www.judicium.it GIULIO NICOLA NARDO Note in tema di azione inibitoria 1. Introduzione La accresciuta sensibilità di dottrina e giurisprudenza verso forme di tutela dei diritti alternative a quelle di tipo risarcitorio o restitutorio - quest’ ultime spesso inadeguate alla tutela di posizioni soggettive dal contenuto non patrimoniale - ha favorito sempre di più la comune esigenza di riconoscere alla tutela di tipo preventivo una importanza primaria: da qui la sempre più crescente valorizzazione della tutela preventiva che, nel tempo, è diventata piuttosto che mera modalità di protezione dei diritti senza alcuna peculiare identità, vera e propria azione giudiziale rientrante nel corpus delle azioni di cognizione, fino a far parte integrante del nostro sistema di tutela giurisdizionale delle situazioni soggettive. Invero, qualsiasi meccanismo di intervento della tutela giurisdizionale dei diritti normalmente è correlato ad un illecito da reprimere: ed infatti, allorquando si concretizzi la violazione di un diritto, l’ordinamento giuridico interviene con uno strumento idoneo a reprimerlo, proprio a tutela di una situazione giuridica evidentemente tutelata da norme di legge, proprio in una ottica, per così dire, di reazione positiva. Parimenti, vanno evidenziate le reazioni “negative” dell’ordinamento che hanno una finalità, evidentemente, preventiva, nel senso che piuttosto che reagire ad un illecito già compiuto, prevengono il verificarsi dello stesso, imponendo una “non invasione” della sfera giuridica altrui, e ciò al fine di evitare la lesione di un dato interesse o allo scopo di consentire l’attuazione dello stesso a fronte di condotte che potrebbero impedirla. Come noto, lo studio della azione inibitoria è stato orientato più sotto il profilo processuale che sostanziale, talora in modo non unitario e sistematico, quanto piuttosto in modo frammentario, operando costantemente una distinzione tra inibitoria finale (o principale) e inibitoria provvisoria (o cautelare) in relazione agli effetti che scaturiscono dall’azione. Sotto il primo punto di vista, in particolare, il dibattito tra civilisti e processualisti si è intensificato intorno agli anni Settanta,1 periodo in cui è emersa la comune necessità di superare la cosiddetta concezione formalistica o panprocessualistica delle tecniche di tutela dei diritti, 2 particolarmente fondata sul concetto di “azione”, che rappresentava un ostacolo concettuale ad ogni prospettiva di possibile correlazione degli aspetti sostanziali con quelli processuali, fino a favorire la diffusione di un sistema in cui le tecniche processuali avrebbero potuto svilupparsi in modo del tutto autonomo rispetto al diritto sostanziale. In altri termini, ci si orientava per la validità di un sistema processuale chiuso, fortemente condizionato dal dogma della “necessaria tipicità delle forme esecutive” quale vincolo ulteriore all’interno del quale comprimere l’attuazione dell’obbligo fungibile. Il crescente dibattito sviluppatosi in dottrina negli ultimi anni, ha però portato a rilevare come, in realtà, la soddisfazione dei diritti possa risultare piena ed effettiva solo se meglio “modulata”, nel senso che il concetto statico di azione ha una sua valenza solo in un sistema evidentemente fondato sulla tutela risarcitoria e, dunque, su un meccanismo di soddisfazione derivante unicamente dal controvalore economico del diritto leso. Al contrario lo studio della tutela inibitoria ha imposto un’osservazione più attenta delle diverse ipotesi di fattispecie lesive in relazione ad ogni diritto di cui si vuole garantire la soddisfazione. 1 2 Cfr. PROTO PISANI A., L’attuazione dei provvedimenti di condanna, in Foro It., V, 1988, pp. 177 ss. Cfr. DI MAJO A., La tutela civile dei Diritti, Milano, 1987, p.11 ss. Cosicché è stato meglio argomentato il significato stesso dello strumento inibitorio, nella sua accezione di tutela specifica, che tenderebbe proprio all’integrale soddisfazione del diritto leso (ove possibile), così risultando superato (o, quanto meno, in via di superamento) il dogma della “precostituzione delle tecniche processuali” di tutela dei diritti. Tutto ciò spiega l’esigenza, innanzitutto terminologica, di discorrere, prima ancora che di azione inibitoria, di tutela inibitoria,3 proprio per sottolineare l’esistenza di un nesso inscindibile tra il bisogno di tutela emergente a livello di diritto sostanziale e le forme di tutela processuali: 4 l’idea dalla quale non può più prescindersi è allora quella di non poter scollegare il diritto processuale dal diritto sostanziale (e, a riprova di questa rinnovata adeguatezza del rimedio inibitorio, occorrerà approfondire la disciplina in tema di tutela dei consumatori, la quale ha rappresentato una grossa innovazione rispetto alla già prevista forma di tutela individuale). Da un punto di vista più strettamente processuale, a conferma della trattazione non unitaria dell’argomento da parte della dottrina, e ponendo attenzione più sul piano concreto dell’azione che su quello generico della tutela, si evidenziavano i diversi effetti che possono scaturire dall’utilizzo del rimedio inibitorio e che impongono di distinguere tra una inibitoria principale e una inibitoria cautelare: si vedrà come non è soltanto possibile, infatti, agire in giudizio per ottenere un comando del giudice diretto alla cessazione di una attività illecita (nel senso sopra descritto) dopo l’accertamento giudiziale dei diritti delle parti, ma è anche possibile ottenere questo stesso comando sulla base di un esame sommario dei fatti, fintanto che il giudice non giunga ad una decisione nel merito. Ora, il problema della trattazione frammentaria da parte della dottrina sorge perché, come si è già rilevato, spesso si utilizzano promiscuamente espressioni testualmente differenti ma che richiamano lo stesso fenomeno. Tuttavia, una specificazione concreta potrebbe rendersi sempre necessaria, poiché un conto è intendere la inibitoria quale sentenza finalizzata a far cessare un’attività o uno stato lesivo del diritto altrui o ad inibire la continuazione o la commissione di tali atti, altro è intenderla come quel provvedimento del giudice diretto a sospendere la provvisoria esecuzione di sentenze non ancora divenute irretrattabili. Occorre riconoscere che le esigenze di tutela dei diritti spesso impongono un intervento del giudice al quale viene chiesto non tanto un comando di tipo risarcitorio - in quanto tale finalizzato alla monetizzazione ex post del valore economico di un diritto danneggiato, o magari alla restituzione di un bene o di una prestazione non ripetibile o fungibile - quanto piuttosto un intervento la cui utilità è direttamente proporzionale alla tempestività dello stesso che, invero, costituisce l’unico vero parametro di valutazione della effettività ed efficacia della stessa tutela giurisdizionale dei diritti. Invero, nel nostro ordinamento non esiste una disciplina generale che evidenzi in modo chiaro in cosa consista lo strumento inibitorio, la sua portata, la sua funzione e la sua struttura e ciò perché non vi è un riferimento normativo unico all’interno del quale individuare la azione.5 3 Cfr. RAPISARDA SASSOON C., voce Inibitoria, Digesto delle discipline privatistiche, IX, Torino, 1993, p. 476. A. CARRATTA, Profili sistematici della tutela inibitoria, Torino, 1997. 4 Cfr. A. PROTO PISANI, op.ult.cit. 5 A dispetto della sempre maggiore attualità registrata dell’inibitoria nel nostro sistema, è opportuno rilevare come in realtà questo strumento non sia una novità del nostro tempo: basti pensare che, seppure in forma più limitata e meno artificiosa, esso non era del tutto sconosciuto già al diritto romano. A titolo esemplificativo possiamo riferirci ad alcune actiones tipiche che, oltretutto, riecheggiano ancora oggi all’interno del nostro sistema; prima fra tutte l’actio negatoria, - ULPIANO 7,6,5,6, Actio negatoria - che tanta importanza riveste ancora nel nostro Codice Civile nell’ambito delle azioni poste a difesa della proprietà: attraverso l’actio negatoria si perseguiva il fine di respingere colui il quale avanzava la pretesa in ordine all’esercizio di diritti reali limitati sul bene. Il rimedio inibitorio, dunque, non è nuovo. Però è chiara la sua evoluzione, il suo progressivo ampliarsi e adattarsi alle specificità e alle necessità degli ordinamenti in cui si è trovato ad operare: l’actio negatoria della tradizione romana nasceva essenzialmente per tutelare la proprietà terriera (proprietà, servitù e possesso) da turbative e molestie; il suo raggio d’azione era, quindi, limitato e ben definito. 2 La suddetta disarticolazione nel tempo ha soltanto favorito una ricostruzione dello strumento inibitorio in chiave essenzialmente dottrinale e giurisprudenziale, che ha condotto ad una diversità di espressioni dalla differenza non solo e non tanto terminologica, ossia di azione inibitoria, azione in cessazione, o più semplicemente inibitoria, con la ovvia conseguenza che spesso si è indotti a domandarsi se si tratti sempre dello stesso strumento di tutela al punto da valutare come indifferente l’utilizzazione dell’una o dell’altra espressione 6. Cosicché, seppur con la dovuta cautela, è ormai tempo di favorire un riconoscimento a pieno titolo della tutela inibitoria e dunque di affermare che la tutela preventiva esprime un principio di carattere generale dell’ordinamento diventando uno strumento indispensabile per garantire la soddisfazione di alcune tipologie di diritti riconosciuti dall’ordinamento nonché per dare concreta attuazione al principio costituzionale della tutela giurisdizionale avendo come riferimento proprio l’art. 24 Costituzione. Il suddetto riconoscimento della tutela preventiva quale forma di tutela giurisdizionale autonoma e non quale mera appendice della azione di condanna o di quella costitutiva o di accertamento, va dunque incoraggiato se si conviene che la tutela inibitoria risponde ad esigenze proprie di ogni situazione giuridica soggettiva - patrimoniale e non - e che pertanto la sua esperibilità non dipende direttamente dal riconoscimento esplicito della azione quanto piuttosto da quello del diritto nell’Ordinamento. La azione inibitoria ha dunque lo scopo di garantire l’integrità del diritto e l’esercizio dello stesso e, a differenza, per esempio, della azione risarcitoria non ha alcun contenuto surrogatorio non essendo idonea a sostituire al diritto originario un diritto di credito equivalente al valore della lesione verificatasi. Occorre pertanto impostare la ricostruzione della tutela preventiva nel senso che la autonomia della stessa è correlata alla esistenza di un diritto meritevole di tutela da parte dell’ordinamento giuridico, orientando dunque l’ottica della necessità di un intervento del giudice dalla rimozione (generalmente) di un illecito a quello della lesione del diritto e individuando così per una categoria di diritti sempre più ampia - una tipologia di tutela giurisdizionale efficace e “propria” non mutuata da altre forme di tutela nemmeno in via di applicazione analogica. Invero, come si vedrà, la tutela inibitoria rappresenta la possibile alternativa alla più tradizionale tutela risarcitoria laddove questa ultima è inadeguata a garantire l’effettiva tutela dei diritti, soprattutto di quelli a contenuto non patrimoniale. Ciò per la sostanziale inadeguatezza del sistema giuridico vigente di fronte all’emergere di nuovi diritti correlati al diffondersi di nuovi rapporti sociali. La comune esigenza di riconoscere la giusta cittadinanza alla tutela inibitoria che ha alimentato il dibattito dottrinale e il susseguirsi di diverse ed importanti pronunce della giurisprudenza con riferimento alla sua tipicità o atipicità, è una questione che riguarda esclusivamente il rimedio inibitorio finale e di merito, non ponendosi alcun problema riguardo al generale riconoscimento della tutela inibitoria preventiva cautelare che nel nostro ordinamento è garantita dall’art. 700 c.p.c. Cosicchè il vero problema non è quello di riconoscere la esistenza di uno strumento generale di tutela cautelare preventiva, e dunque di una azione cautelare preventiva inibitoria, Si dovrà aspettare molto tempo prima di poter parlare di una tutela preventiva anche con riferimento alle minacce di pregiudizio ai beni immateriali: esattamente i primi anni del 1800, quando per la prima volta, sulla scia della riscoperta libertà dell’industria e del commercio, si è avvertita l’esigenza naturale di tutelare l’imprenditore da quelle pratiche sleali che avrebbero potuto pregiudicare la sua attività. L’analisi dell’esperienza italiana, allora, considerata anche fino agli interventi più recenti in materia, ci mostra chiaramente come il rimedio inibitorio sia nato come istituto tipico del diritto civile ma abbia finito per avere un suo culmine nell’ambito più specifico del diritto commerciale e del diritto dell’industria, probabilmente perché proprio in questi settori risultava più difficile “accontentarsi” della tradizionale tutela risarcitoria e si reclamasse, invece, una tutela più efficace. 6 Sul punto cfr A. FRIGNANI, Voce Inibitoria,in Enc. Dir., XXI, 1971, 559 ss 3 quanto piuttosto di una azione preventiva inibitoria di merito idonea a definire il giudizio e, dunque, al giudicato. Per fare ciò e, da un lato, nel tentativo - ormai sempre più ampiamente riconosciuto di superare la classica tripartizione puramente concettuale delle azioni di cognizione e, dall’altro, di dare una definitiva risposta ad una domanda di tutela giurisdizionale dei diritti compiuta, si può affermare che la tutela inibitoria non è più una zona grigia e quasi inesplorata semplicemente collocata quale fenomeno settoriale di una forma di tutela più ampia e generalizzata, quanto piuttosto azione autonoma che, al pari delle altre azioni di cognizione, si inserisce nel sistema della tutela giurisdizionale dei diritti avendo quale oggetto di diretta protezione un diritto soggettivo riconosciuto come tale dall’ordinamento giuridico e per il quale occorre prevedere una tutela giudiziaria diretta e propria che non viene affatto assicurata con un comando giudiziario ex post ma che impone intervento preventivo. Si potrebbe dunque affermare che l’oggetto della tutela è un diritto soggettivo la cui lesione è stata cagionata dal comportamento altrui che, peraltro, ha determinato anche la violazione di una norma di diritto positivo che già assisteva il diritto in questione nella misura in cui riconosceva e riconosce allo stesso la sua precisa e definita identità giuridica. Per fare ciò non occorre fondare la soluzione favorendo una certa supplenza giudiziale di fronte a carenze o lacune normative del nostro ordinamento giuridico di regolamentazione di nuovi rapporti e della patologica conflittualità degli stessi, quanto piuttosto la idea che la tutela preventiva è del tutto autonoma, anche in considerazione del fatto che vi sono molti settori - quali solo per esempio quello dell’ambiente - in cui la legislazione è ampia ed ampiamente articolata ed adeguata a giusta protezione di situazioni giuridiche quali beni giuridicamente protetti. Occorre pertanto dare una definizione della tutela inibitoria: essa si inserisce nel sistema delle tutele civilistiche dei diritti inquadrandosi come tutela di tipo preventivo e specifica, poiché tende comunque a impedire la ripetizione o la continuazione di un comportamento normalmente illecito, e specifica perché tende a garantire l’esercizio del diritto per come riconosciuto e regolamentato dall’ordinamento giuridico. E proprio tale seconda caratteristica diventa la chiave di lettura che, unita alla finalità tipicamente preventiva della inibitoria, costituisce il proprium della stessa quale azione evidentemente finalizzata ad assicurare – alla attualità ed in futuro - ogni e più ampia tutela del diritto leso, la cui vera protezione è fornita solo da un comando inibitorio del giudice finale e di merito, siccome lo stesso costituisce l’unico e specifico strumento di intervento e di tutela reale del diritto. La giustificazione di una tutela giurisdizionale diretta e specifica - che fa assurgere in via generale al rango di azione la inibitoria - ha la sua matrice nel dettato costituzionale di cui all’art. 24 Cost., rappresentando dunque la azione in questione lo strumento diretto di protezione giudiziale dei diritti in mancanza del quale l’ordinamento sarebbe evidentemente lacunoso e il sistema di effettività della tutela giurisdizionale del tutto inefficace, siccome non appropriato alla tipologia dei diritti lesi. La importanza della tutela preventiva è dunque accresciuta con la proliferazione delle situazioni giuridiche soggettive a contenuto non patrimoniale per le quali è del tutto insufficiente ed inadeguata una tutela risarcitoria successiva idonea a realizzare soltanto una monetizzazione ex post del diritto leso e non anche un effettivo godimento dello stesso. In altri termini a fronte di una crescente domanda di tutela di particolari situazioni giuridiche comunque meritevoli di protezione e rispetto alle quali si evidenziava la incapacità di assicurare una adeguata ed effettiva tutela delle stesse attraverso la classica tutela risarcitoria postergata, emergeva la necessità di individuare una sempre più generale e generalizzata tutela a scopo preventivo, dove la capacità ed effettività della tutela giurisdizionale stessa fosse direttamente proporzionale alla misura dell’intervento inibitorio. 4 Ciò che dunque occorreva individuare era la previsione di uno strumento generale di tutela inibitoria dei diritti, atteso che quest’ultima risponde ad esigenze proprie di ogni situazione giuridica soggettiva - patrimoniale e non - e che pertanto la sua esperibilità non dipende tanto dal riconoscimento esplicito della azione ma dal riconoscimento altrettanto esplicito del diritto nell’ordinamento. In buona sostanza, così come esiste un diritto meritevole di tutela che allorché venga leso possa trovare una adeguata forma di protezione attraverso il rimedio risarcitorio - e lo stesso discorso vale per il diritto che richiede una tutela di accertamento o costitutiva - nel nostro Ordinamento esiste una serie di diritti la cui lesione impone un intervento di tipo non risarcitorio e restitutorio, o tanto meno di accertamento o costitutivo, ma di tipo inibitorio a fronte oltre che di una avvenuta violazione di un diritto anche di un pericolo di continuazione o ripetizione di tale violazione. Invero, la azione inibitoria si rivolge alla tutela di un diritto, e soprattutto alla tutela in futuro dello stesso sul presupposto che si sia già verificata una lesione attuale nonché sull’ulteriore e non secondario presupposto del serio pericolo di reiterazione e continuazione della lesione dello stesso. Ciò perché il comportamento altrui lesivo del diritto consiste proprio in una condotta già avvenuta destinata a ripetersi, laddove la esigenza di tutela si concretizza non solo e non più con un intervento successivo - di poca rilevanza - ma con un rimedio evidentemente preventivo volto soprattutto a scongiurare che l’evento lesivo - già di per sé dannoso - si protragga nell’immediato futuro continuando a perpetrare un danno il cui rimedio è soltanto assicurato da una reazione dell’ordinamento. Tale tipo di tutela giurisdizionale e soprattutto la effettività della stessa – in ossequio agli artt. 2 e 24 Cost. - è assicurata soltanto da una azione giudiziaria quale quella inibitoria, che, ricondotta nell’alveo delle azioni di cognizione, è idonea a garantire un rimedio giurisdizionale attraverso un provvedimento a conclusione di un giudizio cognitorio. Occorre dunque riconoscere che la azione inibitoria è uno strumento generale di tutela dei diritti, idoneo a garantire una tutela giurisdizionale effettiva e completa proprio di quei diritti la cui lesione impone un intervento ed un comando del giudice che può essere assicurato soltanto da un provvedimento preventivo ed inibitorio finale di merito. Cosicché a prescindere dal criterio sistematico attraverso il quale si potrà affermare la necessità di riconoscere la esistenza nel nostro Ordinamento di un rimedio inibitorio finale e di merito, da più parti si è sempre di più avvertita la esigenza che a tale conclusione e a tale traguardo occorresse ormai giungere - e, allo stato dell’arte seppur con impostazioni concettuali e metodologiche diverse, si può ragionevolmente sostenere che si è giunti - laddove sembra diventare opinione sempre più comune la esistenza di una ampia gamma di diritti che possono trovare una effettiva tutela giurisdizionale solo se la stessa assicuri una inibizione di condotte di terzi lesive di particolari diritti, la cui natura richiede sempre e soltanto un intervento di tipo preventivo ed, appunto, inibitorio. Per fare ciò l’unico criterio coerente è quello di affermare che la azione inibitoria trae origine dalla normativa costituzionale e dunque che la tutela inibitoria è assicurata direttamente dalla Costituzione, potendosi di tal guisa prevedere un generale sistema di tutela giurisdizionale idonea, a protezione di una categoria di diritti di enorme importanza in mancanza della quale il nostro sistema processuale sarebbe oltremodo lacunoso ma, soprattutto, vi sarebbero numerosi diritti del tutto sforniti di una adeguata protezione. Come detto, la tutela inibitoria ha conosciuto negli ultimi decenni una forte espansione, e ciò per effetto dell’ampio campo di operatività ed intervento della stessa: oggetto della sua tutela sono infatti, i diritti della persona, il diritto di proprietà, il diritto del lavoro, il diritto della proprietà industriale e intellettuale, fino ai più recenti diritti dei consumatori. Invero, la sua espansione è stata direttamente proporzionale alla nascita di nuovi diritti specie a contenuto non patrimoniale – dove, come detto, una tutela ex post, quale quella risarcitoria, 5 sarebbe poco efficace, essendo viceversa necessaria una tutela più utile rispetto alla tutela risarcitoria. Occorre dunque ripercorrere le più importanti problematiche che hanno riguardato la tutela inibitoria che sono, essenzialmente, due, e dove l’una è strettamente correlata all’altra; la prima è la annosa questione circa la qualificazione giuridica dell’inibitoria all’interno della tradizionale tripartizione delle tutele giurisdizionali. Le ricostruzioni avanzate in dottrina e in giurisprudenza sono state diverse: c’è chi la riconduce alla tutela dichiarativa, chi a quella costitutiva, chi a quella di condanna e chi, in modo del tutto originale, la configura come quartum genus. Per chi ha ritenuto superabile il “noto” dogma della correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata vengono meno quei limiti che impediscono di ricondurre la tutela inibitoria alla tutela di condanna. Ciò perché oggetto della inibitoria è l’ordine di cessare o comunque di non fare o reiterare un certo atto o comportamento, dunque si paleserebbe la sua natura condannatoria, che presuppone che il giudice non si limiti soltanto a verificare o a rimuovere uno stato di incertezza che, invece, caratterizza ed è proprio della tutela di mero accertamento. Invero, la suddetta teoria non è affatto pacifica, non mancando Autori che operano ricostruzioni differenti. La seconda problematica, non ancora sopita, riguarda l’ambito di applicabilità di siffatta tutela, o meglio la tanto discussa atipicità della stessa, perché nell’ordinamento vigente non è presente un principio generale di tutela inibitoria, analogamente a quanto, invece, possa dirsi per la tutela risarcitoria. Anche in questo caso la dottrina non ha mancato di individuare un dato normativo sul quale agganciare la atipicità della inibitoria, ma probabilmente l’esigenza di dimostrare l’applicabilità generale della tutela in esame potrebbe essere soddisfatta solo attraverso argomenti di diritto sostanziale. Orbene, considerando che la inibitoria assolve ad una funzione preventiva, in quanto mira, come già detto, a prevenire l’illecito o la sua continuazione o ripetizione, si è ritenuto - come sostiene una certa dottrina - di fondare la atipicità della medesima sulla nozione di illecito, quale atto riprovato dall’ordinamento, inteso come violazione della norma giuridica, e come tale da arrestare attraverso una tutela preventiva, quale la inibitoria, in quanto una tutela risarcitoria risulterebbe inadeguata e insoddisfacente. Ma questa si limita ad essere una delle tante proposte interpretative, non essendosi ancora in grado di dedurre pacificamente l’applicabilità generale di siffatto rimedio. Tuttavia, per quanto queste due problematiche abbiano impegnato per più di un trentennio la dottrina processualcivilistica italiana, sta di fatto che anche la loro parziale risoluzione non ha prodotto risultati definitivi, e addirittura tali indagini potrebbero sembrare sterili rispetto a quello che, poi, è il vero problema (o meglio il limite) della tutela inibitoria. Il riferimento è alla ineseguibilità o inattuabilità della stessa, ogni qualvolta non vi sia lo spontaneo adempimento della parte obbligata, data la riconosciuta infungibilità del comando inibitorio e pertanto esso non è suscettibile di trovare attuazione attraverso le norme dettate in materia di esecuzione forzata, con la conseguenza che la tutela in questione spesso è debole ed insufficiente. Si pone, dunque, la necessità per l’interprete che si deve occupare di come rendere realmente effettiva questa forma di tutela di cambiare qualcosa, senza dimenticare che questo disagio era stato avvertito già da Chiovenda, il quale efficacemente affermava che si può esser condannati a tutto ciò che si può esser tenuti a prestare (sia un dare, un fare, un’astensione, sia la distruzione di quanto fu fatto in contravvenzione all’obbligo di non fare). Per fare ciò è indispensabile dotarsi di un sistema generale di coazione indiretta, sistema che gli altri ordinamenti hanno fatto individuato e normato da tempo. 6 Il modello cui il nostro ordinamento potrebbe ragionevolmente ispirarsi è il sistema della astreinte francese, creato dalla giurisprudenza ed ampiamente normato, che certamente è il più congeniale alla nostra tradizione giuridica. Nonostante questa proposta sia stata avanzata da diverso tempo da numerosi esponenti della dottrina processualistica italiana, e dagli anni ’90 siano state apportate numerose modifiche al nostro codice di rito, il nostro legislatore non ha ancora colmato questa lacuna non occupandosi di introdurre nel nostro ordinamento un sistema generale di esecuzione indiretta, a parte isolate ipotesi legislative introdotte con il d. lgs.vo n. 69/2009. La effettività della tutela inibitoria, tuttavia, è un problema che ha trovato una soluzione nel settore consumeristico ed infatti nel recente codice del consumo (ma già da prima), vi sono alcune norme che individuano strumenti che garantiscono a pieno l’efficacia dell’inibitoria collettiva, quali (i) la pubblicazione del provvedimento, (ii) le misure idonee e (iii) la c.d. astreinte. Ognuna di queste svolge una propria funzione: le misure idonee svolgono una funzione integrativa del comando inibitorio, la pubblicazione del provvedimento assolve, invece, ad una funzione essenzialmente informativa rispetto all’intera categoria dei consumatori, mentre il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo - c.d. astreinte - ha una funzione precipuamente compulsoria. Tutte però perseguono il medesimo scopo, nel senso che quando il giudice pronuncia una sentenza inibitoria, la stessa non deve tradursi in un nulla di fatto qualora il convenuto non esegua spontaneamente il provvedimento della Autorità giudiziaria, riconoscendo alla parte che ha ottenuto la pronuncia in suo favore, il diritto alla effettiva attuazione del provvedimento. Infine, si deve rilevare che nel settore del diritto dei consumi, specie dopo l’entrata in vigore della legge 281/98, l’inibitoria collettiva acquista non solo contorni più definiti ma è in grado di apprestare una tutela effettiva, diventando uno strumento generalizzato e privilegiato di protezione degli interessi dei consumatori. In questo particolare ambito va senz’altro superato il problema della sua atipicità, in quanto essa ha appunto una applicazione generalizzata, e in un certo senso neanche dovrebbe essere messa in discussione la sua eseguibilità, dato che sono previsti validi strumenti di incentivi che ne garantiscono la piena effettività. Lo studio della tutela inibitoria impone, dunque, di affrontare le diverse e non semplici questioni che sono emerse allorché si affronti la analisi di questa forma di tutela giurisdizionale dei diritti, nel tentativo di offrire una qualche plausibile soluzione. Ciò perché - come detto - l’argomento in esame non è stato mai trattato dalla dottrina in modo unitario, limitandosi i vari commentatori ad analisi non sempre sistematiche, ma piuttosto connesse a valutazioni delle singole fattispecie. Invero, qui il sistema si presenta quasi come volutamente disorganizzato, forse proprio per dare risalto, di volta in volta alle specificità del caso concreto, ossia alle necessità richieste per quel tipo di lesione e per tutelare quel tipo di interesse. In più va rilevato che per lungo tempo, lo studio si è focalizzato quasi esclusivamente sui profili processualistici, tralasciando troppo spesso quelli sostanziali, i quali al contrario sono strettamente connessi ai primi. L’analisi che sarà condotta si svolgerà sotto diversi profili, ed infatti lo studio della tutela inibitoria dovrebbe permettere, in un certo qual modo, di ricondurre ad unità il passato con il presente, nel senso che specie in passato, ma anche oggi, è ancora vivo il dibattito in dottrina circa la qualificazione giuridica del “rimedio inibitorio” all’interno della tradizionale e forse superata tripartizione delle tutele (o azioni) processuali, ossia se la azione inibitoria debba qualificarsi quale tutela di condanna, costitutiva, ovvero di mero accertamento. 7 Il problema sorge per il fatto che la inibitoria, risolvendosi in un “comando negativo di non fare”, non sarebbe eseguibile attraverso il processo esecutivo, data la infungibilità dell’obbligazione negativa, con la conseguenza di non poterla qualificare quale tutela di condanna7. Nel tempo è prevalsa in dottrina8, la natura condannatoria della tutela inibitoria posto che l’esecuzione forzata rappresenterebbe solo una delle modalità attraverso cui si garantisce ed assicura l’adempimento delle decisioni giudiziali e ciò perché non vi è alcuna norma di diritto positivo che avvalori il principio della “correlazione necessaria tra condanna ed esecuzione forzata”. Se così è ne consegue che nulla impedirebbe che il comando giudiziario venga realizzato (anche) attraverso altri strumenti non propri del processo esecutivo ed è a questo punto che la presente indagine deve (necessariamente) spostarsi su un’altra delicatissima e più recente problematica, anche se, come detto, il disagio era già avvertito tempo dalla nostra dottrina processualistica sin dai tempi del Chiovenda. Il riferimento è alle modalità attraverso le quali “garantire” la piena effettività, o meglio l’efficacia pratica, del comando inibitorio, data la sua evidente infungibilità. Certo ci si può rimettere al volontario adempimento da parte dell’obbligato, ma se così non fosse come si potrebbe ovviare? Esistono altre e percorribili soluzioni nel nostro sistema processuale? Sarà, a tale proposito, opportuno occuparsi di un problema che ha rilievo pratico e che quindi riguarda precipuamente il diritto processuale: il riferimento è all’efficacia del comando inibitorio in connessione con il principio generale di “esecuzione indiretta”, che non sembra essere stato accolto dal nostro legislatore, diversamente da altri ordinamenti giuridici, se non con la recente riforma, anche se in modo piuttosto contenuto9. Occorre ricordare che le singole tipologie di tutele riguardano alcuni diritti della persona, altri la tutela della proprietà o del possesso, altri ancora il settore del diritto industriale, del lavoro, così come occorre evidenziare le soluzioni adottate in altri Paesi per far fronte a questo problema, attraverso strumenti generali di coazione indiretta quali l’astreinte francese, il conptemp of court anglosassone e lo Zwangsstrafen tedesco. Un settore di efficace applicazione della tutela in esame è quello che riguarda i diritti dei consumatori, dove l’inibitoria - specie nell’ultimo ventennio e sotto la spinta della legislazione comunitaria - ha conosciuto ampia applicazione e risulta essere un rimedio generale assolutamente indispensabile. L’attuazione della sentenza inibitoria in materia di consumo è meno problematica di quanto si prospetti in teoria. 7 In tal senso parte si segnalano le opere classiche della dottrina tradizionale. Cfr. E.T. LIEBMAN, Le opposizioni di merito nel processo di esecuzione, Roma, 1931; P. CALAMANDREI, Studi sul processo civile, III, Padova, 1934; A. ATTARDI, L’interesse ad agire, Padova, 1955; C. MANDRIOLI, Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 1342 ss. 8 A. PROTO PISANI , L’effettività dei mezzi di tutela giurisdizionale con particolare riferimento all’attuazione della sentenza di condanna, in Riv. dir. proc., 1975, p. 620 ss.; ID, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1978, p. 1104 ss.; ID, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982; ID., Brevi note in tema di tutela specifica e tutela risarcitoria, in Foro it., 1983, V, p. 127 ss. Contra C. MANDRIOLI , L’esecuzione specifica dell’ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, in Riv. dir. proc., 1975, p. 9 ss.; Sulla correlazione necessaria tra condanna ed eseguibilità forzata, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 1342 ss. Cfr., inoltre, M. TARUFFO, Problemi in tema di esecutorietà della sentenza di condanna alla reintegrazione del lavoratore, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1976, p. 789 ss., F. CARPI, Riflessioni sul rapporto tra l’art.111 Cost. ed il processo esecutivo, in Riv. trim.dir. proc.civ., 2002, pp.383 ss 9 Il riferimento è alla recente legge di riforma del processo civile 69 /2009 in cui il legislatore per la prima volta prevede una più o meno esplicita apertura verso il sistema delle astreintes , quale rimedio di esecuzione indiretta del comando inibitorio del giudice non adempiuto da parte dell’obbligato, che da tempo ha una consolidata applicazione in altri ordinamenti europei. Sul punto si segnala il recente contributo di C. ASPRELLA, L’esecuzione processuale indiretta nel processo civile, in Riv. Esec. forzata, 2012, p. 29 ss. 8 E’ certamente vero che inibire vuol dire letteralmente ordinare di non fare, e che la conseguente obbligazione negativa è giuridicamente infungibile, ma ciò non toglie che di fronte a comportamenti illeciti di tipo omissivo, il comando inibitorio possa ben presentarsi in termini positivi: inibire un’omissione vuol dire anche ordinare un comportamento positivo di fare, superando pertanto il problema della infungibilità10. Orbene, nel diritto dei consumi la inibitoria può avere sia contenuto negativo, sia contenuto positivo, e il problema della fungibilità della prestazione oggetto dell’inibitoria va affrontato da un punto di vista materiale, e non giuridico, poiché è ben possibile che anche l’adempimento del comando di non fare si risolva in primo luogo nella distruzione di quanto si è fatto in violazione dell’obbligo negativo: distruzione di beni, ad esempio non conformi a sicurezza, che può essere effettuata da un terzo in surrogazione dell’obbligato nell’ipotesi di sua inadempienza. In questo ambito la tutela inibitoria si presenta sotto due forme: una speciale (art. 1469-sexies c.c, ora art. 37 del Codice del consumo), l’altra generale (art. 3 l. 281/1998, ora art. 140 del Codice del consumo). Le due tipologie di inibitoria sono molto simili, ma il presupposto oggettivo è diverso, dal momento che la prima riguarda l’inserimento di clausole vessatorie, mentre la seconda ha un’applicazione appunto generalizzata, in quanto le clausole vessatorie costituiscono soltanto uno dei possibili comportamenti lesivi dei diritti dei consumatori, laddove l’altra è invece in grado di incidere in settori fondamentali per i cittadini, quali la salute, la sicurezza degli alimenti, la pubblicità commerciale, la distribuzione dei prodotti, l’informazione e la qualità dei servizi pubblici e privati. In ogni caso va evidenziato come queste norme prevedono alcuni strumenti che tentano di garantire effettività all’inibitoria, coartando indirettamente la volontà dell’obbligato. L’art. 37 del codice del consumo prevede soltanto la pubblicazione del provvedimento inibitorio, mentre l’art. 140 anche il pagamento di una somma di denaro per ogni giorno di ritardo nell’adempimento (la c.d. astreinte ) e l’adozione di misure idonee. Tali strumenti consentono, con modalità e con funzioni diverse, di tutelare in maniera effettiva i consumatori e i loro diritti. Si osservi, inoltre, che l’inibitoria azionata a tutela dei diritti dei consumatori assurge a forma di tutela collettiva e l’esigenza di ricorrere a forme di tutela di tal specie, frutto degli attuali modelli di produzione e distribuzione di massa, è stata affrontata, in alcuni ordinamenti di common law, attraverso lo strumento processuale delle class actions11, azioni che consentono di tutelare nel medesimo giudizio una molteplicità di situazioni soggettive distinte, ma tra loro omogenee: si tratta di un modello che non appartiene alla tradizione giuridica dei sistemi continentali europei e che risulta difficilmente prospettabile al di fuori della prassi giudiziaria americana12. Il modello delle class actions consente di raggiungere tanto una generale finalità di dissuasione e di deterrenza dal compimento di illeciti, quanto di realizzare un’efficace gestione collettiva di diritti di natura individuale. Tale strumento è, tuttavia, concettualmente diverso dalle «azioni di interesse collettivo» (proprie dei sistemi continentali europei) a contenuto inibitorio o ripristinatorio13, nelle quali 10 Al riguardo è doverosa la lettura dell’importante contributo di A. FRIGNANI, L’injuction nella common law e l’inibitoria nel diritto italiano, Milano, 1974. Egli dapprima dell’introduzione dell’inibitoria a tutela dei diritti dei consumatori, definisce l’inibitoria quale tutela contro l’illecito suscettibile di avere contenuto negativo e positivo, quindi può consistere in un non fare o un fare. 11 Su tale tema si rinvia al fondamentale contributo di A. GIUSSANI, Studi sulle class actions, Padova, 1996 12 C. CONSOLO, Class actions fuori dagli USA ? (Un’indagine preliminare sul versante della tutela dei crediti di massa: funzione sostanziale e struttura processuale minima), in «Riv. dir. civ. », 1993, I, p. 609. 13 P.RESCIGNO, Sulla compatibilità tra il modello processuale delle class action ed i principi fondamentali dell’ordinamento giuridico italiano, in «Giur. it.», 2000, p. 2224; A.GIUSSANI, La tutela di interessi collettivi nella nuova disciplina dei diritti dei consumatori, in «Danno e Resp.», 1998, p. 1061. 9 l’interesse collettivo, pur risultando da una pluralità di interessi individuali, non ne rappresenta la mera sommatoria e la posizione del singolo è tutelata in quanto condivisa da più soggetti14. 14 C. VERARDI, Accesso alla giustizia e tutela collettiva dei consumatori, Il diritto privato dell’Unione Europea, a cura di A. Tizzano, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, Torino, 2000, p. 1331 ss. 10