PARTECIPAZIONE, POLITICHE PUBBLICHE, DIRITTI Alessandra Valastro SOMMARIO: 1. La partecipazione come metodo di governo della democrazia pluralista: le ragioni e gli ostacoli di un processo regolativo; 2. Il rilievo costituzionale della partecipazione e la portata normativa del concetto di <<democrazia partecipativa>>; 3. La complessità delle pretese partecipative nel quadro delle categorie tradizionali dei diritti: nuovi <<diritti sociali di partecipazione>>?; 4. Non solo diritti: la rilevanza dei principi di solidarietà e sussidiarietà; 5. Una prospettiva ulteriore e convergente: il federalismo cooperativo come metodo di governo partecipato; 6. Indicazioni per il legislatore. A) I <<macroprincipi>> della democrazia partecipativa come oggetto di politica pubblica in sé: finalità, livelli essenziali, soggetti istituzionali, tecniche di normazione; 7. (segue) I <<micro-principi>> delle politiche partecipative nell’ambito delle singole policies: profili sostanziali, organizzativi e procedurali; 8. Il ruolo strategico delle regioni: chiaroscuri e linee di tendenza della legislazione regionale dal 2001 ad oggi; 9. Spunti conclusivi: le sfide della responsabilità e della qualità della partecipazione. 1. La partecipazione come metodo di governo della democrazia pluralista: le ragioni e gli ostacoli di un processo regolativo Le sorti della democrazia sono visceralmente legate a quelle della partecipazione, tanto che non v’è definizione della prima che non sia <<intrisa>> di riferimenti alla seconda. Non è un caso che la riflessione sulla c.d. <<democrazia partecipativa>> abbia ripreso vigore negli ultimi anni, recuperando una posizione di centralità nell’ambito delle diffuse e crescenti preoccupazioni per le sorti della democrazia e per la capacità di quest’ultima di mantenersi interprete dei principi del costituzionalismo1. Non che quello della crisi della democrazia sia argomento nuovo. Al contrario, instancabilmente additato dalle voci più autorevoli del costituzionalismo, esso veniva posto già dal Costituente attraverso l’implicito riconoscimento, nel secondo comma dell’art. 3, di un contrasto fra il nuovo modello di società e quello in atto: un modello, quest’ultimo, di democrazia formale e senza demos, dunque generatore di situazioni di ingiustizia, come tale da rifiutare in favore di un modello di democrazia reale2. Tuttavia i segnali di crisi che provengono oggi dalle democrazie contemporanee (quella italiana in particolare), sono in parte nuovi ed allarmanti, disseminati in luoghi diversi ma tutti ugualmente rilevanti: fra questi vi è certamente il luogo della partecipazione, sovente e da molteplici prospettive esplorato ma mai compiutamente inquadrato, quasi si trattasse di una sorta di luogo fantasma dalle coordinate geografiche in continuo movimento3. 1 Risuonano ancora attuali le note parole di M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1980, 236, laddove affermava che “nello specchio della partecipazione si riflettono fedelmente i vizi e le virtù, le speranze e le delusioni di questa nostra società”. Più di recente, fra gli altri, v. l’accorato interrogativo posto da L. C ARLASSARE, Costituzionalismo e democrazia nell’alterazione degli equilibri, in www.costituzionalismo.it, n. 2/2003, 1: “Potrà, la nostra, continuare a definirsi una <<democrazia pluralista>>? E soprattutto… la democrazia si accompagnerà ancora ai principi del costituzionalismo che impongono la limitazione del potere?”. 2 U. ROMAGNOLI, Il principio dell’eguaglianza sostanziale. Commento art. 3, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna – Roma, 1975, 164ss., che parla –per questa ragione- di <<Costituzione sincera>>. 3 Di “un fiorito sentiero che girovaghi in un territorio pieno di mine” parla M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, cit., 230. La comunanza di destino che lega la partecipazione e l’eguaglianza sostanziale, niente affatto casuale dato il loro accostamento nell’art. 3 Cost., consente di estendere alla prima le illuminanti considerazioni che G. F ERRARA riferisce all’inveramento dell’eguaglianza: “Questione centrale e complessa, storicamente determinata e perennemente incombente, dai profili plurimi mai tutti definibili, parzialmente conquistata ma mai definitivamente, mai esaurientemente, aggredita dalla uniformità e intollerante alle differenze, dalla integrità non attingibile ma dalla parzialità inconcepibile” (Sulla democrazia costituzionale, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. Il diritto costituzionale come regola e limite al potere, vol. V, Napoli, Jovene, 2009, 1914). 1 Ebbene, la riflessione su quel luogo deve oggi riprendere le mosse dai punti di connessione della partecipazione con le nervature più profonde del costituzionalismo: l’esercizio della sovranità popolare e il controllo del potere, che reclamano sedi e strumenti ulteriori rispetto a quelli della rappresentanza politica; il pieno sviluppo della persona e l’eguaglianza sostanziale; l’equilibrio fra i poteri, che chiede il rafforzamento delle capacità di indirizzo e controllo delle assemblee rappresentative, anche attraverso il recupero di effettive forme di raccordo con la società civile; la sempre più pressante richiesta di qualità ed efficacia delle politiche pubbliche, rispetto alle quali la complessità della domanda sociale impone di ricercare forme di più stretta interlocuzione fra i decisori e i destinatari delle regole; il principio solidarista e cooperativo, che insieme a quelli personalista e pluralista ha inteso disegnare un modello di democrazia non soltanto egalitaria ma anche inclusiva ed emancipante. In una prospettiva che voglia recuperare queste coordinate, la riflessione sul tema della partecipazione quale si è snodata nelle varie fasi dell’attuazione costituzionale appare riduttiva: progressivamente inariditosi il collegamento con quel patrimonio valoriale che ne aveva alimentato le letture fino alla fine degli anni ’70, il tema della partecipazione è in seguito scivolato in una sorta di sudditanza teorica rispetto a quello della rappresentanza politica, generando ricostruzioni che ne hanno privilegiato gli aspetti di rivendicazione e conflittualità piuttosto che di complementarietà, o alimentando derive demagogiche e retoriche politiche di mera ricerca del consenso. In particolare, la materia della partecipazione è stata relegata nell’ambito delle libertà politiche stricto sensu (artt. 48 e 49 Cost.) e degli istituti di democrazia diretta; mentre le dinamiche ulteriori e più feconde, quelle che consentono alla volontà popolare di penetrare nei processi decisionali pur senza sostituirsi alla rappresentanza, per arricchirla e completarla, sono state lasciate al variegato mondo delle prassi, delle sperimentazioni, delle sensibilità politiche contingenti, delle dinamiche concertative, del potere di fatto dei soggetti privati organizzati. Ma le profonde fratture istituzionali che non da oggi attraversano il Paese hanno da tempo confermato, ammesso che ve ne fosse bisogno, che il meccanismo della rappresentanza politica non è (né potrebbe essere) sufficiente ad esaurire le pulsioni della sovranità4; e l’inquadramento del tema della partecipazione nell’ambito dei possibili correttivi alle disfunzioni della rappresentanza e ai difetti di legittimazione della politica appare fuorviante, poiché finisce per negare il carattere di prius logico della partecipazione quale luogo di esercizio della sovranità che può e deve assumere forme molteplici. Le ragioni più immediate che hanno ostacolato negli anni l’affrancamento della partecipazione da un tale limbo giuridico, e in ultima analisi il conseguimento di una reale effettività, sono molteplici e tutte ampiamente esplorate dalla bibliografia sull’argomento5: 4 E’ significativo che tale affermazione sia stata sostenuta con forza dagli interpreti più attenti del testo costituzionale già all’indomani della sua approvazione: v., fra gli altri, C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, pp. 10ss.; C. MORTATI, Manuale, cit., pp. 149ss.; V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in ID., Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, Giuffrè, 1985, pp. 114ss.; G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. trim. dir. pubbl. 1951, 923, il quale efficacemente osservava che “Il popolo, inteso in senso generico come insieme degli uomini che partecipano della vita dell’ordinamento, ha oggi un polso attivo ed inquieto che fa sentire il suo peso politico anche se manchino strumenti idonei per la costante e continua traduzione della sua forza in volontà giuridica”. Più di recente, fra gli altri, E. CHELI, Lo Stato costituzionale. Radici e prospettive, Napoli, E.S., 2006, p. 16ss., secondo il quale l’esercizio del potere sovrano è destinato a perdere ogni connotato di esclusività per divenire prerogativa di tutti i soggetti, “al vertice ed alla base”, “nelle forme e nei limiti” tracciati dal disegno costituzionale. 5 Tale bibliografia è ormai talmente copiosa da risultare difficilmente richiamabile in questa sede: v. da ultimo e per tutti U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze, University Press, 2010. 2 l’innegabile ambiguità semantica del concetto di partecipazione6; la diversità degli approcci disciplinari e dei relativi linguaggi7; l’oscillazione fra culture politiche ostili8 e atteggiamenti mitizzanti e velleitari9; la sottovalutazione delle interferenze tra riflessione giuridica e riflessione etico-morale, con il progressivo sbiadimento del quadro valoriale sotteso al modello costituzionale10. Ma le vicende della partecipazione devono essere inquadrate anche nell’ambito del più generale processo storico-politico che ha coinvolto le connesse categorie dell’eguaglianza sostanziale e dello Stato sociale: il destino di subalternità a lungo riservato ai diritti sociali rispetto ai diritti di libertà corre parallelo a quello che ha segnato le vicende della partecipazione rispetto alla rappresentanza politica; le tecniche di normazione e tutela dei diritti hanno finito per essere attratte nella prospettiva della forma di governo (e dei relativi equilibri tra poteri e tra fonti), riduttiva e fuorviante rispetto a quella naturale e più feconda della forma di stato quale sede del rapporto fra governanti e governati11; i dilemmi che affliggono da sempre l’inveramento dell’eguaglianza sostanziale sono gli stessi che si lamentano per la partecipazione, in quanto riflettono una democrazia incompiuta “che si insedia nello stato apparato ma si arresta alle soglie della società”12; la progressiva sostituzione della “contemplazione del potere” alla “contemplazione dell’uomo”, con la conseguente assunzione dell’organizzazione politico-amministrativa quale valore supremo in sé e la relegazione delle libertà individuali e sociali in una posizione di destinatarietà13, ha provocato il progressivo sfilacciamento degli strumenti della sovranità, spezzando il collegamento essenziale tra rappresentanza formale e rappresentazione sostanziale degli interessi, tra democrazia formale e democrazia sostanziale. Da tutto ciò derivano le molteplici difficoltà che hanno afflitto il processo di attuazione (anche normativa) del principio di partecipazione, determinandone il percorso incerto, oscillante e contraddittorio che è sotto gli occhi di tutti, nel quale hanno finito per confondersi difficoltà reali e difficoltà presunte, timori giustificati e preoccupazioni fintamente garantiste. Così, se fino agli anni ’80 quelle incertezze sono in gran parte dipese dalla difficoltà di affrancare la partecipazione dalla coloritura essenzialmente oppositivo-contestativa che l’aveva caratterizzata negli anni ’60-’70, successivamente hanno prevalso preoccupazioni relative alle esigenze di deflazione normativa, ai paventati rischi di “ossificazione” delle procedure partecipative14, ai <<costi>> della partecipazione. 6 Prendendo in prestito l’efficace espressione utilizzata da S. COTTA a proposito del concetto di persona, si può sostenere che anche quella relativa alla partecipazione sia una <<avventura semantica>>: Persona (filosofia), in Enc. dir., XXXIII, Milano, Giuffrè, 1983, p. 159ss. 7 La pur fisiologica e necessaria diversità di prospettive adottate dalle varie discipline (in particolare la sociologia, la scienza politica e quella giuridica) non sempre ha giovato alla ricostruzione unitaria del fenomeno, generandosi contrasti anche profondi (e in verità anche all’interno di una stessa disciplina) sull’individuazione degli istituti da ricomprendere nella categoria e sulla loro corrispondenza all’idea astratta di partecipazione: v. in proposito A. SAVIGNANO, Partecipazione, in Enc. dir., XXXIII, 1ss.; e più di recente, sulla necessità di “pulizia concettuale”, U. ALLEGRETTI, Basi giuridiche della democrazia partecipativa in Italia: alcuni orientamenti, in Dem. dir., n. 3/2006, 152. 8 Quelle culture che G. COTTURRI efficacemente riconduce alla c.d. “sindrome dell’assedio”: La democrazia partecipativa, in Dem. dir., 1/2005, 29. 9 Sui rischi e i tranelli delle <<parole-mito>> v. efficacemente S. COTTA, Il concetto di partecipazione politica: linee di un inquadramento teorico, in Riv. it. sc. pol., 1979, 194. 10 Sulla lettura morale della Costituzione, in rapporto con le categorie della democrazia partecipativa e della democrazia deliberativa, v. le interessanti considerazioni di F. VIOLA, La democrazia deliberativa tra costituzionalismo e multiculturalismo, in Ragion pratica, 20/giugno 2003, 36ss. 11 Su questo aspetto v. ampiamente A. RUGGERI, Tecniche di normazione, tutela dei diritti fondamentali, teoria della Costituzione, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 1/2008. 12 G. FERRARA, Sulla democrazia costituzionale, cit. 13 G. BERTI, Manuale di interpretazione costituzionale, Padova, Cedam, 1994, 64. 14 In questo senso v., fra gli altri, M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, in Stato e mercato, n. 73/2005, 89ss. 3 Ma vi sono anche difficoltà oggettive ed in parte nuove, legate alle profonde trasformazioni istituzionali in corso: l’interlocutore politico non è più unitario ma si è sfrangiato in un assetto reticolare, non più riconducibile alla politica genericamente intesa bensì alle politiche pubbliche, non più ad un unico attore bensì ad una congerie di soggetti diversi; le propensioni monocratiche e populiste connesse alla tendenza verso forme di governo di tipo presidenziale introducono dinamiche tendenzialmente ostili alle istanze della democrazia partecipativa15. La rinnovata e diffusa spinta partecipativa di questi anni, le cui sfaccettature sono tali e tante da rendere complessa la catalogazione delle relative pratiche entro categorie omogenee16, evidenzia una generale e pressante richiesta di effettività, al fine di guarire le malattie croniche della partecipazione e di alimentarne la parte inattuata17. Ma la richiesta di garanzie conduce con sé la necessità di regole; e queste richiamano, a loro volta, un apparato etico-valoriale di riferimento dal quale attingere le indicazioni per la costruzione delle linee portanti di un sistema normativo coerente. La riflessione giuridica su questo tema, pur copiosa, appare a sua volta malata di una sorta di schizofrenia, in quanto afflitta dalla difficoltà di adottare regole che coniughino l’ampiezza dello sfondo (non più singoli procedimenti o decisioni ma politiche pubbliche complesse) con la parcellizzazione e le specificità dei contesti e degli interessi coinvolti, le proclamazioni di principio con strumenti concreti di esercizio di una sovranità poliforme. Molto si è discusso e si discute sulla opportunità di regolamentare la partecipazione. Non v’è dubbio che una disciplina giuridica stricto sensu non possa considerarsi formalmente necessaria per l’attivazione di strumenti partecipativi: sono ormai numerose, e in molti casi eccellenti, le esperienze sviluppatesi sulla base di mere prassi. Né può considerarsi necessaria una apposita previsione costituzionale, per quanto “preziosa” nel caso in cui esista18. Tuttavia ciò che qui si tenterà di argomentare, e che costituisce il senso più profondo della ricerca da cui nasce questo volume, è la necessità di regole per assicurare piuttosto le precondizioni e i presupposti della partecipazione, quali ineludibili strumenti di garanzia di effettività delle istanze e dei diritti ad essa sottesi. Se è vero che la partecipazione è categoria giuridicamente rilevante, la peculiarità che caratterizza la democrazia partecipativa rispetto alla democrazia rappresentativa e alla democrazia diretta, ossia la pluralità delle forme (come ampiamente argomentato nel saggio di D. DONATI), non ne attenua il rapporto con le garanzie ma anzi rafforza la necessità di 15 Su questi aspetti A. PUBUSA, La democrazia partecipativa: nuovo processo di democratizzazione o autolimite del potere?, in Dir. e proc. amm., n. 4/2009, 895ss.; Y. SINTOMER – G. ALLEGRETTI, I bilanci partecipativi in Europa. Nuove esperienze democratiche nel nuovo contnente, 2009, Ediesse, Roma; A. SPADARO, Costituzionalismo versus populismo (sulla c.d. deriva populistico-plebiscitaria delle democrazie costituzionali contemporanee), in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, vol. V, cit., 2007. Sul punto v. peraltro le efficaci argomentazioni di U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, in ID. (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 25-26, il quale osserva che, se per un verso è vero che le dinamiche presidenzialiste e populiste costruiscono forme di concentrazione del potere, in quanto utilizzano l’appello al popolo come “giustificazione della sua direzione da parte di un capo che pretende interpretarne tutte le esigenze”, per altro verso è proprio in tali circostanze che si evidenzia la funzione “riequilibratrice” delle esperienze partecipative, anche se queste richiedono maggiore “combattività”. 16 Parla di “famiglia di pratiche partecipative” U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, cit., 175ss. 17 Già nel 1969 Norberto BOBBIO individuava nella mancanza di effettività l’origine delle malattie croniche della partecipazione: Crisi di partecipazione in che senso?, in R. ORECCHIA (a cura di), Rapporto tra diritto e morale nella coscienza giuridica contemporanea. Il problema della partecipazione politica nella società industriale, Milano, Giuffrè, 1971, pp. 82ss. 18 Così U. ALLEGRETTI, Intervento alla Tavola rotonda “Quali regole per la partecipazione?”, Giornate di studio su “Le regole della partecipazione: cultura giuridica e dinamiche istituzionali dei processi partecipativi”, Perugia 11-12 marzo 2010. La partecipazione ai procedimenti legislativi è ad esempio espressamente prevista dalla Costituzione svedese (su cui v. il saggio di S. CINQUE e A. SJÖLANDER-LINDQVIST in questo volume), e dalla più recente Costituzione del Sudafrica (1996), giudicata da voce autorevole “la migliore costituzione mai realizzata nella storia dell’uomo” (così C.R. SUNSTEIN, A cosa servono le Costituzioni. Dissenso politico e democrazia deliberativa, Bologna, Il Mulino, 2009, 337). 4 regole per assicurarle: infatti, in quanto ausilio prestato agli organi rappresentativi, la partecipazione potrà avere successo solo in relazione al suo “potenziale politico effettivo”, ossia grazie alla previsione di procedure che puntino non tanto su garanzie meramente formali quanto sulla “incentivazione sostanziale della partecipazione stessa”19. La stessa espressione democrazia partecipativa oggi tanto diffusamente utilizzata, cui deve senz’altro riconoscersi un’importante funzione simbolico-evocativa, rischierebbe di perpetuare ambiguità e genericità ove non fosse declinata in regole e istituti specifici, risolvendosi in una vuota conquista terminologica fors’anche più perniciosa dei mali che vorrebbe guarire. Si potrebbe anzi legittimamente dubitare, come A. CHOLLET nel suo saggio, della correttezza concettuale dell’espressione laddove intesa come una forma particolare di democrazia qualificata dalla partecipazione: “la democrazia è partecipativa per definizione, e la partecipazione non può che essere democratica”. La sfida lanciata oggi dal tema della partecipazione attiene allora alla costruzione di un quadro generale di principi e regole20 che, superando i falsi problemi e l’empirismo che ha finora caratterizzato la gran parte degli approcci21, consenta di orientare le dinamiche del processo regolativo in atto, recuperando il valore aggregante dei principi costituzionali e le radici politiche e culturali della democrazia pluralista22. Muovere dai luoghi della Costituzione, e dal rilievo che il principio di partecipazione vi assume, ha peraltro un senso a condizione che si abbandoni il complesso di inferiorità che ancora porta ad interrogarsi su quale sia il fondamento costituzionale della partecipazione, per chiedersi piuttosto, e più proficuamente, di che cosa essa sia il fondamento e di quali indicazioni per il legislatore essa sia la fonte. 2. Il rilievo costituzionale della partecipazione e la portata normativa del concetto di <<democrazia partecipativa>> A rendere obbligata l’assunzione di un siffatto punto di partenza non è tanto –o non solo- il dato letterale della Carta fondamentale quanto, soprattutto, il complesso di motivazioni che hanno animato le scelte del Costituente, e che in quanto espresse attraverso regole “pensate per durare aere perennius esigono dall’interprete di essere snodate e rispettate in tutte le virtualità di significato”23. 19 G. BERTI, La parabola regionale dell’idea di partecipazione, in Le Regioni, 1974, 3. Di “teoria generale della partecipazione” parla G. COTTURRI, La democrazia partecipativa, cit., 28. 21 L’analisi empirica, contributo prezioso delle discipline non giuridiche alla comprensione delle dinamiche delle pratiche partecipative, è stata incongruamente estesa alle <<esperienze>> normative, assunte più spesso come dato di fatto nelle ricognizioni giuridiche che come punto di partenza per operazioni ricostruttive di più ampio respiro. 22 “La costituzione non è semplicemente una specie di codificazione legislativa di un passato condivisibile o legittimo. Del passato conserva solo ciò che è accettabile, mentre rappresenta una rottura radicale e decisiva rispetto a quella parte del passato che è inaccettabile. Costituisce una rottura decisiva (…) per arrivare a una cultura costituzionalmente tutelata fatta di apertura, di democrazia e di diritti umani universali per (…) tutte le età, tutte le classi e tutti i colori (…). Il passato è stato intriso di disuguaglianza, autoritarismo e repressione. L’aspirazione del futuro è basata su ciò che è giustificabile in una società aperta e democratica che si basa sulla libertà e sull’uguaglianza. E’ fondata su una cultura giuridica di responsabilità e di trasparenza. Le disposizioni relative della costituzione devono quindi essere interpretate in modo da mettere in pratica i propositi che si volevano realizzare attraverso la loro promulgazione”: Corte costituzionale del Sudafrica, Shaballala and Others v. Attorney Generalo f the Transvaal and Another, 1996 South Africa 725 C.C. (riportata da C.R. SUNSTEIN, A cosa servono le Costituzioni, cit., 1). 23 V. in proposito le suggestive considerazioni di M. LUCIANI, Interpretazione costituzionale e testo della Costituzione. Osservazioni liminari, in G. AZZARITI (a cura di), Interpretazione costituzionale, Torino, Giappichelli, 2007, p. 48-49. Per una rilettura dei principi costituzionali in tema di partecipazione v. già G. R IZZA, La partecipazione popolare: lineamenti costituzionali, in AA.VV., Scritti in onore di Egidio Tosato, II, Milano, Giuffrè, 1982, 855ss.; G.G. STENDARDI, Contenuti e limiti del principio di partecipazione, in AA.VV., Scritti in onore di P. Biscaretti di Ruffia, II, Milano, Giuffrè, 1987, 1291ss.; U. ALLEGRETTI, Basi giuridiche della democrazia partecipativa in Italia, cit., 151ss.; e più di recente R. P ICERNO, 20 5 In questo senso, la scansione dei passaggi che possono individuarsi nei lavori preparatori sul principio di partecipazione appare ancora oggi di grande significato per la comprensione della voluntas storica del Costituente. Innanzitutto, il riferimento alla partecipazione fu introdotto per la prima volta non in relazione al principio di eguaglianza bensì nel corso della discussione sui diritti di libertà. L’intenzione di superare l’impostazione del liberalismo individualistico del secolo precedente aveva portato a ricercare una formula che esprimesse l’inscindibile connessione fra il concetto classico di libertà e i suoi risvolti positivi: “Tutte le libertà garantite dalla presente Costituzione devono essere esercitate per il perfezionamento integrale della persona umana, in armonia con le esigenze della solidarietà sociale ed in modo da permettere l’incremento del regime democratico, mediante la sempre più attiva e cosciente partecipazione di tutti alla gestione della cosa pubblica”24. Tale formula, individuando da un lato gli obiettivi della libertà (il perfezionamento della persona, l’incremento della solidarietà sociale, lo sviluppo del regime democratico) e dall’altro l’oggetto e la funzione della partecipazione (la gestione della cosa pubblica, l’incremento del regime democratico), esplicitava con mirabile chiarezza il nesso che si intendeva instaurare fra libertà e partecipazione: una articolazione in cui la prima appariva <<finalizzata>>, nelle sue progressive gradazioni di socialità, alla realizzazione della partecipazione quale sviluppo della dimensione relazionale della persona, e dunque alla realizzazione della democrazia25. In un secondo momento la discussione sulla partecipazione confluì in quella sui principi dei rapporti economici e sociali, portando al suo inserimento nell’art. 1 quale fondamento stesso dello Stato democratico che si stava delineando26. Infine, nel corso della discussione in Assemblea sul testo finale dei primi tre articoli, si ritenne che tale collocazione potesse attribuire al concetto di partecipazione un significato eccessivamente generico: prevalse quindi l’opinione di collegare tale principio con quello di eguaglianza sostanziale. Dunque il Costituente, ed è questa la prima e più incisiva indicazione, intese attribuire al principio di partecipazione un significato ancor più pregnante di quello che poteva derivare dalla già innovativa sua definizione quale fondamento della Repubblica democratica, collocandolo a chiusura dei primi tre articoli della Costituzione quasi a voler completare il quadro fisionomatico del nuovo ordinamento. La letteratura giuridica più risalente ha avuto l’indiscutibile pregio di mantenere una stretta fedeltà al testo costituzionale, evidenziando la centralità e insieme la trasversalità del principio di partecipazione rispetto agli altri principi fondamentali: basti ricordare le parole di Mortati, per il quale la partecipazione doveva costituire l’anima della nascente <<democrazia sociale>> quale forma di stato volta a “promuovere una più intima socialità fra i suoi componenti”27. Ma si pensi anche alle riflessioni sul principio di anteriorità della persona, assunto nel suo collegamento indissolubile con il concetto di democrazia sostanziale e in termini tali da evidenziare la “intrinseca sintesi di unicità e relazionalità” della persona Fondamenti costituzionali e forme di manifestazione della democrazia partecipativa, relazione alla giornata di studio “Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza”, Roma - LUISS, 6 novembre 2009. 24 ASSEMBLEA COSTITUENTE, Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, 165ss.: v. in particolare la relazione La Pira. 25 V. ATRIPALDI, Contributo alla definizione del concetto di partecipazione nell’art. 3 Cost., in AA.VV., Strutture di potere, democrazia e partecipazione, ESI, Napoli, 1974, pp. 13ss. Sul legame tra libertà e partecipazione v. già H. KELSEN, I fondamenti della democrazia, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1996, p. 101. 26 “Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla organizzazione economica, sociale e politica del paese”: A. C., Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, pp. 262ss. 27 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, Cedam, 1975, p. 143. 6 umana28; e alle riflessioni sull’art. 1 Cost., volte a reclamare la permanenza dell’esercizio della sovranità nel popolo e a rinnegare ogni forma di meccanica sovrapposizione fra popolo e corpo elettorale29. I principi di eguaglianza e di partecipazione divenivano così il connettore denso di un sistema democratico in cui l’esercizio della sovranità popolare voleva essere il prodotto dello svolgimento in senso positivo della libertà, quale condizione per lo sviluppo della persona che si realizza “passando per un gruppo sociale e quindi per la partecipazione al potere pubblico”30; e in cui il godimento dei diritti, a qualunque categoria essi appartengano (civili, politici e sociali), risulta di fatto condizionato dalla disponibilità di “condizioni primarie necessarie per una effettiva e paritaria forma di partecipazione”31. La linea circolare che muove dall’ultimo inciso dell’art. 1 Cost., laddove si pone l’accento sull’esercizio della sovranità nelle forme stabilite dalla Costituzione, si chiude nell’aggettivo effettiva che accompagna il principio di partecipazione nel secondo comma dell’art. 3, richiamando l’imprescindibile nesso tra fini e organizzazione, tra garanzie delle posizioni individuali e garanzie legate all’assetto organizzativo delle istituzioni e al metodo di governo dalle stesse adottato. La fedeltà che le letture appena richiamate hanno manifestato verso il dettato costituzionale è venuta progressivamente sbiadendosi negli approfondimenti successivi, come dimostra il fatto che da più parti si torni oggi ad interrogarsi sul fondamento costituzionale della partecipazione. Ad essere trascurata è stata, in particolare, la portata normativa che il Costituente aveva inteso assegnare al principio di partecipazione, quale principio ordinatore indicante strutture e istituti politici volti a sanare lo scollamento fra titolarità ed esercizio della sovranità, tra uguaglianza formale e diseguaglianza sostanziale32. Con l’espressione democrazia partecipativa, che non rappresenta affatto una novità di questi anni ma che al contrario è rintracciabile già a partire dalla fine degli anni ’60, si intendeva sintetizzare la volontà del Costituente di “identificare la democrazia proclamata dall’art. 1 con la partecipazione permanente di tutti i cittadini alla gestione della cosa pubblica”33, secondo un modello volto a collocare in posizione di complementarietà i modelli della democrazia rappresentativa, della democrazia diretta e della democrazia partecipativa34. Lo stesso art. 49 Cost., generalmente estraneo alla riflessione sulla democrazia partecipativa, è stato interpretato dalla più illustre dottrina come fonte di un “diritto di partecipazione permanente che supera e trascende quel diritto di partecipazione solo puntuale 28 S. COTTA, Persona, cit., 169: “la persona è se stessa, e ha integrale coscienza di sé solo quale ente-in-relazione. Tale relazionalità non è il prodotto né della volontà personale né dell’imposizione di un ente collettivo ideale o storicosociologico. E’ determinazione ontologica e pertanto è condizione intrascendibile dell’esistenza umana”. 29 C. ESPOSITO, Commento all’art. 1 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, Cedam, 1954, pp. 10ss.; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., pp. 149ss.; V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana, in ID., Stato, popolo, governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, Giuffrè, 1985, 114ss. (“popolo e corpo elettorale non possono mai coincidere, neanche nei sistemi democraticamente più larghi”). Analogamente, più di recente, G. BERTI, Manuale di interpretazione costituzionale, cit., 58-59, che rilegge l’art. 2 come svolgimento dell’art. 1, secondo un principio di libertà personale che si fa <<politica>> “in quanto la sovranità popolare deve attuarsi su di un impianto di libertà individuali e sociali, deve essere lo specchio di queste libertà nel loro collegamento necessario, nel tessuto continuo che esse intrecciano”. 30 G. BERTI, Commento art. 5, in Commentario della Costituzione (a cura di G. Branca), Bologna, Roma, 1975, p. 288. 31 F. FICHERA, Spunti tematici intorno al nesso tra principi di eguaglianza e di partecipazione di cui all’art. 3, 2° comma, della Costituzione, in AA.VV., Strutture di potere, democrazia e partecipazione, ESI, Napoli, 1974, pp. 38 e 50. 32 Parla di Ventilbegriff, ossia di concetto-valvola, V. ATRIPALDI, Il concetto di partecipazione nella dinamica della relazione Stato-società, in Scritti in onore di M.S. GIANNINI, vol. III, Milano, Giuffrè, 1988, pp. 79ss. 33 L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, II – Le libertà civili e politiche, Firenze, Vallecchi, 1969, 15. 34 Così, ad esempio, P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione e il nuovo concetto di democrazia partecipativa, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, cit., 520; A. PIZZORUSSO. Democrazia partecipativa e democrazia parlamentare, in AA.VV., Studi in onore di Antonio Amorth, II, Milano, Giuffrè, 1982, p. 518, che sottolinea la strumentalità della democrazia partecipativa alla trasformazione dello Stato liberale in Stato sociale; P. BARILE, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, Il Mulino, 1984, p. 94. 7 garantito dal diritto elettorale attivo”, secondo una dinamica di tipo <<integrativopartecipativa>> che colloca il concorso dei partiti politici in posizione strumentale rispetto al concorso dei cittadini35: ripensate nel contesto attuale, queste autorevoli considerazioni inducono a rileggere il diritto di associazione partitica come uno degli strumenti della democrazia partecipativa, dovendosi – in caso contrario- ammettere la sostanziale eluzione del testo costituzionale36. La rilettura dell’art. 49 (ma anche dell’art. 39) potrebbe avere ricadute interessanti sulla riflessione concernente l’identificazione e le garanzie dei soggetti della partecipazione: su questo punto si rinvia al saggio di D. DONATI. Ebbene, recuperare la consapevolezza storica della funzione normativa del concetto di democrazia partecipativa consente di reinquadrare il progetto istituzionale di integrale sviluppo della persona nei termini di progetto emancipante: un progetto che richiami una democrazia non soltanto egalitaria ed inclusiva ma anche abilitante, attraverso politiche pubbliche finalizzate allo sviluppo delle capacità oltre che alla tutela dei diritti, alla creazione di concrete opportunità oltre che alla mera protezione di astratte possibilità37. In questa prospettiva, il modello evocato dalla democrazia partecipativa non è quello della delega del potere né quello dell’esercizio esclusivo dello stesso bensì un modello basato sulla collaborazione; l’obiettivo non è la rivendicazione del potere bensì l’interlocuzione stabile fra soggetti pubblici e società civile. Nella c.d. democrazia partecipativa può ravvisarsi la dimensione dinamica della partecipazione: se partecipazione è la parola che definisce l’idea, processo partecipativo è la locuzione che la storicizza in funzione dei suoi fini ed in connessione con l’azione di governo, che limita e condivide nello stesso tempo alla luce delle ragioni del costituzionalismo38. Era del resto questo il senso più profondo del mutamento voluto dal Costituente rispetto all’impostazione liberale: passare da una partecipazione relegata in atti episodici ai confini dei processi decisionali (voto, libertà civili) ad una partecipazione strutturale alle dinamiche di esercizio del potere; da una possibilità astratta di partecipazione riferita a singoli atti nella prospettiva delle libertà negative, già tutelate altrove nel testo costituzionale, a processi partecipativi in cui l’interlocuzione col potere è permanente e le cui forme devono essere continuamente adeguate sulla base dell’esperienza storica. Vi è dunque, certamente, una dimensione oggettiva della partecipazione, relativa ai profili organizzativi e procedurali del suo essere metodo di governo. Ma la richiesta di effettività posta dall’art. 3 Cost. segnala che v’è qualcosa di più, ossia una dimensione soggettiva nella quale il principio si fa diritto, articolandosi in pretese e situazioni soggettive variegate, e in strumenti di garanzia che a queste devono essere commisurati. Il principio oggettivo sottostante il concetto di democrazia partecipativa si riempie così di contenuto, assume il cuore pulsante delle situazioni giuridiche soggettive: esso individua un peculiare tipo di struttura politica, chiamato a fornire l’impalcatura sociale dei diritti individuali attraverso la promozione e la garanzia di comportamenti che, pur non 35 V. CRISAFULLI, I partiti nella Costituzione, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, cit., 116ss. e 133. Ripensare la figura del partito politico nell’ambito degli strumenti di democrazia partecipativa può aprire prospettive interessanti alla riflessione sulla partecipazione come metodo di governo. Del resto è noto come i modelli della democrazia partecipativa e della governance stiano innovando profondamente gli approcci tradizionali dell’analisi della politica: v. per tutti R. SEGATORI, Governance e politicità, in ID. (a cura di), Mutamenti della politica nell’Italia contemporanea – II. Governance, democrazia deliberativa e partecipazione politica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2007, 13ss. 36 Non esita a parlare di “violazione” dell’art. 49 Cost. N. IRTI, Tramonto della sovranità e diffusione del potere, in Dir. Soc., n. 3-4, 2009, 470. 37 Sulla prospettiva tendente a valorizzare il concetto di <<capacità>>, quale chiave di rilettura dei principi costituzionali fondamentali che concentri l’attenzione sulle opportunità e sull’abilitazione (empowerment), v. le belle pagine di M.C. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Bologna, Il Mulino, 2002. 38 R. DICKMANN, Democrazia rappresentativa e costituzionalismo per una Costituzione universale dei diritti e delle libertà, in Dem. dir., n. 4/2008, p. 633. 8 traducendosi in diritti politici stricto sensu, consentono alla persona di assumere un ruolo attivo e responsabile nella società. 3. La complessità delle pretese partecipative nel quadro delle categorie tradizionali dei diritti: nuovi <<diritti sociali di partecipazione>>? Non si può negare che la traduzione delle pretese partecipative in una piattaforma di posizioni giuridiche soggettive dai contorni sufficientemente nitidi sia operazione complessa39. Sarebbe tuttavia semplicistico ravvisare un ostacolo nel fatto che la Costituzione non abbia espressamente individuato i modi e le forme della partecipazione: piuttosto che frutto di <<timidezza>>, come pure taluno ha sostenuto40, ciò sembra piuttosto derivare dalla peculiare natura del principio sottostante e dalla sua intima connessione con le situazioni di fatto cui si riferisce il secondo comma dell’art. 3. Ogni tentativo di astratta individuazione di modi e strumenti avrebbe rischiato di tradursi in sterile schematismo ideologico, meglio rispondendo alle esigenze della democrazia sostanziale il fatto che la partecipazione riceva i propri contenuti “dai principi di cui all’art. 3, 2° comma, nel rilievo che tali principi danno ai fatti determinativi delle disuguaglianze e della carenza di partecipazione”41. Fra i primi e più autorevoli commentatori della Carta costituzionale non si è esitato a parlare di un diritto di partecipazione quale diritto individuale e inviolabile42: un’impostazione che aveva il pregio di rimarcare il rilievo della partecipazione come forma di esercizio della sovranità e garanzia delle libertà di cui all’art. 2 Cost., ma che faceva riferimento ad una figura giuridica unitaria che appare oggi difficilmente coniugabile con la varietà e la diversa intensità delle situazioni partecipative. Di diritti di partecipazione si è parlato più spesso nell’ambito dei diritti politici, riconducendo la partecipazione di cui all’art. 3, comma 2, alle libertà politiche classiche (artt. 48, 49) e agli istituti di democrazia diretta: in questa accezione la denominazione “diritti di partecipazione” assume una funzione essenzialmente riassuntiva di posizioni soggettive garantite in altre parti della Costituzione; inoltre essa non tiene conto del fatto che l’art. 3, comma 2, parla di partecipazione non soltanto politica bensì anche economica e sociale. Di maggiore interesse appaiono le letture di chi ha esplorato piuttosto le connessioni fra partecipazione ed eguaglianza sostanziale, e dunque fra partecipazione e diritti sociali43. Pur mantenendo ferma la distinzione teorica fra diritti sociali e diritti partecipativi, individuata nel fatto che i primi pongono il cittadino in posizione di alterità e non di identificazione rispetto allo Stato, tuttavia tali impostazioni finiscono per ammettere che l’effettiva realizzazione dei diritti di partecipazione presuppone un sistema di interventi positivi, così avvicinando le due categorie ed evidenziandone la forte analogia strutturale. 39 Questo paragrafo riprende talune delle riflessioni compiute, con maggiore ricchezza di argomentazioni, nel saggio Stato costituzionale, democrazia pluralista e partecipazione: quali diritti?, in AA.VV., Scritti in onore di Enzo Cheli, Bologna, Il Mulino, in corso di pubblicazione. 40 Così L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea costituente, cit., p. 15. 41 F. FICHERA, Spunti, cit., pp. 50-51. Analogamente V. ATRIPALDI, Contributo, cit., p. 25. 42 V. CRISAFULLI, La sovranità popolare, cit., p. 122; C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 150. 43 V. ad esempio P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione, cit., pp. 417ss., che riconduce la democrazia partecipativa alla pluridimensionalità della persona e all’individuo uti socius, quale titolare dei diritti sociali, e la democrazia rappresentativa alla dimensione individuale della persona; e L. BASSO, Per uno sviluppo democratico nell’ordinamento costituzionale italiano, cit., p. 18, che considera i diritti sociali come “necessario supporto dei diritti di partecipazione paritaria” e questi ultimi, a loro volta, come “cerniera” fra i diritti di libertà e i diritti sociali. Un accostamento fra partecipazione e diritti sociali è stato operato, più di recente, da D. BIFULCO, L’inviolabilità dei diritti sociali, Napoli, Novene, 2003, in part. pp. 10ss. e 140ss.; e con maggior decisione da I. PAOLA, La partecipazione, in A. CROSETTI – F. FRACCHIA (a cura di), Procedimento amministrativo e partecipazione, Milano, Giuffrè, 2002, 238. 9 Insomma, se per un verso le evidenti ricadute politiche della partecipazione sospingono più spesso la riflessione giuridica verso l’area delle libertà politiche, per altro verso la consapevolezza della sua dipendenza dalla predisposizione di adeguate condizioni materiali non può impedirne lo scivolamento verso la categoria dei diritti sociali. I c.d. diritti di partecipazione condividono del resto con i diritti sociali un elemento strutturale che appare decisivo: a differenza di quanto può dirsi per i diritti di libertà, l’effettività non è qui condizione “ulteriore di un diritto che già di per sé può esistere giuridicamente, ma è condizione di esistenza stessa del diritto”44. Ad esempio, se ciascuno può considerarsi astrattamente titolare del diritto di voto e della libertà di associarsi in partiti politici, non potrebbe parlarsi di un diritto ad essere consultati ove non esistessero specifiche regole in proposito che stabilissero obblighi, strumenti, garanzie. Ma se si riconosce che la categoria dei diritti sociali è servente rispetto a quella dei diritti di partecipazione, si dovrebbe giungere ad ammettere che quest’ultima espressione stia in realtà ad indicare una gamma di pretese di vario contenuto e intensità, alcune configurabili come diritti soggettivi (diritto di voto, diritto di associazione partitica) ed altre come diritti sociali in quanto legate ad interventi positivi da parte delle istituzioni pubbliche. L’espressione <<diritti di partecipazione>>, pur conservando un’importanza innegabile sul piano dei principi e dei valori costituzionali evocati, assume allora una portata più simbolica che esplicativa, in quanto riferita a situazioni soggettive cui non sembra potersi riconoscere autonomia strutturale rispetto ai diritti di libertà, ai diritti politici e ai diritti sociali. Tale espressione può conservare una propria utilità a condizione che si superi l’equivoco che essa rischia di ingenerare tra fine e mezzo: una cosa, infatti, è la evidenziazione e valorizzazione di un sistema di posizioni giuridiche soggettive volte a consentire la partecipazione quale forma plurima di esercizio della sovranità; altra cosa sono le tecniche di protezione delle pretese connesse alle singole forme che la partecipazione può assumere, le quali non possono che attingere allo strumentario delle categorie tradizionali dei diritti. La compresenza di pretese di varia natura e intensità all’interno delle situazioni soggettive aventi ad oggetto la partecipazione non deve stupire: tale articolazione riflette le sfaccettature delle dinamiche di interlocuzione con il potere, alle quali deve corrispondere una varietà di forme istituzionali di realizzazione delle relative pretese. E’ del resto incontestabile e ormai risalente l’osservazione della peculiare triangolazione esistente fra diritto civile, diritto politico e diritto sociale: da un lato, per il rilievo che talune libertà di fatto assumono rispetto all’esplicazione di altre 45; dall’altro, e soprattutto, per il progressivo sbiadimento dei confini tradizionalmente assunti fra libertà negative e libertà positive, data la crescente necessità di interventi dello Stato per rendere effettivo anche il godimento di diritti civili. Si pensi alla giurisprudenza costituzionale sul principio del pluralismo informativo: dal diritto individuale di libera manifestazione del pensiero di cui all’art. 21 la Corte ha dapprima enucleato un profilo passivo qualificato come “interesse generale all’informazione pluralista”, per poi riconoscere un vero e proprio diritto sociale fondamentale, il cui soddisfacimento richiede l’intervento del legislatore per apprestare un sistema di regole che ne garantisca l’effettività. Lo schema del diritto sociale, funzionale alla piena capacitazione della persona (quella consentita dalla circolazione di una informazione plurale), diviene il più potente strumento di difesa del diritto individuale alla libera espressione, a sua volta presupposto di un esercizio consapevole ed efficace dei diritti 44 Così, a proposito dei diritti sociali, V. ONIDA, Eguaglianza e diritti sociali, in AA.VV., Corte costituzionale e principio di eguaglianza, Padova, Cedam, 2002, pp. 104. 45 V. per tutti il pensiero di V. CRISAFULLI sulle c.d. <<libertà-ponte>>, in La sovranità popolare nella Costituzione italiana, cit., pp. 114ss. e 128. 10 politici: un percorso circolare in cui il diritto sociale, da approdo evolutivo, diviene garanzia e presupposto di diritti civili e politici. Nei diritti di partecipazione dovrebbe ravvisarsi il punto di tenuta dell’intero sistema dei diritti sociali, la condizione e il punto di arrivo degli stessi: ciò appare tanto più vero ove si ponga mente al fatto che la partecipazione ai processi decisionali, fornendo al decisore informazioni sui bisogni dei destinatari, può contribuire a sua volta a migliorare la qualità delle politiche pubbliche, e dunque delle prestazioni previste a tutela dei singoli diritti sociali. Tutto ciò dovrebbe portare a riconoscere l’esistenza di un diritto sociale fondamentale avente ad oggetto la realizzazione di processi decisionali inclusivi, ossia l’apprestamento di strumenti e garanzie volti a consentire e promuovere il coinvolgimento dei soggetti privati nell’esercizio delle funzioni pubbliche; e il punto nodale della distinzione fra diritti partecipativi classici (democrazia rappresentativa) e diritti sociali di partecipazione (democrazia partecipativa) dovrebbe ravvisarsi nell’obbligo di intervento positivo che i secondi postulano in virtù del loro collegamento con l’art. 3, comma 2, Cost.46. Peraltro, il carattere aperto della formula costituzionale, che attribuisce ai poteri pubblici un’ampia discrezionalità nelle scelte di politica sociale, si riverbera sui diritti di partecipazione nel senso di condizionarne l’inveramento all’intervento del legislatore. Nel riconoscimento del carattere condizionato di tali diritti risiede anzi il quid novi del concetto di democrazia partecipativa. Negare la necessità dell’intervento positivo dello Stato, sostenendo che nulla vieta ai singoli di attivarsi, significherebbe infatti rinnegare il collegamento dei diritti in questione con l’eguaglianza sostanziale, relegando di fatto la partecipazione su terreni esterni al processo decisionale (contestazione, negoziazione). Il modello delle libertà negative, sebbene apparentemente più garantista in quanto fonte di diritti soggettivi perfetti e incondizionati, si rivela qui insufficiente e inefficace, in quanto finisce per scaricare sul cittadino l’effettività di un processo di democratizzazione delle dinamiche decisionali di cui soltanto le istituzioni possono tenere le fila e sostenere le responsabilità. Come si sa, il mito della libera iniziativa è illusorio quando poggia su strumenti inadeguati: si pensi alle vicende, sotto questo profilo analoghe, della libertà di informazione. Ciò che può e deve ripensarsi è piuttosto il parametro del condizionamento, che non pare possa ravvisarsi nelle risorse di carattere finanziario. Una tale impostazione, che risente dell’originaria configurazione dei diritti sociali come strumenti di liberazione da stati di bisogno economico ma che gran parte della dottrina considera ormai superata, appare tanto più fuorviante con riferimento ai diritti sociali di partecipazione, i quali richiedono un ventaglio di interventi più variegato: una politica redistributiva, si, ma in senso lato, riferita non tanto al reddito quanto alle chances, alle capacità, alle informazioni; politiche abilitanti volte più alla creazione di opportunità che alla rimozione di ostacoli stricto sensu. Del resto, se è vero che nell’art. 3, comma 2, Cost. la liberazione dal bisogno è funzionale allo sviluppo della persona e alla partecipazione di questa alla vita politica, economica e sociale del Paese, sarebbe contraddittorio imporre allo Stato di perseguire quell’obiettivo in via soltanto indiretta (attraverso diritti sociali a prestazione) e non anche immediata (attraverso diritti sociali di partecipazione). 4. Non solo diritti: la rilevanza dei principi di solidarietà e sussidiarietà 46 Analogamente, nel senso che è l’obbligo di risultato a qualificare la struttura dei diritti sociali nel nostro sistema costituzionale, v. le riflessioni di G. AZZARITI, Intervento alla Tavola Rotonda “Quali regole per la partecipazione?”, cit. (ora in Democrazia partecipativa: cultura giuridica e dinamiche istituzionali, in www.costituzionalismo.it). 11 Vi è un altro percorso che converge con quello appena visto nel condurre le situazioni partecipative verso la categoria dei diritti sociali, e che si snoda lungo la direttrice dei principi di solidarietà e sussidiarietà. Anche il principio solidarista percorre –come è noto- l’intero asse degli artt. 1, 2 e 3 Cost. Il crescendo di socialità e interazione che è possibile ravvisare in tali articoli, ove da situazioni di carattere più strettamente individuale (diritto-dovere del lavoro e di voto) si passa a situazioni che coinvolgono la collettività (doveri inderogabili di solidarietà) ed infine l’intero Paese, sembra dare ragione a chi ha ravvisato in Costituzione un “concetto di libertà finalizzata”47: nelle intenzioni del Costituente la formula inizialmente adottata, che come si è ricordato metteva in correlazione libertà, partecipazione e solidarietà sociale, doveva “parlare non soltanto allo Stato per limitarne l’autonomia circa i diritti della persona, ma anche alla persona per orientare la sua libertà e limitarla rispetto ai diritti della persona”48. La formulazione degli artt. 2 e 3, comma 2, Cost. rappresenta il più esplicito riconoscimento del fatto che non soltanto il garantismo classico non è più sufficiente, i diritti di libertà necessitando dell’impalcatura dei diritti sociali, ma che entrambe le categorie di diritti non possono a loro volta inquadrarsi al di fuori del principio di solidarietà, quale conseguenza che deriva sul piano sociale dallo sviluppo pluridimensionale della persona considerata nella ricchezza delle sua manifestazioni e delle sue interazioni49. Non solo, ma la coincidenza dei piani (politico, economico e sociale) cui si riferiscono tanto i doveri inderogabili di solidarietà quanto la partecipazione porta a ravvisare un collegamento fra il principio di solidarietà e quello personalistico, tale da specificare il primo “in termini di integrazione della persona nella vita dello Stato e della comunità sociale”; e il cittadino, lungi dal ridursi a mero destinatario dei vantaggi derivanti dall’astensione o dall’attivarsi dei pubblici poteri, assurge a “centro operante di questo processo di integrazione”50. Così come le figure soggettive di cui agli artt. 4, comma 2, e 49 Cost.51, anche le pretese partecipative non possono essere disgiunte da un riferimento a principi di collaborazione e solidarietà; ma trattandosi, in questo caso, di comportamenti che non sono nella piena disponibilità dei cittadini, dal momento che rimandano a peculiari dinamiche dei processi decisionali pubblici, non può che richiamarsi lo strumentario giuridico dei diritti sociali affinché siano predisposte le condizioni materiali che rendano possibili quei comportamenti. E’ stato osservato che il richiamo al principio di solidarietà rischierebbe di appannare il collegamento dei diritti sociali con il principio di eguaglianza, dal momento che “le atmosfere pervase dal principio di solidarietà sono più favorevoli al riconoscimento di doveri in capo a terzi piuttosto che di diritti in favore degli interessati”, di vincoli morali piuttosto che giuridici52. Eppure, pur condividendosi quella “ansia da diritti” che ha portato 47 V. ATRIPALDI, Contributo, cit., p. 13. Sul criterio di <<socialità progressiva>> assunto dal modello costituzionale di democrazia, v. E. CHELI, La riforma mancata. Tradizione e innovazione nella Costituzione italiana, Bologna, Il Mulino, 2000, p. 25. 48 On. La Pira, in A.C., Commissione per la Costituzione, prima sottocommissione, 165ss. 49 P.L. ZAMPETTI, L’art. 3 della Costituzione, cit., p. 517. 50 G.M. LOMBARDI, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, Giuffrè, 1967, pp. 51ss. In senso analogo N. OCCHIOCUPO, Liberazione e promozione umana nella Costituzione, Milano, Giuffrè, 1988, 78, che ravvisa nel principio solidaristico accolto in Costituzione un “principio giuridico fondamentale cui deve conformarsi l’azione di singoli e di gruppi, di enti pubblici e privati, di forze politiche, sociali, economiche”. 51 “Il voto… si configura come strumento di propulsione e di equilibrio per la vita nazionale, mediando così il passaggio della solidarietà politica dal momento negativo della tolleranza a quello positivo della integrazione”: G.M. LOMBARDI, Contributo, cit., p. 80. 52 M. LUCIANI, Sui diritti sociali, in R. ROMBOLI (a cura di), La tutela dei diritti fondamentali davanti alle Corti costituzionali, Torino, Giappichelli, 1994, p. 103. 12 storicamente a “mettersi dalla parte della libertà contro il potere”53, quella stessa impostazione riconosce che l’idea di solidarietà porta con sé quelle di comunità e di interazione fra gli individui, e che la funzione specifica del relativo principio è quella di produrre e legittimare doveri che rendano funzionanti “i meccanismi di integrazione sociale”: laddove appare evidente come proprio in ciò risieda l’essenza più profonda di quelli che abbiamo qui definito diritti sociali di partecipazione. In questa prospettiva, non possono non scorgersi le implicazioni del rapporto che lega il principio di solidarietà con un’altra categoria sulla quale il Costituente ha voluto dare indicazioni precise, ovvero quella della debolezza: sono evidenti le positive ricadute, in termini di integrazione e di estensione della cittadinanza reale, che le politiche partecipative possono conseguire rispetto a categorie a forte rischio di esclusione (come gli stranieri) e alle complesse politiche di governo della diversità. Riemerge qui la dimensione morale e democratizzante cui il concetto di democrazia partecipativa era legato nel contesto originario (in particolare in America Latina), in quanto orientato essenzialmente verso obiettivi di giustizia sociale54: se riguardata nella più ampia prospettiva della diversità quale emergente dall’impianto della Costituzione italiana, ancorata a condizioni non soltanto economiche ma anche personali e sociali, quella dimensione morale ben può essere declinata verso la categoria dei soggetti non soltanto <<poveri>> ma più in generale <<deboli>>, superando il modello uniformante –pur nel pluralismo- della democrazia rappresentativa e aspirando alla “costruzione dell’uguaglianza nella diversità”55. Non solo, ma è ricco di implicazioni il fatto che la portata normativa del principio solidaristico abbia trovato il proprio sviluppo nel principio di sussidiarietà orizzontale di cui al nuovo art. 118 Cost. Come è stato osservato, “dentro la sussidiarietà orizzontale s’è andata ad annidare la più esigente e irriducibile delle spinte partecipative”56. La collaborazione dei privati alla realizzazione del bene comune, infatti, diviene qui il punto di approdo di un’evoluzione virtuosa della partecipazione collaborativa, in contesti nei quali la capacitazione, le virtù civiche e l’interlocuzione con i poteri pubblici si fanno così elevate da giungere a portare la collaborazione dal piano dei processi decisionali a quello della loro attuazione concreta. Sebbene si tratti di principi concettualmente diversi, partecipazione e sussidiarietà costituiscono un continuum, ponendosi a pieno titolo come strumenti di un metodo di governo fondato sulla costruzione condivisa della democrazia57. 53 V. la lettera di Norberto Bobbio ad A. Trombadori, citata da F. FRACCHIA, Sulla configurazione giuridica unitaria dell’ambiente: art. 2 Cost. e doveri di solidarietà ambientale, in Dir. econ., n. 2/2002, p. 258. 54 Sulla dimensione “democratizzante”, v. U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa e processi di democratizzazione, cit., 3, il quale sostiene che bisognerebbe sostituire il concetto statico della democrazia con quello dinamico di democratizzazione, in quanto questo riconosce l’incompiutezza della prima e si sforza per il suo continuo superamento. 55 U. ALLEGRETTI, op. ult. cit., 4, nota 11; L. BOBBIO, Dilemmi della democrazia partecipativa, in Dem. dir., n. 4/2006, 15, per il quale la partecipazione dei soggetti più deboli è “la scommessa fondamentale della democrazia partecipativa”. Per alcune considerazioni sulla partecipazione dei minori, ma estensibili nel loro impianto teorico alle altre categorie di soggetti deboli, sia consentito rinviare ad A. VALASTRO, Minori e partecipazione: una lettura emancipante dei principi di eguaglianza e di sovranità popolare, in G. BRUNELLI – A. PUGIOTTO – P. VERONESI (a cura di), Scritti in onore di Lorenza Carlassare. cit., 2105ss. Peraltro, sul “fragoroso silenzio” che discende dall’assenza di riferimenti alla giustizia sociale e alla disuguaglianza sociale nelle motivazioni delle pratiche partecipative in Italia e in Europea, v. G. A LLEGRETTI, Giustizia sociale, inclusività e altre sfide aperte per il futuro dei processi partecipativi europei, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 383ss. Non v’è dubbio che, in Italia, gli scopi cui si fa più sovente riferimento nell’ambito delle pratiche partecipative siano quello di carattere conoscitivo (riduzione dell’asimmetria del decisore) e quello legittimante (acquisizione di consenso e dunque di legittimazione sostanziale da parte della politica), a discapito di funzioni redistributive e di giustizia sociale, di sostenibilità ambientale, di controllo. 56 G. COTTURRI, Novità e portata progressiva della sussidiarietà orizzontale nella Costituzione italiana, in www.astridonline.it, 3, e in Gli argomenti umani. Sinistra e innovazione, Roma, 2003, n. 9. 57 Si potrebbe anzi sostenere che la partecipazione costituisca il fondamento stesso del nuovo metodo di governo sussidiario, laddove il principio di sussidiarietà venga inteso non più come criterio di collocazione delle competenze bensì come parametro di migliore esercizio della funzione: per una rilettura in questo senso v. A. STERPA, Il principio di sussidiarietà nel diritto comunitario e nella Costituzione, in www.federalismi.it, n. 15/2010. Sul rapporto fra partecipazione e sussidiarietà v. 13 Il quid pluris di eticità che il principio solidaristico indubbiamente imprime alla giuridicità allora, forse, non guasta alla sofferente tematica dei diritti di partecipazione; anzi, tale principio può offrire lo snodo mancante di un cerchio argomentativo e applicativo che può così chiudersi, recuperando il bagaglio valoriale cui aveva attinto la voluntas storica del Costituente e offrendo indicazioni non contingenti né strumentalizzabili per una teoria generale della partecipazione, in un quadro di “progressiva accentuazione del senso di responsabilità dell’individuo nei confronti della comunità politica e sociale”58. E che la richiesta di canali di esercizio delle virtù civiche e della responsabilità sia tutt’altro che recessiva lo dimostrano i sempre più diffusi fenomeni di cura collettiva dei beni comuni, i quali danno vita ad interessanti forme di partecipazione sussidiaria59. 5. Una prospettiva ulteriore e convergente: il federalismo cooperativo come metodo di governo partecipato Il percorso argomentativo appena proposto, fondato sulla relazione tra partecipazione e solidarietà, risulta avvalorato da quella parte del dibattito sul federalismo che, in ossequio all’etimologia del termine foedus (patto, alleanza), ne evidenzia le implicazioni in termini di organizzazione del rapporto tra governanti e governati e dunque di forma di stato, prima ancora che di forma di governo. La rilettura del concetto di federalismo alla luce delle riflessioni originarie, che lasciavano sullo sfondo la dimensione prettamente territoriale di distribuzione del potere e indagavano piuttosto le interconnessioni e i rapporti reticolari fra i diversi soggetti dell’ordinamento coinvolti nei processi decisionali, offre tuttora chiarimenti significativi in ordine ai concetti che ruotano attorno a quello di federalismo e ai nessi che li legano: autonomia, partecipazione, coordinamento, collaborazione, cittadinanza, sovranità, ecc. Ravvisare l’essenza del federalismo non “in un particolare insieme delle istituzioni bensì nell’istituzionalizzazione di relazioni particolari fra i partecipanti alla vita politica”60 significa infatti configurare la forma di stato secondo un modello di tipo inclusivo e collaborativo: “il conglomerato dei concetti del federalismo rimane vitale in ragione della sua capacità di porsi sui territori di frontiera più remoti del ‘politico’ e di superarlo, oltrepassando al contempo anche il suo monopolio e lasciando emergere le altre dimensioni della convivenza, in un’epoca nella quale individui e gruppi avvertono come un peso i legami imposti dalla poderosa macchina egualitaria e omogeneizzante dello Stato sovrano”61. Ma è noto come i risvolti più recenti del dibattito federalista abbiano trascurato le implicazioni di questa più ampia prospettiva, per appiattirsi sulla riduttiva quanto sterile ricerca di mere formule di articolazione territoriale del potere. La stessa riforma costituzionale del 2001, da molti impropriamente aggettivata in senso federale, è l’espressione di un atteggiamento politico vago e approssimato che non ha saputo cogliere le connessioni più profonde tra le ragioni del federalismo e quelle della partecipazione: al contrario, la miopia di anche G. LOMBARDI – L. ANTONINI, Principio di sussidiarietà e democrazia sostanziale: profili costituzionali della libertà di scelta, in Dir. soc., n. 2, 2003, 155ss. 58 G. LOMBARDI, Contributo, cit., p. 467. 59 Si pensi, fra agli altri, al c.d. <<guerrilla gardening>> (giardinaggio libero d’assalto), che indica una forma di azione non violenta mediante la quale gruppi di persone si prendono cura di spazi incolti o abbandonati (soprattutto nelle città), al fine di farvi crescere piante, fiori o colture: la partecipazione sussidiaria segue qui le forme di una protesta attiva e costruttiva attraverso la quale, anziché ricercare la collaborazione con amministrazioni spesso silenti o riottose, ci si assume direttamente la responsabilità della cura dei beni comuni. 60 D. ELAZAR, Exploring Federalism, University of Alabama Press, 1987, p.11-12. 61 L.M. BASSANI – W. STEWART – A. VITALE, I concetti del federalismo, Milano, Giuffrè, 1995, 17, cui si rinvia per una articolata analisi delle accezioni del federalismo, con particolare riferimento al pensiero americano. Più di recente, sull’universo concettuale del federalismo, R.A. MACDONALD, Federalismo caleidoscopico, in Soc. dir., n. 2/2003, pp. 47ss. 14 quell’atteggiamento ha realizzato un federalismo “a senso unico”, volto esclusivamente a moltiplicare gli spazi riservati e chiusi del ceto politico locale e non anche ad aprirsi alla società62. Ebbene, ripercorrere oggi la riflessione sul <<federalismo come metodo di governo partecipato>> consente di accedere ad una duplice chiave di lettura del nesso tra i due concetti, che come osserva M.M. PROCACCINI nel suo saggio è nel contempo genetico e di risultato: un nesso il cui recupero e approfondimento appare indispensabile per interpretare ed orientare i complessi fenomeni di trasformazione istituzionale con i quali la riflessione sulla partecipazione deve tuttora confrontarsi e misurarsi. Né sembrano giustificate le critiche mosse a un tale tipo di prospettiva da coloro che sostengono l’estraneità reciproca dei due concetti. Come dimostrano la storia istituzionale e le esperienze recenti di Paesi come l’Olanda, la Svizzera e la Svezia (ben descritte nei saggi di T. TOONEN, C. SEGOLONI FELICI, A. CHOLLET e S. CINQUE - A. SJÖLANDER-LINDQVIST), il federalismo, inteso come insieme di assetti mutuamente cooperativi, è -e non può non essereintrinsecamente legato al principio di partecipazione, inteso a sua volta quale fattore di legittimazione dello Stato63: come osserva T. Toonen nel suo saggio, da un lato il federalismo come modo di istituzionalizzare la partecipazione; dall’altro la necessità di partecipazione di una varietà di soggetti ed enti di diverso livello e complessità per far funzionare il federalismo. 6. Indicazioni per il legislatore. A) I <<macro-principi>> della democrazia partecipativa come oggetto di politica pubblica in sé: finalità, livelli essenziali, soggetti istituzionali, tecniche di normazione Riconoscere nel principio partecipativo un metodo di governo e nelle relative situazioni soggettive un nucleo di interessi configurabili (anche) come diritti sociali ha implicazioni complesse, in quanto impone una torsione di prospettiva nella riflessione sulle dinamiche di esercizio del potere e sulle garanzie di tutela dei diritti. Tuttavia il quadro costituzionale, nei termini in cui si è inteso qui rileggerlo, offre indicazioni non trascurabili: sia sul piano dei macro-principi (o macro-finalità) che devono guidare dall’esterno la costruzione di regole generali sulla democrazia partecipativa, fornendo il necessario ed omogeneo sfondo di qualunque politica in tal senso64; sia sul piano di quelle che possono invece definirsi come micro-finalità, destinate ad orientare dall’interno la costruzione delle regole partecipative sulla base degli obiettivi delle singole policies. a) La prima indicazione di macro-principio attiene al tipo di partecipazione cui occorre riferirsi allorché si parli di democrazia partecipativa, e al recupero di una omogeneità di linguaggio che ha qui un’importanza tutt’altro che formale. L’assunzione della partecipazione come metodo di governo, ossia di esercizio permanente della sovranità, imprime alla stessa una finalità di carattere eminentemente conoscitivo, in quanto volta a ridurre l’asimmetria del decisore pubblico attraverso l’utilizzo delle esperienze e competenze in possesso dei destinatari della decisione: una funzione 62 V. in particolare le osservazioni di G. AZZARITI, Intervento, cit. Ma si vedano anche esperienze più recenti, come quella della già ricordata Costituzione del Sudafrica, il cui Titolo III è espressamente dedicato al <<Governo fondato sulla cooperazione>>. 64 Parafrasando un’autorevole dottrina si può affermare che tali principi dovrebbero rivolgersi non tanto a contemplare le modalità della presenza del privato nel processo decisionale quanto a dare un valore a questa presenza, un’indicazione teleologica circa il modo di intendere e di articolare il rapporto fra l’interesse pubblico che il decisore intende perseguire e l’interesse particolare di cui è titolare il privato destinatario della regolazione: G. BERTI, Procedimento, procedura, partecipazione, in Studi in memoria di E. Guicciardi, Padova, Cedam, 1975, 797. 63 15 conoscitiva peraltro teleologicamente orientata in quanto volta ad assicurare la qualità delle decisioni alla luce di parametri di giustizia sociale e di inclusione. A differenza delle forme di partecipazione più squisitamente politica, che assumono carattere sostanzialmente negoziale, la partecipazione a scopo conoscitivo non offre risposte immediate ma aspira piuttosto a divenire componente strutturale dei processi decisionali pubblici in tutte le loro fasi, al fine di innalzarne la qualità in termini di rispondenza all’interesse generale, di trasparenza, di efficacia65. Ciò dovrebbe consentire di superare l’ambiguità concettuale (forse non sempre inconsapevole) che tuttora si riscontra, soprattutto negli atti normativi, fra strumenti contigui ma diversi, come ad esempio fra consultazione e concertazione: pur essendo innegabile la rilevante funzione che talune forme di partecipazione politica (come il referendum abrogativo e la concertazione) hanno svolto in certi momenti storici, è anche vero che quegli stessi strumenti ben poco possono offrire nella prospettiva della democrazia partecipativa, in quanto modalità che si esauriscono in fasi antecedenti o successive al processo decisionale politico, e che sono state tradizionalmente intese più in termini di <<correttivo>> della democrazia rappresentativa (e dunque di momentanea sostituzione della società civile ai propri rappresentanti) piuttosto che in termini di complementarietà e collaborazione. b) La seconda indicazione attiene al necessario riconoscimento di un obbligo di intervento del legislatore per disciplinare e assicurare le precondizioni e i livelli minimi della partecipazione. Come si è detto, se certamente non occorrono specifiche previsioni normative per attivare processi partecipativi, di regole vi è invece bisogno per assicurare la predisposizione delle condizioni materiali della partecipazione, l’incentivazione sostanziale della stessa: politiche di carattere strumentale, come quelle di carattere informativo e di <<educazione alla partecipazione>>, volte a garantire l’effettività delle situazioni giuridiche sottostanti e la loro concreta esplicabilità. Si pensi in particolare al problema dell’adeguatezza delle informazioni in possesso dei soggetti potenzialmente partecipanti (da valutare anche in relazione alle specificità della categoria di appartenenza): da sempre additata come ostacolo principale all’effettività della partecipazione, tale problematica è ancora lontana da un assetto soddisfacente; e le nuove tecnologie, che indubbiamente hanno aperto nuove potenzialità partecipative, prestano il fianco ad altrettante perplessità laddove vengano utilizzate in chiave demagogica o meramente informativa. All’approfondimento di queste tematiche sono dedicati, in particolare, i saggi di F. OZZOLA, E. BROGI, N. BIANCUCCI)66. Ebbene, dalla portata normativa del principio di partecipazione, nel suo collegamento con l’eguaglianza sostanziale, emerge una doverosità di intervento riferibile senz’altro alla Repubblica nel suo complesso, ma imputabile in primo luogo al legislatore quale principale destinatario “dell’obbligo di creare gli istituti e di emettere le regole materiali idonee a dare attuazione” ai principi costituzionali67. Non possono non tornare alla mente, a questo proposito, le considerazioni di Mortati sull’omissione legislativa68: sebbene la riflessione giuridica sia oggi afflitta dal problema 65 Le differenze strutturali sono evidenti: gli strumenti partecipativi a carattere conoscitivo devono coinvolgere un numero tendenzialmente ampio e differenziato di soggetti, da individuare di volta in volta in relazione alla complessità dell’ambito di intervento e alle diverse categorie di destinatari; e devono intervenire in più momenti del processo decisionale, attraverso modalità che assicurino un percorso circolare e progressivo delle informazioni. Le forme partecipative aventi natura politica, invece, sono finalizzate al coinvolgimento di categorie e gruppi sociali organizzati, rappresentativi di interessi <<forti>>, al fine di concordare le soluzioni regolative; e si esauriscono nel momento iniziale del processo decisionale. 66 In dottrina, sulla rilevanza delle <<precondizioni>> della partecipazione, v. da ultimo V. ANTONELLI, Cittadini si diventa: la formazione alla democrazia partecipativa, relazione alla giornata di studio “Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza”, cit., leggibile anche in www.astrid-online.it (Astrid Rassegna, n. 9/2010). 67 C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 149. 68 C. MORTATI, Appunti per uno studio sui rimedi giurisdizionali contro i comportamenti omissivi del legislatore, in Foro it., 1970, II, pp. 153ss. 16 opposto, quello dell’inflazione, non sembra infatti negabile che l’assenza di un quadro organico di principi generali sulla partecipazione costituisca una lacuna destinata ad incidere pesantemente sulle sorti della democrazia. E’ vero che trattandosi di una prospettiva di intervento positivo, peraltro di carattere organizzativo e procedurale piuttosto che economico, l’omissione è qui più difficilmente valutabile e sindacabile con gli ordinari strumenti di garanzia costituzionale; ma di certo si avverte anche il peso di un’eredità scomoda, quella dell’iniziale ascrizione dell’art. 3 Cost. alla categoria delle norme programmatiche, certamente superata sul piano teorico ma periodicamente riaffiorante in ricostruzioni ambigue69. Il carattere di doverosità dell’intervento legislativo risulta oggi ulteriormente avvalorato dalla previsione dell’art. 117, comma 2, lett. m), Cost.: nella prospettiva che qui interessa, la necessaria determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti sociali dovrebbe tradursi nell’obbligo, per il legislatore, di individuare il nucleo minimo degli interventi pubblici necessari per assicurare le condizioni materiali della partecipazione70. Innanzitutto, verso la configurazione di un tale obbligo sospinge quanto si è detto in ordine al fatto che i nuovi diritti sociali di partecipazione svolgono anche una funzione strumentale nei confronti di diritti civili o sociali tradizionali. In secondo luogo, chiarimenti in ordine al contenuto di quell’obbligo vengono dall’idea che i livelli essenziali non siano soltanto limiti da rispettare ma anche garanzie, e che –in ragione della sostanziale coincidenza del concetto di prestazione con quello di garanzia- il riferimento ai livelli essenziali non possa limitarsi a richiamare la necessità di indicazioni meramente quantitative ma auspichi più in generale la definizione della struttura organizzativa che assicura la garanzia dei diritti: ciò comporta che lo Stato non può limitarsi a definire <<quanto>>, ma deve anche stabilire almeno i principi fondamentali del <<come>>71. Intesa in questo senso, l’innovativa formulazione dell’art. 1117, comma 2, lett. m), ben può considerarsi una felice risposta a chi già da tempo autorevolmente segnalava che il concetto di partecipazione, in quanto storicamente datato e ideologicamente orientato, vale non tanto o non soltanto come rappresentazione di ciò che la partecipazione stessa costituisce, bensì come “proposta di organizzazione della partecipazione, come indicazione di quale e quanta partecipazione si voglia realizzare e di come si voglia realizzarla”72. Non è un caso che un processo ricostruttivo analogo abbia conosciuto il contiguo diritto di accesso ai documenti amministrativi, che sia la l. n. 241/1990 (come modif. dalla l. n. 15/2005) che la Corte costituzionale (sent. n. 399/2006) hanno ricondotto ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. L’accoglimento di un’accezione dei livelli essenziali in termini di garanzie anche organizzative dovrebbe fra l’altro ridimensionare le preoccupazioni connesse all’invasività 69 Si veda la discussa sentenza n. 379/2004 della Corte costituzionale sulla legittimità dello statuto dell’Emilia Romagna, la quale ha suscitato non poche perplessità nella parte in cui ha affermato che alle proclamazioni di principio contenute negli statuti regionali non può riconoscersi alcuna efficacia giuridica bensì soltanto una funzione di natura politico-culturale. 70 Un riferimento alla competenza di cui alla lett. m) sembra ravvisabile nei pareri del Consiglio di Stato in materia di AIR, ove si afferma che “la scelta del legislatore nazionale, nel senso della necessità di individuare a livello normativo i criteri generali e le procedure anche della fase della consultazione, può essere attuata nella forma di livelli qualitativi minimi”: ciò confermerebbe la lettura qui proposta circa la configurabilità della consultazione come oggetto di un diritto sociale fondamentale. In questo senso v. in particolare il parere 11 febbraio 2008 della Sez. consultiva per gli atti normativi del Cons. St.; ma anche i pareri del 27 marzo 2006 e del 21 aprile 2008, nei quali si rimarca la rilevanza dello strumento della consultazione nell’ambito dei processi decisionali di carattere normativo. Un’interessante applicazione di questa tesi è proposta nel saggio di D. DONATI, laddove si parla di <<criteri minimi associativi>> con riferimento all’individuazione di parametri che consentano di identificare i soggetti della partecipazione. 71 Così M. LUCIANI, I diritti costituzionali tra Stato e regioni (a proposito dell’art. 117, comma 2, lett. m), della Costituzione), in Pol. Dir., n. 3/2002, 352-3. Nello stesso senso E. BALBONI, Il concetto di <<livelli essenziali e uniformi>> come garanzia in materia di diritti sociali, in Le ist. del federalismo, 2001, 1103; M. CIANCAGLINI, Dall’incentivazione al consolidamento: un possibile percorso normativo della democrazia partecipativa, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 195. 72 M. NIGRO, Il nodo della partecipazione, cit., 229. 17 della competenza di cui alla lett. m): è vero che tale competenza richiama una puntualità regolatoria che va ben al di là della mera individuazione di principi, e che vi è un’innegabile interferenza con la materia dell’organizzazione; tuttavia, considerato che le realtà regionali e locali hanno di fatto già superato quelle condizioni minime attraverso previsioni ben più avanzate, l’intervento legislativo statale avrebbe il solo ma rilevante effetto di stabilizzare strumenti partecipativi già esistenti ma spesso operanti sulla base di mere prassi, e di corredarli di garanzie73. Inoltre, un’ulteriore ridimensionamento del problema dell’interferenza tra competenze deriva dalla ricordata tendenza ad adottare previsioni normative di carattere incentivante piuttosto che impositivo. c) La terza indicazione attiene alla categoria dei soggetti istituzionali tenuti a garantire le condizioni materiali di una effettiva partecipazione ai propri processi decisionali, la quale deve oggi intendersi nel senso più ampio: non più soltanto la pubblica amministrazione, rispetto alla quale il principio partecipativo è andato consolidandosi dal 1990 in poi, bensì tutti i soggetti che esercitino funzioni pubbliche, ovviamente nella misura in cui l’apporto dei privati risulti funzionale alla democratizzazione delle stesse. Nell’attuale assetto istituzionale italiano, una posizione del tutto peculiare rispetto all’implementazione della democrazia partecipativa occupano peraltro le regioni, destinate ad esercitare un ruolo strategico per molteplici ragioni (v. infra par. 8). Il cuore della democrazia partecipativa è oggi costituito dalla partecipazione alle politiche pubbliche, la cui crescente complessità e trasversalità pone problemi nuovi e delicati: come si è ricordato, le politiche non sono più riconducibili ad un unico attore74; il conseguente sviluppo della c.d. <<legislazione complessa>>, che deriva dalle grandi trasformazioni dell’economia e dei rapporti tra pubblico e privato e che si caratterizza per il fatto di comprendere interventi in una pluralità di settori di diversa natura e competenza75, rendono più complessa l’attività di individuazione dei bisogni e dei destinatari, ma proprio per tale motivo ancora più importante l’assunzione delle competenze esperienziali di questi; la partecipazione stessa può articolarsi in una molteplicità di forme e di fasi, con finalità parzialmente diverse76. Inoltre, il tema della partecipazione si intreccia qui con quello della qualità ed efficacia delle politiche pubbliche: ponendosi in un rapporto di arricchimento reciproco in quanto tematiche che condividono –non a caso- lo stesso destino di faticosa affermazione nella cultura politica e giuridica, la democrazia partecipativa potrà mettere al servizio della valutazione uno strumentario di tecniche partecipative ampiamente sperimentato, mentre la disciplina della valutazione della qualità potrà contribuire alla stabilizzazione e istituzionalizzazione delle procedure partecipative all’interno dei processi decisionali. Si pensi, per un verso, al concetto di <<valutazione integrata>> (o partecipata), quale emerge da 73 Favorevole ad un intervento legislativo che delinei i tratti fondamentali delle forme di democrazia partecipativa, pur lasciando al potere normativo degli enti territoriali la possibilità di modellarne autonomamente gli istituti, è C. CORSI, La democrazia partecipativa tra fonti statali e fonti degli enti territoriali, in www.osservatoriosullefonti.it, n. 1/2009. 74 “Fissazione dell’agenda, formulazione del programma, implementazione, valutazione: ogni momento del processo di policy vede l’intervento di una congerie di soggetti pubblici e privati – parlamento, governo, amministrazioni locali, burocrazia, magistratura, partiti, gruppi di pressione, movimenti, esperti, organizzazioni di interesse”: L. P ELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, in Partecipazione e conflitto, n. 0/2008, 93. Sull’argomento v. anche G. CAPANO, Policy legacy, in G. CAPANO – M. GIULIANI (a cura di), Dizionario di politiche pubbliche, Roma, Nis, 1996, 265, che definisce la partecipazione alle politiche pubbliche come un processo emergente, una configurazione istituzionalizzata di problemi, soluzioni, attori, partecipanti, destinatari e stili di policy. 75 V. in proposito la Nota di sintesi del Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, Camera dei Deputati – Osservatorio sulla legislazione, 30 ottobre 2009. 76 “Si può partecipare a un’azione in quanto tale; alla definizione dell’azione da intraprendere; alla definizione delle modalità attraverso le quali decidere le modalità dell’azione (titolarità, procedure, ambiti di applicazione). Chi è coinvolto nell’implementazione di una policy, ad esempio, può non aver avuto alcun ruolo nella sua formulazione, né a maggior ragione nella definizione delle modalità per giungervi (e viceversa)”: L. P ELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, cit., 95. 18 talune leggi regionali o da strumenti di pianificazione territoriale77; per altro verso, al recente decreto del Ministro delle Politiche agricole, alimentari e forestali n. 10171/2009, che ha colto l’occasione della disciplina delle consultazioni connesse alla redazione dell’AIR e della successiva VIR per introdurre una regolamentazione delle lobbies, con ciò dimostrando la concreta percorribilità di un circuito virtuoso di collegamento fra politiche partecipative e politiche valutative, ma anche –in verità- la persistente tendenza a disciplinare la consultazione secondo dinamiche sostanzialmente concertative78. Anche in questo caso indicazioni interessanti provengono dall’esame di talune esperienze straniere, come quella della legge olandese in materia socio-assistenziale (WMO), analizzata nel saggio di C. SEGOLONI FELICI. Ma la sfida connessa al recupero della portata normativa del principio di partecipazione impone di spingersi oltre, verso un ripensamento dei processi decisionali a tutto tondo, cioè anche di quelli che ineriscono a funzioni tradizionalmente considerate impermeabili alla partecipazione, come la funzione di controllo: in un’epoca in cui le questioni della pluralità di analisi e giudizi e della credibilità sociale dei controllori sono divenute assai più delicate di quanto non fossero in passato, gli interrogativi che occorre porsi sono molteplici e non possono non coinvolgere la stessa configurazione dei tradizionali organi di controllo e di garanzia (v. i saggi di F. GIGLIONI, R. CAMELI, J.J. BERAUD). d) La quarta indicazione attiene, infine, alle tecniche di normazione della partecipazione: l’esigenza di rendere quest’ultima caratteristica strutturale dei processi decisionali impone di guardare a modelli di sistema normativo che, pur variabili nella articolazione delle fonti (anche in base alle specificità dei livelli territoriali), rispettino canoni di coerenza e adeguatezza. Con ciò si intende dire che se la sede legislativa appare la più opportuna per stabilire i principi generali della partecipazione, l’indicazione dei criteri ben può essere lasciata alla fonte secondaria (o alla stessa legge nel caso in cui, come avviene in molte regioni, i principi siano inseriti nello statuto); mentre per l’individuazione degli standard appaiono senz’altro adeguate fonti o altri atti di natura tecnica (come decreti ministeriali, direttive, protocolli, linee guida, ecc.). La questione non appare di poco conto ai fini che qui interessano, come dimostrano –ad esempio- le incongruenze che caratterizzano il difficile e contraddittorio processo regolativo della consultazione a livello nazionale79. 77 Con particolare riferimento al Piano di indirizzo territoriale della Regione Toscana, v. P. BALDESCHI, Insegnamento di un caso di democrazia partecipativa nel governo del territorio: l’insediamento turistico di Castelfalfi, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 161ss. 78 Per un commento al decreto v. P.L. PETRILLO, AIR e gruppi di pressione: un binomio possibile, in Rassegna parlamentare, n. 2/2010. Più in generale, sul rilievo della partecipazione dei soggetti privati alla valutazione della qualità delle politiche pubbliche, v. M. RAVERAIRA, I privati nuovi attori di regole pubbliche migliori, in ID. (a cura di), <<Buone regole>> e democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2007, 25ss.; ID., Il coinvolgimento degli interessi privati nei processi decisionali pubblici, in www.federalismi.it, n. 24/2008. 79 Basti qui ricordare che l’obbligo di procedere a consultazione nell’attività normativa del Governo è stato introdotto a livello legislativo già a partire dalla fine degli anni ’90 (l. n. 59/1997 e l. n. 50/1999), e poi ribadito dalle leggi di semplificazione n. 229/2003 (con disposizione poi abrogata e ripresa dal Codice dell’amministrazione digitale) e n. 246/2005; e che tutte le previsioni in questione rinviavano e rinviano ad un apposito decreto del presidente del Consiglio dei Ministri per la disciplina dei criteri generali e delle procedure concernenti la consultazione. A parte le perplessità suscitate dal fatto che i rinvii legislativi non siano accompagnati da alcuna indicazione di principi e criteri di carattere generale, ciò che deve essere evidenziato è che il decreto infine approvato (n. 170/2008), evidentemente con grande ritardo, contiene la disciplina dell’AIR ma rinvia per il profilo della consultazione ad un altro decreto del presidente del Consiglio dei Ministri; non solo, ma nel prevedere le cause di possibile esenzione dall’AIR, prevede la possibilità per il Governo di non procedere a consultazione, senza bisogno di richiedere l’autorizzazione al DAGL, nei casi di procedimenti normativi particolarmente complessi. In tal modo la consultazione viene configurata, pur rinviandosene la disciplina ad atto successivo, come momento eventuale e discrezionale del processo normativo, in evidente violazione della prescrizione legislativa. La successiva d.P.C.M. del 26 febbraio 2009 non dispone molto di più del precedente decreto, ribadendo la necessità di procedere alla redazione dell’AIR attraverso un’adeguata istruttoria, <<comprensiva delle fasi di consultazione, anche telematica, delle principali categorie di soggetti pubblici e privati destinatari diretti e indiretti della proposta di regolamentazione>>. Sull’argomento v., fra gli altri, F. DI LASCIO, Gli strumenti della democrazia partecipativa nelle fonti nazionali del sistema italiano, relazione alla giornata di studio “Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza”, cit.; A. VALASTRO, L’esperienza italiana della consultazione: un percorso a zig zag in una governance problematica, in M. RAVERAIRA (a cura 19 Ciò che emerge da queste prime e pur sommarie indicazioni in ordine ad un possibile ventaglio di macro-principi è la necessità di ravvisare nella partecipazione, oltre che un carattere strumentale alla realizzazione efficiente delle politiche di settore, l’oggetto e l’obiettivo di una politica pubblica ad hoc, consistente in un sistema di interventi volti a rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono o rendono inefficace la partecipazione permanente alla vita economica, sociale e politica del Paese, ma anche a creare opportunità mediante politiche incentivanti; una politica volta ad affrontare i profili sostanziali della partecipazione (soggetti, categorie di atti, fasi dei processi decisionali, strumenti, effetti rispetto al decisore) ma anche –e finalmente- i risvolti organizzativi e procedurali della stessa, in ossequio al ricordato imperativo di coerenza tra fini e strutture. 7. (segue) I <<micro-principi>> delle politiche partecipative nell’ambito delle singole policies: profili sostanziali, organizzativi e procedurali Orientate da un quadro di principi generali che esplicitino le fondamentali implicazioni della portata normativa del principio di partecipazione, le altre indicazioni che indubbiamente emergono dalla rilettura del testo costituzionale potranno guidare il processo regolativo all’interno delle singole politiche partecipative. I profili sono molteplici, e ad essi (nemmeno a tutti) possono qui dedicarsi meri cenni: ciò che peraltro deve essere ancora una volta ribadito è che questo tipo di <<regole>> dovrà avere carattere sperimentale e flessibile, nel senso di indicare criteri anziché modalità e strumenti partecipativi predefiniti, affinché questi ultimi possano essere individuati di volta in volta in modo coerente con gli obiettivi delle singole politiche pubbliche e con le esigenze garantiste della democrazia costituzionale. A) Indicazioni fondamentali provengono innanzitutto con riferimento ai profili sostanziali della partecipazione. a1) Uno dei temi da sempre più spinosi è quello relativo ai criteri di scelta dei soggetti. Il problema di fondo che si pone è quello della inclusività, ovvero della “capacità di far partecipare in condizioni di uguaglianza tutti coloro su cui ricadono le conseguenze della decisione”80. Ma tale condizione deve intendersi come parità di accesso strettamente intesa o piuttosto come mera parità di chances? E quale ruolo sono destinati a svolgere i gruppi rappresentativi degli interessi? Quali le opportunità e i rischi rispetto all’efficace e trasparente rappresentazione degli interessi? E ancora, come superare i rischi connessi alla istituzionalizzazione delle pratiche partecipative, che se per un verso ne accrescono le garanzie per altro verso –in contesti particolari- possono alterarne le dinamiche e indebolirne l’efficacia? All’approfondimento di queste tematiche sono dedicati, in particolare, i saggi di D. DONATI e M. ZAMORA. Ancora, quali criteri devono guidare la scelta tra una partecipazione aperta a tutti ed una partecipazione organica, basata piuttosto su organismi stabili di rappresentanza degli interessi all’interno delle istituzioni? Il caso delle Consulte, e l’estrema varietà delle esperienze concrete che le caratterizza, evidenzia profili di spiccata problematicità, con giudizi talora fortemente negativi in ordine alla loro efficacia81. Un criterio per valutare l’opportunità di ricorrere a questa figura potrebbe essere proprio quello relativo alle categorie di), <<Buone>> regole e democrazia, cit., 201ss.; A. F LORI, Le consultazioni per gli atti normativi del Governo, in www.astrid-online.it; C. RAIOLA, La consultazione telematica per la semplificazione, in www.astrid-online.it: A. NATALINI – F. SARPI, L’insostenibile leggerezza dell’AIR, in Giorn. dir. amm., n. 3, 2009, 229ss. 80 M. CAMMELLI, Considerazioni minime in tema di arene deliberative, cit., 93. 81 Sull’argomento v. A. ALBANESE, Partecipazione organica e democrazia partecipativa, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 345ss. 20 di soggetti, considerandola positivamente per quelle a maggiore rischio di esclusione (come gli stranieri e i minori), rispetto alle quali la stabilità del raccordo con le istituzioni appare più importante dell’ampiezza del numero dei partecipanti e il rischio di istituzionalizzazione di interessi forti appare più basso (se non assente). Infine, il collegamento del principio di partecipazione con le categorie dell’eguaglianza sostanziale e della <<debolezza>> è destinato ad apportare ulteriori chiarimenti in ordine ai criteri di individuazione dei soggetti cui rivolgere prioritariamente le politiche partecipative: come si è già accennato, infatti, non possono trascurarsi, ed anzi dovrebbero maggiormente valorizzarsi, i significativi effetti che le politiche partecipative possono produrre in termini di integrazione e di estensione della cittadinanza reale. Con riferimento alla delicata questione degli immigrati, ad esempio, la realizzazione di politiche partecipative efficaci potrebbe in gran parte sdrammatizzare il dibattito attuale sull’estensione della cittadinanza formale, ed in particolare sulla vexata questio del diritto di voto: per i termini in cui è condotto, tale dibattito sembra mosso da una sorta di <<ossessione della rappresentanza>> che rischia di condurre all’ennesimo trionfo della democrazia rappresentativa su quella partecipativa; mentre se è vero che il possesso della cittadinanza formale non è affatto garanzia di esercizio effettivo dei diritti, come la storia ha generosamente dimostrato, i percorsi più proficui per realizzare un’<<integrazione partecipe>> sembrano piuttosto quelli della democrazia partecipativa82. a2) Per quanto riguarda le fasi nelle quali attivare processi partecipativi e la scelta delle tecniche, sono ancora criteri stringenti di adeguatezza e di efficacia che devono guidare le rispettive valutazioni: una partecipazione tardiva o che si avvalga di tecniche eccessivamente onerose o non attendibili non soltanto è inutile ma costituisce un pesante ostacolo al radicamento di una cultura della partecipazione nella società civile, oltre che uno spreco di risorse. Così, con riferimento alle fasi dovrebbero porsi quantomeno criteri di tempestività e ripetibilità, superando la tendenza a posticipare il più possibile il momento partecipativo e ad esaurirlo per lo più nella fase ex ante dei processi decisionali; mentre la scelta delle tecniche dovrebbe essere guidata da criteri relativi alla onerosità (rapporto fra costi, tempi e risultati attesi), alla attendibilità e validità dei risultati, all’utilità ed esaustività degli stessi. a3) L’altro grande ostacolo all’effettività della partecipazione è costituito dalla insoddisfacente (se non inesistente) disciplina degli esiti dei processi partecipativi. Non essendo in discussione la titolarità del potere decisionale bensì il modo di esercitarlo, la questione riguarda piuttosto la modulazione dell’influenza che i processi partecipativi sono destinati ad esercitare sul decisore. E’ evidente come nessuna politica partecipativa possa aspirare a conseguire risultati efficaci in assenza di un <<patto>> politico fra istituzioni e società civile, ossia di una cultura politica che nessuna norma giuridica può imporre83: emblematica in questo senso l’esperienza francese del débat public, che si segnala 82 Significativa, in questo senso, l’espressione utilizzata dalla l.r. Toscana n. 29/2009, laddove si parla di “integrazione partecipe dei cittadini stranieri nell’obiettivo della costruzione di una comunità plurale e coesa fondata sul contributo di persone di diversa lingua e provenienza e sul rispetto dei principio costituzionale di uguaglianza” (c.d.a.). Sulle connessioni fra cittadinanza e democrazia partecipativa, v. in particolare, D. BOLOGNINO, Le nuove frontiere della cittadinanza nel confronto tra “cittadinanza legale” e “cittadinanza sociale”: verso una riforma della legge 5 febbraio 1992, n. 91, relazione alla giornata di studio su “Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza”, cit., leggibile anche in www.astridonline.it. 83 G. PELLIZZONI, Politiche pubbliche e nuove forme di partecipazione, cit., 113, richiama opportunamente il modello della <<pattuizione>>, riprendendo gli studi di Elazar (anche qui –più sopra- richiamati) e intendendo “per patto un impegno volto al futuro, aperto a ulteriori soggetti o atti, e asimmetrico ossia privo di vincoli specifici alla reciprocazione”: dunque un modello “diverso tanto dalla reciprocità, dove l’impegno è aperto ma i vincoli sussistono, quanto dal contratto, dove l’impegno è chiuso e simmetrico (quid pro quo), e dai rapporti di dominio, dove la relazione è asimmetrica e chiusa (la grazia del sovrano, gli aiuti umanitari, la prestazione impersonale del servizio all’utente)”. 21 per il grande livello di influenza effettiva pur in presenza di una legge che esclude il vincolo della decisione (v. il saggio di J.J. BERAUD)84. E’ vero che un tale tipo di impostazione si presta facilmente alle critiche di chi vi ravvisa null’altro che una forma di diluizione della responsabilità dei veri soggetti decisionali, con il risultato di una partecipazione <<concessa in dosi omeopatiche>> (A. COLLET in questo volume). Tuttavia ciò che appare essenziale, più ancora della previsione di forme di vera e propria co-decisione (sempre pericolosamente protese verso dinamiche di tipo concertativo, e come tali non inclusive), è piuttosto l’apprestamento di garanzie per assicurare un’adeguata considerazione dei risultati della partecipazione85. Fra queste, la garanzia dell’obbligo di motivazione -prevista come si vedrà da alcune leggi regionali- sembrerebbe lo strumento più coerente con un impianto che voglia fare della democrazia rappresentativa e della democrazia partecipativa metodi di governo realmente complementari: tuttavia si tratta di soluzione ancora guardata con diffidenza rispetto a taluni tipi di atti (in particolare gli atti normativi), paventandosi il rischio di contenziosi pretestuosi su dati formali e non di merito86. Ma oltre a suscitare, a loro volta, l’interrogativo sul carattere davvero solo formale di un eventuale vizio consistente nella mancata considerazione degli esiti della partecipazione, quei timori non fanno che confermare la necessità di un quadro di regole che chiarisca gli aspetti nodali dei processi partecipativi e il loro ruolo nell’ambito dei processi decisionali. Per una riflessione sui margini e i limiti di un sindacato giurisdizionale avente ad oggetto la corretta partecipazione, si rinvia al saggio di R. CAMELI. B) Queste ultime considerazioni riconducono la tematica al suo punto d’inizio, laddove si è posto il problema dell’opportunità di una disciplina stabile della partecipazione e di una sua proceduralizzazione, quale garanzia principale di controllabilità e misurabilità della qualità dell’intero processo. Sebbene i profili organizzativi e procedurali siano generalmente meno approfonditi rispetto a quelli appena visti, notoriamente più discussi e dibattuti, attorno ad essi ruota il perno della efficacia e della effettività dei processi partecipativi: le regole concernenti questi aspetti sono anzi destinate a costituire l’impalcatura di quelle pretese partecipative che i soli criteri di carattere sostanziale non possono da soli soddisfare87. Anche su questi profili la rilettura del principio costituzionale di partecipazione nella sua portata normativa offre indicazioni univoche e tutt’altro che trascurabili: la separazione dalla politica, nel senso che i processi partecipativi dovrebbero essere condotti da soggetti indipendenti (organismi esterni o strutture interne al soggetto politico purché diverse da quelle decidenti); la formazione e la competenza professionale, nel senso che le procedure partecipative dovrebbero essere realizzate da soggetti qualificati e appositamente formati; la garanzia di controllo neutrale rispetto all’osservanza delle regole. 8. Il ruolo strategico delle regioni: linee di tendenza della legislazione regionale Nel quadro sempre più articolato degli attori istituzionali a vario titolo coinvolti dal tema della partecipazione, quello regionale sembra destinato ad assumere un ruolo strategico 84 Sul modello francese v. anche , da ultimo, M. FROMONT, Fondements de la démocratie partecipative en droit français, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 47ss.; S. CHARBONNEAU, Les expériences françaises à des différentes échelles: de l’ambivalence de la participation, ivi, 277ss. 85 In questo senso anche G.U. RESCIGNO, Intervento alla Tavola Rotonda, “Quali regole per la partecipazione?”, cit. 86 In questo senso, ad esempio, P. FAVA, La Consulta e la qualità della regolazione nella multilevel governance: i rischi e i pericoli di un’apertura incondizionata alle procedure di consultazione degli interessati e alla motivazione delle leggi, in Corr. Giur., 2005, 1532. 87 Sull’importanza dei profili organizzativi e procedurali, v. da ultimo E. D ENNINGER, Al di là delle “dichiarazioni”: la realizzazione dei diritti fondamentali mediante l’organizzazione e il procedimento, in Dem. Dir., n. 1/2009, 248ss. 22 per più di una ragione: la posizione di snodo rispetto ai livelli statale e locale; un potere statutario e legislativo che consente quella modulazione di fonti e di prescrizioni di cui si è detto a proposito dei macro-principi; uno strumentario giuridico che consente di realizzare il coordinamento e la stabilizzazione delle diffuse pratiche partecipative affermatesi a livello locale, attraverso previsioni (come quelle sugli incentivi) idonee a produrre un circolo virtuoso di evoluzione incrementante. Ma vi sono anche ragioni di carattere sostanziale legate alle peculiarità della fase istituzionale attuale. Innanzitutto, le regioni offrono oggi il termometro più sensibile di una tendenza evolutiva delle forme di governo verso modelli di tipo presidenziale, che presuppongono il rafforzamento degli esecutivi in funzione di stabilità e governabilità ma che hanno di fatto generato anche un indebolimento delle assemblee rappresentative: la riflessione che non da oggi ruota attorno al ruolo delle assemblee, fra istanze di recupero della centralità e preoccupazioni di stabilità dei governi e competitività del Paese, deve tendere anche ad un recupero dei canali di interlocuzione con la società civile, al fine di costruire un apparato di strumenti informativi e conoscitivi ulteriori e diversi rispetto a quelli tradizionalmente facenti capo all’esecutivo88. In secondo luogo, il massiccio fenomeno di redistribuzione delle politiche pubbliche a favore delle autonomie territoriali ha prodotto “lo spostamento verso il sistema dei rapporti tra i livelli territoriali di importanti poteri di indirizzo e programmazione che in passato sarebbero stati contenuti all’interno della legislazione o dell’attività di indirizzo politico Governo / Parlamento (politica sanitaria, ammortizzatori sociali, sviluppo economico, agricoltura, protezione civile, gestione dei rifiuti, energia, edilizia residenziale pubblica, servizi socioeducativi, sicurezza e immigrazione)”89: ciò ha indotto la necessità di costruire robuste procedure di interlocuzione, sia verticale che orizzontale, al fine di guidare verso le stesse finalità una estesa pluralità di attori; ma anche la necessità di strumenti di rafforzamento del raccordo assemblee/esecutivi sul terreno delle funzioni di indirizzo politico e controllo. Infine, la redazione dei nuovi statuti ha visto un forte rilancio della cultura partecipativa, manifestando una <<ansia da partecipazione>>90 che va certamente assecondata, pur con il realismo e l’attenzione che la genericità e l’imprecisione di molte disposizioni statutarie ancora impongono: raccogliere questa sfida significa dare seguito all’abbondanza dei principi statutari mediante la previsione di puntuali regole organizzative e di disciplina dei processi partecipativi, pena il rischio di disperdere ancora una volta il potenziale innovativo di quei principi riducendoli ad ennesimo manifesto ideologico. 88 Gli ostacoli che si frappongono ad una più compiuta apertura delle assemblee rappresentative verso la società civile non sembrano oggi sostanzialmente diversi da quelli individuati negli anni ’80, soprattutto con riferimento al livello nazionale, e ricondotti alla sostanziale ambiguità delle scelte politiche relative al ruolo dell’assemblea rispetto a quello dell’esecutivo. Sul dibattito di quel periodo v., fra gli altri, M. P ATRONO, Informazione (e informatica) in Parlamento, in Dir. soc., 1981, 792, ove si additava la “incapacità di scegliere” tra “una conoscenza concorrenziale con quella governativa e proprio per questo indirizzata al controllo dell’informazione ricevuta dal Governo” e “una conoscenza preordinata al recupero di una capacità del Parlamento di governare autonomamente”. V. anche ID., L’attività conoscitiva nel funzionamento delle istituzioni assembleari sub-nazionali: il caso italiano, in M. PATRONO – A. REPOSO (a cura di), L’informazione parlamentare, Cleup, Roma, 1983, 94ss., ove si sottolinea il carattere scarsamente partecipativo delle audizioni e delle indagini conoscitive; A. MANZELLA, Il Parlamento, Bologna, Il Mulino, 1991, 163, ove si ravvisa, nella perdurante resistenza dei regolamenti parlamentari ad affrontare il tema della partecipazione al procedimento legislativo, una vera e propria <<battaglia di retroguardia>> contro la contaminazione dello stesso da influenze esterne. Sul tema, più di recente, F. B ASILICA – S. SEPE, Parlamento e cittadini. La comunicazione istituzionale nei Parlamenti italiano ed europeo, Maggioli, Rimini, 2005; C. PINELLI, La crisi dei consigli regionali e i circuiti tra Stato e Regioni, in Scritti in onore di Michele Scudiero, tomo III, Napoli, 2008; F. ANGELINI, Consigli regionali e partecipazione, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 231ss. 89 Rapporto 2009 sulla legislazione tra Stato, Regioni e Unione europea, cit., 4ss. 90 La felice espressione di F. DAL CANTO, Commento art. 59, in P. CARETTI – M. CARLI – E. ROSSI (a cura di), Statuto della Regione Toscana. Commentario, cit., 303, riferita dall’Autore alle norme statutarie in tema di sussidiarietà, appare senz’altro estensibile a quelle sulla partecipazione. 23 L’intento di raccogliere quella sfida sembra in effetti progressivamente emergere, pur fra molte difficoltà e timidezze. Il panorama regionale rivela infatti una significativa ricchezza di risposte, sia sul piano normativo che su quello delle esperienze concrete, l’analisi delle quali appare di grande interesse se posta a raffronto del pressoché totale silenzio statale e alla molteplicità delle prassi locali91: in particolare, sul piano legislativo è possibile individuare interessanti linee di tendenza, pur tra slanci in avanti, posizioni di stallo e passi indietro; mentre le esperienze concrete evidenziano pratiche diffuse e virtuose di promozione della partecipazione e della cittadinanza attiva (all’analisi di queste ultime è dedicato il saggio di N. BIANCUCCI). E’ da questo livello, e dalle potenzialità che esso esprime, che occorre oggi ripartire per tentare di innescare meccanismi virtuosi di imitazione istituzionale: del resto è noto il ruolo che le regioni hanno svolto in passato rispetto ad importanti processi di riforma istituzionale, attraverso interventi legislativi pionieristici che sono divenuti il volano di processi di riforma e –prima ancora- di mutamenti di cultura politica estesisi, in seguito, al livello nazionale. I dati che emergono da un esame della legislazione regionale relativa al primo decennio dalla riforma del Titolo V della Costituzione (2001 – 2010) sono numerosi e si prestano ad essere interpretati secondo chiavi di lettura molteplici92. Limitandoci qui a richiamare talune linee di tendenza e rinviando ad altra sede l’analisi più dettagliata dei dati emersi, non v’è dubbio che il panorama legislativo regionale si presenti assai variopinto, rivelando senza veli il perdurante gioco di luci ed ombre che accompagna la vicenda della partecipazione in Italia. Innanzitutto, l’esiguo numero di leggi regionali organiche sull’argomento potrebbe indurre a considerare non raccolta, almeno sotto questo profilo, la sfida pur lanciata da molti statuti laddove espressamente rinviano al legislatore regionale la disciplina della partecipazione. E tuttavia si tratta di un falso problema, dal momento che un’efficace regolazione della democrazia partecipativa ben può essere declinata in una pluralità di interventi normativi: anzi, la disseminazione di regole sulla partecipazione nelle leggi di settore, se per un verso rinuncia a quella organicità e omogeneità che solo un intervento unitario può assicurare, per altro verso consente di costruire gli strumenti partecipativi in relazione alle specificità delle singole politiche pubbliche, con ciò sicuramente accrescendone le possibilità di efficace attuazione. In ogni caso, non v’è dubbio che l’approvazione nel 2010 di altre due leggi regionali organiche sulla partecipazione (l. Emilia-Romagna n. 3/2010 e l. Umbria n. 14/2010), che vanno ad affiancarsi alla pionieristica ed ormai nota legge della Toscana n. 69/2007, fornisce un’indicazione importante nel senso della crescente attenzione politica per il tema e soprattutto- per l’opportunità di una sua regolazione. Semmai, proprio le due nuove leggi rappresentano un esempio significativo delle persistenti oscillazioni che caratterizzano quella attenzione. Così, se la legge emiliana si caratterizza per una scelta politica in parte diversa ma 91 In realtà, va detto, il livello locale presenta una quantità sempre maggiore di eccezioni, data la crescente tendenza (soprattutto a livello comunale) a disciplinare con regolamento svariati profili della partecipazione. Nell’ambito di questa ricerca, l’analisi delle norme e delle esperienze partecipative dei livelli statale e locale è stata condotta dall’unità di Roma – LUISS (coord. prof. G.C. De Martin): i risultati di tale analisi sono stati anticipati nella giornata di studio “Democrazia partecipativa e nuove frontiere della cittadinanza”, Roma – LUISS, 6 novembre 2009 e sono attualmente in corso di pubblicazione. 92 Il monitoraggio cui si fa riferimento ha evidenziato ben 2155 leggi regionali contenenti previsioni in tema di partecipazione: queste ultime sono state rintracciate attraverso l’utilizzo di una pluralità di parole-chiave, tra cui ascolto, audizione, coinvolgimento, consultazione, dialogo, inclusione, partecipazione, sentito, udito. I risultati di questo monitoraggio, al quale qui ci si limita ad accennare, saranno oggetto di analisi più approfondita e di riferimenti normativi più puntuali nel volume finale del progetto di ricerca nazionale, curato da G. Arena (2011). Per un primissimo bilancio, oltre che alle considerazioni che seguono nel testo sia consentito rinviare anche ad A. VALASTRO, Gli strumenti e le procedure di partecipazione nella fase di attuazione degli statuti regionali, in Le Regioni, n. 1/2009, 79ss. 24 ugualmente forte rispetto al modello della legge toscana, con l’affidamento della gestione dei processi partecipativi ad una struttura interna del Consiglio regionale anziché ad un’Autorità indipendente ma con la stessa preoccupazione per la disciplina di soggetti, procedure ed incentivi93, la legge umbra appare al contrario come un’occasione mancata, se non come un vero e proprio passo indietro: non solo, infatti, essa inserisce la disciplina della consultazione nell’ambito di un testo che concerne in realtà gli istituti di democrazia diretta, con ciò inducendo la sensazione di una perdurante confusione concettuale che l’unica e fragile ragione della necessitata attuazione statutaria non pare sufficiente a fugare94; ma, ben lungi dal delineare i tratti dell’istituto con quella organicità e accuratezza di previsioni che la sede dell’attuazione statutaria avrebbe richiesto, la legge si limita ad una manciata di disarticolate e lacunose disposizioni, in alcuni casi incomprensibilmente arretrate rispetto alle buone prassi che per converso questa regione vanta, in altri casi addirittura velleitarie (come dimostra la modifica, a soli 5 mesi dall’approvazione della legge, della disposizione sulla consultazione obbligatoria)95. Venendo alle disposizioni contenute nelle leggi di settore, che rappresentano la parte di gran lunga più corposa delle norme regionali in materia di partecipazione, le chiavi di lettura adottate consentono anche in questo caso di evidenziare, pur senza pretesa di completezza, punti di forza e criticità delle attuali linee di tendenza96. Su un piano di carattere generale, un primo dato certamente significativo è il fatto che in molte leggi si parli delle pretese partecipative in termini di vero e proprio diritto (in taluni casi anche richiamando la necessità di garantirne i livelli essenziali); anche se è fin troppo scontato osservare che l’effettiva portata di questa qualificazione dipende dalla conseguente disciplina (soprattutto con riferimento alle garanzie), spesso inadeguata se non addirittura 93 La legge emiliana (“Norme per la definizione, riordino e promozione delle procedure di consultazione e partecipazione alla elaborazione delle politiche regionali e locali”) si caratterizza, al pari di quella toscana, per un impianto fortemente organico, che prende le mosse dalla precisazione dei presupposti, degli obiettivi e degli strumenti della democrazia partecipativa: cfr., in particolare, gli artt. 3-5 sui soggetti che possono richiedere l’avvio di processi partecipativi, l’art. 7 sul Nucleo tecnico di integrazione con le autonomie locali, l’art. 8 sul Tecnico di garanzia designato dal Presidente del Consiglio regionale, gli artt. 9ss. sulle forme di sostegno e i criteri di valutazione dei progetti, l’art. 17 sull’obbligo di motivazione. 94 La legge umbra (“Disciplina degli istituti di partecipazione alle funzioni delle istituzioni regionali”) intende infatti attuare l’art. 20 dello statuto, ai sensi del quale la partecipazione si attua mediante l’iniziativa legislativa, l’iniziativa referendaria, il diritto di petizione e la consultazione. Tale disposizione appare effettivamente ambigua laddove affianca strumenti fra loro eterogenei, riconducibili a categorie giuridiche diverse (democrazia diretta e democrazia partecipativa): l’attuazione statutaria avrebbe dovuto pertanto fornire l’occasione per sciogliere quell’ambiguità anziché per protrarla. In ogni caso, la scelta di adottare un unico provvedimento legislativo avrebbe potuto giustificarsi a condizione di evidenziare la diversità di natura dei primi tre strumenti rispetto al quarto e, soprattutto, di strutturare la legge in modo da dedicare a ciascun istituto la medesima attenzione e articolazione di disciplina. Ma così non è stato, come si dirà di seguito nel testo. 95 Basti considerare che, dei 74 articoli di cui si compone la legge, soltanto 5 sono dedicati alla consultazione. L’unica disposizione che appare effettivamente significativa è quella di cui all’art. 63, ai sensi del quale “La consultazione dei soggetti interessati è garantita in tutte le fasi dei procedimenti amministrativi e normativi, in modo tale che il contributo partecipativo venga assicurato sia nella fase di valutazione ex ante che nella fase di valutazione ex post del provvedimento in esame, quale controprova della efficacia e della qualità della regolazione applicata”. Per il resto, mentre appare scarna l’indicazione delle modalità della consultazione e inadeguata quella dei soggetti (art. 64), nulla si dice in ordine alle garanzie soggettive e procedurali del percorso partecipativo e a forme di sostegno regionale; mentre pressoché esplicitamente si esclude l’obbligo di motivazione (art. 66). Quanto poi all’art. 65, che prevedeva la consultazione obbligatoria per tutti gli atti all'esame delle commissioni consiliari, salvo il voto contrario della maggioranza assoluta dei membri, esso è stato modificato con delibera legislativa approvata il 30 luglio 2010, stabilendosi ora che “Le commissioni consiliari decidono di attivare la consultazione sugli atti di propria competenza con il voto favorevole della maggioranza dei componenti.(…) La consultazione è comunque disposta qualora tre componenti della commissione o un quinto dei consiglieri assegnati alla Regione ne facciano richiesta al Presidente della commissione stessa”: si è così corretto un eccesso di rigidità che strideva con la laconicità delle altre disposizioni, e che rivelava piuttosto la frettolosità della redazione di questa parte della legge (non sarà forse inutile notare che essa è stata approvata in scadenza di legislatura). 96 Un dato che qui volutamente si tralascia è quello relativo alla percentuale –rispetto al totale delle leggi esaminate- della produzione legislativa delle singole regioni: un dato che non appare particolarmente significativo, sia perché non è obiettivo di questa ricerca quello di indagare l’<<impegno>> delle singole regioni bensì quello di mettere in evidenza linee di tendenza a livello regionale; sia perché, come qualunque dato quantitativo, esso può facilmente essere contraddetto dall’analisi qualitativa delle stesse norme, laddove è evidente che l’efficacia della disciplina della partecipazione non dipende tanto dalla quantità delle regole quanto dalla qualità del loro contenuto. 25 assente. Di un certo interesse, nella prospettiva ricostruttiva che si è qui delineata, è anche l’esplicito collegamento operato in talune leggi fra il principio di partecipazione, quello di solidarietà e il concetto di capacità97. Quanto agli ambiti materiali, la maggior parte delle previsioni in tema di partecipazione si trova nei settori che vedono coinvolti diritti sociali, come assistenza, sanità, ambiente, governo del territorio: ciò conferma il progressivo consolidamento della cultura partecipativa in questi settori (si pensi alle sempre più diffuse esperienze di progettazione urbana partecipata e di audit civico in materia di sanità); ma soprattutto offre argomenti ulteriori a sostegno di quanto si è qui sostenuto in ordine alla natura di diritto sociale delle pretese partecipative e alla loro strumentalità rispetto al soddisfacimento dei diritti sociali tradizionali. Numerose sono anche le norme sulla partecipazione che si registrano nella legislazione in tema di commercio, industria e artigianato, ove si prevedono forme più o meno articolate di consultazione delle associazioni di categoria. Peraltro, le caratteristiche che assume qui la disciplina della consultazione lascia facilmente intravedere il rischio di scivolamento verso processi di carattere più propriamente concertativo: ciò evidenzia come, accanto a quello costituito dai diritti sociali, uno dei motori della partecipazione risieda tuttora nella <<forza>> di fatto di talune categorie, come dimostra anche la minore frequenza di previsioni sulla partecipazione in settori ugualmente importanti ma caratterizzati da maggiore debolezza dei soggetti interessati, come quelli relativi all’immigrazione, al volontariato e all’associazionismo, alla tutela dei consumatori, ai trasporti. Quanto ai soggetti privati, il panorama della legislazione regionale è estremamente variegato, in ragione –evidentemente- della varietà degli oggetti delle leggi esaminate. Se è vero che in molti casi persiste la tendenza a non provvedere affatto all’individuazione dei soggetti destinatari dei processi partecipativi, il legislatore limitandosi ad espressioni generiche (come <<soggetti interessati>> o <<cittadini>>) che rischiano di attenuare l’efficacia delle previsioni, tuttavia si assiste anche ad una crescente attenzione per talune categorie di soggetti e per le modalità dell’interlocuzione fra questi e i decisori: numerose disposizioni insistono sulla necessità di una maggiore inclusione dei soggetti deboli nei processi decisionali (minori, donne, stranieri, anziani, ecc.); e si fa sovente riferimento anche ai <<non residenti>>, al fine di integrare l’ormai insufficiente criterio della cittadinanza formale98. Non solo, ma nonostante le criticità e i numerosi fallimenti registrati negli anni dalla c.d. partecipazione organica, la legislazione regionale rivela la tendenza a ricercare forme di stabilizzazione dei raccordi fra decisori e società civile, attraverso l’istituzione di Consulte, Commissioni, ecc.: queste risultano sempre più numerose, sebbene entro una geometria assai variabile quanto a composizione e poteri. Sul versante dei soggetti pubblici si registra invece, tuttora, la tendenza ad affidare agli esecutivi la gestione dei processi partecipativi, con ciò alimentando i rischi di scivolamento verso forme di partecipazione di tipo concertativo; anche se sembrano in aumento le leggi che manifestano la preoccupazione di consolidare i canali di interlocuzione del Consiglio regionale con la società civile. Per quanto concerne le funzioni e attività pubbliche rispetto alle quali si prevedono forme di partecipazione, di gran lunga più numerose sono quelle di programmazione, progettazione, pianificazione: il dato appare molto significativo poiché sembra evidenziare la 97 V. ad es. la legge n. 11/2008 della regione Basilicata sul riordino territoriale degli enti locali e la legge n. 28/2009 della regione Calabria sulla cooperazione sociale. 98 In taluni casi si provvede, anzi, con legge ad hoc: cfr. ad es. la legge n. 13/2009 della regione Marche (“Disposizioni a sostegno dei diritti e dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati”), la legge n. 10/2008 della regione Lazio (“Disposizioni per la promozione e la tutela dell’esercizio dei diritti civili e sociali e la piena uguaglianza dei cittadini stranieri immigrati”), la legge n. 29/2009 della regione Toscana (“Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana”). 26 crescente consapevolezza del ruolo centrale che la partecipazione svolge nella costruzione delle politiche, rilanciando la programmazione come metodo dell’azione regionale99. Ugualmente significativo è il fatto che vada crescendo la previsione di strumenti partecipativi anche rispetto alle fasi ex post dei processi decisionali, con particolare riguardo ad attività di rilevazione, valutazione e controllo: ciò conferma quanto si è detto in ordine alla necessità di valorizzare la partecipazione anche nelle fasi di implementazione e attuazione delle politiche, ed anche rispetto a quelle funzioni che maggiormente faticano ad aprirsi alla società civile, come la funzione di controllo. Inoltre, se le previsioni di controllo partecipato risultano certamente più diffuse nel settore delle politiche sociali, con particolare riferimento alla qualità dei servizi erogati, è incoraggiante il fatto che sia in aumento anche la previsione di più ampie forme di partecipazione alla valutazione dell’attuazione delle politiche pubbliche in genere100. Quest’ultimo dato si collega a quello della crescente previsione di forme di partecipazione all’attività legislativa regionale: si tratta di previsioni non ancora numerose, ma la cui graduale diffusione è da guardare certamente con favore. Quanto agli strumenti partecipativi e alle garanzie che li assistono, è forse qui che si rinvengono i profili di maggiore criticità della legislazione esaminata: se per un verso si conferma la recessione di strumenti ormai obsoleti come quello dell’audizione, per altro verso le metodiche individuate (per lo più consultazione) ben di rado sono accompagnate dalla previsione di procedure e tanto meno di garanzie; mentre in molti casi il legislatore rinuncia anche all’individuazione degli strumenti partecipativi, limitandosi ad indicazioni generiche e di principio (ove si utilizzano più frequentemente termini come <<coinvolgimento>> e <<inclusione>>). A parte i casi in cui la legge regionale rinvia ad apposito regolamento l’individuazione delle forme, delle modalità e dei tempi della partecipazione, opportunamente razionalizzando le previsioni anche sotto il profilo delle relative fonti, nella maggior parte dei casi l’assenza di previsioni o di rinvii in proposito costituisce un punto dolente, poiché manifesta la difficoltà di declinare in strumenti e garanzie concreti una cultura partecipativa che pure va progressivamente diffondendosi: ciò rischia di pregiudicare fortemente l’effettivo consolidarsi di quella cultura, non perché –giova ribadirlo- la regola scritta sia formalmente necessaria per la realizzazione dei processi partecipativi ma perché la sua assenza ha l’effetto di legarne l’attuazione e l’efficacia a fattori di carattere squisitamente politico, come tali estremamente mutevoli. Un’ultima considerazione, di segno positivo, deve farsi infine con riferimento alla sempre più frequente previsione di misure di incentivo in favore degli enti locali, con indicazioni dettagliate –in questo caso si- di procedure e requisiti per promuovere la partecipazione a livello locale: si tratta di forme di sostegno (economico ma anche tecnico e logistico) per progetti partecipativi presentati dagli enti locali, alle quali si affianca sovente la previsione di strumenti di coordinamento volti a favorire la realizzazione di “un sistema partecipativo coerente ed omogeneo sul territorio” regionale101. 99 V. ad esempio la legge n. 27/2006 della regione Abruzzo, in tema di ambiente, che parla di <<partecipazione programmatica>> con riferimento al ruolo della nuova Consulta regionale per l’educazione ambientale (art. 10). Sull’importanza della partecipazione nella fase di programmazione vale la pena di ricordare le parole di G. B ERTI, La parabola regionale dell’idea di partecipazione, cit., 6-7, che con riferimento ai vecchi statuti regionali affermava: “Se si pensa alla programmazione, che gli statuti avevano dichiarato di assumere a metodo dell’azione regionale, non mancava veramente nulla perché, con un po’ di buona volontà, le regioni prendessero fiato in una direzione giusta rispetto ai punti di orientamento indicati dalla società. La programmazione non è infatti un modo di concepire e di ordinare i rapporti tra politica ed economia (…), tra interesse sociale e interesse dell’impresa economica (…)?”. 100 V. ad esempio la legge n. 4/2007 della regione Basilicata, sulla rete integrata dei servizi di cittadinanza sociale, la quale, seppure con terminologia forse non del tutto appropriata, parla di <<valutazione concertata>>. 101 In questi termini si esprime, ad es., la legge emiliana n. 3/2010 (art. 3, c. 1), che istituisce a tal fine il Nucleo tecnico di integrazione con le autonomie locali (art. 7). Ma si veda anche il modello del protocollo di intesa fra regione ed enti locali adottato dalla legge toscana n. 69/2007, che comporta per gli enti aderenti la condivisione dei principi della legge e l’accettazione volontaria delle procedure da essa previste. 27 Quest’ultimo tipo di scelta politica ha il pregio di valorizzare il ruolo di <<regia>> che dovrebbe assumere la regione, quale sede di condivisione e coordinamento delle esperienze partecipative, di produzione di un circolo virtuoso e costruttivo destinato a riverberarsi sulle stesse politiche regionali. Non solo, ma risulta ulteriormente evidenziato il ruolo di tipo incentivante che possono svolgere le regole in tema di democrazia partecipativa, anche nella prospettiva di quel federalismo cooperativo che della partecipazione si nutre e che ad essa restituisce alimento102. Come può vedersi da questi sintetici cenni, il quadro che emerge dalla legislazione regionale dell’ultimo decennio è certamente più ricco rispetto al passato ma ancora estremamente variegato: una varietà che, se in parte può giustificarsi in ragione dell’autonomia politica, in parte rivela il permanere di confusioni terminologiche e concettuali, di timidezze e ambiguità politiche. Se talune linee di tendenza sono certamente rilevabili, pur nei chiaroscuri cui le relative letture danno luogo, ciò che emerge è soprattutto una ragnatela di traiettorie: itinerari possibili, condivisibili o criticabili, velleitari o fragili; di certo itinerari raramente lineari, sia sul piano normativo che su quello attuativo. E tuttavia si tratta di itinerari sufficienti per poter affermare che è da questi che occorre ripartire. Nel 1974, lamentando il fallimento della spinta partecipativa che pure aveva animato la redazione degli statuti, era stato acutamente osservato che “La nuova amministrazione regionale, per avere un senso e per dare anche più congrui contenuti all’autonomia, avrebbe dovuto prendere l’avvio” dalla felice intuizione che ravvisava nella programmazione e nella partecipazione un metodo di governo, “negandosi a condizionamenti e riduzioni che la snaturavano. Il posto della partecipazione sarebbe stato facilmente trovato in questo quadro nuovo”103. Ebbene questo monito risulta ancora attuale, la partecipazione essendo ancora in attesa di trovare la propria collocazione nell’assetto istituzionale italiano: ma rispetto ad allora, nuovi e più complessi fattori premono oggi sulle regioni, le quali si trovano a dover raccogliere la sfida di un rinnovamento politico profondo, pena il rischio –fra i molti altri- di un secondo e più cocente fallimento dell’<<idea di partecipazione>>. 9. Spunti conclusivi: le sfide della responsabilità e della qualità della partecipazione Per far sì che la sovranità possa finalmente sprigionare le forze ancora inespresse, in un rapporto di complementarietà con le forme più tradizionali legate alla democrazia rappresentativa e alla democrazia diretta, occorre che la categoria della democrazia partecipativa, oggi assunta in chiave prevalentemente descrittiva, recuperi la propria portata normativa, riconducendo il principio di partecipazione entro il quadro costituzionale e richiamando il legislatore all’obbligo di svilupparne le indicazioni inattuate104. Un simile obiettivo richiede, tuttavia, di liberare la riflessione dai pregiudizi giuridici e dalle retoriche politiche che tanto pesantemente ne hanno afflitto le vicende. Innanzitutto, come si è già accennato, la pluralità e necessaria duttilità delle forme della democrazia partecipativa deve, si, tradursi in una regolamentazione leggera (soft law) e di tipo sperimentale in riferimento a tecniche e modalità, ma non anche rinunciare ad un sistema forte di precondizioni e garanzie, le quali richiedono al contrario previsioni più 102 Il ruolo che dovrebbe assumere la regione rispetto ai processi di regolazione della democrazia partecipativa è ben individuato dalla ricordata legge emiliana n. 3/2010, laddove si prevede fra gli obiettivi della stessa quello di “sviluppare il ruolo della Regione come sede di condivisione delle esperienze, ausilio alla scelta e all'impianto delle forme partecipative, basato sulla raccomandazione tecnica di modelli non vincolanti, ma suggeriti dall'esperienza”. 103 G. BERTI, La parabola dell’idea di partecipazione, cit., 7. 104 Sull’inadeguatezza del taglio descrittivo della gran parte della letteratura in tema di partecipazione, v. di recente M. DELLA MORTE, Profili della partecipazione popolare nell’ordinamento rappresentativo, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, vol. V., cit., 1875. 28 rigorose. Il timore di irrigidire eccessivamente le pratiche partecipative attraverso la loro regolamentazione, oltre ad essere smentita dai fatti (il crescente numero di disposizioni contenenti principi e regole sulla partecipazione), sembra dimenticare i più insidiosi rischi connessi alla naturale duttilità delle formule a maglie larghe, le quali possono a loro volta risolversi “tanto in una crescente tutela dei diritti quanto nella loro parimenti vistosa compressione”: da qui l’esigenza, ugualmente garantista ma certamente più pressante nelle società non omogenee, “di mettere nero su bianco un pugno di garanzie…, sì da non rimettere in tutto o per la gran parte le garanzie stesse a contingenti opportunità o alla buona volontà manifestata dai governanti di turno”105. Inoltre, vi sono settori in cui le pratiche partecipative appaiono sufficientemente mature per trasposte in procedure con maggiore livello di specificazione106. In secondo luogo, interrogarsi su come regolare la partecipazione non sembra affatto porsi in controtendenza rispetto agli attuali processi (peraltro più apparenti che reali) di semplificazione e deflazione normativa, dal momento che non si tratterebbe di introdurre procedure decisionali ulteriori e diverse rispetto a quelle esistenti né di irrigidirne i percorsi quanto piuttosto di migliorarne l’efficacia, attraverso l’innesto di momenti partecipativi107; inoltre, il ruolo della funzione normativa non si limita all’imposizione ma contempla anche la promozione e l’incentivo, la creazione di opportunità, la rimozione di ostacoli. Come infatti si è visto esaminando le linee di tendenza della legislazione regionale, il contributo più alto che la normazione può offrire all’effettività della partecipazione risiede nell’indurre l’autoimposizione di vincoli in cambio di risorse e di opportunità politiche: “un obbligarsi preventivo ad un principio di responsiveness”108 che conduce l’osservanza delle regole sulla partecipazione dal piano dell’imposizione unilaterale a quello di una sorta di <<obbligatorietà consensuale>>. In terzo luogo, la valorizzazione delle politiche di sostegno si configura come il coerente sviluppo di quel principio collaborativo sotteso, come si è visto, non soltanto al principio solidaristico ma anche –e più in generale- all’accezione del federalismo come metodo di governo cooperativo109. Le forme virtuose di leale collaborazione che le politiche di sostegno sono certamente in grado di innescare fra i livelli di governo rivelano qui tutta l’ampiezza e la persistente attualità di quella accezione, nel suo irrinunciabile intreccio fra dimensione <<orizzontale>> e dimensione <<verticale>>: il dibattito che da anni stancamente accompagna il tema dei canali di raccordo fra livelli di governo (ad es. le Conferenze) richiama una connessa e non trascurabile componente di partecipazione istituzionale, che in Italia fatica a trovare assetti soddisfacenti ma che altrove ha mostrato tutto il rilievo delle proprie potenzialità (ciò emerge con particolare evidenza nel caso dell’Olanda, per il quale si rimanda ai saggi di T. TOONEN e C. SEGOLINI FELICI). 105 A. RUGGERI, Tecniche di normazione, tutela dei diritti fondamentali, teoria della Costituzione, cit., 7-8. Ci si riferisce qui al concetto di garanzia in senso <<sociale>> e non a quello tradizionale di garanzia individuale, secondo la ricostruzione di G. BERTI, La parabola regionale della partecipazione, cit., 4-5. 106 U. ALLEGRETTI, Intervento, cit., auspica, ad esempio, l’introduzione stabile del dibattito pubblico e delle giurie civiche, nonché di strumenti partecipativi alla pianificazione territoriale (come l’esposizione dei piani territoriali nei quartieri). 107 In questo senso v. ancora le efficaci intuizioni di G. BERTI, La parabola regionale della partecipazione, cit., 2, il quale ha precisato che “la partecipazione designa un’attività che, in quanto tale, non pretende a risultati immediati e definitivi, ma che per essere funzionale ha bisogno di integrarsi in altri meccanismi”; anche se lo stesso Autore non ha mancato poi di mettere in guardia rispetto alla difficoltà di accordare sino in fondo la partecipazione con gli istituti della rappresentanza. Rassicurazioni in questo senso sono tuttavia venute, più di recente, dalla Corte costituzionale, la quale ha escluso in radice che la previsione di strumenti partecipativi (nel caso di specie la consultazione) possano ostacolare la funzionalità dei processi decisionali pubblici, quand’anche di carattere normativo (v. in particolare sent. 379/2005). 108 A. FLORIDIA, Idee e modelli di partecipazione. Il caso della legge toscana, in U. ALLEGRETTI (a cura di), Democrazia partecipativa, cit., 99. 109 Il rapporto tra politiche partecipative di sostegno nei confronti degli enti locali e principio di leale collaborazione è ben evidenziato da S. CIANCAGLINI, Dall’incentivazione al consolidamento, cit., 185. 29 Infine, rispetto ai timori di allungamento dei tempi e di accrescimento dei costi dei processi decisionali, occorre considerare –per converso- i costi della non partecipazione e dell’esclusione, rilevanti e valutabili non soltanto in termini di democraticità delle decisioni bensì anche nei termini economici della conseguente inefficacia delle politiche: sono i costi derivanti dalla mancata utilizzazione della partecipazione in funzione di abbattimento preventivo della conflittualità, come dimostrano il caso dei movimenti per il blocco delle c.d. grandi opere e la soluzione proposta dal ddl C/2271, evidentemente inaccettabile oltre che illegittima in quanto volta a scaricare quei costi proprio sugli esclusi, così destinati a <<pagare>> due volte110. E’ vero che si assiste da alcuni anni ad una rinnovata tensione normativa volta a disciplinare taluni profili della partecipazione dei privati ai processi decisionali pubblici; ma si tratta di un fenomeno che sembra ancora lontano dall’appagare le esigenze garantiste della democrazia pluralista. Dopo le conquiste teoriche e giuridiche della trasparenza, a giusto titolo definita come “diritto, risultato e strumento111, e dell’informazione pubblica come presupposto di un “diritto a conoscere e comprendere la verità”112, la costruzione di un sistema di regole sulla partecipazione appare come il conseguente e irrinunciabile approdo per realizzare appieno quella effettività su cui si fonda la complessa previsione dell’art. 3, co. 2 Cost. La riflessione sulla trasparenza, la pubblicità e la qualità dell’informazione pubblica ha avuto il pregio di aprire la strada alla costruzione di nuove forme di esercizio e di distribuzione del potere. Ma ciò che più conta, quella riflessione ha prodotto istituti giuridici che, oltre a tutelare valori rilevanti in sé, assumono oggi un’importante funzione strumentale rispetto alle precondizioni della partecipazione: tutti quegli istituti tendono, infatti, a consentire la formazione di opinioni critiche, di una consapevolezza civica intesa come capacità di compiere scelte responsabili e di resistere a pressioni di carattere demagogico. In questa prospettiva, sarebbe oggi di grande utilità recuperare la felice intuizione con la quale Norberto Bobbio suggeriva, nel 1978, di mutare le tradizionali espressioni <<libertà negativa>> e <<libertà positiva>> in quelle di <<libertà di agire>> e <<libertà di volere>: “intendendosi per la prima <<azione non impedita o non costretta>>, per la seconda <<volontà non eterodeterminata o autodeterminata>>”113. Vi è un continuum fra trasparenza, informazione, comunicazione, partecipazione e sussidiarietà: un incremento di potenzialità che riflette il mutamento di ruolo dell’individuo e della collettività, non più soltanto destinatari esigenti di una macchina ordinamentale costruita per soddisfare l’interesse generale ma essi stessi risorsa, in nome di un “diritto ad avere un’opinione” e a declinarla in una “vita activa”, responsabile114. Basti guardare all’acceso dibattito che ha accompagnato negli ultimi anni la delicata e complessa tematica 110 Il ddl C/2271, presentato il 10 marzo 2009, prevede l’introduzione di un articolo nella l. n. 349/1986 in base al quale, qualora il ricorso presentato dalle associazioni di tutela ambientale “sia respinto perché manifestamente infondato, il giudice condanna le associazioni soccombenti al risarcimento del danno oltre che alle spese del giudizio”: un tentativo di reazione che, anziché condotto sul terreno della maggiore considerazione degli argomenti in conflitto attraverso un’anticipazione dell’inclusione dei soggetti interessati, si rivolge piuttosto verso strumenti punitivi e disincentivanti. Significativa del tipo di impostazione sottesa al ddl è del resto la relazione, nella quale si afferma esplicitamente di voler “responsabilizzare l’attività delle associazioni di protezione ambientale” rispetto al fenomeno di “egoismo territoriale” che esse hanno contribuito a generare e a diffondere. 111 F. MERLONI, Trasparenza delle istituzioni e principio democratico, in F. MERLONI (a cura di), La trasparenza amministrativa, Milano, Giuffrè, 2009. 112 G. ARENA, Le diverse finalità della trasparenza amministrativa, in F. MERLONI, op. ult. cit. 113 N. BOBBIO, Libertà, in Enc. del Novecento, vol. III, 1978, 994ss. Che un’azione sia libera significa, secondo l’accezione accolta da Bobbio, che tale azione può essere compiuta senza incontrare impedimenti: ma ciò non esclude che quell’azione possa essere voluta da una volontà non libera né consapevole, o che quella stessa azione non si sia affatto compiuta non a causa della frapposizione di ostacoli o di una volontà di segno contrario bensì in ragione di una volontà che non ha incontrato le condizioni necessarie per potersi formare e autodeterminare. 114 G. AZZARITI, Cittadinanza e multiculturalismo: immagini riflesse e giudizio politico, in Dir. pubbl., n. 1/2008, 196. 30 dell’autodeterminazione della persona in campo medico, per avvedersi di come anche quel valore venga rivendicato in ragione della sua funzione responsabilizzante nei confronti degli individui: ciò che si contesta è l’invadenza di un potere pubblico che pretende di comprimere la capacità di autodeterminarsi anziché apprestare gli strumenti per assicurare che quella capacità possa esplicarsi in modo efficace e responsabile115. Ebbene, dalla riflessione sulla responsabilità, nonché sulla qualità delle informazioni e delle politiche pubbliche (che di quella sono il prodotto), il passo verso la qualità della partecipazione è estremamente breve, e comunque necessitato. La stessa qualità della rappresentanza e della politica, di cui da tempo si lamenta a gran voce la dispersione, non può che passare per la qualità della partecipazione, ossia per il recupero di una qualificazione militante e critica di democrazia116. Le specificità della democrazia partecipativa, che presuppongono una partecipazione permanente al governo della cosa pubblica in collegamento con le dinamiche dell’eguaglianza sostanziale e della solidarietà, presuppongono una produzione continua e coerente di informazione, conoscenza e consapevolezza, ben al di là di quanto implicato dalle più mirate e contingenti esigenze della democrazia rappresentativa e della democrazia diretta. La costruzione condivisa delle risposte politiche ai bisogni della collettività necessita di politiche partecipative di lungo termine, sganciate dalla contingenza e dalle strategie della politica strettamente intesa, capace di essere -nel contempo- invadente e disattenta117. Mentre si assiste alla sempre più preoccupante diffusione di una politica della seduzione, causa ed effetto di coscienze sopite, poco informate, manipolate, il recupero della portata normativa della partecipazione quale metodo di governo impone di uscire dallo schiacciante presente e di riconnettere passato e futuro: quella memoria storica e istituzionale che presuppone, negli organi rappresentativi, la perdurante capacità di intendere come propria missione “quella di essere i portatori attuali della coscienza del Paese, come si è venuta costituendo intorno ai temi essenziali della sua storia”118; quella capacità di “narrare il futuro” senza la quale la politica è muta119. La democrazia partecipativa ha gli strumenti per raccogliere quella sfida: si pensi, da un lato, alle diffuse esperienze di sussidiarietà orizzontale, le quali altro non sono che sviluppi virtuosi della partecipazione resi possibili da un rinnovato senso di solidarietà, ossia di quel principio che ha così fortemente caratterizzato il patto costituzionale del 1948 e la nostra storia repubblicana; e si pensi, dall’altro, alle politiche di progettazione urbana partecipata, a loro volta espressione di un governo condiviso del territorio in funzione di ambienti urbani vivibili e sostenibili, e dunque di una politica che guarda al futuro. Come si è visto allorché si è parlato del quadro valoriale che deve guidare l’interpretazione costituzionale, con riferimento al principio di partecipazione ma non solo, la memoria è certamente presupposto e alimento di principi e istituti giuridici, ma è –prima ancora- un processo sociale che consente di riconoscere gli eventi e coordinarli entro una serie 115 Su questi temi, per tutti, S. RODOTÀ, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, Feltrinelli, 2006; ID., Perché laico, Bari, Laterza, 2009. 116 Di “qualificazione militante della democrazia” parla G. FERRARA, Sulla democrazia costituzionale, cit. 117 Di “politica di presenza” e di “attenzione alla particolarità” parla U. ALLEGRETTI, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizzazione della democrazia, cit., 27. 118 S. STAMMATI, Qualche riflessione ulteriore su democrazia, rappresentanza e responsabilità. Dalla rappresentanza democratica alla rappresentanza <<sbagliata>>, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., vol. V, 2100. 119 G. AZZARITI, La crisi dei partiti come crisi della loro capacità rappresentativa, in Scritti in onore di Lorenza Carlassare, cit., vol. V, 1788. V. del resto, più in generale, il condivisibile monito di P. B ARCELLONA, Le passioni negate, cit., 45, per il quale “Aprire lo spazio della riflessione non significa rendere trasparente il futuro, ma rendere possibile l’interrogazione sul passato per lasciare aperta la possibilità del futuro. In questi termini la possibilità del futuro dipende… dalla capacità di ripensare il rapporto fra individuo e comunità, oltre le figure tradizionali”. 31 coerente di relazioni, poi proiettate nel futuro. La memoria consente al sistema di non “ricominciare sempre da capo” 120. Ma in assenza di un sistema di regole e di garanzie che consentano di mantenere saldo l’argine rispetto ai tradimenti di quella memoria, difficilmente i pur diffusi momenti virtuosi potranno trasformarsi in normalità e generare nuove forme di abitudine alla democrazia. “Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di si: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituzione è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno (…) che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti. Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli”. PIERO CALAMANDREI, Assemblea Costituente, seduta del 4 marzo 1947. 120 V. le interessanti riflessioni, in particolare sul pensiero di N. LUHMANN, di C. MORONI, Mass media, rappresentazioni sociali e costruzione della memoria, in RI.LES.S (a cura di), Rammemorare la Shoah, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, 141ss. 32