leggi, scrivi e condividi le tue 10 righe dai libri http://www.10righedailibri.it Prima edizione: febbraio 2011 © 2011 Arcana Edizioni Srl Via Isonzo 34, Roma Tutti i diritti riservati Copertina: Laura Oliva ISBN: 978-88-6231-169-4 www.arcanaedizioni.com PATRIZIA DE ROSSI QUANTE COSE CHE NON SAI DI ME Le 7 anime di Ligabue Indice Introduzione 13 Prefazione di Patrizio Nissirio 19 Prologo. L’ossessione del numero 7 27 1. L’anima rock L’assenza di pudore e la potenza delle emozioni 39 2. L’anima cinematografica Le canzoni come film, i film come canzoni 65 3. L’anima letteraria Popolare ma non banale 109 4. L’anima femminile Le donne lo han sempre saputo 137 5. L’anima passionale Il gusto della vita 159 6. L’anima romantica Love is the answer 179 7. L’anima politica La verità è una scelta 201 Epilogo. Arte e leggerezza 227 7x7 237 QUANTE COSE CHE NON SAI DI ME L’anima libera è rara, ma quando la vedi la riconosci, soprattutto perché provi un senso di benessere quando le sei vicino. Charles Bukowski Prefazione di Patrizio Nissirio Qualche tempo fa ho visto un concerto di Francesco Guccini. A parte la straordinaria e inossidabile poesia dell’ormai ultrasettantenne genio della canzone italiana, una cosa mi ha particolarmente colpito: la diversità all’interno del suo pubblico. Padri e madri attempati con figli adolescenti al seguito; comitive di ventenni; trentenni con una bottiglia di birra (con Francesco il vino sarebbe stato più adatto) in cerca di una qualche vita spericolata. E mi sono chiesto perché questo avvenga nella platea che dovrebbe appartenere a chi ha le tempie grigie. La prima risposta è chiara: la sua poesia è talmente sofisticata e “alta” da non temere “l’ingiuria degli anni”, parla a tutti, sempre, reinterpreta in versi e musica l’esperienza di ognuno, ci riflette in uno specchio che cambia di volta in volta. La seconda è: quest’uomo, con la caratteristica dell’artista autentico, ha usato e continua a usare una lingua completamente originale. E il pubblico, le persone, a prescindere dall’età anagrafica, rispondono. Sempre. 21 I tempi, si sa, cambiano. Così i linguaggi. Oggi nessuno in una canzone (purtroppo, aggiungo, ma questa è probabilmente solo la considerazione di un nostalgico) citerebbe Orazio o Schopenhauer. Ma questa caratteristica è precisamente quella che fa la differenza tra la star di passaggio e quella che resiste lungo un percorso, portando con sé centinaia di migliaia di persone di tutte le età, che in quelle canzoni sentono un pezzo della propria diversissima esperienza. Questa, proprio come per Guccini, è la forza di Ligabue. Il rocker emiliano, come il bardo suo conterraneo, parla la “sua” lingua della canzone italiana, fatta di echi di tradizioni diverse (il rock di Springsteen e degli U2, come chiunque sa e coglie) e di una narrativa tutta personale che trova un senso e una “morale” alle vicende comuni a tutti, giovanissimi, meno giovani e quasi anziani. Ho sempre pensato che i testi di Luciano Ligabue nascondessero una sorta di “nuova poetica”, fatta di espressioni non “alte”, magari colloquiali, ma combinate in modo da diventare, senza tema di smentite, poesia. Una frase come “Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”, presa a sé può non essere all’altezza di certe raffinatezze liriche di un De André o di un De Gregori d’annata, ma questi non sono più gli anni di quei due giganti. È un tempo nuovo, frammentato e sfilacciato, in cui la lingua si è schiacciata, appiattita, spesso banalizzata e infarcita di luoghi comuni. In questa palude si muove Ligabue. Spariti molti ideali, con il privato – privatissimo – che è diventato l’unico orizzonte di più di una generazione di italiani, Luciano ha iniziato sin dagli anni Ottanta a trovare un suo filo narrativo basato sull’esperienza di questo tempo e sul suo modo di raccontarlo, spiegarlo, attraverso il mezzo duttile della canzone. Per cui, al pubblico a cavallo tra Ventesimo e Ventunesimo secolo ha spiegato che “Niente paura, ci pensa la vita, mi han detto così”. Una spiegazione, una lettura smaliziata del malessere generalizzato e dell’incertezza perenne che attraversa l’Italia di questi anni, e forse la condizione umana in generale. Le sue donne sono “bambolina e bar- 22 racuda”, non qualcosa che rima con amore e cuore, i suoi rapporti personali sono veri, in carne e ossa: fanno sì che si dica al partner, come potrebbe capitare ad ognuno, “quante cose che non sai di me”. Frasi strappate alla realtà, linguaggio non filtrato, ma assemblato sapientemente fino a formare una narrativa irresistibile, con qualità poetica che resta impressa, diventa colonna sonora dei nostri anni, arriva al livello di classico, in un tempo in cui i singoli da classifica svaniscono dalla memoria come una delle sere tutte uguali al Bar Mario. Patrizia De Rossi, in tempi non sospetti, ha scritto una tesi di laurea in Letteratura angloamericana su Bruce Springsteen, sicuramente la prima in Italia (1987), probabilmente anche la prima al mondo. In quell’analisi, ancora oggi in larga parte condivisibile e attuale, inseriva Springsteen nei grandi filoni della letteratura americana, utilizzando sulle canzoni rock e i loro testi gli stessi strumenti che aveva usato nel corso degli studi su Steinbeck, Fitzgerald o James. Il risultato: un nuovo, fresco sguardo sul mondo delle liriche rock, che messe in parallelo con il mondo della letteratura, del cinema e della poesia acquistavano molteplicità espressiva, per non parlare di nobiltà accademica, e diventavano in breve un mondo tutto ancora da scoprire. Quando, alcuni anni dopo, De Rossi ha scritto Certe notti sogno Elvis, ancora oggi forse il volume più apprezzato dagli appassionati della musica di Luciano, ha fatto un’operazione simile: invece di fermarsi al dato biografico, all’aneddotica e a qualche brano di intervista più o meno approfondita, ha unito queste cose (le informazioni biografiche bisogna pur darle per un artista all’epoca non ancora una superstar delle dimensioni odierne) a un’analisi dei testi di chiara impronta letteraria, sviscerando così già allora la poetica di Ligabue. Quel modo di fare canzone che tutt’oggi non ha molti eguali in Italia, grazie a quell’operazione sul linguaggio di cui si diceva poco 23 fa. Canzoni sentite magari distrattamente allo stereo della macchina diventavano manifesti di un’esistenza di provincia, ma carica di significati generali e generazionali (quelle lacerazioni che così bene sono state raccontate nel film Radiofreccia). Storie intime dipingevano improvvisamente tutte le sfaccettature dei rapporti tra i sessi, tra i modi di intendere la vita, nell’eterno dilemma tra il restare e l’andarsene molto lontano. Ma sempre su “strade troppo strette e diritte”, in caso si voglia poi cambiar rotta. Il tutto punteggiato dai momenti d’evasione cari alla tradizione del rock’n’roll più autentico (si veda, per avere un esempio mirabile, i brani superleggeri contenuti nell’album THE PROMISE di Bruce Springsteen, pensati e incisi nello stesso momento in cui nasceva in studio il pensoso DARKNESS ON THE EDGE OF TOWN). All’epoca di Certe notti sogno Elvis la musica di Luciano arrivava già a molti, ma forse non a praticamente tutti, come avviene oggi. E i tempi hanno continuato a cambiare. Normale dunque che sia nata l’idea di tornare sull’argomento con occhi nuovi, su canzoni nuove, in un’Italia diversa e per molti versi molto più difficile di quella degli anni Novanta. Seguire la carriera dell’artista e le sue evoluzioni? Ancora una volta sarebbe stata una strada già percorsa da molti altri, nella miriade di volumetti for fans only. Patrizia De Rossi, grazie alla sua conoscenza della musica e delle parole di Luciano, ha individuato queste “sette anime” su cui indagare, sette temi ricorrenti attorno ai quali, a suo avviso, ruota la poetica di Ligabue. Temi seguiti nei testi, tra un album e l’altro, senza temere accostamenti a volte apparentemente azzardati, se l’occhio critico ravvisa una vicinanza che poi riesce a dimostrare. Questo è dunque un libro per appassionati di Ligabue e della sua musica, ma anche per chi ha la curiosità di capire lo stato dell’arte della canzone italiana, oggi non in una delle sue fasi più creative e convincenti. Chi mastica letteratura troverà spunti di interesse e 24 rimandi poetici; chi vive di rock’n’roll scoprirà quante cose si possono dire pur parlando una lingua diretta e “quotidiana” come quella di Luciano. E si ritroverà, con sua grandissima sorpresa, a condividere qualcuna di queste anime, o magari tutte. Roma, dicembre 2010 25 1 L’anima rock L’assenza di pudore e la potenza delle emozioni È rock chi non ha pudore delle proprie emozioni e te le sbatte in faccia Delle sette anime di Luciano Ligabue, quella rock è senza dubbio la più riconoscibile, quella che immediatamente identifica lui e tutta la sua produzione. Racchiude infatti al suo interno, comprendendole tutte, le sue altre anime. Non è soltanto una questione di musica, ma anche e soprattutto culturale: è uno stile di vita, un modo di intendere la propria esistenza che accompagna l’artista (e chi ama il rock in genere) in tutto ciò che fa. Come scriveva Greil Marcus in un bellissimo libro intitolato Tracce di rossetto, ci sono stati nel mondo, e in particolare negli Stati Uniti, dei movimenti culturali che in termini di potere, di dominio, di eventi riconosciuti e capolavori certificati non hanno lasciato un segno evidente, e che però hanno inciso sensibilmente nel modo in cui vivono realmente le persone, nella loro maniera di parlare e camminare, movimenti i cui segni sono rimasti impressi nella mente e nelle voci delle persone in tutto il mondo. Anche inconsapevolmente. Il rock è uno di questi movimenti culturali. A nessun rocker – fino ad oggi – è mai stato assegnato il Premio Nobel per la lettera- 43 tura (anche se perfino nel nostro Paese si è formato un comitato per l’assegnazione a Bob Dylan) o per la pace, ma si può negare che le opere di autori insigniti del prestigioso riconoscimento, come ad esempio John Steinbeck, Toni Morrison, Dario Fo, possano non essere state in qualche modo influenzate, sia pur inconsciamente, dal clima culturale sotterraneo generale? A Steinbeck il premio fu dato, nel 1962, “per la sua poetica distinta che, con grande sensibilità artistica, ha interpretato i valori umani sotto il simbolo di una visione della vita priva di illusioni”. A Toni Morrison, nel 1993, perché “in racconti caratterizzati da forza visionaria e rilevanza poetica dà vita a un aspetto essenziale della realtà americana”. Dario Fo fu premiato nel 1997 perché “seguendo la tradizione dei giullari dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”. Sono motivazioni che sottolineano l’importanza di rappresentare la realtà anche ricorrendo all’uso della fantasia, la disillusione dell’uomo di fronte alle ingiustizie della vita, tutti temi che rientrano nella sfera culturale e immaginifica del rock’n’roll, e che sono stati ampiamente trattati nel corso di questi cinquant’anni e più. Partendo dal presupposto che fin dagli inizi – cioè dalla metà degli anni Cinquanta – il rock non è mai stato solo un genere musicale, ma un’espressione culturale molto più vasta, parte integrante e fondamentale di quella cultura americana di cui Ligabue come tutta la sua generazione si è nutrito abbondantemente, non si può circoscrivere il rock dell’artista di Correggio a un fattore esclusivamente musicale. Non è certo un caso che Ligabue si sia dedicato a diverse forme d’arte (il cinema, la letteratura, la poesia) per esprimere le sue emozioni, i suoi pensieri, le sue storie. Tutte riconducibili al rock, ovviamente, ma ognuna in maniera diversa. Perché il rock è soprattutto una questione di emozioni e di comunicazione, come traspare dalle dichiarazioni di Ligabue rilasciate nel 2006 presentando l’album NOME E COGNOME: 44 Nessun altro modo di esprimermi si avvicina neanche lontanamente a quello che mi dà fare musica, suonarla e cantarla dal vivo. La massa emotiva che viene mossa quando sono sul palco è qualcosa di indescrivibile. Sono uno che si emoziona. E io ci tengo molto a produrre emozioni in chi si avvicina a me. Mi piace chi si concede emotivamente. Credo che abbia a che fare con la mia idea di comunicazione: per me la comunicazione tra esseri umani è sentimentale, cioè del sentimento. Sono molto centrato sull’emozione e a volte ne sono anche vittima, ma la vivo fino in fondo. È difficile per me tenerla sotto controllo e non sono neanche sicuro di volerlo fare. E questo forse è un po’ un limite perché la mia emozione è sempre evidentissima, deve uscire per forza in quell’attimo preciso come se in qualche modo la sua urgenza fosse più vera e più autentica della ragione. E questo vuol dire essere anche più vulnerabili, perché significa esporre la tua polpa. Tralasciamo, qui, l’inclinazione autodistruttiva di un certo rock – quello celebrato da Ian Dury nel pezzo passato alla storia come slogan transgenerazionale, ovvero Sex & Drugs & Rock’n’Roll (1977) – che nel corso degli anni ne ha esaltato l’aspetto torbido e dannato, consolidatosi attraverso morti eccellenti come quella di Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison, tutte avvenute tra la fine del 1969 e la metà del 1971, o quella di Elvis Presley, scomparso nel 1977. Concentriamoci piuttosto sull’elemento vitale e positivo, quello che Ligabue ha sempre messo al centro della sua vita e della sua opera, e che costituisce il vero carattere predominante della cultura rock. Certo non si può negare che le droghe, da quelle sintetiche e chimiche a quelle naturali, abbiano giocato un ruolo importante nella vita e nella produzione di alcuni artisti, soprattutto dopo la pubblicazione nel 1963 del volume The Psychedelic Experience, in cui lo psicologo americano Timothy Leary teorizzava che l’esperienza psiche- 45 delica fosse un viaggio verso nuovi spazi di conoscenza. Secondo Leary, che scrisse il libro dopo aver provato durante un viaggio in Messico alcuni allucinogeni tra cui il peyote, questi funghi e altre sostanze alcaloidi erano la chiave di accesso per esplorare nuovi mondi, anche se il soggetto che ne fruiva doveva rimanere fondamentale affinché l’esperienza trascendente si compisse. Gli effetti allucinogeni e soprattutto quelli creativi variavano da persona a persona. Nessuno può più dubitare che i Pink Floyd abbiano realizzato alcuni capolavori sotto gli effetti della droga, così come gli stessi Beatles che, pur avendo incarnato da principio lo stereotipo dei bravi ragazzi della porta accanto, contrapposti agli antagonisti Rolling Stones, non hanno mai nascosto di aver fatto uso di droghe di varia natura (soprattutto nella seconda parte della loro carriera, dopo il soggiorno in India avvenuto nel 1968). E Jerry Garcia, chitarrista e portavoce dei Grateful Dead, band di culto del rock psichedelico, dichiarò che assistere a un loro concerto sotto effetto di allucinogeni rappresentava un autentico viaggio verso la conoscenza, un “trip”, come gli era stato riferito da molti fan. Non vanno comunque dimenticati due fattori molto importanti: il primo, che già negli anni Cinquanta, e ancora prima, l’uso delle droghe e dell’alcol era una caratteristica abbastanza comune anche tra jazzisti e bluesmen; il secondo, che non appena si sono conosciuti gli effetti devastanti (più che esaltanti) delle sostanze stupefacenti, molti artisti hanno preso una posizione netta di ferma condanna. A cominciare da Neil Young, che dopo aver visto morire di overdose amici e colleghi (in particolare il chitarrista dei Crazy Horse, Danny Whitten, e Bruce Berry, che lavorava come roadie per lui) ha scritto nel 1972 una splendida canzone, The Needle And The Damage Done, in cui dice testualmente: I hit the city and I lost my band 46 I watched the needle Take another man Gone, gone, the damage done Ho conquistato la città Ho perso la mia band Ho visto l’ago Prendersi un altro uomo Andato, andato, il danno è fatto Un docente di psicologia dell’Università McGill di Montreal, il professore Daniel J. Levitin, direttore del Laboratory for Music Perception, Cognition and Expertise della medesima università canadese, dopo uno studio approfondito condotto nel 2007 chiamato Life Soundtracks: The Uses Of Music In Everyday Life, che ha portato alla realizzazione di un libro molto significativo dal titolo Your Brain On Music. The Science Of A Human Obsession (edito da Penguin Books), ha scoperto che la musica, agendo sullo stesso centro cerebrale che genera quel senso di appagamento che provano i tossicodipendenti nel momento in cui si fanno, o i bulimici quando si ingozzano di cibo, attiva il nostro cervello esattamente come farebbe uno stimolante chimico. In tal modo la musica ci dà sensazioni di piacere, eccitazione, soddisfazioni ed emozioni, il tutto amplificato attraverso una reazione chimica regolata dalla dopamina (il neurotrasmettitore che agisce sul sistema nervoso guidando le nostre scelte). Stando ai risultati raggiunti da Levitin e dal suo staff, la musica influenza in maniera determinante il nostro umore e provoca reazioni nel nostro fisico tutt’altro che trascurabili: maggiore sudorazione, accelerazione e riduzione del battito cardiaco, diversa respirazione, brividi lungo il corpo. Ma soprattutto agisce sulla nostra attività mentale e sulla nostra eccitazione sessuale. Naturalmente ognuno di noi stabilisce quali sono i propri generi e i propri 47 artisti preferiti, ma gli effetti che la musica provoca sono universali, agiscono su tutti. Ligabue, in maniera evidentemente tutt’altro che casuale, nel 2002 pubblica in FUORI COME VA? un brano dal titolo In pieno rock’n’roll, che parla espressamente dell’effetto dopante e stupefacente (in tutti i sensi) della musica, pur sottolinenando che ci sono anche altri elementi positivi a cui assuefarsi: l’affetto, i sogni, il sesso, le idee. Sono queste le dipendenze sane, con la musica che le veicola e le include tutte. Magari suona un po’ antico (come dice Ligabue), ma è proprio così, perché le canzoni sanno chi sei molto meglio di te. Tutti quelli che amano la musica, e in particolare il rock, sanno da sempre che la musica scatena reazioni emotive molto forti e condiziona il proprio umore. Ti rende allegro, ti consola nei momenti difficili, ti dà la carica prima di affrontare una sfida importante, ti rilassa, ti scatena emozioni che a volte non sai neanche tu di poter sentire. Con le teorie e gli studi di Levitin, se ne ha anche la conferma scientifica. Quando chiedo a Luciano cosa significhi per lui la parola “rock”, risponde così: Rock per me, per come lo intendo e per come l’ho sempre vissuto, è chi se ne frega del pudore rispetto alle proprie idee e ai propri sentimenti. Sono rock le persone che le proprie idee te le urlano in faccia, i propri sentimenti te li raccontano sbattendosene del fatto che tu li possa anche deridere. Il rock da questa punto di vista è la faccia tosta, ma è anche coraggio, perché quando esprimi le cose che hanno a che fare con la tua anima, sapendo che il giudizio è aperto a tutti, ti esponi anche alla possibilità di essere ferito. È proprio qui che io ho sempre trovato la chiave del rock. Per me è rock anche chi fa un genere di musica che potrebbe essere catalogato come pop ma che dentro ha questo tipo di necessità: il raccontarsi senza pudore, avendo il coraggio di farlo in maniera sfacciata. 48 Attraverso il rock, dunque, si afferma innanzitutto il potere delle emozioni, la vitalità dell’individuo, la voglia di riscatto, il desiderio di godersi la vita anche attraverso piccole gioie quotidiane, la volontà di inseguire i propri sogni indipendentemente dalla possibilità di realizzazione e dalle difficoltà che ti prospetta la vita. Il rock rivendica quello spirito di libertà e di uguaglianza tra gli esseri umani e quella ricerca della felicità che sono i capisaldi della Costituzione degli Stati Uniti e il fondamento della stessa cultura americana, quindi della cultura rock. Quella cultura che dopo la seconda guerra mondiale è penetrata nel nostro Paese, attecchendo e innestandosi rapidamente sulle nostre tradizioni grazie anche a una poderosa operazione di massificazione della cultura, indotta dalla radio ma soprattutto dalla televisione (che in Italia arrivò proprio nel 1954, ovvero nell’anno a cui si fa risalire la nascita del rock’n’roll) e dal cinema. Se i primi a portare la musica americana (soprattutto il jazz e lo swing) in Italia sono stati i soldati USA che venivano a liberare un Paese devastato dal fascismo, dalla fame e dalla guerra, furono poi autorevoli intellettuali italiani (Cesare Pavese, la sua migliore allieva Fernanda Pivano ed Elio Vittorini, tanto per fare qualche nome) a farci conoscere la bellezza e la ricchezza della letteratura e della cultura popolare nordamericana, che avevano per l’appunto nella musica e nel cinema due componenti fondamentali. Pavese per primo, con le sue traduzioni, ci ha fatto scoprire Hermann Melville e John Dos Passos (scrittore dell’impegno civile e politico), Fernanda Pivano ci ha aperto nuovi orizzonti traducendo nel 1943 l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master e tutta la beat generation (da Jack Kerouac ad Allen Ginsberg), mentre Vittorini ha presentato all’Italia William Faulkner con le sue storie provocatorie e i suoi pungenti ritratti degli Stati del Sud raccontati con uno stile nuovo, ricco di sfumature psicologiche e considerazioni impietose. 49 Abbiamo così imparato a conoscere prima personaggi come il Capitano Achab (il comandante di Moby Dick che va alla ricerca della balena bianca ergendosi contro tutto e tutti) e la famiglia Compson (simbolo della decadenza del Sud in L’urlo e il furore), affascinanti nella loro testardaggine e pervicaci nella loro lotta contro l’inevitabile evoluzione (o involuzione) dei fatti, e poi Dean Moriarty, il protagonista viaggiatore di Sulla strada, alter ego letterario di Neal Cassady (anche lui scrittore e amico di Kerouac). Achab a suo modo è un personaggio rock perché insegue ostinatamente e senza alcuna remora il suo incubo rappresentato, metaforicamente e no, dalla balena bianca. Imprendibile, enorme, leggendaria e forse solo frutto della fantasia degli uomini, Achab ha bisogno di quell’ossessione per sentirsi vivo, per riscattarsi, per dare un senso alla sua vita. E sfida tutti e tutto per perseguire il suo sogno. Fino al tragico epilogo. Ma Achab è vivo solo nella sua ricerca: se non avesse Moby Dick a cui dare la caccia, non avrebbe motivo di esistere. Anche Dean Moriarty è rock, perché non esita un istante a lasciare tutto quel che ha (ben poco, peraltro) per andare a cercare una nuova vita, la sua vita, da un’altra parte, ovunque essa sia. Dean parte senza sapere dove andrà o dove arriverà, per lui ciò che conta è partire, agire, vivere. Queste figure sono autentici anti-eroi che vanno alla ricerca di una società e di una vita migliore, che inseguono con tutte le loro forze i sogni passati e futuri, e che pur vivendo ai margini della società trovano l’unica possibilità di riscatto attraverso la capacità di guardare lontano e di andare oltre, rimettendo in discussione tutta la propria vita non soltanto con gesta epiche e memorabili, ma anche attraverso il potere salvifico dei sogni, la fede nella possibilità di realizzarli e i piccoli (grandi) gesti quotidiani. Basta ascoltare una sola canzone di Ligabue, o leggere un suo racconto o una sua poesia, oppure guardare un suo film, per comprendere che il rock di Ligabue è funzionale ed essenziale alla sua arte, alla sua espressione, al suo modo di comunicare. I suoi personaggi 50 sono anti-eroi contemporanei, quelli che incontriamo tutti i giorni per la strada o negli uffici, nelle scuole e nelle piazze. Sono le figure che incarnano la spontaneità e l’immediatezza della classe operaia contrapposta alla piccola e media borghesia con tutte le sue regole e il suo formalismo artificioso. In una delle sue prime canzoni, Marlon Brando è sempre lui (1990), Ligabue canta che non è obbligatorio essere eroi, ed è forse la prima pietra su cui poggia tutta la sua poetica. Quello di Vita da mediano (1999) è un altro testo emblematico in questo senso: parla di chi è nato senza i piedi buoni e deve lavorare sui polmoni, correndo in lungo e largo per il campo perché la natura non gli ha dato né lo spunto della punta, né tantomeno quello del numero 10, il fantasista ovvero l’artista della squadra. Essere un antieroe significa essere un mediano, un giocatore bravo e volenteroso, un oscuro gregario di quelli che si dannano in mezzo al campo e faticano anche per gli altri, ma che sono fondamentali per la vittoria finale. Il fuoriclasse è l’idolo delle folle, è l’eroe. L’anti-eroe per eccellenza è colui che attraverso la cultura rock diventa il centro vitale di tutte le vicende narrate. E la gente, attraverso il rock, inizia ad amarlo, soprattutto perché si identifica in lui, lo sente vicino, lo percepisce come uno che ha dallo stesso vissuto, uno che non si arrende mai. Si pensi, tornando all’ambito calcistico, a giocatori come Gattuso, Zanetti, Nedved, e all’appeal che hanno, e hanno avuto, nei confronti del pubblico. Sono i più amati dai tifosi, magari anche i più fischiati dagli avversari perché i più temuti, sono quelli che in campo danno tutto, che incitano la propria folla e che non mollano mai. Sono quelli che tutti vorrebbero nella propria squadra. Quando uscì MISS MONDO, Ligabue dichiarò che la metafora calcistica rendeva benissimo il suo stato d’animo, la sua sensazione di quel momento, un momento in cui doveva fare i conti con una popolarità divenuta improvvisamente insostenibile, vissuta quasi con senso 51 di colpa, soprattutto se abbinata agli enormi guadagni che arrivavano. E se nella vita ti sei trovato a fare qualsiasi tipo di mestiere per portare a casa la pagnotta, tutto diventava troppo: “Vaglielo a spiegare alla gente che tu ti senti come un mediano, uno che ha sempre faticato in mezzo al campo. Non ho la classe del numero 10, né il guizzo vincente dell’attaccante che segna, sono un onesto lavoratore”. Il rock di Ligabue è un omaggio alla vitalità, alla sensualità, al potere seduttivo della vita e della musica, alla voglia di godere e di godersela, lottando per i propri sogni ma anche per i propri diritti, per la realizzazione personale. Perché solo attraverso la realizzazione dei propri sogni e l’affermazione della propria personalità ci si può sentire realmente vivi. Nei suoi primi concerti, parliamo degli inizi degli anni Novanta, durante l’esibizione di Figlio d’un cane, Luciano era solito fare un discorso nel bel mezzo della canzone in cui affermava che il brano era dedicato “a tutti quei bastardi che non si piegavano a fare i cagnolini per qualcuno solo per avere in cambio un osso, per tutti quei randagi che non scodinzolavano su due zampe per compiacere il proprio padrone e portargli il giornale e le ciabatte perché a quel punto l’osso se lo sarebbero andati a cercare da un’altra parte per sentirsi liberi e soprattutto vivi”. Le mie canzoni vogliono parlare di vita e soprattutto del bisogno di vivere. Io ho sempre avuto la necessità di parlare del mio bisogno di vivere, e non – attenzione – di sopravvivere. Se guardiamo ai personaggi che racconto, sono tutti così: vogliono vivere, non solo accettare di sopravvivere. Per questo il rock rappresenta alla perfezione quel bisogno di sentirsi selvaggi in un mondo pieno di convenzioni, che vengono rifiutate in blocco. Quando gli Steppenwolf pubblicano nel 1968 Born To Be Wild (una delle canzoni più celebri della storia del rock, scrit- 52 ta da Mars Bonfire), nei primi otto versi John Kay, il cantante e fondatore del gruppo, racconta tutta l’essenza del rock: Get your motor runnin’ Head out on the highway Lookin’ for adventure And whatever comes our way Yeah Darlin’ go make it happen Take the world in a love embrace Fire all of your guns at once And explode into space Metti in moto Punta verso l’autostrada In cerca dell’avventura E qualsiasi cosa ci capiterà Tesoro la vivremo Abbraccia il mondo col tuo amore Carica tutte le tue armi insieme E spara nello spazio L’inizio di questo brano è un manifesto chiaro e inequivocabile. È una spinta formidabile ad agire, a partire per cambiare la propria vita, o quantomeno a provarci. Ventitré anni dopo, nel 1991, in Urlando contro il cielo, Ligabue riprende e fa suo lo stesso concetto cantando che c’è una notte tiepida e un vecchio blues da fare insieme, e che insieme si vivrà la strada pur sapendo di meritare di più. Il rock è salvazione. Tutti i protagonisti delle canzoni di Ligabue trovano la loro redenzione nel raggiungimento dei propri sogni, o quantomeno, come abbiamo appena visto, nel tentativo di riuscire a compierli. A cominciare dai cinque amici di Sogni di rock’n’roll (1990) – gli stessi che ritroviamo cinque anni dopo in Certe notti – 53 che attraversano la notte, metafora della libertà, con una serie di aspettative che sanno di poter realizzare solo con grande determinazione, speranza e fiducia, e che costituiscono al tempo stesso la linfa vitale di cui necessitano per andare avanti e superare il grigiore quotidiano. Anche il sabato successivo saranno lì: i cinque amici, i loro sogni e la possibilità di fuggire per raggiungerli. Così oggi, per il suo ultimo album, ARRIVEDERCI, MOSTRO!, Luciano scrive un brano che s’intitola significativamente Atto di fede – “Vivere è un atto di fede, mica un complimento” – e un altro, La linea sottile, in cui canta “A mia volta non smetto di andare anche se non si sa ancora dove”. Il concetto, in sostanza, è sempre lo stesso, ma maturato e sviluppatosi nel corso di vent’anni di vita e di carriera. E qui si ritorna, non a caso, ai grandi autori della letteratura americana, soprattutto a quelli della beat generation e in particolare a Jack Kerouac (citato da Ligabue con i suoi Selected Poems anche nel tour estivo del 2010, in una delle immagini che scorrono sul megaschermo alle sue spalle) che in un passo di Sulla strada fa dire ai suoi protagonisti: “Dove andiamo?”. “Non lo so”. “L’importante è continuare ad andare”. Lo stesso dialogo, nel 1985, è riproposto da Bret Easton Ellis, che nel suo romanzo d’esordio, Meno di zero, crea questo botta e risposta tra il protagonista Clay e il suo amico Julian, mentre sono in macchina: “Dove stiamo andando?”. “Non lo so, sto solo guidando”. “Ma questa strada non porta da nessuna parte”. “Non importa”. 54 “Cosa importa allora?”. “Solo che ci siamo su, amico”. Allo stesso modo, quando Ligabue in Salviamoci la pelle del 1991 canta che lui e lei hanno quel destino scritto da altri, altre vite fa, e che è l’unica cosa che hanno in eredità – sottolinenando il fatto che nel loro paese non c’è niente per nessuno, con il conseguente invito ad andare via che diventa immediatamente un’esortazione – afferma quello stesso diritto a inseguire i propri sogni attraverso il viaggio, la strada, la possibilità di mettersi alla prova, anche attraverso la resistenza strenua: non ci avranno come vogliono loro. Così i protagonisti di Dazeroadieci (e di Libera uscita che della colonna sonora di quel film era il brano portante) affermano che nessuna statistica, nessuna ricerca di mercato potrà mai incasellarli, ripetendo che le convenzioni, gli schemi precostituiti, le omologazioni aprioristiche, le vite già vissute da genitori che vorrebbero lo stesso destino per i loro figli non funzionano con chi ha deciso che “crederci ancora” non sia una brutta malattia. Insistendo sul concetto dell’andare via per realizzare se stessi e migliorare la propria vita, vivendola secondo i propri dettami, Ligabue scrive nel 2010 un altro brano molto significativo, Il meglio deve ancora venire, che è fondamentalmente un inno alla speranza. Anche qui riprende il concetto del partire per sfuggire a una vita insoddisfacente e già prestabilita, sottolineando come il suo protagonista non abbia altra scelta e come soprattutto non sia importante l’obiettivo del viaggio, ma il viaggio in sé. E tornando alla convinzione che non è obbligatorio essere eroi, evidenzia come non debba essere tutto per forza perfetto. Il potere salvifico del rock trova nell’esibizione dal vivo la sua liturgia: a un qualsiasi concerto di Ligabue ci si rende immediatamente conto che non si tratta solo di musica, che non è solo uno show. È la celebrazione di un rito collettivo che con la musica spri- 55 giona un’energia positiva che costituisce la linfa vitale per chi lo va a vedere ma anche per chi lo fa. L’artista sul palco trae vigore per se stesso e per la sua musica allo stesso modo della gente che lo ascolta. E infatti alla fine di ogni suo show, nel ringraziare il pubblico, Ligabue rende omaggio a tutti coloro che sono andati a vederlo, sottolineando sempre la straordinarietà costituita da quella folla, l’unicità dell’esperienza, la forza e l’entusiasmo percepiti e immagazzinati da lui stesso. Elementi indispensabili per andare avanti e nutrimento insostituibile anche per lo stesso artista, in una sorta di scambio alla pari: ciò che Ligabue dà al pubblico gli viene restituito in misura amplificata dalla gente. Qualche anno fa il critico musicale di «Repubblica» Gino Castaldo propose a Luciano un articolo davvero particolare: “Fammi salire sul palco con te, mimetizzato tra i tuoi musicisti, e io provo a descrivere da giornalista le emozioni che puoi vivere tu sul palco”. Anche questa una sorta di sfida e di scambio (il prezzo da pagare fu una statuetta di Raffaella Carrà a tiratura limitata chiesta in maniera scherzosa dal manager Maioli), e quel che venne fuori fu un pezzo davvero sui generis, che iniziava così: “Sessantamila facce che ti guardano non sono uno scherzo. Certo, non guardano me, guardano il loro dio, Luciano Ligabue...”; e finiva con queste parole: “Adesso ho capito meglio l’impagabile fortuna dei grandi musicisti. Queste emozioni sono merce rara, rarissima, il frutto dell’amore di sessantamila cuori che battono”. Ligabue invita sempre la sua gente a crederci, a fare l’amore quando torneranno a casa, a vivere, perché il rock’n’roll è soprattutto l’affermazione e la rivendicazione della vitalità e non è un caso se mutua il suo nome da un’espressione gergale americana che letteralmente significa “dondolarsi e rotolare” ma che per traslato, e nella realtà, è sinonimo dell’atto sessuale. Quando Elvis Presley compare per la prima volta alla televisione americana allo Stage Show nel 1956, viene censurato perché la sua 56 fisicità, i suoi movimenti durante l’esibizione sono troppo espliciti. Il rock è provocazione ed Elvis incarna l’archetipo del provocatore: è bello, è sensuale, è sfrontato, è giovane. La sua presenza in televisione scatena un uragano di ormoni tra le ragazzine di tutti gli Stati e la corsa all’imitazione da parte dei maschi che vogliono essere come lui. I benpensanti bigotti americani degli anni Cinquanta non possono che censurarlo, cercando però di trovare una sorta di compromesso, perché di certo non si può ignorare il fenomeno Elvis. Quindi, Presley viene ripreso sullo schermo dal bacino in su. Quando nel 1969 Jim Morrison, durante un concerto a Miami entrato poi nella leggenda, finge di masturbarsi, viene arrestato sul palco per oscenità dalla polizia locale e condannato dopo un processo immediato (salvo poi essere perdonato dalla Corte di Giustizia a distanza di quarantun’anni, nel dicembre del 2010!). Quando Ligabue in Cerca nel cuore (1994) canta “toccami qui proprio sul cuore”, lascia poco spazio alle interpretazioni e ai dubbi. Il rock è un’esaltazione continua della sessualità e della fisicità, è la passione contrapposta al sentimentalismo, è la ribellione agli schemi precostituiti e alle regole imposte anche in campo amoroso. Considerando che il rock nasce negli anni Cinquanta – quando appunto la morale comune e il senso del pudore sono molto più rigidi, ma anche quando la gente ha una maggiore voglia di divertirsi perché si è da poco conclusa la seconda guerra mondiale – la ribellione e l’affermazione della propria personalità si esprimono anche attraverso il sesso. A tale proposito, canzoni del repertorio di Ligabue come Libera nos a malo (1991) e L’odore del sesso (2002) sono estremamente signifcative. Le convenzioni sono frantumate dall’istinto. La ribellione, nel primo caso ai dogmi della Chiesa cattolica, nel secondo alla morale un po’ bacchettona di derivazione anche questa cattolica che domina nel nostro Paese, si compie attraverso la gioia, la gratificazione e la soddisfazione del sesso fatto per puro piacere, senza 57 coinvolgimenti sentimentali né morali. In modo diverso, in Si viene e si va, scritta nel 1999 per MISS MONDO, le allusioni alla nascita e alla morte sono evidenti, tanto quanto l’ammiccamento a come si viene al mondo, per l’appunto. Il brano è un invito a vivere la propria esistenza anche attraverso il sesso, secondo i propri valori e i propri mezzi senza aspettarsi chissà quali ricompense o riconoscimenti da parte degli altri, anche da chi sta (forse) al di sopra di tutto. Ma il senso della vita alla fine è tutto qua, fra gusto e dolore. Il rock come affermazione del proprio io è ripreso poi in Vivere a orecchio, canzone contenuta nell’album NOME E COGNOME del 2006: si vive secondo le proprie convinzioni e i propri valori, senza ricette scritte da altri, e si può anche stonare e sbagliare, ma è meglio sbagliare da soli che farsi condizionare da altri e poi magari sbagliare ugualmente. Nessuno può dirti cosa devi fare e come devi vivere la tua vita. Pensiero che già in precedenza Ligabue aveva espresso in Tutti vogliono viaggiare in prima (1999), dove parlava espressamente di progetti e difetti, di anti-eroi che non si lasciano comprare da nessuno, neanche da una semplice bevuta al bar. Voglio volere, brano inserito in FUORI COME VA?, è un vero manifesto di intenti: Voglio volere tutto così voglio riuscire a non crescere voglio portarti in un posto che tu proprio non puoi conoscere Voglio restare sempre sveglio con tutti i miei sogni Voglio volere Io voglio un mondo all’altezza dei sogni che ho 58 voglio deciderlo io se mi basta o se no voglio godermela tutta fin quando si può Voglio non dire mai “è tardi” oppure “peccato” Voglio che ogni attimo sia sempre meglio di quello passato In questi versi c’è tutta l’essenza rock di Ligabue: un’anima esigente, leggera e profonda al tempo stesso, un’anima che vuole godersi la vita senza dimenticare che i sogni e gli obiettivi siamo noi stessi a fissarli di volta in volta, e che per poterli raggiungere c’è bisogno di mettersi in gioco, di decidere se ci bastano o no, di non credere che tutto sia a nostra disposizione ma che anzi per ottenere ciò che vogliamo occorre lottare contro il mondo esterno; e che nonostante tutto ciò che ci potranno dire, nonostante tutti gli ostacoli che ci si porranno davanti, si deve andare avanti per godersi fino in fondo i propri sogni. In Quando canterai la tua canzone (2010), Ligabue dice che l’impatto con il mondo è sempre duro per chi lo vede come un posto oscuro, ma aggiunge che è sempre il singolo a stabilire come affrontarlo, questo mondo, tra botte e rime. In un brano come Ho ancora la forza – scritto a quattro mani con Francesco Guccini – Ligabue non potrebbe essere più esplicito: evidenzia come abbia ancora la forza che serve a camminare e a ricominciare, quella di chiedere anche scusa (un’autentica rarità, oggi), quella di non tirarsi indietro neanche quando la situazione è difficile, garantendo sempre il massimo dell’impegno e della serietà, ma soprattutto ha quella forza – e, come dice lui stesso, di questa ce ne vuole moltissima – che gli consente di rendere leggero il peso dei ricordi. Forse il compito più arduo. 59 Torna in questa canzone, seppur in parte, la metafora calcistica, così come lo spirito di sopravvivenza che costituisce un’altra caratteristica più volte sottolineata dall’autore. Da Salviamoci la pelle (“Che bella o brutta è quella lì, rendiamola unica”, 1991) a Siamo in onda (“Se ne frega di serrande, di finestre sempre chiuse, di sistemi troppo grandi, di destini già decisi”, 1998), fino a La linea sottile (“A mia volta mi fido del mondo, non ti dico le botte che prendo, non c’è modo di starsene fuori da ciò che lo rende tremendo e stupendo”, 2010) passando per il Credo di Freccia (interpretato da Stefano Accorsi nel primo film da regista di Ligabue, Radiofreccia, realizzato nel 1998), che è una summa di tutto ciò che incarna lo spirito rock. Credo nelle rovesciate di Bonimba, e nei riff di Keith Richards. Credo al doppio suono di campanello del padrone di casa, che vuole l’affitto ogni primo del mese. Credo che ognuno di noi si meriterebbe un padre e una madre che siano decenti con lui almeno finché non si sta in piedi. Credo che un’Inter come quella di Corso, Mazzola e Suarez non ci sarà mai più, ma non è detto che non ce ne saranno altre belle in maniera diversa. Credo che non sia tutto qui, però prima di credere in qualcos’altro bisogna fare i conti con quello che c’è qua, e allora mi sa che crederò prima o poi in qualche dio. Credo che se mai avrò una famiglia sarà dura tirare avanti con trecentomila al mese, però credo anche che se non leccherò culi come fa il mio caporeparto difficilmente cambieranno le cose. Credo che c’ho un buco grosso dentro, ma anche che il rock’n’roll, qualche amichetta, il calcio, qualche soddisfazione sul lavoro, le stronzate con gli amici ogni tanto questo buco me lo riempiono. Credo che la voglia di scappare da un paese con ventimila abitanti vuol dire che hai voglia di scappare da te stesso, e da te stesso non ci scappi nemmeno se sei Eddie Merckx. Credo che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri. 60 In questo monologo, recitato di notte alla radio da Freccia, sfilano tutti gli elementi che la cultura rock ha fatto suoi nel corso di questi anni: fede, sogni, fuga, istinto di sopravvivenza, ribellione alle convenzioni e agli schemi precostituiti, sesso, senso dell’amicizia e della condivisione, solidarietà. A proposito di solidarietà, basti pensare alle grandi mobilitazioni per raccogliere fondi da devolvere in beneficenza: dal Live Aid organizzato da Bob Geldof e Midge Ure nel 1985 con un megaconcerto tenutosi il 13 luglio tra Londra e Philadelphia per offrire aiuti all’Etiopia, a USA (United Support of Artists) for Africa, il progetto che ha radunato quarantasette mostri sacri della musica americana e che partendo dalla registrazione dell’ormai leggendaria We Are The World ha raccolto in venticinque anni circa sessantatré milioni di dollari, fino al recente Amiche per l’Aquila, il concerto organizzato da Laura Pausini in Italia nel 2009 allo Stadio San Siro di Milano, con la realizzazione successiva di un Dvd diventato in brevissimo tempo campione di vendite. E in fatto di solidarietà Ligabue non si è mai tirato indietro: la sua canzone Il mio nome è mai più, cantata e incisa con Jovanotti e Piero Pelù, raccontava l’orrore della guerra, in Kosovo nello specifico, estendendo il concetto a tutte le cinquantuno guerre che in quel momento (era il 1999) si combattevano nel mondo, come riportato sul retro della copertina del singolo. I proventi di quel disco vennero devoluti interamente a Emergency, che costruì diverse strutture ospedaliere in Afghanistan. Nessuno o quasi, all’epoca, sembrava credere che si sarebbe effettivamente realizzato quel progetto. Il rock, per sintetizzare, è la capacità di crederci sempre, fino in fondo, anche quando tutto sembra remare contro. Capacità questa che coincide con il potere dei sogni. Se il Credo di Freccia è una sorta di sunto generale, un’accorata preghiera laica dell’anti-eroe per eccellenza, Almeno credo (apparsa su MISS MONDO) diventa la sublimazione di tutto: “Credo che ci voglia un dio e anche un bar, credo che 61 stanotte ti verrò a trovare per dirti tutto quello che ti devo dire, credo al tuo odore e a quello che mi fa sentire, credo a quel tale che dice che l’amore porta amore, credo – soprattutto – che ognuno si faccia il giro come vuole, quando vuole”. Per tutte queste caratteristiche, il rock è una cultura tutt’altro che distruttiva, anzi fortemente improntata sulla positività e orientata alla vita. E gli Steppenwolf chiudono Born To Be Wild con tre versi che non lasciano adito a dubbi: We were born, born to be wild We can climb so high I never wanna die Siamo nati per essere selvaggi Possiamo arrampicarci in alto Non voglio morire mai Il rock non è solo una questione di musica. Il linguaggio di Ligabue passa anche attraverso altri canali, ed è lui stesso a definire l’ampiezza del suo punto di vista e dei suoi gusti. È chiaro che il rock rappresenta per me una decodificazone di simboli, ma anche di linguaggio, per cui ha a che fare con le chitarre elettriche, soprattutto, e con le batterie che hanno un certo tipo di intenzione. In generale, a me piace che sia un’energia abbastanza brutale e che arrivi. Questo è quello che io sento e che in qualche modo mi fa definire rock una cosa piuttosto che un’altra. Ma a volte trovo rock anche altre cose. Ad esempio, ho trovato rockissimo l’ultimo repertorio di Johnny Cash, ed era acustico con un po’ di chitarre e un piano sotto che faceva i bassi, ma era rock! Hurt, che è già una canzone violentissima, cantata da lui negli ultimi momenti della sua vita diventa straziante, e per me è un pezzo 62 assolutamente rock perché Cash ha preso il coraggio, per l’ennesima volta, di essere rock nell’anima, esponendosi in maniera così sfrontata, raccontando quanto sapesse di essere ormai prossimo alla morte, ma come se ti volesse raccontare di sé e della sua sofferenza non come sofferanza fisica ma soprattutto dell’anima. Per quello che riguarda invece i miei gusti personali c’è da dire che purtroppo parlare di rock vuol dire spesso parlare di una cosa con troppi connnotati diversi, di cui in molti hanno parlato, e che spesso raccoglie troppe cose diverse, per cui quello che tu adesso intendi come rock comprende anche musiche di autori, cantanti e band che probabilmente sono diversi da quelli che penso io. Diventa difficile intendersi su questo. Però per me il rock è sempre più vicino come linguaggio al rock delle origini, che non al rock per come è diventato. Dovendo essere in qualche modo il linguaggio “alternativo”, quindi anticonformista, nel tempo il rock doveva essere la voce di chi era nichilista, o distruttivo, di chi era sempre contro qualsiasi tipo di regola e vedeva la vita come qualcosa di buffo, non capendo perché la gente vivesse un’esistenza incomprensibile, e provava dunque a raccontare questo tipo di sentimento generale. Così è diventato il rock. Ma il rock delle origini, per come è partito, che è poi quello che mi interessa, è la celebrazione della vita, è festeggiare la vita attraverso l’eros, l’energia, spesso anche l’irruenza, e farlo in maniera sfacciata. Questa è la cosa a cui mi sono sempre riferito. Anche le persone che sento più vicine a me, nel tempo, sono state quelle che si rifiutavano di ripiegarsi sul discorso del nichilismo e dell’autodistruzione ma pensavano che il rock fosse una forma di comunicazione benefica, una comunicazione di energia positiva, un’iniezione di coraggio, di speranza, di forza, di allegria, cioè quello per cui io mi sento portato. È chiaro poi che anch’io come tutti gli esseri umani ho i miei problemi, i miei momenti negativi, i miei alti e bassi, però quando provo a raccontarmi in qualche modo attraverso le 63 canzoni e penso a un eventuale interlocutore, in generale mi piace credere che le mie canzoni possano avere quel tipo di utilità. Senza raccontare questo mondo in maniera diversa da quello che è, dicendo anche quanto sia duro e difficile, però cercando di ricordare a ognuno quanto sia chiamato a essere responsabile nella propria vita, quanto lavoro ci sia da fare e quanto questo, invece di spaventare, dovrebbe essere considerato un’avventura. 64