L`arch. 42_2011 - Architetti nell`Altotevere Libera

notiziario bimestrale di architettura – anno VIII n. 42 marzo-aprile 2011
Roma 2020
Riflessioni
su Pechino
ISTANBUL
CONTEMPORANEA
POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) Art.1 c.1 – DCB – ROMA
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La funzionalità di stampa remota sarà
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Bologna, 5-8 ottobre
INNOVARE, INTEGRARE, COSTRUIRE
SOLUZIONI INNOVATIVE SOSTENIBILI
BolognaFiere, con l’ausilio di Archi-Europe,
lancia la terza edizione di SAIESelection, il
concorso internazionale dedicato a studenti e
progettisti under 40 incentrato sul tema della
Sostenibilità con soluzioni, materiali e
tecnologie innovative.
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IL FUTURO
DELL’ARCHITETTURA
I progetti selezionati saranno presentati nel
corso di SAIE 2011, Salone Internazionale
dell’Edilizia in programma dal 5 all’8 ottobre,
in un Forum dedicato ai Giovani Progettisti “L’Architettura delle Nuove Generazioni” ed
esposti nell’ambito di una mostra. Il Regolamento
di SAIESelection2011 è scaricabile dal sito di
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Progettisti “L’Architettura delle Nuove
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Viale della Fiera, 20 - 40127 Bologna (Italia) - Tel. +39 051 282111 - Fax +39 051 6374013 - www.saie.bolognafiere.it - saie@bolognafiere.it
n.42
marzo-aprile 2011
notiziario bimestrale di architettura
4
in questo numero
26
SOCIETÀ E/È COSTUME
BENI CULTURALI
TAO TIE
Roma: 1960 vs 2020
Il Santuario
della Madonna
del Sorbo
nel Parco di Veio:
un sito culturale
da salvaguardare
e valorizzare
«This is China,
Hombre!». Con un
divertente aneddoto
di confusio linguarum
di renato nicolini
14
SPECIALE
33
Istanbul contemporanea
di luca orlandi
di paolo vincenzo genovese
di maria giulia picchione
RESTAURO
8
SPAZI APERTI
20
76
L’apprezzamento
dei segni del tempo
sul mercato dei
“beni d’epoca”.
Affinità e reciproche
influenze con la
disciplina del restauro
Zappata romana
NUOVI ORIENTAMENTI
di luca d’eusebio e silvia cioli
Sperimentazioni
di Antonino Cardillo
di alessandro pergoli
campanelli
di valerio casali
numero 42, anno VIII,
marzo-aprile 2011
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PERCORSI
LECORBUSIERIANI
22
Le Corbusier
ritrae sé stesso
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Il volto nuovo
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28
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agli ordini degli architetti d’Italia,
agli ingegneri edili, enti e istituzioni varie
Questo periodico è associato
all’Unione Stampa Periodica
Italiana
L’Arco di Costantino,
traguardo della
maratona vinta
da Abebe Bikila
in occasione
delle Olimpiadi
di Roma del 1960
Roma: 1960 VS 2020
società e/è costume a cura di Renato Nicolini
R
n.42
2011
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oma inserì le Olimpiadi del
1960 in un complicato processo di progettazione della forma futura della città, il cui centro fu la riannessione all’Urbe dei resti incompiuti
dell’E42. Questo non avvenne seguendo bizzarrie del gusto e delle mode,
ma in seguito a un piano particolareggiato dell’EUR elaborato dal 1950 al
1955; e a chiare scelte infrastrutturali
come la costruzione della via Olimpica, che collegava all’insieme della città
un altro centro essenziale della Roma
di Mussolini come il Foro Italico. Contemporaneamente andava avanti il processo di definizione del nuovo PRG
del ’62. È ovvio che quella scelta generava consenso ma anche vivaci polemiche, qualcosa che comunque contribui-
Centro pagina:
la Basilica
di Massenzio che
ospita la lotta
greco romana
A lato:
la finale dei
200 m vinta
da Livio Berruti
sulla pista dello
Stadio Olimpico;
il Circo Massimo
in una cerimonia
allestita
in occasione
dei Giochi
va alla definizione di un’idea collettiva.
Com’è diverso da questo quadro quello che sta accadendo oggi sotto l’ombrello della candidatura di Roma alle
Olimpiadi del 2020! Le differenze principali sono due. A differenza del 1960,
non c’è un progetto per la città in cui
s’inserisce la candidatura olimpica. Al
contrario, la candidatura è il pretesto
con cui si nasconde la mancanza di un
piano strategico. L’evento effimero (e
io di questo termine me ne intendo)
sostituisce la visione d’insieme. Il sindaco Alemanno, caduto un altro progetto effimero come la Formula 1
all’EUR, l’ha semplicemente sostituito
con la candidatura olimpica. Pescante,
Mondello, lui stesso (nessuno comunque
in possesso di una minima competenza
In senso orario:
il Palazzo dei
Congressi dell’Eur,
lo Stadio del Nuoto,
lo Stadio Olimpico
e lo Stadio Flaminio
architettonica o urbanistica) sfilano in
passerella. Trieste mia alla romanesca.
A parte la ferma determinazione olimpica, nulla è chiaro in questa candidatura. Alla ferma determinazione dichiarata corrisponde la totale vaghezza
tecnica. A cominciare dal PRG da poco
in vigore, che si potrebbe definire come
il trionfo dei diritti edificatori indipen-
denti dalla localizzazione; o come l’inedita definizione delle 19 nuove centralità non in base a una loro collocazione
strategica, o in relazione a una politica delle infrastrutture (come avrebbe
potuto essere se fossero state collegate almeno a un progetto delle nuove
linee di metropolitane e della viabilità).
Le nozze coi fichi secchi. Non avendo
nessuna idea rispetto ai grandi problemi di Roma (una struttura della città
metropolitana che non sia l’accettazione passiva della conurbazione, il
possibile rapporto con Napoli per costituire un’area forte produttiva in grado di reggere il confronto col Nord, il
dato economicamente preoccupante di
un’alta percentuale di alloggi di lusso
Il Velodromo
Olimpico all’Eur,
sede delle gare
olimpiche
del ciclismo su pista,
progettato
da Cesare Ligini,
Dagoberto Ortensi,
Silvano Ricci
e oggi demolito
n.42
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5
In senso orario:
localizzazione
dei Centri Federali
previsti per
i Mondiali di Nuoto
del 2009; rendering
dell’impianto di Ostia
e due rendering
del Polo Natatorio
di Pietralata
Sotto:
Polo Natatorio
di Valco San Paolo,
l’impianto
in costruzione
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invenduti e di un’assoluta carenza di
alloggi a basso costo, la necessità di rimediare all’imprevista conseguenza della
demolizione testa nel sacco dei grandi
campi nomadi come Casilino 700 che
ha generato 300 microcampi nomadi
abusivi e nemmeno censiti), l’agenda
delle scadenze immediate si trasforma
in strategia.
La seconda differenza è la mancanza
di progetti convincenti di impianti sportivi. Si può dire che si sono fatti grandi passi, ma indietro rispetto al ’60.
Il prefetto Serra – come fosse Peter
Sellers in Hollywood Party – ha fatto
saltare con la dinamite il Velodromo
Olimpico di Cesare Ligini. Il Palazzetto
dello Sport mostra i suoi anni trascorsi senza un’adeguata politica di manutenzione, lo Stadio Olimpico è stato
coronato di spine, la palestra della
scherma di Moretti è stata trasformata in un’aula bunker per i processi di
massima sicurezza. Gli impianti costruiti per gli Europei di Nuoto sono da
barzelletta. A parte l’infelicità della loro
localizzazione in aree golenali, soggette a esondazioni, insomma dove non si
sarebbe potuto costruire; si è persino
costruita una piscina lunga un metro in
più dei 50 regolamentari.
Altre differenze? L’insostenibilità del
traffico; la mancanza di qualsiasi progetto a proposito del villaggio olimpico (i maligni dicono che si pensa a
fare come all’Aquila, piazzando case costosissime in pieno Agro Romano)…
Un paragrafo a sé lo merita l’EUR. Il
Velodromo di Ligini distrutto con la
dinamite non è che un episodio di una
serie di errori, originata dalla trasformazione dell’Ente EUR in EUR SpA,
da ente pubblico con finalità pubbliche
a ente giuridicamente privato (anche
se controllato dal potere pubblico) con
finalità di profitto. L’EUR SpA ha sostituito la tutela degli interessi dei residenti dell’EUR (la voce popolare voleva
che l’erba dell’EUR fosse la più verde)
In senso orario:
Gianni Alemanno,
il progetto di Leon
Krier per la “nuova”
Tor Bella Monaca;
rendering della
“città del nuoto”
di Calatrava
prevista per
gli Europei di Nuoto
e immagine
dell’impianto ancora
in costruzione
in un’affannosa ricerca dello sfruttamento monetario massimo delle concessioni edilizie. Da lì hanno avuto inizio i veri e propri deliri dell’ing. Flammini, che voleva finanziare la Formula 1
costruendo un paio di milioni di metri
cubi. Da lì ha avuto inizio il calvario
delle Torri del Ministero delle Finanze
(anche queste costruite ai tempi delle
Olimpiadi del ’60 da Cesare Ligini).
La sostituzione di quelle torri ora con
un albergo di Fuksas, ora con un mezzo
grattacielo residenziale di Renzo Piano
da mettere in vendita a 20.000 euro a
mq, ora con tutte e due dovrebbe produrre effetti simili a quelli del famoso
asino di una favola di Perrault che cacava oro. Con la stessa attendibilità, se
dal piano della favola passiamo a quello
del reale.
In questa confusione totale, il visitatore
che avesse voluto dare un’occhiata più
ravvicinata ai progetti lussuosamente
esposti all’EUR per la kermesse alemanniana sarebbe stato colpito dalla stridente differenza di linguaggio tra due
progetti, a entrambi i quali era stata
riservata una sorta di posto d’onore e
che sono molto vicini tra di loro nella
pianta di Roma. Da un lato il linguaggio
da Garbatella gotica elaborato da Leon
Krier per la sua “nuova” Tor Bella Monaca; dall’altro il linguaggio da modernismo in carta patinata della “città del
nuoto” di Calatrava, recuperata per
l’occasione dai fallimenti dei progetti
per gli Europei di Nuoto dove sarebbe
stato meglio lasciarla. Chi pensa male
parla male, diceva Nanni Moretti in
Palombella Rossa. Questa Roma di Alemanno ci dimostra come si possa parlare male in ben due linguaggi. Il linguaggio del falso antico e il linguaggio del
falso moderno. Eticamente ed esteticamente sono l’uno lo specchio dell’altro, paccottiglia da supermercato, luogo comune trasformato in paradigma.
Calatrava, che aveva dichiarato di volersi ispirare alla lunghezza del Corso,
e Krier costruiscono due specie diverse di villaggi alla Truman Show dove è
impossibile vivere in modo diverso.
Questo cattivo rapporto col futuro è
indice del cattivo rapporto che la città
sta vivendo col proprio passato. Nel
corso dei lavori di sbancamento per
la realizzazione dell’I-60 di Grottaperfetta sono emerse le tracce di un esteso tratto di città romana. Qualcosa di
simile era accaduto – nel 1976 – durante i lavori per la costruzione del
Laurentino ’38 di Barucci. Giulio Carlo
Argan era allora sindaco di Roma. I
lavori furono sospesi finché si trovò un
compromesso che consentisse di continuare a vedere la strada romana nel
nuovo complesso. Qui non si tratta di
una strada ma di qualcosa di più. Ma il
Campidoglio tace e il costruttore si
prepara a ricoprire il tutto con la nuova edilizia. Chi recide il legame col passato taglia anche il proprio rapporto
col futuro. Per questo ho invitato tutti
i romani che non vogliono rassegnarsi
a perdere in un colpo solo tutti i tempi
storici che non siano il presente a venire a festeggiare il 21 aprile, Natale di
Roma, occupando pacificamente ma rumorosamente l’area dell’I-60 di Grottaperfetta. Naturalmente, portandoci tutti
fave e pecorino.
R.N.
n.42
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In successione:
Rolex datocompax
con il quadrante
d’epoca discretamente
conser vato,
parzialmente rifatto
e completamente
ristampato.
Una nota casa
d’aste specializzata
in orologi d’epoca
(Antiquorum)
propone nove livelli
di conser vazione
del quadrante,
in ordine di stima
decrescente:
«originale,
revisionato, d’epoca,
successivo, indici
luminosi riapplicati,
parzialmente rifatto,
rifatto, riparato,
danneggiato»
(trad. dall’inglese del
Dial Grading System)
L’apprezzamento dei segni del
sul mercato dei “beni d’epoca”
Affinità e reciproche influenze con la disciplina del restauro
restauro a cura di Giovanni Carbonara e Alessandro Pergoli Campanelli
Q
n.42
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8
ualcosa sta cambiando. Molto lentamente, ma
sta cambiando. Il mercato, come sempre, ne
registra i primi segnali. Il concetto di patina, caro alla scuola
del restauro critico-conservativo, inizia ad essere accettato
e apprezzato anche dai collezionisti privati, divenendo un
vero e proprio valore aggiunto. Ecco che, contrariamente a
quanto accadeva in passato, non di rado importanti case
d’asta quali Christie’s o Sotheby’s ammettono anche sulle
loro proposte più importanti la presenza di quell’impercettibile «sordina posta alla materia» dal tempo (come la definì
Cesare Brandi); addirittura, in più d’un caso, la qualificano come
un pregio economico. È ormai opinione diffusa, infatti, che
un orologio d’epoca con il quadrante ristampato valga assai
meno dello stesso orologio dotato di un quadrante conservato nelle sue condizioni originali, seppur ‘ingiallito’ dal tempo.
E la differenza non è da poco. Ad esempio un importante
cronografo degli anni Cinquanta della celebre marca Rolex
(modello Datocompax, meglio noto col nome di un noto sciatore del passato, Jean Claude Killy) è stimato con il quadrante perfettamente conservato sino a 100.000 euro, meno della
metà con un quadrante ‘parzialmente rinnovato’ e solo il 30%
con il quadrante ‘rovinato’ o ‘ristampato’. Il rifacimento è
pertanto assimilato in questo caso a una forma di degrado.
Si tratta di valutazioni che, necessariamente, influenzeranno
le modalità con le quali i privati conserveranno e ‘restaureranno’ oggetti simili.
Il quadrante degli orologi d’epoca, infatti, in passato era considerato, al pari d’una ‘superficie di sacrificio’, qualcosa di
La prima versione
della famosa radio
Cubo di Brionvega,
in produzione
ininterrottamente
dal 1964 (mod. TS
502) sino ad oggi
(mod. TS 525).
Funzioni e contenuti
elettronici sono
continuamente
aggiornati mentre
l’involucro esterno
è sempre uguale
tempo
destinato ad essere obbligatoriamente rinnovato per ripristinare quell’aspetto nuovo ed efficiente che tutti gli oggetti
di maggior valore proposti in vendita dalle più note case
d’asta dovevano avere.
Oggi, invece, la caratteristica più apprezzata è l’autenticità dei
manufatti in ogni loro parte, intesa anche come assenza di ogni
manomissione o tentativo di ripristinare un nitore originario
ormai perduto. Un rifacimento, ad esempio, della parte significativamente più importante per l’estetica di un orologio, il
quadrante, per quanto perfetto ed eseguito con tecniche e
materiali simili, se non uguali, a quelli originari è considerato
come una perdita di genuinità, provocando una sostanziale
diminuzione del valore del bene stesso. Il parallelo con le
superfici di tante architetture del Novecento – come anche
con quelle d’importanti capolavori delle epoche precedenti –
continuamente rimosse e disinvoltamente rinnovate proprio
in occasione di tanti interventi di restauro è assai facile. Lo
stesso fatto che orologi e vetture siano, soprattutto, beni destinati all’uso e non oggetti d’arte da contemplare dimostra la
debolezza di molte autorevoli posizioni che vorrebbero il
restauro delle architetture distinto, nei suoi princìpi, da quello delle opere d’arte proprio perché le prime sarebbero
soggette a continue trasformazioni d’uso incompatibili, a detta
di molti, con atteggiamenti eminentemente conservativi.
A tal proposito si riscontra, semmai, una tendenza di segno
opposto. È, infatti, proprio nel campo dei veicoli d’epoca –
ovvero di beni apprezzati anche per le loro caratteristiche
d’uso e, come tali, sottoposti al rispetto di tutte le norme
previste dalla sicurezza stradale – che da diversi anni il dibattito interno alle principali associazioni sta assimilando molte
delle posizioni proprie della cultura italiana del restauro, con
l’accoglimento di molteplici atteggiamenti di prudente conservazione dei segni della storia.
Il Registro Italiano Alfa Romeo (RIAR), ad esempio, non accetta di certificare come ‘originali’ in ogni loro parte quelle
autovetture che presentino colori o interni diversi da quelli
originari (anche se sostituiti con altri previsti nella gamma
dell’epoca) a meno che tali variazioni non siano ‘storicizzate’,
cioè effettuate durante il primo periodo d’uso della vettura
(non oltre 10 anni dalla fabbricazione).
Si tratta d’importanti novità, soprattutto in un mercato che
normalmente privilegiava il solo valore del nuovo, presentando oggetti e autovetture sempre in condizioni smaglianti qualunque fosse la loro età anagrafica. Sono trasformazioni del gusto che dimostrano la crescente e sempre più diffusa attenzione del grande pubblico per la conservazione e il
restauro anche di quei beni che fino a pochi anni prima erano
considerati solo come oggetti di produzione industriale. Se
prima, infatti, si poteva intervenire disinvoltamente nel sostituire, rifare o aggiornare le parti di un veicolo d’epoca senza
per questo perderne le caratteristiche di ‘originalità’, oggi
si manifesta sempre più l’attualità di alcune posizioni attente alla conservazione, non solo delle forme ma anche della
‘materia’ autentica, seppur segnata dagli esiti del passaggio
nel tempo.
L’accoglimento spontaneo e diffuso di alcuni princìpi propri
della teoria del restauro critico-conservativo delinea una
parabola storica del pensiero particolarmente significativa e
dimostra l’attualità di un’intuizione estetica, quella della bellezza delle superfici segnate dal tempo, che s’era sviluppata molti
anni prima nelle raffinate teorie di pochi intellettuali e artisti. L’apprezzamento economico, certificato dal mercato delle
compravendite, ne rappresenta il più attendibile feedback.
La stragrande maggioranza dei ‘non addetti ai lavori’ inizia,
infatti, a riconoscere il pregio di conservare i beni storici nella
loro autenticità, apprezzando economicamente la differenza
fra un bene ‘riportato a nuovo’ con costosi restauri e uno
che, invece, sia stato perfettamente conservato assieme all’inevitabile patina del tempo.
Gli esempi che si potrebbero portare sono molti.Vale, tuttavia, la pena di soffermarsi ancora sul mondo dei cosiddetti
veicoli d’epoca per le molte affinità che presenta con la teoria
del restauro.
In Italia il principale interlocutore privato che si occupa della
certificazione dei veicoli d’epoca è l’Automotoclub Storico
Italiano (ASI), un’associazione che rilascia due distinti tipi
di attestazioni, una comprovante la storicità del veicolo (l’attestato di datazione e storicità, rilasciato ad probationem del
possesso dei requisiti richiesti dalla normativa italiana, a tutti
i veicoli costruiti da oltre venti anni che abbiano interni
‘decorosi’, una carrozzeria conforme all’originale e parti meccaniche almeno compatibili con quelle originarie) e, l’altra,
il corretto pedigree della vettura (il ‘certificato d’identità’
o la cosiddetta ‘omologazione’, ottenibile solo da quei veicoli
ritenuti ‘autentici’ da una commissione d’esperti; cfr. ASI,
Regolamento Generale, art. 2.1 e 2.2).
Il più autorevole organismo internazionale,la Fédération Internationale des Véhicules Anciens (FIVA) rilascia invece un certificato, la carte d’identité FIVA (cfr. FIVA, Code Technique 2010, art.
7) al cui interno figurano quattro distinte categorie definite
gruppi di conservazione del veicolo (groupes de préservation des
véhicules).È significativo come al primo posto,in ordine di pregio
decrescente, figurino i veicoli considerati ‘originali’ (original)
e poco deteriorati; al secondo quelli ‘autentici’ (authentique, si
tratta di veicoli restaurati nelle sole parti che ‘normalmente
si consumano’ con ricambi ‘rispondenti alle caratteristiche
Una delle automobili
più rare e desiderate
dai collezionisti, l’Aston Martin
DB4 GT Zagato del 1959,
è stata riprodotta nel 1991
dalla stessa Aston Martin
Lagonda; sui nuovi telai sono
state montate parti nuove
realizzate ad hoc, molte
rimanenze di magazzino
e altrettante parti recuperate
da meno costose DB4
(in basso a sinistra), smantellate
allo scopo! La carrozzeria
è stata realizzata dalla Zagato
con dime originali dell’epoca.
Le vetture sono note come
Sanction II (autorizzazione 2
e non, come invece consueto
per nuove versioni della stessa
vettura, Series II). Nel 1992
sono state realizzate ulteriori
due vetture, le Sanction III.
Nonostante la maggior efficienza
meccanica e la loro originalità
(dichiarata dal costruttore che
le ha dotate di numeri di telaio
dell'epoca mai utilizzati), queste
vetture hanno sul mercato
una quotazione inferiore
di molto a quelle delle vetture
originali e al costo sostenuto
per la loro realizzazione
Lotus Elan S1
(1962)
n.42
2011
10
del periodo’), al terzo quelli ‘restaurati’ (restauré, cioè veicoli
totalmente smontati e ricondizionati con ‘minime deviazioni
dalle caratteristiche dichiarate dal costruttore’). All’ultimo
posto vi sono i veicoli ‘ricostruiti’ (reconstruit), autovetture
assemblate con più pezzi del medesimo modello o tipo, rispettando il più possibile le caratteristiche d’origine del costruttore. A ogni gruppo si associa poi una delle sette classi corrispondenti alla data di prima costruzione del veicolo. È evidente,
anche in questo caso, come il valore maggiore sia attribuito
alla conservazione. Dalla classificazione del veicolo deriva, poi,
anche una diversa valutazione commerciale, cosa che rende i
proprietari sempre più attenti a conservare correttamente il
proprio veicolo.
S’immagini di trasferire una simile classificazione all’architettura: il risultato sarebbe che tanti edifici rinnovati in nome
di un’errata concezione del restauro non sarebbero considerati pienamente autentici e il loro valore, anche commerciale, diminuirebbe!
Ulteriori spunti d’interesse provengono dai risultati d’un
importante convegno sul significato dell’autenticità dei veicoli d’epoca che si è svolto a Torino nel 2004.
Il tema dell’autenticità d’un veicolo s’è dimostrato, infatti,
assai insidioso, presentando al proprio interno una serie d’interrogativi le cui diverse possibili soluzioni aprono le strade ad altrettanto differenti interpretazioni di quali siano le
corrette metodologie di conservazione e restauro.
Se si considera, infatti, autentico solo quanto conservato nello
stesso stato in cui il bene è uscito dalla fabbrica molti anni
prima ne deriva una concezione del restauro eminentemente conservativa che tende ad escludere, per quanto possibile, interventi di sostituzione o rifacimento di ogni parte (anche
di quelle normalmente soggette a usura, quali gli pneumatici
o gli elementi meccanici in movimento). Una corretta conservazione, quindi, imporrebbe un uso limitato al minimo indispensabile del bene (compatibile solo con un’esposizione
museale) che impedisca qualsiasi rischio di perdita della materia autentica.A tal proposito s’è espresso, ad esempio, Gianni Rogliatti: «Ora il fatto che certe automobili sono vere opere
d’arte grazie alla mano felice di chi le ha disegnate e all’epoca in cui sono state costruite crea un problema: quello dell’utilizzo. È giusto che chi le possiede le voglia usare, perché in
fondo quello è il loro scopo. Ma è giusto? (…) Fatalmente i
vari componenti si dovranno sostituire, a cominciare da
gomme, candele, cinghie eccetera. Ma poi bisognerà cambiare pistoni, valvole, tamburi freni, senza contare che se si sbiella un motore si dovrà cambiarlo tutto o in parte.Viceversa un
quadro è stato fatto per restare appeso al muro ed essere
ammirato da fermo. Ma per assurdo se portassimo in giro La
Gioconda di Leonardo da Vinci e un giorno si rompesse un
angolo, poi un’altra volta un altro angolo e facessimo ricostruire i pezzi andati distrutti, sarebbe lo stesso quadro originale?» (L’automobile, patrimonio culturale e memoria industriale, in
Atti del Forum international sur l’authenticité du véhicule historique,
Torino, 12-13 novembre 2004, Milano, 2005, p. 61). Dello
stesso avviso il direttore del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino: «Che senso ha – mi sono sentito spesso chiedere – esporre 170 vetture in forma statica, non procedere
a un restauro di meccanica e di carrozzeria che le rianimi,
sostituendo la selleria rovinata, cambiando i legni danneggiati, ravvivando (perciò rifacendo) le colorazioni appannate?
Le nostre vetture sono generalmente esposte nello stato in
cui sono state ricevute o acquistate nel corso degli anni. È
innegabile che l’usura, prima dell’uso che ne ha fatto il proprietario o il pilota, poi del tempo, ha inciso sull’estetica. Nessuna delle nostre vetture ha l’aria di essere appena uscita dalla
fabbrica, salvo rare eccezioni di modelli degli anni Cinquanta,
tenuti religiosamente dai proprietari che ce le hanno donate. Hanno l’aria che il tempo ha loro conferito, per la maggior
parte non funzionano più, e vengono da noi del museo considerate inestimabili oggetti d’arte, verso cui soltanto un attento mantenimento è rispettoso del loro valore. (…) I nostri
criteri di conservazione museali sono così riassumibili: non
oltrepassiamo il limite di un restauro conservativo, che contenga e limiti i danni inferti dal tempo che scorre e che sono tra
i più immediatamente visibili. (…) Riteniamo filologicamente
scorretto, per le finalità e gli obiettivi definiti dal nostro statuto, un restauro ricostruttivo, per non parlare dell’esposizione
di repliche (…). Che importanza ha, a questi fini, che la nostra
vettura non funzioni? La sua funzione è quella di testimonianza di prima mano, di fonte documentaria originale. Ecco perché
ci è anche assolutamente impossibile pensare a un utilizzo
su strada delle nostre vetture (…). Significherebbe mettere
a repentaglio l’incolumità degli oggetti a noi affidatici (…). Non
bisogna sottovalutare anche un’innegabile funzione svolta
dal museo: quella di conferire dignità e legittimità storica a
tutto ciò che espone. (…) Esporre un veicolo restaurato, ossia
modificato, parzialmente ricostruito, significa avallarne la storia
e presentarlo come autentico» (Rodolfo Gaffino Rossi, Conservazione e valorizzazione del patrimonio, in Atti…, p. 110).
Simili riflessioni pongono l’accento sull’evidenza che ogni
automobile, così come ogni oggetto creato dalla mano dell’uomo, assume in sé anche parte delle caratteristiche dell’epoca di produzione, sia dal punto di vista dei materiali che delle
tecnologie impiegate. Si tratta di un patrimonio storico e
culturale il quale, benché superato, rappresenta anche negli
stessi errori tecnici, un’importantissima testimonianza di
Mazda MX-5 Miata,
prodotta per la prima volta nel 1989
periodi ormai scomparsi. Queste sono posizioni legittime
e, tutto sommato, condivisibili se limitate a quei beni riconosciuti come degni di essere conservati all’interno di un museo.
Fra gli appassionati di auto storiche c’è però anche chi, come
il presidente della Commissione Tecnica della FIVA (Derek
Drummond Bonzom, in Atti…, Authenticité de l’automobile
ancienne et actuelle, p. 81) ritiene legittimo, per conseguire
una corretta conservazione, il mantenimento di normali,
seppur rispettose, condizioni d’uso. Egli sostiene che, trattandosi di vetture nate per circolare, ferme perdano il loro
significato: «Nous défendons non seulement l’authenticité
mais aussi l’utilisation de nos voitures et de nos véhicules
en général. (…) Si un élément qui a été fabriqué pour être
utilisé ne l’est pas, alors ce même élément meurt». Una simile impostazione riterrà altresì come autentiche anche quelle vetture che presentino molte parti sostituite insieme,
anche, a un discreto ma indispensabile aggiornamento normativo: «Les seules modifications que nous autorisons de manière systématique sont celles qui nous sont imposées par les
règlements nationaux européens» (ibidem).
La dottrina del restauro architettonico dimostra certo come
un corretto uso sia stato fondamentale per la conservazione di tanti capolavori dell’antichità che, altrimenti, sarebbero
stai abbandonati e, con molta probabilità, distrutti. Le due posizioni, tuttavia, non sembrano inconciliabili ma, semplicemente, riferibili una a quegli oggetti di riconosciuto valore storico e culturale particolarmente importanti e rari per i quali è
imprescindibile un’assoluta conservazione e l’altra al patrimonio più diffuso che, non trovando posto nei musei, è bene che
sia in grado di circolare, con tutte le cautele e agevolazioni del
caso,affinché non finisca abbandonato.L’intervento di D.Drummond Bonzom evidenzia, poi, anche una posizione volta al
mantenimento di quanto ereditato dalla storia, seppur con
stratificazioni e aggiunte non sempre legittime. L’importante
è che simili alterazioni non siano certificate come autentiche:
«La FIVA protège notre hérédité automobile à travers cet
avertissement: ce qui est une hérédité n’implique pas nécessairement l’authenticité. Nous encourageons l’authenticité,
en d’autres termes, nous encourageons le respect du matériau et l’intégrité culturelle de nos véhicules» (ivi, p. 83).
È una posizione molto intelligente e conservativa: escludere,
infatti, tout court i veicoli alterati significherebbe costringere i
proprietari a falsificarli o, cosa ancora peggiore, se economicamente non conveniente, a distruggerli. È una posizione intermedia, fra l’integrale conservazione e il rifacimento incontrollato, che accoglie fra le consuete operazioni di manutenzione
tutte quelle derivate dal normale uso, quali ad esempio le riparazioni, la riverniciatura della carrozzeria o il rifacimento della
selleria interna,con l’accortezza che le sostituzioni siano contenute percentualmente rispetto al tutto: «L’authenticité dépend
donc beaucoup, comme vous pouvez le comprendre, de la
préservation des véhicules. Si un véhicule a été préservé ou
conservé, ce qui revient pratiquement au même et où préserver signifie conserver un véhicule dans le même état que dans
celui dans lequel il a été conçu (…) il peut être complètement
authentique, à savoir très légèrement modifié, il peut être usé,
être entretenu et être mis en état de marche et, s’il n’est plus
en état de marche, il doit être restauré. La restauration est
l’objectif le plus important de notre activité car, comme vous
le savez déjà, il est possible de restaurer 5%, 25% ou 100%
du véhicule. Certaines restaurations concernent même 110%
du véhicule mais l’élément fondamental est que toute restauration requiert d’avoir compris le véhicule» (ibidem). Ecco che
diventa allora importante stabilire che cosa sia lecito e che
cosa no. Ciò significa che pure nel mondo delle auto d’epoca
appare necessario e, anzi, indispensabile, dotarsi di precise
regole discendenti da altrettanto chiari e condivisi princìpi. A
tal proposito si rileva come anche da parte degli esperti francesi siano state esposte nel convegno del 2004 posizioni
improntate a una massima conservazione. Il conservateur en
chef del Museo dell’Automobile di Mulhouse, ad esempio, ritiene che l’intervento di ‘restauro’ debba evitare di riportare
ogni cosa al proprio ‘splendore originario’ così come di sostituire le parti originali con altre nuove, anche se riprodotte
identiche «Un objet n’est jamais voué à être remis dans un
état d’origine,ou restauré selon l’esthétique du moment.Cette
‘authenticité’ indiquera le cap à suivre auquel il sera d’autant
plus facile d’accéder qu’il aura été détaillé préalablement.
Un musée va évidemment privilégier de conserver les matériaux dans leur aspect et leur structure, préférant les stabiliser plutôt que de remplacer» (Richard Keller, Conservation et
mise en valeur du patrimoine, in Atti…, p. 119). Nel suo intervento figurano anche due concetti tipici della riflessione sul
restauro prodotta dalla scuola italiana: quello della notorietà
e della reversibilità degli interventi: «La deuxième règle de
toute restauration dans un Musée de France est celle de la
réversibilité des interventions, sur laquelle il n’est pas opportun de s’attarder ici. Elle concerne surtout les interventions
lourdes et traduit l’humilité dont doit faire preuve tout intervenant. (…) La troisième règle peut vous intéresser plus dans
le cadre de ce colloque: celle de la lisibilité.Toute pièce remplacée est marquée au poinçon ou au pochoir pour permettre à
nos successeurs, même s’ils n’ont pas accès au dossier de
restauration, de reconnaître les pièces ‘neuves’» (ibidem). Si
tratta di una reversibilità intesa come consapevolezza che un
domani possibili e auspicabili miglioramenti tecnici possano
n.42
2011
11
Triumph Bonneville,
prima serie (1959),
a sinistra,
e riedizione nella
linea modern classic
del 2009, a destra,
quest’ultima dotata
di un moderno
impianto d’iniezione
elettronica nascosto
sotto le spoglie
di falsi carburatori
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rendere fattibile quello che oggi è, ancora, considerato impossibile. Anche un vecchio pneumatico d’epoca – oggi inservibile – potrebbe, infatti, un giorno diventare recuperabile
all’uso, magari limitato, di una vettura conservata in un museo,
rappresentando con la sua autenticità pienamente la cultura dell’epoca che lo ha prodotto oltreché un esempio di riferimento per tutti gli studiosi: «Jeter un pneu usé introuvable, c’est décider qu’il n’a aucun intérêt et que jamais les
moyens scientifiques et financiers ne seront disponibles pour
le conserver. C’est en même temps éliminer un élément
essentiel de la liaison au sol du véhicule» (ibidem).
Fino a che punto, allora, si possono considerare storiche
alcune caratteristiche delle vetture non appartenenti alla
loro configurazione originaria? Quando, al contrario, vanno
rimosse perché ingannevoli per la storia o deturpanti per
l’estetica complessiva del veicolo? E, soprattutto, quando
un veicolo cessa di essere originale e diventa una copia o,
ancor peggio, un falso? Il presidente della FIVA, nel districarsi fra questi interrogativi, ha proposto una classificazione che distinguesse innanzitutto fra le diverse tipologie di copie: «D’abord, dans notre vocabulaire, nous utilisons deux mots différents pour désigner des ‘copies’: si la
copie est réalisée par le constructeur du véhicule original, nous l’appelons ‘réplique’, si par contre elle est fabriquée par un tiers, elle est qualifiée de ‘reproduction’»
(Michel de Thomasson, La FIVA, sa philosophie, son action,
ses craintes, ses espoirs, in Atti…, p. 13). La copia che invece non sia dichiarata come tale è da considerarsi un ‘falso’:
«Si ce n’est pas le cas, si la reproduction porte le nom
du véhicule original, il s’agit alors d’un faux que nous ne
voulons absolument pas considérer comme pouvant être
confondu avec l’original appartenant à notre patrimoine»
(ibidem).
Si tratta, in sostanza, del timido affacciarsi di concetti ben
conosciuti dalla dottrina del restauro, quali la notorietà
delle aggiunte o la realizzazione, a fini didattici, di repliche
di quanto perduto. È questo, però, un punto dolente sul
quale non tutti si sono dichiarati d’accordo, specialmente i rappresentanti delle principali case automobilistiche
che hanno interessi ben diversi da quelli dei collezionisti
privati. Molte repliche, alle volte anche assai fantasiose in
alcune parti, sono infatti realizzate dalle stesse case automobilistiche a fini pubblicitari e dimostrativi, come apertamente dichiarato dal responsabile di un’importante casa
automobilistica tedesca bisognosa d’esporre a ogni costo
le repliche di alcune vetture irrimediabilmente distrutte
nella Seconda Guerra Mondiale: «These cars all disappeared with World War II and are lost forever. But these are
such important cars for us, for Audi, that we decided 3
years ago to rebuilt them and to show out to the public
how we made also race cars, the W24 engine, the gear
box and the chassis are original from the 30’s but the body
is new, it was made only from photographs» (Thomas
Franck, The automobile, cultural heritage and industrial memory,
in Atti…, p. 53). L’importante, certo, è che sia ben dichia-
rato che si tratti di copie e non d’autentici oggetti storici: «I think the factories have to prove their heritage and
if they cannot find original cars, they have the right to
produce replicas. We try to have in our collection original cars and if they’re not in the original condition we
restore them as we have done in the past. Best is original, second best a replica. But you have to tell the public
that’s a replica, not the original!» (Ivi, p. 55). Per far questo
è necessario che le riproduzioni non possano oggi, né
tantomeno in un futuro prossimo, trascorsi gli anni necessari all’iscrizione al registro storico, diventare a loro volta
oggetti di storia: «Notons enfin qu’une ‘reproduction’ ne
peut devenir actuellement éligible à la FIVA que lorsqu’elle aura atteint l’âge de 25 ans. Il est donc particulièrement
important que les reproductions connues soient convenablement identifiées de telle sorte qu’elles ne soient
jamais plus tard confondues avec des originaux» (Michel
de Thomasson, in Atti…, p. 16). È questo un punto sul quale
la cultura del mondo dei veicoli d’epoca dimostra come
il dibattito sia ancora allo stadio embrionale: molte posizioni sono, infatti, fra loro in disaccordo, e la maggior parte
dei partecipanti al convegno ritiene che una simile limitazione non valga per le repliche, ovvero per quelle vetture riprodotte dalle stesse case automobilistiche. Non vi
è, di fatto, unitarietà di vedute sulla scelta dei princìpi ai
quali uniformarsi.
Princìpi ai quali, secondo alcuni, dovrebbe informarsi anche
la stessa produzione di oggetti nuovi. Il capo design della
Citroën, per esempio, all’interno dello stesso convegno
ha richiamato l’attenzione sul significato dell’autenticità
nelle nuove vetture.
Nel mondo del design si registra, infatti, da almeno una
decina d’anni, una tendenza preoccupante alla rinuncia di
nuove espressioni contemporanee, preferendo spesso
ripiegare su forme e stilemi di sicuro successo riprese
da oggetti cult del recente passato. Spesso non si tratta di
semplici citazioni né di nuove reinterpretazioni ma, il più
delle volte, di oggetti tecnologicamente contemporanei
mascherati da un abito retrò. È il fenomeno del cosiddetto modern classic, ovvero di quelle icone della produzione industriale che in questi ultimi anni sono state portate a nuova vita, a partire dalla riedizione dello storico
Maggiolino della Volkswagen (il New Beetle del 1998) sino
a quella dell’altrettanto celebre FIAT 500 nel 2007 o alla
nuova edizione dell’Alfa Romeo Giulietta nel 2010, solo
per citare le più note. In campo motociclistico il caso più
significativo è rappresentato dalla rimessa in produzione, a partire dal 2001, della Triumph Bonneville, una moto
aggiornata e tecnicamente migliorata, ma stilisticamente
fedele alle linee anacronistiche delle prima edizione del
lontano 1959. L’aspetto rilevante è che in passato simili
operazioni commerciali di recupero stilistico non erano
condotte dai creatori dei modelli originari, ma relegate a
un mercato più economico ed etichettate come operazioni di evidente plagio, almeno sino ai primi anni Novanta
(cfr. Fulvio Carmagnola, Il falso antico, in «Ruoteclassiche», IV, aprile
1990, pp. 54-60). Per lo più erano operazioni di appannaggio della
sola industria orientale che, proprio per questo disinvolto copiare
i modelli di maggior successo dell’Occidente, veniva di continuo
tacciata di scarsa creatività. La riedizione di forme e tecnologie
‘copiate’ dichiarava, allora, con ogni evidenza la natura meno ‘aggiornata’ e meno blasonata del veicolo: si pensi alla Mazda Miata, prodotta in Giappone a partire dal 1989 che, se nelle linee rappresentava
un vero e proprio clone della Lotus Elan degli anni Sessanta, nello
schema del motore riproponeva quello delle Alfa Romeo del dopoguerra (il famoso bialbero, in produzione per oltre quarant’anni)
mentre nel disegno delle ruote ricalcava fedelmente quelle delle
Mini Cooper vincitrici al Rally di Montecarlo negli anni Sessanta. La
riedizione di un modello del passato assume però un aspetto del
tutto diverso se a farla è il produttore originale, come avviene di
sovente nell’industria del design, dove si commercializzano nuovamente oggetti ormai fuori produzione da molti anni, a seguito di
una palese richiesta del mercato. Gli esempi sono moltissimi: si pensi
alla seduta Barcellona di Mies Van der Rohe (replicata da una miriade
di produttori diversi), alla lampada Arco di Achille Castiglioni o alla
radio Cubo di Marco Zanuso e Richard Sapper (ancor oggi commercializzata dalla stessa Brionvega, nelle medesime forme seppure con
‘contenuti’ tecnologicamente aggiornati).
Quello che desta maggior preoccupazione, soprattutto per la conservazione degli oggetti storici autentici, è proprio l’aggiornamento
tecnologico associato a un involucro che nell’estetica riecheggia, se
non addirittura riproduce, quella delle prime edizioni. Il concetto
che si legittima così facendo è che l’unica cosa importante è l’involucro esterno.
È questo il segno preoccupante di un’epoca che pur d’inseguire facili successi commerciali rinuncia ad esprimere una propria estetica
contemporanea. Quali ricadute può avere un simile atteggiamento
nei confronti delle preesistenze storicamente connotate? Difficile
dirlo. Alcuni aspetti positivi, quali una rinnovata attenzione verso
le opere del passato, potrebbero essere vanificati da altrettante e
ben più gravi ricadute nel campo del restauro di tutte quelle opere
non sottoposte ad alcun controllo di enti pubblici di tutela. Applicando l’attenzione alle sole parti esteticamente connotate c’è il
rischio che si giunga, come in molti casi accade, a conservare le sola
superficie esterna degli oggetti, perdendo, invece, tutto l’insieme
coerente che ha prodotto proprio quell’aspetto visibile che si vuole
conservare. E ciò vale tanto per i manufatti industriali quanto, ancor
più, per le architetture.
Distinguere la creazione del nuovo dalle copie è assai difficile, in
alcuni casi forse anche inopportuno. Non a caso sul tema delle copie
si sono cimentati spesso anche numerosi artisti moderni, con opinioni anche molto discordanti. Giorgio De Chirico, per esempio,
s’espresse favorevolmente anche a proposito delle repliche delle
sue stesse opere: «La copia che riproduce e interpreti bene un’opera d’arte può anche essere un’opera d’arte, perché la copia, se è
fatta bene, per quanto copia, è un’opera d’arte per forza, non può
essere altrimenti. La copia di un’opera di De Chirico, se fosse fatta
bene, sarebbe una buona copia della mia opera» («L’Europeo», XXV,
30 aprile 1970, p. 39). Marcel Duchamp, invece, fece della banale
riproduzione di uno dei più noti capolavori del passato (La Gioconda
di Leonardo) una delle sue più geniali opere d’arte grazie a una piccola aggiunta: un paio di baffi.
Il tema è assai complesso e stimolante, soprattutto oggi che le nuove
tecnologie sottopongono all’attenzione ulteriori elementi di
complessità. Si pensi, ad esempio, a un artista che usi costantemente media informatici per realizzare le proprie opere: a che titolo e
in che forme si configura ancora un originale autografo? Nel caso
la risposta fosse affermativa sarebbe, allora, lecito interrogarsi nuovamente su quale significato dare alla parola copia.
Una cosa è certa, la cultura del restauro non può rimare estranea
al dibattito contemporaneo perché è sempre bene ricordare che
tutto quanto oggi si produce un giorno non troppo lontano diventerà,
nel peggiore dei casi, una testimonianza storica bisognosa di cure e
attenzioni competenti.
A.P.C.
Il Santuario della
nel Parco di Veio
Madonna del Sorbo
Un sito culturale da salvaguardare e valorizzare
beni
culturali a cura di Maria Giulia Picchione
L
n.42
2011
14
a rilevanza storico-artistica,
ma anche paesaggistica, del
complesso monumentale della Madonna del Sorbo – riferimento storico, religioso e culturale di notevole importanza per l’ambito territoriale oggi ricompreso nel Parco di Veio, e non solo
– è stata di recente acclarata con il
decreto ministeriale del 22 novembre
2010, che nel dispositivo «decreta il
complesso immobiliare denominato
“Santuario della Madonna del Sorbo”
sito in Campagnano di Roma (RM), loc.
Le Piane, Strada del Sorbo, snc, meglio
individuato nelle premesse e descritto
negli allegati, di interesse storico-artistico ai sensi dell’art. 10, comma 1, del
DLgs 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche e integrazioni, e conseguentemente sottoposto a tutte le
disposizioni di tutela contenute nel
predetto decreto legislativo».
In aper tura:
il catino absidale
del Santuario
di Santa Maria
del Sorbo
A destra:
veduta
del Santuario
in una foto
del 1971
e il complesso
di recente
restaurato
L’interesse storico-artistico del complesso – che ha rappresentato nei vari
periodi storici, per vari aspetti, un sito
“strategico” di notevole valenza culturale – prima riconosciuto ope legis ai
sensi dell’art. 10, comma 1, del decreto
legislativo n. 42 del 2004, è stato infatti
di recente oggetto, in seguito a verifica
effettuata ai sensi dell’art. 12 del medesimo decreto, dell’emanazione dell’apposito decreto di vincolo sopra citato.
Situato in un contesto paesaggistico di
non comune bellezza – nell’area del “cratere del Sorbo”,frequentata sin dall’epoca preistorica e urbanizzata in epoca
etrusca e romana, come mostrano le testimonianze archeologiche e i tracciati
viari risalenti a tali periodi, ancora in uso
– il complesso monumentale sovrasta,
con coreografica spettacolarità, la valle
del Sorbo, solcata in tutta la sua lunghezza dal corso del torrente Crèmera.
Il santuario, e il complesso di edifici che
ne fa parte, si trova infatti arroccato su
di uno sperone roccioso, posto a quota
222 m sul livello del mare, dove l’erosione millenaria del fiume Crèmera ha
creato le suggestive gole che oltre a rendere il luogo naturalmente ben difeso
lo ha caratterizzato conferendogli un
raro valore di naturalità per la contestuale presenza sia di beni di interesse
naturalistico che di specificità geomorfologiche e vegetazionali.
Le prime notizie storiche del sito si hanno nel diploma di Ottone III, datato
31 maggio 996 d.C., diretto al Monastero di Sant’Alessio, assegnatario del
bene, dove si parla del «Castellum quod
dicitur Sorbi», un centro fortificato frutto del vasto processo di incastellamento sviluppatosi nel X secolo, in maniera particolarmente capillare, nel Lazio
settentrionale.
Successivamente a tale data, nel corso
dei secoli, il “complesso” viene sempre menzionato nelle fonti documentali come castello,1 fino al 1427, anno
in cui Martino V permette ai frati del
Carmelo di erigere un monastero presso la chiesa intitolata alla Beatae Mariae
Castri Sorbi.
Tra i documenti dell’Archivio Orsini
compaiono degli atti, datati 1433, che
testimoniano il castellum medievale
come un centro indipendente e organizzato in maniera autonoma. Fonti documentali attestano, infatti, che nella
prima metà del XIV secolo il castellum
poteva contare una popolazione di qualche decina di persone ed era sottoposto a una tassazione pari a 5 rubbia di
sale a semestre.2
Dal punto di vista architettonico e strutturale suffragano tale ipotesi alcune porzioni di murature rinvenute all’interno
delle strutture quattrocentesche del
convento, pertinenti una fase di occupazione precedente.
L’analisi storica delle strutture murarie
ha infatti permesso di rilevare, sul lato
orientale del pianoro, tracce di un cinta
muraria in blocchi di tufo quadrangolari appena sbozzati, impostati sullo sperone naturale (riconducibili probabilmente a una struttura quadrangolare
che fungeva da torre di avvistamento)
e lacerti di muratura a sacco, con tracce di intonaco, rinvenuti in un ambiente
interno alla cinta, databili, in base alla
tecnica costruttiva utilizzata, alla stessa
epoca e cioè tra il XII e il XIII secolo.
Alla fine del 1400, secondo il bilancio
della Camera Apostolica per il 14801481, il Sorbo risulta non fornire più
alcuna rendita, dato che lascia legittimamente dedurre che il castrum Sorbi,
per ragioni non note, vedesse praticamente ormai inesistente la sua popolazione, o almeno che questa fosse
copiosamente diminuita al punto da
ritenersi trascurabile. E infatti, come si
legge nella pubblicazione, a partire dal
1451 il castrum Sorbi scompare dall’elenco delle comunità del districtus Urbis (registro riportante l’elenco delle comunità sottoposte alla tassa del sale e del
focatico).
Tali elementi storici e il precedente
passaggio da castrum a semplice tenuta ci confermano la fine della funzione
civile del complesso del Sorbo.
Da quest’ultimo periodo, e sino alla seconda metà del XIX secolo, alla storia
del Castellum dicitur Sorbi si sostituirà
quella del Convento della Madonna del
Sorbo, retto da monastici appartenenti
all’ordine dei Frati Carmelitani Calzati.
Per quanto riguarda l’edificazione della
chiesa, in particolare, e i lavori effettuati sul preesistente “castello”, F. La
Ragione nel suo Profili storici di Formello
scrive: «La fabrica del Santuario del
Sorbo venne iniziata a spese del Nostro Comune… Sulla porta di esso vi
è inciso l’anno 1487. In seguito il Comune di Campagnano concorse nella
spesa che deve essere stata rilevante»,
andando forse ad alimentare ancor di
più la disputa tra Campagnano e Formello, nata insieme alla leggenda, sulla
potestà del santuario. Tuttavia, la data
di fine lavori è incisa nell’architrave dell’ingresso della chiesa, ed è confermata
anche dalle fonti.
L’8 giugno 1501 Giovanni Giordano
Orsini, proprietario del posto, dona al
Convento del Sorbo «monti, valli, colli,
piani, piagge, pendenze di acque, fratte, fiumi, fonti, e tutte l’altre adiacenze
incominciando dal ponte, fino ai termini designati da spaziosi confini, per un
totale di 10 rubbia di terre».3
In un documento conservato presso
l’Archivio Storico Comunale di Campagnano, datato 16 gennaio 1566, è redatto un inventario dei beni immobili
dei Padri Carmelitani Calzati di Santa
Maria del Sorbo dove risulta: «Al Nome
di Dio Amen Desiderando il Reverendissimo Padre Prior del Convento di
Santa Maria del Sorbo dell’Ordine Carmelitano Blasius Bertorius, con auctorità de suoi superiori rinnovar l’inventario de tutti i beni spettanti a detta
chiesa tanto esistenti nel territorio di
Campagnano, quanto che di Formello;
et acciochè mai per tempo alcuno, persona veruna possa pretendere ignorantia ne gravarsene in modo alcuno».
A questo seguono l’elenco e la descrizione dei beni, in latino, del convento
di Santa Maria del Sorbo nell’Agro di
Formello prima, e nell’Agro di Campagnano, poi.
Ancora, nello stesso archivio compare
un altro documento del 20 aprile 1570
dove i conti di Campagnano vendono a
favore del Convento e dei Padri Carmelitani della Madonna Santissima del
Sorbo «due rubia e quarte tre e mezzo
di terreno nella contrada Cerrai per il
prezzo di 55 scudi e 90 baiocchi». Nel
decennio successivo compaiono vari
altri documenti come questo, sempre
riguardanti vendite o donazione in favore del Convento del Sorbo da parte
delle famiglie nobili del luogo.
Successivamente a tale data si ha una
rappresentazione del complesso del
Sorbo al 1660 nel Catasto Alessandrino:
nella tavola rappresentante il Casale del
Bosco, vengono raffigurate in dettaglio
l’Osteria di Baccano e il Santuario della
Madonna del Sorbo. Il complesso appare con il campanile e la chiesa rappresentata a unica navata, ancora priva
del corpo antistante. Il convento è rappresentato, invece, sul retro, al di sopra
dei bastioni medievali.4 Nello stesso
anno è sancita da parte del papa Alessandro VII la vendita del Comune di
Campagnano, insieme a Formello, Cerveteri, Sacrofano, Bracciano e Trevignano da parte della famiglia Orsini in
favore delle famiglie Colonna e Chigi.
Nel XVII secolo vengono infine menzionati dei lavori commissionati da Flavio
Chigi, nipote di papa Alessandro VII,
a Carlo Fontana e al pittore Paolo
Albertoni che intervennero all’interno
della chiesa.5
Nel XVIII secolo nel complesso del
santuario vengono sicuramente effettuati dei lavori, come attestano le date
1712 e 1754 riportate sui muri degli
edifici a ricordo delle sistemazioni
realizzate.6
L’ultima data riportata dalle fonti risale al 4 dicembre 1808, quando Paolo
Angeloni, parroco della collegiata, rappresenta alla Sacra Congregazione del
Buon Governo che sono necessari i
lavori di consolidamento nelle chiese
di San Sebastiano, San Rocco e della
Madonna del Sorbo a Monterazzano,
allegando le perizie del tecnico Vincenzo Carnevali: «Attesto Io sottoscritto
Arciprete e Parroco della chiesa Collegiata di San Giovanni di questa Terra
di Campagnano Diocesi di Nepi, come
delle chiese di SS. Sebastiano e Rocco
e l’altra della Madonna del Sorbo, sono
juspatronato da questa Comunità, e
perché senza dote sotto la manutenzione in tutto della medesima».7
Evidentemente tali lavori portarono
alla conformazione del complesso del
santuario rappresentato nel foglio del
Catasto Gregoriano datato 1819, con
l’impianto a cuspide. Da notare soprattutto la presenza dei resti medievali
posti di fronte alla chiesa, rappresentata ora a tre navi, con affiancata ai lati
la sacrestia e le celle.
Il Santuario
del Sorbo visto
dal satellite
(fonte: GoogleEarth)
n.42
2011
15
Mappa
di Monterazzano,
sez. IV
di Campagnano
A destra:
mappa del Catasto
Alessandrino,
Bosco di Baccano,
1660, particolare
(Archivio di Stato
di Roma)
Sotto:
pianta dei terreni
adiacenti al
Convento del Sorbo
(Biblioteca
Apostolica Vaticana,
“Archivio Chigi”,
fasc. 18364, tav. 107)
Come ogni santuario, anche quello
della Madonna del Sorbo ha la sua leggenda di fondazione, intendendo per
leggenda non un racconto fantasioso
o privo di attendibilità, ma la narrazione del momento fondante del sito religioso, di quell’evento che ha dato ori-
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2011
16
gine al culto in un determinato luogo,
divenuto poi meta di pellegrinaggio.
Le varie fonti di stampa ricalcano, in
forma più o meno amplificata e fiorita,
ma muovendosi sulla stessa falsariga,
il medesimo evento miracoloso tramandato fino ai nostri giorni: «Nella
terra di Formello, quando nel 1400
stava sotto il dominio della nobilissima casa Orsini, viveva un pover’uomo,
attendeva alla guardia di una greggia di
porci. Osservò che una scrofa, sola se
ne saliva al monticello (imboschito, e
come posto in isola, da un placido ruscello che tutto il circonda fuor che da
una parte, da cui in quel tempo per un
picciol sentiero nell’alto di esso ascendevasi) – il monticello è l’attuale pianoro roccioso dove si trova il santuario
del Sorbo – e dopo più giorni fece pensiero di sapere dove andasse. Mosso
da curiosità, un giorno le tenne dietro.
Nel seguirla per le sue pedate, si trovò
asceso nella sommità della collina, dove
il folto albereto formava un gran bosco,
e nel mezzo cresceva un grosso sorbo,
ai piedi appunto del Sorbo, vidde la
sua scrofetta posta con le zampe di
dietro inginocchioni e con quelle davanti sollevate, ed alzando gli occhi,
vide tra i rami una tavola antica dipinta
con una maestosa e divota immagine
della Madre di Dio, s’inginocchiò ancor
lui riverente ad adorarla. Gli parlò da
quel quadro la Vergine e gli disse che
andasse nella terra più vicina, e facesse
noto a quel popolo, che Lei Regina del
Paradiso, si aveva eletto quel luogo,
perché in suo nome vi si fabricasse una
chiesa. E pertanto che si portassero
ivi in processione a riconoscerla per
Padrona, promettendogli che l’avrebbero avuta per Protettrice nei loro
bisogni, e se la gente ricusa di crederti,
poni il braccio monco nella catana che
ti pende dal fianco, che ne caverai bello,
ed intero con quella mano, lui si portò
a Formello, andò a trovare gli anziani
del Comune e gli fece l’imbasciata commessagli. Se ne risero e che si che me
lo crederete pose tosto il braccio mutilato nello zaino, indi a poco, ne lo cavò
fuori tutto intero con la sua mano, dicendo:“Questa mano, me l’ha data la
Madre di Dio, e questo è il segno, qual’acciò mi crediate, vi manda la madonna, che nel monticello dell’isola mi ha
parlato dal Sorbo e la volontà, e comando di nostra signora era, che in quel
lungo le fosse fabbricata una chiesa,
Santuario del Sorbo,
vista del complesso
in una foto della
metà del sec. XX
(Archivio Comunale
di Formello)
A sinistra:
cartolina stampata
nel 1925
(Arch. Gen. O. Carm.,
Fototeca, C 338)
concorse alla fabrica anco l’università
di Campagnano”».
Da quell’anno, e sino a oggi, sia la popolazione di Formello che quella di
Campagnano si recano al santuario, la
prima il secondo giorno dopo Pasqua
e la seconda il primo. Anticamente
l’andata al Sorbo avveniva nello stesso
giorno per entrambi i paesi, «nel secondo giorno di Pasqua di Resurrezione,
e chi arrivasse primo processionalmente entrava in chiesa a far riverenza a
quella gloriosa immagine, e tornava poi
A fianco:
Santuario del Sorbo.
Foto aerea
risalente agli anni
Sessanta.
Si notano i crolli
della navata
centrale della
chiesa e l’avanzato
stato di degrado
del complesso
(Archivio Fotografico
della Sovrintendenza
ai Beni Storici
Artistici e
Demoantropologici
del Lazio)
fora, aspettava l’altra compagnia non
venuta e d’accordo entravano assieme
a celebrare la Santa Messa. Ma ciò alla
fine disturbato da maleodi si rinnovò
l’inamicizia e disordine, talché ognuno
andava sotto sacchi bene armato, et in
quest’anno particolarmente del 1592
o poco prima, arrivata la compagnia di
Campagnano prima al convento, entrò
senza aspettare, e cominciò a celebrare
la messa, ma sopravvenendo quella di
Formello si sollevò subito bisbiglio; ma
accorgendosi poi li formellesi del torto
In basso a sinistra:
planimetria
generale e sezione
longitudinale
prima del recente
inter vento
di recupero
e di ricostruzione
del convento
fattogli… (decisero di convocare un
consiglio) nel quale venne stabilito…
che la comunità di Formello vi era in
pacifico possesso per molte centinaia
di anni, e che li beni sono maggiormente nel territorio di Formello, e che la
chiesa stessa in certi versi faceva menzione di Formello et essere già stato
ordinato da Paolo Orsini, dal cardinale Pinelli protettore di quelli padri del
Sorbo… Che si continuasse il possesso… Fu ordinato di 23 Febbraro 1592
che… (solo la compagnia di Formello
potesse andare al Sorbo il secondo
giorno dopo Pasqua, mentre quella di
Campagnano venne spostata al giorno
precedente)».8
Una tradizione viva fino a non molti
anni fa, quando ancora l’andata al Sorbo,
si legge nei testi che narrano della tradizione popolare, avveniva in processione: la popolazione vi si recava, preceduta dalle autorità religiose e civili e
dalle confraternite, alloggiate e ristorate dai frati a spese della comunità stessa,
e vi rimaneva, per il giorno intero assistendo anche alla messa del vespero.
Ed è proprio con l’inizio della tradizione devozionale, avvenuta nel XV secolo,
che il nucleo originario del complesso,
risalente all’età medievale, assume «una
fisionomia più coerente con le finalità
n.42
2011
17
A destra:
navata centrale
della chiesa
e particolare
dell’affresco
del catino absidale
Sotto:
Campagnano.
Complesso
di Santa Maria
del Sorbo.
Campanile.
Particolare
della finestrella
ovale ricavata
nel singolo
concio tufaceo
(fine sec. XVII)
n.42
2011
18
religiose e, sotto l’istanza della richiesta
inoltrata dalla Vergine dell’apparizione,
viene avviata la riconfigurazione della
struttura chiesastica primitiva, di presumibile origine tardo altomedievale,
come attesterebbero le murature di lavorazione medievale rintracciate dietro l’abside in un restauro del 1966.
Nel 1425, nominata come Beatae
Mariae Castri Sorbi, la chiesa viene affidata da Martino V alla cura della Provincia romana dei Carmelitani, che ottengono la facoltà di dar luogo alla
costruzione di un convento, sotto
l’autorizzazione del cardinal Giordano
Orsini, allora vescovo di Albano. Nel
1432 sono registrati i primi lavori,
forse con l’impiego di materiale di recupero proveniente dalla zona archeologica romana d’età imperiale di Monte
Castagno».9
Nei secoli successivi, con vari interventi
di ampliamento, il monumento assume
la configurazione finale.
Il Santuario della Madonna del Sorbo
è costituito, oltre che dalla chiesa, da alcuni edifici databili intorno tra il XVII e
il XVIII secolo, disposti su diversi livelli.
Dalla strada, a valle, vi si accede o attraverso una scalinata, che raggiunge la
piazzetta posta al secondo livello, o
dalla stradina che, costeggiando la rupe,
arriva al piazzale posto al terzo livello:
il punto più alto del sito, dove è stata
edificata la chiesa.
Il complesso è impostato secondo un
semplice impianto volumetrico che parte dall’edificio centrale della chiesa,
intorno al quale si articolano, lungo i
lati settentrionale e orientale e a livelli
diversi, con un impianto a cuspide, tutti
gli ambienti annessi. Completa l’impianto la sacrestia, addossata al lato sud
della chiesa.10
Nella parte settentrionale del complesso si trovano le celle del Convento dei
Carmelitani, mentre, poco oltre, il refettorio immette su un grande androne
voltato a botte.11
La chiesa prospetta, come accennato,
sulla piazzetta più elevata. Il portale, evidenziato da una semplice cornice in peperino, presenta scolpita sull’architrave la data di edificazione: «A.D. 1487».
L’interno, caratterizzato da un impianto romanico a tre navate, si prospetta
ampio, poco profondo e simmetrico.
La navata centrale è caratterizzata da
dieci colonne costituite da blocchi di tufo
di sezione esagonale lavorati a faccia
liscia, che ne scandiscono le campate.
Sulle colonne si impostano gli archi a
tutto sesto che generano le crociere,
realizzate in muratura, che vanno a
coprire gli spazi delle navate laterali;
la copertura della navata centrale invece è a struttura lignea, realizzata a
capriate.
Sul fondo della navata centrale, oltre
l’altare, si apre il catino absidale, completamente ricoperto da affreschi rappresentanti L’Assunzione della Vergine,
attorniata da tre livelli concentrici di
angeli e santi su uno sfondo campestre
e urbano ideale.
Piccole aperture ubicate al secondo
livello dei divisori delle navate fanno
filtrare la luce soffusa all’interno della
chiesa. Il pavimento è interamente realizzato con lastre di pietra locale.
All’esterno la chiesa, caratterizzata da
un prospetto a “capanna” con ali spioventi più basse, delle quali la sinistra
occultata dall’erezione del nuovo cam-
panile nel 1685 e la destra contraffortata da un consolidamento murario
forse databile al 1708-1709, lascia intuire lo schema basilicale a tre navate; un
portale incorniciato in peperino grigio
lavorato a rilievo sorregge una stretta
e piccola architrave, su cui, come già
detto, sono incisi la data di edificazione
e, al centro, uno stemma araldico entro
un’icona solare. Un finestrone rettangolare sormontato da una piccola apertura di forma ovale, di ventilazione,
forse introdotta con l’esecuzione del
campanile, caratterizzano la parte alta
della facciata.
Sul lato sinistro della facciata si erge il
piccolo campanile, realizzato in blocchi
di tufo litoide e peperino grigio poco
lavorati, anch’esso di origine romanica
ma che attualmente si presenta in forme seicentesche. La sua elevazione,
infatti, «si inserisce nella fabbrica conventuale proprio a cavallo tra la configurazione cinque-seicentesca e i grandi
ampliamenti settecenteschi, innestandosi come riferimento distributivo e
modulare in uno snodo di connessione
tra la chiesa, la primitiva manica conventuale e il nuovo sviluppo longitudinale del convento».12 Impostato su una
base quadrata che replica la maglia
delle campate delle navate laterali della
chiesa, la torre campanaria è scompartita su quattro registri di marcapiani
sporgenti ed è scandita da piccoli oculi
ovoidali scolpiti in singoli conci di tufo.
Delle piccole monofore a tutto sesto
lasciano vedere lo spazio in cui sono
alloggiate le campane.
Sempre a sinistra della chiesa, quasi a
voler estendere planimetricamente la
navata settentrionale, si innesta, oltre
al campanile, il corpo della canonica,
pure seicentesca, consistente in un edificio a impianto longitudinale con un
portico a quattro arcate al piano terra,
voltato a crociera, e un unico vano al
piano superiore, il cui prospetto è caratterizzato da semplici aperture rettangolari che poggiano su una timida
fascia marcadavanzale.
L’articolazione spaziale dei tre volumi
si caratterizza così come un complesso
architettonico unitario, ben risolto grazie alla razionalità dell’impianto planimetrico e all’articolazione dei volumi.
Intorno al corpo basilicale si articolano,
come accennato, impostati sui vari livelli, tutti gli altri spazi annessi al complesso, originariamente destinati a convento, che, con impianto a “V”, cingono,
attestandosi sul crinale roccioso, la
chiesa sui lati settentrionale e orientale, nascondendone l’abside. Si tratta
di una serie di spazi concatenati e serviti da un corridoio di collegamento,
secondo uno schema tipologico tradizionale dell’architettura monastica.
A sud l’intero complesso sorge, come
accennato nella parte storica, su un
monumentale contrafforte realizzato
in blocchi litoidi di forma quadrangolare con la superficie appena sbozzata
che crea uno scenario molto suggestivo insieme alle pareti rocciose naturali
circostanti.
Di notevole interesse sono i resti di
muratura dell’antico borgo medievale
abbandonato situati di fronte alla chiesa, che oggi ospitano una zona di devozione alla Madonna.
Dopo un periodo di grave abbandono,
durante il quale il complesso, e in particolare la chiesa, ha subito spoliazioni
di ogni genere ed entità, il complesso
è stato sottoposto negli ultimi anni, a
partire dall’anno 2002 – in base all’Accordo di programma quadro “aree sensibili: parchi e riserve” APQ7 – a ingenti
lavori di recupero, restauro, ma anche
di ricostruzione degli ambienti conventuali pressoché distrutti, con lo scopo
di attribuire al monumento, ferme restando le attività di culto e religiose
che gli sono proprie, destinazioni d’uso
collegate, in prospettiva, alle funzioni
e alle competenze del Parco di Veio,
tra cui quelle di accoglienza, studio e
ricerca.
Seppur foriero di interrogativi circa
l’ammissibilità storica delle ricostruzioni effettuate, si può dire che l’intervento, anche se non ancora ultimato,
ha il fine di recuperare all’uso un sito
caro alla memoria collettiva delle comunità locali.
Certamente, affinché possa realizzarsi
tale obiettivo è necessario predisporre un concreto progetto di fruizione
e valorizzazione, condiviso da tutti i
soggetti interessati, mediante la redazione di un piano strategico che, nel
rispetto delle peculiari caratteristiche
del bene culturale e delle sue esigenze
di conservazione, individui obiettivi,
risorse, strumenti, condizioni d’uso, e
soprattutto compiti e ruoli dei vari enti
che, a vario titolo, sono comunque
coinvolti nell’attuazione dello stesso
progetto.
Ad oggi, infatti, anche a causa del “non
uso” della parte già restaurata, il complesso denuncia, nella zona della canonica e della foresteria, la necessità di interventi di restauro e di consolidamento
(legati, ad esempio, ai fenomeni di umidità di risalita nelle murature, alle lesioni
nei pavimenti al piano terra, alla mancanza di manutenzione di alcuni infissi esterni), interventi che occorre effettuare a
breve termine per scongiurare un fenomeno di degrado ben più preoccupante.
Il notevole onere finanziario che l’intervento ha comportato, la rilevanza
storico-artistica del complesso, il significato che per secoli lo stesso ha costituito, e costituisce tuttora, in ambito
territoriale, sia sotto il profilo religioso
che storico-artistico, richiedono quindi un impegno fattivo di tutti gli enti
(amministrazioni statali, Comune, Università Agraria, Parco di Veio) coinvolti
nella salvaguardia del bene culturale e
più in generale del sito.
Pensare, a tal fine, di inserire il complesso monumentale in un circuito religioso-culturale d’ambito quanto meno provinciale, se non addirittura regionale,
potrebbe rappresentare il volano per
restituire al Santuario della Madonna
del Sorbo quel ruolo strategico che storicamente gli appartiene, costituendo
al tempo stesso un indubbio elemento
di crescita economica per il bacino territoriale d’influenza.
Santuario di Santa Maria del Sorbo, particolare della facciata allo stato attuale
M.G. P.
NOTE
1
Annapaola Mosca, in Via Cassia. Un sistema
stradale tra Roma e Firenze: «…e ancora in
una istanza rivolta a Innocenzo III dai monaci di S. Paolo per il recupero di vari castelli
e tra questi quello del Sorbo; in ultimo lo
troviamo citato in una lettera di Onorio III
rivolta al monastero di S. Alessio».
2
Giuseppe Tomassetti, Della Campagna Romana nel Medio Evo, 1885.
3
Cfr. Documentazione Archivio Orsini, atto
di donazione 8 giugno 1501.
4
Cfr. Catasto Alessandrino, Archivio di Stato
di Roma, Pianta da Roma a Viterbo, III
tracciato.
5
Cfr. nota 3.
6
Cfr. nota 3.
7
Cfr. Archivio Storico Comunale del Comune
di Campagnano.
8
Lares,Volume 41, Comitato nazionale per le
tradizioni popolari, Comitato nazionale italiano per le arti popolari, Società di etnografia
italiana, Università di Roma. Istituto di storia
delle tradizioni popolari, Università di Bari.
Istituto di storia delle tradizioni popolari,
Federazione italiani arti e tradizioni popolari.
9
Saverio Sturm, Architettura e significato del
Santuario del Sorbo, in Lanfranco Mazzotti
e Mario Sciarra (a cura di), Il Santuario della
Madonna del Sorbo, Gangemi Editore, Roma.
10
«Italia Nostra», anno 1968, n. 57 e n. 70.
11
Giuseppe De Luca, Roma 1951, Archivio
Italiano per la Storia delle pietà.
12
Saverio Sturm, op. cit.
n.42
2011
19
Il Parco dei Germogli
nel Parco Manzù
ad Acilia
Sotto:
giardino spot
a Ponte di ferro nel
quartiere Marconi
Zappata Romana!
Orti e giardini condivisi
spazi
aperti a cura di Luca D’Eusebio
L
n.42
2011
20
o spazio pubblico è al centro della riflessione
sulla città. Nella X Biennale di Architettura di
Venezia del 2008 la città di Bogotà ha vinto il Leone d’Oro,
il massimo riconoscimento previsto per i progetti sullo spazio pubblico, e nell’ultima Biennale del 2010 quasi tutti i Paesi
espositori hanno scelto lo spazio pubblico come oggetto
della narrazione della propria realtà nazionale. Il motivo di
queste scelte è semplice: le città, ovvero i luoghi dove si concentra la maggior parte della popolazione della Terra, sono
fatte di spazio pubblico. Pensare lo spazio pubblico è un
modo per riflettere sul nostro tempo, perché lo spazio pubblico ha un valore sociale ed è una rappresentazione simbolica della comunità. La società si palesa dove, quando e se ci
sono relazioni, associazioni, luoghi e occasioni d’incontro.
Con il lavoro di ricerca chiamato Zappata Romana, è stato
riportato su mappa un fenomeno poco noto, ma in forte
crescita a Roma, che riguarda la costruzione da parte dei
cittadini di nuovi spazi urbani operando su aree abbandonate, incolte, di risulta. La mappa Zappata Romana è disponibile a tutti on-line (www.urbanarchitectureproject.org). In essa vi
sono oltre 50 aree costituite da giardini e orti in cui i cittadini hanno curato la realizzazione o curano la manutenzione secondo un progetto comune e condiviso. La condivisione della gestione da parte dei cittadini è il tratto distintivo
di questo fenomeno in forte espansione – nascono circa
due nuove aree al mese – rispetto a fenomeni simili quali gli
orti urbani romani “tradizionali”, abusivi e di lunga storia
(dagli orti dei ferrovieri a quelli di guerra), che secondo un
recente censimento del Comune di Roma risultano essere
circa 2.500 distribuiti su 65 siti.
Roma sembra ricalcare le orme di Parigi, Londra e altre capitali europee dove aree abbandonate o parchi senza manutenzione, in centro e in periferia, sono il campo di sperimentazione di nuovi spazi pubblici di relazione a contatto con la
natura. L’ultima stagione dell’urbanistica romana è caratterizzata dall’azione di cittadini che si mettono insieme per
recuperare gli spazi abbandonati al fine di realizzare piccoli
orti, aree gioco e giardini.
Le motivazioni dietro a questo fenomeno, citate in diversi articoli sugli orti e i giardini condivisi, sono in parte “globali” (la
moda lanciata da Michelle Obama degli orti, la crisi economica, la necessità di un rinnovato rapporto con la natura), ma
in parte prendono spunto da situazioni particolari di Roma.
Anzitutto non si deve trascurare il fatto che la spesa media
Orto didattico
del Farmer’s Market
nell’ex Mercato del
Pesce ebraico realizzato
da Campagna Amica
per attività
didattiche.
sostenuta per la cura del verde urbano a Roma è di 1,22 €/mq
contro i 5,07 €/mq di Parigi e i risultati sono evidenti. Inoltre
vi è una ricorrenza con la forma urbis testimoniata anche
dalla Mappa del Nolli del 1748 in cui la città costruita è
inscindibile dagli orti dentro e fuori le mura.
Il motivo principale dell’esplosione di questo fenomeno a
Roma, e la sua distinzione anche con quanto avvenuto in
passato, è dato dall’opportunità che i giardini e orti condivisi rappresentano per fare “altro”. Mentre in città per
motivi contingenti di natura politica ed economica si regista un restringimento degli spazi di socialità e cultura, un
piccolo spazio condiviso conquistato da un gruppo di cittadini costituisce lo spunto per la realizzazione concreta di
un gran numero di iniziative diverse.
Queste esperienze, a differenza di quanto avveniva in passato, coinvolgono ampie fasce di cittadini, costituendo una
potenzialità per la costruzione di nuove relazioni sociali in
contesti periferici: centri anziani, parrocchie, gruppi scout,
associazioni sociali e ambientaliste, diversamente abili, giovani, donne e anziani. Sono spazi che rispondono all’esigenza di “fare comunità” e offrono un’alternativa alle categorie sociali emarginate dalla società moderna, fornendo
occasioni di integrazione con immigrati e pratiche per
l’educazione ad attività ambientali sostenibili.
A San Lorenzo, storico quartiere centrale, tre associazioni
hanno strappato un fazzoletto di terreno ai privati per
costruire un’area di socialità realizzando un parco giochi, un
orto, spazi per la convivialità.Alla Garbatella le associazioni
insieme ad alcune famiglie hanno recuperato un’area vicino
alla sede della Regione, in attesa di una trasformazione edilizia, per realizzare gli orti urbani comunitari. Sull’Ardeatina
gli orti comunitari sono realizzati e gestiti dai lavorati
ex Eutelia. A Prato Fiorito un parco urbano gestito da una
cooperativa sociale, costituita nel 2008 con la finalità di
migliorare la qualità della vita nel quartiere, promuove attività finalizzate alla prevenzione e rimozione di situazioni di
disagio sociale e coltiva una vigna utilizzata per produrre
vino e sostenere progetti nei Paesi in via di sviluppo. A Via
della Consolata vi è il primo parco a orti urbani realizzato
dal Comune di Roma con casette per il ricovero attrezzi, fontanelle pubbliche, panchine e cestini per i rifiuti.
Coltivatorre è un orto biologico gestito da ragazzi/e disabili e “non”, avviato fin dal 1997 nel Parco dell’Aniene proprio
sotto La Torre del CSOA omonimo. Il parco di Via Orazio
Vecchi è gestito dal gruppo degli Scout Nautici “Antares”.
Giardino “spot”
a Tor Bella Monaca
realizzato
dai giardinieri
sovversivi romani.
La Fattorietta
è un progetto
dell’associazione
“Passeggiata
del Gelsomino” su
un terreno di circa
4 ha.
A Piazza Bozzi la riqualificazione di uno sterrato ha permesso la realizzazione di un campo di calcio e l’avvio di attività sociali, educative e sportive a disposizione di tutti. Il
giardino condiviso alla Città dell’Utopia è l’esito della collaborazione tra Servizio Civile Internazionale e l’Associazione Romana di Erboristi di “Monte dei Cocci” con lo
scopo di gestire e curare l’area verde intorno al Casale
Garibaldi coinvolgendo i cittadini del quartiere.
Tali iniziative rappresentano dunque una risorsa preziosa per
una città come Roma che deve amministrare un territorio
così ampio. Si tratta di un fenomeno importante che andrebbe valorizzato e incentivato dando regole certe e sostegno
in cambio della manutenzione e animazione delle aree.
Zappata Romana con la sua mappa che riporta fotografie e
descrizioni di ciascun giardino registra il fenomeno nella sua
complessa articolazione e quantità. Lungi dall’essere una fotografia esaustiva di tutto ciò che esiste, costituisce però un riferimento per chi s’interessa a queste realtà e cerca al contempo di sopperire alla mancanza di una rete comune.Tale rete
si sta sviluppando non solo a livello cittadino ma anche con
altre città come Milano con il suo Orto diffuso, che ha messo
in piedi una rete fra gli orti e un calendario di incontri per
scambi e diffusione dei saperi fra i “cittadini coltivatori”.
Silvia Cioli e L. D. E.
n.42
2011
21
Le Corbusier ritrae se stesso
L
percorsi
lecorbusieriani a cura di Valerio Casali
Prima colonna:
Le Corbusier
fotografato negli
anni ’40 del 1900
n.42
2011
22
Charles-Edouard
Jeanneret,
autoritratto
(album di disegni
n. 10, 1917), mina
di piombo, gessetto
grasso nero e
acquarelli su carta,
27 x 34 cm, non
firmato, non datato
Seconda colonna:
Charles-Edouard
Jeanneret,
autoritratto
(album di disegni
n. 3, 1918-1919),
mina di piombo
su carta,
21,6 x 26,7 cm, non
firmato, non datato
Terza colonna:
FLC 0235
Le Corbusier,
autoritratto, matita
su carta da schizzi,
21 x 27 cm, non
firmato, non datato
Le Corbusier,
autoritratto,
penna stilografica
su carta,
21 x 27 cm,
firmato in basso
a destra «L-C»,
non datato
e Corbusier ha più volte ritratto se stesso, ma i suoi
autoritratti non sono tutti tali nel senso
proprio del termine.
Infatti, se alcuni, in maniera ortodossa,
ritraggono il volto del maestro, altri
mostrano parti del corpo diverse dal
volto – e a esclusione del volto – altri
ancora rappresentano animali o oggetti, che si riferiscono all’architetto e alcuni, infine, rappresentano “altri” uomini,
in qualche modo riconducibili a Le
Corbusier; si tratta di rappresentazioni
simboliche del maestro, che si identifica di volta in volta con esseri, oggetti
o uomini diversi.
Il tema degli autoritratti simbolici è
stato particolarmente caro a Mogens
Krustrup, studioso di eccezione, caro
amico e compagno di ricerca, recentemente scomparso, alla cui memoria
questo breve studio è dedicato.
1.
Ritratto giovanile, risalente al 1917,1
realizzato con tecnica mista, impiegando matita, gessetto grasso nero e acquerello; si tratta di una veduta di tre
quarti, con il volto girato verso sinistra
(per l’osservatore), con ombreggiature
“morbide” e curate; la capigliatura folta
e mossa dimostra la giovane età del
soggetto, che più avanti perderà buona
parte dei capelli; la pettinatura non è
già più quella di Jeanneret adolescente
con la riga laterale, ma quella, adottata successivamente, con i capelli all’indietro. Gli occhiali con montatura metallica molto leggera, sono quelli usati
prima che Jeanneret si trasformasse –
nel 1920 – in Le Corbusier.2
In quest’anno 1917 l’architetto lascia
La Chaux-de-Fonds e si trasferisce definitivamente a Parigi, dove probabilmente questo ritratto è stato eseguito.
chiaroscuro, arriva a conclusione con
gli ultimi autoritratti, i nn. 7 e 8.
3.
Questa veduta di tre quarti, col volto
girato verso destra (per l’osservatore),
mostra un’inquadratura più ristretta
rispetto ai nn. 1 e 2, che includono
anche il collo del soggetto, con il papillon o la cravatta; il disegno è realizzato
a matita e impiega una diversa tecnica
di disegno delle ombre, che risultano
“dure”, disegnate a tratti violenti. Gli
occhiali sono quelli dalla montatura
spessa e nera, adottati da Le Corbusier
nella maturità.
Autoritratti veri e propri
Otto disegni ritraggono il volto dell’architetto e sono dunque da considerarsi
autoritratti “ortodossi”:
2.
Ritratto poco più tardo del precedente, eseguito nel 1918-19,3 è una veduta
frontale, disegnata a matita e violentemente ombreggiata. Gli occhiali sono
gli stessi del ritratto n. 1, ma la capigliatura è più composta e l’aspetto più
grave, preoccupato.
I disegni 3/8 non recano alcuna datazione scritta, ma sono databili agli anni
’30 del 1900; sono i lineamenti a dimostrarlo e ancora la capigliatura, ormai
diradata, con l’attaccatura “alta” e i capelli incollati alla testa.Altro elemento
indicatore sono gli occhiali, dalla montatura nera e spessa, adottati dall’architetto dopo gli anni ’20.
Questi disegni costituiscono un gruppo omogeneo, un percorso di ricerca che, tramite il restringimento dell’inquadratura e la semplificazione del
4.
La stessa veduta del ritratto n. 3, disegnata a penna stilografica, che rende
ancora più secco e forte il tratteggio
delle ombre.
Parti del corpo diverse
dal volto
5.
Un ulteriore studio, a mina di piombo;
la posizione è quella dei due ritratti
precedenti, ma con ulteriore restringimento dell’inquadratura, che esclude
la parte posteriore della testa per focalizzarsi esclusivamente sul volto.
Le ombre sono più “impastate”, trattate con lo sfumino o semplicemente passando un dito sulla grafite, che in tal
modo si spande, mostrando con meno
evidenza i segni che compongono l’ombreggiatura.
7.
Con questo disegno a inchiostro blunero, Le Corbusier riutilizza ancora
l’inquadratura “ristretta” definita nei
nn. 5 e 6, ma elimina tutte le ombreggiature, riducendo il ritratto a un solo
contorno, fatto di pochi segni che definiscono i lineamenti, con l’esclusione
di ogni chiaroscuro.
Un’annotazione a matita recita “cattivo” (mauvais), informandoci che l’autore non era soddisfatto del risultato
raggiunto; tale insoddisfazione non è
certamente dovuta alla resa dei lineamenti, ma alle numerose imperfezioni
del segno, che è privo di regolarità e
presenta improvvisi inspessimenti e
rigonfiamenti, probabilmente a causa
della penna e/o del foglio utilizzati.
9. nella mia vasca da bagno : = formazione di un arcipelago
Insolita e originale veduta del corpo,
particolarmente scorciata, che l’architetto ha realizzato durante un bagno in
vasca in un albergo di Londra, nel 1953;
in primo piano si trovano i capezzoli,
seguiti dai peli del pube, e da gambe e
piedi semisommersi.
Le Corbusier, osservando il proprio
corpo immerso nell’acqua, assimila le
parti che emergono a isole e vede così
nascere un arcipelago.
Questo disegno si ritrova ne’ Le Poème
de l’Angle Droit4 ove compare in bianco
e nero e con diversa grafica.
Prima colonna:
Le Corbusier,
autoritratto,
mina di piombo
su carta da lettere,
15,8 x 20 cm, non
firmato, non datato
Le Corbusier,
autoritratto,
inchiostro di china
su carta,
21 x 30 cm, firmato
in basso a destra
«Le Corbusier»,
non datato
Seconda colonna:
Le Corbusier,
autoritratto,
inchiostro blu-nero
su carta da schizzi,
21 x 27 cm,
non firmato, non
datato, con scritta:
«cattivo» (mauvais)
Le Corbusier,
autoritratto, non
firmato, non datato
6.
La medesima inquadratura del ritratto n. 5, realizzata però a inchiostro di
china, con ombreggiatura ben modulata; rispetto ai precedenti studi a
matita, questo lavoro è più “finito”,
tanto che l’artista lo ha firmato per
esteso.
8.
A causa dei difetti presenti nel disegno
n. 7, Le Corbusier ridisegnò il ritratto,
con identiche fattezze, cercando un
segno “pulito”, di spessore costante,
che riuscì a ottenere in questo autoritratto, divenuto il più conosciuto del
maestro.
10. Autoritratto della mano sinistra
Le Corbusier è particolarmente affascinato dalle mani, che dipinge con particolare risalto in moltissimi dei suoi
quadri a partire dall’epoca purista, dove
la mano appare inizialmente sotto forma di guanto.5
Il disegno n. 10 è uno degli almeno tre
autoritratti che esistono della mano del
maestro – la sinistra, naturalmente, poiché la destra è impegnata a disegnare.
Anche la Mano Aperta, poi, il grande
simbolo lecorbusieriano di pace, definita dopo innumerevoli prove in una
forma non naturalistica, rappresenta
certamente la mano del maestro.6
Terza colonna:
Le Corbusier,
disegno del proprio
corpo semisommerso
dall’acqua, pastelli
su carta, non
firmato, datato
«Londra marzo 53
Hotel Berkley»
(Londres mars 53
Hotel Berkley) con
scritta: «nella mia
vasca da bagno : =
formazione di
un arcipelago»
(dans ma bagnoire :
= formation d’un
archipel)
Le Corbusier,
disegno della propria
mano sinistra, non
firmato, non datato
n.42
2011
23
Animali
E un corvo rappresenta Le Corbusier
nel Ritratto di famiglia dei responsabili
della riuscita dell’impresa (Portrait de famille des responsables de la reussite de l’entreprise) che compare sul portale del
Palazzo dell’Assemblea di Chandigarh;
insieme a lui l’equipe tecnica, rappresentata da un gallo (Pierre Jeanneret) e
da due capre, di cui una succhia il latte
dalle mammelle dell’altra (Jane Drew
e Maxwell Fry).
Oggetti
14.
Nei quadri del periodo purista appaiono con frequenza dei dadi da gioco, elementi che fanno parte del repertorio
Prima colonna:
Charles-Edouard
Jeanneret, disegno
di un condor, non
firmato, non datato,
con scritte:
«NATALE / 1909 /
La miseria di vivere
/ fatta uomo! / e lo
sdegno della
miseria di vivere /
incarnata ne /
l’anima del /
GRANDE
CONDOR»
(NOEL / 1909 /
La misère de vivre /
faite homme! /
et le dédain de la
misère / de vivre /
incarnée en / l’ame
du / GRAND
CONDOR)
Le Corbusier,
disegno di cor vo,
penna stilografica
su carta da lettere
Seconda colonna:
Le Corbusier,
disegno di due
capre, un cor vo e
un gallo, non
firmato, non datato,
con scritta:
«Costruzione di una
capitale nel Punjab
/ Chandigarh /
Ritratto di famiglia
dei responsabili de
/ la riuscita
dell’impresa»
(Construction d’une
capitale au Punjab
/ Chandigarh /
Portrait de famille
des responsables
de / la reussite de
l’entreprise)
n.42
2011
24
Charles-Edouard
Jeanneret,
Composizione
con una pera
(Composition
avec une poire),
olio su tela, 89 x
146 cm, firmato
«Le Corbusier»,
datato «29»
11. Il grande condor
(Le grand condor)
Sul biglietto di auguri che CharlesEdouard Jeanneret invia ai genitori per
il Natale 1909, compare il disegno di
un condor appollaiato sulla vetta di un
alto monte, con la scritta: «La miseria
di vivere / fatta uomo! / e lo sdegno
della miseria di vivere / incarnata ne /
l’anima del / GRANDE CONDOR»
(La misère de vivre / faite homme! / et le
dédain de la misère / de vivre / incarnée
en / l’ame du / GRAND CONDOR).
In questo caso l’identificazione col condor esprime l’atteggiamento interiore
di Jeanneret, in un periodo in cui, a seguito di letture che lo influenzano fortemente, tende a identificarsi con
Zarathoustra (e anche con altri profeti) e come tale si rappresenta isolato,
su una vetta al di sopra del mondo.
12-13. Il corvo
Corbusier, Corbeausier, Corbu, Corbeau… Per gli amici l’architetto si firma
con il rapido disegno di un corvo.
NOTE
1
L’autoritratto non è datato, ma fa par te
dell’album di disegni n. 10, del 1917
2
Vedere al proposito: Valerio Casali, Le
Corbusier, la musica, l’architettura, «Parametro» n. 234, Faenza Editrice, Faenza
(RA), maggio-giugno 2001, pp. 40-66
3
L’autoritratto non è datato, ma fa par te
dell’album di disegni n. 3, del 1918-1919
4
Le Corbusier, Le Poème de l’Angle Droit,
Ediotions Verve, Parigi, 1955, p. 9
5
Vedere al proposito: Valerio Casali, La “Mano Aperta”, «L’architetto italiano» n. 33-34,
Mancosu Editore, Roma, agosto-novembre 2009, pp. 18-21
6
Vedere al proposito: Valerio Casali, Il monumento della “Mano Aperta”, «L’architetto
italiano» n. 35-36, Mancosu Editore, Roma,
gennaio-aprile 2010, pp. 14-17
7
Vedere al proposito: Valerio Casali,
Joséphine Baker dans “le QUAND-MEME
des illusions”, in: AAVV, Mélanges en hommage à Evelyne Tréhin, Fondation Le Corbusier, s.l. (Parigi), s.d. (2005), pp. 79-94 e:
Valerio Casali, Primi incontri di Le Corbusier
e Joséphine Baker, «L’architetto italiano»
n. 24, Mancosu Editore, Roma, febbraiomarzo 2008, pp. 34-39
8
«Un acrobata non è un fantoccio
Egli consacra la sua esistenza a un’attività
attraverso la quale, in pericolo di morte permanente,
realizza dei gesti fuori serie, ai limiti
della difficoltà, e nel rigore
dell’esattezza, della puntualità… pronto
a rompersi il collo, a spezzarsi le ossa, ad
ammazzarsi.
Nessuno lo ha incaricato di questo
Nessuno gli deve alcuna gratitudine
Ma lui è entrato in un
universo fuori serie, quello dell’acrobazia.
Risultato: certo! fa delle cose
che gli altri non possono fare.
Risultato: perché fa questo? Si
domandano gli altri; è un pretenzioso, è
un anormale; ci fa paura, ci fa pietà;
ci innervosisce!»
Charles-Edouard Jeanneret, Composizione
con una pera (Composition avec une poire),
particolare
di questo periodo; il numero che viene
mostrato non è casuale: si tratta spesso
del numero “sei”, giorno della nascita di
Le Corbusier (nato il 6 ottobre) o del
numero “uno”, giorno di nascita della
moglie Yvonne (nata il 1° gennaio);
il dado con impresso il numero “sei”
rappresenta Le Corbusier e due dadi
con impressi i numeri “sei” e “uno”
costituiscono un doppio ritratto di
Le Corbusier e Yvonne.
Charles-Edouard Jeanneret, nudo maschile
(album di disegni n. 16: schizzi di Music-Hall,
1925-26), matita su carta, 16,3 x 24,5 cm,
non firmato, non datato, con scritta: «M. Corbu!»
Altri uomini
15. Sig. Corbu!
Il disegno, che rappresenta un uomo
completamente nudo, dalla corporatura atletica e dalla muscolatura
molto sviluppata, è stato eseguito
tra il 24 aprile e il 31 dicembre 1926
al Folies Bergère, durante uno spettacolo di varietà intitolato La folie du
jour, ove Le Corbusier si era recato
per fare una serie di schizzi che servirono quale base per i 25 acquarelles de music-hall ou le quandmeme des
illusions.
Rappresenta dunque – materialmente
– un acrobata che eseguiva un numero durante lo spettacolo, ma la scritta
Sig. Corbu!, che è stata apposta dall’autore nel 1963,7 chiarisce che l’uomo
in questione è una rappresentazione
dello stesso Le Corbusier.
L’architetto si identifica con un atleta,
un acrobata: qualcuno che esegue esercizi al limite delle possibilità umane,8
come egli stesso fa nel campo dell’architettura.
16. Corbu à Buenos Aires
Tre anni più tardi, tra il 27 settembre
e il 13 novembre 1929, periodo in cui
soggiorna a Buenos Aires,9 l’architetto
(Un acrobate n’est pas un pantin
Il consacre son existence à une activité
par laquelle, en danger de mort permanent,
il réalise des gestes hors série, aux limites
de la difficulté, et dans la rigueur
de l’exactitude, de la ponctualité … quitte
à se rompre le cou, à se briser les os, à
s’assommer.
Personne ne l’en a chargé
Personne ne lui doit gratitude quelconque
Mais, lui, il est entré dans un
univers hors série, celui de l’acrobatie.
Résultat: bien sur! il fait des choses
que les autres ne peuvent faire.
Résultat: Pourquoi fait-il cela? Se
demande autrui; c’ est un prétentieux, c’est
un anormal; il nous fait peur; il nous fait pitié;
il nous embete!)
Le Corbusier, uomo nudo in piedi, matita
su carta, non firmato, datato «1929»,
con scritta: «Corbu / à / Buenos Aires / album
B-Aires / 29»
torna a rappresentarsi come uomo dal
fisico atletico; questa volta non sappiamo chi sia l’uomo che il maestro ha
realmente ritratto, ma sappiamo per
certo che quest’uomo nudo e muscoloso rappresenta Le Corbusier, grazie
a un titolo apposto al disegno: Corbu
à Buenos Aires.
Durante il lungo viaggio in Sudamerica
l’architetto porta il messaggio della
nuova architettura dell’epoca macchinista, come un combattente che vuol
sconfiggere il vecchio modo di pensare
l’architettura.
V. C .
in: Le Corbusier, L’atelier de la recherche
patiente, Editions Vincent, Freal et Cie,
Parigi, 1960, p. 197
9
Vedere al proposito: Valerio Casali, Ricostruzione degli itinerari lecorbusieriani in
Sudamerica, settembre-dicembre 1929,
dattiloscritto
n.42
2011
25
«This
is China, Hombre!»
Con un divertente aneddoto di confusio linguarum
M
tao tie a cura di Paolo Vincenzo Genovese
olti libri e molte riviste s’interrogano su quale sia l’attuale tendenza dell’architettura. Fino a
pochi anni fa si combatteva in “punta
di fioretto” a disquisire sulla bontà e la
superiorità di uno stile rispetto a un
altro. Si rifiutava persino l’idea di stile
e si ponevano le basi per movimenti che
avrebbero rivoluzionato il modo di vedere lo spazio.Ne possiamo citare diversi, come il celeberrimo dibattito PostModern versus Decostruzione, lotta
inutile poiché Post-Modern e Decostruzione sono esattamente la stessa
cosa detta con linguaggi diversi. E non
faticheremo a riconoscere una più vecchia battaglia, al tempo assai più aspra,
fra Razionalisti e Organicisti, dimentichi anche allora che erano tutte e due
posizioni nell’ambito del Moderno.
Ma a voler ben riflettere, qual è la questione che soggiace a questo scontro tra
“apollinei” ed “epicurei” del Contemporaneo? Come mai ci s’interroga e si
combatte all’arma bianca sulla superiorità di una posizione rispetto a un’altra?
Riteniamo che il senso generale sia stabilire con certezza la natura dell’architettura nelle diverse stagioni che attraversiamo. Desideriamo, per così dire,
capire i sistemi filosofici e formali che
caratterizzano un’epoca, ma sempre
con la “giustificazione morale” di ammantare le nostre visioni con un’aura
intellettuale. I dibattiti di questo genere
sono sempre assai ben documentati e
n.42
2011
26
Un esempio
di architettura
coloniale
spagnola
utilizzato come
elemento
stilistico per
un vastissimo
complesso
residenziale
di ville
e Town-House
nei pressi
di Shenzen
non vogliamo mettere il dito su questo
tema anche perché si corre il rischio di
perdere tutta la mano.Vogliamo notare
solo un fatto interessante che riguarda
proprio la natura del Contemporaneo.
Se si considera il panorama dell’architettura a livello molto generale, si nota
come la maggioranza delle analisi sia
fatta nel mondo europeo e americano,
ovvero in quella parte del mondo dove
la riflessione teorica è più spinta e sofisticata. Qui, si tende sempre a storcere il naso verso quelle forme di edilizia
che non posseggono un adeguato “abito
da cerimonia” che giustifichi le scelte
formali e spaziali. Ma si dimentica che
nella maggior parte del mondo ci si
“veste” in modo molto più casual e la riflessione teorica è di bassissimo livello.
Chi gridasse all’orrore e rimanesse scandalizzato dall’alto della sua nuvola teoretica, ebbene ha purtroppo sbagliato i
calcoli poiché inconsapevole del fatto
che la produzione architettonica non è
pura teoria, ma soprattutto azione da
parte di architetti più o meno dotati di
talento.
Ora, nel “grande oceano di latte”, se
proprio volessimo definire quale sia lo
stile o il linguaggio prevalente di oggi,
ebbene tutta la teoresi di questo mondo si infrangerebbe dinanzi alla bruta
evidenza che a prevalere non è Decostruzione o Post-Moderno colto, non
Cyber-Architettura o Topologia in architettura, bensì una criminosa proposizione di feeling, sensazioni non ben definite
atte a sedurre acquirenti inconsapevoli.
Approfondiamo.
La maggioranza della produzione architettonica non è fatta di qualità, e questo
è un fatto assodato. Ha la necessità dei
grandi numeri perché il sistema economico contemporaneo non ha equilibrio
ed è sempre alla ricerca di una produzione sempre più massiccia al fine di
sopravvivere. Quantità e qualità non
vanno mai a braccetto, salvo rarissimi
casi e sempre di pertinenza divina.
Anche il mercato dell’architettura ha
la necessità di basarsi su ciò che in linguaggio tecnico viene chiamato marketing strategico, che in parole povere significa «l’arte di rubare i soldi dalla sacca
della gente». Una delle tecniche più
usate in edilizia è offrire in vendita non
una casa, ma uno stile di vita. Ovvero,
è proposto l’acquisto non di una bella
e comoda abitazione adatta alle esigenze del compratore, bensì un mondo
fascinoso nel quale chi paga ha la sensazione di dare pochi spiccioli per divenire il sovrano di un mondo di sogno.
E in effetti è proprio così. Si tratta solo
di un sogno, un incantamento realizzato con tecniche pubblicitarie, e
nemmeno tanto sofisticate. Basta un
buon rendering, un nome accattivante,
un motto privo di senso ma roboante.
Quanto la realtà sia diversa è evidente.
Basta confrontare, dépliant alla mano, la
casa venduta sulla mappa e la realtà dinanzi ai nostri occhi, e quel dépliant diventerà carta con cui asciugarsi le lacrime.
L’aspetto divertente, invece, è il modo
in cui questi sogni sono realizzati. Sono
proposti stili di vita davvero incredibili a cui vogliamo dedicare la parte finale di questo articolo. «Architetto, visto
che lei è italiano, vorremmo chiederle
un progetto in stile italiano». Alla domanda che così spesso ci viene rivolta,
nella nostra professione all’estero, noi
rispondiamo sempre con la stessa frase:
«Mi dispiace, non ho la più pallida idea
di cosa sia lo stile italiano». Ma la contro-risposta è sempre disarmante:
«Allora me lo faccia in stile europeo.
Va bene lo stesso».
Poi, lo Spanish Style va di gran moda.
Soprattutto in Cina. Si assiste alla proliferazione di fazendas in stile “zorresco”
in cui non manca nemmeno il tirapiedi del malvagio latifondista che, nella
fattispecie, si materializza nelle fattezze
del venditore, armato del suo untuoso
sorriso condiscendente.
Il fenomeno è degno di nota in Estremo
Oriente, ma non solo. Possiamo rilevare come esista una marcata tendenza
a vendere al grande pubblico un vero
e proprio universo di comportamenti, soprattutto in quei contesti che, per
una serie di ragioni storiche, hanno
perduto la propria identità culturale.
Ora, dire questo della Cina appare paradossale, e in effetti paradossale lo è
perché siamo senza ombra di dubbio dinanzi a quella che può essere definita
l’invenzione della memoria.
È fenomeno frequente per i Paesi asiatici vedere l’Occidente come un modello di civiltà. Fatto assurdo perché,
come da parecchio si usa ripetere, Ex
Oriente Lux.Tuttavia, nei tempi recenti,
ciò che viene da Ovest rappresenta se
non altro l’ideale di una vita comoda
e lussuosa. Che poi si abbia un fraintendimento su cosa l’Occidente effet-
Tre immagini
di Thames Town,
cittadina a 30 km
da Shanghai,
interamente costruita
in stile inglese
tivamente sia, questo è evidente. Con
“invenzione della memoria” intendiamo la necessità di creare ex novo un sistema di segni che definisca un contesto fisico (nella fattispecie residenziale)
capace di ricreare un’aura fascinosa di
qualcosa che in effetti non esiste e non
è mai esistito. Il fenomeno è tipico di
molti quartieri americani, in particolare
di Los Angeles, ed è proprio dall’America che la Cina ha preso spunto per la
riproposizione dello Spanish Style.
Il discorso analitico potrebbe continuare a lungo, ma preferiamo concludere
con un divertente aneddoto occorsoci
pochi giorni fa. Il caso è dato da un progetto di un centro residenziale per una
città nei pressi Ürümqi (
) in
Xingjian (
). L’obiettivo del proget-
to era un interessante esempio di
confusio linguarum. Ragionamento: visto
che la città sorge “non lontano” dall’antica Via della Seta e che questa era collegata all’Europa (e che «tutte le strade portano a Roma», aggiungiamo noi),
era richiesto un progetto che fondesse Spanish Style (sic!), Stile Imperiale
Romano e Stile Cinese, quest’ultimo,
tanto per intenderci, identico alle pagodine dei ristoranti cinesi che tanto deliziano i palati italiani.
Non intendiamo criticare il fenomeno
dall’alto della nostra ironia.Vogliamo
semplicemente descrivere i fatti perché
riteniamo che sia una risposta tra le più
chiare al quesito su quale sia lo stile
dell’architettura contemporanea. Una
soluzione non ce l’abbiamo.
P. V.G.
n.42
2011
27
Il
volto nuovo della Cina:
Pechino
T
itinerari e
periferie a cura di Ida Fossa
ra il grigio che avvolge la città, negli interstizi
tra il cemento dei grattacieli improvvisamente
ci stupisce scorgere colorati frammenti della città incantata: banchetti che espongono fantasiosi spiedini di scorpioni
o altre prelibatezze asiatiche, caotiche botteghe artigianali
dalle vistose insegne al neon che si contrappongono alle
lanterne rosse degli hutong ancora sopravvissuti. Forse è
proprio per tutto questo grigio che ci avvolge che le decorazioni della Città Proibita ci sembrano troppo colorate!
Difficile descrivere le sensazioni che si provano spostandosi nella faraonica capitale dai 13 milioni di abitanti che si
n.42
2011
28
In aper tura:
Steven Holl,
Linked Hybrid
A destra:
la Città Proibita
e venditori
di cibo asiatico
estende per 17.000 kmq (più o meno come il Lazio). In ogni
suo angolo mucchi di macerie e ammassi di mattoni, quel
che resta degli antichi hutong, le tradizionali abitazioni; intorno palazzi altissimi, un’accozzaglia, un campionario di variazioni sul tema “grattacielo”.Tra questi emerge, soprattutto
per dimensioni, qualche meraviglia.
Pechino vista dal finestrino (spostarsi a piedi è impossibile
se non per brevi tratti) suscita orrore e meraviglia. Orrore
per la disinvolta distruzione della gran parte della città storica, e meraviglia per lo sviluppo senza freni che sta velocemente ridisegnando la metropoli.
CCTV, studio OMA, architetti Rem Koolhaas e Ole Scheeren. Iniziato nel 2004, è
ora quasi ultimato; definito dai progettisti «una costellazione iconografica di
due grattacieli che occupano in maniera attiva lo spazio urbano», il progetto prende forma dalla combinazione di
due volumi, rispettivamente le sedi della
China Central Television e del Television Cultural Center, che si elevano da
una comune piattaforma, in parte
sotterranea, e si incontrano sulla
sommità creando un attico a sbalzo. La
forma molto particolare dell’edificio,
due enormi “L” capovolte appoggiate
l’una sull’altra, offre da ogni punto di
vista un’immagine sempre diversa, apparendo a volte imponente a volte di
dimensioni modeste come risultasse
difficile stabilirne la scala di proporzione; conferisce inoltre alla struttura
maggiore capacità di resistenza in una
zona ad alto rischio sismico.
Linked Hybrid, architetto Steven Holl.
Terminato nel 2009, situato vicino al
centro storico di Pechino, si sviluppa
su un’area di 220.000 mq e ospita 2.500
abitanti. Nominato dal CTBUH Best Tall
Building 2009, è costituito da una serie
di torri collegate da 8 ponti sospesi,
sedi di varie funzioni pubbliche. La
struttura comprende 644 appartamenti, spazi commerciali e attrezzature per
lo sport, un albergo, una scuola, un asilo,
un cinema che favoriscono la creazione di un microcosmo urbano. Al livello intermedio le coperture degli edifici bassi sono a verde, diventano così
piacevoli spazi pubblici che si collegano con le funzioni commerciali del livello stradale. Si propone come centro
residenziale innovativo sia per essere
aperto e fruibile da tutti i cittadini, non
soltanto al piano terra ma anche tra il
12° e il 18° piano con le spettacolari
passerelle che attraversano piscina,
palestra, gallerie e caffè, ma soprattutto in termini di sostenibilità ambientale, per le tecnologie applicate e per
essere uno dei primi progetti di queste
proporzioni a impiegare tecnologie
geotermiche: 655 pozzi scavati a una
profondità di 100 m provvedono al
riscaldamento invernale e al refrigeramento estivo.
Soho Shang du, LAB studio di architettura, inaugurato lo scorso anno. Formato
da una piattaforma e due torri da 32
piani, contenenti sia uffici che spazi
vendita al dettaglio, è stato progettato
secondo il principio di un hutong verticale con una serie di strade interne,
due grandi cortili collegati verticalmente formano spazi per eventi, sfilate,
concerti. Le facciate in pannelli di vetro
e alluminio inscritti in una rete di linee
che di notte creano un’immagine fortemente caratterizzante.
National Grand Theatre, architetto Paul
Andreu. Il complesso è suddiviso in tre
spazi, in totale 35.000 mq racchiusi da
una cupola realizzata in titanio e vetro
che consente un particolare rapporto
con l’esterno. La progettazione illuminotecnica è dei lighting designer Kaoru
Mende e Yosuke Hiraiwa.
Beijing Planetarium,architetto Nonchi Wang.
È immediatamente dietro al solenne
Planetario in pietra costruito nel 1957,
con copertura a cupola. È un enorme
parallelepipedo trasparente con tre sfere
all’interno; la facciata appare come uno
schermo, liscio come uno specchio d’acqua appena mosso in rigonfiamenti e
depressioni come sfiorato da una leggera brezza. Dice Wang di aver voluto
rappresentare «il mistero del Cosmo,
l’astrazione del mondo della scienza e
della fisica, le particelle fondamentali
della meccanica quantistica in stati dinamici, lo spazio deformato».
Al centro:
grattacieli nel centro
di Pechino
In basso da sinistra:
OMA
(Rem Koolhaas
e Ole Scheeren),
CCTV
Nonchi Wang,
Beijing Planetarium
In alto:
vista d’insieme
della Commune
by the Great
Wall
A destra:
Kengo Kuma,
Bamboo Wall
Cui Kai,
See and See
House
Gar y Chang,
Suitcase House
In basso:
Herzog
& de Meuron,
Birds Nest, viste
dell’esterno,
dell’interno
e particolare
della struttura
in acciaio
Aeroporto di Pechino Terminal 3, architetto
Norman Foster. Inaugurato nel febbraio
2008, è la più grande architettura coperta mai costruita, dove il passato nella
tradizione cinese si fonde con l’innovazione tecnologica di oggi; la sua forma
ricorda un dragone stilizzato, simbolo
di forza e di buon auspicio per la Cina;
i colori dominanti, rosso e oro, evocano la Cina imperiale, il grigio della struttura metallica e l’uso delle tecnologie
più avanzate portano il vecchio continente verso il futuro. Un terminal futuristico, luminosissimo grazie alle “squame” del dragone, grandi lucernari che
consentono di illuminare di luce naturale l’interno della struttura: 175 scale
mobili, 173 ascensori, 45 km di nastri
trasportatori che consentono di gestire 19.000 bagagli l’ora, un nuovissimo
sistema antiterrorismo per il controllo bagagli. Per la sua costruzione, in soli
quattro anni, sono stati impiegati
50.000 operai, mentre la superficie
occupata, 99 ettari, ha costretto circa
10.000 residenti a lasciare le proprie
abitazioni. In Europa si sarebbero alzate barricate di cittadini e ambientalisti
per molto meno, ma non a Pechino, qui
la libertà del progettista non conosce
limiti.
Commune by the Great Wall.A meno di
un’ora di automobile da Pechino,
proprio sotto un tratto non restaurato della Grande Muraglia, è nata la
Commune, una collezione di gioiellini di
architettura asiatica contemporanea,
che nel 2002 ha vinto il premio speciale della Biennale di Architettura. Due
coniugi cinesi hanno creato una sorta
di museo-centro relax, che ospita turisti appassionati di architettura da tutto
il mondo. Lungo un sentiero che s’inerpica verso i monti, con in lontananza il
profilo della Grande Muraglia, sono
dislocate piccole ville, costruzioni essenziali in stile asciutto, discreto, integrate
in un verde lussureggiante. La prima è
la Suitcase House dell’architetto Gary
Chang, una scatola in legno su un piccolo supporto, poi la See and See House di
Cui Kai, formata da due parallelepipedi bianchi che s’intersecano, e la Bamboo
Wall di Kengo Kuma, un edificio interamente ricoperto da bambù, e tante
altre, 31 in tutto.
Area olimpica
Si trova a nord della città, non molto
lontano dai grandi monumenti del
centro. Pechino era stata vincente nella
gara per l’assegnazione dei Giochi Olimpici 2008 con qualche difficoltà dovuta al grande inquinamento presente.
È immediatamente scattato un piano
di emergenza ambientale in tutta la
città.Tra le vaste opere c’è il recupero
del lago Shishahai, elemento di grande importanza per lo svolgimento dei
Giochi data la sua vicinanza, la creazione
di una cintura verde intorno alla metropoli immettendo vegetazione nelle aree
semidesertiche, evitando possibili tempeste di sabbia.
I Giochi Olimpici hanno determinato
l’avvio del piano di riqualificazione ambientale, l’inizio del cambiamento.
Birds Nest, degli architetti Herzog & de
Meuron, 2008. Lo Stadio Nazionale, il
“nido di uccello” è la megastruttura in
oltre 35.000 tonnellate di acciaio che
si intrecciano in esili ramoscelli formando il nido capace di accogliere più
di 90.000 spettatori. La facciata e la
struttura coincidono, l’effetto visivo è
sorprendente per l’essenzialità, la leggerezza e l’armonia, nonostante la
complessità della struttura. Due strati di EFTE, il materiale traslucido dalle
straordinarie prestazioni, ricopre tutta
la struttura come membrana protettiva resistente agli agenti atmosferici e
come isolante acustico; la copertura è
costituita da un guscio trasparente che
protegge gli spettatori da eventuali
piogge e consente lo scambio luminoso esterno-interno e viceversa. I percorsi interni sono segnati da boschetti di bambù, blocchi di pietra, piccoli
giardini.
Water Cube, dello studio PTW, 2008.
Lo “stadio delle bolle” è la struttura che
ospita la piscina olimpionica; sembra
formato da tante bolle d’acqua, leggere
e luminose. L’edificio è stato progettato secondo principi di design ecosostenibile, utilizzando materiali ecologici e
tecnologie per l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili. Le pareti sono in
EFTE, un particolare tipo di Teflon, che
reagisce alla luce naturale cambiando
colore creando particolari effetti visivi
e che permette di catturare il 20%
dell’energia solare incidente sul palazzo utilizzandola per riscaldare l’acqua
delle vasche; l’uso della luce naturale
durante il giorno permette un notevole risparmio energetico.
Oggi il Water Cube è stato trasformato in un enorme parco giochi acquatico,con simulatori per immersioni subacquee e fantasiosi animali marini giganti.
Qui i cinesi appartenenti al ceto medioalto possono dimenticare lo smog e il
cemento della frenetica capitale vivendo un’esperienza spaesante, un contatto con il mare che per molti cinesi è
diventato ormai impossibile o deludente per l’inquinamento che ha ormai
raggiunto anche le coste più vicine alla
metropoli.
Digital Beijing Exhibition, studio Pei Zhu,
2008. L’edificio – di 9 piani su una
superficie di 1.000 mq – è in granito
e vetro e si erge solenne all’ingresso
dell’area olimpica. Ha svolto la funzione di centro di controllo e dati e base
operativa per tecnici della manutenzione e sicurezza. L’edificio è simile a
un codice a barre: è formato da 4 lastre
parallele che ricordano le schede
madri, 3 lastre accolgono apparecchiature elettroniche, lo spazio che le separa dall’ultima, adibita a uffici, fornisce
la ventilazione necessaria ai macchinari interni. Ospiterà un museo virtuale,
per ora l’edificio è adibito a uffici,
mostre e centri espositivi per produttori digitali.
In alto:
PTW, Water Cube,
viste dell’esterno
e dell’interno
A sinistra:
Pei Zhu, Digital
Beijing Exhibition,
vista generale
e particolare
della facciata
n.42
2011
31
Contraddizioni e contrapposizioni
Piazza Tienanmen
con i suoi poliziotti
e i suoi vuoti
In basso a destra:
l’entrata con
il tetto a pagoda
del Linked Hybrid
Lo aveva predetto già Napoleone:«Se la Cina si sveglia,il mondo
tremerà». Dopo Mao, i suoi successori non hanno dovuto far
altro che trasformare quelle masse umili e ubbidienti in una
forza lavoro che, sommata alla nuova tecnologia, sta facendo
della Cina una imbattibile macchina di produzione. Il vecchio
Partito Comunista è ancora a fianco del Governo, vegliando
che non ci sia opposizione nel Paese, e poliziotti in giacchetta
verde perlustrano ogni angolo della città; in Piazza Tienanmen
non ci sono più i cinesi che fanno volare gli aquiloni, ma solo
turisti e agenti in borghese. Capitalismo di stato sommato al
Partito Comunista, questa la ricetta?
Il Governo aveva un megaprogetto: fare della Cina un Paese
che in ogni settore fosse all’avanguardia mondiale. Per anni
si è preparato silenziosamente, poi, nel 2008, ha gettato la
maschera e con il suo show supertecnologico con l’apertura dei Giochi Olimpici ha strabiliato il mondo. Intelligentemente si è affidato ai migliori professionisti internazionali o ad architetti asiatici di formazione occidentale, dando
loro carta bianca e dimostrando un’apertura opposta alla
diffidente chiusura di Mao. Dopo un decennio in cui Pechino si era limitata a imitare le peggiori città americane accu-
mulando grattacieli grigi e mediocri, magari con un tocco
di cinesità nel tetto a pagoda, dal 2008 è apparsa la grande
architettura, i Foster, i Koolhaas, Herzog e de Meuron, che
hanno conferito alla città l’impronta di una capitale imperiale post-moderna.
Se Shanghai ci ha affascinato con la sua nuova immagine sfavillante, nel suo kitsch, Pechino con fredda imponenza ci ricorda in ogni sua parte di essere la capitale.Anche lì dove una
mega-architettura s’impone con forte impatto nel tessuto
creato dagli innumerevoli grattacieli, dove elementi architettonici che sembrano progettati fuori scala, come per un ciclope, stabiliscono un contrasto di rapporti del tutto nuovo e
sorprendente. Pechino è la città delle enormi proporzioni,
nella sua espansione e nei suoi monumenti storici. I suoi spazi
sono comunque un insieme di “luoghi privati”, spazi piccoli
e intimi, funzionali alla vita dell’uomo, che sia un mercante o
l’imperatore. Le grandi costruzioni sono pensate come una
sommatoria di luoghi di dimensioni rassicuranti, a misura
d’uomo, dove i cittadini si sentono a loro agio nonostante
le dimensioni globali siano enormi. Si stabiliscono così una
complessità di relazioni tra pieni e vuoti, interni ed esterni,
che interpretano in maniera contemporanea il linguaggio
tradizionale proprio della città.
I. F.
S
PECIALE
ISTANBUL CONTEMPORANEA
a cura di
LUCA ORLANDI
«Istanbul non è Costantinopoli», così recitava un pezzo swing anni Cinquanta dei canadesi Four Lads,
ma nell’immaginario occidentale l’antica Bisanzio, in seguito divenuta capitale dell’Impero Ottomano,
per poi lasciare il titolo di prima città della Turchia repubblicana ad Ankara, resta sempre un simbolo
di esotismo e di città d’Oriente per eccellenza.
Sulle guide turistiche e sui pieghevoli delle agenzie di viaggio, come pure sulle copertine dei libri che
hanno per soggetto qualsiasi argomento riguardante la Turchia, permane l’immagine di Istanbul con il
suo skyline fatto di cupole dorate al tramonto, di svettanti
minareti e di palazzi sultaniali riccamente decorati, adagiati e riflessi sulle rive del mare; resistono lo stereotipo e il
gusto orientalista già individuato a suo tempo dai viaggiatori occidentali, come Edmondo De Amicis, Teofilo Guatier
o Pierre Loti, che dalle bellezze del Bosforo o dal panorama di questa città circondata dalle acque si facevano ammaliare e ne davano descrizioni affascinanti e compiaciute.
Eppure, la sterminata città contemporanea di quasi 15 milioni di abitanti rappresenta ancora oggi tutto questo e sicuramente il visitatore vuole trovare quel ponte in bilico
tra Oriente e Occidente con la sua cultura varia ed eterogenea; ma c’è senz’alcun dubbio anche altro che ben rappresenta la crescita vertiginosa di Istanbul negli ultimi decenni. C’è infatti una città che ha continuato a crescere nella
modernità, magari non seguendo una pianificazione programmata e anche attraverso non facili difficoltà e restrizioni, di tipo sociale, militare ed economiche, e che, a periodi
alterni, ha di fatto lasciato i segni del suo trascorrere e del
prorompente desiderio di essere una città contemporanea,
al pari di tante altre nel mondo globalizzato di oggigiorno.
Una modernità non conclamata, difficilmente affrontata nei
libri di storia o di critica dell’architettura, ma che ha avuto
– seppur con le debite differenze – uno sviluppo del tutto
analogo a quanto accadeva in Europa nel corso del Novecento. Senza dimenticare che molti sono stati gli architetti
occidentali che hanno lavorato o insegnato nelle facoltà di
architettura turca nel secolo scorso, determinando così una
formazione di architetti locali volta ad indagare le nuove
forme e le sperimentazioni del costruire moderno.
In questo percorso architettonico nella megalopoli di IstanVista del centro direzionale di Levent
bul ci siamo interessati ad alcune realtà costruite negli ul(foto Emre Dorter)
timi anni nella parte europea della città, sviluppate in
un’area molto vasta ed eterogenea per morfologia del territorio e pianificazione. Le architetture selezionate di cui diamo conto nei successivi articoli, non facilmente visibili o accessibili per chi non ha dimestichezza con la città, rappresentano in qualche modo la complessità e le varietà di linguaggi utilizzati da vari architetti turchi contemporanei e mostrano gli aspetti più interessanti del fare architettonico locale, perfettamente inseribili nel panorama mondiale contemporaneo.
Luca Orlandi è uno storico dell’architettura e del design. Si è laureato presso l’Università degli Studi di Genova e nel 2005 ha conseguito il Dottorato di
Ricerca in Storia e Critica dei Beni Architettonici e Ambientali presso il Politecnico di Torino.
Vive a Istanbul, dove è docente di Storia dell’Architettura con il titolo di assistente professore presso il Politecnico di Istanbul (Istanbul Technical University). Collabora con altre istituzioni locali, come l’Università di Belle Arti Mimar Sinan e l’Università di Marmara, tenendo corsi e seminari.
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S
SPECIALE
Verticalità e trasparenze
nei nuovi complessi
del centro direzionale di Levent
S
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Sapphire Tower
Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia
Cliente: Biskon Yapı A.Ş.
Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects
Gruppo di lavoro: Murat Cengiz, Salih Yılgörür, Aydın Işık, Hakan Bağcı, Ozan Öztepe,
Funda Tezel, Ali Çalışkan, Ahmet Çorapçıoğlu, Selen Ak, Ali Eray, Mehmet Vaizoğlu,
Aybige Tek, Recep Semizoğlu, Merve Yücel, Necmettin Selimoğlu, Adnan Tarı
e Ayla Ecer (Sito Coord.)
Architettura d’interni: Tabanlıoğlu Architects, Hande Pusat, Derya Genç,
Esra Demirtaş, Burcu Biçer, Aslı Aydın, Sinemis Yargıç, Suda Ayşe Karaduman,
Ayfle Aydoğan
Impresa di costruzione: Biskon Yapı A.Ş
Strutture: Balkar Engineering
Ingegneria meccanica: GN Engineering
Consulenti progettuali: Boz Project & Consultancy
Ingegneria per impianti elettrici: HB Teknik
Consulente per le abitazioni: Servotel
Servizi per negozi: Alkafl Consultancy
Strutture facciata e rivestimenti: MF Metal Und Fassadenplanung
Lighting design: Studio Dinnebier
Verifiche nella galleria del vento: Ruscheweyh C. GmbH
Area di progetto: 11.339 mq
Totale area costruita: 165.169 mq
Data del progetto e di realizzazione: 2006-2010
Sito web: www.tabanlioglu.com.tr
Foto grande:
vista di Levent in cui si possono osservare le silhouette
di Kanyon, Levent Loft, Loft Garden e Sapphire
(foto Uğur Cebeci)
Foto piccola:
immagine aerea dell’area di Levent, con evidenziato il
progetto Sapphire, e anche gli altri interventi di
Tabanlıoğlu Architects
È stata appena inaugurata, nel centro direzionale di Levent,
la torre per residenze Sapphire, che con i suoi 261 m di altezza è una delle strutture architettoniche più alte nello skyline della città, lungo l’asse che dal mare porta verso nord,
nella parte europea della città. Il grattacielo è, in ordine di
tempo, l’ultima realizzazione in città dello studio Tabanlıoğlu
Architects, fondato nel 1990 dall’architetto Murat Tabanlıoğlu
in collaborazione con il padre Hayati Tabanlıoğlu e con la
moglie, Melkan Gürsel Tabanlıoğlu, entrata nel 1995 come
socia del gruppo. Da quel momento lo studio ha continuato
a ingrandirsi – conta fino a un centinaio di dipendenti – e a
operare non solo in Turchia ma in molti Paesi, quali Libia,
Egitto, Kazakistan, Giordania, Croazia, Azerbaijan.
Il progetto della torre Sapphire si inserisce nello sviluppo
urbano di Levent, che si denota ormai come uno dei maggiori centri di investimento nell’area metropolitana della
grande città di Istanbul; un’area in fortissima espansione,
dove il dinamismo della giovane società turca contemporanea e lo spirito rampante imprenditoriale è ben visibile
nella elevata quantità di residenze, nella concentrazione di
sedi di banche, finanziarie e di torri per uffici e centri commerciali con negozi con le marche e i brand internazionali
più prestigiosi, rivolti a un pubblico decisamente d’élite,
ma in costante crescita nella metropoli di più di 15 milioni
di abitanti.
Negli ultimi anni l’architetto Murat Tabanlıoğlu ha realizzato
per la stessa area commerciale/direzionale di Levent, lungo
l’asse principale della grande arteria stradale di Viale Büyükdere, altri importanti progetti che verranno di seguito presentati: il centro commerciale, torre per uffici e residenze di
Kanyon, la stecca orizzontale residenziale di Levent Loft e il
suo successivo sviluppo, la torre per appartamenti di Loft
Garden.
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S
Schema del funzionamento delle pareti vetrate e dei giardini verticali
2
1
3
Pianta a livello del piano terra
1. Ingresso principale centro commerciale
2. Ingresso per le residenze
3. Ingresso per le residenze
Sezione della torre Sapphire
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Schemi
dei vari tipi
di appartamenti
La hall e i quattro livelli del centro commerciale all’ingresso dell’edificio
Il nuovo grattacielo Sapphire, uno dei più alti in Europa, evidenzia nello slancio verso l’alto delle sue linee, la competenza del gruppo Tabanlıoğlu Architects nella progettazione di
grandi strutture e complessi urbani residenziali o a funzioni
miste, che si pone come uno dei più attivi – ma anche dei
più commerciali – studi di architettura in Turchia dell’ultimo
decennio.
Dal punto di vista progettuale, uno dei problemi principali
affrontati è stato quello di adeguare la grande costruzione
alle normative antisismiche, poiché l’area di Istanbul è considerata ad altissimo rischio di terremoti, e per questo sono
stati fatti test e verifiche affinché la struttura possa resistere
fino al nono grado della scala Richter.
L’edificio si presenta con una parte orizzontale in aggetto
verso la strada principale che funziona come un’enorme pensilina, al cui interno sono presenti quattro livelli di aree commerciali, organizzati con negozi e attività di ristorazione per
un totale di 2.300 mq. Sopra quest’area, si innalza la torre
vera e propria, la cui facciata è composta da due pareti verticali distinte, di cui la più esterna, interamente vetrata, permette sia un isolamento sonoro sia di coibentazione dall’esterno, mentre quella interna è strutturalmente composta in acciaio, e tra
queste due superfici sono presenti dei veri giardini verticali che
“aiutano” la ventilazione e l’umidificazione naturale all’interno, oltre che costituire uno dei
Il grattacielo Sapphire (foto Murat Germen)
37
S
I giardini interni e l’accesso ai vari appartamenti (foto Helene Binet)
Spaccato/sezione che mostra il giardino verticale utilizzato su più piani nello stesso livello
(foto Emre Dorten)
S
38
punti di forza del progetto. Sono state
infatti progettate quattro aree separate
per le residenze di varia grandezza, per
un totale di 22 tipi di alloggio, 187 complessive, suddivise in modo da permettere, tra un livello di piani e un altro,
di avere degli spazi in comune con i
giardini interni, e con altre attività sociali e aree tecniche per la manutenzione e il funzionamento della macchina-edificio. Ogni nove piani sono presenti delle aree ricreative comuni, utilizzabili dai residenti della torre, come
la piscina a 60 m di altezza o il minigolf a 187 m.
Le pareti di vetro che costituiscono la
facciata corrono a tutt’altezza dai pavimenti ai soffitti, rendendo gli spazi a
ogni piano ariosi e completamente
aperti, evitando il senso di claustrofobia che a volte si prova nei grattacieli,
e permettendo ai residenti di poter sempre godere della migliore vista della città. Per gli interni e per tutte le finiture
ai vari livelli gli architetti hanno giocato con i colori e con gli arredi e, attenti alle esigenze della clientela che diventerà proprietaria delle residenze, si
sono ispirati al concetto del vulcano,
suddividendo in aree tematiche con una
“cima” che rappresenta la serenità, la
“lava” ossia l’eccitazione, la “terra” per
significare la stabilità e infine la zona
“magma” per la passione.
I consumi sono ridotti in modo da permettere un risparmio energetico non
indifferente, attraverso l’uso di nuove
tecnologie nei sistemi d’illuminazione
e di riscaldamento, mentre la vicinanza
con la fermata della metropolitana che
connette Levent con il centro di Taksim
e i sei livelli sotterranei di parcheggi
sono stati pensati dagli architetti per risolvere i problemi di traffico, dato che
l’edificio, con tutte le attività miste al
suo interno, si prevede che nei prossimi anni diventerà un nuovo centro per
l’espansione a nord della città, in direzione di Maslak, dove già esiste un centro direzionale.
Una particolarità della torre Sapphire,
infine, è data dalla sommità dell’edificio, una scatola trasparente in cui possono liberamente accedere i visitatori
per ammirare la città da vertiginosa altezza.
Levent Loft
Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia
Cliente: Akfen Holding A.Ş. & Yıldız Holding A.Ş.
Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects
Gruppo di lavoro: Hacer Akgün, Volkan Lokumcu, Eda Lerzan Tunçbil,
Süleyman Akkaş, Ahmet Çorapçıoğlu, Ali Çalışkan, Emre Apak, Kaan Keleş,
Handan Dama Bilgin
Project management: Altaca Construction
Impresa di costruzioni: Akfen Holding Turizm ve Ticaret A.Ş.
Strutture: Balkar Engineering
Ingegneria meccanica: GN Engineering
Impianti elettrici: HB Teknik
Consulente per le abitazioni: Servotel
Consulente per il paesaggio: Akgöze Landscape Design
Consulente per la facciata: CWG
Rivestimenti facciata in alluminio: Dekoral Aluminium
Strutture in acciaio: Çeçen Construction
Area di progetto: 3.900 mq
Totale area costruita: 32.542 mq
Data del progetto e della realizzazione: 2005-2007
Vista
dall’esterno
di Loft
(foto
Helene Binet)
S
Il ristorante e l’ingresso di Loft al pian terreno (foto Emre Dorter)
Foto degli interni di un appartamento duplex (foto Thomas Mayer)
S
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Vista sulla città da uno degli appartamenti alti di Loft
(foto Helene Binet)
Levent Loft e Loft Garden sono stati accorpati in quanto, anche se si tratta di
progetti differenti, si può dire che il secondo sia la naturale continuazione del
primo. L’idea dei Tabanlıoğlu Architects
era di creare delle residenze di qualità
in quest’area di Levent, dando la possibilità di possedere una casa vicino alle
zone di lavoro del centro direzionale, e
l’occasione è stata data da un edificio
per uffici che doveva essere smantellato
e che è stato invece convertito nell’unità
immobiliare di Loft. Un progetto interessante composto da elementi modulari a
scatola che si inseriscono nello scheletro in calcestruzzo armato dell’edificio
esistente in modo da permettere una
flessibilità, atta a creare unità differenti
a seconda delle esigenze dei residenti.
Nella costruzione sono presenti 144 loft,
che con un ristorante italiano al piano
terra, un centro spa di benessere, un caffè, una piscina coperta e servizi di concierge ha imposto il modello di vita per
le persone che gravitano in quest’area e
per gli abitanti che si trovano a vivere in
queste residenze di lusso con comodità
da grande albergo, senza rinunciare all’intimità nel proprio spazio abitativo.
In pratica, il progetto si è adattato alla
stecca già esistente, costituita da una
struttura a treno allungato e sottile, suddivisa da tre “corridoi” separati tra loro. Sulla facciata principale l’altezza
complessiva del blocco raggiunge i 12
piani, mentre sul retro si arriva a 8, inframmezzati da una coppia di blocchi
di 5 piani.
The Loft Garden
Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia
Cliente: Akfen Gayrimenkul Yatırımları e Ticaret A.Ş. Sağlam Construction l̇nşaat
Taahhüt Ticaret A.Ş.
Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects
Gruppo di lavoro: Hacer Akgün, Volkan Lokumcu, Eda Lerzan Tunçbil, Kaan Keleş,
Elena Pittalis, Süleyman Akkaş
Project management: Proplan Project Management & Consultancy
Impresa di costruzioni: Akfen Holding Turizm ve Ticaret A.Ş.
Strutture: Cema Engineering
Ingegneria meccanica: Moskay Engineering
Impianti elettrici: Arma Engineering
Consulente per le infrastrutture: Cema Engineering
Consulente per la facciata: CWG
Rivestimenti facciata: Milenyum Sistem Evi
Strutture in acciaio: Akınısı Makina San.ve Tic. A.Ş.
Area di progetto: 1.759 mq
Totale area costruita: 22.500 mq
Data del progetto e di realizzazione: 2007-2010
La torre
di Loft Garden
e in primo piano
Loft Levent
(foto Helene Binet)
S
Piante di alcune tipologie di appartamenti
Sezioni trasversale e longitudinale di Loft Garden
S
42
La forma della struttura ha quindi condizionato gli interni dei loft, che hanno
una metratura variabile tra i 68 e i 182
mq e i più grandi di questi sono dei duplex provvisti di terrazza o di giardino.
I tipi di abitazioni sono pensati non per
delle famiglie con bambini, ma per coppie o single della nuova classe dirigente istanbuliota, per artisti, per gente del
mondo dello spettacolo e della moda e
vip che vogliono mantenere la privacy
senza rinunciare alle comodità della vita urbana. Le abitazioni evidenziano il
life-style, il carattere individuale dei residenti, formalmente rappresentato dalle scatole in aggetto che compongono i
vari blocchi, ma i progettisti hanno pensato di dotare il centro con lobby all’interno, piscine e centri sportivi, a uso
esclusivo dei residenti, per far diventare questi individui una piccola comunità che condivide spazi e che ha così occasione di conoscersi.
Il progetto Loft ha riscosso così successo tra le classi dei nuovi ricchi che
la società che gestisce la struttura ha
pensato di far costruire – sempre allo
studio di Tabanlıoğlu – una torre in un
lotto attiguo, questa volta puntando ancora di più sull’esclusività di vivere “in
verticale”, un soft-loft nelle parole stesse degli architetti, in un’area dove la
In senso orario:
vista sul panorama e sulla torre Sapphire da Loft Garden
(foto Emre Dorter)
Vista dell’ingresso lobby di Loft Garden (foto Helene Binet)
Dettaglio della facciata di Loft Garden (foto Helene Binet)
Vista sulla città da uno degli appartamenti alti di Loft
Garden (foto Helene Binet)
vista spazia su tutta la città, aumentandone però le capacità ricettive con punti di incontro e aree per negozi e per
l’intrattenimento nelle immediate vicinanze.
La trasparenza dei 21 piani della torre di
Loft Garden, dove ampie vetrate da pavimento a soffitto rendono luminosi e
solari gli ambienti, permette al suo interno la possibilità di avere dei giardini verticali progettati per i residenti, camminamenti a terrazza, balconi e pati aperti sul
panorama della città e del mare.
I materiali da costruzione a vista, come
pure i condotti, le travi e le putrelle, i
sistemi di ventilazione, i pavimenti in
calcestruzzo armato e gli ondulati in acciaio dei divisori concorrono a dare un
aspetto industriale alle parti in comune
dell’edificio, mentre all’interno delle
singole abitazioni alti standard qualitativi di materiali e di soluzioni per la “casa intelligente” sono adottati per dare
ogni comfort all’inquilino.
Un parcheggio sotterraneo, locali da
utilizzare come magazzini nel piano interrato, servizi di vigilanza e di sicurezza, facile accessibilità e buoni collegamenti con metropolitana e altri servizi
pubblici, intimità protetta completano
questa “isola felice” che compiace il life-style dei suoi abitanti.
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S
Kanyon
Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia
Cliente: Eczacıbaşı – l̇ş GYO
Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects – Jerde Partnership
Gruppo di lavoro: Fehmi Kobal, Murat Cengiz, Salih Yılgörür, Hakan Bağc›, Ali Akarsu,
Hülya Sürücü, Nihal Şenkaya, Bilge Karataş, Arzu Meyvacı, Özgü Saraçoğlu,
Jıbid Kürkçü, Simge Esin, Zehra Karahasan, Defne Sunguroğlu
Studio di ingegneria: Arup Turkey – Ove Arup UK & Los Angeles
Architettura del paesaggio: Derek Lovejoy Partners – DS Architecture (Deniz Aslan)
Impresa di costruzione: Tepe l̇nşaat
Lavori in acciaio: Gülermak
Facciate e rivestimenti esterni: Feniş
Verifiche nella galleria del vento: BMT Fluid Mechanics
Area di progetto: 30.000 mq
Totale area costruita: 250.000 mq
Data del progetto e della realizzazione: 2001-2006
Fotografie: Helene Binet, Murat Germen
Vista delle residenze disposte a curva
(foto Izzet Keribar)
S
44
L’idea di Kanyon nasce dalla necessità
di creare a Levent, lungo l’asse in forte
via di sviluppo di Viale Büyükdere, un
centro polivalente a uso misto, con una
serie di edifici che potessero avere al loro interno tutte le funzioni di cui necessitavano, collegati e uniti tra di loro tramite la creazione di un vero e proprio
paesaggio a scala urbana, fatto principalmente di terrazze verdi, aree di sosta
e di passeggio, assolutamente pedonale
e pubblico, con lo scopo di unificare all’interno dello stesso perimetro un centro per le diverse finalità degli edifici.
Il progetto è un lavoro in tandem degli
americani Jerde Partnership, esperti di
questo genere di architetture a scala urbana con forti connotazioni paesaggistiche, come il Canal City Hakata di Fukuoka o il recentissimo Namba Park di
Osaka in Giappone, e del gruppo guidato da Murat Tabanlıoğlu; date le notevoli dimensioni – 250.000 mq di superficie costruita – la realizzazione di
Kanyon ha coinvolto differenti studi
specialistici nella progettazione, sia per
le parti strutturali che per l’architettura
del paesaggio.
Nel centro Kanyon, vera città in miniatura, si trova una torre in cemento per
uffici – rivestita interamente in vetro –
alta 25 piani che fa da perno e da landmark nella silhouette di Levent, attorno
alla quale ruotano le curve del resto degli edifici, come alcune residenze disposte a scalinata, che creano una grande curva delimitante i confini dell’area
sul lato sud. I 179 appartamenti sono
compresi in questi edifici che raggiungono i 15 piani di altezza, con possibilità di 20 tipi differenti di pianta e variabili in superficie dagli 80 ai 380 mq.
Il centro commerciale – ma sarebbe più
appropriato chiamarlo “percorso” commerciale – è organizzato in 170 negozi,
suddivisi in quattro piani d’altezza, con
grandi terrazzamenti degradanti per
ogni piano, che formano una vera promenade in mezzo al verde delle aiuole
al cui interno, proprio come in una valle che serpeggia tra alte rocce, trovano
posto gli spazi per il tempo libero, i ristoranti, i bar e i caffè, nove sale per i
concerti e per le mostre, i centri di benessere e spa, i cinema, un supermercato alimentare e piscine coperte.
Vista notturna di Kanyon, con le curve della zona negozi e la torre per uffici
sullo sfondo (foto Helene Binet)
Planivolumetrico di Kanyon
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S
Sezione longitudinale del complesso
Sezione trasversale del complesso
1
Pianta del piano terra a livello dei negozi
Le strade interne sinuose a cielo aperto
tra i fianchi degli edifici, ricoperti da
una pietra di color sabbia che di nuovo
rimanda a paesaggi naturali, fanno sentire il visitatore o il fruitore dello spazio con la sensazione di trovarsi in un
ambiente protetto, confortevole, provvisto di molte aree per la sosta, di laghetti e di piccoli corsi d’acqua, dove a
ogni curva si apre un nuovo panorama,
un nuovo paesaggio.
Il progetto di Kanyon dimostra che non
necessariamente un centro commerciale debba essere un non-luogo, ma anzi
esprime la possibilità di poter far
coesistere all’interno di una stessa
area progettuale funzioni differenti ma coerenti con un programma che può rigenerare un
centro urbano, se correttamente
studiato e portato compimento.
L.O.
2
1. Blocco uffici
2. Blocco residenze
1
1. Ingresso
principale
blocco uffici
2. Ingresso
centro
commerciale
3. Centro
commerciale
2
3
Pianta a livello delle residenze e della torre per uffici
S 46
Vista notturna del complesso
(foto Helene Binet)
Vista
delle curve
a terrazze
e della torre
(foto Murat Germen)
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S
Residenza
in collina
S
Maximum House
Ubicazione: Istanbul (Ulus), Turchia
Cliente: Kayı l̇nşaat
Progetto di architettura: EAA – Emre Arolat Architects
Responsabile del progetto: Abdurrahman Çekim
Gruppo di lavoro: Aslı Çalıkoğlu, Nesli Kayalı,
Onur Canvarol, Gülseren Gerede Tecim
Supervisione e controllo: Emre Arolat,
Abdurrahman Çekim
Impresa di costruzione: Kayı l̇nşaat
Strutture: Mehmet Ceyani, Gökhan Şen
Progettazione impianti elettrici: Kaver Engineering,
Kazancı Lighting design
Ingegneria meccanica: Cömert Engineering
Architettura del paesaggio: Trafo Architects,
Deniz Aslan
Modello: Murat Küçük
Totale area costruita: 5.500 mq
Data del progetto: 2001
Data della realizzazione: 2003-2006
Sito web: www.emrearolat.com
I blocchi B e C del complesso; sulla sinistra è visibile
l’edificio utilizzato per la vendita delle residenze e
rimasto come spazio polivalente (foto EAA)
Pagina accanto:
i tetti in aggetto e le pareti rivestite in legno (foto EAA)
Un intervento riuscito di edilizia contemporanea che riecheggia antiche forme di architettura civile ottomana si può
vedere nel complesso residenziale Maksimum House, realizzato da EAA, l’ufficio di Emre Arolat Architects, fondato nel
2004 dall’architetto Emre Arolat e da Gonca Paşolar, a cui si
sono poi aggiunti Şaziment e Neşet Arolat e Sezer Bahtiyar.
EAA è un nome ormai consolidato nel panorama architettonico turco e non solo, con vari riconoscimenti internazionali, come il Premio
Aga Khan per l’architettura, vinto nel
2010 con la fabbrica
tessile Ipekyol a Edirne, in Turchia, o
l’International Architecture Awards For
The Best New Global Design 2010, vinto per il progetto, in
coppia con Nevsat
Sayın – Studio d’architettura NSMH, del
Museo di Arte Contemporanea Santralistanbul.
Il complesso Maksimum House si trova
nella zona di Ulus,
in posizione elevata
a ridosso di una collina in prossimità
del primo dei due
ponti che mettono
in contatto la parte europea con la sponda asiatica della città, dove l’Europa incontra l’Asia.
Date le direttive urbanistiche e il divieto di costruire in prossimità del Bosforo e lungo le sue sponde, le nuove aree residenziali stanno moltiplicandosi e concentrandosi nelle zone limitrofe, occupando sempre più le alture e i rilievi collinari che si affacciano sullo stretto. Questo fenomeno di grande speculazione avviene non senza problemi di natura prettamente urbanistica, poiché a causa di mancanza di regolamenti specifici che limitino la costruzione di questi complessi residenziali, vere e proprie gated comunity, è permesso di
costruire liberamente in queste aree, pagando semplicemente alla Municipalità della Grande Città di Istanbul gli oneri di
urbanizzazione, senza dover rispettare particolari limiti in
fatto di cubature del nuovo abitato, di spazi da adibire a verde o ad altre attività ricreative, senza alcun interesse per
l’ambiente circostante e a volte senza tener conto di infrastrutture necessarie, cercando solo di ottenere il massimo
profitto dalle vendite degli edifici, riempiendo il più possibile i lotti ancora vuoti e disponibili, tra un blocco di edifici e
un altro ad esso attiguo.
In quest’ottica di urbanizzazione selvaggia, i complessi residenziali, specialmente in queste aree della città, sono desti-
49
S
Pianta del complesso, con evidenziati i tre blocchi A, B e C
nati spesso alle classi più abbienti e benestanti della società
istanbuliota, poiché poter avere la vista sul Bosforo è considerato purtroppo un privilegio riservato a pochi – ma che
tutti vogliono. Bisogna aggiungere che spesso i complessi residenziali creano anch’essi problemi per quanto riguarda la
raggiungibilità degli stessi dalle arterie stradali principali,
con conseguenti gravi problemi di traffico, e per la “forzata”
vicinanza con altri di questi complessi, in quanto ciò che vorrebbe essere dal punto di vista del cliente come esclusivo ed
Sezioni longitudinali del complesso
S
50
Piante e sezione del blocco A
Piante e sezione del blocco B
Il lato a mare
del blocco C
(foto EAA)
elitario, se ripetuto indefinitamente collina dopo collina, quartiere dopo quartiere, in un fitto continuo di costruzioni strette tra loro e divise solo da muri e recinzioni, perde tutte quelle caratteristiche che avrebbe dovuto renderlo unico.
Oltre che trovarsi in posizione centrale rispetto all’estensione della metropoli, il progetto Maximum House di EAA si
pone come obiettivo di limitare l’edificato, cercando un inserimento paesaggistico di qualità che lasci “respirare” gli
edifici nell’ambiente circostante, senza negare al contempo
la privacy e l’intimità ai residenti del complesso.
Orientati verso sud/sud-ovest, i tre edifici che compongono
il complesso residenziale, che si sviluppa seguendo le curve
di livello del terreno, hanno una magnifica vista che dal ponte si apre verso la penisola della città storica, la sponda asiatica di Üsküdar e sul Mar di Marmara.
Dal punto di vista architettonico il progetto presenta delle
interessanti soluzioni per quello che riguarda la composizione delle facciate; pur trattandosi di tre edifici residenziali assolutamente contemporanei con una struttura in calcestruzzo armato e pareti rivestite da pannelli in metallo, oltre
che da vetrate incorniciate da telai di acciaio, dal punto di
vista formale non mancano tuttavia i riferimenti a una tradizione autoctona abitativa, in cui il legno costituiva la parte
predominante dell’involucro. Nel progetto di EAA le facciate degli edifici sono per l’altezza di tre piani rivestite interamente da pannelli in legno a fisarmonica, che all’occasione
si possono chiudere completamente, dando l’impressione
di trovarsi davanti a una parete cieca composta di listelli di
legno; effetto che scompare non appena si aprono le “persiane”, mostrando al di sotto la trasparenza delle superfici
vetrate scorrevoli a tutta altezza che definiscono i vari piani. Questo accorgimento serve, da un punto di vista funzionale, a smorzare gli effetti del sole che, data la buona esposizione e la posizione dei tre volumi sul fianco della collina,
è praticamente presente dalle prime luci del mattino fino al
tramonto e crea così un effetto di filtro, di schermo contro i
Dettaglio della parete a “persiane” a fisarmonica
(foto EAA)
Pagina accanto:
la piscina all’aperto tra i blocchi B e C
(foto EAA)
raggi solari diretti, evitando l’uso di tendaggi esterni o di altri tipi di cortine.
Anche le coperture a falde presentano dei forti aggetti che
superano la linea di gronda, proteggendo oltremisura gli
edifici dalle intemperie e nuovamente creando una zona
d’ombra per l’ultimo piano della casa, quello che è sprovvisto dei pannelli lignei di rivestimento; questa soluzione progettuale trova nuovamente forti corrispondenze con il fare
architettonico tradizionale, in cui i tetti
aggettavano vistosamente rispetto alle linee verticali, creando
un’orizzontalità d’insieme delle costruzioni, tipico ancora di
molte abitazioni visibili lungo le sponde del
Bosforo.
Le parti di collegamento all’interno del complesso, il piano terra
dei tre edifici, i terrazzamenti su cui sono
costruiti, gli accessi
per le macchine come
pure quelli pedonali,
le scalinate che connettono i vari livelli sono invece intenzionalmente lasciati spogli,
privi di alcuna decorazione o trattamento,
con grandi parti di murature in calcestruzzo
armato a vista, reso più
leggero – se così si può
dire – e meno dominante nell’ambiente,
grazie al verde – alberi, arbusti e prati – che lo contengono, per il progetto del
quale EAA si sono serviti della collaborazione dell’architetto
del paesaggio Deniz Aslan e dello studio d’architettura Trafo.
I percorsi si sviluppano quindi tra queste pareti grigie, rese
lisce da un buon trattamento del materiale, collegando tra loro i tre edifici e il complesso con l’esterno.
Il progetto Maximum House di EAA per il quartiere di Ulus
dimostra quindi la possibilità di poter fare edilizia di alta
qualità, certamente non alla portata di tutti, nel pieno rispetto sia delle comodità di chi vi abita sia del circondario. Il
colpo d’occhio per chi lo guarda da lontano, ad esempio
percorrendo l’autostrada del ponte sul Bosforo, è di un perfetto inserimento in cui le parti verdi equilibrano quelle costruite evidenziandone i colori dominanti, il grigio dei muri
e dell’edificio e il legno rossastro dei rivestimenti.
L.O.
53
S
Vista prospettica della
struttura dall’alto. Si
nota la strada pedonale
e la densa
urbanizzazione
dell’area centrale di
Beşiktaş
(foto GAD)
In basso
il nuovo mercato
del pesce visto
dalla strada
(foto GAD)
Inserimenti
contemporanei
nel tessuto
storico
S
L’interno del mercato con i nuovi
banchi per la vendita e le
illuminazioni a “filo e lampadina”
sospese su di essi (foto GAD)
Beşiktaş Fish Market
Ubicazione: Istanbul (Beşiktaş), Turchia/
Progetto di architettura: GAD & Gökhan Avcıoğlu
Architetto: Gökhan Avcıoğlu
Gruppo di lavoro: Ozan Ertuğ, Serkan Cedetaş,
Gözde Demir, Tahsin Inanici
Fotografie: GAD
Tipo di costruzione: acciaio
Totale area costruita: 320 mq
Data del progetto: 2007-2008
Data della realizzazione: 2008-2009
Sito web: www.gadarchitecture.com
GAD, lo studio di progettazione fondato nel 1994 e guidato dall’architetto Gökhan Avcıoğlu, evoca già nel suo significato di Global Architecture Development l’idea di occuparsi dell’architettura a 360 gradi, cercando di unire la pratica architettonica – due studi, uno a
Istanbul e l’altro a New York – con la
ricerca e con una metodologia di approccio basata sui nuovi software per
la progettazione e la modellazione.
Il mercato del pesce nel Comune di
Beşiktaş e il centro artistico e culturale
Borusan a Beyoğlu sono i due esempi
scelti per rappresentare il lavoro, all’interno di parti del tessuto storico esistente di Istanbul, di Gökhan Avcıoğlu,
che spesso collabora in molti dei suoi
ultimi progetti con un altro architetto
turco, Dara Kırmızıtoprak.
Il piccolo mercato del pesce, nel quartiere densamente popolato di Beşiktaş,
è stato concepito come una strutturacopertura per la collettività, legata alle
Diagrammi generativi del progetto
55
S
Sezione della copertura
Diagramma
della struttura
della copertura
Schema dei banchi
e loro disposizione
all’interno dell’area
del mercato
S
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attività di vendita dei prodotti ittici e come snodo viario e punto di riferimento
per la popolazione locale. I banchi del
mercato del pesce si trovavano nello
stesso sito, in un’area triangolare che
forma una biforcazione che immette dalla strada principale verso la piazza centrale di Beşiktaş. L’edificio che gli ospitava era una struttura in tralicci di ferro
ormai in decadenza, arrugginita e senza
particolari pregi architettonici, che il Comune di Beşiktaş aveva deciso di abbattere e sostituire con una nuova e più
funzionale per le attività di mercato.
Il sito triangolare, circondato su due dei
tre lati da bassi edifici d’inizio Novecento adibiti a ristoranti del pesce e aperto
sul restante lato verso una strada che
connette il centro pedonale di Beşiktaş
con le arterie principali di comunicazione, non offriva molte possibilità d’intervento all’architetto, se non quelle di lavorare su forme progettuali triangolari,
o da questa generate. La scelta progettuale è stata quindi condizionata, non
potendo modificare l’area stessa, dalla
sostituzione della struttura esistente, con
una nuova copertura avvolgente, poggiata al terreno solamente su tre punti
in corrispondenza degli angoli del triangolo, che permette di ottenere un unico
spazio privo di sostegni nella parte sottostante, mentre con la precedente copertura molti pali di sostegno ostacolavano il passaggio all’interno dell’area. Si
tratta di una struttura concava a guscio
di conchiglia in acciaio, aperta su tutti e
tre i lati, e uniformemente ricoperta da
un rivestimento grigio chiaro in cemento, vagamente amorfo nei suoi angoli
smussati, che avvolge al suo interno i
nuovi banchi del mercato. Un intervento
minimale che ha permesso di ottimizzare il sito, rendendolo più igienico – fatto non trascurabile – funzionale e utilizzabile dalla collettività.
GAD e Gökhan Avcıoğlu hanno iniziato
il processo progettuale con una serie di
manipolazioni del sito triangolare e della sua superficie; dalla geometria iniziale di riferimento, il triangolo, ma anche
la forma stilizzata del pesce vi può essere letta, la struttura è cresciuta nella
terza dimensione, modellandosi in modo da non creare un volume solido a
base triangolare, ma quasi una struttura
porosa, che si adatta alle varie curvature che lo rendono organico e amorfo
nel suo avvolgere e contenere gli spazi
sottostanti. I banchi – rivestiti in lucente
metallo – sono stati fatti a mano da maestranze locali, ancora una volta per rendere il progetto il più locale possibile,
assemblando dei fogli in acciaio inossidabile e sono essi stessi delle superfici
curvate e amorfe, disposti all’interno
dell’area del mercato in sei gruppi separati, sui quali una costellazione di
lampadine a bulbo da 150 watt, sostenute da cavi elettrici arancioni a vista,
illuminano i prodotti ittici in attesa di
essere venduti. Anche in questo caso
non si è voluta abbandonare un tipo d’illuminazione frequente nei mercati rionali della città, con le lampadine a vista.
Dai diagrammi e dagli schemi costruttivi della struttura si può capire come
l’ambiente marino, le forme dei pesci,
le geometrie rese amorfe dall’elaborazione al computer abbiano portato l’architetto a raggiungere la scelta progettuale che meglio esprimesse questi riferimenti. Dei sottili parapetti in muratura
ad altezza d’uomo, rivestiti da un fine
mosaico colorato composto di tessere
esagonali, corrono lungo i tre lati, separando ma non chiudendo lo spazio del
mercato dalla strada pedonale e dai ristoranti tutt’attorno. La gente passa lungo la strada pedonale e se vuole attraversa il mercato senza dover entrare in
un luogo chiuso e circoscritto, semplicemente deviando tra i banchi e proseguendo il proprio cammino liberamente, che il più delle volte finisce tra i banchi, quelli dei vari ristoranti, per gustare ciò che di esposto ha appena visto.
L.O.
Il nuovo mercato del pesce visto dalla strada (foto GAD)
La struttura concava a guscio di conchiglia inserita nel profilo stradale (foto GAD)
Lo spazio interno tutto aperto del mercato (foto GAD)
57
S
Borusan Music & Art House
Ubicazione: Istanbul (Beyoğlu), Turchia
Cliente: Borusan Holding
Progetto di architettura: GAD & Gökhan Avcıoğlu
Architetto: Gökhan Avcıoğlu
Gruppo di lavoro: Ozan Ertuğ, Baris Ucar,
Ayhan Urguplu, Arzu Meyvaci, Yeliz Ozsoy,
Bora Soykut, Gozde Nur Demir, Serkan Cedetaş,
Ertuğrul Morcol
Architettura d’interni: GAD
Fotografie: Özlem Avcıoğlu
Tipo di costruzione: acciaio
Area di progetto: 230 mq
Totale area costruita: 1.900 mq
Data del progetto: 2007
Data della realizzazione: 2007-2009
S
La facciata dell’edificio sulla strada principale
(foto Özlem Avcıoğlu)
Pagina accanto:
l’edificio ad angolo visto di scorcio in una fotografia
notturna che mette in evidenza la doppia pelle, quella
antica fuori e quella high-tech all’interno
(foto Özlem Avcıoğlu)
La strada chiamata İstiklal Caddesi (Viale dell’Indipendenza)
è una delle arterie più importanti del quartiere di Beyoğlu,
vero cuore pulsante della parte europea della città. Lungo i
suoi quasi 2 km di lunghezza, percorribili unicamente a piedi o utilizzando un tram “nostalgico” che si muove tra i suoi
due estermi, Tünel e Taksim, si trova il movimento, il colore,
il rumore e la moltitudine
di gente che lì si concentra notte e giorno, con negozi, cinema, locali per intrattenimento, night, librerie, consolati, chiese armene, cattoliche, ortodosse,
jazz club, birrerie, centri
culturali, gallerie d’arte, ristoranti, teatri e musei.
La Borusan Holding, per
cui il gruppo GAD aveva
già lavorato all’inizio degli anni 2000 per la costruzione di un centro espositivo nell’area verde di Parkorman, ha voluto contribuire alle attività culturali
del centro della città con
questo grande intervento
che interessa un’area storica della zona di Beyoğlu.
GAD ha creato un forte
contrasto con l’ambiente
circostante, una tensione
progettuale tra antico e
moderno in un’area carica
di memorie urbane, svuotando letteralmente un
edificio di inizio Novecento e inserendovi dentro
una scatola trasparente sorretta da una struttura in acciaio a
vista. Un gesto contemporaneo che aveva già funzionato per
il centro convegni di Esma Sultan, nel borgo di Ortaköy, dove
una scatola in vetro con una struttura high-tech era stata inserita all’interno di un antico edificio ottomano in rovina, di cui
era rimasta in piedi solo la muratura in mattoni a vista. In
quel caso si trattava però di una struttura di soli due piani,
mentre per il viale İstiklal l’edificio in questione è una struttura di sei piani, quindi più complessa da progettare. La scatola
è stata pensata con un sistema a griglia di pali disposti a “X”,
con un leggero telaio in acciaio, e una serie di solette ad essa
ancorata, che corrono lungo tutto il perimetro interno dell’edificio esistente. Questa soluzione progettuale ha consentito all’architetto di ottenere degli spazi aperti flessibili, sprovvisti cioè di muri interni o di pareti e tramezze, a ogni piano,
da poter essere usati secondo il programma delle mostre o
delle attività che si svolgono a tutti i piani dell’edificio.
L’ingresso principale si trova sulla İstiklal, leggermente sopraelevato a cui si accede tramite dei gradini di marmo, memoria
59
S
Sezione AA dell’edificio, dove si evidenzia la struttura di
travi a “X” in acciaio e le rampe di scale che danno
accesso ai diversi piani
Pianta dell’edificio a livello
della strada
Schema costruttivo dell’edificio che mostra la scatola di acciaio, senza le
pareti vetrate e la parte superiore che ospiterà il ristorante-caffetteria
S
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Schema costruttivo dell’edificio che mostra la scatola di acciaio con il suo
rivestimento in vetro inserita all’interno, con le solette che si attaccano alle
vecchie murature di perimetro
In alto a destra:
il piano della terrazza collegata al ristorante in
costruzione (foto Özlem Avcıoğlu)
La sala da concerti (foto Özlem Avcıoğlu)
dell’antico ingresso, incorniciati da due colonne in acciaio che
pare sostenere l’intera facciata, mentre un ingresso secondario
da sulla strada laterale, la via Piremeci. Il piano terra a cui si
accede dalla strada principale è perfettamente visibile grazie
all’utilizzo di ampie vetrate, che permettono di vedere all’interno parte delle opere esposte, e ricordano in qualche modo le
vetrine dei negozi presenti lungo tutta la strada.
All’interno dell’edificio, a seconda delle mostre o
delle attività svolte, si possono salire le scale, che
corrono parallele sul lato della strada secondaria,
oppure prendere l’ascensore che è situato immediatamente alla sinistra dell’ingresso. La sala da
concerto, o da riunione, si trova al secondo e terzo piano, con una capienza massima di 100 persone, dove il secondo piano funziona da platea
mentre il terzo da galleria; un grande buco tra i
due piani permette a quelli che si trovano sopra
di poter comodamente guardare di sotto.
Al quarto piano ci sono sei camerini e delle piccole sale per le prove, mentre il quinto piano è
nuovamente utilizzato come il piano terreno per
poter ospitare diversi tipi di eventi. Al sesto piano
infine, si prevede l’apertura di una caffetteria e
bar, attraverso i quali si potrà accedere alla terrazza sovrastante, che si apre alla vista del Bosforo e della città; la
terrazza, ricoperta da una pavimentazione in legno farà parte
della caffetteria e l’accesso avviene tramite delle scale esterne.
Le opere artistiche, che sembrano parte integrante dell’edificio stesso, visibili nelle fotografie fanno parte della prima
mostra con cui il centro ha inaugurato le sue attività culturali lo scorso anno; l’installazione più rilevante è costituita da
una serie di tubi LED che illuminano le colonne a “X” lungo
61
S
tutta la facciata, opera del 2008 di Leo Villareal dal titolo Untitled. Al piano terreno si può vedere il lavoro Elo (Spiderlights), progettato da Christian Partos nel 2009, in cui delle
lampadine a bulbo aumentano e diminuiscono d’intensità a
tempo con la musica in corso, mentre tre porte di differenti
colori attirano l’attenzione del visitatore con l’illusione di
una serie di passaggi infiniti attraverso l’edificio e sono utilizzate anche come ingresso per l’installazione denominata
Shortcuts, di Ivan Navarro.
S
L’ingresso principale dell’edificio con alcune
installazioni (foto Özlem Avcıoğlu)
La sala da concerti con i due piani utilizzabili come
loggia e platea. In evidenza la struttura con i pali a “X”
(foto Özlem Avcıoğlu)
Foto piccola a sinistra:
un’installazione inserita nello spazio a “V” della struttura
(foto Özlem Avcıoğlu)
L’intervento di GAD riesce perfettamente a creare una simbiosi tra l’antico e il contemporaneo, mettendo in evidenza
la bellezza riuscita nella combinazione di due contenitori-involucri così differenti fra loro. In una città come Istanbul, carica di storia ma decisamente proiettata nel futuro, la scelta
del gruppo Borusan di affidare un progetto così delicato a
un architetto come Gökhan Avcıoğlu sembra essere stata
quella vincente.
L.O.
S
The Seed, ovvero
musica nella pancia
della balena
SSM Concert Hall – The Seed
Ubicazione: Istanbul (Emirgan), Turchia
Progetto di architettura: NHMH – Nevzat Sayın
Gruppo di lavoro: Umut Durmus, Neslı Kayalı,
Fatma Olgac, Ahmet Korfalı, Sinem Cerrah
Cliente: Sakıp Sabancı Museum
Strutture: Arce Necatı Celtıkcı
Impianti elettrici: Enkom – Belgin Merey
Ingegneria meccanica: Okutan Engineering
Acustica: Team Fores – Turker Talayman
Impresa di costruzione: Önder İnşaat
Area di progetto: 2.000 mq
Data del progetto: 2007
Data della realizzazione: 2008-2009
Fotografie: Cemal Emden, NSHM
Sito web: www.nsmh.com
Uno degli ultimi lavori dell’architetto
Nevsat Sayın, progettista di Smirne che
ha il suo studio a Istanbul dal 1985 con
il nome di NSMH (Servizi per l’Architettura Nevsat Sayın), si presenta come
un interessante intervento contemporaneo, minimale e mimetico al tempo
stesso, in un sito lontano dal centro e
dalla frenesia della metropoli, un luogo
ideale per la contemplazione del paesaggio e per l’ascolto della musica.
Nel sobborgo di Emirgan, lungo la costa
occidentale del Bosforo, la famiglia Sabancı, una delle più potenti in Turchia,
possiede una proprietà comprendente
una villa con un grande parco annesso
che dal 2000 è stata trasformata in un
museo di arte moderna, il Museo Sakıp
Sabancı (SSM). Negli ultimi anni, data
S
64
Il foyer-corridoio della sala da concerti
(foto Cemal Emden)
Pagina accanto, dall’alto:
ingresso alla sala da concerti dal lato del giardino, con in
primo piano un portico di una tipica costruzione in legno
ottomana (foto Cemal Emden)
La terrazza esterna alla sala da concerti e le murature
con pietre in gabbie di metallo a vista
(foto Cemal Emden)
l’alta affluenza dei visitatori, attratti dalle mostre di alto livello
e dalla bellissima locazione dell’immobile, che fu costruito sul
finire degli anni ’20 dall’architetto italiano Edoardo de Nari, il
museo si è dotato di nuovi spazi ricettivi, ampliando le sale
espositive, aggiungendo una terrazza belvedere con caffetteria
e ristorante e “scavando” nei fianchi verdi della collina che separa il museo dal mare, la struttura a seme, o a nocciolo, The
Seed appunto, progettata da Nevsat Sayın.
“Il dentro di quello che sta dentro” potrebbe essere la traduzione dal turco che più rispecchia il pensiero dell’architetto
riguardo a The Seed, che per questo lavoro si è ispirato alla
filosofia sufi dei Mevlana, i dervisci rotanti. L’originalità del
progetto è infatti nel guscio che è solo un contenitore, privo
di esterno, in cui tutto avviene dentro. Nel mondo dei sufi è
quello che abbiamo dentro di noi – energia non palpabile
ma percepibile – che esprime il massimo della bellezza di
Dio e del creato, che è spesso raffigurato come un vuoto. I
dervisci pregano danzando, muovendosi in circolo e su se stessi in questo
spazio vuoto, riproducendo il movimento delle molecole a scala infinitesimale o quello dei pianeti e delle galassie a scala cosmica.
L’architetto ha progettato “in negativo”, pensando cioè al vuoto che costituisce il pieno, che forma il vero centro del progetto. Per ovviare a un senso di claustrofobia che questo edificio
“sottomarino” potrebbe generare, il foyer a livello della sala si apre invece
come una lunga grande fessura vetrata, uno squarcio orizzontale che dà
l’accesso a una superficie uguale ricoperta da doghe in legno
all’esterno, dalla quale la vista del visitatore può spaziare sul
mare davanti e sulle colline della parte asiatica della città.
Il progetto si compone quindi di due parti fondamentali: il
guscio in struttura d’acciaio all’interno, ricoperto dalla stessa terra da diporto utilizzata nello scavo, e una struttura in
calcestruzzo armato che lo blocca e lo ancora alla collina, in
cui si trovano l’accesso, i due livelli che contengono la sala,
gli spazi per i volumi tecnici, le uscite di sicurezza e i terrazzamenti collegati al guscio stesso.
Una parte consistente del progetto è stata ovviamente dedicata allo studio sull’acustica di questa sala, che presentava
non pochi problemi dovuti alla forma e ai materiali utilizzati per la costruzione della struttura. Grandi pannelli metallici di forma quadrangolare che rivestono l’interno della struttura come squame di pesce, dipinti in giallo oro sul soffitto,
o zigrinati e bruniti lungo le pareti laterali, rendono splendente il guscio dall’interno e allo stesso tempo garantiscono
la migliore acustica, risolvendo i problemi di riverbero e di
eco delle onde sonore. Altra nota allegra del progetto The
Seed è data dall’uso dei colori; essendo una struttura interamente sigillata, chiusa e priva di aperture di alcun genere
nella sala, l’architetto ha pensato di rendere vivace e non
monotono l’ambiente – e come spiega lui, per “aiutare” an-
65
S
Pianta della sala da concerti e della terrazza antistante
Sezioni trasversali della sala
S
66
Sezione longitudinale della sala
The Seed durante la costruzione (foto NSMH)
Sezione con dettagli costruttivi della struttura del “guscio”
che i musicisti a sentirsi psicologicamente a proprio agio
durante le prove, che solitamente avvengono senza pubblico
– aggiungendo mille colori ai rivestimenti delle poltroncine,
e dando così un impressione di trovarsi in un ambiente di
festa, con le luci che, prima e dopo lo spettacolo, trasformano le sedie in comparse, in divertenti macchie di colore.
L’attenzione dell’architetto per i dettagli, per le parti apparentemente marginali nella progettazione di un grande edificio è visibile in molti dei suoi progetti; si può dire che sia
quasi una sua firma, specialmente per quello che riguarda i
trattamenti o i materiali utilizzati nei rivestimenti o nelle murature esterne. In questo caso non si può fare a meno di notare il rivestimento a pietre ingabbiate in una rete metallica,
che fanno diventare tutto l’insieme dell’edificio, come una parte
degli esistenti terrazzamenti in
pietra, senza disturbare la vista e
senza presentarsi come una massa solida che invade il verde del
parco. Entrando dall’ingresso a
mare del museo, e salendo le
rampe di scale che portano all’ingresso vero e proprio dell’edificio museo, la struttura/muratura
di Nevsat Sayın passa veramente
inosservata, come se si trattasse
di una parte sempre esistita per
contenere la collina.
Una sala per la musica e per conferenze completamente interrata
nei fianchi della collina, invisibile dall’esterno, dove le murature
a gabbie di pietra a vista, che richiamano per alcuni versi il lavoro di Herzog and de Mouron in
California per la Dominus Winery, mostrano invece tutta la loro
espressività nel gioco dei volumi
dei terrazzamenti che funzionano da belvedere per il museo, al
livello superiore, e da foyer al livello della sala per concerti. La
67
S
pavimentazione stessa del belvedere del foyer è interamente
ricoperta da doghe in legno, che accentuano l’effetto prospettico di questa promenade nella natura, sospesa nella bellezza del paesaggio che da qui si gode.
Guardando al progetto di Nevsat Sayın verrebbe da pensare
che più che di fronte a un’architettura imponente, ci si trova
invece davanti a una carena di nave fossile, rimasta sepolta
per la gioia degli archeologi del futuro. Trovandocisi all’interno poi, il pensiero non può che andare a Pinocchio o a
Giano nel ventre della balena, solo che in questo caso la
scelta di entrarvi è volontaria, e il piacere di assistere a un
concerto in uno spazio come questo vale la pena per la momentanea “reclusione”.
L.O.
La sala da concerti vista dal palco
(foto Cemal Emden)
S
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Istanbul Naval Museum
Ubicazione: Istanbul (Beşiktafl), Turchia
Progetto di architettura: Teğet Mimarlık
Architetto: Mehmet Kütükçüoğlu, Ertuğ Uçar
Gruppo di lavoro: Alev Dağlı, Hande Köksal,
Saro Dionyan, Senem Akçay
Gruppo per il rilievo e il restauro: Atölye Mimarlık
Strutture: Tem Engineering
Ingengeria meccanica: Okutan Engineering
Impianti elettrici: Yurdakul Engineering
Consulenza per mappature: İmge Harita
Architettura del paesaggio: Arzu Nuhoğlu-Aygen Kancı
Landscape design
Consulenza antincendio: Alara
Illuminotecnica: Atila Uysal (SBLD Studio), Kroma
Edificio esistente da restaurare: 2.600 mq
Edificio provvisorio: 1.650 mq
Totale area costruita: 15.000 mq
Data del progetto: 2007-in fase di costruzione
Sito web: www.teget.com
Il nuovo Museo
della Marina
Un museo del mare o, meglio, il Museo della Marina (Deniz
Müzesi) sta per essere terminato lungo le sponde del Bosforo, nel quartiere centralissimo di Beşiktaş, per opera del
gruppo Teğet Mimarlık, fondato da
Mehmet Kütükçüoğlu ed Ertuğ Uçar
nel 1996.
Lo storico Museo della Marina di
Beşiktaş era composto di due parti
distinte, disposte attorno a un cortile
aperto in cui era possibile ammirare
obici, cannoni, pezzi di artiglieria, resti di sottomarini e persino bombe.
Le due parti costruite erano un piccolo edificio a due piani anni ’40 rivestito in pietra, che ospitava le cartografie, le bandiere storiche, i modellini, le armi e gli stendardi, i dipinti e
tutta una serie di documenti e di piccoli oggetti che fanno
parte della collezione della Marina Militare turca e un grande capannone-hangar contenente diversi tipi di imbarcazio-
S
70
Dall’alto:
silhouette che mostra i volumi del museo in rapporto agli
altri edifici nelle vicinanze, in particolare con riferimento
al museo-palazzo di Dolmabahçe
Rendering dell’ingresso al museo, con la piazza antistante
Rendering dell’ingresso in rapporto alla strada principale
1
2
L’area del sito con il nuovo museo e l’edificio storico
restaurato in alto a destra
5
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3
4
6
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1. Hall d’ingresso
2. Caffetteria
3. Punto vendita
4. Spazio bimbi
5. Sala proiezioni
6. Biblioteca
7. Laboratorio per la conservazione
8. Rampa di accesso alla Sala dei caicchi
Pianta a livello dell’ingresso del Museo della Marina
Rendering dei volumi del complesso museale
ni di varie dimensioni come i caicchi o le feluche, esempi
notevoli di natanti sia ottomani sia turchi del primo periodo
repubblicano. Quest’ultimo edificio era diventato ormai obsoleto e inadatto per mostrare al pubblico una collezione così particolare di
imbarcazioni storiche in legno che nel
tempo si stava deteriorando, principalmente a causa di ineguatezze dei sistemi di umidificazione e di controllo della temperatura all’interno dei locali esistenti.
La Municipalità di Beşiktaş e la Marina
Militare hanno deciso di porvi rimedio, tramite concorso, richiedendo una
struttura museale moderna che possa
preservare la raccolta, promuovendo
l’aspetto turistico e culturale dell’operazione.
Il progetto vincente è risultato quello
dal gruppo Teğet ed è al momento in corso di completamento. Una parte molto difficile nella fase progettuale, che ha
notevolmente allungato i tempi per la costruzione del nuovo
71
S
museo, è stata l’eliminazione del vecchio edificio capannone, evitando però di compromettere la conservazione delle
imbarcazioni, che non potevano neppure essere spostate in
altri siti, data la loro delicatezza e le notevoli dimensioni.
Teğet si è così impegnato per progettare in fase d’opera uno
spazio coperto provvisorio in cui alloggiare temporaneamente le imbarcazioni all’interno dell’area museale. Un compito
difficile perché per lo studio si è trattato di progettare inizialmente una serie di strutture movibili di differenti dimensioni,
fatte su misura per ogni imbarcazione e adatte a poterle spostare nel capannone provvisorio, in attesa della sistemazione
finale. Un’area del progetto, dove in futuro sorgerà l’ingresso
principale, è al momento occupata da questa struttura provvisoria che sarà a sua volta demolita terminata la prima fase
progettuale della sala per l’esposizione delle imbarcazioni,
quando finalmente potranno trovare la loro definitiva sistemazione.
Occorre sottolineare che questo progetto di Teğet è importante perchè rappresenta un raro esempio di architettura
contemporanea sul Bosforo, laddove le ristrettive leggi imposte per le costruzioni lungo le due sponde, non prevedono la possibilità – dopo alcuni scempi del passato – di costruire alcunché di aspetto “moderno” in prossimità del braccio di mare che separa i due continenti.
Il progetto sinteticamente invita il visitatore, attraverso un
percorso continuo tramite rampe e passaggi sospesi, a circolare in tutta l’area espositiva entrando dall’edificio nuovo dal
Dettagli costruttivi della struttura della grande sala
S
72
Fotomontaggio del nuovo museo visto dal lato dello scalo
di Beşiktaş
Rendering della vista dall’ingresso, guardando verso la
sala dei caicchi
Schema dei punti di visuale, entrando nel museo, e del
rapporto con il mare all’esterno
Schema dei punti di visuale sulle imbarcazioni
lato verso la strada, vedere la grande sala contenente la collezione di imbarcazioni, per poi entrare nell’edificio restaurato
e quindi uscire nuovamente dall’ingresso principale, senza mai
dover attraversare due volte lo stesso spazio.
L’edificio principale, quello che ospiterà le imbarcazioni, richiama con la sua forma a pettine, affacciato direttamente
sul fronte mare, gli antichi arsenali in cui le navi venivano costruite, costituiti da lunghe scatole parallelepipede che si aprivano
per permettere la discesa dal cantiere direttamente nell’acqua. Il lavoro di Teğet si mostra quindi dall’esterno come un’alternanza di
pieni e di vuoti nell’involucro dell’edificio, con un effetto simile a
quello di grandi blocchi rettangolari disomogenei per lunghezza e
larghezza, alcuni dei quali tamponati sul lato a mare e altri resi trasparenti da ampie vetrate che mettono continuamente il visitatore in contatto con le imbarcazioni all’interno e con il
mare all’esterno. Una strada litoranea, utilizzata in prevalenza dai mezzi pubblici di trasporto e connessa ai due frequentatissimi scali di vaporetti urbani posti ai suoi estremi, separa il mare dal museo e per rendere omogenea la continuità
fluida del mare, uno specchio d’acqua artificiale, posto tra
l’edificio e la strada stessa, rifletterà ulteriormente l’edificio, accentuando le sagome ad arsenale
di cui è composto.
Il percorso è stato pensato come
continuo, che inizia e finisce nello
stesso punto, dal lato cioè del nuovo ingresso dell’edificio lungo la strada principale, quella
che connette Beşiktaş con il resto della città in direzione
nord-sud. Nell’edificio principale si entra perciò dal retro,
dove la facciata, un grande volume bianco in aggetto, in parte sospeso nel vuoto, si apre su di uno spazio aperto pubblico che funziona da filtro tra la strada e il museo stesso; una
volta entrati, attraverso una rampa posta a una quota sopraelevata rispetto al resto del museo, si scende verso la sala espositiva, vedendo già il mare davanti, attraverso le grandi finestrature che intervallano le murature cieche. Il trucco
si disvela al visitatore proseguendo nel percorso; all’interno
della grande sala, dopo essere discesi dalla rampa d’accesso,
non si percepiscono i blocchi visibili invece dall’esterno, ma
solo l’alternanza di pieni (le pareti tamponate) e di vuoti (le
finestrature aperte sul mare). Da lì si percorre la grande sala espositiva, sprovvista di sostegni – i ponti sono in pratica
delle strutture a travatura appese al soffitto – in tutta la sua
lunghezza e si possono ammirare le imbarcazioni dal basso
in sequenza cronologica, per poi, attraverso una rampa che
corre parallela alla sala dal lato opposto al mare, salire al livello dei ponti, e guardare dall’alto le imbarcazioni viste in
precedenza e le altre che a questo livello sono in mostra. I
73
S
Rendering in spaccato assonometrico della grande sala
dei caicchi; sullo sfondo si può osservare il vecchio edificio
che sarà integrato nel nuovo progetto
Rendering in spaccato assonometrico della grande sala dei caicchi e dei ponti sospesi
ponti sopraelevati, disposti in maniera perpendicolare e
quindi allineati con le imbarcazioni, permettono inoltre di
poter osservare gli oggetti esposti con differenti prospettive,
mettendo il visitatore in relazione con lo spazio museale
dentro, e con la città, il Bosforo le navi che lo attraversano
continuamente fuori.
La circolazione nel museo è obbligata, nel senso che il visitatore che percorre la grande sala, dopo aver visto anche
un’altra stanza sotterranea che ospita i reperti “sottomarini”
della collezione, deve necessariamente salire sulla rampa alla fine della stessa per portarsi al livello superiore. Dopo
aver completato quindi il giro, il percorso prosegue su di
una passerella sospesa ma coperta, che immette direttamente al secondo piano del vecchio edificio restaurato e integrato nel nuovo progetto, dove si trovano i pezzi più piccoli
della collezione.
Scendendo le scale di questo edificio e finito il giro nelle varie stanze, il visitatore si ritrova nuovamente nella grande
hall che da accesso al museo, dove può trovare la caffetteria, un negozio libreria, una sala per i bambini e, lungo la
parete sud dell’edificio, una biblioteca e uno spazio audiovisivo polivalente per proiezioni e incontri. Un passaggio
permette l’accesso sul giardino interno del museo, che in
pratica assolve le stesse funzioni che aveva anche nella vecchia struttura, permettendo la vista di oggetti non deteriorabili in metallo, come cannoni e altri residuati bellici.
Il gruppo Teğet riesce quindi, con un programma molto complesso e con una progettazione attenta al luogo e alle esigenze museali espositive, a rendere il Museo della Marina veramente contemporaneo e fruibile, possibile volano inoltre per
l’area stessa dello scalo di Beşiktaş, dove attualmente la gente sosta poco e usa lo spazio principalmente per il transito.
L.O.
S
74
Rendering del piano ammezzato con le strutture a
traliccio a vista
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Sperimentazioni di
Antonino Cardillo
nuovi
orientamenti a cura di Massimo Locci
M
n.42
2011
76
olti sono i giovani architetti
che, sostenuti da solidi approcci teorici e volontà di sperimentazione, definiscono interessanti soluzioni formali, talvolta con complessi e
innovativi processi che, però, vengono
verificati solo virtualmente grazie agli
attuali strumenti di modellazione 3D.
Spesso sono autocommittenze, che rispondono a un programma funzionale
predefinito, ma che difficilmente sono
in grado di superare la verifica concreta del cantiere.
House of Twelve,
rendering e piante
Sostanzialmente su questo piano si collocano le prime esperienze progettuali
di Antonino Cardillo come le due case
qui presentate, Ellipse e Twelve, anche
se sono due proposte immaginate per
un contesto specifico e per un’utenza
determinata. In questi due progetti
emerge una forte sensibilità poetica
che coniuga consapevolmente ricerca
morfologica e dialogo con la storia,
segnatamente le avanguardie del Movimento Moderno e le linee più sperimentali del contemporaneo. La sua
formazione alla scuola di Antonietta
Iolanda Lima è stata una buona base
di partenza.
Pochi sono, però, i giovani che fin dalle
prime prove concrete riescono a tradurre sul piano operativo-esecutivo
l’articolazione spaziale e la ricchezza
compositiva delle forme, senza smarrire la purezza dell’approccio teoricosperimentale. Quando si realizza tutto
ciò appare quasi miracoloso, soprattutto se si rispetta la logica spietata del
mercato edilizio che richiede rispetto
massimo delle procedure, dei budget e
delle tempistiche di esecuzione (in un
caso addirittura un’opera di Antonino
Cardillo è stata realizzata in soli 10
giorni).
Le due case sperimentali sono utili per
comprenderne l’orizzonte poetico e
concettuale: il campo operativo è sintetizzabile nella individuazione di linee
energetiche che agitano la composizione e lo spazio (forze centrifughe che
ora proiettano piani curvi nel paesaggio, ora trasformano la continuità dell’ellisse in un nautilus aperto), nell’uso
dello spazio gerarchizzato (ribassato e
contratto o con vuoti a doppia altezza)
nell’uso di artifici scenici con quinte
contrapposte (massive e trasparenti)
e travasi percettivi, nella combinazione di geometrie libere ed euclidee,
nella valorizzazione degli elementi
contrappuntistici.
Senza alcuna caduta di tensione tutto
l’apparato teorico-concettuale speri-
Ellipse 1501 House,
rendering e piante
mentato nelle due case-concept si ritrova nelle due opere realizzate; anzi nella
fase realizzativa si attua un processo di
decantazione di segni e una sistematizzazione del metodo così efficace che il
linguaggio appare chiarito e rafforzato.
Scompaiono anche alcune anomalie
tipologiche; condizione forse ineliminabile quando si affrontano temi morfologici ambivalenti tra la dimensione
privata della residenza e quella pubblica dello spazio.
n.42
2011
77
Nella prima opera realizzata, la Nomura
24 House nella baia di Osaka in Giappone, Antonino Cardillo reinterpreta
con sensibilità occidentale il tema della
casa tradizionale giapponese, proponendo un processo di ibridazione tra le due
culture dell’abitare. Attua un processo
di manipolazione di componenti specialistiche, una fusione che genera una
valenza identitaria; ad esempio tra il genkan, il loro tipico ingresso, e il nostro
In questa pagina: portico; tra il washitsu, la stanza con
Nomura 24 House, stuoie marginata da pareti scorrevoli, e
Osaka, Giappone il nostro soggiorno; tra la loro propen-
sione a creare spazi raccolti con altezze contenute e una visione aperta con
vani a tutta altezza e con tetto inclinato.
Il fattore comune è rintracciabile nell’essenzialità delle forme e dei trattamenti, nei materiali naturali e nei dettagli essenziali. La candida morfologia
sfaccettata che si incastona nella collina
verde e che, con tutta evidenza, è memore dei linguaggi rarefatti del MM, che
alla tradizione giapponese si riferiscono
in modo esplicito, e della cultura mediterranea, cui Antonino è fortemente
legato essendo siciliano.
Per cogliere le diverse relazioni di
paesaggio e di contesto l’autore si affida al “gioco sapiente” dei piani polidirezionati e dei volumi sottoposti agli
effetti della luce. I valori chiaroscurali
si accentuano grazie al bianco monocromatico e si esaltano nelle combinazioni-variazioni del palinsesto delle
bucature.
Ancora più continuità con la fase di
sperimentazione teorica è riscontrabile nel progetto di interior design per il
negozio monomarca a Milano. Frutto
di una consultazione promossa dalla rivista «Wallpaper *», è interessante per
gli esiti e per la procedura: si doveva
realizzare in 60 mq un allestimento
temporaneo con un budget limitato e
un tempo di esecuzione ridottissimo
(10 giorni).
Antonino Cardillo attraverso una sorta
di scenografia rovesciata è riuscito a
trasformare completamente l’immagine del negozio senza stravolgerne la
struttura funzionale.
Ha lavorato prima per sottrazione, fino
a rintracciare gli originali valori spaziali:
in tal modo il soppalco ritorna a essere
elemento di misura del vuoto a doppia altezza e la colonna binata riappare
come un’emergenza tettonica, astratta
e valorizzata come una preesistenza
archeologica.
Giocando sulle stratificazioni Cardillo
inserisce un parallelepipedo definito
da una semplice intelaiatura a balloon
frame e pannellature discontinue, un
pieno-vuoto che crea percezioni multiple dall’interno all’esterno e vice-
In questa pagina:
Sergio Rossi Store,
Milano
versa. Il tema della casa nella casa e
dello spazio interno che è esterno a
se stesso ha attraversato tutta la storia dell’architettura, dal continuum romano a Ungers, passando per Alberti
e Bramante.
Antonino Cardillo, a tal proposito, fa
riferimento a un «atto di sovrapposizione di significati all’interno di uno
stesso nucleo identitario, e a un gioco
di rimandi tra ordini ideali e reali».
Il volume interno è contemporaneamente un luogo enucleato e reso “a
misura d’uomo” grazie all’uso di arredi domestici, attrezzature e materiali non tecnologici (vecchie poltrone
semplicemente rivestite, lampade di
Joe Colombo riciclate, tavolini da salotto, tubi fluorescenti a vista e lampade
a incandescenza); in parte è coinvolgente e reso intrigante da una potenziale
valenza voyeristica urbana.
Nel gioco di volute ambiguità, ribaltamenti e sconfinamenti tra interni ed
esterni, l’architetto sonda le potenzialità espressive della scena teatrale,
citazione resa evidente dalla grande
tenda retrostante i telai che allude a
un sipario. Le viste si sovrappongono,
dialogando con il fondale urbano e le
diverse identità del luogo: dalla medievale Chiesa del Carmine ai brani decorativi Art Nouveau.
M. L.
n.42
2011
79
rassegna
stampa a cura di Fabio Massi
Selezione
n.42
2011
80
di articoli significativi
Renzo Piano presenta il progetto
per l’Auditorium Musicale
di Bologna
Un nuovo hotel
lungo la più grande passerella
di Amsterdam
Vienna, i “quartieri rosa”
progettati per madri single
e donne con basso reddito
Edilportale.com, 29.04.2011
«Un grande Stradivari, per avere un’acustica
di altissima qualità». Con queste parole Renzo Piano ha presentato il progetto per il futuro Auditorium Musicale di Bologna, destinato a sorgere nella centralissima area della
“Manifattura delle Arti”. La grande sala, progettata per accogliere 1.800 spettatori, sarà
caratterizzata da una forma circolare e i posti a sedere saranno disposti attorno all’orchestra: tale disposizione, spiegano dallo studio, «ha a che fare con la qualità del suono
perché tutti stanno a una distanza omogenea
dall’orchestra e quindi stanno “addosso” al
suono instaurando un rapporto più fisico con
la musica. Ciò permette inoltre agli spettatori di vedersi in faccia, e non nella nuca come
avviene in una sala tradizionale. Si crea così
un senso di appartenenza e di circolarità
emotiva che aumenta anche psicologicamente la partecipazione degli spettatori».
IlNord.com, 03.04.2011
A giugno 2011, il nuovo hotel The Exchange
aprirà le porte ad Amsterdam, grazie all’iniziativa del Lloyd Hotel e dell’Ambasciata
Culturale. L’albergo è stato sviluppato in
collaborazione con il Fashion Institute di
Amsterdam e farà parte del progetto The
Red Carpet, un rinnovamento urbano che
trasformerà l’estetica del Damrak – la strada che collega la stazione centrale con Piazza Dam – considerato l’ingresso principale
in città. Le 63 stanze dell’hotel, che vanno
da una a cinque stelle, verranno decorate da
studenti scelti e laureati del Fashion Institute.
Le camere saranno “vestite” proprio come
se fossero dei modelli da passerella. L’interno dell’albergo – accanto al quale aprirà anche un ristorante e un negozio di moda e
design – è caratterizzato dalla diversità: fresco, gioioso, sexy, comodo, classico e un
po’ audace.
BlitzQuotidiano.it, 02.04.2011
A Vienna sono state imposte linee guida
per coinvolgere le donne nell’ideazione di
nuovi quartieri, destinati alle madri single o
alle donne con basso reddito. Le prime sperimentazioni hanno avuto un gran successo:
i palazzi sono dotati di corrimano sia per i
più grandi sia per i più piccoli e sono molto
vicini agli spazi aperti o alle fermate dei mezzi pubblici, mentre negli edifici le lavanderie
sono state spostate dalla cantina ai sottotetti, con terrazzino adibito all’asciugatura
dei panni e per il gioco dei bambini, e i depositi per le carrozzine sono messi vicino
all’ascensore. Negli appartamenti, invece, c’è
molta flessibilità: le camere sono di dimensioni ampie, accorpabili o divisibili a seconda
dei cambiamenti in famiglia, e la cucina è posta in posizione centrale in modo da poter
sorvegliare i bambini mentre giocano e fanno
i compiti.
Efficienza energetica
e acquisti pubblici
Risparmiare acqua e spazio
in bagno? Si può!
Giro del mondo in 4 ponti.
Futuristici
AcquistiVerdi.it, 21.04.2011
Lo scorso 8 marzo la Commissione Europea
ha pubblicato il Piano di Efficienza Energetica
2011, con il quale mette a punto le azioni
proposte per raggiungere gli obiettivi UE
di ridurre i consumi primari di energia del
20% entro il 2020. Esso prevede un ruolo
chiave per gli acquisti pubblici, sia per quanto riguarda il rinnovo degli edifici esistenti
sia nell’introduzione dei principi di efficienza energetica nei bandi di gara. Azioni specifiche proposte dal piano comprendono:
una richiesta per le amministrazioni pubbliche di convertire almeno il 3% della superficie dei propri edifici, l’applicazione sistematica di elevati standard di efficienza energetica nell’acquisto di prodotti e la rimozione
di barriere legali e pratiche alla contrattazione dell’efficienza energetica.
ArchitetturaEcosostenibile.it, 02.04.2011
Ogni giorno nelle nostre case utilizziamo in
media 200 litri di acqua, ma la metà (e anche
meno) sarebbe già sufficiente a soddisfare
le nostre esigenze. È soprattutto in bagno
che si può attuare una vera politica di risparmio: oltre ai normali dispositivi per i rubinetti con aeratori a basso flusso che miscelano acqua e aria consentendo un risparmio
fino al 50%, sul mercato appaiono oggetti
interessanti, come il W+W disegnato da
Gabriele e Oscar Buratti. Si tratta di un lavabo+WC in grado di ridurre i consumi del
25%. L’acqua utilizzata per il lavabo viene riciclata, filtrata e depurata (per prevenire la formazione di batteri e i cattivi odori) e infine
convogliata in una cisterna da 10 litri a uso
del WC. Anche le dimensioni permettono
di sfruttare al meglio lo spazio: 86 × 50 cm.
DailyWired.it, 01.04.2011
Dopo aver eretto ovunque grattacieli e
strutture avveniristiche, pare che gli studi di
architettura di mezzo mondo si siano tutti
concentrati sulla realizzazione di ponti sempre più futuribili. Il porto di Copenhagen, ad
esempio, è prossimo a un cambiamento radicale grazie all’LM Harbor Gateway di Steven
Holl e al CPH Arch realizzato da 3XN. Il
primo sarà sorretto da gigantesche torri e
al suo interno ci saranno negozi, ristoranti e
caffè, mentre il secondo è un progetto più
curvilineo e dalle linee più morbide. Il Paik
Nam June Media Bridge di Planning Korea
sarà ricoperto di pannelli solari e collegherà
le due sponde del fiume Han. A Dubai, infine,
nel 2012 sarà completato il Sheikh Rashid
bin Saeed Bridge progettato da FXFowle, il
ponte più lungo, alto e capiente del mondo.
Italia e rinnovabili. Investire
nel green darebbe benefici tra 24
e 32 mld nel 2020
S PIGOLATURE
Edilio.it, 20.04.2011
Quello italiano, con 203 operazioni industriali nel 2010, per un totale di 5.165 MW
e 12,3 miliardi di euro di investimenti, rappresenta uno dei mercati più attraenti al
mondo per le rinnovabili. È quanto emerge
dal Rapporto 2011 dell’Italian Renewable
Index (IREX), secondo cui il totale degli
investimenti dello scorso anno in energie
pulite è stato pari allo 0,4% del PIL che, sempre nel 2010, è cresciuto dell’1%. Il 48% degli
investimenti nelle rinnovabili riguarda la costruzione di nuovi impianti e progetti, mentre il 34% le operazioni come acquisizioni,
joint venture o partecipazioni. A guidare gli
investimenti in nuovi impianti è il fotovoltaico, anche se l’eolico presenta le maggiori dimensioni in termini di megawatt. Sullo
sviluppo delle energie rinnovabili, si evidenzia un chiaro beneficio per l’Italia compreso
tra 24,3 e 32,3 miliardi di euro, al 2020.
Restauro contagioso
C’è un vecchio cascinale quattrocentesco d’interesse storico e architettonico che, come
in una parabola evangelica, si
trasforma (legittimamente) in
villa restaurata “contagiando”
però nel restauro (e questa
volta illegalmente) altri 39 fabbricati vicini e, come per magia, le baracche vengono trasformate in ville con piscina e
le stalle in palazzine in pietra,
a spregio di ogni tutela ambientale e paesaggistica in un
“sito di interesse comunitario” come l’area dell’Appennino bolognese nei pressi del
comune di Vergato.
(ilFattoQuotidiano.it)
Mossa rischiosa
«Domani nel mio incontro
con i cittadini di Napoli farò
vedere che ho pronto il provvedimento che sospenderà gli
abbattimenti delle case fino
alla fine dell’anno». È l’annuncio fatto da Silvio Berlusconi
alla vigilia delle ultime elezioni amministrative nel capoluogo partenopeo. La mossa a
sorpresa del Cavaliere, però,
ha messo sul “chi va là” anche
la Lega che, secondo Roberto
Calderoli, è «contraria a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive, che
non avrebbero neppure potuto essere sanate nei precedenti condoni edilizi». (Leggo.it)
Artisti contro
Boicottare il Guggenheim di
Abu Dhabi perché sfrutta senza ritegno i lavoratori stranieri. È la decisione presa da 130
artisti – perlopiù mediorientali – di fama internazionale
che intendono sabotare il celebre museo nato da un progetto di Frank Gehry che dovrebbe sorgere a Saadiyat
Island (letteralmente “isola
della felicità”) nella capitale
degli Emirati Arabi Uniti entro
il 2013, se i suoi gestori non
cambieranno atteggiamento
verso i dipendenti impiegati
nella nuova struttura, i cui
cantieri scarseggerebbero di
sicurezza. (Corriere.it)
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