leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri

leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri
http://www.10righedailibri.it
Prima edizione: febbraio 2011
© 2011 Arcana Edizioni Srl
Via Isonzo 34, Roma
Tutti i diritti riservati
Copertina: Laura Oliva
ISBN: 978-88-6231-169-4
www.arcanaedizioni.com
PATRIZIA DE ROSSI
QUANTE COSE CHE
NON SAI DI ME
Le 7 anime di Ligabue
Indice
Introduzione
13
Prefazione di Patrizio Nissirio
19
Prologo.
L’ossessione del numero 7
27
1. L’anima rock
L’assenza di pudore e la potenza delle emozioni
39
2. L’anima cinematografica
Le canzoni come film, i film come canzoni
65
3. L’anima letteraria
Popolare ma non banale
109
4. L’anima femminile
Le donne lo han sempre saputo
137
5. L’anima passionale
Il gusto della vita
159
6. L’anima romantica
Love is the answer
179
7. L’anima politica
La verità è una scelta
201
Epilogo. Arte e leggerezza
227
7x7
237
QUANTE COSE CHE NON SAI DI ME
L’anima libera è rara,
ma quando la vedi la riconosci,
soprattutto perché provi un senso di benessere
quando le sei vicino.
Charles Bukowski
Prefazione
di Patrizio Nissirio
Qualche tempo fa ho visto un concerto di Francesco Guccini. A parte
la straordinaria e inossidabile poesia dell’ormai ultrasettantenne genio
della canzone italiana, una cosa mi ha particolarmente colpito: la
diversità all’interno del suo pubblico. Padri e madri attempati con
figli adolescenti al seguito; comitive di ventenni; trentenni con una
bottiglia di birra (con Francesco il vino sarebbe stato più adatto) in
cerca di una qualche vita spericolata. E mi sono chiesto perché questo
avvenga nella platea che dovrebbe appartenere a chi ha le tempie
grigie. La prima risposta è chiara: la sua poesia è talmente sofisticata
e “alta” da non temere “l’ingiuria degli anni”, parla a tutti, sempre,
reinterpreta in versi e musica l’esperienza di ognuno, ci riflette in uno
specchio che cambia di volta in volta. La seconda è: quest’uomo, con
la caratteristica dell’artista autentico, ha usato e continua a usare una
lingua completamente originale. E il pubblico, le persone, a prescindere dall’età anagrafica, rispondono. Sempre.
21
I tempi, si sa, cambiano. Così i linguaggi. Oggi nessuno in una
canzone (purtroppo, aggiungo, ma questa è probabilmente solo la
considerazione di un nostalgico) citerebbe Orazio o Schopenhauer.
Ma questa caratteristica è precisamente quella che fa la differenza tra
la star di passaggio e quella che resiste lungo un percorso, portando
con sé centinaia di migliaia di persone di tutte le età, che in quelle
canzoni sentono un pezzo della propria diversissima esperienza.
Questa, proprio come per Guccini, è la forza di Ligabue.
Il rocker emiliano, come il bardo suo conterraneo, parla la “sua”
lingua della canzone italiana, fatta di echi di tradizioni diverse (il
rock di Springsteen e degli U2, come chiunque sa e coglie) e di una
narrativa tutta personale che trova un senso e una “morale” alle
vicende comuni a tutti, giovanissimi, meno giovani e quasi anziani.
Ho sempre pensato che i testi di Luciano Ligabue nascondessero una
sorta di “nuova poetica”, fatta di espressioni non “alte”, magari colloquiali, ma combinate in modo da diventare, senza tema di smentite, poesia. Una frase come “Niente paura, ci pensa la vita, mi han
detto così”, presa a sé può non essere all’altezza di certe raffinatezze
liriche di un De André o di un De Gregori d’annata, ma questi non
sono più gli anni di quei due giganti. È un tempo nuovo, frammentato e sfilacciato, in cui la lingua si è schiacciata, appiattita, spesso
banalizzata e infarcita di luoghi comuni. In questa palude si muove
Ligabue. Spariti molti ideali, con il privato – privatissimo – che è
diventato l’unico orizzonte di più di una generazione di italiani,
Luciano ha iniziato sin dagli anni Ottanta a trovare un suo filo narrativo basato sull’esperienza di questo tempo e sul suo modo di raccontarlo, spiegarlo, attraverso il mezzo duttile della canzone.
Per cui, al pubblico a cavallo tra Ventesimo e Ventunesimo secolo
ha spiegato che “Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”.
Una spiegazione, una lettura smaliziata del malessere generalizzato e
dell’incertezza perenne che attraversa l’Italia di questi anni, e forse la
condizione umana in generale. Le sue donne sono “bambolina e bar-
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racuda”, non qualcosa che rima con amore e cuore, i suoi rapporti personali sono veri, in carne e ossa: fanno sì che si dica al partner, come
potrebbe capitare ad ognuno, “quante cose che non sai di me”. Frasi
strappate alla realtà, linguaggio non filtrato, ma assemblato sapientemente fino a formare una narrativa irresistibile, con qualità poetica
che resta impressa, diventa colonna sonora dei nostri anni, arriva al
livello di classico, in un tempo in cui i singoli da classifica svaniscono
dalla memoria come una delle sere tutte uguali al Bar Mario.
Patrizia De Rossi, in tempi non sospetti, ha scritto una tesi di laurea in Letteratura angloamericana su Bruce Springsteen, sicuramente la prima in Italia (1987), probabilmente anche la prima al mondo.
In quell’analisi, ancora oggi in larga parte condivisibile e attuale,
inseriva Springsteen nei grandi filoni della letteratura americana, utilizzando sulle canzoni rock e i loro testi gli stessi strumenti che aveva
usato nel corso degli studi su Steinbeck, Fitzgerald o James. Il risultato: un nuovo, fresco sguardo sul mondo delle liriche rock, che
messe in parallelo con il mondo della letteratura, del cinema e della
poesia acquistavano molteplicità espressiva, per non parlare di
nobiltà accademica, e diventavano in breve un mondo tutto ancora
da scoprire.
Quando, alcuni anni dopo, De Rossi ha scritto Certe notti sogno
Elvis, ancora oggi forse il volume più apprezzato dagli appassionati
della musica di Luciano, ha fatto un’operazione simile: invece di fermarsi al dato biografico, all’aneddotica e a qualche brano di intervista più o meno approfondita, ha unito queste cose (le informazioni
biografiche bisogna pur darle per un artista all’epoca non ancora una
superstar delle dimensioni odierne) a un’analisi dei testi di chiara
impronta letteraria, sviscerando così già allora la poetica di Ligabue.
Quel modo di fare canzone che tutt’oggi non ha molti eguali in
Italia, grazie a quell’operazione sul linguaggio di cui si diceva poco
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fa. Canzoni sentite magari distrattamente allo stereo della macchina
diventavano manifesti di un’esistenza di provincia, ma carica di
significati generali e generazionali (quelle lacerazioni che così bene
sono state raccontate nel film Radiofreccia). Storie intime dipingevano improvvisamente tutte le sfaccettature dei rapporti tra i sessi, tra
i modi di intendere la vita, nell’eterno dilemma tra il restare e l’andarsene molto lontano. Ma sempre su “strade troppo strette e diritte”, in caso si voglia poi cambiar rotta. Il tutto punteggiato dai
momenti d’evasione cari alla tradizione del rock’n’roll più autentico
(si veda, per avere un esempio mirabile, i brani superleggeri contenuti nell’album THE PROMISE di Bruce Springsteen, pensati e incisi nello stesso momento in cui nasceva in studio il pensoso DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN).
All’epoca di Certe notti sogno Elvis la musica di Luciano arrivava
già a molti, ma forse non a praticamente tutti, come avviene oggi. E
i tempi hanno continuato a cambiare. Normale dunque che sia nata
l’idea di tornare sull’argomento con occhi nuovi, su canzoni nuove,
in un’Italia diversa e per molti versi molto più difficile di quella degli
anni Novanta. Seguire la carriera dell’artista e le sue evoluzioni?
Ancora una volta sarebbe stata una strada già percorsa da molti altri,
nella miriade di volumetti for fans only. Patrizia De Rossi, grazie alla
sua conoscenza della musica e delle parole di Luciano, ha individuato queste “sette anime” su cui indagare, sette temi ricorrenti attorno
ai quali, a suo avviso, ruota la poetica di Ligabue. Temi seguiti nei
testi, tra un album e l’altro, senza temere accostamenti a volte apparentemente azzardati, se l’occhio critico ravvisa una vicinanza che
poi riesce a dimostrare.
Questo è dunque un libro per appassionati di Ligabue e della sua
musica, ma anche per chi ha la curiosità di capire lo stato dell’arte
della canzone italiana, oggi non in una delle sue fasi più creative e
convincenti. Chi mastica letteratura troverà spunti di interesse e
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rimandi poetici; chi vive di rock’n’roll scoprirà quante cose si possono dire pur parlando una lingua diretta e “quotidiana” come quella
di Luciano. E si ritroverà, con sua grandissima sorpresa, a condividere qualcuna di queste anime, o magari tutte.
Roma, dicembre 2010
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1
L’anima rock
L’assenza di pudore e la potenza delle emozioni
È rock chi non ha pudore
delle proprie emozioni
e te le sbatte in faccia
Delle sette anime di Luciano Ligabue, quella rock è senza dubbio la
più riconoscibile, quella che immediatamente identifica lui e tutta la
sua produzione. Racchiude infatti al suo interno, comprendendole
tutte, le sue altre anime. Non è soltanto una questione di musica, ma
anche e soprattutto culturale: è uno stile di vita, un modo di intendere la propria esistenza che accompagna l’artista (e chi ama il rock
in genere) in tutto ciò che fa.
Come scriveva Greil Marcus in un bellissimo libro intitolato
Tracce di rossetto, ci sono stati nel mondo, e in particolare negli Stati
Uniti, dei movimenti culturali che in termini di potere, di dominio,
di eventi riconosciuti e capolavori certificati non hanno lasciato un
segno evidente, e che però hanno inciso sensibilmente nel modo in
cui vivono realmente le persone, nella loro maniera di parlare e camminare, movimenti i cui segni sono rimasti impressi nella mente e
nelle voci delle persone in tutto il mondo. Anche inconsapevolmente. Il rock è uno di questi movimenti culturali. A nessun rocker –
fino ad oggi – è mai stato assegnato il Premio Nobel per la lettera-
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tura (anche se perfino nel nostro Paese si è formato un comitato per
l’assegnazione a Bob Dylan) o per la pace, ma si può negare che le
opere di autori insigniti del prestigioso riconoscimento, come ad
esempio John Steinbeck, Toni Morrison, Dario Fo, possano non
essere state in qualche modo influenzate, sia pur inconsciamente, dal
clima culturale sotterraneo generale? A Steinbeck il premio fu dato,
nel 1962, “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione
della vita priva di illusioni”. A Toni Morrison, nel 1993, perché “in
racconti caratterizzati da forza visionaria e rilevanza poetica dà vita a
un aspetto essenziale della realtà americana”. Dario Fo fu premiato
nel 1997 perché “seguendo la tradizione dei giullari dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Sono motivazioni che sottolineano l’importanza di rappresentare la realtà anche ricorrendo
all’uso della fantasia, la disillusione dell’uomo di fronte alle ingiustizie della vita, tutti temi che rientrano nella sfera culturale e immaginifica del rock’n’roll, e che sono stati ampiamente trattati nel corso
di questi cinquant’anni e più.
Partendo dal presupposto che fin dagli inizi – cioè dalla metà degli
anni Cinquanta – il rock non è mai stato solo un genere musicale,
ma un’espressione culturale molto più vasta, parte integrante e fondamentale di quella cultura americana di cui Ligabue come tutta la
sua generazione si è nutrito abbondantemente, non si può circoscrivere il rock dell’artista di Correggio a un fattore esclusivamente
musicale. Non è certo un caso che Ligabue si sia dedicato a diverse
forme d’arte (il cinema, la letteratura, la poesia) per esprimere le sue
emozioni, i suoi pensieri, le sue storie. Tutte riconducibili al rock,
ovviamente, ma ognuna in maniera diversa.
Perché il rock è soprattutto una questione di emozioni e di comunicazione, come traspare dalle dichiarazioni di Ligabue rilasciate nel
2006 presentando l’album NOME E COGNOME:
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Nessun altro modo di esprimermi si avvicina neanche lontanamente a quello che mi dà fare musica, suonarla e cantarla dal
vivo. La massa emotiva che viene mossa quando sono sul palco
è qualcosa di indescrivibile. Sono uno che si emoziona. E io ci
tengo molto a produrre emozioni in chi si avvicina a me. Mi
piace chi si concede emotivamente. Credo che abbia a che fare
con la mia idea di comunicazione: per me la comunicazione tra
esseri umani è sentimentale, cioè del sentimento. Sono molto
centrato sull’emozione e a volte ne sono anche vittima, ma la
vivo fino in fondo. È difficile per me tenerla sotto controllo e
non sono neanche sicuro di volerlo fare. E questo forse è un po’
un limite perché la mia emozione è sempre evidentissima, deve
uscire per forza in quell’attimo preciso come se in qualche
modo la sua urgenza fosse più vera e più autentica della
ragione. E questo vuol dire essere anche più vulnerabili, perché
significa esporre la tua polpa.
Tralasciamo, qui, l’inclinazione autodistruttiva di un certo rock –
quello celebrato da Ian Dury nel pezzo passato alla storia come slogan transgenerazionale, ovvero Sex & Drugs & Rock’n’Roll (1977) –
che nel corso degli anni ne ha esaltato l’aspetto torbido e dannato,
consolidatosi attraverso morti eccellenti come quella di Brian Jones,
Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, tutte avvenute tra la fine
del 1969 e la metà del 1971, o quella di Elvis Presley, scomparso nel
1977. Concentriamoci piuttosto sull’elemento vitale e positivo,
quello che Ligabue ha sempre messo al centro della sua vita e della
sua opera, e che costituisce il vero carattere predominante della cultura rock.
Certo non si può negare che le droghe, da quelle sintetiche e chimiche a quelle naturali, abbiano giocato un ruolo importante nella
vita e nella produzione di alcuni artisti, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1963 del volume The Psychedelic Experience, in cui lo psicologo americano Timothy Leary teorizzava che l’esperienza psiche-
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delica fosse un viaggio verso nuovi spazi di conoscenza. Secondo
Leary, che scrisse il libro dopo aver provato durante un viaggio in
Messico alcuni allucinogeni tra cui il peyote, questi funghi e altre
sostanze alcaloidi erano la chiave di accesso per esplorare nuovi
mondi, anche se il soggetto che ne fruiva doveva rimanere fondamentale affinché l’esperienza trascendente si compisse. Gli effetti
allucinogeni e soprattutto quelli creativi variavano da persona a persona. Nessuno può più dubitare che i Pink Floyd abbiano realizzato
alcuni capolavori sotto gli effetti della droga, così come gli stessi
Beatles che, pur avendo incarnato da principio lo stereotipo dei bravi
ragazzi della porta accanto, contrapposti agli antagonisti Rolling
Stones, non hanno mai nascosto di aver fatto uso di droghe di varia
natura (soprattutto nella seconda parte della loro carriera, dopo il
soggiorno in India avvenuto nel 1968). E Jerry Garcia, chitarrista e
portavoce dei Grateful Dead, band di culto del rock psichedelico,
dichiarò che assistere a un loro concerto sotto effetto di allucinogeni rappresentava un autentico viaggio verso la conoscenza, un “trip”,
come gli era stato riferito da molti fan.
Non vanno comunque dimenticati due fattori molto importanti:
il primo, che già negli anni Cinquanta, e ancora prima, l’uso delle
droghe e dell’alcol era una caratteristica abbastanza comune anche
tra jazzisti e bluesmen; il secondo, che non appena si sono conosciuti
gli effetti devastanti (più che esaltanti) delle sostanze stupefacenti,
molti artisti hanno preso una posizione netta di ferma condanna. A
cominciare da Neil Young, che dopo aver visto morire di overdose
amici e colleghi (in particolare il chitarrista dei Crazy Horse, Danny
Whitten, e Bruce Berry, che lavorava come roadie per lui) ha scritto
nel 1972 una splendida canzone, The Needle And The Damage Done,
in cui dice testualmente:
I hit the city and
I lost my band
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I watched the needle
Take another man
Gone, gone, the damage done
Ho conquistato la città
Ho perso la mia band
Ho visto l’ago
Prendersi un altro uomo
Andato, andato, il danno è fatto
Un docente di psicologia dell’Università McGill di Montreal, il
professore Daniel J. Levitin, direttore del Laboratory for Music
Perception, Cognition and Expertise della medesima università
canadese, dopo uno studio approfondito condotto nel 2007 chiamato Life Soundtracks: The Uses Of Music In Everyday Life, che ha
portato alla realizzazione di un libro molto significativo dal titolo
Your Brain On Music. The Science Of A Human Obsession (edito da
Penguin Books), ha scoperto che la musica, agendo sullo stesso centro cerebrale che genera quel senso di appagamento che provano i
tossicodipendenti nel momento in cui si fanno, o i bulimici quando
si ingozzano di cibo, attiva il nostro cervello esattamente come farebbe uno stimolante chimico. In tal modo la musica ci dà sensazioni
di piacere, eccitazione, soddisfazioni ed emozioni, il tutto amplificato attraverso una reazione chimica regolata dalla dopamina (il neurotrasmettitore che agisce sul sistema nervoso guidando le nostre
scelte). Stando ai risultati raggiunti da Levitin e dal suo staff, la
musica influenza in maniera determinante il nostro umore e provoca reazioni nel nostro fisico tutt’altro che trascurabili: maggiore
sudorazione, accelerazione e riduzione del battito cardiaco, diversa
respirazione, brividi lungo il corpo. Ma soprattutto agisce sulla
nostra attività mentale e sulla nostra eccitazione sessuale. Naturalmente ognuno di noi stabilisce quali sono i propri generi e i propri
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artisti preferiti, ma gli effetti che la musica provoca sono universali,
agiscono su tutti.
Ligabue, in maniera evidentemente tutt’altro che casuale, nel
2002 pubblica in FUORI COME VA? un brano dal titolo In pieno
rock’n’roll, che parla espressamente dell’effetto dopante e stupefacente
(in tutti i sensi) della musica, pur sottolinenando che ci sono anche
altri elementi positivi a cui assuefarsi: l’affetto, i sogni, il sesso, le idee.
Sono queste le dipendenze sane, con la musica che le veicola e le
include tutte. Magari suona un po’ antico (come dice Ligabue), ma
è proprio così, perché le canzoni sanno chi sei molto meglio di te.
Tutti quelli che amano la musica, e in particolare il rock, sanno da
sempre che la musica scatena reazioni emotive molto forti e condiziona il proprio umore. Ti rende allegro, ti consola nei momenti difficili, ti dà la carica prima di affrontare una sfida importante, ti rilassa, ti scatena emozioni che a volte non sai neanche tu di poter sentire. Con le teorie e gli studi di Levitin, se ne ha anche la conferma
scientifica.
Quando chiedo a Luciano cosa significhi per lui la parola “rock”,
risponde così:
Rock per me, per come lo intendo e per come l’ho sempre vissuto, è chi se ne frega del pudore rispetto alle proprie idee e ai
propri sentimenti. Sono rock le persone che le proprie idee te
le urlano in faccia, i propri sentimenti te li raccontano sbattendosene del fatto che tu li possa anche deridere. Il rock da questa punto di vista è la faccia tosta, ma è anche coraggio, perché
quando esprimi le cose che hanno a che fare con la tua anima,
sapendo che il giudizio è aperto a tutti, ti esponi anche alla possibilità di essere ferito. È proprio qui che io ho sempre trovato
la chiave del rock. Per me è rock anche chi fa un genere di
musica che potrebbe essere catalogato come pop ma che dentro ha questo tipo di necessità: il raccontarsi senza pudore,
avendo il coraggio di farlo in maniera sfacciata.
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Attraverso il rock, dunque, si afferma innanzitutto il potere delle
emozioni, la vitalità dell’individuo, la voglia di riscatto, il desiderio
di godersi la vita anche attraverso piccole gioie quotidiane, la volontà
di inseguire i propri sogni indipendentemente dalla possibilità di
realizzazione e dalle difficoltà che ti prospetta la vita. Il rock rivendica quello spirito di libertà e di uguaglianza tra gli esseri umani e
quella ricerca della felicità che sono i capisaldi della Costituzione
degli Stati Uniti e il fondamento della stessa cultura americana,
quindi della cultura rock. Quella cultura che dopo la seconda guerra mondiale è penetrata nel nostro Paese, attecchendo e innestandosi rapidamente sulle nostre tradizioni grazie anche a una poderosa
operazione di massificazione della cultura, indotta dalla radio ma
soprattutto dalla televisione (che in Italia arrivò proprio nel 1954,
ovvero nell’anno a cui si fa risalire la nascita del rock’n’roll) e dal
cinema.
Se i primi a portare la musica americana (soprattutto il jazz e lo
swing) in Italia sono stati i soldati USA che venivano a liberare un
Paese devastato dal fascismo, dalla fame e dalla guerra, furono poi
autorevoli intellettuali italiani (Cesare Pavese, la sua migliore allieva
Fernanda Pivano ed Elio Vittorini, tanto per fare qualche nome) a
farci conoscere la bellezza e la ricchezza della letteratura e della cultura popolare nordamericana, che avevano per l’appunto nella musica e nel cinema due componenti fondamentali.
Pavese per primo, con le sue traduzioni, ci ha fatto scoprire
Hermann Melville e John Dos Passos (scrittore dell’impegno civile e
politico), Fernanda Pivano ci ha aperto nuovi orizzonti traducendo
nel 1943 l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master e tutta la
beat generation (da Jack Kerouac ad Allen Ginsberg), mentre
Vittorini ha presentato all’Italia William Faulkner con le sue storie
provocatorie e i suoi pungenti ritratti degli Stati del Sud raccontati
con uno stile nuovo, ricco di sfumature psicologiche e considerazioni impietose.
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Abbiamo così imparato a conoscere prima personaggi come il
Capitano Achab (il comandante di Moby Dick che va alla ricerca
della balena bianca ergendosi contro tutto e tutti) e la famiglia
Compson (simbolo della decadenza del Sud in L’urlo e il furore), affascinanti nella loro testardaggine e pervicaci nella loro lotta contro l’inevitabile evoluzione (o involuzione) dei fatti, e poi Dean Moriarty,
il protagonista viaggiatore di Sulla strada, alter ego letterario di Neal
Cassady (anche lui scrittore e amico di Kerouac). Achab a suo modo
è un personaggio rock perché insegue ostinatamente e senza alcuna
remora il suo incubo rappresentato, metaforicamente e no, dalla
balena bianca. Imprendibile, enorme, leggendaria e forse solo frutto
della fantasia degli uomini, Achab ha bisogno di quell’ossessione per
sentirsi vivo, per riscattarsi, per dare un senso alla sua vita. E sfida
tutti e tutto per perseguire il suo sogno. Fino al tragico epilogo. Ma
Achab è vivo solo nella sua ricerca: se non avesse Moby Dick a cui
dare la caccia, non avrebbe motivo di esistere. Anche Dean Moriarty
è rock, perché non esita un istante a lasciare tutto quel che ha (ben
poco, peraltro) per andare a cercare una nuova vita, la sua vita, da
un’altra parte, ovunque essa sia. Dean parte senza sapere dove andrà
o dove arriverà, per lui ciò che conta è partire, agire, vivere.
Queste figure sono autentici anti-eroi che vanno alla ricerca di
una società e di una vita migliore, che inseguono con tutte le loro
forze i sogni passati e futuri, e che pur vivendo ai margini della
società trovano l’unica possibilità di riscatto attraverso la capacità di
guardare lontano e di andare oltre, rimettendo in discussione tutta la
propria vita non soltanto con gesta epiche e memorabili, ma anche
attraverso il potere salvifico dei sogni, la fede nella possibilità di realizzarli e i piccoli (grandi) gesti quotidiani.
Basta ascoltare una sola canzone di Ligabue, o leggere un suo racconto o una sua poesia, oppure guardare un suo film, per comprendere che il rock di Ligabue è funzionale ed essenziale alla sua arte,
alla sua espressione, al suo modo di comunicare. I suoi personaggi
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sono anti-eroi contemporanei, quelli che incontriamo tutti i giorni
per la strada o negli uffici, nelle scuole e nelle piazze. Sono le figure
che incarnano la spontaneità e l’immediatezza della classe operaia
contrapposta alla piccola e media borghesia con tutte le sue regole e
il suo formalismo artificioso.
In una delle sue prime canzoni, Marlon Brando è sempre lui
(1990), Ligabue canta che non è obbligatorio essere eroi, ed è forse
la prima pietra su cui poggia tutta la sua poetica.
Quello di Vita da mediano (1999) è un altro testo emblematico in
questo senso: parla di chi è nato senza i piedi buoni e deve lavorare
sui polmoni, correndo in lungo e largo per il campo perché la natura non gli ha dato né lo spunto della punta, né tantomeno quello del
numero 10, il fantasista ovvero l’artista della squadra. Essere un antieroe significa essere un mediano, un giocatore bravo e volenteroso,
un oscuro gregario di quelli che si dannano in mezzo al campo e faticano anche per gli altri, ma che sono fondamentali per la vittoria
finale. Il fuoriclasse è l’idolo delle folle, è l’eroe.
L’anti-eroe per eccellenza è colui che attraverso la cultura rock
diventa il centro vitale di tutte le vicende narrate. E la gente, attraverso il rock, inizia ad amarlo, soprattutto perché si identifica in lui,
lo sente vicino, lo percepisce come uno che ha dallo stesso vissuto,
uno che non si arrende mai. Si pensi, tornando all’ambito calcistico,
a giocatori come Gattuso, Zanetti, Nedved, e all’appeal che hanno,
e hanno avuto, nei confronti del pubblico. Sono i più amati dai tifosi, magari anche i più fischiati dagli avversari perché i più temuti,
sono quelli che in campo danno tutto, che incitano la propria folla
e che non mollano mai. Sono quelli che tutti vorrebbero nella propria squadra.
Quando uscì MISS MONDO, Ligabue dichiarò che la metafora calcistica rendeva benissimo il suo stato d’animo, la sua sensazione di
quel momento, un momento in cui doveva fare i conti con una popolarità divenuta improvvisamente insostenibile, vissuta quasi con senso
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di colpa, soprattutto se abbinata agli enormi guadagni che arrivavano. E se nella vita ti sei trovato a fare qualsiasi tipo di mestiere per
portare a casa la pagnotta, tutto diventava troppo: “Vaglielo a spiegare alla gente che tu ti senti come un mediano, uno che ha sempre faticato in mezzo al campo. Non ho la classe del numero 10, né il guizzo vincente dell’attaccante che segna, sono un onesto lavoratore”.
Il rock di Ligabue è un omaggio alla vitalità, alla sensualità, al
potere seduttivo della vita e della musica, alla voglia di godere e di
godersela, lottando per i propri sogni ma anche per i propri diritti,
per la realizzazione personale. Perché solo attraverso la realizzazione
dei propri sogni e l’affermazione della propria personalità ci si può
sentire realmente vivi.
Nei suoi primi concerti, parliamo degli inizi degli anni Novanta,
durante l’esibizione di Figlio d’un cane, Luciano era solito fare un
discorso nel bel mezzo della canzone in cui affermava che il brano
era dedicato “a tutti quei bastardi che non si piegavano a fare i
cagnolini per qualcuno solo per avere in cambio un osso, per tutti
quei randagi che non scodinzolavano su due zampe per compiacere
il proprio padrone e portargli il giornale e le ciabatte perché a quel
punto l’osso se lo sarebbero andati a cercare da un’altra parte per sentirsi liberi e soprattutto vivi”.
Le mie canzoni vogliono parlare di vita e soprattutto del bisogno di vivere. Io ho sempre avuto la necessità di parlare del mio
bisogno di vivere, e non – attenzione – di sopravvivere. Se
guardiamo ai personaggi che racconto, sono tutti così: vogliono
vivere, non solo accettare di sopravvivere.
Per questo il rock rappresenta alla perfezione quel bisogno di sentirsi selvaggi in un mondo pieno di convenzioni, che vengono rifiutate in blocco. Quando gli Steppenwolf pubblicano nel 1968 Born
To Be Wild (una delle canzoni più celebri della storia del rock, scrit-
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ta da Mars Bonfire), nei primi otto versi John Kay, il cantante e fondatore del gruppo, racconta tutta l’essenza del rock:
Get your motor runnin’
Head out on the highway
Lookin’ for adventure
And whatever comes our way
Yeah Darlin’ go make it happen
Take the world in a love embrace
Fire all of your guns at once
And explode into space
Metti in moto
Punta verso l’autostrada
In cerca dell’avventura
E qualsiasi cosa ci capiterà
Tesoro la vivremo
Abbraccia il mondo col tuo amore
Carica tutte le tue armi insieme
E spara nello spazio
L’inizio di questo brano è un manifesto chiaro e inequivocabile. È
una spinta formidabile ad agire, a partire per cambiare la propria
vita, o quantomeno a provarci. Ventitré anni dopo, nel 1991, in
Urlando contro il cielo, Ligabue riprende e fa suo lo stesso concetto
cantando che c’è una notte tiepida e un vecchio blues da fare insieme, e che insieme si vivrà la strada pur sapendo di meritare di più.
Il rock è salvazione. Tutti i protagonisti delle canzoni di Ligabue
trovano la loro redenzione nel raggiungimento dei propri sogni, o
quantomeno, come abbiamo appena visto, nel tentativo di riuscire a
compierli. A cominciare dai cinque amici di Sogni di rock’n’roll
(1990) – gli stessi che ritroviamo cinque anni dopo in Certe notti –
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che attraversano la notte, metafora della libertà, con una serie di
aspettative che sanno di poter realizzare solo con grande determinazione, speranza e fiducia, e che costituiscono al tempo stesso la linfa
vitale di cui necessitano per andare avanti e superare il grigiore quotidiano. Anche il sabato successivo saranno lì: i cinque amici, i loro
sogni e la possibilità di fuggire per raggiungerli. Così oggi, per il suo
ultimo album, ARRIVEDERCI, MOSTRO!, Luciano scrive un brano
che s’intitola significativamente Atto di fede – “Vivere è un atto di
fede, mica un complimento” – e un altro, La linea sottile, in cui canta
“A mia volta non smetto di andare anche se non si sa ancora dove”.
Il concetto, in sostanza, è sempre lo stesso, ma maturato e sviluppatosi nel corso di vent’anni di vita e di carriera.
E qui si ritorna, non a caso, ai grandi autori della letteratura americana, soprattutto a quelli della beat generation e in particolare a
Jack Kerouac (citato da Ligabue con i suoi Selected Poems anche nel
tour estivo del 2010, in una delle immagini che scorrono sul megaschermo alle sue spalle) che in un passo di Sulla strada fa dire ai suoi
protagonisti:
“Dove andiamo?”.
“Non lo so”.
“L’importante è continuare ad andare”.
Lo stesso dialogo, nel 1985, è riproposto da Bret Easton Ellis, che
nel suo romanzo d’esordio, Meno di zero, crea questo botta e risposta tra il protagonista Clay e il suo amico Julian, mentre sono in
macchina:
“Dove stiamo andando?”.
“Non lo so, sto solo guidando”.
“Ma questa strada non porta da nessuna parte”.
“Non importa”.
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“Cosa importa allora?”.
“Solo che ci siamo su, amico”.
Allo stesso modo, quando Ligabue in Salviamoci la pelle del 1991
canta che lui e lei hanno quel destino scritto da altri, altre vite fa, e
che è l’unica cosa che hanno in eredità – sottolinenando il fatto che
nel loro paese non c’è niente per nessuno, con il conseguente invito
ad andare via che diventa immediatamente un’esortazione – afferma
quello stesso diritto a inseguire i propri sogni attraverso il viaggio, la
strada, la possibilità di mettersi alla prova, anche attraverso la resistenza strenua: non ci avranno come vogliono loro. Così i protagonisti di Dazeroadieci (e di Libera uscita che della colonna sonora di
quel film era il brano portante) affermano che nessuna statistica,
nessuna ricerca di mercato potrà mai incasellarli, ripetendo che le
convenzioni, gli schemi precostituiti, le omologazioni aprioristiche,
le vite già vissute da genitori che vorrebbero lo stesso destino per i
loro figli non funzionano con chi ha deciso che “crederci ancora”
non sia una brutta malattia.
Insistendo sul concetto dell’andare via per realizzare se stessi e
migliorare la propria vita, vivendola secondo i propri dettami,
Ligabue scrive nel 2010 un altro brano molto significativo, Il meglio
deve ancora venire, che è fondamentalmente un inno alla speranza.
Anche qui riprende il concetto del partire per sfuggire a una vita
insoddisfacente e già prestabilita, sottolineando come il suo protagonista non abbia altra scelta e come soprattutto non sia importante l’obiettivo del viaggio, ma il viaggio in sé. E tornando alla convinzione che non è obbligatorio essere eroi, evidenzia come non
debba essere tutto per forza perfetto.
Il potere salvifico del rock trova nell’esibizione dal vivo la sua
liturgia: a un qualsiasi concerto di Ligabue ci si rende immediatamente conto che non si tratta solo di musica, che non è solo uno
show. È la celebrazione di un rito collettivo che con la musica spri-
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giona un’energia positiva che costituisce la linfa vitale per chi lo va a
vedere ma anche per chi lo fa. L’artista sul palco trae vigore per se
stesso e per la sua musica allo stesso modo della gente che lo ascolta.
E infatti alla fine di ogni suo show, nel ringraziare il pubblico,
Ligabue rende omaggio a tutti coloro che sono andati a vederlo, sottolineando sempre la straordinarietà costituita da quella folla, l’unicità dell’esperienza, la forza e l’entusiasmo percepiti e immagazzinati da lui stesso. Elementi indispensabili per andare avanti e nutrimento insostituibile anche per lo stesso artista, in una sorta di scambio alla pari: ciò che Ligabue dà al pubblico gli viene restituito in
misura amplificata dalla gente.
Qualche anno fa il critico musicale di «Repubblica» Gino
Castaldo propose a Luciano un articolo davvero particolare: “Fammi
salire sul palco con te, mimetizzato tra i tuoi musicisti, e io provo a
descrivere da giornalista le emozioni che puoi vivere tu sul palco”.
Anche questa una sorta di sfida e di scambio (il prezzo da pagare fu
una statuetta di Raffaella Carrà a tiratura limitata chiesta in maniera scherzosa dal manager Maioli), e quel che venne fuori fu un pezzo
davvero sui generis, che iniziava così: “Sessantamila facce che ti guardano non sono uno scherzo. Certo, non guardano me, guardano il
loro dio, Luciano Ligabue...”; e finiva con queste parole: “Adesso ho
capito meglio l’impagabile fortuna dei grandi musicisti. Queste
emozioni sono merce rara, rarissima, il frutto dell’amore di sessantamila cuori che battono”.
Ligabue invita sempre la sua gente a crederci, a fare l’amore quando torneranno a casa, a vivere, perché il rock’n’roll è soprattutto l’affermazione e la rivendicazione della vitalità e non è un caso se mutua
il suo nome da un’espressione gergale americana che letteralmente
significa “dondolarsi e rotolare” ma che per traslato, e nella realtà, è
sinonimo dell’atto sessuale.
Quando Elvis Presley compare per la prima volta alla televisione
americana allo Stage Show nel 1956, viene censurato perché la sua
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fisicità, i suoi movimenti durante l’esibizione sono troppo espliciti.
Il rock è provocazione ed Elvis incarna l’archetipo del provocatore: è
bello, è sensuale, è sfrontato, è giovane. La sua presenza in televisione scatena un uragano di ormoni tra le ragazzine di tutti gli Stati e
la corsa all’imitazione da parte dei maschi che vogliono essere come
lui. I benpensanti bigotti americani degli anni Cinquanta non possono che censurarlo, cercando però di trovare una sorta di compromesso, perché di certo non si può ignorare il fenomeno Elvis.
Quindi, Presley viene ripreso sullo schermo dal bacino in su.
Quando nel 1969 Jim Morrison, durante un concerto a Miami
entrato poi nella leggenda, finge di masturbarsi, viene arrestato sul
palco per oscenità dalla polizia locale e condannato dopo un processo immediato (salvo poi essere perdonato dalla Corte di Giustizia a
distanza di quarantun’anni, nel dicembre del 2010!).
Quando Ligabue in Cerca nel cuore (1994) canta “toccami qui
proprio sul cuore”, lascia poco spazio alle interpretazioni e ai dubbi.
Il rock è un’esaltazione continua della sessualità e della fisicità, è la
passione contrapposta al sentimentalismo, è la ribellione agli schemi
precostituiti e alle regole imposte anche in campo amoroso.
Considerando che il rock nasce negli anni Cinquanta – quando
appunto la morale comune e il senso del pudore sono molto più rigidi, ma anche quando la gente ha una maggiore voglia di divertirsi
perché si è da poco conclusa la seconda guerra mondiale – la ribellione e l’affermazione della propria personalità si esprimono anche
attraverso il sesso.
A tale proposito, canzoni del repertorio di Ligabue come Libera
nos a malo (1991) e L’odore del sesso (2002) sono estremamente
signifcative. Le convenzioni sono frantumate dall’istinto. La ribellione, nel primo caso ai dogmi della Chiesa cattolica, nel secondo
alla morale un po’ bacchettona di derivazione anche questa cattolica
che domina nel nostro Paese, si compie attraverso la gioia, la gratificazione e la soddisfazione del sesso fatto per puro piacere, senza
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coinvolgimenti sentimentali né morali. In modo diverso, in Si viene
e si va, scritta nel 1999 per MISS MONDO, le allusioni alla nascita e
alla morte sono evidenti, tanto quanto l’ammiccamento a come si
viene al mondo, per l’appunto. Il brano è un invito a vivere la propria esistenza anche attraverso il sesso, secondo i propri valori e i propri mezzi senza aspettarsi chissà quali ricompense o riconoscimenti
da parte degli altri, anche da chi sta (forse) al di sopra di tutto. Ma
il senso della vita alla fine è tutto qua, fra gusto e dolore.
Il rock come affermazione del proprio io è ripreso poi in Vivere a
orecchio, canzone contenuta nell’album NOME E COGNOME del
2006: si vive secondo le proprie convinzioni e i propri valori, senza
ricette scritte da altri, e si può anche stonare e sbagliare, ma è meglio
sbagliare da soli che farsi condizionare da altri e poi magari sbagliare ugualmente. Nessuno può dirti cosa devi fare e come devi vivere
la tua vita. Pensiero che già in precedenza Ligabue aveva espresso in
Tutti vogliono viaggiare in prima (1999), dove parlava espressamente
di progetti e difetti, di anti-eroi che non si lasciano comprare da nessuno, neanche da una semplice bevuta al bar.
Voglio volere, brano inserito in FUORI COME VA?, è un vero manifesto di intenti:
Voglio volere tutto così
voglio riuscire a non crescere
voglio portarti in un posto che
tu proprio non puoi conoscere
Voglio restare sempre sveglio
con tutti i miei sogni
Voglio volere
Io voglio un mondo all’altezza dei sogni che ho
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voglio deciderlo io se mi basta o se no
voglio godermela tutta fin quando si può
Voglio non dire mai “è tardi”
oppure “peccato”
Voglio che ogni attimo
sia sempre meglio di quello passato
In questi versi c’è tutta l’essenza rock di Ligabue: un’anima esigente, leggera e profonda al tempo stesso, un’anima che vuole godersi la vita senza dimenticare che i sogni e gli obiettivi siamo noi stessi a fissarli di volta in volta, e che per poterli raggiungere c’è bisogno
di mettersi in gioco, di decidere se ci bastano o no, di non credere
che tutto sia a nostra disposizione ma che anzi per ottenere ciò che
vogliamo occorre lottare contro il mondo esterno; e che nonostante
tutto ciò che ci potranno dire, nonostante tutti gli ostacoli che ci si
porranno davanti, si deve andare avanti per godersi fino in fondo i
propri sogni.
In Quando canterai la tua canzone (2010), Ligabue dice che l’impatto con il mondo è sempre duro per chi lo vede come un posto
oscuro, ma aggiunge che è sempre il singolo a stabilire come affrontarlo, questo mondo, tra botte e rime.
In un brano come Ho ancora la forza – scritto a quattro mani con
Francesco Guccini – Ligabue non potrebbe essere più esplicito: evidenzia come abbia ancora la forza che serve a camminare e a ricominciare, quella di chiedere anche scusa (un’autentica rarità, oggi),
quella di non tirarsi indietro neanche quando la situazione è difficile, garantendo sempre il massimo dell’impegno e della serietà, ma
soprattutto ha quella forza – e, come dice lui stesso, di questa ce ne
vuole moltissima – che gli consente di rendere leggero il peso dei
ricordi. Forse il compito più arduo.
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Torna in questa canzone, seppur in parte, la metafora calcistica,
così come lo spirito di sopravvivenza che costituisce un’altra caratteristica più volte sottolineata dall’autore. Da Salviamoci la pelle (“Che
bella o brutta è quella lì, rendiamola unica”, 1991) a Siamo in onda
(“Se ne frega di serrande, di finestre sempre chiuse, di sistemi troppo grandi, di destini già decisi”, 1998), fino a La linea sottile (“A mia
volta mi fido del mondo, non ti dico le botte che prendo, non c’è
modo di starsene fuori da ciò che lo rende tremendo e stupendo”,
2010) passando per il Credo di Freccia (interpretato da Stefano
Accorsi nel primo film da regista di Ligabue, Radiofreccia, realizzato
nel 1998), che è una summa di tutto ciò che incarna lo spirito rock.
Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards.
Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che
vuole l’affitto ogni primo del mese.
Credo che ognuno di noi si meriterebbe un padre e una madre che
siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi.
Credo che un’Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci
sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in
maniera diversa.
Credo che non sia tutto qui, però prima di credere in qualcos’altro
bisogna fare i conti con quello che c’è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche dio.
Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con
trecentomila al mese, però credo anche che se non leccherò culi
come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose.
Credo che c’ho un buco grosso dentro, ma anche che il rock’n’roll,
qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le
stronzate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono.
Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e da te stesso non
ci scappi nemmeno se sei Eddie Merckx.
Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque
non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri.
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In questo monologo, recitato di notte alla radio da Freccia, sfilano tutti gli elementi che la cultura rock ha fatto suoi nel corso di
questi anni: fede, sogni, fuga, istinto di sopravvivenza, ribellione alle
convenzioni e agli schemi precostituiti, sesso, senso dell’amicizia e
della condivisione, solidarietà.
A proposito di solidarietà, basti pensare alle grandi mobilitazioni
per raccogliere fondi da devolvere in beneficenza: dal Live Aid organizzato da Bob Geldof e Midge Ure nel 1985 con un megaconcerto
tenutosi il 13 luglio tra Londra e Philadelphia per offrire aiuti
all’Etiopia, a USA (United Support of Artists) for Africa, il progetto
che ha radunato quarantasette mostri sacri della musica americana e
che partendo dalla registrazione dell’ormai leggendaria We Are The
World ha raccolto in venticinque anni circa sessantatré milioni di
dollari, fino al recente Amiche per l’Aquila, il concerto organizzato
da Laura Pausini in Italia nel 2009 allo Stadio San Siro di Milano,
con la realizzazione successiva di un Dvd diventato in brevissimo
tempo campione di vendite. E in fatto di solidarietà Ligabue non si
è mai tirato indietro: la sua canzone Il mio nome è mai più, cantata
e incisa con Jovanotti e Piero Pelù, raccontava l’orrore della guerra,
in Kosovo nello specifico, estendendo il concetto a tutte le cinquantuno guerre che in quel momento (era il 1999) si combattevano nel
mondo, come riportato sul retro della copertina del singolo. I proventi di quel disco vennero devoluti interamente a Emergency, che
costruì diverse strutture ospedaliere in Afghanistan. Nessuno o
quasi, all’epoca, sembrava credere che si sarebbe effettivamente realizzato quel progetto.
Il rock, per sintetizzare, è la capacità di crederci sempre, fino in
fondo, anche quando tutto sembra remare contro. Capacità questa
che coincide con il potere dei sogni. Se il Credo di Freccia è una sorta
di sunto generale, un’accorata preghiera laica dell’anti-eroe per eccellenza, Almeno credo (apparsa su MISS MONDO) diventa la sublimazione di tutto: “Credo che ci voglia un dio e anche un bar, credo che
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stanotte ti verrò a trovare per dirti tutto quello che ti devo dire, credo
al tuo odore e a quello che mi fa sentire, credo a quel tale che dice
che l’amore porta amore, credo – soprattutto – che ognuno si faccia
il giro come vuole, quando vuole”.
Per tutte queste caratteristiche, il rock è una cultura tutt’altro che
distruttiva, anzi fortemente improntata sulla positività e orientata
alla vita. E gli Steppenwolf chiudono Born To Be Wild con tre versi
che non lasciano adito a dubbi:
We were born, born to be wild
We can climb so high
I never wanna die
Siamo nati per essere selvaggi
Possiamo arrampicarci in alto
Non voglio morire mai
Il rock non è solo una questione di musica. Il linguaggio di
Ligabue passa anche attraverso altri canali, ed è lui stesso a definire
l’ampiezza del suo punto di vista e dei suoi gusti.
È chiaro che il rock rappresenta per me una decodificazone di
simboli, ma anche di linguaggio, per cui ha a che fare con le
chitarre elettriche, soprattutto, e con le batterie che hanno un
certo tipo di intenzione. In generale, a me piace che sia un’energia abbastanza brutale e che arrivi.
Questo è quello che io sento e che in qualche modo mi fa
definire rock una cosa piuttosto che un’altra. Ma a volte trovo
rock anche altre cose. Ad esempio, ho trovato rockissimo l’ultimo repertorio di Johnny Cash, ed era acustico con un po’ di
chitarre e un piano sotto che faceva i bassi, ma era rock! Hurt,
che è già una canzone violentissima, cantata da lui negli ultimi
momenti della sua vita diventa straziante, e per me è un pezzo
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assolutamente rock perché Cash ha preso il coraggio, per l’ennesima volta, di essere rock nell’anima, esponendosi in maniera
così sfrontata, raccontando quanto sapesse di essere ormai
prossimo alla morte, ma come se ti volesse raccontare di sé e
della sua sofferenza non come sofferanza fisica ma soprattutto
dell’anima.
Per quello che riguarda invece i miei gusti personali c’è da dire
che purtroppo parlare di rock vuol dire spesso parlare di una
cosa con troppi connnotati diversi, di cui in molti hanno parlato, e che spesso raccoglie troppe cose diverse, per cui quello
che tu adesso intendi come rock comprende anche musiche di
autori, cantanti e band che probabilmente sono diversi da
quelli che penso io. Diventa difficile intendersi su questo. Però
per me il rock è sempre più vicino come linguaggio al rock
delle origini, che non al rock per come è diventato. Dovendo
essere in qualche modo il linguaggio “alternativo”, quindi anticonformista, nel tempo il rock doveva essere la voce di chi era
nichilista, o distruttivo, di chi era sempre contro qualsiasi tipo
di regola e vedeva la vita come qualcosa di buffo, non capendo
perché la gente vivesse un’esistenza incomprensibile, e provava
dunque a raccontare questo tipo di sentimento generale. Così
è diventato il rock. Ma il rock delle origini, per come è partito, che è poi quello che mi interessa, è la celebrazione della vita,
è festeggiare la vita attraverso l’eros, l’energia, spesso anche l’irruenza, e farlo in maniera sfacciata. Questa è la cosa a cui mi
sono sempre riferito. Anche le persone che sento più vicine a
me, nel tempo, sono state quelle che si rifiutavano di ripiegarsi sul discorso del nichilismo e dell’autodistruzione ma pensavano che il rock fosse una forma di comunicazione benefica,
una comunicazione di energia positiva, un’iniezione di coraggio, di speranza, di forza, di allegria, cioè quello per cui io mi
sento portato.
È chiaro poi che anch’io come tutti gli esseri umani ho i miei
problemi, i miei momenti negativi, i miei alti e bassi, però
quando provo a raccontarmi in qualche modo attraverso le
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canzoni e penso a un eventuale interlocutore, in generale mi
piace credere che le mie canzoni possano avere quel tipo di utilità. Senza raccontare questo mondo in maniera diversa da quello che è, dicendo anche quanto sia duro e difficile, però cercando di ricordare a ognuno quanto sia chiamato a essere
responsabile nella propria vita, quanto lavoro ci sia da fare e
quanto questo, invece di spaventare, dovrebbe essere considerato un’avventura.
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