Russia ne prese il posto. Gli USA accrebbero la loro posizione di economia dominante e
creditrice, a differenza di quanto era accaduto nel primo dopoguerra, e si comportarono di
conseguenza. Nel luglio del 1944, a Bretton Woods, nel New Hampshire, con i rappresentanti degli
alleati si riunirono quelli di 44 paesi per disporre misure atte a evitare che l’ormai imminente
fine della guerra e il ritorno a un’economia di pace provocassero crisi e disagi economici analoghi
a quelli intervenuti nel 1920-1921, ivi fu deciso di:
41
1 Creare la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (BIRS), detta anche Banca
Mondiale, per incoraggiare investimenti esteri a lungo termine e che oggi aiuta i paesi
economicamente arretrati;
2.Creare il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che avrebbe svolto un ruolo fondamentale nel
mantenere la stabilità dei cambi fra valute e nel risolvere problemi collegati alla bilancia dei
pagamenti;
3.Promuovere la liberalizzazione degli scambi internazionali: nel 1947, 23 paesi diedero origine al
General Agreement on Tariffs and Trade (GATT), che ebbe un ruolo fondamentale nel processo di
riduzione delle barriere doganali. Solo nel 1995 sarebbe sorta l’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO).
9. Ricostruzione, sviluppo e maturità (1945-1973)
La ricostruzione postbellica Nel giugno 1945, le poche fabbriche europee rimaste in pieni erano
prive di macchinari e materie prime. Le vie di comunicazione erano interrotte o danneggiate.
L’agricoltura subì ovunque cali dei raccolti. La mancanza di riserve d’oro, di valute, di credito
internazionale impedivano le importazioni di beni indispensabili. Pesanti deficit dei conti statali, alti
livelli d’indebitamento interno ed esterno, cartamoneta sovrabbondante rispetto ai volumi degli
scambi, ovunque dominavano il quadro finanziari. Nel 1947, gli USA completarono la
trasformazione della loro industria di guerra in un apparato produttivo civile senza conseguenze
negative sull’occupazione. L’intervento dell’UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation
Administration), avviato fin dal 1944 per occorrere le popolazioni europee che uscivano dalla
guerra, cessò nel giugno 1947, quando il vecchio continente era ancora lontano dall’aver
ricostruito e riavviato le proprie economie nazionali e usava i dollari avuti in prestito per le
importazioni cereali indispensabili a sfamare le popolazioni. Sempre nel giugno 1947, il segretario
americano George Marshall presentò un imponente piano ERP (European Recovery Program) di
aiuti diretti ai paesi dell’Europa occidentale per impedire che ricadessero nell’autarchia e nel
protezionismo e smettessero di acquistare materie prime, macchinari e manufatti industriali
statunitensi, causando una crisi economica di là dall’Atlantico. Il governo americano attribuì anche
al piano il compito di rafforzare il commercio internazionale intereuropeo; il governo americano
trasferì in Europa 15,7 miliardi di dollari, 12 dei quali a titolo gratuito. Il piano prevedeva anche
la cooperazione tra i destinatari degli aiuti, riuniti nell’OECE (Organizzazione Europea per la
Cooperazione Economica) che avrebbe controllato la compatibilità dei piani nazionali di utilizzo
degli aiuti e incentivato gli scambi fra partner che ristabilivano relazioni economiche. Gli USA
contribuirono a riavviare le economie europee e a promuovere le esportazioni in modo da
controbilanciare le importazioni di derrate agricole e di materie prime. Le relazioni fra paesi
debitori e paesi creditori furono garantite dal FMI e dalla BIRS. Dopo l’istituzione del GATT,
l’accordo generale sulle tariffe di commercio internazionale, alla fine del 1947, quasi la metà del
commercio mondiale era esente da intralci protezionisti. Dei tre stati usciti perdenti dalla guerra,
l’Italia era quello economicamente meno malandato. A distanza di 5 anni dalla fine del conflitto,
Germania e Giappone si erano riportati ai due terzi della ricchezza prodotta alla vigilia del
conflitto. L’Italia, invece, aveva costantemente superato la media europea comprendente paesi
rimasti imparziali che avevano beneficiato della loro neutralità.
42
Le politiche di sostegno alla ripresa Le misure prese dai governi dell’Europa occidentale, diedero
un’energica spinta al rilancio delle rispettive economie grazie a un’inedita combinazione di pubblico
e privato chiamata “economia mista”. Si trattava di escogitare i modi più efficaci per riavviare i
processi di crescita economica inceppatisi fin dal 1914. La teoria economica giuda fu identificata
nelle tesi di John Maynard Keynes proposte nel 1936 con il celebre trattato Teoria generale
dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. Keynes affermò che un’economia in crisi era
incapace di auto correggersi per riportarsi in equilibrio. Era dunque necessario l’intervento attivo
dei governi per stimolare l’impiego di fattori disponibili e inutilizzati. Si avrebbero così evitare crisi
economiche catastrofiche operando attraverso tre leve:
1.Politica monetaria;
2.Spesa pubblica -deficit di bilancio- per distribuire reddito e creare domanda aggiuntiva;
3.Diminuzione/aumento della pressione discale per sostenere il risparmio e la domanda. Le linee
generali di politica economica perseguite dai diversi governi sono riconducili ai seguenti principi:
1.Concentrare gli investimenti nelle industrie di base, così da ottenere incrementi di produttività,
di volumi prodotti e di esportazioni;
2.Accordare priorità agli investimenti rispetto ai consumi;
3.Stimolare il risparmio, rendere il credito per investimenti facile e a buon mercato;
4.Investire in risorse pubbliche;
5.Controllare l’inflazione attraverso la leva fiscale sulla domanda, tassando i profitti non reinvestiti
e contenendo i salari;
6.Promuovere le esportazioni e contenere le importazioni perché i paesi europei mancavano di
riserve di dollari e di oro per aumentare il commercio internazionale.
Nonostante i gravi danni, i tempi della ricostruzione si rivelarono nettamente più brevi di quelli
pretesi dal primo dopoguerra. Due settori, in particolare, realizzarono alti tassi di crescita:
l’industria e l’agricoltura. Le forze politiche esprimevano dappertutto forti istanze riformistiche.
Furono numerosi i mutamenti istituzionali orientati alla democrazia. Furono tendenze politiche
comuni a tutta l’Europa occidentale:
1.Suffragio universale, il sistema elettorale proporzionale (tranne la GB), regimi assembleari reputati
garanti dei principi democratici, governi in posizione di soggezione rispetto alle assemblee
parlamentari;
2 Realizzazione di riforme economiche strutturali, come le nazionalizzazioni di grandi imprese
industriali e di servizi;
3. Progressi di carattere sociale come la ricostruzione dei sindacati e la loro unità d’azione,
l’introduzione di assegni familiari e della scala mobile dei salari per attenuare l’effetto
inflazionistico sul potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti;
43
Verso l’economia mista Nel 1949, gli esperti ONU avevano previsto che la produzione industrial
sarebbe aumentata fra il 40% e il 60%. Gli aiuti americani, la crescente liberalizzazione degli
scambi fra partner europei, gli investimenti migliorativi e delle tecniche produttive e il massiccio
intervento diretto e indiretto dei governi, interagendo e rafforzandosi a vicenda, spiegano come la
ricostruzione abbia potuto favorire l’avvento di un processo di generale sviluppo economico,
dovunque prolungatosi dai primi anni ’50 ai primi anni ’70. L’economia mista ebbe 5 obiettivi
espliciti:
1.Il pieno impiego del fattore lavoro;
2.L’utilizzo dell’intera capacità produttiva esistente;
3.La stabilità dei prezzi;
4. L’aumento dei salari legato a miglioramenti della produttività del lavoro;
5.L’equilibrio della bilancia dei pagamenti.
Con il passare del tempo, alla preoccupazione d’attenuare le oscillazioni cicliche congiunturali,
subentrò quella di programmare la crescita economica a lungo termine. L’accoglimento
dell’economia mista pose anche la questione del ruolo statale nel favorire una distribuzione equa
del benessere su tutta la popolazione. I governi ebbero un crescente ruolo nei trasferimenti di
ricchezza drenata per mezzo dell’imposizione fiscale proporzionale sui patrimoni e progressiva sui
redditi. Furono approvate leggi sui salari minimi, sull’edilizia pubblica, sull’istruzione obbligatoria,
sulla sanità e sulla previdenza sociale. L’economia mista fu inaugurata procedendo a
nazionalizzazioni d’imprese strategiche. L’azione economica del governo laburista britannico puntò
soprattutto sul pieno impiego del fattore lavoro. Nel 1952 i conservatori allentarono i controlli sui
prezzi e salari e privatizzarono i trasporti su strada e parte della siderurgia e nel 1962 crearono il
Consiglio di sviluppo economico nazionale. Gli interventi più incisivi riguardarono la ricerca
tecnologica e l’istituzione di scuole professionali. In Germania ci fu un netto rifiuto della politica
dirigista perché evocava quella nazista. Essi presero come modello un’economia di mercato a
sfondo sociale e fu lanciata una politica favorevole alle piccole imprese. Nel 1948 fu riformata la
moneta e furono ridotte le imposte sul reddito personale e sugli utili delle società. La politica
neoliberista rimase in sostanza a livello di dichiarazioni d’intenti finché, dal 1948, il piano Marshall
e la ricostruzione a tappe forzate pretesero l’intervento dello stato. Nel corso degli anni ’50 le
eccedenze del bilancio governativo furono destinate al miglioramento dell’assistenza sociale, alla
tutela dell’ambiente e alle pensioni d’anzianità. Nel 1967 il Parlamento tedesco votò una legge
che impegnava il governo a promuovere la stabilità dei prezzi e dei salari e la crescita
dell’economia mediante una pianificazione quinquennale dei bilanci pubblici, l’istituzione di un
consiglio di esperti economici e l’adozione di una politica dei redditi. Sul finire degli anni ’50,
l’accesso delle esportazioni al mercato mondiale e l’avvio delle CEE (Comunità Economica Europea),
segnarono il tramonto del Neoliberismo germanico. In Svezia, Paesi bassi, Belgio e Austria
l’economia mista prese corpo attraverso la sistematica consultazione delle parti sociali da parte dei
governi.
I venticinque anni d’oro (1949-1973) Fra il 1949 e la crisi petrolifera di metà anni ’70, l’economia
europea e mondiale visse un periodo di sviluppo economico e sociale senza precedenti. A
progressiva liberalizzazione degli scambi internazionali svolse un ruolo decisivo perché l’ammontare
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di derrate agricole, di materie prime metalliche ed energetiche , di semilavorati e di prodotti finiti
scambiati fra paesi continuò ad aumentare senza interruzioni. La crescente produzione di merci e
servizi fu il risultato combinato di massicci investimenti di capitale tecnologico e dell’aumento di
manodopera impiegata nei settori secondario e terziario, dovuto tanto alla crescita della
popolazione, quanto allo spostamento da settori a bassa produttività a settori ove l’alta
produttività era favorita dalla crescente intensità di capitale tecnologico. Gran Bretagna e USA non
disponevano quasi di riserve di manodopera perché avevano completato le trasformazioni
strutturali delle rispettive agricolture nella prima metà del ‘900, investendovi massicce quote di
capitale e ottenendo consistenti risparmi di fattore lavoro. Gli alti prezzi interni dei beni alimentari
agirono da freno al trasferimento massiccio e repentino di manodopera dal primario all’industria e
ai servizi, consentendo altresì l’accumulo di potere d’acquisto e di risparmio presso larga parte
della popolazione rurale. Per di più i governi avviarono o riavviarono il processo di
meccanizzazione dell’agricoltura e di aggiornamento agronomico delle tecniche produttive. I
massicci investimenti in capitale produssero sensibili aumenti della produttività perché si trattava
soprattutto di “ingegneria del miglioramento”, cioè di applicazioni ai processi produttivi esistenti
degli accorgimenti e delle attrezzature usate negli Stati Uniti negli anni ’30 e ’40. Gli investimenti
ebbero effetti stimolanti sulla produttività del lavoro e sulla crescita economica complessiva di
tutti i paesi, in particolare, i tre paesi usciti sconfitti dalla guerra realizzarono i maggiori progressi
in virtù di una miscela di fattori economici, sociali e culturali. In Europa e Giappone, crebbero
vistosamente i consumi di beni industriali durevoli mentre andava affermandosi per gradi la
società del benessere. Mentre in Europa e Giappone il settore economico più dinamico diveniva il
secondario, nell’economia americana il settore protagonista cominciava a essere il terziario. La
supremazia tecnologica statunitense nel campo della organizzazione e della gestione aziendale
indusse le grandi imprese multinazionali ad aprire filiali in quei paesi dove stava profilandosi il
compimento della seconda rivoluzione industriale. A spingere gli investimenti statunitensi in Europa
occidentale e in Giappone concorsero anche le leggi antitrust e la super valutazione del dollaro,
fino al 1971, nei confronti delle valute europee e dello yen giapponese.
L’Italia paese industriale Dalla ricostruzione allo sviluppo
Nel triennio 1945-1947, l’Italia era un paese in crisi economica, politica e sociale. Aveva subito
danni al materiale ferroviario, alle strade, ai porti, al naviglio mercantile, ai ponti, alle reti
elettriche, telefoniche e telegrafiche.
Rallentamento della crescita e deindustrializzazione Dopo una lunga fase di stabilità, durata fino
al 1966, dal 1967 al 1971, nei maggiori paesi i prezzi rincararono di quasi il 5% l’anno.
L’inflazione causò un ripiegamento della domanda aggregata e un rallentamento delle produzioni.
L’aumento del 27% del prezzo del petrolio greggio rinforzò le tendenze inflazionistiche. Fu però il
primo shock petrolifero dell’ottobre del 1973 a fornire un propellente formidabile alla tendenza
rialzista degli indici generali dei prezzi i quali sumentarono in media del 13,2%. Tra ottobre 1980
e novembre 1981, l’oro nero raggiunse i 34 dollari al barile, 19 volte il prezzo di undici anni
prima. La febbre inflazionistica provocata dall’embargo parziale da parte dei paesi arabi produttori
contro i paesi europei nell’occasione della guerra fra arabi e israeliani (1973) durò all’incirca un
decennio. Un’inflazione d’intensità senza precedenti in periodi di pace, comportò aumenti medi
annui dei prezzi del 9,1%. L’inflazione galoppante (1972-1983) produsse una serie di contraccolpi:
1.Depresse il valore delle monete misurato in dollari, la valuta di riferimento per i pagamenti
internazionali, a sua volta ancorata all’oro. Il 15 agosto 1971 il presidente americano Nixon decise
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di sospendere la convertibilità delle banconote in oro; da quel momento finiva una storia
millenaria e l’oro diventava una merce qualsiasi, per quanto rara e pregiata;
2.I valori delle singole monete fluttuarono liberamente secondo le condizioni del mercato, ma il
dollaro continuò a essere la moneta di riferimento per le altre monete sul mercato internazionale;
3.Altro effetto riguarda i bilanci statali. Il rallentamento della crescita e l’aumento della spesa
pubblica causarono in tutti i bilanci statali deficit annuali più o meno pesanti; molti bilanci
chiusero in disavanzo costringendo i governi a ricorrere a prestiti onerosi;
4.Sul mercato dei capitali, la concorrenza alle imprese da parte dei governi rese molto più
oneroso il costo del denaro;
5.La crescita del debito pubblico e dei tassi d’interesse corrisposti dagli stati aggravò ulteriormente
i disavanzi;
6.Dal 1974 la disoccupazione cominciò a crescere senza interruzioni fino al 1983. Dopo di allora,
fino ai gironi nostri, essa non è significativamente diminuita.
La risposta dei governi ai bilanci pubblici in deficit strutturale fu la privatizzazione d’imprese
industriali pubbliche e di servizi pubblici. In GB, dal 1980, il primo ministro conservatore M.
Thatcher privatizzò imprese che nell’insieme impiegavano 600.000 persone. Negli anni ’90, alcuni
governi cedettero a privati perfino i servizi sociali. Dalla metà degli anni ’80, fra le imprese
private ci sono state molte migliaia di fusioni-acquisizioni, specie fra aziende attive in paesi diversi
e con spostamento delle attività manifatturiere del Terzo Mondo. Dalla metà degli anni ’70 in
Europa occidentale, e dai primi anni ’70 negli USA, il settore tessile è declinato avendo perduto
la metà degli addetti che contava trent’anni prima (1965). A cominciare dagli ultimi anni ’60 un
processo analogo ha interessato la siderurgia e l’elettronica di prima generazione, con spostamenti
da regioni d’antica industrializzazione a paesi di più recente sviluppo, come Giappone, Corea del
Sud, India, Spagna e brasile. Alla stessa epoca, fenomeni simili riguardarono la produzione di radio
e di apparecchi televisivi, macchine fotografiche e cineprese. Il regresso ha pesantemente
riguardato i settori tradizionali a basso contenuto tecnologico, come il tessile, l’abbigliamento e la
siderurgia. In ogni caso, nessun settore produttivo fa eccezione alla tendenza generale. All’origine
delle rilocalizzazioni industriali agiscono tre fattori:
1.Differenti livelli salariali;
2.Disponibilità o meno di manodopera addestrata;
3.Abbattimento delle dogane su prodotti industriali esteri, con dimezzamento delle tariffe tra i
primi anni ’50 e i primi anni ’60.
Conflitti e integrazioni di fine secolo Gli shock petroliferi degli anni ’70 spinsero i paesi sviluppati
occidentali a incrementare le loro esportazioni nel tentativo di controbilanciare il maggior esborso
a favore dei produttori/venditori di petrolio greggio. Intorno al 1970, le esportazioni dei paesi
sviluppati occidentali si aggiravano attorno al 10% della ricchezza prodotta ogni anno del mondo.
Gli USA sono il paese che più di ogni altro ha ampliato la propria quota di esportazioni, più che
raddoppiando la sua percentuale dal 1970 al 2004. Nell’insieme, i paesi dell’UE sono cresciuti, ma
non va trascurato che da 6 iniziali sono diventati 25 e che l’unione doganale ha stimolato
anzitutto gli scambi interni. Una dinamica del genere spiega, fra l’altro, perché il concetto di
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mondializzazione o globalizzazione abbia molto più credito di là dall’Atlantico che nel vecchio
continente. Il terzo protagonista dell’economia nazionale, il Giappone all’inzio degli anni ’90 era di
molto cresciuto. Nell’insieme, comunque, agli inizi dell’ultimo decennio del XX secolo, il 37,9%
delle esportazioni mondiali erano appannaggio della “triade” USA, UE, Giappone e sorge il
sospetto che i maggiori esportatori facciano dumping (vendevano all’estero a prezzi inferiori
rispetto a quelli interni) per sfruttare appieno le capacità produttive e organizzative delle loro
imprese. Tra il 1990 e il 2004, mentre il Giappone arretrava parecchio, gli USA e ancor di più
l’UE guadagnavano terreno trascinati dalle importazioni delle economie asiatiche, in vistosa e
prolungata crescita dalla metà degli anni ’80. Oltre alle merci, anche i servizi interscambiati tra
paesi sviluppati hanno registrato tassi d’incremento notevoli; nel ventennio 1970-1990, i più
dinamici furono i Giapponesi. Un ultimo aspetto delle relazioni economiche internazionali merita di
essere accennato: quello degli investimenti esteri di capitale. I paesi europei hanno raddoppiato i
loro investimenti dal 1980 al 1995 preferendo puntare sulle regioni economicamente evolute
piuttosto che su quelle in via di sviluppo. Gli USA, dall’inizio degli anni ’70, sono divenuti i
maggiori destinatari d’investimenti stranieri diretti. In tal modo, con il passare del tempo, gli
investimenti statunitensi all’estero sono andati equilibrandosi con quelli esteri realizzati negli USA,
al punto che nel 1995, il valore complessivo dei primi superava solo di un quarto quello dei
secondi. La crescente concentrazione dei tre quarti degli investimenti di capitali dei paesi ricchi
nelle economie dei medesimi paesi ricchi ha accentuato l’interdipendenza fra le diverse economie
più avanzate. Protagoniste d’investimenti esteri volti alla delocalizzazione sono soprattutto le
imprese multinazionali. Le multinazionali coprono i due terzi del commercio mondiale. Se,
nell’insieme, si può parlare di mondializzazione dell’economia, non v’è tuttavia alcun dubbio che si
tratti di un processo che riguarda prevalentemente le imprese dei paesi ricchi, nei quali vive e
opera solo il 22% della popolazione del globo. Conviene, infine, gettare uno sguardo agli indici
dell’andamento della ricchezza prodotta dal 1971 al 2005 nei sei paesi più ricchi. La ricchezza
prodotta ha smesso di crescere tra il 1991 e il 1996 dappertutto tranne che in Gran Bretagna. La
rivoluzione tecnologica delle comunicazioni sembra favorire i paesi in via di sviluppo molto più di
quelli solidamente sviluppatisi con l’economia misto dopo la seconda GM. Analogamente, gli USA,
che erano giunti alla maturità economica prima dello scoppio della seconda GM, crebbero più
lentamente e meno bruscamente calarono sul finire del secondo millennio. Sembra che la maturità
renda meno reattive le economie e troppo alti i costi d’impianto d’infrastrutture e di tecnologie
avanzate, senza parlare del personale tecnico e scientifico necessario per convertire e mantenere
le strutture innovative.
11. Dalla decolonizzazione al Terzo Mondo
Il processo di decolonizzazione Lo sgretolamento del colonialismo europeo avvenne in una
ventina d’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e si svolse in due fasi successive. La
prima, 1946-1951, riguardò essenzialmente il continente asiatico; la seconda, 1956-1963, fu la volta
dell’Africa. Del grande impero britannico sopravviveva la piccola Hong Kong che sarebbe stata
restituita alla Cina nel 1997. Tra la prima e la seconda fase, si situa una tappa fondamentale
delle relazioni fra nazioni neoindipendenti ed economicamente arretrate e paesi sviluppati. Nella
primavera del 1955, riuniti a Bandung (Indonesia), i responsabili di 29 paesi asiatici e africani
condannarono ogni forma d0oppressione coloniale ancora esistente e sollecitarono l’avvio di una
politica di riequilibrio delle relazioni economiche tra sud e nord del mondo: prese forma uno
schieramento di nazioni che condividevano l’esigenza di tramutare la recente indipendenza in vera
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e propria autonomia e di avviare la crescita economica. I paesi ex coloniali si divisero tra
economie di libero mercato ed economie a programmazione economica centralizzata. 70 nazioni,
nel 1965 nel palazzo dell’ONU, rappresentavano quella parte di umanità che il demografo ed
economista francese Alfred Sauvy chiamò “Terzo Mondo”. Le Nazioni Unite, con una risoluzione
del 1961, avevano dichiarato gli anni ’60 come il “primo decennio dello sviluppo” dei paesi
poveri, e l’anno successivo creavano l’UNCTAD. Accanto alle agenzie dell’ONU fiorirono anche
associazioni che misero in relazione gruppi di paesi del nord e del sud. Negli anni della
presidenza Kennedy (1961) negli USA fu creata l’Alleanza per il progresso. Di qua dall’Atlantico
l’Unione Europea strinse legami con 18 paesi africani.
Luci e ombre della prima fase di sviluppo (1946-1965) Raggiunta l’indipendenza, i paesi del Terzo
Mondo s’impegnarono nell’avvio di processi d0industrializzazione, assieme a programmi d’istruzione
rapida per popolazioni semianalfabete, in modo da attenuare il grave ritardo rispetto ai paesi del
mondo sviluppato.La battaglia dell’istruzione diede risultati incoraggianti. L’accesso agli studi
universitari è stato relativamente diseguale da un continente all’altro e da paese a paese, secondo
gli assetti e i regimi politici esistenti, ed è inversamente proporzionale alla massa dei potenziali
studenti. In ogni caso, il progresso dell’istruzione superiore ha avuto andamento esponenziale.
Nell’arco di un paio di decenni, tra il 1948 e il 1965, il Terzo Mondo a economia di mercato
triplicò il volume delle produzioni manifatturiere tenendo un tasso annuo medio di crescita del
7%. La sostituzione delle importazioni con produzione locale spiega l’intensità del processo. In
pratica, fu rovesciatala tendenza consolidatasi nel XIX secolo e proseguita fino alla vigilia della
prima GM, quando le importazioni di manufatti dai territori metropolitani avevano sostituito le
produzioni locali. Non appena il processo di sostituzione delle importazioni fu completato sul finire
degli anni ’60 vi fu un ovvio rallentamento della crescita delle attività manifatturiere. Per di più,
la possibilità di riversare su mercati esteri le produzioni a basso valore aggiunto fu intralciata da
limitazioni e ostacoli frapposti alle importazioni dai paesi sviluppati che difendevano la loro
manodopera e le loro imprese. Un freno alla prosecuzione dello sviluppo venne anche dalla
rigidità della domanda mondiale di tessili e calzature assieme alla dipendenza delle società
multinazionali occidentali che nel Terzo Mondo spostarono in crescente misura quelle fasi dei
processi produttivi che impiegano manodopera scarsamente qualificata. I casi di massicci
investimenti relativisti del tutto inutili o largamente sovradimensionati non si contano, come quelli
di sperpero energetico e di materie prime. Un capitolo a parte meriterebbe la questione della
diffusa corruzione delle autorità governative e dei funzionari pubblici chiamati a decidere la
localizzazione di nuovi impianti industriali. Un altro fattore limitativo è dato dalla prevalente
sottoutilizzazione della capacità produttiva delle installazioni, spesso largamente sovradimensionate
rispetto ai volumi di prodotto assorbibili della domanda interna ed estera.
Il vincolo demografico Nei primi anni ’60 i risultati dei primi censimenti ruppero l’incantesimo. Fu
presto chiaro, infatti, che era in corso un’inflazione demografica galoppante. Gli effetti del boom
demografico innescato da cali consistenti della mortalità infantile e da campagne di vaccinazione a
tappeto non tardarono a manifestarsi con deficit degli alimenti di basi. In molti casi i governi
finanziarono politiche di miglioramento delle tecniche agronomiche, di diffusione delle macchine
agricole e di utilizzo di sementi modificate dalla ricerca biotecnologica. Alle politiche locali si
affiancarono sempre più spesso programmi internazionali di aiuti di scarsa efficacia strutturale. Nel
frattempo, l’esplosione della domanda di petrolio introduceva un forte discrimine fra paesi in via
di sviluppo, dissociando i venditori d’oro nero da tutti gli altri. Proprio l’impennata della domanda
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di petrolio del “primo mondo” avvisò quei paesi che non ne disponevano che il divario tra i loro
livelli di vita e quelli dei paesi ricchi sarebbe inesorabilmente aumentato. La scalata dei prezzi del
greggio causò inflazione anche nei paesi del Terzo Mondo; inflazione che si aggiunse a quella
endogena prodotta dalle accresciute produzioni agricole e manifatturiere avutesi dalla fine degli
anni ’40. Quando, dalla metà degli anni ’80, la febbre inflattiva si spense, nel Terzo Mondo non
solo continuò, ma addirittura si aggravò nel decennio 1986-1995, con enormi divari fra i tre
continenti.
Una via d’uscita dal sottosviluppo: le quattro tigri asiatiche All’inizio degli anni ’70 nel Terzo
Mondo a economia di mercato il clima generale era improntato al pessimismo. Nei paesi privi di
petrolio una galoppante inflazione dei prezzi interni si aggiungesse al boom demografico e al
connesso crescente deficit alimentare. In totale controtendenza, nel lontano oriente, dagli anni
’60 Hong Kong e poi, una decina d’anni dopo, Taiwan, Corea del Sud e Singapore, imboccarono
la strada di uno sviluppo economico tanto rapido e inteso da proiettarli, trent’anni dopo, nel
novero dei paesi economicamente avanzati. I quattro piccoli paesi che rappresentavano una
minima frazione demografica dell’Asia e del Terzo Mondo, condividevano alcune caratteristiche
negative, se si guarda ai requisiti per avviare un processo di sviluppo all’occidentale. Si trattava di
territori privi di risorse naturali ed energetiche, densamente popolati e usciti devastati dalla guerra
mondiale. Corea e Taiwan, che erano state colonie giapponesi, negli anni ’30 avevano conosciuto
miglioramenti dell’agricoltura e qualche iniziativa industriale. Alla vigilia della seconda GM la Corea
era già molto sviluppata nel settore industriale grazie anche alla manodopera locale specializzata.
A Hong Kong e Singapore mancava il peso del mondo rurale tradizionale che ovunque
rappresenta un serbatoio di manodopera sottoutilizzata. Hong Kong, che dal 1842 è stata una
vera e propria enclave inglese alle porte della Cina, aveva cominciato a esportare manufatti già
prima della grande guerra e, alla fine della seconda, aveva una base industriale diversificata. La
crescita demografica dei quattro paesi fu inferiore a quella del resto dell’Asia. Un notevole fattore
di facilitazione nell’avvio dello sviluppo fu dato anche dalle basse percentuali di contadini e di
livelli d’analfabetismo nettamente inferiori alla media dei paesi asiatici a economia di mercato. La
novità delle quattro tigri consiste nelle relazioni istituitesi fra stato, come fattore e organizzatore
di sviluppo, economia, tecnologia e società muovendo da politiche dettate dalla logica della
sopravvivenza nazionale postbellica. La crescita economica andò di pari passo con un visibile
miglioramento dei tenori di vita e della perequazione dei redditi. È interessante notare come nei
paesi in cui ha lungamente dominato la cultura britannica, la sperequazione dei redditi è
nettamente più accentuata rispetto ai rimanenti tre paesi nei quali domina la cultura orientale
tendente a non polarizzare la distribuzione della ricchezza, che significa maggior potere d’acquisto
diffuso, maggiore capacità di risparmio, migliore sostegno della domanda. In tutti e quattro i casi
considerati, in vario modo, l’azione delle amministrazioni pubbliche è stata così decisiva da far
coniare agli studiosi la formula: “Stato per lo Sviluppo”, espressiva di uno stato che, mentre
sostiene le imprese, impone loro di misurarsi sul mercato globale. Hong Kong fu la più precoce
delle quattro. Tutto il territorio apparteneva alla corona inglese che lo affittava invece di venderlo
a privati. Questa politica dei suoli permise al governo di finanziare progetti di edilizia pubblica e
di costruire immobili a uso industriale e fabbriche con abitazioni civili annesse; politica poi
rivelatasi decisiva nella prima fase d’industrializzazione. Le autorità di Hong Kong svolsero anche
un ruolo decisivo di promozione e controllo nel settore bancario,borsistico e di servizi avanzati,
tanto da lanciare il mercato finanziario della città nel Gotha delle maggiori borse mondiali. La
chiave iniziale del successo fu comunque la crescita esponenziale delle esportazioni di manufatti
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destinate al Regno Unito al Commonwealth e agli USA, seguendo una strategia di cambiamento
delle linee di prodotti o del loro valore all’interno del medesimo settore. In questo senso, il
fattore fondamentale fu la flessibilità dei prodotti manifatturieri e la loro capacità d’adattamento alla sempre più mutevole domanda del mercato mondiale. La flessibilità del sistema produttivo deriva dal
prevalere di piccole e medie imprese e da tassi d’investimento costante elevati. Dal 1950 al 1995, favoriti
da un peso limitato dell’agricoltura e da dimensioni territoriali minime, le quattro tigri realizzarono uno sviluppo economico rapido e intenso, seppur con tempi sfasati tra loro per la differente epoca dell’avvio del processo.
Le tigri nella crisi di fine secolo La crisi economica asiatica di fine anni ’90 ebbe effetti assai diversi sulle quattro tigri. Per la bolla speculativa immobiliare e per il crollo della sua borsa, nel 1998 Hong Kong entrò in
recessione per la prima volta dopo 30 anni. A Hong Kong tra il 1990 e il 1996, il valore degli immobili privati
quadruplicò. Mentre l’offerta di terreni demaniali privatizzabili calava e c’era un boom delle attività finanziarie e di servizio alle imprese, i prezzi esplosero. Per di più, era in corso una rapida riconversione
dell’economia da manifatturiera a terziario avanzato. La terziarizzazione attirò i capitali dei taiwanesi, dei giapponesi e degli speculatori di tutto il mondo, mentre e quotazioni di borsa continuavano a crescere.
Nell’ottobre del 1997, un attacco speculativo al dollaro di Hong Kong minò la fiducia degli investitori. Il
successivo crollo venne evitato grazie al provvidenziale intervento della Cina Popolare, ma l’economia incappò in una recessione. Dopo il grande sviluppo della finanza a Singapore, lo stato evitò che si
abbandonasse il settore manifatturiero, a favore del quale il governo avviò un progetto di sviluppo
tecnologico per stimolare produzioni a più alto valore aggiunto. Grazie a regolamentazioni dei mercati
creditizi e finanziari più rigide di quelle di Hong Kong, la borsa di Singapore andò esente da scorrerie
speculative della finanza globale e i solidi legami con le multinazionali manifatturiere fecero il resto. La crisi
coreana iniziò nel gennaio del 1997, con il fallimento di Hanbo, uno dei maggiori Chaebol (conglomerata,
che dipese da problemi di assetto e di gestione e da standard tecnologici scaduti rispetto a quelli
concorrenti) specializzato in siderurgia e edilizia. Nel giro di pochi mesi fallirono 6 fra i primi 30 gruppi del
paese. Gli investitori esteri si affrettarono a liquidare le loro posizioni. La fuga di capitali mise in crisi la
moneta, che il governo tentò di difendere inutilmente dilapidando le riserve in valuta estera. Il won crollò
mentre il governo dichiarava che non avrebbe pagato gli interessi sul debito pubblico. Fu chiamato in aiuto
il FMI per risanare la situazione. Il nuovo governo favorevole alla deregolamentazione e liberalizzazione dei
commerci e delle transazioni finanziarie, non intervenne per evitare i fallimenti dei chaebol sicché la fiducia
interna e internazionale crollò. Le aziende produttrici di semiconduttori taiwanesi, addirittura superarono i
concorrenti sudcoreani e giapponesi, conquistando fette del mercato mondiale tecnologico. Inoltre, le
enormi riserve di valuta estera scoraggiarono attacchi speculativi sulla moneta nazionale. Confidando nella
competitività manifatturiera, l’economia taiwanese sfuggì brillantemente alle turbolenze finanziarie che avevano messo in seria crisi sia Hong Kong, sia la corea del Sud. Singapore e Taiwan uscirono indenni dalla
burrasca perché non sacrificarono la loro tradizionale competitività manifatturiera alla finanza globale e al
terziario più o meno avanzato.
12. Il risveglio dei dinosauri Asiatici
Il dragone cinese Il modello di modernizzazione e crescita dell’economia cinese non ha precedenti
nella storia economica contemporanea perché è concepito e attuato all’interno della principale
Economia Pianificata del mondo, nel tentativo di realizzare una sintesi virtuosa tra pianificazione
centralizzata ed economia di mercato. L’ingresso cinese nell’economia globale non è lasciato
all’autonomo processo di aggiustamento delle “forze del mercato”, ma è piuttosto governato
dallo stato con misure di politica mirate, e accompagnate da riforme, che da un lato tendono a
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rendere la transizione graduale e sostenibile e, dall’altro, la fanno essere compatibile con le
condizioni, le esigenze e gli interessi specifici del paese. Per comprendere cosa significhi per la
Cina stabilire relazioni con il resto del mondo conviene prendere mosse dagli anni ’30 del ‘
900. Dopo l’occupazione della Manciuria (1931), nel 1937 il Giappone riprese la guerra di
conquista in Cina attaccando Pechino e conquistando facilmente le province esterne e
industrializzate di Shangai, Nanchino e Canton. Nella resistenza ai giapponesi si distinse l’Esercito
di Liberazione Popolare formato da contadini e guidato da Mao Zedong. Esso fu decisivo per la
sconfitta dell’invasore nel continente asiatico e, con una guerra civile condotta dal 1945 al 1949,
Mao sconfisse anche il generale Chiang Kai-schek, con il quale aveva combattuto i giapponesi. La
rivoluzione cinese fu nazionalista e contadina. In più, essendo comunista, nella costruzione del
nuovo stato per il partito fu prioritario controllare l’economia attraverso un sistema di
pianificazione centralizzata e gestire la società attraverso un capillare apparato ideologico marxistaleninista che dominasse l’informazione e la comunicazione. In uno stato scaturito da una guerra di
liberazione e poi da una guerra civile, il cuore del nuovo sistema di potere fu la Commissione
Militare Centrale del Comitato centrale del Partito, la cui presidenza fu l’unica carica
ininterrottamente conservata da Mao sino alla morte nel 1976. Il partito, una cosa sola con
l’esercito, era un’immensa macchina politica ramificata e decentrata ovunque, che per la prima
volta nella storia cinese controllava ogni angolo dell’immenso paese. L’estrema personalizzazione
della leadership ha fatto sì che qualsiasi decisione presa dal vertice si trasformi in una
mobilitazione generale. Solo così si spiega la straordinaria potenza distruttiva di parole d’ordine
come “il grande balzo in avanti” e la “rivoluzione culturale proletaria”, lanciate da Mao in
persona. In realtà Mao rispondeva alla fondamentale questione di come conservare il potere
comunista e come rendere la Cina forte e indipendente in un modo radicalmente diviso fra le
due superpotenze e avendo alle porte quattro tigri in rapido sviluppo economico e tecnologico.
Egli era convinto che convenisse conservare la civiltà rurale cinese della quale era figlio, sviluppare
l’autosufficienza, assicurare il primato dell’ideologia e allenare il popolo a una guerriglia decentrata
per resistere a eventuali invasori, che andavano scoraggiati con il deterrente nucleare. Al vertice
del partito, ed in disaccordo con Mao, fin dagli anni ’50 Deng Xiaoping e Liu Shao-chi
sostenevano che si dovesse invece procedere a un’accelerata industrializzazione e modernizzazione
tecnologia, in modo da seguire lo sviluppo come in Russia. Chou En-Lai, capo del governo, riuscì
abilmente nel difficile gioco di accordare le fazioni in lotta rafforzando il complesso produttivo e
scientifico militare, inteso come indispensabile presidio dell’indipendenza nazionale. Fu così che la
ricerca tecnologica militare passarono indenni fra le bufere politiche e le lotte al vertice degli anni
'60 e '70. Morto Mao, nel 1976, i vertici del partito si riorganizzarono richiamando l’mai anziano
Deng il quale riprese la sua vecchia idea che la prosperità economica e la modernizzazione
tecnologica rappresentassero i pilasti del prestigio internazionale e dell’indipendenza cinese. Egli
intuì anche che, dopo la dissennata “rivoluzione culturale” maoista, era indispensabile restituire
legittimità al partito diffondendo fra la popolazione il diritto di proprietà, migliorandone il tenore
di vita e fondando attese di crescita economica.
L’economia della Cina autarchica Nel 1978, alla vigilia della decisione di Deng di aprire le porte a
imprenditori e capitali esteri, in quali condizioni versava l’economia del paese che conta un quinto
degli abitanti della terra? Nel primo decennio della Repubblica Popolare, il migliorato tenore di
vita e l’adozione di un’assistenza sanitaria essenziale per tutta la popolazione causarono
un’impetuosa spinta demografica, interrotta solo dalle stravaganti misure adottate da Mao per
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realizzare un “grande balzo in avanti”. La popolazione fu suddivisa in gruppi di circa 5000
famiglie dotate di lotti di terreno, di cucine comuni e perfino di acciaierie a conduzione familiare,
secondo principi d’autarchia spinta. Il risultato fu ovviamente fallimentare. Crollarono produzione e
distribuzione delle derrate agricole essenziali e ci fu una disastrosa, pluriennale carestia che causò
30 milioni di morti in 4 anni. In risposta, il governo dispose rigide norme di pianificazione
familiare: era vietato sposarsi prima dei 25 anni e si poteva generare un solo figlio per coppia.
Il diffuso malcontento, a metà degli anni ’80, suggerì alle autorità di abrogare le regole quando
la natalità s’era fortemente ridotta. La cerealicoltura impiegò qualche anno per riportarsi dov’era
prima della dissennata politica del “grande balzo”, dopo di che raddoppiò il volume dei raccolti
entro il 1978. Si assistette, quindi ad una crescita generale, e l’economia superò dell’80% la media
di quelle del Terzo Mondo. Ricordiamo che la Cina non usufruì di aiuti né d’investimenti esteri né
esportò significative quantità di merci.
L’apertura al mondo Nei primi anni ’80 il progetto di integrare la Cina nell’economia globale
cominciò da quattro Export Processing Zones piazzate dirimpetto a Hong Kong. L’idea era di
attirarvi capitali e tecnologie estere per acquisire know-how aggiornato e realizzare profitti in
dollari e sterline. Le zone furono isolate dal resto della Cina per paura che il capitalismo
contaminasse il resto del paese. L’esperimento non funzionò perché le multinazionali fruivano di
condizioni analoghe, ma soprattutto perché erano molto più interessate a penetrare nel mercato
cinese per portarvi la loro cultura aziendale e creare una rete di fornitori e distributori. In pratica
si trattava di far parte dell’economia cinese e di non fermarsi nell’anticamera del paese e
sfruttarne semplicemente la manodopera a basso costo. Dopo qualche anno, il governo aprì una
gran parte delle regioni industriali sotto l’attento controllo della burocrazia statale e di quella dei
governi regionali. Tuttavia, fino alla metà degli anni ’90, gli investimenti occidentali e giapponesi
rappresentarono solo il 28%. La principale connessione con l’economia globale era data dal knowhow tecnologico e dall’esperienza dei cinesi di Hong Kong e Taiwan in fatto di mercato globale.
Facendo capo a reti relazionali di parentela, negli anni ’80 i fuoriusciti furono protagonisti
dell’armatura infrastrutturale di una megaregione divenuta, di fatto, un gigantesco distretto
economico dove abitavano 80 milioni di persone: uno dei potenziali nodi globali del XXI secolo. In
risposta la regione si Shangai nei primi anni ’90 lanciò la nuova regione economica di sviluppo
di Pudong, divenuta in breve il principale centro dei servizi avanzati per le imprese. Dagli anni ’
90, il capitale cominciò ad affluire da ogni parte del globo, ma soprattutto e ancora da cinesi
d’oltremare. Nel 1992, Deng Xiaoping incoraggiò il Guandong e la regione di Shangai a imitare e
superare le quattro tigri. Le autorità delle due regioni rivendicarono una crescente autonomia
economica e di attivare insediamenti d’imprese estere e fondare imprese in partecipazione (Joint
Ventures) con stranieri. Nel 1992, un emendamento della Costituzione introdusse il principio
dell’”economia socialista di mercato”. In pratica, accanto alle tradizionali imprese di stato, nella
Cina aperta al capitalismo, sono sorte imprese private e soprattutto “imprese collettive” di livello
regionale del “capitalismo burocratico”. Si tratta di aziende oligopolistiche nella regione in cui
operano e concorrenziali nel resto del mercato cinese e in quelli esteri. La crisi del biennio 19981999 ha causato un relativo rallentamento dell’altissimo ritmo di crescita nel dodicennio qui
considerato, dopo di che la percentuale annua di crescita è costantemente aumentata nonostante
le autorità governative si sforzino di mantenere sotto controllo la dinamica economica in atto,
potenzialmente inflattiva. Le conseguenze della politica della “porta aperta” di Deng, che decretò
la fine dell’isolazionismo cinese e preparò l’introduzione nella Costituzione (1999-2004) del diritto
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“inviolabile” della proprietà privata, dello stato di diritto e del superamento della pianificazione
economica socialista, pongono però una serie di questioni di gran peso.
•La prima è data dal massiccio esodo delle campagne di alcune centinaia di milioni di cinesi
socialmente e culturalmente sradicati e in condizioni economiche precarie.Incombente dualismo
regioni rurali e urbane.
•I sempre più frequenti conflitti tra Pechino e province della fascia costiera derivanti dalla larga
autonomia concessa dal governo alle autorità provinciali sono un potenziale fattore di
disgregazione e di crisi politica.
•Le imprese pubbliche a bassa produttività non trovano compratori, né possono essere liquidate.
•Accettare la diffusione di Internet: dal 1950, l’informazione è controllata e censurata dal partito.
L’india dell’East Indian Company Ai primi del ‘600 arrivarono i primi galeoni inglesi sulla costa
occidentale indiana. L’East Indian Company ottenne il monopolio del commercio a est del Capo di
B.S. La prima base operativa fu stabilita a Surat dove il sovrano accordò il diritto di commerciare
e di costruire edifici e magazzini. Nel 1635 Lisbona accettò e legittimò la presenza inglese in
India. L’East Indian Company continuò ad aprire basi commerciali e svolse funzioni amministrativa
per conto dei sovrani dei numerosi principi e regni indiani. Il volume d’affari in crescita e
l’impossibilità di imporre i prezzi delle merci acquistate causò un crescente deficit commerciale
inglese. Ai primi del ‘700 il parlamento di Londra approvò due leggi che vietavano l’importazione
di cotonate indiane interrompendo un ricco e promettente commercio, sicché la compagnia
rimediò cominciando a svolgere fra Bengala e Cina il poco nobile e assai redditizio traffico
dell’oppio, ottenendone in cambio tè, porcellane e lacche cinesi. Fra il 1757 e il 1765 l’EIC si
guadagnò la riscossione delle imposte in tre stati. I proventi delle esazioni servirono per l’acquisto
di merci destinate alla madre patria, senza che si dovesse spostare oro e argento da Londra. Nel
giro di una trentina d’anni la Compagnia prese il controllo politico ed economico dell’India nordorientale , facendo adottare riforme fiscali e introducendo principi del diritto comune inglese come
la proprietà privata della terra (1793). La riforma creò una pletora di parassiti latifondisti e usurai
favorevoli agli inglesi e odiati dal resto della popolazione contadina. Dal 1813, quando finì il
monopolio della EIC, tramontò anche l’attitudine d’incivilimento e prese il sopravvento quella di
sfruttamento. Per tutto l’800, il monopolio governativo della droga fu una delle colonne
dell’economia indiana e assicurò il secondo gettito d’entrata del bilancio pubblico. A metà ‘800,
la convinzione che il commercio fosse il motore della modernità spinse gli inglesi a fare
investimenti giganteschi nella costruzione di strade ferrate laddove si sarebbe potuta costruire una
rete di canali d’irrigazione per ottenere sostanziali incrementi del volume di cereali e
approvvigionare una popolazione in costante aumento. Da un lato, una fiorente economia
mercantile fu messa in crisi dalla “globalizzazione” della tela di cotone fabbricata a Manchester,
dall’altra di verificò una specie d’implosione delle economie di villaggio regredite allo stadio di
economie sussistenziali e povere. Il processo di penetrazione e conquista proseguì fio al 1857,
quando nel Bengala i militari indiani al soldo della Compagnia si rivoltarono. In quell’occasione
esplose il malcontento di migliaia di uomini che non sopportavano che gli stranieri continuassero
a imporre cambiamenti degli usi e costumi tradizionali. La rivolta fu sedata con inaudita violenza
da un corpo di spedizione militare inviato da Londra. Il 2 agosto 1858, il governo ripristinò il
controllo con il Governement Act of India ed il Parlamento trasferiva, così, alla corona tutti i
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diritti della East India Company riducendo il paese allo stato di colonia. La piantagione di materie
prime industriali squilibrò l’agricoltura indiana e impedì alle popolazioni di coltivare secondo le
proprie esigenze alimentari, tanto che alla fine del XIX secolo si verificarono disastrose carestie.
Poiché a lungo l’economia indiana fu diretta da Londra, all’indomani dell’indipendenza (1947), il
paese non poté fare a meno dei partner economici inglesi.
La Repubblica Federale Indiana Nell’estate del 1947, lo smembramento dell’Impero britannico delle
Indie generò due stati: l’Unione Indiana e il Pakistan, rispettivamente induista e islamica. Per
l’Unione Indiana, i “compiti per il futuro erano: la sconfitta della povertà, dell’ignoranza, delle
malattie e delle disparità sociali ed economiche delle opportunità”. I capi di governo succedutisi
alla guida del paese si diedero per obiettivo primario la promozione dell’economia assieme
all’equità sociale. A tale scopo, fin dal 1950 furono disposti piani quinquennali che identificavano i
fini da perseguire, stanziavano risorse pubbliche e controllavano i risultati. La diffusa condizione di
povertà fu contrastata soprattutto promuovendo la modernizzazione del settore agricolo e
sostenendo lo sviluppo delle industrie di base. Due fattori soprattutto intralciarono il
raggiungimento degli obiettivi costantemente ribaditi: i conflitti interreligiosi e politici su base
etnica e ‘inarrestabile crescita della popolazione. C’era da ammodernare il sistema ferroviario
ereditato dagli inglesi e da realizzare una rete minuta di strade. Il settore economico più tutelato
direttamente e indirettamente fu il primario, La grande attenzione dei governanti indiani per il
difetto sociale ed economica della povertà è ben evidente. Con i primi quattro piani (1951-1971),
i governi mirarono soprattutto a dotare il paese di infrastrutture di base adeguate e a migliorare
l’agricoltura, così da renderlo autonomo sotto il profilo alimentare. Una politica daziaria
iperprotettiva dal 1950 difese le industrie e le manifatture nazionali dalla concorrenza degli altri
paesi asiatici. Dagli anni ’70 i governanti cominciarono a dimostrare un crescente interesse per
forme di cooperazione internazionale che promuovessero lo sviluppo.
L’apertura verso l’estero Con i primi anni ’80, il ceto governativo indiano si convinse che
convenisse seguire la via intrapresa dalle quattro tigri cioè abbattere le difese daziarie e
aumentare i prodotti da esportare, promuovendo la concorrenza e l’efficienza, Per far ciò era
indispensabile incentivare investimenti esteri diretti e favorire lo spostamento di manodopera dal
dominante e arretrato settore primario al secondario. L’effetto indiretto del nuovo indirizzo si
manifestò subito con un calo del tasso di povertà. Nel 1991 l’ingresso dell’India nel WTO accelerò
il processo di riforme e di liberalizzazione del mercato. Dopo la svalutazione della rupia, le
principali riforme economiche del periodo 1991-1997 attenuarono la presa dello stato
sull’economia:
1.Fu abolito il sistema delle licenze per aprire o ampliare imprese, a eccezione di quelle
strategiche;
2.Furono eliminati i controlli sulle importazioni di capitali e merci e ulteriormente ridotte le tariffe
doganali.
Dal 1993, la rupia divenne convertibile nelle maggiori valute. Fu liberalizzato il tasso d’interesse,
allentata la barriera all’ingresso per banche private nazionali ed estere e aperta la borsa a
investitori istituzionali esteri. Da ultimo, il sistema fiscale fu rafforzato, riformato e semplificato. Il
pacchetto di riforme si rivelò vincente. Nel triennio iniziale del nuovo secolo (2000-2003), la
ricchezza annualmente prodotta ha oscillato, dipendendo in parte dalla produttività agricola, a sua
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volta legata alla meteorologia. Le misure liberalizzanti, facilitando l’accesso a fattori produttivi e
beni d’investimento esteri, hanno migliorato l’utilizzo delle capacità produttive, e favorito la
crescita delle esportazioni. Le esportazioni hanno tratto vantaggio dalla liberalizzazione del
commercio della riduzione dei dazi e dell’apertura all’investimento estero in settori orientati
all’export come quelle dell’Information Technology, il vero e proprio fiore all’occhiello del recente
sviluppo economico del paese. L’emergere dei servizi come settore più dinamico dell’economia
indiana per molto versi costituisce un enigma perché gli economisti sostengono che nei processi di
sviluppo economico in un primo tempo cala la quota della ricchezza prodotta dall’agricoltura e
cresce quella dell’industria. Solo in seguito la quota dei servizi cresce più rapidamente, mentre
quella del settore industriale resta stabile o declina di poco. Una prima spiegazione della
stupefacente crescita del terziario indiano rimanda a un aumento della domanda dei servizi
proveniente dagli altri due settori. In più: le trasformazioni tecniche e strutturali avrebbero indotto
le imprese ad affidare all’esterno operazioni tradizionalmente svolte in casa. La crescita industriale
avrebbe causato una più che proporzionale domanda di prestazioni burocratiche. Un indice di
povertà fra i più altri del Terzo Mondo a economia di mercato esige strutture assistenziali
pubbliche centrali e periferiche altrove inesistenti. Infine, un ruolo decisivo avrebbero svolto le
riforme degli anni ’90, assieme alla crescita della domanda estera. L’accelerazione della crescita
del settore dei servizi negli anni ’90 derivò anche da una dismissione generalizzata di numerose
imprese e funzioni pubbliche, trasferite ai privati e da una crescita accelerata di alcuni sostenitori
quali:
1.I servizi relativi agli affari , cresciuti in media di circa il 20% l’anno;
2.I servizi di comunicazione;
3.I servizi creditizi e finanziari;
4.I servizi di comunità, hotel e ristoranti.
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