notiziario bimestrale di architettura – anno VIII n. 42 marzo-aprile 2011 Roma 2020 Riflessioni su Pechino ISTANBUL CONTEMPORANEA POSTE ITALIANE S.P.A. SPEDIZIONE IN A.P. D.L. 353/2003 (conv. in L. 27.02.2004 n.46) Art.1 c.1 – DCB – ROMA CO . A P M A T S E A G LLE essante. e un’attività str n deve diventar no ro vo la a Internet o tu mente, grazie Stampare il stampa diretta 1 e SB U sh fla tà o un laptop . Collega un’uni o smartphone un e nt ia ed m ogetti remota, e alla stampa rima dei tuoi pr sualizza l’antep Vi . er iv dr rruzioni. ai te o altri senza in Di’ pure addi inua a crearne nt co e ri lo co na sul touchscree /simplify go t/ hp.com/i PA N T I N U OV E S TA M CO N T H P D E S IG N JE E W E B N CO N N E S S IO 1 La funzionalità di stampa remota sarà GLVSRQLELOHDSDUWLUHGDOODÀQHGHO +HZOHWW3DFNDUG'HYHORSPHQW&RPSDQ\/3 Bologna, 5-8 ottobre INNOVARE, INTEGRARE, COSTRUIRE SOLUZIONI INNOVATIVE SOSTENIBILI BolognaFiere, con l’ausilio di Archi-Europe, lancia la terza edizione di SAIESelection, il concorso internazionale dedicato a studenti e progettisti under 40 incentrato sul tema della Sostenibilità con soluzioni, materiali e tecnologie innovative. IN CERCA DI GIOVANI TALENTI IL FUTURO DELL’ARCHITETTURA I progetti selezionati saranno presentati nel corso di SAIE 2011, Salone Internazionale dell’Edilizia in programma dal 5 all’8 ottobre, in un Forum dedicato ai Giovani Progettisti “L’Architettura delle Nuove Generazioni” ed esposti nell’ambito di una mostra. Il Regolamento di SAIESelection2011 è scaricabile dal sito di Archi-Europe www.archi-europe.com Invia idee e progetti di architettura sostenibile, entra a far parte del Forum dedicato ai Giovani Progettisti “L’Architettura delle Nuove Generazioni”a SAIE 2011. www.saie.bolognafiere.it tutte le informazioni sulle iniziative di SAIE da adesso ad ottobre Segreteria organizzativa Viale della Fiera, 20 - 40127 Bologna (Italia) - Tel. +39 051 282111 - Fax +39 051 6374013 - www.saie.bolognafiere.it - saie@bolognafiere.it n.42 marzo-aprile 2011 notiziario bimestrale di architettura 4 in questo numero 26 SOCIETÀ E/È COSTUME BENI CULTURALI TAO TIE Roma: 1960 vs 2020 Il Santuario della Madonna del Sorbo nel Parco di Veio: un sito culturale da salvaguardare e valorizzare «This is China, Hombre!». Con un divertente aneddoto di confusio linguarum di renato nicolini 14 SPECIALE 33 Istanbul contemporanea di luca orlandi di paolo vincenzo genovese di maria giulia picchione RESTAURO 8 SPAZI APERTI 20 76 L’apprezzamento dei segni del tempo sul mercato dei “beni d’epoca”. Affinità e reciproche influenze con la disciplina del restauro Zappata romana NUOVI ORIENTAMENTI di luca d’eusebio e silvia cioli Sperimentazioni di Antonino Cardillo di alessandro pergoli campanelli di valerio casali numero 42, anno VIII, marzo-aprile 2011 PAOLO VINCENZO GENOVESE (P.V.G.) architetto, docente presso la School of Architecture, Università di Tianjin, Cina redazione 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192249-59 fax 06 35192260 [email protected] www.mancosueditore.eu direttore scientifico: CARLO MANCOSU vice direttore: ENRICO MILONE direttore responsabile: FABIO MASSI responsabile di redazione: PAOLA SALVATORE redazione: VALENTINA COLAVOLPE PERCORSI LECORBUSIERIANI 22 Le Corbusier ritrae sé stesso STEFANO GRASSI (S.G.) avvocato, docente presso la Facoltà di Giurisprudenza, Università degli Studi di Firenze MASSIMO LOCCI (M.L.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “Valle Giulia”, Università “La Sapienza” di Roma comitato di redazione CARLO MANCOSU (C.M.) editore GIAN LUCA BRUNETTI (G.L.B.) architetto FABIO MASSI (F.M.) giornalista GIOVANNI CARBONARA (G.C.) architetto, direttore della Scuola di Specializzazione in Restauro dei Monumenti, Università “La Sapienza” di Roma EUGENIO MELE (E.Me.) avvocato, consigliere di Stato VALERIO CASALI (V.C.) architetto LUIGI MAURO CATENACCI (L.M.C.) architetto FRANCESCO CELLINI (F.Ce.) architetto, preside della Facoltà di Architettura, Università Roma Tre FURIO COLOMBO (F.C.) giornalista e scrittore ITINERARI E PERIFERIE di massimo locci Il volto nuovo della Cina: Pechino RASSEGNA STAMPA di ida fossa a cura di fabio massi 28 PLINIO PERILLI (P.P.) scrittore e critico MARIA GIULIA PICCHIONE (M.G.P.) architetto, Ministero per i Beni e le Attività Culturali FULCO PRATESI (F.P.) architetto, presidente onorario WWF Italia FRANCESCO RANOCCHI (F.R.) architetto ANTONINO SAGGIO (A.S.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura “L. Quaroni”, Università “La Sapienza” di Roma PAOLA SALVATORE (P.S.) architetto collaboratori 80 pubblicità M.E. Architectural Book and Review S.r.l. 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192283 fax 06 35192260 [email protected] abbonamento: 6 numeri – € 60,00 tel. 06 35192256 fax 06 35192264 stampa Arti Grafiche Service s.a.s. Città di Castello (PG) in copertina Vista dall’alto di Istanbul in cui si notano Kanyon, Levent Loft, Loft Garden e Sapphire (foto: Uğur Cebeci) Autorizzazione del tribunale di Roma n. 235 del 27.05.2004 ISSN 1824-0526 ENRICO MILONE (E.M.) architetto, presidente Centro Studi Ordine degli Architetti PPC (Cesarch) Roma SILVIA CIOLI, architetto LUCA ORLANDI, architetto RENATO NICOLINI (R.N.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università “Mediterranea” di Reggio Calabria LUCIANO CORTESI, ROBERTO DI IULIO, FABIO ZENOBI Gli articoli firmati esprimono solo l’opinione dell’autore e non impegnano la redazione, la quale è disponibile a riconoscere eventuali diritti d’autore per le immagini pubblicate, non avendone avuto la possibilità in precedenza. editore I manoscritti, anche se non pubblicati, non si restituiscono. MAURIZIO ODDO (M.O.) architetto LUCA D’EUSEBIO (L.D.E.) architetto MARIO PANIZZA (M.P.) architetto, docente presso la Facoltà di Architettura, Università Roma Tre IDA FOSSA (I.F.) architetto ALESSANDRO PERGOLI CAMPANELLI (A.P.C.) architetto impaginazione e grafica M.E. Architectural Book and Review S.r.l. 00136 Roma, via Alfredo Fusco 71/a tel. 06 35192255 fax 06 35192260 [email protected] www.mancosueditore.eu responsabile trattamento dati CARLO MANCOSU La rivista è consultabile anche sul sito: www.mancosueditore.eu Le copie sono distribuite a tutti gli iscritti agli ordini degli architetti d’Italia, agli ingegneri edili, enti e istituzioni varie Questo periodico è associato all’Unione Stampa Periodica Italiana L’Arco di Costantino, traguardo della maratona vinta da Abebe Bikila in occasione delle Olimpiadi di Roma del 1960 Roma: 1960 VS 2020 società e/è costume a cura di Renato Nicolini R n.42 2011 4 oma inserì le Olimpiadi del 1960 in un complicato processo di progettazione della forma futura della città, il cui centro fu la riannessione all’Urbe dei resti incompiuti dell’E42. Questo non avvenne seguendo bizzarrie del gusto e delle mode, ma in seguito a un piano particolareggiato dell’EUR elaborato dal 1950 al 1955; e a chiare scelte infrastrutturali come la costruzione della via Olimpica, che collegava all’insieme della città un altro centro essenziale della Roma di Mussolini come il Foro Italico. Contemporaneamente andava avanti il processo di definizione del nuovo PRG del ’62. È ovvio che quella scelta generava consenso ma anche vivaci polemiche, qualcosa che comunque contribui- Centro pagina: la Basilica di Massenzio che ospita la lotta greco romana A lato: la finale dei 200 m vinta da Livio Berruti sulla pista dello Stadio Olimpico; il Circo Massimo in una cerimonia allestita in occasione dei Giochi va alla definizione di un’idea collettiva. Com’è diverso da questo quadro quello che sta accadendo oggi sotto l’ombrello della candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2020! Le differenze principali sono due. A differenza del 1960, non c’è un progetto per la città in cui s’inserisce la candidatura olimpica. Al contrario, la candidatura è il pretesto con cui si nasconde la mancanza di un piano strategico. L’evento effimero (e io di questo termine me ne intendo) sostituisce la visione d’insieme. Il sindaco Alemanno, caduto un altro progetto effimero come la Formula 1 all’EUR, l’ha semplicemente sostituito con la candidatura olimpica. Pescante, Mondello, lui stesso (nessuno comunque in possesso di una minima competenza In senso orario: il Palazzo dei Congressi dell’Eur, lo Stadio del Nuoto, lo Stadio Olimpico e lo Stadio Flaminio architettonica o urbanistica) sfilano in passerella. Trieste mia alla romanesca. A parte la ferma determinazione olimpica, nulla è chiaro in questa candidatura. Alla ferma determinazione dichiarata corrisponde la totale vaghezza tecnica. A cominciare dal PRG da poco in vigore, che si potrebbe definire come il trionfo dei diritti edificatori indipen- denti dalla localizzazione; o come l’inedita definizione delle 19 nuove centralità non in base a una loro collocazione strategica, o in relazione a una politica delle infrastrutture (come avrebbe potuto essere se fossero state collegate almeno a un progetto delle nuove linee di metropolitane e della viabilità). Le nozze coi fichi secchi. Non avendo nessuna idea rispetto ai grandi problemi di Roma (una struttura della città metropolitana che non sia l’accettazione passiva della conurbazione, il possibile rapporto con Napoli per costituire un’area forte produttiva in grado di reggere il confronto col Nord, il dato economicamente preoccupante di un’alta percentuale di alloggi di lusso Il Velodromo Olimpico all’Eur, sede delle gare olimpiche del ciclismo su pista, progettato da Cesare Ligini, Dagoberto Ortensi, Silvano Ricci e oggi demolito n.42 2011 5 In senso orario: localizzazione dei Centri Federali previsti per i Mondiali di Nuoto del 2009; rendering dell’impianto di Ostia e due rendering del Polo Natatorio di Pietralata Sotto: Polo Natatorio di Valco San Paolo, l’impianto in costruzione n.42 2011 6 invenduti e di un’assoluta carenza di alloggi a basso costo, la necessità di rimediare all’imprevista conseguenza della demolizione testa nel sacco dei grandi campi nomadi come Casilino 700 che ha generato 300 microcampi nomadi abusivi e nemmeno censiti), l’agenda delle scadenze immediate si trasforma in strategia. La seconda differenza è la mancanza di progetti convincenti di impianti sportivi. Si può dire che si sono fatti grandi passi, ma indietro rispetto al ’60. Il prefetto Serra – come fosse Peter Sellers in Hollywood Party – ha fatto saltare con la dinamite il Velodromo Olimpico di Cesare Ligini. Il Palazzetto dello Sport mostra i suoi anni trascorsi senza un’adeguata politica di manutenzione, lo Stadio Olimpico è stato coronato di spine, la palestra della scherma di Moretti è stata trasformata in un’aula bunker per i processi di massima sicurezza. Gli impianti costruiti per gli Europei di Nuoto sono da barzelletta. A parte l’infelicità della loro localizzazione in aree golenali, soggette a esondazioni, insomma dove non si sarebbe potuto costruire; si è persino costruita una piscina lunga un metro in più dei 50 regolamentari. Altre differenze? L’insostenibilità del traffico; la mancanza di qualsiasi progetto a proposito del villaggio olimpico (i maligni dicono che si pensa a fare come all’Aquila, piazzando case costosissime in pieno Agro Romano)… Un paragrafo a sé lo merita l’EUR. Il Velodromo di Ligini distrutto con la dinamite non è che un episodio di una serie di errori, originata dalla trasformazione dell’Ente EUR in EUR SpA, da ente pubblico con finalità pubbliche a ente giuridicamente privato (anche se controllato dal potere pubblico) con finalità di profitto. L’EUR SpA ha sostituito la tutela degli interessi dei residenti dell’EUR (la voce popolare voleva che l’erba dell’EUR fosse la più verde) In senso orario: Gianni Alemanno, il progetto di Leon Krier per la “nuova” Tor Bella Monaca; rendering della “città del nuoto” di Calatrava prevista per gli Europei di Nuoto e immagine dell’impianto ancora in costruzione in un’affannosa ricerca dello sfruttamento monetario massimo delle concessioni edilizie. Da lì hanno avuto inizio i veri e propri deliri dell’ing. Flammini, che voleva finanziare la Formula 1 costruendo un paio di milioni di metri cubi. Da lì ha avuto inizio il calvario delle Torri del Ministero delle Finanze (anche queste costruite ai tempi delle Olimpiadi del ’60 da Cesare Ligini). La sostituzione di quelle torri ora con un albergo di Fuksas, ora con un mezzo grattacielo residenziale di Renzo Piano da mettere in vendita a 20.000 euro a mq, ora con tutte e due dovrebbe produrre effetti simili a quelli del famoso asino di una favola di Perrault che cacava oro. Con la stessa attendibilità, se dal piano della favola passiamo a quello del reale. In questa confusione totale, il visitatore che avesse voluto dare un’occhiata più ravvicinata ai progetti lussuosamente esposti all’EUR per la kermesse alemanniana sarebbe stato colpito dalla stridente differenza di linguaggio tra due progetti, a entrambi i quali era stata riservata una sorta di posto d’onore e che sono molto vicini tra di loro nella pianta di Roma. Da un lato il linguaggio da Garbatella gotica elaborato da Leon Krier per la sua “nuova” Tor Bella Monaca; dall’altro il linguaggio da modernismo in carta patinata della “città del nuoto” di Calatrava, recuperata per l’occasione dai fallimenti dei progetti per gli Europei di Nuoto dove sarebbe stato meglio lasciarla. Chi pensa male parla male, diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa. Questa Roma di Alemanno ci dimostra come si possa parlare male in ben due linguaggi. Il linguaggio del falso antico e il linguaggio del falso moderno. Eticamente ed esteticamente sono l’uno lo specchio dell’altro, paccottiglia da supermercato, luogo comune trasformato in paradigma. Calatrava, che aveva dichiarato di volersi ispirare alla lunghezza del Corso, e Krier costruiscono due specie diverse di villaggi alla Truman Show dove è impossibile vivere in modo diverso. Questo cattivo rapporto col futuro è indice del cattivo rapporto che la città sta vivendo col proprio passato. Nel corso dei lavori di sbancamento per la realizzazione dell’I-60 di Grottaperfetta sono emerse le tracce di un esteso tratto di città romana. Qualcosa di simile era accaduto – nel 1976 – durante i lavori per la costruzione del Laurentino ’38 di Barucci. Giulio Carlo Argan era allora sindaco di Roma. I lavori furono sospesi finché si trovò un compromesso che consentisse di continuare a vedere la strada romana nel nuovo complesso. Qui non si tratta di una strada ma di qualcosa di più. Ma il Campidoglio tace e il costruttore si prepara a ricoprire il tutto con la nuova edilizia. Chi recide il legame col passato taglia anche il proprio rapporto col futuro. Per questo ho invitato tutti i romani che non vogliono rassegnarsi a perdere in un colpo solo tutti i tempi storici che non siano il presente a venire a festeggiare il 21 aprile, Natale di Roma, occupando pacificamente ma rumorosamente l’area dell’I-60 di Grottaperfetta. Naturalmente, portandoci tutti fave e pecorino. R.N. n.42 2011 7 In successione: Rolex datocompax con il quadrante d’epoca discretamente conser vato, parzialmente rifatto e completamente ristampato. Una nota casa d’aste specializzata in orologi d’epoca (Antiquorum) propone nove livelli di conser vazione del quadrante, in ordine di stima decrescente: «originale, revisionato, d’epoca, successivo, indici luminosi riapplicati, parzialmente rifatto, rifatto, riparato, danneggiato» (trad. dall’inglese del Dial Grading System) L’apprezzamento dei segni del sul mercato dei “beni d’epoca” Affinità e reciproche influenze con la disciplina del restauro restauro a cura di Giovanni Carbonara e Alessandro Pergoli Campanelli Q n.42 2011 8 ualcosa sta cambiando. Molto lentamente, ma sta cambiando. Il mercato, come sempre, ne registra i primi segnali. Il concetto di patina, caro alla scuola del restauro critico-conservativo, inizia ad essere accettato e apprezzato anche dai collezionisti privati, divenendo un vero e proprio valore aggiunto. Ecco che, contrariamente a quanto accadeva in passato, non di rado importanti case d’asta quali Christie’s o Sotheby’s ammettono anche sulle loro proposte più importanti la presenza di quell’impercettibile «sordina posta alla materia» dal tempo (come la definì Cesare Brandi); addirittura, in più d’un caso, la qualificano come un pregio economico. È ormai opinione diffusa, infatti, che un orologio d’epoca con il quadrante ristampato valga assai meno dello stesso orologio dotato di un quadrante conservato nelle sue condizioni originali, seppur ‘ingiallito’ dal tempo. E la differenza non è da poco. Ad esempio un importante cronografo degli anni Cinquanta della celebre marca Rolex (modello Datocompax, meglio noto col nome di un noto sciatore del passato, Jean Claude Killy) è stimato con il quadrante perfettamente conservato sino a 100.000 euro, meno della metà con un quadrante ‘parzialmente rinnovato’ e solo il 30% con il quadrante ‘rovinato’ o ‘ristampato’. Il rifacimento è pertanto assimilato in questo caso a una forma di degrado. Si tratta di valutazioni che, necessariamente, influenzeranno le modalità con le quali i privati conserveranno e ‘restaureranno’ oggetti simili. Il quadrante degli orologi d’epoca, infatti, in passato era considerato, al pari d’una ‘superficie di sacrificio’, qualcosa di La prima versione della famosa radio Cubo di Brionvega, in produzione ininterrottamente dal 1964 (mod. TS 502) sino ad oggi (mod. TS 525). Funzioni e contenuti elettronici sono continuamente aggiornati mentre l’involucro esterno è sempre uguale tempo destinato ad essere obbligatoriamente rinnovato per ripristinare quell’aspetto nuovo ed efficiente che tutti gli oggetti di maggior valore proposti in vendita dalle più note case d’asta dovevano avere. Oggi, invece, la caratteristica più apprezzata è l’autenticità dei manufatti in ogni loro parte, intesa anche come assenza di ogni manomissione o tentativo di ripristinare un nitore originario ormai perduto. Un rifacimento, ad esempio, della parte significativamente più importante per l’estetica di un orologio, il quadrante, per quanto perfetto ed eseguito con tecniche e materiali simili, se non uguali, a quelli originari è considerato come una perdita di genuinità, provocando una sostanziale diminuzione del valore del bene stesso. Il parallelo con le superfici di tante architetture del Novecento – come anche con quelle d’importanti capolavori delle epoche precedenti – continuamente rimosse e disinvoltamente rinnovate proprio in occasione di tanti interventi di restauro è assai facile. Lo stesso fatto che orologi e vetture siano, soprattutto, beni destinati all’uso e non oggetti d’arte da contemplare dimostra la debolezza di molte autorevoli posizioni che vorrebbero il restauro delle architetture distinto, nei suoi princìpi, da quello delle opere d’arte proprio perché le prime sarebbero soggette a continue trasformazioni d’uso incompatibili, a detta di molti, con atteggiamenti eminentemente conservativi. A tal proposito si riscontra, semmai, una tendenza di segno opposto. È, infatti, proprio nel campo dei veicoli d’epoca – ovvero di beni apprezzati anche per le loro caratteristiche d’uso e, come tali, sottoposti al rispetto di tutte le norme previste dalla sicurezza stradale – che da diversi anni il dibattito interno alle principali associazioni sta assimilando molte delle posizioni proprie della cultura italiana del restauro, con l’accoglimento di molteplici atteggiamenti di prudente conservazione dei segni della storia. Il Registro Italiano Alfa Romeo (RIAR), ad esempio, non accetta di certificare come ‘originali’ in ogni loro parte quelle autovetture che presentino colori o interni diversi da quelli originari (anche se sostituiti con altri previsti nella gamma dell’epoca) a meno che tali variazioni non siano ‘storicizzate’, cioè effettuate durante il primo periodo d’uso della vettura (non oltre 10 anni dalla fabbricazione). Si tratta d’importanti novità, soprattutto in un mercato che normalmente privilegiava il solo valore del nuovo, presentando oggetti e autovetture sempre in condizioni smaglianti qualunque fosse la loro età anagrafica. Sono trasformazioni del gusto che dimostrano la crescente e sempre più diffusa attenzione del grande pubblico per la conservazione e il restauro anche di quei beni che fino a pochi anni prima erano considerati solo come oggetti di produzione industriale. Se prima, infatti, si poteva intervenire disinvoltamente nel sostituire, rifare o aggiornare le parti di un veicolo d’epoca senza per questo perderne le caratteristiche di ‘originalità’, oggi si manifesta sempre più l’attualità di alcune posizioni attente alla conservazione, non solo delle forme ma anche della ‘materia’ autentica, seppur segnata dagli esiti del passaggio nel tempo. L’accoglimento spontaneo e diffuso di alcuni princìpi propri della teoria del restauro critico-conservativo delinea una parabola storica del pensiero particolarmente significativa e dimostra l’attualità di un’intuizione estetica, quella della bellezza delle superfici segnate dal tempo, che s’era sviluppata molti anni prima nelle raffinate teorie di pochi intellettuali e artisti. L’apprezzamento economico, certificato dal mercato delle compravendite, ne rappresenta il più attendibile feedback. La stragrande maggioranza dei ‘non addetti ai lavori’ inizia, infatti, a riconoscere il pregio di conservare i beni storici nella loro autenticità, apprezzando economicamente la differenza fra un bene ‘riportato a nuovo’ con costosi restauri e uno che, invece, sia stato perfettamente conservato assieme all’inevitabile patina del tempo. Gli esempi che si potrebbero portare sono molti.Vale, tuttavia, la pena di soffermarsi ancora sul mondo dei cosiddetti veicoli d’epoca per le molte affinità che presenta con la teoria del restauro. In Italia il principale interlocutore privato che si occupa della certificazione dei veicoli d’epoca è l’Automotoclub Storico Italiano (ASI), un’associazione che rilascia due distinti tipi di attestazioni, una comprovante la storicità del veicolo (l’attestato di datazione e storicità, rilasciato ad probationem del possesso dei requisiti richiesti dalla normativa italiana, a tutti i veicoli costruiti da oltre venti anni che abbiano interni ‘decorosi’, una carrozzeria conforme all’originale e parti meccaniche almeno compatibili con quelle originarie) e, l’altra, il corretto pedigree della vettura (il ‘certificato d’identità’ o la cosiddetta ‘omologazione’, ottenibile solo da quei veicoli ritenuti ‘autentici’ da una commissione d’esperti; cfr. ASI, Regolamento Generale, art. 2.1 e 2.2). Il più autorevole organismo internazionale,la Fédération Internationale des Véhicules Anciens (FIVA) rilascia invece un certificato, la carte d’identité FIVA (cfr. FIVA, Code Technique 2010, art. 7) al cui interno figurano quattro distinte categorie definite gruppi di conservazione del veicolo (groupes de préservation des véhicules).È significativo come al primo posto,in ordine di pregio decrescente, figurino i veicoli considerati ‘originali’ (original) e poco deteriorati; al secondo quelli ‘autentici’ (authentique, si tratta di veicoli restaurati nelle sole parti che ‘normalmente si consumano’ con ricambi ‘rispondenti alle caratteristiche Una delle automobili più rare e desiderate dai collezionisti, l’Aston Martin DB4 GT Zagato del 1959, è stata riprodotta nel 1991 dalla stessa Aston Martin Lagonda; sui nuovi telai sono state montate parti nuove realizzate ad hoc, molte rimanenze di magazzino e altrettante parti recuperate da meno costose DB4 (in basso a sinistra), smantellate allo scopo! La carrozzeria è stata realizzata dalla Zagato con dime originali dell’epoca. Le vetture sono note come Sanction II (autorizzazione 2 e non, come invece consueto per nuove versioni della stessa vettura, Series II). Nel 1992 sono state realizzate ulteriori due vetture, le Sanction III. Nonostante la maggior efficienza meccanica e la loro originalità (dichiarata dal costruttore che le ha dotate di numeri di telaio dell'epoca mai utilizzati), queste vetture hanno sul mercato una quotazione inferiore di molto a quelle delle vetture originali e al costo sostenuto per la loro realizzazione Lotus Elan S1 (1962) n.42 2011 10 del periodo’), al terzo quelli ‘restaurati’ (restauré, cioè veicoli totalmente smontati e ricondizionati con ‘minime deviazioni dalle caratteristiche dichiarate dal costruttore’). All’ultimo posto vi sono i veicoli ‘ricostruiti’ (reconstruit), autovetture assemblate con più pezzi del medesimo modello o tipo, rispettando il più possibile le caratteristiche d’origine del costruttore. A ogni gruppo si associa poi una delle sette classi corrispondenti alla data di prima costruzione del veicolo. È evidente, anche in questo caso, come il valore maggiore sia attribuito alla conservazione. Dalla classificazione del veicolo deriva, poi, anche una diversa valutazione commerciale, cosa che rende i proprietari sempre più attenti a conservare correttamente il proprio veicolo. S’immagini di trasferire una simile classificazione all’architettura: il risultato sarebbe che tanti edifici rinnovati in nome di un’errata concezione del restauro non sarebbero considerati pienamente autentici e il loro valore, anche commerciale, diminuirebbe! Ulteriori spunti d’interesse provengono dai risultati d’un importante convegno sul significato dell’autenticità dei veicoli d’epoca che si è svolto a Torino nel 2004. Il tema dell’autenticità d’un veicolo s’è dimostrato, infatti, assai insidioso, presentando al proprio interno una serie d’interrogativi le cui diverse possibili soluzioni aprono le strade ad altrettanto differenti interpretazioni di quali siano le corrette metodologie di conservazione e restauro. Se si considera, infatti, autentico solo quanto conservato nello stesso stato in cui il bene è uscito dalla fabbrica molti anni prima ne deriva una concezione del restauro eminentemente conservativa che tende ad escludere, per quanto possibile, interventi di sostituzione o rifacimento di ogni parte (anche di quelle normalmente soggette a usura, quali gli pneumatici o gli elementi meccanici in movimento). Una corretta conservazione, quindi, imporrebbe un uso limitato al minimo indispensabile del bene (compatibile solo con un’esposizione museale) che impedisca qualsiasi rischio di perdita della materia autentica.A tal proposito s’è espresso, ad esempio, Gianni Rogliatti: «Ora il fatto che certe automobili sono vere opere d’arte grazie alla mano felice di chi le ha disegnate e all’epoca in cui sono state costruite crea un problema: quello dell’utilizzo. È giusto che chi le possiede le voglia usare, perché in fondo quello è il loro scopo. Ma è giusto? (…) Fatalmente i vari componenti si dovranno sostituire, a cominciare da gomme, candele, cinghie eccetera. Ma poi bisognerà cambiare pistoni, valvole, tamburi freni, senza contare che se si sbiella un motore si dovrà cambiarlo tutto o in parte.Viceversa un quadro è stato fatto per restare appeso al muro ed essere ammirato da fermo. Ma per assurdo se portassimo in giro La Gioconda di Leonardo da Vinci e un giorno si rompesse un angolo, poi un’altra volta un altro angolo e facessimo ricostruire i pezzi andati distrutti, sarebbe lo stesso quadro originale?» (L’automobile, patrimonio culturale e memoria industriale, in Atti del Forum international sur l’authenticité du véhicule historique, Torino, 12-13 novembre 2004, Milano, 2005, p. 61). Dello stesso avviso il direttore del Museo Nazionale dell’Automobile di Torino: «Che senso ha – mi sono sentito spesso chiedere – esporre 170 vetture in forma statica, non procedere a un restauro di meccanica e di carrozzeria che le rianimi, sostituendo la selleria rovinata, cambiando i legni danneggiati, ravvivando (perciò rifacendo) le colorazioni appannate? Le nostre vetture sono generalmente esposte nello stato in cui sono state ricevute o acquistate nel corso degli anni. È innegabile che l’usura, prima dell’uso che ne ha fatto il proprietario o il pilota, poi del tempo, ha inciso sull’estetica. Nessuna delle nostre vetture ha l’aria di essere appena uscita dalla fabbrica, salvo rare eccezioni di modelli degli anni Cinquanta, tenuti religiosamente dai proprietari che ce le hanno donate. Hanno l’aria che il tempo ha loro conferito, per la maggior parte non funzionano più, e vengono da noi del museo considerate inestimabili oggetti d’arte, verso cui soltanto un attento mantenimento è rispettoso del loro valore. (…) I nostri criteri di conservazione museali sono così riassumibili: non oltrepassiamo il limite di un restauro conservativo, che contenga e limiti i danni inferti dal tempo che scorre e che sono tra i più immediatamente visibili. (…) Riteniamo filologicamente scorretto, per le finalità e gli obiettivi definiti dal nostro statuto, un restauro ricostruttivo, per non parlare dell’esposizione di repliche (…). Che importanza ha, a questi fini, che la nostra vettura non funzioni? La sua funzione è quella di testimonianza di prima mano, di fonte documentaria originale. Ecco perché ci è anche assolutamente impossibile pensare a un utilizzo su strada delle nostre vetture (…). Significherebbe mettere a repentaglio l’incolumità degli oggetti a noi affidatici (…). Non bisogna sottovalutare anche un’innegabile funzione svolta dal museo: quella di conferire dignità e legittimità storica a tutto ciò che espone. (…) Esporre un veicolo restaurato, ossia modificato, parzialmente ricostruito, significa avallarne la storia e presentarlo come autentico» (Rodolfo Gaffino Rossi, Conservazione e valorizzazione del patrimonio, in Atti…, p. 110). Simili riflessioni pongono l’accento sull’evidenza che ogni automobile, così come ogni oggetto creato dalla mano dell’uomo, assume in sé anche parte delle caratteristiche dell’epoca di produzione, sia dal punto di vista dei materiali che delle tecnologie impiegate. Si tratta di un patrimonio storico e culturale il quale, benché superato, rappresenta anche negli stessi errori tecnici, un’importantissima testimonianza di Mazda MX-5 Miata, prodotta per la prima volta nel 1989 periodi ormai scomparsi. Queste sono posizioni legittime e, tutto sommato, condivisibili se limitate a quei beni riconosciuti come degni di essere conservati all’interno di un museo. Fra gli appassionati di auto storiche c’è però anche chi, come il presidente della Commissione Tecnica della FIVA (Derek Drummond Bonzom, in Atti…, Authenticité de l’automobile ancienne et actuelle, p. 81) ritiene legittimo, per conseguire una corretta conservazione, il mantenimento di normali, seppur rispettose, condizioni d’uso. Egli sostiene che, trattandosi di vetture nate per circolare, ferme perdano il loro significato: «Nous défendons non seulement l’authenticité mais aussi l’utilisation de nos voitures et de nos véhicules en général. (…) Si un élément qui a été fabriqué pour être utilisé ne l’est pas, alors ce même élément meurt». Una simile impostazione riterrà altresì come autentiche anche quelle vetture che presentino molte parti sostituite insieme, anche, a un discreto ma indispensabile aggiornamento normativo: «Les seules modifications que nous autorisons de manière systématique sont celles qui nous sont imposées par les règlements nationaux européens» (ibidem). La dottrina del restauro architettonico dimostra certo come un corretto uso sia stato fondamentale per la conservazione di tanti capolavori dell’antichità che, altrimenti, sarebbero stai abbandonati e, con molta probabilità, distrutti. Le due posizioni, tuttavia, non sembrano inconciliabili ma, semplicemente, riferibili una a quegli oggetti di riconosciuto valore storico e culturale particolarmente importanti e rari per i quali è imprescindibile un’assoluta conservazione e l’altra al patrimonio più diffuso che, non trovando posto nei musei, è bene che sia in grado di circolare, con tutte le cautele e agevolazioni del caso,affinché non finisca abbandonato.L’intervento di D.Drummond Bonzom evidenzia, poi, anche una posizione volta al mantenimento di quanto ereditato dalla storia, seppur con stratificazioni e aggiunte non sempre legittime. L’importante è che simili alterazioni non siano certificate come autentiche: «La FIVA protège notre hérédité automobile à travers cet avertissement: ce qui est une hérédité n’implique pas nécessairement l’authenticité. Nous encourageons l’authenticité, en d’autres termes, nous encourageons le respect du matériau et l’intégrité culturelle de nos véhicules» (ivi, p. 83). È una posizione molto intelligente e conservativa: escludere, infatti, tout court i veicoli alterati significherebbe costringere i proprietari a falsificarli o, cosa ancora peggiore, se economicamente non conveniente, a distruggerli. È una posizione intermedia, fra l’integrale conservazione e il rifacimento incontrollato, che accoglie fra le consuete operazioni di manutenzione tutte quelle derivate dal normale uso, quali ad esempio le riparazioni, la riverniciatura della carrozzeria o il rifacimento della selleria interna,con l’accortezza che le sostituzioni siano contenute percentualmente rispetto al tutto: «L’authenticité dépend donc beaucoup, comme vous pouvez le comprendre, de la préservation des véhicules. Si un véhicule a été préservé ou conservé, ce qui revient pratiquement au même et où préserver signifie conserver un véhicule dans le même état que dans celui dans lequel il a été conçu (…) il peut être complètement authentique, à savoir très légèrement modifié, il peut être usé, être entretenu et être mis en état de marche et, s’il n’est plus en état de marche, il doit être restauré. La restauration est l’objectif le plus important de notre activité car, comme vous le savez déjà, il est possible de restaurer 5%, 25% ou 100% du véhicule. Certaines restaurations concernent même 110% du véhicule mais l’élément fondamental est que toute restauration requiert d’avoir compris le véhicule» (ibidem). Ecco che diventa allora importante stabilire che cosa sia lecito e che cosa no. Ciò significa che pure nel mondo delle auto d’epoca appare necessario e, anzi, indispensabile, dotarsi di precise regole discendenti da altrettanto chiari e condivisi princìpi. A tal proposito si rileva come anche da parte degli esperti francesi siano state esposte nel convegno del 2004 posizioni improntate a una massima conservazione. Il conservateur en chef del Museo dell’Automobile di Mulhouse, ad esempio, ritiene che l’intervento di ‘restauro’ debba evitare di riportare ogni cosa al proprio ‘splendore originario’ così come di sostituire le parti originali con altre nuove, anche se riprodotte identiche «Un objet n’est jamais voué à être remis dans un état d’origine,ou restauré selon l’esthétique du moment.Cette ‘authenticité’ indiquera le cap à suivre auquel il sera d’autant plus facile d’accéder qu’il aura été détaillé préalablement. Un musée va évidemment privilégier de conserver les matériaux dans leur aspect et leur structure, préférant les stabiliser plutôt que de remplacer» (Richard Keller, Conservation et mise en valeur du patrimoine, in Atti…, p. 119). Nel suo intervento figurano anche due concetti tipici della riflessione sul restauro prodotta dalla scuola italiana: quello della notorietà e della reversibilità degli interventi: «La deuxième règle de toute restauration dans un Musée de France est celle de la réversibilité des interventions, sur laquelle il n’est pas opportun de s’attarder ici. Elle concerne surtout les interventions lourdes et traduit l’humilité dont doit faire preuve tout intervenant. (…) La troisième règle peut vous intéresser plus dans le cadre de ce colloque: celle de la lisibilité.Toute pièce remplacée est marquée au poinçon ou au pochoir pour permettre à nos successeurs, même s’ils n’ont pas accès au dossier de restauration, de reconnaître les pièces ‘neuves’» (ibidem). Si tratta di una reversibilità intesa come consapevolezza che un domani possibili e auspicabili miglioramenti tecnici possano n.42 2011 11 Triumph Bonneville, prima serie (1959), a sinistra, e riedizione nella linea modern classic del 2009, a destra, quest’ultima dotata di un moderno impianto d’iniezione elettronica nascosto sotto le spoglie di falsi carburatori n.42 2011 12 rendere fattibile quello che oggi è, ancora, considerato impossibile. Anche un vecchio pneumatico d’epoca – oggi inservibile – potrebbe, infatti, un giorno diventare recuperabile all’uso, magari limitato, di una vettura conservata in un museo, rappresentando con la sua autenticità pienamente la cultura dell’epoca che lo ha prodotto oltreché un esempio di riferimento per tutti gli studiosi: «Jeter un pneu usé introuvable, c’est décider qu’il n’a aucun intérêt et que jamais les moyens scientifiques et financiers ne seront disponibles pour le conserver. C’est en même temps éliminer un élément essentiel de la liaison au sol du véhicule» (ibidem). Fino a che punto, allora, si possono considerare storiche alcune caratteristiche delle vetture non appartenenti alla loro configurazione originaria? Quando, al contrario, vanno rimosse perché ingannevoli per la storia o deturpanti per l’estetica complessiva del veicolo? E, soprattutto, quando un veicolo cessa di essere originale e diventa una copia o, ancor peggio, un falso? Il presidente della FIVA, nel districarsi fra questi interrogativi, ha proposto una classificazione che distinguesse innanzitutto fra le diverse tipologie di copie: «D’abord, dans notre vocabulaire, nous utilisons deux mots différents pour désigner des ‘copies’: si la copie est réalisée par le constructeur du véhicule original, nous l’appelons ‘réplique’, si par contre elle est fabriquée par un tiers, elle est qualifiée de ‘reproduction’» (Michel de Thomasson, La FIVA, sa philosophie, son action, ses craintes, ses espoirs, in Atti…, p. 13). La copia che invece non sia dichiarata come tale è da considerarsi un ‘falso’: «Si ce n’est pas le cas, si la reproduction porte le nom du véhicule original, il s’agit alors d’un faux que nous ne voulons absolument pas considérer comme pouvant être confondu avec l’original appartenant à notre patrimoine» (ibidem). Si tratta, in sostanza, del timido affacciarsi di concetti ben conosciuti dalla dottrina del restauro, quali la notorietà delle aggiunte o la realizzazione, a fini didattici, di repliche di quanto perduto. È questo, però, un punto dolente sul quale non tutti si sono dichiarati d’accordo, specialmente i rappresentanti delle principali case automobilistiche che hanno interessi ben diversi da quelli dei collezionisti privati. Molte repliche, alle volte anche assai fantasiose in alcune parti, sono infatti realizzate dalle stesse case automobilistiche a fini pubblicitari e dimostrativi, come apertamente dichiarato dal responsabile di un’importante casa automobilistica tedesca bisognosa d’esporre a ogni costo le repliche di alcune vetture irrimediabilmente distrutte nella Seconda Guerra Mondiale: «These cars all disappeared with World War II and are lost forever. But these are such important cars for us, for Audi, that we decided 3 years ago to rebuilt them and to show out to the public how we made also race cars, the W24 engine, the gear box and the chassis are original from the 30’s but the body is new, it was made only from photographs» (Thomas Franck, The automobile, cultural heritage and industrial memory, in Atti…, p. 53). L’importante, certo, è che sia ben dichia- rato che si tratti di copie e non d’autentici oggetti storici: «I think the factories have to prove their heritage and if they cannot find original cars, they have the right to produce replicas. We try to have in our collection original cars and if they’re not in the original condition we restore them as we have done in the past. Best is original, second best a replica. But you have to tell the public that’s a replica, not the original!» (Ivi, p. 55). Per far questo è necessario che le riproduzioni non possano oggi, né tantomeno in un futuro prossimo, trascorsi gli anni necessari all’iscrizione al registro storico, diventare a loro volta oggetti di storia: «Notons enfin qu’une ‘reproduction’ ne peut devenir actuellement éligible à la FIVA que lorsqu’elle aura atteint l’âge de 25 ans. Il est donc particulièrement important que les reproductions connues soient convenablement identifiées de telle sorte qu’elles ne soient jamais plus tard confondues avec des originaux» (Michel de Thomasson, in Atti…, p. 16). È questo un punto sul quale la cultura del mondo dei veicoli d’epoca dimostra come il dibattito sia ancora allo stadio embrionale: molte posizioni sono, infatti, fra loro in disaccordo, e la maggior parte dei partecipanti al convegno ritiene che una simile limitazione non valga per le repliche, ovvero per quelle vetture riprodotte dalle stesse case automobilistiche. Non vi è, di fatto, unitarietà di vedute sulla scelta dei princìpi ai quali uniformarsi. Princìpi ai quali, secondo alcuni, dovrebbe informarsi anche la stessa produzione di oggetti nuovi. Il capo design della Citroën, per esempio, all’interno dello stesso convegno ha richiamato l’attenzione sul significato dell’autenticità nelle nuove vetture. Nel mondo del design si registra, infatti, da almeno una decina d’anni, una tendenza preoccupante alla rinuncia di nuove espressioni contemporanee, preferendo spesso ripiegare su forme e stilemi di sicuro successo riprese da oggetti cult del recente passato. Spesso non si tratta di semplici citazioni né di nuove reinterpretazioni ma, il più delle volte, di oggetti tecnologicamente contemporanei mascherati da un abito retrò. È il fenomeno del cosiddetto modern classic, ovvero di quelle icone della produzione industriale che in questi ultimi anni sono state portate a nuova vita, a partire dalla riedizione dello storico Maggiolino della Volkswagen (il New Beetle del 1998) sino a quella dell’altrettanto celebre FIAT 500 nel 2007 o alla nuova edizione dell’Alfa Romeo Giulietta nel 2010, solo per citare le più note. In campo motociclistico il caso più significativo è rappresentato dalla rimessa in produzione, a partire dal 2001, della Triumph Bonneville, una moto aggiornata e tecnicamente migliorata, ma stilisticamente fedele alle linee anacronistiche delle prima edizione del lontano 1959. L’aspetto rilevante è che in passato simili operazioni commerciali di recupero stilistico non erano condotte dai creatori dei modelli originari, ma relegate a un mercato più economico ed etichettate come operazioni di evidente plagio, almeno sino ai primi anni Novanta (cfr. Fulvio Carmagnola, Il falso antico, in «Ruoteclassiche», IV, aprile 1990, pp. 54-60). Per lo più erano operazioni di appannaggio della sola industria orientale che, proprio per questo disinvolto copiare i modelli di maggior successo dell’Occidente, veniva di continuo tacciata di scarsa creatività. La riedizione di forme e tecnologie ‘copiate’ dichiarava, allora, con ogni evidenza la natura meno ‘aggiornata’ e meno blasonata del veicolo: si pensi alla Mazda Miata, prodotta in Giappone a partire dal 1989 che, se nelle linee rappresentava un vero e proprio clone della Lotus Elan degli anni Sessanta, nello schema del motore riproponeva quello delle Alfa Romeo del dopoguerra (il famoso bialbero, in produzione per oltre quarant’anni) mentre nel disegno delle ruote ricalcava fedelmente quelle delle Mini Cooper vincitrici al Rally di Montecarlo negli anni Sessanta. La riedizione di un modello del passato assume però un aspetto del tutto diverso se a farla è il produttore originale, come avviene di sovente nell’industria del design, dove si commercializzano nuovamente oggetti ormai fuori produzione da molti anni, a seguito di una palese richiesta del mercato. Gli esempi sono moltissimi: si pensi alla seduta Barcellona di Mies Van der Rohe (replicata da una miriade di produttori diversi), alla lampada Arco di Achille Castiglioni o alla radio Cubo di Marco Zanuso e Richard Sapper (ancor oggi commercializzata dalla stessa Brionvega, nelle medesime forme seppure con ‘contenuti’ tecnologicamente aggiornati). Quello che desta maggior preoccupazione, soprattutto per la conservazione degli oggetti storici autentici, è proprio l’aggiornamento tecnologico associato a un involucro che nell’estetica riecheggia, se non addirittura riproduce, quella delle prime edizioni. Il concetto che si legittima così facendo è che l’unica cosa importante è l’involucro esterno. È questo il segno preoccupante di un’epoca che pur d’inseguire facili successi commerciali rinuncia ad esprimere una propria estetica contemporanea. Quali ricadute può avere un simile atteggiamento nei confronti delle preesistenze storicamente connotate? Difficile dirlo. Alcuni aspetti positivi, quali una rinnovata attenzione verso le opere del passato, potrebbero essere vanificati da altrettante e ben più gravi ricadute nel campo del restauro di tutte quelle opere non sottoposte ad alcun controllo di enti pubblici di tutela. Applicando l’attenzione alle sole parti esteticamente connotate c’è il rischio che si giunga, come in molti casi accade, a conservare le sola superficie esterna degli oggetti, perdendo, invece, tutto l’insieme coerente che ha prodotto proprio quell’aspetto visibile che si vuole conservare. E ciò vale tanto per i manufatti industriali quanto, ancor più, per le architetture. Distinguere la creazione del nuovo dalle copie è assai difficile, in alcuni casi forse anche inopportuno. Non a caso sul tema delle copie si sono cimentati spesso anche numerosi artisti moderni, con opinioni anche molto discordanti. Giorgio De Chirico, per esempio, s’espresse favorevolmente anche a proposito delle repliche delle sue stesse opere: «La copia che riproduce e interpreti bene un’opera d’arte può anche essere un’opera d’arte, perché la copia, se è fatta bene, per quanto copia, è un’opera d’arte per forza, non può essere altrimenti. La copia di un’opera di De Chirico, se fosse fatta bene, sarebbe una buona copia della mia opera» («L’Europeo», XXV, 30 aprile 1970, p. 39). Marcel Duchamp, invece, fece della banale riproduzione di uno dei più noti capolavori del passato (La Gioconda di Leonardo) una delle sue più geniali opere d’arte grazie a una piccola aggiunta: un paio di baffi. Il tema è assai complesso e stimolante, soprattutto oggi che le nuove tecnologie sottopongono all’attenzione ulteriori elementi di complessità. Si pensi, ad esempio, a un artista che usi costantemente media informatici per realizzare le proprie opere: a che titolo e in che forme si configura ancora un originale autografo? Nel caso la risposta fosse affermativa sarebbe, allora, lecito interrogarsi nuovamente su quale significato dare alla parola copia. Una cosa è certa, la cultura del restauro non può rimare estranea al dibattito contemporaneo perché è sempre bene ricordare che tutto quanto oggi si produce un giorno non troppo lontano diventerà, nel peggiore dei casi, una testimonianza storica bisognosa di cure e attenzioni competenti. A.P.C. Il Santuario della nel Parco di Veio Madonna del Sorbo Un sito culturale da salvaguardare e valorizzare beni culturali a cura di Maria Giulia Picchione L n.42 2011 14 a rilevanza storico-artistica, ma anche paesaggistica, del complesso monumentale della Madonna del Sorbo – riferimento storico, religioso e culturale di notevole importanza per l’ambito territoriale oggi ricompreso nel Parco di Veio, e non solo – è stata di recente acclarata con il decreto ministeriale del 22 novembre 2010, che nel dispositivo «decreta il complesso immobiliare denominato “Santuario della Madonna del Sorbo” sito in Campagnano di Roma (RM), loc. Le Piane, Strada del Sorbo, snc, meglio individuato nelle premesse e descritto negli allegati, di interesse storico-artistico ai sensi dell’art. 10, comma 1, del DLgs 22 gennaio 2004, n. 42 e successive modifiche e integrazioni, e conseguentemente sottoposto a tutte le disposizioni di tutela contenute nel predetto decreto legislativo». In aper tura: il catino absidale del Santuario di Santa Maria del Sorbo A destra: veduta del Santuario in una foto del 1971 e il complesso di recente restaurato L’interesse storico-artistico del complesso – che ha rappresentato nei vari periodi storici, per vari aspetti, un sito “strategico” di notevole valenza culturale – prima riconosciuto ope legis ai sensi dell’art. 10, comma 1, del decreto legislativo n. 42 del 2004, è stato infatti di recente oggetto, in seguito a verifica effettuata ai sensi dell’art. 12 del medesimo decreto, dell’emanazione dell’apposito decreto di vincolo sopra citato. Situato in un contesto paesaggistico di non comune bellezza – nell’area del “cratere del Sorbo”,frequentata sin dall’epoca preistorica e urbanizzata in epoca etrusca e romana, come mostrano le testimonianze archeologiche e i tracciati viari risalenti a tali periodi, ancora in uso – il complesso monumentale sovrasta, con coreografica spettacolarità, la valle del Sorbo, solcata in tutta la sua lunghezza dal corso del torrente Crèmera. Il santuario, e il complesso di edifici che ne fa parte, si trova infatti arroccato su di uno sperone roccioso, posto a quota 222 m sul livello del mare, dove l’erosione millenaria del fiume Crèmera ha creato le suggestive gole che oltre a rendere il luogo naturalmente ben difeso lo ha caratterizzato conferendogli un raro valore di naturalità per la contestuale presenza sia di beni di interesse naturalistico che di specificità geomorfologiche e vegetazionali. Le prime notizie storiche del sito si hanno nel diploma di Ottone III, datato 31 maggio 996 d.C., diretto al Monastero di Sant’Alessio, assegnatario del bene, dove si parla del «Castellum quod dicitur Sorbi», un centro fortificato frutto del vasto processo di incastellamento sviluppatosi nel X secolo, in maniera particolarmente capillare, nel Lazio settentrionale. Successivamente a tale data, nel corso dei secoli, il “complesso” viene sempre menzionato nelle fonti documentali come castello,1 fino al 1427, anno in cui Martino V permette ai frati del Carmelo di erigere un monastero presso la chiesa intitolata alla Beatae Mariae Castri Sorbi. Tra i documenti dell’Archivio Orsini compaiono degli atti, datati 1433, che testimoniano il castellum medievale come un centro indipendente e organizzato in maniera autonoma. Fonti documentali attestano, infatti, che nella prima metà del XIV secolo il castellum poteva contare una popolazione di qualche decina di persone ed era sottoposto a una tassazione pari a 5 rubbia di sale a semestre.2 Dal punto di vista architettonico e strutturale suffragano tale ipotesi alcune porzioni di murature rinvenute all’interno delle strutture quattrocentesche del convento, pertinenti una fase di occupazione precedente. L’analisi storica delle strutture murarie ha infatti permesso di rilevare, sul lato orientale del pianoro, tracce di un cinta muraria in blocchi di tufo quadrangolari appena sbozzati, impostati sullo sperone naturale (riconducibili probabilmente a una struttura quadrangolare che fungeva da torre di avvistamento) e lacerti di muratura a sacco, con tracce di intonaco, rinvenuti in un ambiente interno alla cinta, databili, in base alla tecnica costruttiva utilizzata, alla stessa epoca e cioè tra il XII e il XIII secolo. Alla fine del 1400, secondo il bilancio della Camera Apostolica per il 14801481, il Sorbo risulta non fornire più alcuna rendita, dato che lascia legittimamente dedurre che il castrum Sorbi, per ragioni non note, vedesse praticamente ormai inesistente la sua popolazione, o almeno che questa fosse copiosamente diminuita al punto da ritenersi trascurabile. E infatti, come si legge nella pubblicazione, a partire dal 1451 il castrum Sorbi scompare dall’elenco delle comunità del districtus Urbis (registro riportante l’elenco delle comunità sottoposte alla tassa del sale e del focatico). Tali elementi storici e il precedente passaggio da castrum a semplice tenuta ci confermano la fine della funzione civile del complesso del Sorbo. Da quest’ultimo periodo, e sino alla seconda metà del XIX secolo, alla storia del Castellum dicitur Sorbi si sostituirà quella del Convento della Madonna del Sorbo, retto da monastici appartenenti all’ordine dei Frati Carmelitani Calzati. Per quanto riguarda l’edificazione della chiesa, in particolare, e i lavori effettuati sul preesistente “castello”, F. La Ragione nel suo Profili storici di Formello scrive: «La fabrica del Santuario del Sorbo venne iniziata a spese del Nostro Comune… Sulla porta di esso vi è inciso l’anno 1487. In seguito il Comune di Campagnano concorse nella spesa che deve essere stata rilevante», andando forse ad alimentare ancor di più la disputa tra Campagnano e Formello, nata insieme alla leggenda, sulla potestà del santuario. Tuttavia, la data di fine lavori è incisa nell’architrave dell’ingresso della chiesa, ed è confermata anche dalle fonti. L’8 giugno 1501 Giovanni Giordano Orsini, proprietario del posto, dona al Convento del Sorbo «monti, valli, colli, piani, piagge, pendenze di acque, fratte, fiumi, fonti, e tutte l’altre adiacenze incominciando dal ponte, fino ai termini designati da spaziosi confini, per un totale di 10 rubbia di terre».3 In un documento conservato presso l’Archivio Storico Comunale di Campagnano, datato 16 gennaio 1566, è redatto un inventario dei beni immobili dei Padri Carmelitani Calzati di Santa Maria del Sorbo dove risulta: «Al Nome di Dio Amen Desiderando il Reverendissimo Padre Prior del Convento di Santa Maria del Sorbo dell’Ordine Carmelitano Blasius Bertorius, con auctorità de suoi superiori rinnovar l’inventario de tutti i beni spettanti a detta chiesa tanto esistenti nel territorio di Campagnano, quanto che di Formello; et acciochè mai per tempo alcuno, persona veruna possa pretendere ignorantia ne gravarsene in modo alcuno». A questo seguono l’elenco e la descrizione dei beni, in latino, del convento di Santa Maria del Sorbo nell’Agro di Formello prima, e nell’Agro di Campagnano, poi. Ancora, nello stesso archivio compare un altro documento del 20 aprile 1570 dove i conti di Campagnano vendono a favore del Convento e dei Padri Carmelitani della Madonna Santissima del Sorbo «due rubia e quarte tre e mezzo di terreno nella contrada Cerrai per il prezzo di 55 scudi e 90 baiocchi». Nel decennio successivo compaiono vari altri documenti come questo, sempre riguardanti vendite o donazione in favore del Convento del Sorbo da parte delle famiglie nobili del luogo. Successivamente a tale data si ha una rappresentazione del complesso del Sorbo al 1660 nel Catasto Alessandrino: nella tavola rappresentante il Casale del Bosco, vengono raffigurate in dettaglio l’Osteria di Baccano e il Santuario della Madonna del Sorbo. Il complesso appare con il campanile e la chiesa rappresentata a unica navata, ancora priva del corpo antistante. Il convento è rappresentato, invece, sul retro, al di sopra dei bastioni medievali.4 Nello stesso anno è sancita da parte del papa Alessandro VII la vendita del Comune di Campagnano, insieme a Formello, Cerveteri, Sacrofano, Bracciano e Trevignano da parte della famiglia Orsini in favore delle famiglie Colonna e Chigi. Nel XVII secolo vengono infine menzionati dei lavori commissionati da Flavio Chigi, nipote di papa Alessandro VII, a Carlo Fontana e al pittore Paolo Albertoni che intervennero all’interno della chiesa.5 Nel XVIII secolo nel complesso del santuario vengono sicuramente effettuati dei lavori, come attestano le date 1712 e 1754 riportate sui muri degli edifici a ricordo delle sistemazioni realizzate.6 L’ultima data riportata dalle fonti risale al 4 dicembre 1808, quando Paolo Angeloni, parroco della collegiata, rappresenta alla Sacra Congregazione del Buon Governo che sono necessari i lavori di consolidamento nelle chiese di San Sebastiano, San Rocco e della Madonna del Sorbo a Monterazzano, allegando le perizie del tecnico Vincenzo Carnevali: «Attesto Io sottoscritto Arciprete e Parroco della chiesa Collegiata di San Giovanni di questa Terra di Campagnano Diocesi di Nepi, come delle chiese di SS. Sebastiano e Rocco e l’altra della Madonna del Sorbo, sono juspatronato da questa Comunità, e perché senza dote sotto la manutenzione in tutto della medesima».7 Evidentemente tali lavori portarono alla conformazione del complesso del santuario rappresentato nel foglio del Catasto Gregoriano datato 1819, con l’impianto a cuspide. Da notare soprattutto la presenza dei resti medievali posti di fronte alla chiesa, rappresentata ora a tre navi, con affiancata ai lati la sacrestia e le celle. Il Santuario del Sorbo visto dal satellite (fonte: GoogleEarth) n.42 2011 15 Mappa di Monterazzano, sez. IV di Campagnano A destra: mappa del Catasto Alessandrino, Bosco di Baccano, 1660, particolare (Archivio di Stato di Roma) Sotto: pianta dei terreni adiacenti al Convento del Sorbo (Biblioteca Apostolica Vaticana, “Archivio Chigi”, fasc. 18364, tav. 107) Come ogni santuario, anche quello della Madonna del Sorbo ha la sua leggenda di fondazione, intendendo per leggenda non un racconto fantasioso o privo di attendibilità, ma la narrazione del momento fondante del sito religioso, di quell’evento che ha dato ori- n.42 2011 16 gine al culto in un determinato luogo, divenuto poi meta di pellegrinaggio. Le varie fonti di stampa ricalcano, in forma più o meno amplificata e fiorita, ma muovendosi sulla stessa falsariga, il medesimo evento miracoloso tramandato fino ai nostri giorni: «Nella terra di Formello, quando nel 1400 stava sotto il dominio della nobilissima casa Orsini, viveva un pover’uomo, attendeva alla guardia di una greggia di porci. Osservò che una scrofa, sola se ne saliva al monticello (imboschito, e come posto in isola, da un placido ruscello che tutto il circonda fuor che da una parte, da cui in quel tempo per un picciol sentiero nell’alto di esso ascendevasi) – il monticello è l’attuale pianoro roccioso dove si trova il santuario del Sorbo – e dopo più giorni fece pensiero di sapere dove andasse. Mosso da curiosità, un giorno le tenne dietro. Nel seguirla per le sue pedate, si trovò asceso nella sommità della collina, dove il folto albereto formava un gran bosco, e nel mezzo cresceva un grosso sorbo, ai piedi appunto del Sorbo, vidde la sua scrofetta posta con le zampe di dietro inginocchioni e con quelle davanti sollevate, ed alzando gli occhi, vide tra i rami una tavola antica dipinta con una maestosa e divota immagine della Madre di Dio, s’inginocchiò ancor lui riverente ad adorarla. Gli parlò da quel quadro la Vergine e gli disse che andasse nella terra più vicina, e facesse noto a quel popolo, che Lei Regina del Paradiso, si aveva eletto quel luogo, perché in suo nome vi si fabricasse una chiesa. E pertanto che si portassero ivi in processione a riconoscerla per Padrona, promettendogli che l’avrebbero avuta per Protettrice nei loro bisogni, e se la gente ricusa di crederti, poni il braccio monco nella catana che ti pende dal fianco, che ne caverai bello, ed intero con quella mano, lui si portò a Formello, andò a trovare gli anziani del Comune e gli fece l’imbasciata commessagli. Se ne risero e che si che me lo crederete pose tosto il braccio mutilato nello zaino, indi a poco, ne lo cavò fuori tutto intero con la sua mano, dicendo:“Questa mano, me l’ha data la Madre di Dio, e questo è il segno, qual’acciò mi crediate, vi manda la madonna, che nel monticello dell’isola mi ha parlato dal Sorbo e la volontà, e comando di nostra signora era, che in quel lungo le fosse fabbricata una chiesa, Santuario del Sorbo, vista del complesso in una foto della metà del sec. XX (Archivio Comunale di Formello) A sinistra: cartolina stampata nel 1925 (Arch. Gen. O. Carm., Fototeca, C 338) concorse alla fabrica anco l’università di Campagnano”». Da quell’anno, e sino a oggi, sia la popolazione di Formello che quella di Campagnano si recano al santuario, la prima il secondo giorno dopo Pasqua e la seconda il primo. Anticamente l’andata al Sorbo avveniva nello stesso giorno per entrambi i paesi, «nel secondo giorno di Pasqua di Resurrezione, e chi arrivasse primo processionalmente entrava in chiesa a far riverenza a quella gloriosa immagine, e tornava poi A fianco: Santuario del Sorbo. Foto aerea risalente agli anni Sessanta. Si notano i crolli della navata centrale della chiesa e l’avanzato stato di degrado del complesso (Archivio Fotografico della Sovrintendenza ai Beni Storici Artistici e Demoantropologici del Lazio) fora, aspettava l’altra compagnia non venuta e d’accordo entravano assieme a celebrare la Santa Messa. Ma ciò alla fine disturbato da maleodi si rinnovò l’inamicizia e disordine, talché ognuno andava sotto sacchi bene armato, et in quest’anno particolarmente del 1592 o poco prima, arrivata la compagnia di Campagnano prima al convento, entrò senza aspettare, e cominciò a celebrare la messa, ma sopravvenendo quella di Formello si sollevò subito bisbiglio; ma accorgendosi poi li formellesi del torto In basso a sinistra: planimetria generale e sezione longitudinale prima del recente inter vento di recupero e di ricostruzione del convento fattogli… (decisero di convocare un consiglio) nel quale venne stabilito… che la comunità di Formello vi era in pacifico possesso per molte centinaia di anni, e che li beni sono maggiormente nel territorio di Formello, e che la chiesa stessa in certi versi faceva menzione di Formello et essere già stato ordinato da Paolo Orsini, dal cardinale Pinelli protettore di quelli padri del Sorbo… Che si continuasse il possesso… Fu ordinato di 23 Febbraro 1592 che… (solo la compagnia di Formello potesse andare al Sorbo il secondo giorno dopo Pasqua, mentre quella di Campagnano venne spostata al giorno precedente)».8 Una tradizione viva fino a non molti anni fa, quando ancora l’andata al Sorbo, si legge nei testi che narrano della tradizione popolare, avveniva in processione: la popolazione vi si recava, preceduta dalle autorità religiose e civili e dalle confraternite, alloggiate e ristorate dai frati a spese della comunità stessa, e vi rimaneva, per il giorno intero assistendo anche alla messa del vespero. Ed è proprio con l’inizio della tradizione devozionale, avvenuta nel XV secolo, che il nucleo originario del complesso, risalente all’età medievale, assume «una fisionomia più coerente con le finalità n.42 2011 17 A destra: navata centrale della chiesa e particolare dell’affresco del catino absidale Sotto: Campagnano. Complesso di Santa Maria del Sorbo. Campanile. Particolare della finestrella ovale ricavata nel singolo concio tufaceo (fine sec. XVII) n.42 2011 18 religiose e, sotto l’istanza della richiesta inoltrata dalla Vergine dell’apparizione, viene avviata la riconfigurazione della struttura chiesastica primitiva, di presumibile origine tardo altomedievale, come attesterebbero le murature di lavorazione medievale rintracciate dietro l’abside in un restauro del 1966. Nel 1425, nominata come Beatae Mariae Castri Sorbi, la chiesa viene affidata da Martino V alla cura della Provincia romana dei Carmelitani, che ottengono la facoltà di dar luogo alla costruzione di un convento, sotto l’autorizzazione del cardinal Giordano Orsini, allora vescovo di Albano. Nel 1432 sono registrati i primi lavori, forse con l’impiego di materiale di recupero proveniente dalla zona archeologica romana d’età imperiale di Monte Castagno».9 Nei secoli successivi, con vari interventi di ampliamento, il monumento assume la configurazione finale. Il Santuario della Madonna del Sorbo è costituito, oltre che dalla chiesa, da alcuni edifici databili intorno tra il XVII e il XVIII secolo, disposti su diversi livelli. Dalla strada, a valle, vi si accede o attraverso una scalinata, che raggiunge la piazzetta posta al secondo livello, o dalla stradina che, costeggiando la rupe, arriva al piazzale posto al terzo livello: il punto più alto del sito, dove è stata edificata la chiesa. Il complesso è impostato secondo un semplice impianto volumetrico che parte dall’edificio centrale della chiesa, intorno al quale si articolano, lungo i lati settentrionale e orientale e a livelli diversi, con un impianto a cuspide, tutti gli ambienti annessi. Completa l’impianto la sacrestia, addossata al lato sud della chiesa.10 Nella parte settentrionale del complesso si trovano le celle del Convento dei Carmelitani, mentre, poco oltre, il refettorio immette su un grande androne voltato a botte.11 La chiesa prospetta, come accennato, sulla piazzetta più elevata. Il portale, evidenziato da una semplice cornice in peperino, presenta scolpita sull’architrave la data di edificazione: «A.D. 1487». L’interno, caratterizzato da un impianto romanico a tre navate, si prospetta ampio, poco profondo e simmetrico. La navata centrale è caratterizzata da dieci colonne costituite da blocchi di tufo di sezione esagonale lavorati a faccia liscia, che ne scandiscono le campate. Sulle colonne si impostano gli archi a tutto sesto che generano le crociere, realizzate in muratura, che vanno a coprire gli spazi delle navate laterali; la copertura della navata centrale invece è a struttura lignea, realizzata a capriate. Sul fondo della navata centrale, oltre l’altare, si apre il catino absidale, completamente ricoperto da affreschi rappresentanti L’Assunzione della Vergine, attorniata da tre livelli concentrici di angeli e santi su uno sfondo campestre e urbano ideale. Piccole aperture ubicate al secondo livello dei divisori delle navate fanno filtrare la luce soffusa all’interno della chiesa. Il pavimento è interamente realizzato con lastre di pietra locale. All’esterno la chiesa, caratterizzata da un prospetto a “capanna” con ali spioventi più basse, delle quali la sinistra occultata dall’erezione del nuovo cam- panile nel 1685 e la destra contraffortata da un consolidamento murario forse databile al 1708-1709, lascia intuire lo schema basilicale a tre navate; un portale incorniciato in peperino grigio lavorato a rilievo sorregge una stretta e piccola architrave, su cui, come già detto, sono incisi la data di edificazione e, al centro, uno stemma araldico entro un’icona solare. Un finestrone rettangolare sormontato da una piccola apertura di forma ovale, di ventilazione, forse introdotta con l’esecuzione del campanile, caratterizzano la parte alta della facciata. Sul lato sinistro della facciata si erge il piccolo campanile, realizzato in blocchi di tufo litoide e peperino grigio poco lavorati, anch’esso di origine romanica ma che attualmente si presenta in forme seicentesche. La sua elevazione, infatti, «si inserisce nella fabbrica conventuale proprio a cavallo tra la configurazione cinque-seicentesca e i grandi ampliamenti settecenteschi, innestandosi come riferimento distributivo e modulare in uno snodo di connessione tra la chiesa, la primitiva manica conventuale e il nuovo sviluppo longitudinale del convento».12 Impostato su una base quadrata che replica la maglia delle campate delle navate laterali della chiesa, la torre campanaria è scompartita su quattro registri di marcapiani sporgenti ed è scandita da piccoli oculi ovoidali scolpiti in singoli conci di tufo. Delle piccole monofore a tutto sesto lasciano vedere lo spazio in cui sono alloggiate le campane. Sempre a sinistra della chiesa, quasi a voler estendere planimetricamente la navata settentrionale, si innesta, oltre al campanile, il corpo della canonica, pure seicentesca, consistente in un edificio a impianto longitudinale con un portico a quattro arcate al piano terra, voltato a crociera, e un unico vano al piano superiore, il cui prospetto è caratterizzato da semplici aperture rettangolari che poggiano su una timida fascia marcadavanzale. L’articolazione spaziale dei tre volumi si caratterizza così come un complesso architettonico unitario, ben risolto grazie alla razionalità dell’impianto planimetrico e all’articolazione dei volumi. Intorno al corpo basilicale si articolano, come accennato, impostati sui vari livelli, tutti gli altri spazi annessi al complesso, originariamente destinati a convento, che, con impianto a “V”, cingono, attestandosi sul crinale roccioso, la chiesa sui lati settentrionale e orientale, nascondendone l’abside. Si tratta di una serie di spazi concatenati e serviti da un corridoio di collegamento, secondo uno schema tipologico tradizionale dell’architettura monastica. A sud l’intero complesso sorge, come accennato nella parte storica, su un monumentale contrafforte realizzato in blocchi litoidi di forma quadrangolare con la superficie appena sbozzata che crea uno scenario molto suggestivo insieme alle pareti rocciose naturali circostanti. Di notevole interesse sono i resti di muratura dell’antico borgo medievale abbandonato situati di fronte alla chiesa, che oggi ospitano una zona di devozione alla Madonna. Dopo un periodo di grave abbandono, durante il quale il complesso, e in particolare la chiesa, ha subito spoliazioni di ogni genere ed entità, il complesso è stato sottoposto negli ultimi anni, a partire dall’anno 2002 – in base all’Accordo di programma quadro “aree sensibili: parchi e riserve” APQ7 – a ingenti lavori di recupero, restauro, ma anche di ricostruzione degli ambienti conventuali pressoché distrutti, con lo scopo di attribuire al monumento, ferme restando le attività di culto e religiose che gli sono proprie, destinazioni d’uso collegate, in prospettiva, alle funzioni e alle competenze del Parco di Veio, tra cui quelle di accoglienza, studio e ricerca. Seppur foriero di interrogativi circa l’ammissibilità storica delle ricostruzioni effettuate, si può dire che l’intervento, anche se non ancora ultimato, ha il fine di recuperare all’uso un sito caro alla memoria collettiva delle comunità locali. Certamente, affinché possa realizzarsi tale obiettivo è necessario predisporre un concreto progetto di fruizione e valorizzazione, condiviso da tutti i soggetti interessati, mediante la redazione di un piano strategico che, nel rispetto delle peculiari caratteristiche del bene culturale e delle sue esigenze di conservazione, individui obiettivi, risorse, strumenti, condizioni d’uso, e soprattutto compiti e ruoli dei vari enti che, a vario titolo, sono comunque coinvolti nell’attuazione dello stesso progetto. Ad oggi, infatti, anche a causa del “non uso” della parte già restaurata, il complesso denuncia, nella zona della canonica e della foresteria, la necessità di interventi di restauro e di consolidamento (legati, ad esempio, ai fenomeni di umidità di risalita nelle murature, alle lesioni nei pavimenti al piano terra, alla mancanza di manutenzione di alcuni infissi esterni), interventi che occorre effettuare a breve termine per scongiurare un fenomeno di degrado ben più preoccupante. Il notevole onere finanziario che l’intervento ha comportato, la rilevanza storico-artistica del complesso, il significato che per secoli lo stesso ha costituito, e costituisce tuttora, in ambito territoriale, sia sotto il profilo religioso che storico-artistico, richiedono quindi un impegno fattivo di tutti gli enti (amministrazioni statali, Comune, Università Agraria, Parco di Veio) coinvolti nella salvaguardia del bene culturale e più in generale del sito. Pensare, a tal fine, di inserire il complesso monumentale in un circuito religioso-culturale d’ambito quanto meno provinciale, se non addirittura regionale, potrebbe rappresentare il volano per restituire al Santuario della Madonna del Sorbo quel ruolo strategico che storicamente gli appartiene, costituendo al tempo stesso un indubbio elemento di crescita economica per il bacino territoriale d’influenza. Santuario di Santa Maria del Sorbo, particolare della facciata allo stato attuale M.G. P. NOTE 1 Annapaola Mosca, in Via Cassia. Un sistema stradale tra Roma e Firenze: «…e ancora in una istanza rivolta a Innocenzo III dai monaci di S. Paolo per il recupero di vari castelli e tra questi quello del Sorbo; in ultimo lo troviamo citato in una lettera di Onorio III rivolta al monastero di S. Alessio». 2 Giuseppe Tomassetti, Della Campagna Romana nel Medio Evo, 1885. 3 Cfr. Documentazione Archivio Orsini, atto di donazione 8 giugno 1501. 4 Cfr. Catasto Alessandrino, Archivio di Stato di Roma, Pianta da Roma a Viterbo, III tracciato. 5 Cfr. nota 3. 6 Cfr. nota 3. 7 Cfr. Archivio Storico Comunale del Comune di Campagnano. 8 Lares,Volume 41, Comitato nazionale per le tradizioni popolari, Comitato nazionale italiano per le arti popolari, Società di etnografia italiana, Università di Roma. Istituto di storia delle tradizioni popolari, Università di Bari. Istituto di storia delle tradizioni popolari, Federazione italiani arti e tradizioni popolari. 9 Saverio Sturm, Architettura e significato del Santuario del Sorbo, in Lanfranco Mazzotti e Mario Sciarra (a cura di), Il Santuario della Madonna del Sorbo, Gangemi Editore, Roma. 10 «Italia Nostra», anno 1968, n. 57 e n. 70. 11 Giuseppe De Luca, Roma 1951, Archivio Italiano per la Storia delle pietà. 12 Saverio Sturm, op. cit. n.42 2011 19 Il Parco dei Germogli nel Parco Manzù ad Acilia Sotto: giardino spot a Ponte di ferro nel quartiere Marconi Zappata Romana! Orti e giardini condivisi spazi aperti a cura di Luca D’Eusebio L n.42 2011 20 o spazio pubblico è al centro della riflessione sulla città. Nella X Biennale di Architettura di Venezia del 2008 la città di Bogotà ha vinto il Leone d’Oro, il massimo riconoscimento previsto per i progetti sullo spazio pubblico, e nell’ultima Biennale del 2010 quasi tutti i Paesi espositori hanno scelto lo spazio pubblico come oggetto della narrazione della propria realtà nazionale. Il motivo di queste scelte è semplice: le città, ovvero i luoghi dove si concentra la maggior parte della popolazione della Terra, sono fatte di spazio pubblico. Pensare lo spazio pubblico è un modo per riflettere sul nostro tempo, perché lo spazio pubblico ha un valore sociale ed è una rappresentazione simbolica della comunità. La società si palesa dove, quando e se ci sono relazioni, associazioni, luoghi e occasioni d’incontro. Con il lavoro di ricerca chiamato Zappata Romana, è stato riportato su mappa un fenomeno poco noto, ma in forte crescita a Roma, che riguarda la costruzione da parte dei cittadini di nuovi spazi urbani operando su aree abbandonate, incolte, di risulta. La mappa Zappata Romana è disponibile a tutti on-line (www.urbanarchitectureproject.org). In essa vi sono oltre 50 aree costituite da giardini e orti in cui i cittadini hanno curato la realizzazione o curano la manutenzione secondo un progetto comune e condiviso. La condivisione della gestione da parte dei cittadini è il tratto distintivo di questo fenomeno in forte espansione – nascono circa due nuove aree al mese – rispetto a fenomeni simili quali gli orti urbani romani “tradizionali”, abusivi e di lunga storia (dagli orti dei ferrovieri a quelli di guerra), che secondo un recente censimento del Comune di Roma risultano essere circa 2.500 distribuiti su 65 siti. Roma sembra ricalcare le orme di Parigi, Londra e altre capitali europee dove aree abbandonate o parchi senza manutenzione, in centro e in periferia, sono il campo di sperimentazione di nuovi spazi pubblici di relazione a contatto con la natura. L’ultima stagione dell’urbanistica romana è caratterizzata dall’azione di cittadini che si mettono insieme per recuperare gli spazi abbandonati al fine di realizzare piccoli orti, aree gioco e giardini. Le motivazioni dietro a questo fenomeno, citate in diversi articoli sugli orti e i giardini condivisi, sono in parte “globali” (la moda lanciata da Michelle Obama degli orti, la crisi economica, la necessità di un rinnovato rapporto con la natura), ma in parte prendono spunto da situazioni particolari di Roma. Anzitutto non si deve trascurare il fatto che la spesa media Orto didattico del Farmer’s Market nell’ex Mercato del Pesce ebraico realizzato da Campagna Amica per attività didattiche. sostenuta per la cura del verde urbano a Roma è di 1,22 €/mq contro i 5,07 €/mq di Parigi e i risultati sono evidenti. Inoltre vi è una ricorrenza con la forma urbis testimoniata anche dalla Mappa del Nolli del 1748 in cui la città costruita è inscindibile dagli orti dentro e fuori le mura. Il motivo principale dell’esplosione di questo fenomeno a Roma, e la sua distinzione anche con quanto avvenuto in passato, è dato dall’opportunità che i giardini e orti condivisi rappresentano per fare “altro”. Mentre in città per motivi contingenti di natura politica ed economica si regista un restringimento degli spazi di socialità e cultura, un piccolo spazio condiviso conquistato da un gruppo di cittadini costituisce lo spunto per la realizzazione concreta di un gran numero di iniziative diverse. Queste esperienze, a differenza di quanto avveniva in passato, coinvolgono ampie fasce di cittadini, costituendo una potenzialità per la costruzione di nuove relazioni sociali in contesti periferici: centri anziani, parrocchie, gruppi scout, associazioni sociali e ambientaliste, diversamente abili, giovani, donne e anziani. Sono spazi che rispondono all’esigenza di “fare comunità” e offrono un’alternativa alle categorie sociali emarginate dalla società moderna, fornendo occasioni di integrazione con immigrati e pratiche per l’educazione ad attività ambientali sostenibili. A San Lorenzo, storico quartiere centrale, tre associazioni hanno strappato un fazzoletto di terreno ai privati per costruire un’area di socialità realizzando un parco giochi, un orto, spazi per la convivialità.Alla Garbatella le associazioni insieme ad alcune famiglie hanno recuperato un’area vicino alla sede della Regione, in attesa di una trasformazione edilizia, per realizzare gli orti urbani comunitari. Sull’Ardeatina gli orti comunitari sono realizzati e gestiti dai lavorati ex Eutelia. A Prato Fiorito un parco urbano gestito da una cooperativa sociale, costituita nel 2008 con la finalità di migliorare la qualità della vita nel quartiere, promuove attività finalizzate alla prevenzione e rimozione di situazioni di disagio sociale e coltiva una vigna utilizzata per produrre vino e sostenere progetti nei Paesi in via di sviluppo. A Via della Consolata vi è il primo parco a orti urbani realizzato dal Comune di Roma con casette per il ricovero attrezzi, fontanelle pubbliche, panchine e cestini per i rifiuti. Coltivatorre è un orto biologico gestito da ragazzi/e disabili e “non”, avviato fin dal 1997 nel Parco dell’Aniene proprio sotto La Torre del CSOA omonimo. Il parco di Via Orazio Vecchi è gestito dal gruppo degli Scout Nautici “Antares”. Giardino “spot” a Tor Bella Monaca realizzato dai giardinieri sovversivi romani. La Fattorietta è un progetto dell’associazione “Passeggiata del Gelsomino” su un terreno di circa 4 ha. A Piazza Bozzi la riqualificazione di uno sterrato ha permesso la realizzazione di un campo di calcio e l’avvio di attività sociali, educative e sportive a disposizione di tutti. Il giardino condiviso alla Città dell’Utopia è l’esito della collaborazione tra Servizio Civile Internazionale e l’Associazione Romana di Erboristi di “Monte dei Cocci” con lo scopo di gestire e curare l’area verde intorno al Casale Garibaldi coinvolgendo i cittadini del quartiere. Tali iniziative rappresentano dunque una risorsa preziosa per una città come Roma che deve amministrare un territorio così ampio. Si tratta di un fenomeno importante che andrebbe valorizzato e incentivato dando regole certe e sostegno in cambio della manutenzione e animazione delle aree. Zappata Romana con la sua mappa che riporta fotografie e descrizioni di ciascun giardino registra il fenomeno nella sua complessa articolazione e quantità. Lungi dall’essere una fotografia esaustiva di tutto ciò che esiste, costituisce però un riferimento per chi s’interessa a queste realtà e cerca al contempo di sopperire alla mancanza di una rete comune.Tale rete si sta sviluppando non solo a livello cittadino ma anche con altre città come Milano con il suo Orto diffuso, che ha messo in piedi una rete fra gli orti e un calendario di incontri per scambi e diffusione dei saperi fra i “cittadini coltivatori”. Silvia Cioli e L. D. E. n.42 2011 21 Le Corbusier ritrae se stesso L percorsi lecorbusieriani a cura di Valerio Casali Prima colonna: Le Corbusier fotografato negli anni ’40 del 1900 n.42 2011 22 Charles-Edouard Jeanneret, autoritratto (album di disegni n. 10, 1917), mina di piombo, gessetto grasso nero e acquarelli su carta, 27 x 34 cm, non firmato, non datato Seconda colonna: Charles-Edouard Jeanneret, autoritratto (album di disegni n. 3, 1918-1919), mina di piombo su carta, 21,6 x 26,7 cm, non firmato, non datato Terza colonna: FLC 0235 Le Corbusier, autoritratto, matita su carta da schizzi, 21 x 27 cm, non firmato, non datato Le Corbusier, autoritratto, penna stilografica su carta, 21 x 27 cm, firmato in basso a destra «L-C», non datato e Corbusier ha più volte ritratto se stesso, ma i suoi autoritratti non sono tutti tali nel senso proprio del termine. Infatti, se alcuni, in maniera ortodossa, ritraggono il volto del maestro, altri mostrano parti del corpo diverse dal volto – e a esclusione del volto – altri ancora rappresentano animali o oggetti, che si riferiscono all’architetto e alcuni, infine, rappresentano “altri” uomini, in qualche modo riconducibili a Le Corbusier; si tratta di rappresentazioni simboliche del maestro, che si identifica di volta in volta con esseri, oggetti o uomini diversi. Il tema degli autoritratti simbolici è stato particolarmente caro a Mogens Krustrup, studioso di eccezione, caro amico e compagno di ricerca, recentemente scomparso, alla cui memoria questo breve studio è dedicato. 1. Ritratto giovanile, risalente al 1917,1 realizzato con tecnica mista, impiegando matita, gessetto grasso nero e acquerello; si tratta di una veduta di tre quarti, con il volto girato verso sinistra (per l’osservatore), con ombreggiature “morbide” e curate; la capigliatura folta e mossa dimostra la giovane età del soggetto, che più avanti perderà buona parte dei capelli; la pettinatura non è già più quella di Jeanneret adolescente con la riga laterale, ma quella, adottata successivamente, con i capelli all’indietro. Gli occhiali con montatura metallica molto leggera, sono quelli usati prima che Jeanneret si trasformasse – nel 1920 – in Le Corbusier.2 In quest’anno 1917 l’architetto lascia La Chaux-de-Fonds e si trasferisce definitivamente a Parigi, dove probabilmente questo ritratto è stato eseguito. chiaroscuro, arriva a conclusione con gli ultimi autoritratti, i nn. 7 e 8. 3. Questa veduta di tre quarti, col volto girato verso destra (per l’osservatore), mostra un’inquadratura più ristretta rispetto ai nn. 1 e 2, che includono anche il collo del soggetto, con il papillon o la cravatta; il disegno è realizzato a matita e impiega una diversa tecnica di disegno delle ombre, che risultano “dure”, disegnate a tratti violenti. Gli occhiali sono quelli dalla montatura spessa e nera, adottati da Le Corbusier nella maturità. Autoritratti veri e propri Otto disegni ritraggono il volto dell’architetto e sono dunque da considerarsi autoritratti “ortodossi”: 2. Ritratto poco più tardo del precedente, eseguito nel 1918-19,3 è una veduta frontale, disegnata a matita e violentemente ombreggiata. Gli occhiali sono gli stessi del ritratto n. 1, ma la capigliatura è più composta e l’aspetto più grave, preoccupato. I disegni 3/8 non recano alcuna datazione scritta, ma sono databili agli anni ’30 del 1900; sono i lineamenti a dimostrarlo e ancora la capigliatura, ormai diradata, con l’attaccatura “alta” e i capelli incollati alla testa.Altro elemento indicatore sono gli occhiali, dalla montatura nera e spessa, adottati dall’architetto dopo gli anni ’20. Questi disegni costituiscono un gruppo omogeneo, un percorso di ricerca che, tramite il restringimento dell’inquadratura e la semplificazione del 4. La stessa veduta del ritratto n. 3, disegnata a penna stilografica, che rende ancora più secco e forte il tratteggio delle ombre. Parti del corpo diverse dal volto 5. Un ulteriore studio, a mina di piombo; la posizione è quella dei due ritratti precedenti, ma con ulteriore restringimento dell’inquadratura, che esclude la parte posteriore della testa per focalizzarsi esclusivamente sul volto. Le ombre sono più “impastate”, trattate con lo sfumino o semplicemente passando un dito sulla grafite, che in tal modo si spande, mostrando con meno evidenza i segni che compongono l’ombreggiatura. 7. Con questo disegno a inchiostro blunero, Le Corbusier riutilizza ancora l’inquadratura “ristretta” definita nei nn. 5 e 6, ma elimina tutte le ombreggiature, riducendo il ritratto a un solo contorno, fatto di pochi segni che definiscono i lineamenti, con l’esclusione di ogni chiaroscuro. Un’annotazione a matita recita “cattivo” (mauvais), informandoci che l’autore non era soddisfatto del risultato raggiunto; tale insoddisfazione non è certamente dovuta alla resa dei lineamenti, ma alle numerose imperfezioni del segno, che è privo di regolarità e presenta improvvisi inspessimenti e rigonfiamenti, probabilmente a causa della penna e/o del foglio utilizzati. 9. nella mia vasca da bagno : = formazione di un arcipelago Insolita e originale veduta del corpo, particolarmente scorciata, che l’architetto ha realizzato durante un bagno in vasca in un albergo di Londra, nel 1953; in primo piano si trovano i capezzoli, seguiti dai peli del pube, e da gambe e piedi semisommersi. Le Corbusier, osservando il proprio corpo immerso nell’acqua, assimila le parti che emergono a isole e vede così nascere un arcipelago. Questo disegno si ritrova ne’ Le Poème de l’Angle Droit4 ove compare in bianco e nero e con diversa grafica. Prima colonna: Le Corbusier, autoritratto, mina di piombo su carta da lettere, 15,8 x 20 cm, non firmato, non datato Le Corbusier, autoritratto, inchiostro di china su carta, 21 x 30 cm, firmato in basso a destra «Le Corbusier», non datato Seconda colonna: Le Corbusier, autoritratto, inchiostro blu-nero su carta da schizzi, 21 x 27 cm, non firmato, non datato, con scritta: «cattivo» (mauvais) Le Corbusier, autoritratto, non firmato, non datato 6. La medesima inquadratura del ritratto n. 5, realizzata però a inchiostro di china, con ombreggiatura ben modulata; rispetto ai precedenti studi a matita, questo lavoro è più “finito”, tanto che l’artista lo ha firmato per esteso. 8. A causa dei difetti presenti nel disegno n. 7, Le Corbusier ridisegnò il ritratto, con identiche fattezze, cercando un segno “pulito”, di spessore costante, che riuscì a ottenere in questo autoritratto, divenuto il più conosciuto del maestro. 10. Autoritratto della mano sinistra Le Corbusier è particolarmente affascinato dalle mani, che dipinge con particolare risalto in moltissimi dei suoi quadri a partire dall’epoca purista, dove la mano appare inizialmente sotto forma di guanto.5 Il disegno n. 10 è uno degli almeno tre autoritratti che esistono della mano del maestro – la sinistra, naturalmente, poiché la destra è impegnata a disegnare. Anche la Mano Aperta, poi, il grande simbolo lecorbusieriano di pace, definita dopo innumerevoli prove in una forma non naturalistica, rappresenta certamente la mano del maestro.6 Terza colonna: Le Corbusier, disegno del proprio corpo semisommerso dall’acqua, pastelli su carta, non firmato, datato «Londra marzo 53 Hotel Berkley» (Londres mars 53 Hotel Berkley) con scritta: «nella mia vasca da bagno : = formazione di un arcipelago» (dans ma bagnoire : = formation d’un archipel) Le Corbusier, disegno della propria mano sinistra, non firmato, non datato n.42 2011 23 Animali E un corvo rappresenta Le Corbusier nel Ritratto di famiglia dei responsabili della riuscita dell’impresa (Portrait de famille des responsables de la reussite de l’entreprise) che compare sul portale del Palazzo dell’Assemblea di Chandigarh; insieme a lui l’equipe tecnica, rappresentata da un gallo (Pierre Jeanneret) e da due capre, di cui una succhia il latte dalle mammelle dell’altra (Jane Drew e Maxwell Fry). Oggetti 14. Nei quadri del periodo purista appaiono con frequenza dei dadi da gioco, elementi che fanno parte del repertorio Prima colonna: Charles-Edouard Jeanneret, disegno di un condor, non firmato, non datato, con scritte: «NATALE / 1909 / La miseria di vivere / fatta uomo! / e lo sdegno della miseria di vivere / incarnata ne / l’anima del / GRANDE CONDOR» (NOEL / 1909 / La misère de vivre / faite homme! / et le dédain de la misère / de vivre / incarnée en / l’ame du / GRAND CONDOR) Le Corbusier, disegno di cor vo, penna stilografica su carta da lettere Seconda colonna: Le Corbusier, disegno di due capre, un cor vo e un gallo, non firmato, non datato, con scritta: «Costruzione di una capitale nel Punjab / Chandigarh / Ritratto di famiglia dei responsabili de / la riuscita dell’impresa» (Construction d’une capitale au Punjab / Chandigarh / Portrait de famille des responsables de / la reussite de l’entreprise) n.42 2011 24 Charles-Edouard Jeanneret, Composizione con una pera (Composition avec une poire), olio su tela, 89 x 146 cm, firmato «Le Corbusier», datato «29» 11. Il grande condor (Le grand condor) Sul biglietto di auguri che CharlesEdouard Jeanneret invia ai genitori per il Natale 1909, compare il disegno di un condor appollaiato sulla vetta di un alto monte, con la scritta: «La miseria di vivere / fatta uomo! / e lo sdegno della miseria di vivere / incarnata ne / l’anima del / GRANDE CONDOR» (La misère de vivre / faite homme! / et le dédain de la misère / de vivre / incarnée en / l’ame du / GRAND CONDOR). In questo caso l’identificazione col condor esprime l’atteggiamento interiore di Jeanneret, in un periodo in cui, a seguito di letture che lo influenzano fortemente, tende a identificarsi con Zarathoustra (e anche con altri profeti) e come tale si rappresenta isolato, su una vetta al di sopra del mondo. 12-13. Il corvo Corbusier, Corbeausier, Corbu, Corbeau… Per gli amici l’architetto si firma con il rapido disegno di un corvo. NOTE 1 L’autoritratto non è datato, ma fa par te dell’album di disegni n. 10, del 1917 2 Vedere al proposito: Valerio Casali, Le Corbusier, la musica, l’architettura, «Parametro» n. 234, Faenza Editrice, Faenza (RA), maggio-giugno 2001, pp. 40-66 3 L’autoritratto non è datato, ma fa par te dell’album di disegni n. 3, del 1918-1919 4 Le Corbusier, Le Poème de l’Angle Droit, Ediotions Verve, Parigi, 1955, p. 9 5 Vedere al proposito: Valerio Casali, La “Mano Aperta”, «L’architetto italiano» n. 33-34, Mancosu Editore, Roma, agosto-novembre 2009, pp. 18-21 6 Vedere al proposito: Valerio Casali, Il monumento della “Mano Aperta”, «L’architetto italiano» n. 35-36, Mancosu Editore, Roma, gennaio-aprile 2010, pp. 14-17 7 Vedere al proposito: Valerio Casali, Joséphine Baker dans “le QUAND-MEME des illusions”, in: AAVV, Mélanges en hommage à Evelyne Tréhin, Fondation Le Corbusier, s.l. (Parigi), s.d. (2005), pp. 79-94 e: Valerio Casali, Primi incontri di Le Corbusier e Joséphine Baker, «L’architetto italiano» n. 24, Mancosu Editore, Roma, febbraiomarzo 2008, pp. 34-39 8 «Un acrobata non è un fantoccio Egli consacra la sua esistenza a un’attività attraverso la quale, in pericolo di morte permanente, realizza dei gesti fuori serie, ai limiti della difficoltà, e nel rigore dell’esattezza, della puntualità… pronto a rompersi il collo, a spezzarsi le ossa, ad ammazzarsi. Nessuno lo ha incaricato di questo Nessuno gli deve alcuna gratitudine Ma lui è entrato in un universo fuori serie, quello dell’acrobazia. Risultato: certo! fa delle cose che gli altri non possono fare. Risultato: perché fa questo? Si domandano gli altri; è un pretenzioso, è un anormale; ci fa paura, ci fa pietà; ci innervosisce!» Charles-Edouard Jeanneret, Composizione con una pera (Composition avec une poire), particolare di questo periodo; il numero che viene mostrato non è casuale: si tratta spesso del numero “sei”, giorno della nascita di Le Corbusier (nato il 6 ottobre) o del numero “uno”, giorno di nascita della moglie Yvonne (nata il 1° gennaio); il dado con impresso il numero “sei” rappresenta Le Corbusier e due dadi con impressi i numeri “sei” e “uno” costituiscono un doppio ritratto di Le Corbusier e Yvonne. Charles-Edouard Jeanneret, nudo maschile (album di disegni n. 16: schizzi di Music-Hall, 1925-26), matita su carta, 16,3 x 24,5 cm, non firmato, non datato, con scritta: «M. Corbu!» Altri uomini 15. Sig. Corbu! Il disegno, che rappresenta un uomo completamente nudo, dalla corporatura atletica e dalla muscolatura molto sviluppata, è stato eseguito tra il 24 aprile e il 31 dicembre 1926 al Folies Bergère, durante uno spettacolo di varietà intitolato La folie du jour, ove Le Corbusier si era recato per fare una serie di schizzi che servirono quale base per i 25 acquarelles de music-hall ou le quandmeme des illusions. Rappresenta dunque – materialmente – un acrobata che eseguiva un numero durante lo spettacolo, ma la scritta Sig. Corbu!, che è stata apposta dall’autore nel 1963,7 chiarisce che l’uomo in questione è una rappresentazione dello stesso Le Corbusier. L’architetto si identifica con un atleta, un acrobata: qualcuno che esegue esercizi al limite delle possibilità umane,8 come egli stesso fa nel campo dell’architettura. 16. Corbu à Buenos Aires Tre anni più tardi, tra il 27 settembre e il 13 novembre 1929, periodo in cui soggiorna a Buenos Aires,9 l’architetto (Un acrobate n’est pas un pantin Il consacre son existence à une activité par laquelle, en danger de mort permanent, il réalise des gestes hors série, aux limites de la difficulté, et dans la rigueur de l’exactitude, de la ponctualité … quitte à se rompre le cou, à se briser les os, à s’assommer. Personne ne l’en a chargé Personne ne lui doit gratitude quelconque Mais, lui, il est entré dans un univers hors série, celui de l’acrobatie. Résultat: bien sur! il fait des choses que les autres ne peuvent faire. Résultat: Pourquoi fait-il cela? Se demande autrui; c’ est un prétentieux, c’est un anormal; il nous fait peur; il nous fait pitié; il nous embete!) Le Corbusier, uomo nudo in piedi, matita su carta, non firmato, datato «1929», con scritta: «Corbu / à / Buenos Aires / album B-Aires / 29» torna a rappresentarsi come uomo dal fisico atletico; questa volta non sappiamo chi sia l’uomo che il maestro ha realmente ritratto, ma sappiamo per certo che quest’uomo nudo e muscoloso rappresenta Le Corbusier, grazie a un titolo apposto al disegno: Corbu à Buenos Aires. Durante il lungo viaggio in Sudamerica l’architetto porta il messaggio della nuova architettura dell’epoca macchinista, come un combattente che vuol sconfiggere il vecchio modo di pensare l’architettura. V. C . in: Le Corbusier, L’atelier de la recherche patiente, Editions Vincent, Freal et Cie, Parigi, 1960, p. 197 9 Vedere al proposito: Valerio Casali, Ricostruzione degli itinerari lecorbusieriani in Sudamerica, settembre-dicembre 1929, dattiloscritto n.42 2011 25 «This is China, Hombre!» Con un divertente aneddoto di confusio linguarum M tao tie a cura di Paolo Vincenzo Genovese olti libri e molte riviste s’interrogano su quale sia l’attuale tendenza dell’architettura. Fino a pochi anni fa si combatteva in “punta di fioretto” a disquisire sulla bontà e la superiorità di uno stile rispetto a un altro. Si rifiutava persino l’idea di stile e si ponevano le basi per movimenti che avrebbero rivoluzionato il modo di vedere lo spazio.Ne possiamo citare diversi, come il celeberrimo dibattito PostModern versus Decostruzione, lotta inutile poiché Post-Modern e Decostruzione sono esattamente la stessa cosa detta con linguaggi diversi. E non faticheremo a riconoscere una più vecchia battaglia, al tempo assai più aspra, fra Razionalisti e Organicisti, dimentichi anche allora che erano tutte e due posizioni nell’ambito del Moderno. Ma a voler ben riflettere, qual è la questione che soggiace a questo scontro tra “apollinei” ed “epicurei” del Contemporaneo? Come mai ci s’interroga e si combatte all’arma bianca sulla superiorità di una posizione rispetto a un’altra? Riteniamo che il senso generale sia stabilire con certezza la natura dell’architettura nelle diverse stagioni che attraversiamo. Desideriamo, per così dire, capire i sistemi filosofici e formali che caratterizzano un’epoca, ma sempre con la “giustificazione morale” di ammantare le nostre visioni con un’aura intellettuale. I dibattiti di questo genere sono sempre assai ben documentati e n.42 2011 26 Un esempio di architettura coloniale spagnola utilizzato come elemento stilistico per un vastissimo complesso residenziale di ville e Town-House nei pressi di Shenzen non vogliamo mettere il dito su questo tema anche perché si corre il rischio di perdere tutta la mano.Vogliamo notare solo un fatto interessante che riguarda proprio la natura del Contemporaneo. Se si considera il panorama dell’architettura a livello molto generale, si nota come la maggioranza delle analisi sia fatta nel mondo europeo e americano, ovvero in quella parte del mondo dove la riflessione teorica è più spinta e sofisticata. Qui, si tende sempre a storcere il naso verso quelle forme di edilizia che non posseggono un adeguato “abito da cerimonia” che giustifichi le scelte formali e spaziali. Ma si dimentica che nella maggior parte del mondo ci si “veste” in modo molto più casual e la riflessione teorica è di bassissimo livello. Chi gridasse all’orrore e rimanesse scandalizzato dall’alto della sua nuvola teoretica, ebbene ha purtroppo sbagliato i calcoli poiché inconsapevole del fatto che la produzione architettonica non è pura teoria, ma soprattutto azione da parte di architetti più o meno dotati di talento. Ora, nel “grande oceano di latte”, se proprio volessimo definire quale sia lo stile o il linguaggio prevalente di oggi, ebbene tutta la teoresi di questo mondo si infrangerebbe dinanzi alla bruta evidenza che a prevalere non è Decostruzione o Post-Moderno colto, non Cyber-Architettura o Topologia in architettura, bensì una criminosa proposizione di feeling, sensazioni non ben definite atte a sedurre acquirenti inconsapevoli. Approfondiamo. La maggioranza della produzione architettonica non è fatta di qualità, e questo è un fatto assodato. Ha la necessità dei grandi numeri perché il sistema economico contemporaneo non ha equilibrio ed è sempre alla ricerca di una produzione sempre più massiccia al fine di sopravvivere. Quantità e qualità non vanno mai a braccetto, salvo rarissimi casi e sempre di pertinenza divina. Anche il mercato dell’architettura ha la necessità di basarsi su ciò che in linguaggio tecnico viene chiamato marketing strategico, che in parole povere significa «l’arte di rubare i soldi dalla sacca della gente». Una delle tecniche più usate in edilizia è offrire in vendita non una casa, ma uno stile di vita. Ovvero, è proposto l’acquisto non di una bella e comoda abitazione adatta alle esigenze del compratore, bensì un mondo fascinoso nel quale chi paga ha la sensazione di dare pochi spiccioli per divenire il sovrano di un mondo di sogno. E in effetti è proprio così. Si tratta solo di un sogno, un incantamento realizzato con tecniche pubblicitarie, e nemmeno tanto sofisticate. Basta un buon rendering, un nome accattivante, un motto privo di senso ma roboante. Quanto la realtà sia diversa è evidente. Basta confrontare, dépliant alla mano, la casa venduta sulla mappa e la realtà dinanzi ai nostri occhi, e quel dépliant diventerà carta con cui asciugarsi le lacrime. L’aspetto divertente, invece, è il modo in cui questi sogni sono realizzati. Sono proposti stili di vita davvero incredibili a cui vogliamo dedicare la parte finale di questo articolo. «Architetto, visto che lei è italiano, vorremmo chiederle un progetto in stile italiano». Alla domanda che così spesso ci viene rivolta, nella nostra professione all’estero, noi rispondiamo sempre con la stessa frase: «Mi dispiace, non ho la più pallida idea di cosa sia lo stile italiano». Ma la contro-risposta è sempre disarmante: «Allora me lo faccia in stile europeo. Va bene lo stesso». Poi, lo Spanish Style va di gran moda. Soprattutto in Cina. Si assiste alla proliferazione di fazendas in stile “zorresco” in cui non manca nemmeno il tirapiedi del malvagio latifondista che, nella fattispecie, si materializza nelle fattezze del venditore, armato del suo untuoso sorriso condiscendente. Il fenomeno è degno di nota in Estremo Oriente, ma non solo. Possiamo rilevare come esista una marcata tendenza a vendere al grande pubblico un vero e proprio universo di comportamenti, soprattutto in quei contesti che, per una serie di ragioni storiche, hanno perduto la propria identità culturale. Ora, dire questo della Cina appare paradossale, e in effetti paradossale lo è perché siamo senza ombra di dubbio dinanzi a quella che può essere definita l’invenzione della memoria. È fenomeno frequente per i Paesi asiatici vedere l’Occidente come un modello di civiltà. Fatto assurdo perché, come da parecchio si usa ripetere, Ex Oriente Lux.Tuttavia, nei tempi recenti, ciò che viene da Ovest rappresenta se non altro l’ideale di una vita comoda e lussuosa. Che poi si abbia un fraintendimento su cosa l’Occidente effet- Tre immagini di Thames Town, cittadina a 30 km da Shanghai, interamente costruita in stile inglese tivamente sia, questo è evidente. Con “invenzione della memoria” intendiamo la necessità di creare ex novo un sistema di segni che definisca un contesto fisico (nella fattispecie residenziale) capace di ricreare un’aura fascinosa di qualcosa che in effetti non esiste e non è mai esistito. Il fenomeno è tipico di molti quartieri americani, in particolare di Los Angeles, ed è proprio dall’America che la Cina ha preso spunto per la riproposizione dello Spanish Style. Il discorso analitico potrebbe continuare a lungo, ma preferiamo concludere con un divertente aneddoto occorsoci pochi giorni fa. Il caso è dato da un progetto di un centro residenziale per una città nei pressi Ürümqi ( ) in Xingjian ( ). L’obiettivo del proget- to era un interessante esempio di confusio linguarum. Ragionamento: visto che la città sorge “non lontano” dall’antica Via della Seta e che questa era collegata all’Europa (e che «tutte le strade portano a Roma», aggiungiamo noi), era richiesto un progetto che fondesse Spanish Style (sic!), Stile Imperiale Romano e Stile Cinese, quest’ultimo, tanto per intenderci, identico alle pagodine dei ristoranti cinesi che tanto deliziano i palati italiani. Non intendiamo criticare il fenomeno dall’alto della nostra ironia.Vogliamo semplicemente descrivere i fatti perché riteniamo che sia una risposta tra le più chiare al quesito su quale sia lo stile dell’architettura contemporanea. Una soluzione non ce l’abbiamo. P. V.G. n.42 2011 27 Il volto nuovo della Cina: Pechino T itinerari e periferie a cura di Ida Fossa ra il grigio che avvolge la città, negli interstizi tra il cemento dei grattacieli improvvisamente ci stupisce scorgere colorati frammenti della città incantata: banchetti che espongono fantasiosi spiedini di scorpioni o altre prelibatezze asiatiche, caotiche botteghe artigianali dalle vistose insegne al neon che si contrappongono alle lanterne rosse degli hutong ancora sopravvissuti. Forse è proprio per tutto questo grigio che ci avvolge che le decorazioni della Città Proibita ci sembrano troppo colorate! Difficile descrivere le sensazioni che si provano spostandosi nella faraonica capitale dai 13 milioni di abitanti che si n.42 2011 28 In aper tura: Steven Holl, Linked Hybrid A destra: la Città Proibita e venditori di cibo asiatico estende per 17.000 kmq (più o meno come il Lazio). In ogni suo angolo mucchi di macerie e ammassi di mattoni, quel che resta degli antichi hutong, le tradizionali abitazioni; intorno palazzi altissimi, un’accozzaglia, un campionario di variazioni sul tema “grattacielo”.Tra questi emerge, soprattutto per dimensioni, qualche meraviglia. Pechino vista dal finestrino (spostarsi a piedi è impossibile se non per brevi tratti) suscita orrore e meraviglia. Orrore per la disinvolta distruzione della gran parte della città storica, e meraviglia per lo sviluppo senza freni che sta velocemente ridisegnando la metropoli. CCTV, studio OMA, architetti Rem Koolhaas e Ole Scheeren. Iniziato nel 2004, è ora quasi ultimato; definito dai progettisti «una costellazione iconografica di due grattacieli che occupano in maniera attiva lo spazio urbano», il progetto prende forma dalla combinazione di due volumi, rispettivamente le sedi della China Central Television e del Television Cultural Center, che si elevano da una comune piattaforma, in parte sotterranea, e si incontrano sulla sommità creando un attico a sbalzo. La forma molto particolare dell’edificio, due enormi “L” capovolte appoggiate l’una sull’altra, offre da ogni punto di vista un’immagine sempre diversa, apparendo a volte imponente a volte di dimensioni modeste come risultasse difficile stabilirne la scala di proporzione; conferisce inoltre alla struttura maggiore capacità di resistenza in una zona ad alto rischio sismico. Linked Hybrid, architetto Steven Holl. Terminato nel 2009, situato vicino al centro storico di Pechino, si sviluppa su un’area di 220.000 mq e ospita 2.500 abitanti. Nominato dal CTBUH Best Tall Building 2009, è costituito da una serie di torri collegate da 8 ponti sospesi, sedi di varie funzioni pubbliche. La struttura comprende 644 appartamenti, spazi commerciali e attrezzature per lo sport, un albergo, una scuola, un asilo, un cinema che favoriscono la creazione di un microcosmo urbano. Al livello intermedio le coperture degli edifici bassi sono a verde, diventano così piacevoli spazi pubblici che si collegano con le funzioni commerciali del livello stradale. Si propone come centro residenziale innovativo sia per essere aperto e fruibile da tutti i cittadini, non soltanto al piano terra ma anche tra il 12° e il 18° piano con le spettacolari passerelle che attraversano piscina, palestra, gallerie e caffè, ma soprattutto in termini di sostenibilità ambientale, per le tecnologie applicate e per essere uno dei primi progetti di queste proporzioni a impiegare tecnologie geotermiche: 655 pozzi scavati a una profondità di 100 m provvedono al riscaldamento invernale e al refrigeramento estivo. Soho Shang du, LAB studio di architettura, inaugurato lo scorso anno. Formato da una piattaforma e due torri da 32 piani, contenenti sia uffici che spazi vendita al dettaglio, è stato progettato secondo il principio di un hutong verticale con una serie di strade interne, due grandi cortili collegati verticalmente formano spazi per eventi, sfilate, concerti. Le facciate in pannelli di vetro e alluminio inscritti in una rete di linee che di notte creano un’immagine fortemente caratterizzante. National Grand Theatre, architetto Paul Andreu. Il complesso è suddiviso in tre spazi, in totale 35.000 mq racchiusi da una cupola realizzata in titanio e vetro che consente un particolare rapporto con l’esterno. La progettazione illuminotecnica è dei lighting designer Kaoru Mende e Yosuke Hiraiwa. Beijing Planetarium,architetto Nonchi Wang. È immediatamente dietro al solenne Planetario in pietra costruito nel 1957, con copertura a cupola. È un enorme parallelepipedo trasparente con tre sfere all’interno; la facciata appare come uno schermo, liscio come uno specchio d’acqua appena mosso in rigonfiamenti e depressioni come sfiorato da una leggera brezza. Dice Wang di aver voluto rappresentare «il mistero del Cosmo, l’astrazione del mondo della scienza e della fisica, le particelle fondamentali della meccanica quantistica in stati dinamici, lo spazio deformato». Al centro: grattacieli nel centro di Pechino In basso da sinistra: OMA (Rem Koolhaas e Ole Scheeren), CCTV Nonchi Wang, Beijing Planetarium In alto: vista d’insieme della Commune by the Great Wall A destra: Kengo Kuma, Bamboo Wall Cui Kai, See and See House Gar y Chang, Suitcase House In basso: Herzog & de Meuron, Birds Nest, viste dell’esterno, dell’interno e particolare della struttura in acciaio Aeroporto di Pechino Terminal 3, architetto Norman Foster. Inaugurato nel febbraio 2008, è la più grande architettura coperta mai costruita, dove il passato nella tradizione cinese si fonde con l’innovazione tecnologica di oggi; la sua forma ricorda un dragone stilizzato, simbolo di forza e di buon auspicio per la Cina; i colori dominanti, rosso e oro, evocano la Cina imperiale, il grigio della struttura metallica e l’uso delle tecnologie più avanzate portano il vecchio continente verso il futuro. Un terminal futuristico, luminosissimo grazie alle “squame” del dragone, grandi lucernari che consentono di illuminare di luce naturale l’interno della struttura: 175 scale mobili, 173 ascensori, 45 km di nastri trasportatori che consentono di gestire 19.000 bagagli l’ora, un nuovissimo sistema antiterrorismo per il controllo bagagli. Per la sua costruzione, in soli quattro anni, sono stati impiegati 50.000 operai, mentre la superficie occupata, 99 ettari, ha costretto circa 10.000 residenti a lasciare le proprie abitazioni. In Europa si sarebbero alzate barricate di cittadini e ambientalisti per molto meno, ma non a Pechino, qui la libertà del progettista non conosce limiti. Commune by the Great Wall.A meno di un’ora di automobile da Pechino, proprio sotto un tratto non restaurato della Grande Muraglia, è nata la Commune, una collezione di gioiellini di architettura asiatica contemporanea, che nel 2002 ha vinto il premio speciale della Biennale di Architettura. Due coniugi cinesi hanno creato una sorta di museo-centro relax, che ospita turisti appassionati di architettura da tutto il mondo. Lungo un sentiero che s’inerpica verso i monti, con in lontananza il profilo della Grande Muraglia, sono dislocate piccole ville, costruzioni essenziali in stile asciutto, discreto, integrate in un verde lussureggiante. La prima è la Suitcase House dell’architetto Gary Chang, una scatola in legno su un piccolo supporto, poi la See and See House di Cui Kai, formata da due parallelepipedi bianchi che s’intersecano, e la Bamboo Wall di Kengo Kuma, un edificio interamente ricoperto da bambù, e tante altre, 31 in tutto. Area olimpica Si trova a nord della città, non molto lontano dai grandi monumenti del centro. Pechino era stata vincente nella gara per l’assegnazione dei Giochi Olimpici 2008 con qualche difficoltà dovuta al grande inquinamento presente. È immediatamente scattato un piano di emergenza ambientale in tutta la città.Tra le vaste opere c’è il recupero del lago Shishahai, elemento di grande importanza per lo svolgimento dei Giochi data la sua vicinanza, la creazione di una cintura verde intorno alla metropoli immettendo vegetazione nelle aree semidesertiche, evitando possibili tempeste di sabbia. I Giochi Olimpici hanno determinato l’avvio del piano di riqualificazione ambientale, l’inizio del cambiamento. Birds Nest, degli architetti Herzog & de Meuron, 2008. Lo Stadio Nazionale, il “nido di uccello” è la megastruttura in oltre 35.000 tonnellate di acciaio che si intrecciano in esili ramoscelli formando il nido capace di accogliere più di 90.000 spettatori. La facciata e la struttura coincidono, l’effetto visivo è sorprendente per l’essenzialità, la leggerezza e l’armonia, nonostante la complessità della struttura. Due strati di EFTE, il materiale traslucido dalle straordinarie prestazioni, ricopre tutta la struttura come membrana protettiva resistente agli agenti atmosferici e come isolante acustico; la copertura è costituita da un guscio trasparente che protegge gli spettatori da eventuali piogge e consente lo scambio luminoso esterno-interno e viceversa. I percorsi interni sono segnati da boschetti di bambù, blocchi di pietra, piccoli giardini. Water Cube, dello studio PTW, 2008. Lo “stadio delle bolle” è la struttura che ospita la piscina olimpionica; sembra formato da tante bolle d’acqua, leggere e luminose. L’edificio è stato progettato secondo principi di design ecosostenibile, utilizzando materiali ecologici e tecnologie per l’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili. Le pareti sono in EFTE, un particolare tipo di Teflon, che reagisce alla luce naturale cambiando colore creando particolari effetti visivi e che permette di catturare il 20% dell’energia solare incidente sul palazzo utilizzandola per riscaldare l’acqua delle vasche; l’uso della luce naturale durante il giorno permette un notevole risparmio energetico. Oggi il Water Cube è stato trasformato in un enorme parco giochi acquatico,con simulatori per immersioni subacquee e fantasiosi animali marini giganti. Qui i cinesi appartenenti al ceto medioalto possono dimenticare lo smog e il cemento della frenetica capitale vivendo un’esperienza spaesante, un contatto con il mare che per molti cinesi è diventato ormai impossibile o deludente per l’inquinamento che ha ormai raggiunto anche le coste più vicine alla metropoli. Digital Beijing Exhibition, studio Pei Zhu, 2008. L’edificio – di 9 piani su una superficie di 1.000 mq – è in granito e vetro e si erge solenne all’ingresso dell’area olimpica. Ha svolto la funzione di centro di controllo e dati e base operativa per tecnici della manutenzione e sicurezza. L’edificio è simile a un codice a barre: è formato da 4 lastre parallele che ricordano le schede madri, 3 lastre accolgono apparecchiature elettroniche, lo spazio che le separa dall’ultima, adibita a uffici, fornisce la ventilazione necessaria ai macchinari interni. Ospiterà un museo virtuale, per ora l’edificio è adibito a uffici, mostre e centri espositivi per produttori digitali. In alto: PTW, Water Cube, viste dell’esterno e dell’interno A sinistra: Pei Zhu, Digital Beijing Exhibition, vista generale e particolare della facciata n.42 2011 31 Contraddizioni e contrapposizioni Piazza Tienanmen con i suoi poliziotti e i suoi vuoti In basso a destra: l’entrata con il tetto a pagoda del Linked Hybrid Lo aveva predetto già Napoleone:«Se la Cina si sveglia,il mondo tremerà». Dopo Mao, i suoi successori non hanno dovuto far altro che trasformare quelle masse umili e ubbidienti in una forza lavoro che, sommata alla nuova tecnologia, sta facendo della Cina una imbattibile macchina di produzione. Il vecchio Partito Comunista è ancora a fianco del Governo, vegliando che non ci sia opposizione nel Paese, e poliziotti in giacchetta verde perlustrano ogni angolo della città; in Piazza Tienanmen non ci sono più i cinesi che fanno volare gli aquiloni, ma solo turisti e agenti in borghese. Capitalismo di stato sommato al Partito Comunista, questa la ricetta? Il Governo aveva un megaprogetto: fare della Cina un Paese che in ogni settore fosse all’avanguardia mondiale. Per anni si è preparato silenziosamente, poi, nel 2008, ha gettato la maschera e con il suo show supertecnologico con l’apertura dei Giochi Olimpici ha strabiliato il mondo. Intelligentemente si è affidato ai migliori professionisti internazionali o ad architetti asiatici di formazione occidentale, dando loro carta bianca e dimostrando un’apertura opposta alla diffidente chiusura di Mao. Dopo un decennio in cui Pechino si era limitata a imitare le peggiori città americane accu- mulando grattacieli grigi e mediocri, magari con un tocco di cinesità nel tetto a pagoda, dal 2008 è apparsa la grande architettura, i Foster, i Koolhaas, Herzog e de Meuron, che hanno conferito alla città l’impronta di una capitale imperiale post-moderna. Se Shanghai ci ha affascinato con la sua nuova immagine sfavillante, nel suo kitsch, Pechino con fredda imponenza ci ricorda in ogni sua parte di essere la capitale.Anche lì dove una mega-architettura s’impone con forte impatto nel tessuto creato dagli innumerevoli grattacieli, dove elementi architettonici che sembrano progettati fuori scala, come per un ciclope, stabiliscono un contrasto di rapporti del tutto nuovo e sorprendente. Pechino è la città delle enormi proporzioni, nella sua espansione e nei suoi monumenti storici. I suoi spazi sono comunque un insieme di “luoghi privati”, spazi piccoli e intimi, funzionali alla vita dell’uomo, che sia un mercante o l’imperatore. Le grandi costruzioni sono pensate come una sommatoria di luoghi di dimensioni rassicuranti, a misura d’uomo, dove i cittadini si sentono a loro agio nonostante le dimensioni globali siano enormi. Si stabiliscono così una complessità di relazioni tra pieni e vuoti, interni ed esterni, che interpretano in maniera contemporanea il linguaggio tradizionale proprio della città. I. F. S PECIALE ISTANBUL CONTEMPORANEA a cura di LUCA ORLANDI «Istanbul non è Costantinopoli», così recitava un pezzo swing anni Cinquanta dei canadesi Four Lads, ma nell’immaginario occidentale l’antica Bisanzio, in seguito divenuta capitale dell’Impero Ottomano, per poi lasciare il titolo di prima città della Turchia repubblicana ad Ankara, resta sempre un simbolo di esotismo e di città d’Oriente per eccellenza. Sulle guide turistiche e sui pieghevoli delle agenzie di viaggio, come pure sulle copertine dei libri che hanno per soggetto qualsiasi argomento riguardante la Turchia, permane l’immagine di Istanbul con il suo skyline fatto di cupole dorate al tramonto, di svettanti minareti e di palazzi sultaniali riccamente decorati, adagiati e riflessi sulle rive del mare; resistono lo stereotipo e il gusto orientalista già individuato a suo tempo dai viaggiatori occidentali, come Edmondo De Amicis, Teofilo Guatier o Pierre Loti, che dalle bellezze del Bosforo o dal panorama di questa città circondata dalle acque si facevano ammaliare e ne davano descrizioni affascinanti e compiaciute. Eppure, la sterminata città contemporanea di quasi 15 milioni di abitanti rappresenta ancora oggi tutto questo e sicuramente il visitatore vuole trovare quel ponte in bilico tra Oriente e Occidente con la sua cultura varia ed eterogenea; ma c’è senz’alcun dubbio anche altro che ben rappresenta la crescita vertiginosa di Istanbul negli ultimi decenni. C’è infatti una città che ha continuato a crescere nella modernità, magari non seguendo una pianificazione programmata e anche attraverso non facili difficoltà e restrizioni, di tipo sociale, militare ed economiche, e che, a periodi alterni, ha di fatto lasciato i segni del suo trascorrere e del prorompente desiderio di essere una città contemporanea, al pari di tante altre nel mondo globalizzato di oggigiorno. Una modernità non conclamata, difficilmente affrontata nei libri di storia o di critica dell’architettura, ma che ha avuto – seppur con le debite differenze – uno sviluppo del tutto analogo a quanto accadeva in Europa nel corso del Novecento. Senza dimenticare che molti sono stati gli architetti occidentali che hanno lavorato o insegnato nelle facoltà di architettura turca nel secolo scorso, determinando così una formazione di architetti locali volta ad indagare le nuove forme e le sperimentazioni del costruire moderno. In questo percorso architettonico nella megalopoli di IstanVista del centro direzionale di Levent bul ci siamo interessati ad alcune realtà costruite negli ul(foto Emre Dorter) timi anni nella parte europea della città, sviluppate in un’area molto vasta ed eterogenea per morfologia del territorio e pianificazione. Le architetture selezionate di cui diamo conto nei successivi articoli, non facilmente visibili o accessibili per chi non ha dimestichezza con la città, rappresentano in qualche modo la complessità e le varietà di linguaggi utilizzati da vari architetti turchi contemporanei e mostrano gli aspetti più interessanti del fare architettonico locale, perfettamente inseribili nel panorama mondiale contemporaneo. Luca Orlandi è uno storico dell’architettura e del design. Si è laureato presso l’Università degli Studi di Genova e nel 2005 ha conseguito il Dottorato di Ricerca in Storia e Critica dei Beni Architettonici e Ambientali presso il Politecnico di Torino. Vive a Istanbul, dove è docente di Storia dell’Architettura con il titolo di assistente professore presso il Politecnico di Istanbul (Istanbul Technical University). Collabora con altre istituzioni locali, come l’Università di Belle Arti Mimar Sinan e l’Università di Marmara, tenendo corsi e seminari. 33 S SPECIALE Verticalità e trasparenze nei nuovi complessi del centro direzionale di Levent S 34 Sapphire Tower Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia Cliente: Biskon Yapı A.Ş. Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects Gruppo di lavoro: Murat Cengiz, Salih Yılgörür, Aydın Işık, Hakan Bağcı, Ozan Öztepe, Funda Tezel, Ali Çalışkan, Ahmet Çorapçıoğlu, Selen Ak, Ali Eray, Mehmet Vaizoğlu, Aybige Tek, Recep Semizoğlu, Merve Yücel, Necmettin Selimoğlu, Adnan Tarı e Ayla Ecer (Sito Coord.) Architettura d’interni: Tabanlıoğlu Architects, Hande Pusat, Derya Genç, Esra Demirtaş, Burcu Biçer, Aslı Aydın, Sinemis Yargıç, Suda Ayşe Karaduman, Ayfle Aydoğan Impresa di costruzione: Biskon Yapı A.Ş Strutture: Balkar Engineering Ingegneria meccanica: GN Engineering Consulenti progettuali: Boz Project & Consultancy Ingegneria per impianti elettrici: HB Teknik Consulente per le abitazioni: Servotel Servizi per negozi: Alkafl Consultancy Strutture facciata e rivestimenti: MF Metal Und Fassadenplanung Lighting design: Studio Dinnebier Verifiche nella galleria del vento: Ruscheweyh C. GmbH Area di progetto: 11.339 mq Totale area costruita: 165.169 mq Data del progetto e di realizzazione: 2006-2010 Sito web: www.tabanlioglu.com.tr Foto grande: vista di Levent in cui si possono osservare le silhouette di Kanyon, Levent Loft, Loft Garden e Sapphire (foto Uğur Cebeci) Foto piccola: immagine aerea dell’area di Levent, con evidenziato il progetto Sapphire, e anche gli altri interventi di Tabanlıoğlu Architects È stata appena inaugurata, nel centro direzionale di Levent, la torre per residenze Sapphire, che con i suoi 261 m di altezza è una delle strutture architettoniche più alte nello skyline della città, lungo l’asse che dal mare porta verso nord, nella parte europea della città. Il grattacielo è, in ordine di tempo, l’ultima realizzazione in città dello studio Tabanlıoğlu Architects, fondato nel 1990 dall’architetto Murat Tabanlıoğlu in collaborazione con il padre Hayati Tabanlıoğlu e con la moglie, Melkan Gürsel Tabanlıoğlu, entrata nel 1995 come socia del gruppo. Da quel momento lo studio ha continuato a ingrandirsi – conta fino a un centinaio di dipendenti – e a operare non solo in Turchia ma in molti Paesi, quali Libia, Egitto, Kazakistan, Giordania, Croazia, Azerbaijan. Il progetto della torre Sapphire si inserisce nello sviluppo urbano di Levent, che si denota ormai come uno dei maggiori centri di investimento nell’area metropolitana della grande città di Istanbul; un’area in fortissima espansione, dove il dinamismo della giovane società turca contemporanea e lo spirito rampante imprenditoriale è ben visibile nella elevata quantità di residenze, nella concentrazione di sedi di banche, finanziarie e di torri per uffici e centri commerciali con negozi con le marche e i brand internazionali più prestigiosi, rivolti a un pubblico decisamente d’élite, ma in costante crescita nella metropoli di più di 15 milioni di abitanti. Negli ultimi anni l’architetto Murat Tabanlıoğlu ha realizzato per la stessa area commerciale/direzionale di Levent, lungo l’asse principale della grande arteria stradale di Viale Büyükdere, altri importanti progetti che verranno di seguito presentati: il centro commerciale, torre per uffici e residenze di Kanyon, la stecca orizzontale residenziale di Levent Loft e il suo successivo sviluppo, la torre per appartamenti di Loft Garden. 35 S Schema del funzionamento delle pareti vetrate e dei giardini verticali 2 1 3 Pianta a livello del piano terra 1. Ingresso principale centro commerciale 2. Ingresso per le residenze 3. Ingresso per le residenze Sezione della torre Sapphire S 36 Schemi dei vari tipi di appartamenti La hall e i quattro livelli del centro commerciale all’ingresso dell’edificio Il nuovo grattacielo Sapphire, uno dei più alti in Europa, evidenzia nello slancio verso l’alto delle sue linee, la competenza del gruppo Tabanlıoğlu Architects nella progettazione di grandi strutture e complessi urbani residenziali o a funzioni miste, che si pone come uno dei più attivi – ma anche dei più commerciali – studi di architettura in Turchia dell’ultimo decennio. Dal punto di vista progettuale, uno dei problemi principali affrontati è stato quello di adeguare la grande costruzione alle normative antisismiche, poiché l’area di Istanbul è considerata ad altissimo rischio di terremoti, e per questo sono stati fatti test e verifiche affinché la struttura possa resistere fino al nono grado della scala Richter. L’edificio si presenta con una parte orizzontale in aggetto verso la strada principale che funziona come un’enorme pensilina, al cui interno sono presenti quattro livelli di aree commerciali, organizzati con negozi e attività di ristorazione per un totale di 2.300 mq. Sopra quest’area, si innalza la torre vera e propria, la cui facciata è composta da due pareti verticali distinte, di cui la più esterna, interamente vetrata, permette sia un isolamento sonoro sia di coibentazione dall’esterno, mentre quella interna è strutturalmente composta in acciaio, e tra queste due superfici sono presenti dei veri giardini verticali che “aiutano” la ventilazione e l’umidificazione naturale all’interno, oltre che costituire uno dei Il grattacielo Sapphire (foto Murat Germen) 37 S I giardini interni e l’accesso ai vari appartamenti (foto Helene Binet) Spaccato/sezione che mostra il giardino verticale utilizzato su più piani nello stesso livello (foto Emre Dorten) S 38 punti di forza del progetto. Sono state infatti progettate quattro aree separate per le residenze di varia grandezza, per un totale di 22 tipi di alloggio, 187 complessive, suddivise in modo da permettere, tra un livello di piani e un altro, di avere degli spazi in comune con i giardini interni, e con altre attività sociali e aree tecniche per la manutenzione e il funzionamento della macchina-edificio. Ogni nove piani sono presenti delle aree ricreative comuni, utilizzabili dai residenti della torre, come la piscina a 60 m di altezza o il minigolf a 187 m. Le pareti di vetro che costituiscono la facciata corrono a tutt’altezza dai pavimenti ai soffitti, rendendo gli spazi a ogni piano ariosi e completamente aperti, evitando il senso di claustrofobia che a volte si prova nei grattacieli, e permettendo ai residenti di poter sempre godere della migliore vista della città. Per gli interni e per tutte le finiture ai vari livelli gli architetti hanno giocato con i colori e con gli arredi e, attenti alle esigenze della clientela che diventerà proprietaria delle residenze, si sono ispirati al concetto del vulcano, suddividendo in aree tematiche con una “cima” che rappresenta la serenità, la “lava” ossia l’eccitazione, la “terra” per significare la stabilità e infine la zona “magma” per la passione. I consumi sono ridotti in modo da permettere un risparmio energetico non indifferente, attraverso l’uso di nuove tecnologie nei sistemi d’illuminazione e di riscaldamento, mentre la vicinanza con la fermata della metropolitana che connette Levent con il centro di Taksim e i sei livelli sotterranei di parcheggi sono stati pensati dagli architetti per risolvere i problemi di traffico, dato che l’edificio, con tutte le attività miste al suo interno, si prevede che nei prossimi anni diventerà un nuovo centro per l’espansione a nord della città, in direzione di Maslak, dove già esiste un centro direzionale. Una particolarità della torre Sapphire, infine, è data dalla sommità dell’edificio, una scatola trasparente in cui possono liberamente accedere i visitatori per ammirare la città da vertiginosa altezza. Levent Loft Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia Cliente: Akfen Holding A.Ş. & Yıldız Holding A.Ş. Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects Gruppo di lavoro: Hacer Akgün, Volkan Lokumcu, Eda Lerzan Tunçbil, Süleyman Akkaş, Ahmet Çorapçıoğlu, Ali Çalışkan, Emre Apak, Kaan Keleş, Handan Dama Bilgin Project management: Altaca Construction Impresa di costruzioni: Akfen Holding Turizm ve Ticaret A.Ş. Strutture: Balkar Engineering Ingegneria meccanica: GN Engineering Impianti elettrici: HB Teknik Consulente per le abitazioni: Servotel Consulente per il paesaggio: Akgöze Landscape Design Consulente per la facciata: CWG Rivestimenti facciata in alluminio: Dekoral Aluminium Strutture in acciaio: Çeçen Construction Area di progetto: 3.900 mq Totale area costruita: 32.542 mq Data del progetto e della realizzazione: 2005-2007 Vista dall’esterno di Loft (foto Helene Binet) S Il ristorante e l’ingresso di Loft al pian terreno (foto Emre Dorter) Foto degli interni di un appartamento duplex (foto Thomas Mayer) S 40 Vista sulla città da uno degli appartamenti alti di Loft (foto Helene Binet) Levent Loft e Loft Garden sono stati accorpati in quanto, anche se si tratta di progetti differenti, si può dire che il secondo sia la naturale continuazione del primo. L’idea dei Tabanlıoğlu Architects era di creare delle residenze di qualità in quest’area di Levent, dando la possibilità di possedere una casa vicino alle zone di lavoro del centro direzionale, e l’occasione è stata data da un edificio per uffici che doveva essere smantellato e che è stato invece convertito nell’unità immobiliare di Loft. Un progetto interessante composto da elementi modulari a scatola che si inseriscono nello scheletro in calcestruzzo armato dell’edificio esistente in modo da permettere una flessibilità, atta a creare unità differenti a seconda delle esigenze dei residenti. Nella costruzione sono presenti 144 loft, che con un ristorante italiano al piano terra, un centro spa di benessere, un caffè, una piscina coperta e servizi di concierge ha imposto il modello di vita per le persone che gravitano in quest’area e per gli abitanti che si trovano a vivere in queste residenze di lusso con comodità da grande albergo, senza rinunciare all’intimità nel proprio spazio abitativo. In pratica, il progetto si è adattato alla stecca già esistente, costituita da una struttura a treno allungato e sottile, suddivisa da tre “corridoi” separati tra loro. Sulla facciata principale l’altezza complessiva del blocco raggiunge i 12 piani, mentre sul retro si arriva a 8, inframmezzati da una coppia di blocchi di 5 piani. The Loft Garden Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia Cliente: Akfen Gayrimenkul Yatırımları e Ticaret A.Ş. Sağlam Construction l̇nşaat Taahhüt Ticaret A.Ş. Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects Gruppo di lavoro: Hacer Akgün, Volkan Lokumcu, Eda Lerzan Tunçbil, Kaan Keleş, Elena Pittalis, Süleyman Akkaş Project management: Proplan Project Management & Consultancy Impresa di costruzioni: Akfen Holding Turizm ve Ticaret A.Ş. Strutture: Cema Engineering Ingegneria meccanica: Moskay Engineering Impianti elettrici: Arma Engineering Consulente per le infrastrutture: Cema Engineering Consulente per la facciata: CWG Rivestimenti facciata: Milenyum Sistem Evi Strutture in acciaio: Akınısı Makina San.ve Tic. A.Ş. Area di progetto: 1.759 mq Totale area costruita: 22.500 mq Data del progetto e di realizzazione: 2007-2010 La torre di Loft Garden e in primo piano Loft Levent (foto Helene Binet) S Piante di alcune tipologie di appartamenti Sezioni trasversale e longitudinale di Loft Garden S 42 La forma della struttura ha quindi condizionato gli interni dei loft, che hanno una metratura variabile tra i 68 e i 182 mq e i più grandi di questi sono dei duplex provvisti di terrazza o di giardino. I tipi di abitazioni sono pensati non per delle famiglie con bambini, ma per coppie o single della nuova classe dirigente istanbuliota, per artisti, per gente del mondo dello spettacolo e della moda e vip che vogliono mantenere la privacy senza rinunciare alle comodità della vita urbana. Le abitazioni evidenziano il life-style, il carattere individuale dei residenti, formalmente rappresentato dalle scatole in aggetto che compongono i vari blocchi, ma i progettisti hanno pensato di dotare il centro con lobby all’interno, piscine e centri sportivi, a uso esclusivo dei residenti, per far diventare questi individui una piccola comunità che condivide spazi e che ha così occasione di conoscersi. Il progetto Loft ha riscosso così successo tra le classi dei nuovi ricchi che la società che gestisce la struttura ha pensato di far costruire – sempre allo studio di Tabanlıoğlu – una torre in un lotto attiguo, questa volta puntando ancora di più sull’esclusività di vivere “in verticale”, un soft-loft nelle parole stesse degli architetti, in un’area dove la In senso orario: vista sul panorama e sulla torre Sapphire da Loft Garden (foto Emre Dorter) Vista dell’ingresso lobby di Loft Garden (foto Helene Binet) Dettaglio della facciata di Loft Garden (foto Helene Binet) Vista sulla città da uno degli appartamenti alti di Loft Garden (foto Helene Binet) vista spazia su tutta la città, aumentandone però le capacità ricettive con punti di incontro e aree per negozi e per l’intrattenimento nelle immediate vicinanze. La trasparenza dei 21 piani della torre di Loft Garden, dove ampie vetrate da pavimento a soffitto rendono luminosi e solari gli ambienti, permette al suo interno la possibilità di avere dei giardini verticali progettati per i residenti, camminamenti a terrazza, balconi e pati aperti sul panorama della città e del mare. I materiali da costruzione a vista, come pure i condotti, le travi e le putrelle, i sistemi di ventilazione, i pavimenti in calcestruzzo armato e gli ondulati in acciaio dei divisori concorrono a dare un aspetto industriale alle parti in comune dell’edificio, mentre all’interno delle singole abitazioni alti standard qualitativi di materiali e di soluzioni per la “casa intelligente” sono adottati per dare ogni comfort all’inquilino. Un parcheggio sotterraneo, locali da utilizzare come magazzini nel piano interrato, servizi di vigilanza e di sicurezza, facile accessibilità e buoni collegamenti con metropolitana e altri servizi pubblici, intimità protetta completano questa “isola felice” che compiace il life-style dei suoi abitanti. 43 S Kanyon Ubicazione: Istanbul (Levent), Turchia Cliente: Eczacıbaşı – l̇ş GYO Progetto di architettura: Tabanlıoğlu Architects – Jerde Partnership Gruppo di lavoro: Fehmi Kobal, Murat Cengiz, Salih Yılgörür, Hakan Bağc›, Ali Akarsu, Hülya Sürücü, Nihal Şenkaya, Bilge Karataş, Arzu Meyvacı, Özgü Saraçoğlu, Jıbid Kürkçü, Simge Esin, Zehra Karahasan, Defne Sunguroğlu Studio di ingegneria: Arup Turkey – Ove Arup UK & Los Angeles Architettura del paesaggio: Derek Lovejoy Partners – DS Architecture (Deniz Aslan) Impresa di costruzione: Tepe l̇nşaat Lavori in acciaio: Gülermak Facciate e rivestimenti esterni: Feniş Verifiche nella galleria del vento: BMT Fluid Mechanics Area di progetto: 30.000 mq Totale area costruita: 250.000 mq Data del progetto e della realizzazione: 2001-2006 Fotografie: Helene Binet, Murat Germen Vista delle residenze disposte a curva (foto Izzet Keribar) S 44 L’idea di Kanyon nasce dalla necessità di creare a Levent, lungo l’asse in forte via di sviluppo di Viale Büyükdere, un centro polivalente a uso misto, con una serie di edifici che potessero avere al loro interno tutte le funzioni di cui necessitavano, collegati e uniti tra di loro tramite la creazione di un vero e proprio paesaggio a scala urbana, fatto principalmente di terrazze verdi, aree di sosta e di passeggio, assolutamente pedonale e pubblico, con lo scopo di unificare all’interno dello stesso perimetro un centro per le diverse finalità degli edifici. Il progetto è un lavoro in tandem degli americani Jerde Partnership, esperti di questo genere di architetture a scala urbana con forti connotazioni paesaggistiche, come il Canal City Hakata di Fukuoka o il recentissimo Namba Park di Osaka in Giappone, e del gruppo guidato da Murat Tabanlıoğlu; date le notevoli dimensioni – 250.000 mq di superficie costruita – la realizzazione di Kanyon ha coinvolto differenti studi specialistici nella progettazione, sia per le parti strutturali che per l’architettura del paesaggio. Nel centro Kanyon, vera città in miniatura, si trova una torre in cemento per uffici – rivestita interamente in vetro – alta 25 piani che fa da perno e da landmark nella silhouette di Levent, attorno alla quale ruotano le curve del resto degli edifici, come alcune residenze disposte a scalinata, che creano una grande curva delimitante i confini dell’area sul lato sud. I 179 appartamenti sono compresi in questi edifici che raggiungono i 15 piani di altezza, con possibilità di 20 tipi differenti di pianta e variabili in superficie dagli 80 ai 380 mq. Il centro commerciale – ma sarebbe più appropriato chiamarlo “percorso” commerciale – è organizzato in 170 negozi, suddivisi in quattro piani d’altezza, con grandi terrazzamenti degradanti per ogni piano, che formano una vera promenade in mezzo al verde delle aiuole al cui interno, proprio come in una valle che serpeggia tra alte rocce, trovano posto gli spazi per il tempo libero, i ristoranti, i bar e i caffè, nove sale per i concerti e per le mostre, i centri di benessere e spa, i cinema, un supermercato alimentare e piscine coperte. Vista notturna di Kanyon, con le curve della zona negozi e la torre per uffici sullo sfondo (foto Helene Binet) Planivolumetrico di Kanyon 45 S Sezione longitudinale del complesso Sezione trasversale del complesso 1 Pianta del piano terra a livello dei negozi Le strade interne sinuose a cielo aperto tra i fianchi degli edifici, ricoperti da una pietra di color sabbia che di nuovo rimanda a paesaggi naturali, fanno sentire il visitatore o il fruitore dello spazio con la sensazione di trovarsi in un ambiente protetto, confortevole, provvisto di molte aree per la sosta, di laghetti e di piccoli corsi d’acqua, dove a ogni curva si apre un nuovo panorama, un nuovo paesaggio. Il progetto di Kanyon dimostra che non necessariamente un centro commerciale debba essere un non-luogo, ma anzi esprime la possibilità di poter far coesistere all’interno di una stessa area progettuale funzioni differenti ma coerenti con un programma che può rigenerare un centro urbano, se correttamente studiato e portato compimento. L.O. 2 1. Blocco uffici 2. Blocco residenze 1 1. Ingresso principale blocco uffici 2. Ingresso centro commerciale 3. Centro commerciale 2 3 Pianta a livello delle residenze e della torre per uffici S 46 Vista notturna del complesso (foto Helene Binet) Vista delle curve a terrazze e della torre (foto Murat Germen) 47 S Residenza in collina S Maximum House Ubicazione: Istanbul (Ulus), Turchia Cliente: Kayı l̇nşaat Progetto di architettura: EAA – Emre Arolat Architects Responsabile del progetto: Abdurrahman Çekim Gruppo di lavoro: Aslı Çalıkoğlu, Nesli Kayalı, Onur Canvarol, Gülseren Gerede Tecim Supervisione e controllo: Emre Arolat, Abdurrahman Çekim Impresa di costruzione: Kayı l̇nşaat Strutture: Mehmet Ceyani, Gökhan Şen Progettazione impianti elettrici: Kaver Engineering, Kazancı Lighting design Ingegneria meccanica: Cömert Engineering Architettura del paesaggio: Trafo Architects, Deniz Aslan Modello: Murat Küçük Totale area costruita: 5.500 mq Data del progetto: 2001 Data della realizzazione: 2003-2006 Sito web: www.emrearolat.com I blocchi B e C del complesso; sulla sinistra è visibile l’edificio utilizzato per la vendita delle residenze e rimasto come spazio polivalente (foto EAA) Pagina accanto: i tetti in aggetto e le pareti rivestite in legno (foto EAA) Un intervento riuscito di edilizia contemporanea che riecheggia antiche forme di architettura civile ottomana si può vedere nel complesso residenziale Maksimum House, realizzato da EAA, l’ufficio di Emre Arolat Architects, fondato nel 2004 dall’architetto Emre Arolat e da Gonca Paşolar, a cui si sono poi aggiunti Şaziment e Neşet Arolat e Sezer Bahtiyar. EAA è un nome ormai consolidato nel panorama architettonico turco e non solo, con vari riconoscimenti internazionali, come il Premio Aga Khan per l’architettura, vinto nel 2010 con la fabbrica tessile Ipekyol a Edirne, in Turchia, o l’International Architecture Awards For The Best New Global Design 2010, vinto per il progetto, in coppia con Nevsat Sayın – Studio d’architettura NSMH, del Museo di Arte Contemporanea Santralistanbul. Il complesso Maksimum House si trova nella zona di Ulus, in posizione elevata a ridosso di una collina in prossimità del primo dei due ponti che mettono in contatto la parte europea con la sponda asiatica della città, dove l’Europa incontra l’Asia. Date le direttive urbanistiche e il divieto di costruire in prossimità del Bosforo e lungo le sue sponde, le nuove aree residenziali stanno moltiplicandosi e concentrandosi nelle zone limitrofe, occupando sempre più le alture e i rilievi collinari che si affacciano sullo stretto. Questo fenomeno di grande speculazione avviene non senza problemi di natura prettamente urbanistica, poiché a causa di mancanza di regolamenti specifici che limitino la costruzione di questi complessi residenziali, vere e proprie gated comunity, è permesso di costruire liberamente in queste aree, pagando semplicemente alla Municipalità della Grande Città di Istanbul gli oneri di urbanizzazione, senza dover rispettare particolari limiti in fatto di cubature del nuovo abitato, di spazi da adibire a verde o ad altre attività ricreative, senza alcun interesse per l’ambiente circostante e a volte senza tener conto di infrastrutture necessarie, cercando solo di ottenere il massimo profitto dalle vendite degli edifici, riempiendo il più possibile i lotti ancora vuoti e disponibili, tra un blocco di edifici e un altro ad esso attiguo. In quest’ottica di urbanizzazione selvaggia, i complessi residenziali, specialmente in queste aree della città, sono desti- 49 S Pianta del complesso, con evidenziati i tre blocchi A, B e C nati spesso alle classi più abbienti e benestanti della società istanbuliota, poiché poter avere la vista sul Bosforo è considerato purtroppo un privilegio riservato a pochi – ma che tutti vogliono. Bisogna aggiungere che spesso i complessi residenziali creano anch’essi problemi per quanto riguarda la raggiungibilità degli stessi dalle arterie stradali principali, con conseguenti gravi problemi di traffico, e per la “forzata” vicinanza con altri di questi complessi, in quanto ciò che vorrebbe essere dal punto di vista del cliente come esclusivo ed Sezioni longitudinali del complesso S 50 Piante e sezione del blocco A Piante e sezione del blocco B Il lato a mare del blocco C (foto EAA) elitario, se ripetuto indefinitamente collina dopo collina, quartiere dopo quartiere, in un fitto continuo di costruzioni strette tra loro e divise solo da muri e recinzioni, perde tutte quelle caratteristiche che avrebbe dovuto renderlo unico. Oltre che trovarsi in posizione centrale rispetto all’estensione della metropoli, il progetto Maximum House di EAA si pone come obiettivo di limitare l’edificato, cercando un inserimento paesaggistico di qualità che lasci “respirare” gli edifici nell’ambiente circostante, senza negare al contempo la privacy e l’intimità ai residenti del complesso. Orientati verso sud/sud-ovest, i tre edifici che compongono il complesso residenziale, che si sviluppa seguendo le curve di livello del terreno, hanno una magnifica vista che dal ponte si apre verso la penisola della città storica, la sponda asiatica di Üsküdar e sul Mar di Marmara. Dal punto di vista architettonico il progetto presenta delle interessanti soluzioni per quello che riguarda la composizione delle facciate; pur trattandosi di tre edifici residenziali assolutamente contemporanei con una struttura in calcestruzzo armato e pareti rivestite da pannelli in metallo, oltre che da vetrate incorniciate da telai di acciaio, dal punto di vista formale non mancano tuttavia i riferimenti a una tradizione autoctona abitativa, in cui il legno costituiva la parte predominante dell’involucro. Nel progetto di EAA le facciate degli edifici sono per l’altezza di tre piani rivestite interamente da pannelli in legno a fisarmonica, che all’occasione si possono chiudere completamente, dando l’impressione di trovarsi davanti a una parete cieca composta di listelli di legno; effetto che scompare non appena si aprono le “persiane”, mostrando al di sotto la trasparenza delle superfici vetrate scorrevoli a tutta altezza che definiscono i vari piani. Questo accorgimento serve, da un punto di vista funzionale, a smorzare gli effetti del sole che, data la buona esposizione e la posizione dei tre volumi sul fianco della collina, è praticamente presente dalle prime luci del mattino fino al tramonto e crea così un effetto di filtro, di schermo contro i Dettaglio della parete a “persiane” a fisarmonica (foto EAA) Pagina accanto: la piscina all’aperto tra i blocchi B e C (foto EAA) raggi solari diretti, evitando l’uso di tendaggi esterni o di altri tipi di cortine. Anche le coperture a falde presentano dei forti aggetti che superano la linea di gronda, proteggendo oltremisura gli edifici dalle intemperie e nuovamente creando una zona d’ombra per l’ultimo piano della casa, quello che è sprovvisto dei pannelli lignei di rivestimento; questa soluzione progettuale trova nuovamente forti corrispondenze con il fare architettonico tradizionale, in cui i tetti aggettavano vistosamente rispetto alle linee verticali, creando un’orizzontalità d’insieme delle costruzioni, tipico ancora di molte abitazioni visibili lungo le sponde del Bosforo. Le parti di collegamento all’interno del complesso, il piano terra dei tre edifici, i terrazzamenti su cui sono costruiti, gli accessi per le macchine come pure quelli pedonali, le scalinate che connettono i vari livelli sono invece intenzionalmente lasciati spogli, privi di alcuna decorazione o trattamento, con grandi parti di murature in calcestruzzo armato a vista, reso più leggero – se così si può dire – e meno dominante nell’ambiente, grazie al verde – alberi, arbusti e prati – che lo contengono, per il progetto del quale EAA si sono serviti della collaborazione dell’architetto del paesaggio Deniz Aslan e dello studio d’architettura Trafo. I percorsi si sviluppano quindi tra queste pareti grigie, rese lisce da un buon trattamento del materiale, collegando tra loro i tre edifici e il complesso con l’esterno. Il progetto Maximum House di EAA per il quartiere di Ulus dimostra quindi la possibilità di poter fare edilizia di alta qualità, certamente non alla portata di tutti, nel pieno rispetto sia delle comodità di chi vi abita sia del circondario. Il colpo d’occhio per chi lo guarda da lontano, ad esempio percorrendo l’autostrada del ponte sul Bosforo, è di un perfetto inserimento in cui le parti verdi equilibrano quelle costruite evidenziandone i colori dominanti, il grigio dei muri e dell’edificio e il legno rossastro dei rivestimenti. L.O. 53 S Vista prospettica della struttura dall’alto. Si nota la strada pedonale e la densa urbanizzazione dell’area centrale di Beşiktaş (foto GAD) In basso il nuovo mercato del pesce visto dalla strada (foto GAD) Inserimenti contemporanei nel tessuto storico S L’interno del mercato con i nuovi banchi per la vendita e le illuminazioni a “filo e lampadina” sospese su di essi (foto GAD) Beşiktaş Fish Market Ubicazione: Istanbul (Beşiktaş), Turchia/ Progetto di architettura: GAD & Gökhan Avcıoğlu Architetto: Gökhan Avcıoğlu Gruppo di lavoro: Ozan Ertuğ, Serkan Cedetaş, Gözde Demir, Tahsin Inanici Fotografie: GAD Tipo di costruzione: acciaio Totale area costruita: 320 mq Data del progetto: 2007-2008 Data della realizzazione: 2008-2009 Sito web: www.gadarchitecture.com GAD, lo studio di progettazione fondato nel 1994 e guidato dall’architetto Gökhan Avcıoğlu, evoca già nel suo significato di Global Architecture Development l’idea di occuparsi dell’architettura a 360 gradi, cercando di unire la pratica architettonica – due studi, uno a Istanbul e l’altro a New York – con la ricerca e con una metodologia di approccio basata sui nuovi software per la progettazione e la modellazione. Il mercato del pesce nel Comune di Beşiktaş e il centro artistico e culturale Borusan a Beyoğlu sono i due esempi scelti per rappresentare il lavoro, all’interno di parti del tessuto storico esistente di Istanbul, di Gökhan Avcıoğlu, che spesso collabora in molti dei suoi ultimi progetti con un altro architetto turco, Dara Kırmızıtoprak. Il piccolo mercato del pesce, nel quartiere densamente popolato di Beşiktaş, è stato concepito come una strutturacopertura per la collettività, legata alle Diagrammi generativi del progetto 55 S Sezione della copertura Diagramma della struttura della copertura Schema dei banchi e loro disposizione all’interno dell’area del mercato S 56 attività di vendita dei prodotti ittici e come snodo viario e punto di riferimento per la popolazione locale. I banchi del mercato del pesce si trovavano nello stesso sito, in un’area triangolare che forma una biforcazione che immette dalla strada principale verso la piazza centrale di Beşiktaş. L’edificio che gli ospitava era una struttura in tralicci di ferro ormai in decadenza, arrugginita e senza particolari pregi architettonici, che il Comune di Beşiktaş aveva deciso di abbattere e sostituire con una nuova e più funzionale per le attività di mercato. Il sito triangolare, circondato su due dei tre lati da bassi edifici d’inizio Novecento adibiti a ristoranti del pesce e aperto sul restante lato verso una strada che connette il centro pedonale di Beşiktaş con le arterie principali di comunicazione, non offriva molte possibilità d’intervento all’architetto, se non quelle di lavorare su forme progettuali triangolari, o da questa generate. La scelta progettuale è stata quindi condizionata, non potendo modificare l’area stessa, dalla sostituzione della struttura esistente, con una nuova copertura avvolgente, poggiata al terreno solamente su tre punti in corrispondenza degli angoli del triangolo, che permette di ottenere un unico spazio privo di sostegni nella parte sottostante, mentre con la precedente copertura molti pali di sostegno ostacolavano il passaggio all’interno dell’area. Si tratta di una struttura concava a guscio di conchiglia in acciaio, aperta su tutti e tre i lati, e uniformemente ricoperta da un rivestimento grigio chiaro in cemento, vagamente amorfo nei suoi angoli smussati, che avvolge al suo interno i nuovi banchi del mercato. Un intervento minimale che ha permesso di ottimizzare il sito, rendendolo più igienico – fatto non trascurabile – funzionale e utilizzabile dalla collettività. GAD e Gökhan Avcıoğlu hanno iniziato il processo progettuale con una serie di manipolazioni del sito triangolare e della sua superficie; dalla geometria iniziale di riferimento, il triangolo, ma anche la forma stilizzata del pesce vi può essere letta, la struttura è cresciuta nella terza dimensione, modellandosi in modo da non creare un volume solido a base triangolare, ma quasi una struttura porosa, che si adatta alle varie curvature che lo rendono organico e amorfo nel suo avvolgere e contenere gli spazi sottostanti. I banchi – rivestiti in lucente metallo – sono stati fatti a mano da maestranze locali, ancora una volta per rendere il progetto il più locale possibile, assemblando dei fogli in acciaio inossidabile e sono essi stessi delle superfici curvate e amorfe, disposti all’interno dell’area del mercato in sei gruppi separati, sui quali una costellazione di lampadine a bulbo da 150 watt, sostenute da cavi elettrici arancioni a vista, illuminano i prodotti ittici in attesa di essere venduti. Anche in questo caso non si è voluta abbandonare un tipo d’illuminazione frequente nei mercati rionali della città, con le lampadine a vista. Dai diagrammi e dagli schemi costruttivi della struttura si può capire come l’ambiente marino, le forme dei pesci, le geometrie rese amorfe dall’elaborazione al computer abbiano portato l’architetto a raggiungere la scelta progettuale che meglio esprimesse questi riferimenti. Dei sottili parapetti in muratura ad altezza d’uomo, rivestiti da un fine mosaico colorato composto di tessere esagonali, corrono lungo i tre lati, separando ma non chiudendo lo spazio del mercato dalla strada pedonale e dai ristoranti tutt’attorno. La gente passa lungo la strada pedonale e se vuole attraversa il mercato senza dover entrare in un luogo chiuso e circoscritto, semplicemente deviando tra i banchi e proseguendo il proprio cammino liberamente, che il più delle volte finisce tra i banchi, quelli dei vari ristoranti, per gustare ciò che di esposto ha appena visto. L.O. Il nuovo mercato del pesce visto dalla strada (foto GAD) La struttura concava a guscio di conchiglia inserita nel profilo stradale (foto GAD) Lo spazio interno tutto aperto del mercato (foto GAD) 57 S Borusan Music & Art House Ubicazione: Istanbul (Beyoğlu), Turchia Cliente: Borusan Holding Progetto di architettura: GAD & Gökhan Avcıoğlu Architetto: Gökhan Avcıoğlu Gruppo di lavoro: Ozan Ertuğ, Baris Ucar, Ayhan Urguplu, Arzu Meyvaci, Yeliz Ozsoy, Bora Soykut, Gozde Nur Demir, Serkan Cedetaş, Ertuğrul Morcol Architettura d’interni: GAD Fotografie: Özlem Avcıoğlu Tipo di costruzione: acciaio Area di progetto: 230 mq Totale area costruita: 1.900 mq Data del progetto: 2007 Data della realizzazione: 2007-2009 S La facciata dell’edificio sulla strada principale (foto Özlem Avcıoğlu) Pagina accanto: l’edificio ad angolo visto di scorcio in una fotografia notturna che mette in evidenza la doppia pelle, quella antica fuori e quella high-tech all’interno (foto Özlem Avcıoğlu) La strada chiamata İstiklal Caddesi (Viale dell’Indipendenza) è una delle arterie più importanti del quartiere di Beyoğlu, vero cuore pulsante della parte europea della città. Lungo i suoi quasi 2 km di lunghezza, percorribili unicamente a piedi o utilizzando un tram “nostalgico” che si muove tra i suoi due estermi, Tünel e Taksim, si trova il movimento, il colore, il rumore e la moltitudine di gente che lì si concentra notte e giorno, con negozi, cinema, locali per intrattenimento, night, librerie, consolati, chiese armene, cattoliche, ortodosse, jazz club, birrerie, centri culturali, gallerie d’arte, ristoranti, teatri e musei. La Borusan Holding, per cui il gruppo GAD aveva già lavorato all’inizio degli anni 2000 per la costruzione di un centro espositivo nell’area verde di Parkorman, ha voluto contribuire alle attività culturali del centro della città con questo grande intervento che interessa un’area storica della zona di Beyoğlu. GAD ha creato un forte contrasto con l’ambiente circostante, una tensione progettuale tra antico e moderno in un’area carica di memorie urbane, svuotando letteralmente un edificio di inizio Novecento e inserendovi dentro una scatola trasparente sorretta da una struttura in acciaio a vista. Un gesto contemporaneo che aveva già funzionato per il centro convegni di Esma Sultan, nel borgo di Ortaköy, dove una scatola in vetro con una struttura high-tech era stata inserita all’interno di un antico edificio ottomano in rovina, di cui era rimasta in piedi solo la muratura in mattoni a vista. In quel caso si trattava però di una struttura di soli due piani, mentre per il viale İstiklal l’edificio in questione è una struttura di sei piani, quindi più complessa da progettare. La scatola è stata pensata con un sistema a griglia di pali disposti a “X”, con un leggero telaio in acciaio, e una serie di solette ad essa ancorata, che corrono lungo tutto il perimetro interno dell’edificio esistente. Questa soluzione progettuale ha consentito all’architetto di ottenere degli spazi aperti flessibili, sprovvisti cioè di muri interni o di pareti e tramezze, a ogni piano, da poter essere usati secondo il programma delle mostre o delle attività che si svolgono a tutti i piani dell’edificio. L’ingresso principale si trova sulla İstiklal, leggermente sopraelevato a cui si accede tramite dei gradini di marmo, memoria 59 S Sezione AA dell’edificio, dove si evidenzia la struttura di travi a “X” in acciaio e le rampe di scale che danno accesso ai diversi piani Pianta dell’edificio a livello della strada Schema costruttivo dell’edificio che mostra la scatola di acciaio, senza le pareti vetrate e la parte superiore che ospiterà il ristorante-caffetteria S 60 Schema costruttivo dell’edificio che mostra la scatola di acciaio con il suo rivestimento in vetro inserita all’interno, con le solette che si attaccano alle vecchie murature di perimetro In alto a destra: il piano della terrazza collegata al ristorante in costruzione (foto Özlem Avcıoğlu) La sala da concerti (foto Özlem Avcıoğlu) dell’antico ingresso, incorniciati da due colonne in acciaio che pare sostenere l’intera facciata, mentre un ingresso secondario da sulla strada laterale, la via Piremeci. Il piano terra a cui si accede dalla strada principale è perfettamente visibile grazie all’utilizzo di ampie vetrate, che permettono di vedere all’interno parte delle opere esposte, e ricordano in qualche modo le vetrine dei negozi presenti lungo tutta la strada. All’interno dell’edificio, a seconda delle mostre o delle attività svolte, si possono salire le scale, che corrono parallele sul lato della strada secondaria, oppure prendere l’ascensore che è situato immediatamente alla sinistra dell’ingresso. La sala da concerto, o da riunione, si trova al secondo e terzo piano, con una capienza massima di 100 persone, dove il secondo piano funziona da platea mentre il terzo da galleria; un grande buco tra i due piani permette a quelli che si trovano sopra di poter comodamente guardare di sotto. Al quarto piano ci sono sei camerini e delle piccole sale per le prove, mentre il quinto piano è nuovamente utilizzato come il piano terreno per poter ospitare diversi tipi di eventi. Al sesto piano infine, si prevede l’apertura di una caffetteria e bar, attraverso i quali si potrà accedere alla terrazza sovrastante, che si apre alla vista del Bosforo e della città; la terrazza, ricoperta da una pavimentazione in legno farà parte della caffetteria e l’accesso avviene tramite delle scale esterne. Le opere artistiche, che sembrano parte integrante dell’edificio stesso, visibili nelle fotografie fanno parte della prima mostra con cui il centro ha inaugurato le sue attività culturali lo scorso anno; l’installazione più rilevante è costituita da una serie di tubi LED che illuminano le colonne a “X” lungo 61 S tutta la facciata, opera del 2008 di Leo Villareal dal titolo Untitled. Al piano terreno si può vedere il lavoro Elo (Spiderlights), progettato da Christian Partos nel 2009, in cui delle lampadine a bulbo aumentano e diminuiscono d’intensità a tempo con la musica in corso, mentre tre porte di differenti colori attirano l’attenzione del visitatore con l’illusione di una serie di passaggi infiniti attraverso l’edificio e sono utilizzate anche come ingresso per l’installazione denominata Shortcuts, di Ivan Navarro. S L’ingresso principale dell’edificio con alcune installazioni (foto Özlem Avcıoğlu) La sala da concerti con i due piani utilizzabili come loggia e platea. In evidenza la struttura con i pali a “X” (foto Özlem Avcıoğlu) Foto piccola a sinistra: un’installazione inserita nello spazio a “V” della struttura (foto Özlem Avcıoğlu) L’intervento di GAD riesce perfettamente a creare una simbiosi tra l’antico e il contemporaneo, mettendo in evidenza la bellezza riuscita nella combinazione di due contenitori-involucri così differenti fra loro. In una città come Istanbul, carica di storia ma decisamente proiettata nel futuro, la scelta del gruppo Borusan di affidare un progetto così delicato a un architetto come Gökhan Avcıoğlu sembra essere stata quella vincente. L.O. S The Seed, ovvero musica nella pancia della balena SSM Concert Hall – The Seed Ubicazione: Istanbul (Emirgan), Turchia Progetto di architettura: NHMH – Nevzat Sayın Gruppo di lavoro: Umut Durmus, Neslı Kayalı, Fatma Olgac, Ahmet Korfalı, Sinem Cerrah Cliente: Sakıp Sabancı Museum Strutture: Arce Necatı Celtıkcı Impianti elettrici: Enkom – Belgin Merey Ingegneria meccanica: Okutan Engineering Acustica: Team Fores – Turker Talayman Impresa di costruzione: Önder İnşaat Area di progetto: 2.000 mq Data del progetto: 2007 Data della realizzazione: 2008-2009 Fotografie: Cemal Emden, NSHM Sito web: www.nsmh.com Uno degli ultimi lavori dell’architetto Nevsat Sayın, progettista di Smirne che ha il suo studio a Istanbul dal 1985 con il nome di NSMH (Servizi per l’Architettura Nevsat Sayın), si presenta come un interessante intervento contemporaneo, minimale e mimetico al tempo stesso, in un sito lontano dal centro e dalla frenesia della metropoli, un luogo ideale per la contemplazione del paesaggio e per l’ascolto della musica. Nel sobborgo di Emirgan, lungo la costa occidentale del Bosforo, la famiglia Sabancı, una delle più potenti in Turchia, possiede una proprietà comprendente una villa con un grande parco annesso che dal 2000 è stata trasformata in un museo di arte moderna, il Museo Sakıp Sabancı (SSM). Negli ultimi anni, data S 64 Il foyer-corridoio della sala da concerti (foto Cemal Emden) Pagina accanto, dall’alto: ingresso alla sala da concerti dal lato del giardino, con in primo piano un portico di una tipica costruzione in legno ottomana (foto Cemal Emden) La terrazza esterna alla sala da concerti e le murature con pietre in gabbie di metallo a vista (foto Cemal Emden) l’alta affluenza dei visitatori, attratti dalle mostre di alto livello e dalla bellissima locazione dell’immobile, che fu costruito sul finire degli anni ’20 dall’architetto italiano Edoardo de Nari, il museo si è dotato di nuovi spazi ricettivi, ampliando le sale espositive, aggiungendo una terrazza belvedere con caffetteria e ristorante e “scavando” nei fianchi verdi della collina che separa il museo dal mare, la struttura a seme, o a nocciolo, The Seed appunto, progettata da Nevsat Sayın. “Il dentro di quello che sta dentro” potrebbe essere la traduzione dal turco che più rispecchia il pensiero dell’architetto riguardo a The Seed, che per questo lavoro si è ispirato alla filosofia sufi dei Mevlana, i dervisci rotanti. L’originalità del progetto è infatti nel guscio che è solo un contenitore, privo di esterno, in cui tutto avviene dentro. Nel mondo dei sufi è quello che abbiamo dentro di noi – energia non palpabile ma percepibile – che esprime il massimo della bellezza di Dio e del creato, che è spesso raffigurato come un vuoto. I dervisci pregano danzando, muovendosi in circolo e su se stessi in questo spazio vuoto, riproducendo il movimento delle molecole a scala infinitesimale o quello dei pianeti e delle galassie a scala cosmica. L’architetto ha progettato “in negativo”, pensando cioè al vuoto che costituisce il pieno, che forma il vero centro del progetto. Per ovviare a un senso di claustrofobia che questo edificio “sottomarino” potrebbe generare, il foyer a livello della sala si apre invece come una lunga grande fessura vetrata, uno squarcio orizzontale che dà l’accesso a una superficie uguale ricoperta da doghe in legno all’esterno, dalla quale la vista del visitatore può spaziare sul mare davanti e sulle colline della parte asiatica della città. Il progetto si compone quindi di due parti fondamentali: il guscio in struttura d’acciaio all’interno, ricoperto dalla stessa terra da diporto utilizzata nello scavo, e una struttura in calcestruzzo armato che lo blocca e lo ancora alla collina, in cui si trovano l’accesso, i due livelli che contengono la sala, gli spazi per i volumi tecnici, le uscite di sicurezza e i terrazzamenti collegati al guscio stesso. Una parte consistente del progetto è stata ovviamente dedicata allo studio sull’acustica di questa sala, che presentava non pochi problemi dovuti alla forma e ai materiali utilizzati per la costruzione della struttura. Grandi pannelli metallici di forma quadrangolare che rivestono l’interno della struttura come squame di pesce, dipinti in giallo oro sul soffitto, o zigrinati e bruniti lungo le pareti laterali, rendono splendente il guscio dall’interno e allo stesso tempo garantiscono la migliore acustica, risolvendo i problemi di riverbero e di eco delle onde sonore. Altra nota allegra del progetto The Seed è data dall’uso dei colori; essendo una struttura interamente sigillata, chiusa e priva di aperture di alcun genere nella sala, l’architetto ha pensato di rendere vivace e non monotono l’ambiente – e come spiega lui, per “aiutare” an- 65 S Pianta della sala da concerti e della terrazza antistante Sezioni trasversali della sala S 66 Sezione longitudinale della sala The Seed durante la costruzione (foto NSMH) Sezione con dettagli costruttivi della struttura del “guscio” che i musicisti a sentirsi psicologicamente a proprio agio durante le prove, che solitamente avvengono senza pubblico – aggiungendo mille colori ai rivestimenti delle poltroncine, e dando così un impressione di trovarsi in un ambiente di festa, con le luci che, prima e dopo lo spettacolo, trasformano le sedie in comparse, in divertenti macchie di colore. L’attenzione dell’architetto per i dettagli, per le parti apparentemente marginali nella progettazione di un grande edificio è visibile in molti dei suoi progetti; si può dire che sia quasi una sua firma, specialmente per quello che riguarda i trattamenti o i materiali utilizzati nei rivestimenti o nelle murature esterne. In questo caso non si può fare a meno di notare il rivestimento a pietre ingabbiate in una rete metallica, che fanno diventare tutto l’insieme dell’edificio, come una parte degli esistenti terrazzamenti in pietra, senza disturbare la vista e senza presentarsi come una massa solida che invade il verde del parco. Entrando dall’ingresso a mare del museo, e salendo le rampe di scale che portano all’ingresso vero e proprio dell’edificio museo, la struttura/muratura di Nevsat Sayın passa veramente inosservata, come se si trattasse di una parte sempre esistita per contenere la collina. Una sala per la musica e per conferenze completamente interrata nei fianchi della collina, invisibile dall’esterno, dove le murature a gabbie di pietra a vista, che richiamano per alcuni versi il lavoro di Herzog and de Mouron in California per la Dominus Winery, mostrano invece tutta la loro espressività nel gioco dei volumi dei terrazzamenti che funzionano da belvedere per il museo, al livello superiore, e da foyer al livello della sala per concerti. La 67 S pavimentazione stessa del belvedere del foyer è interamente ricoperta da doghe in legno, che accentuano l’effetto prospettico di questa promenade nella natura, sospesa nella bellezza del paesaggio che da qui si gode. Guardando al progetto di Nevsat Sayın verrebbe da pensare che più che di fronte a un’architettura imponente, ci si trova invece davanti a una carena di nave fossile, rimasta sepolta per la gioia degli archeologi del futuro. Trovandocisi all’interno poi, il pensiero non può che andare a Pinocchio o a Giano nel ventre della balena, solo che in questo caso la scelta di entrarvi è volontaria, e il piacere di assistere a un concerto in uno spazio come questo vale la pena per la momentanea “reclusione”. L.O. La sala da concerti vista dal palco (foto Cemal Emden) S S Istanbul Naval Museum Ubicazione: Istanbul (Beşiktafl), Turchia Progetto di architettura: Teğet Mimarlık Architetto: Mehmet Kütükçüoğlu, Ertuğ Uçar Gruppo di lavoro: Alev Dağlı, Hande Köksal, Saro Dionyan, Senem Akçay Gruppo per il rilievo e il restauro: Atölye Mimarlık Strutture: Tem Engineering Ingengeria meccanica: Okutan Engineering Impianti elettrici: Yurdakul Engineering Consulenza per mappature: İmge Harita Architettura del paesaggio: Arzu Nuhoğlu-Aygen Kancı Landscape design Consulenza antincendio: Alara Illuminotecnica: Atila Uysal (SBLD Studio), Kroma Edificio esistente da restaurare: 2.600 mq Edificio provvisorio: 1.650 mq Totale area costruita: 15.000 mq Data del progetto: 2007-in fase di costruzione Sito web: www.teget.com Il nuovo Museo della Marina Un museo del mare o, meglio, il Museo della Marina (Deniz Müzesi) sta per essere terminato lungo le sponde del Bosforo, nel quartiere centralissimo di Beşiktaş, per opera del gruppo Teğet Mimarlık, fondato da Mehmet Kütükçüoğlu ed Ertuğ Uçar nel 1996. Lo storico Museo della Marina di Beşiktaş era composto di due parti distinte, disposte attorno a un cortile aperto in cui era possibile ammirare obici, cannoni, pezzi di artiglieria, resti di sottomarini e persino bombe. Le due parti costruite erano un piccolo edificio a due piani anni ’40 rivestito in pietra, che ospitava le cartografie, le bandiere storiche, i modellini, le armi e gli stendardi, i dipinti e tutta una serie di documenti e di piccoli oggetti che fanno parte della collezione della Marina Militare turca e un grande capannone-hangar contenente diversi tipi di imbarcazio- S 70 Dall’alto: silhouette che mostra i volumi del museo in rapporto agli altri edifici nelle vicinanze, in particolare con riferimento al museo-palazzo di Dolmabahçe Rendering dell’ingresso al museo, con la piazza antistante Rendering dell’ingresso in rapporto alla strada principale 1 2 L’area del sito con il nuovo museo e l’edificio storico restaurato in alto a destra 5 8 3 4 6 7 1. Hall d’ingresso 2. Caffetteria 3. Punto vendita 4. Spazio bimbi 5. Sala proiezioni 6. Biblioteca 7. Laboratorio per la conservazione 8. Rampa di accesso alla Sala dei caicchi Pianta a livello dell’ingresso del Museo della Marina Rendering dei volumi del complesso museale ni di varie dimensioni come i caicchi o le feluche, esempi notevoli di natanti sia ottomani sia turchi del primo periodo repubblicano. Quest’ultimo edificio era diventato ormai obsoleto e inadatto per mostrare al pubblico una collezione così particolare di imbarcazioni storiche in legno che nel tempo si stava deteriorando, principalmente a causa di ineguatezze dei sistemi di umidificazione e di controllo della temperatura all’interno dei locali esistenti. La Municipalità di Beşiktaş e la Marina Militare hanno deciso di porvi rimedio, tramite concorso, richiedendo una struttura museale moderna che possa preservare la raccolta, promuovendo l’aspetto turistico e culturale dell’operazione. Il progetto vincente è risultato quello dal gruppo Teğet ed è al momento in corso di completamento. Una parte molto difficile nella fase progettuale, che ha notevolmente allungato i tempi per la costruzione del nuovo 71 S museo, è stata l’eliminazione del vecchio edificio capannone, evitando però di compromettere la conservazione delle imbarcazioni, che non potevano neppure essere spostate in altri siti, data la loro delicatezza e le notevoli dimensioni. Teğet si è così impegnato per progettare in fase d’opera uno spazio coperto provvisorio in cui alloggiare temporaneamente le imbarcazioni all’interno dell’area museale. Un compito difficile perché per lo studio si è trattato di progettare inizialmente una serie di strutture movibili di differenti dimensioni, fatte su misura per ogni imbarcazione e adatte a poterle spostare nel capannone provvisorio, in attesa della sistemazione finale. Un’area del progetto, dove in futuro sorgerà l’ingresso principale, è al momento occupata da questa struttura provvisoria che sarà a sua volta demolita terminata la prima fase progettuale della sala per l’esposizione delle imbarcazioni, quando finalmente potranno trovare la loro definitiva sistemazione. Occorre sottolineare che questo progetto di Teğet è importante perchè rappresenta un raro esempio di architettura contemporanea sul Bosforo, laddove le ristrettive leggi imposte per le costruzioni lungo le due sponde, non prevedono la possibilità – dopo alcuni scempi del passato – di costruire alcunché di aspetto “moderno” in prossimità del braccio di mare che separa i due continenti. Il progetto sinteticamente invita il visitatore, attraverso un percorso continuo tramite rampe e passaggi sospesi, a circolare in tutta l’area espositiva entrando dall’edificio nuovo dal Dettagli costruttivi della struttura della grande sala S 72 Fotomontaggio del nuovo museo visto dal lato dello scalo di Beşiktaş Rendering della vista dall’ingresso, guardando verso la sala dei caicchi Schema dei punti di visuale, entrando nel museo, e del rapporto con il mare all’esterno Schema dei punti di visuale sulle imbarcazioni lato verso la strada, vedere la grande sala contenente la collezione di imbarcazioni, per poi entrare nell’edificio restaurato e quindi uscire nuovamente dall’ingresso principale, senza mai dover attraversare due volte lo stesso spazio. L’edificio principale, quello che ospiterà le imbarcazioni, richiama con la sua forma a pettine, affacciato direttamente sul fronte mare, gli antichi arsenali in cui le navi venivano costruite, costituiti da lunghe scatole parallelepipede che si aprivano per permettere la discesa dal cantiere direttamente nell’acqua. Il lavoro di Teğet si mostra quindi dall’esterno come un’alternanza di pieni e di vuoti nell’involucro dell’edificio, con un effetto simile a quello di grandi blocchi rettangolari disomogenei per lunghezza e larghezza, alcuni dei quali tamponati sul lato a mare e altri resi trasparenti da ampie vetrate che mettono continuamente il visitatore in contatto con le imbarcazioni all’interno e con il mare all’esterno. Una strada litoranea, utilizzata in prevalenza dai mezzi pubblici di trasporto e connessa ai due frequentatissimi scali di vaporetti urbani posti ai suoi estremi, separa il mare dal museo e per rendere omogenea la continuità fluida del mare, uno specchio d’acqua artificiale, posto tra l’edificio e la strada stessa, rifletterà ulteriormente l’edificio, accentuando le sagome ad arsenale di cui è composto. Il percorso è stato pensato come continuo, che inizia e finisce nello stesso punto, dal lato cioè del nuovo ingresso dell’edificio lungo la strada principale, quella che connette Beşiktaş con il resto della città in direzione nord-sud. Nell’edificio principale si entra perciò dal retro, dove la facciata, un grande volume bianco in aggetto, in parte sospeso nel vuoto, si apre su di uno spazio aperto pubblico che funziona da filtro tra la strada e il museo stesso; una volta entrati, attraverso una rampa posta a una quota sopraelevata rispetto al resto del museo, si scende verso la sala espositiva, vedendo già il mare davanti, attraverso le grandi finestrature che intervallano le murature cieche. Il trucco si disvela al visitatore proseguendo nel percorso; all’interno della grande sala, dopo essere discesi dalla rampa d’accesso, non si percepiscono i blocchi visibili invece dall’esterno, ma solo l’alternanza di pieni (le pareti tamponate) e di vuoti (le finestrature aperte sul mare). Da lì si percorre la grande sala espositiva, sprovvista di sostegni – i ponti sono in pratica delle strutture a travatura appese al soffitto – in tutta la sua lunghezza e si possono ammirare le imbarcazioni dal basso in sequenza cronologica, per poi, attraverso una rampa che corre parallela alla sala dal lato opposto al mare, salire al livello dei ponti, e guardare dall’alto le imbarcazioni viste in precedenza e le altre che a questo livello sono in mostra. I 73 S Rendering in spaccato assonometrico della grande sala dei caicchi; sullo sfondo si può osservare il vecchio edificio che sarà integrato nel nuovo progetto Rendering in spaccato assonometrico della grande sala dei caicchi e dei ponti sospesi ponti sopraelevati, disposti in maniera perpendicolare e quindi allineati con le imbarcazioni, permettono inoltre di poter osservare gli oggetti esposti con differenti prospettive, mettendo il visitatore in relazione con lo spazio museale dentro, e con la città, il Bosforo le navi che lo attraversano continuamente fuori. La circolazione nel museo è obbligata, nel senso che il visitatore che percorre la grande sala, dopo aver visto anche un’altra stanza sotterranea che ospita i reperti “sottomarini” della collezione, deve necessariamente salire sulla rampa alla fine della stessa per portarsi al livello superiore. Dopo aver completato quindi il giro, il percorso prosegue su di una passerella sospesa ma coperta, che immette direttamente al secondo piano del vecchio edificio restaurato e integrato nel nuovo progetto, dove si trovano i pezzi più piccoli della collezione. Scendendo le scale di questo edificio e finito il giro nelle varie stanze, il visitatore si ritrova nuovamente nella grande hall che da accesso al museo, dove può trovare la caffetteria, un negozio libreria, una sala per i bambini e, lungo la parete sud dell’edificio, una biblioteca e uno spazio audiovisivo polivalente per proiezioni e incontri. Un passaggio permette l’accesso sul giardino interno del museo, che in pratica assolve le stesse funzioni che aveva anche nella vecchia struttura, permettendo la vista di oggetti non deteriorabili in metallo, come cannoni e altri residuati bellici. Il gruppo Teğet riesce quindi, con un programma molto complesso e con una progettazione attenta al luogo e alle esigenze museali espositive, a rendere il Museo della Marina veramente contemporaneo e fruibile, possibile volano inoltre per l’area stessa dello scalo di Beşiktaş, dove attualmente la gente sosta poco e usa lo spazio principalmente per il transito. L.O. S 74 Rendering del piano ammezzato con le strutture a traliccio a vista MilanoArchitettura Design Edilizia Fiera Milano, Rho 05_08 Ottobre 2011 Segnali di futuro Prodotti, soluzioni e tecnologie per progettare e costruire i nuovi capolavori dell'edilizia. Incontri ed eventi per un'architettura sostenibile e sicura. Un solo grande appuntamento, MADE expo la più importante fiera internazionale dell'edilizia. www.madeexpo.it MADE expo è un’iniziativa di: MADE eventi srl Federlegno Arredo srl Organizzata da: MADE eventi srl tel. +39 051 6646624 s +39 02 80604440 [email protected] s [email protected] Promossa da: Sperimentazioni di Antonino Cardillo nuovi orientamenti a cura di Massimo Locci M n.42 2011 76 olti sono i giovani architetti che, sostenuti da solidi approcci teorici e volontà di sperimentazione, definiscono interessanti soluzioni formali, talvolta con complessi e innovativi processi che, però, vengono verificati solo virtualmente grazie agli attuali strumenti di modellazione 3D. Spesso sono autocommittenze, che rispondono a un programma funzionale predefinito, ma che difficilmente sono in grado di superare la verifica concreta del cantiere. House of Twelve, rendering e piante Sostanzialmente su questo piano si collocano le prime esperienze progettuali di Antonino Cardillo come le due case qui presentate, Ellipse e Twelve, anche se sono due proposte immaginate per un contesto specifico e per un’utenza determinata. In questi due progetti emerge una forte sensibilità poetica che coniuga consapevolmente ricerca morfologica e dialogo con la storia, segnatamente le avanguardie del Movimento Moderno e le linee più sperimentali del contemporaneo. La sua formazione alla scuola di Antonietta Iolanda Lima è stata una buona base di partenza. Pochi sono, però, i giovani che fin dalle prime prove concrete riescono a tradurre sul piano operativo-esecutivo l’articolazione spaziale e la ricchezza compositiva delle forme, senza smarrire la purezza dell’approccio teoricosperimentale. Quando si realizza tutto ciò appare quasi miracoloso, soprattutto se si rispetta la logica spietata del mercato edilizio che richiede rispetto massimo delle procedure, dei budget e delle tempistiche di esecuzione (in un caso addirittura un’opera di Antonino Cardillo è stata realizzata in soli 10 giorni). Le due case sperimentali sono utili per comprenderne l’orizzonte poetico e concettuale: il campo operativo è sintetizzabile nella individuazione di linee energetiche che agitano la composizione e lo spazio (forze centrifughe che ora proiettano piani curvi nel paesaggio, ora trasformano la continuità dell’ellisse in un nautilus aperto), nell’uso dello spazio gerarchizzato (ribassato e contratto o con vuoti a doppia altezza) nell’uso di artifici scenici con quinte contrapposte (massive e trasparenti) e travasi percettivi, nella combinazione di geometrie libere ed euclidee, nella valorizzazione degli elementi contrappuntistici. Senza alcuna caduta di tensione tutto l’apparato teorico-concettuale speri- Ellipse 1501 House, rendering e piante mentato nelle due case-concept si ritrova nelle due opere realizzate; anzi nella fase realizzativa si attua un processo di decantazione di segni e una sistematizzazione del metodo così efficace che il linguaggio appare chiarito e rafforzato. Scompaiono anche alcune anomalie tipologiche; condizione forse ineliminabile quando si affrontano temi morfologici ambivalenti tra la dimensione privata della residenza e quella pubblica dello spazio. n.42 2011 77 Nella prima opera realizzata, la Nomura 24 House nella baia di Osaka in Giappone, Antonino Cardillo reinterpreta con sensibilità occidentale il tema della casa tradizionale giapponese, proponendo un processo di ibridazione tra le due culture dell’abitare. Attua un processo di manipolazione di componenti specialistiche, una fusione che genera una valenza identitaria; ad esempio tra il genkan, il loro tipico ingresso, e il nostro In questa pagina: portico; tra il washitsu, la stanza con Nomura 24 House, stuoie marginata da pareti scorrevoli, e Osaka, Giappone il nostro soggiorno; tra la loro propen- sione a creare spazi raccolti con altezze contenute e una visione aperta con vani a tutta altezza e con tetto inclinato. Il fattore comune è rintracciabile nell’essenzialità delle forme e dei trattamenti, nei materiali naturali e nei dettagli essenziali. La candida morfologia sfaccettata che si incastona nella collina verde e che, con tutta evidenza, è memore dei linguaggi rarefatti del MM, che alla tradizione giapponese si riferiscono in modo esplicito, e della cultura mediterranea, cui Antonino è fortemente legato essendo siciliano. Per cogliere le diverse relazioni di paesaggio e di contesto l’autore si affida al “gioco sapiente” dei piani polidirezionati e dei volumi sottoposti agli effetti della luce. I valori chiaroscurali si accentuano grazie al bianco monocromatico e si esaltano nelle combinazioni-variazioni del palinsesto delle bucature. Ancora più continuità con la fase di sperimentazione teorica è riscontrabile nel progetto di interior design per il negozio monomarca a Milano. Frutto di una consultazione promossa dalla rivista «Wallpaper *», è interessante per gli esiti e per la procedura: si doveva realizzare in 60 mq un allestimento temporaneo con un budget limitato e un tempo di esecuzione ridottissimo (10 giorni). Antonino Cardillo attraverso una sorta di scenografia rovesciata è riuscito a trasformare completamente l’immagine del negozio senza stravolgerne la struttura funzionale. Ha lavorato prima per sottrazione, fino a rintracciare gli originali valori spaziali: in tal modo il soppalco ritorna a essere elemento di misura del vuoto a doppia altezza e la colonna binata riappare come un’emergenza tettonica, astratta e valorizzata come una preesistenza archeologica. Giocando sulle stratificazioni Cardillo inserisce un parallelepipedo definito da una semplice intelaiatura a balloon frame e pannellature discontinue, un pieno-vuoto che crea percezioni multiple dall’interno all’esterno e vice- In questa pagina: Sergio Rossi Store, Milano versa. Il tema della casa nella casa e dello spazio interno che è esterno a se stesso ha attraversato tutta la storia dell’architettura, dal continuum romano a Ungers, passando per Alberti e Bramante. Antonino Cardillo, a tal proposito, fa riferimento a un «atto di sovrapposizione di significati all’interno di uno stesso nucleo identitario, e a un gioco di rimandi tra ordini ideali e reali». Il volume interno è contemporaneamente un luogo enucleato e reso “a misura d’uomo” grazie all’uso di arredi domestici, attrezzature e materiali non tecnologici (vecchie poltrone semplicemente rivestite, lampade di Joe Colombo riciclate, tavolini da salotto, tubi fluorescenti a vista e lampade a incandescenza); in parte è coinvolgente e reso intrigante da una potenziale valenza voyeristica urbana. Nel gioco di volute ambiguità, ribaltamenti e sconfinamenti tra interni ed esterni, l’architetto sonda le potenzialità espressive della scena teatrale, citazione resa evidente dalla grande tenda retrostante i telai che allude a un sipario. Le viste si sovrappongono, dialogando con il fondale urbano e le diverse identità del luogo: dalla medievale Chiesa del Carmine ai brani decorativi Art Nouveau. M. L. n.42 2011 79 rassegna stampa a cura di Fabio Massi Selezione n.42 2011 80 di articoli significativi Renzo Piano presenta il progetto per l’Auditorium Musicale di Bologna Un nuovo hotel lungo la più grande passerella di Amsterdam Vienna, i “quartieri rosa” progettati per madri single e donne con basso reddito Edilportale.com, 29.04.2011 «Un grande Stradivari, per avere un’acustica di altissima qualità». Con queste parole Renzo Piano ha presentato il progetto per il futuro Auditorium Musicale di Bologna, destinato a sorgere nella centralissima area della “Manifattura delle Arti”. La grande sala, progettata per accogliere 1.800 spettatori, sarà caratterizzata da una forma circolare e i posti a sedere saranno disposti attorno all’orchestra: tale disposizione, spiegano dallo studio, «ha a che fare con la qualità del suono perché tutti stanno a una distanza omogenea dall’orchestra e quindi stanno “addosso” al suono instaurando un rapporto più fisico con la musica. Ciò permette inoltre agli spettatori di vedersi in faccia, e non nella nuca come avviene in una sala tradizionale. Si crea così un senso di appartenenza e di circolarità emotiva che aumenta anche psicologicamente la partecipazione degli spettatori». IlNord.com, 03.04.2011 A giugno 2011, il nuovo hotel The Exchange aprirà le porte ad Amsterdam, grazie all’iniziativa del Lloyd Hotel e dell’Ambasciata Culturale. L’albergo è stato sviluppato in collaborazione con il Fashion Institute di Amsterdam e farà parte del progetto The Red Carpet, un rinnovamento urbano che trasformerà l’estetica del Damrak – la strada che collega la stazione centrale con Piazza Dam – considerato l’ingresso principale in città. Le 63 stanze dell’hotel, che vanno da una a cinque stelle, verranno decorate da studenti scelti e laureati del Fashion Institute. Le camere saranno “vestite” proprio come se fossero dei modelli da passerella. L’interno dell’albergo – accanto al quale aprirà anche un ristorante e un negozio di moda e design – è caratterizzato dalla diversità: fresco, gioioso, sexy, comodo, classico e un po’ audace. BlitzQuotidiano.it, 02.04.2011 A Vienna sono state imposte linee guida per coinvolgere le donne nell’ideazione di nuovi quartieri, destinati alle madri single o alle donne con basso reddito. Le prime sperimentazioni hanno avuto un gran successo: i palazzi sono dotati di corrimano sia per i più grandi sia per i più piccoli e sono molto vicini agli spazi aperti o alle fermate dei mezzi pubblici, mentre negli edifici le lavanderie sono state spostate dalla cantina ai sottotetti, con terrazzino adibito all’asciugatura dei panni e per il gioco dei bambini, e i depositi per le carrozzine sono messi vicino all’ascensore. Negli appartamenti, invece, c’è molta flessibilità: le camere sono di dimensioni ampie, accorpabili o divisibili a seconda dei cambiamenti in famiglia, e la cucina è posta in posizione centrale in modo da poter sorvegliare i bambini mentre giocano e fanno i compiti. Efficienza energetica e acquisti pubblici Risparmiare acqua e spazio in bagno? Si può! Giro del mondo in 4 ponti. Futuristici AcquistiVerdi.it, 21.04.2011 Lo scorso 8 marzo la Commissione Europea ha pubblicato il Piano di Efficienza Energetica 2011, con il quale mette a punto le azioni proposte per raggiungere gli obiettivi UE di ridurre i consumi primari di energia del 20% entro il 2020. Esso prevede un ruolo chiave per gli acquisti pubblici, sia per quanto riguarda il rinnovo degli edifici esistenti sia nell’introduzione dei principi di efficienza energetica nei bandi di gara. Azioni specifiche proposte dal piano comprendono: una richiesta per le amministrazioni pubbliche di convertire almeno il 3% della superficie dei propri edifici, l’applicazione sistematica di elevati standard di efficienza energetica nell’acquisto di prodotti e la rimozione di barriere legali e pratiche alla contrattazione dell’efficienza energetica. ArchitetturaEcosostenibile.it, 02.04.2011 Ogni giorno nelle nostre case utilizziamo in media 200 litri di acqua, ma la metà (e anche meno) sarebbe già sufficiente a soddisfare le nostre esigenze. È soprattutto in bagno che si può attuare una vera politica di risparmio: oltre ai normali dispositivi per i rubinetti con aeratori a basso flusso che miscelano acqua e aria consentendo un risparmio fino al 50%, sul mercato appaiono oggetti interessanti, come il W+W disegnato da Gabriele e Oscar Buratti. Si tratta di un lavabo+WC in grado di ridurre i consumi del 25%. L’acqua utilizzata per il lavabo viene riciclata, filtrata e depurata (per prevenire la formazione di batteri e i cattivi odori) e infine convogliata in una cisterna da 10 litri a uso del WC. Anche le dimensioni permettono di sfruttare al meglio lo spazio: 86 × 50 cm. DailyWired.it, 01.04.2011 Dopo aver eretto ovunque grattacieli e strutture avveniristiche, pare che gli studi di architettura di mezzo mondo si siano tutti concentrati sulla realizzazione di ponti sempre più futuribili. Il porto di Copenhagen, ad esempio, è prossimo a un cambiamento radicale grazie all’LM Harbor Gateway di Steven Holl e al CPH Arch realizzato da 3XN. Il primo sarà sorretto da gigantesche torri e al suo interno ci saranno negozi, ristoranti e caffè, mentre il secondo è un progetto più curvilineo e dalle linee più morbide. Il Paik Nam June Media Bridge di Planning Korea sarà ricoperto di pannelli solari e collegherà le due sponde del fiume Han. A Dubai, infine, nel 2012 sarà completato il Sheikh Rashid bin Saeed Bridge progettato da FXFowle, il ponte più lungo, alto e capiente del mondo. Italia e rinnovabili. Investire nel green darebbe benefici tra 24 e 32 mld nel 2020 S PIGOLATURE Edilio.it, 20.04.2011 Quello italiano, con 203 operazioni industriali nel 2010, per un totale di 5.165 MW e 12,3 miliardi di euro di investimenti, rappresenta uno dei mercati più attraenti al mondo per le rinnovabili. È quanto emerge dal Rapporto 2011 dell’Italian Renewable Index (IREX), secondo cui il totale degli investimenti dello scorso anno in energie pulite è stato pari allo 0,4% del PIL che, sempre nel 2010, è cresciuto dell’1%. Il 48% degli investimenti nelle rinnovabili riguarda la costruzione di nuovi impianti e progetti, mentre il 34% le operazioni come acquisizioni, joint venture o partecipazioni. A guidare gli investimenti in nuovi impianti è il fotovoltaico, anche se l’eolico presenta le maggiori dimensioni in termini di megawatt. Sullo sviluppo delle energie rinnovabili, si evidenzia un chiaro beneficio per l’Italia compreso tra 24,3 e 32,3 miliardi di euro, al 2020. Restauro contagioso C’è un vecchio cascinale quattrocentesco d’interesse storico e architettonico che, come in una parabola evangelica, si trasforma (legittimamente) in villa restaurata “contagiando” però nel restauro (e questa volta illegalmente) altri 39 fabbricati vicini e, come per magia, le baracche vengono trasformate in ville con piscina e le stalle in palazzine in pietra, a spregio di ogni tutela ambientale e paesaggistica in un “sito di interesse comunitario” come l’area dell’Appennino bolognese nei pressi del comune di Vergato. (ilFattoQuotidiano.it) Mossa rischiosa «Domani nel mio incontro con i cittadini di Napoli farò vedere che ho pronto il provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case fino alla fine dell’anno». È l’annuncio fatto da Silvio Berlusconi alla vigilia delle ultime elezioni amministrative nel capoluogo partenopeo. La mossa a sorpresa del Cavaliere, però, ha messo sul “chi va là” anche la Lega che, secondo Roberto Calderoli, è «contraria a fermare abbattimenti già disposti di costruzioni abusive, che non avrebbero neppure potuto essere sanate nei precedenti condoni edilizi». (Leggo.it) Artisti contro Boicottare il Guggenheim di Abu Dhabi perché sfrutta senza ritegno i lavoratori stranieri. È la decisione presa da 130 artisti – perlopiù mediorientali – di fama internazionale che intendono sabotare il celebre museo nato da un progetto di Frank Gehry che dovrebbe sorgere a Saadiyat Island (letteralmente “isola della felicità”) nella capitale degli Emirati Arabi Uniti entro il 2013, se i suoi gestori non cambieranno atteggiamento verso i dipendenti impiegati nella nuova struttura, i cui cantieri scarseggerebbero di sicurezza. (Corriere.it) Un successo! Oltre 50.000 architetti, ingegneri, geometri usano i nostri manuali Due volumi IL NUOVISSIMO MANUALE DELL’ARCHITETTO direttore scientifico Luca Zevi Unico volume TRATTATO SUL CONSOLIDAMENTO direttore scientifico Paolo Rocchi Unico volume Tre volumi IL NUOVO MANUALE EUROPEO DI BIOARCHITETTURA direttore scientifico Ugo Sasso IL NUOVO MANUALE DI URBANISTICA direttori scientifici Leonardo Benevolo Elio Piroddi Unico volume IL MANUALE DEI CAPITOLATI a cura di Enrico Milone Quattro volumi Unico volume IL MANUALE DEL RESTAURO ARCHITETTONICO direttore scientifico Luca Zevi versione ONLINE www.mancosueditore.eu IL MANUALE DEL LEGNO STRUTTURALE coordinatore Luca Uzielli informazioni 0635192251 m.e. architectural book and review Collana I GRANDI MANUALI Collana I GRANDI MANUALI Collana I GRANDI MANUALI Collana I GRANDI MANUALI Collana I GRANDI MANUALI Manuali Mancosu A bbonamento 2011 Due riviste in una… per il progettista del futuro Se ti tro en abboni 2011 luglio € 19,8é0 anzich 0 € 60,0 Le riviste si rinnovano per dare vita a un unico e innovativo prodotto editoriale che sceglie l’integrazione disciplinare come punto di forza per rispondere alle nuove esigenze della progettazione Perché non c’è senza Abbonarsi conviene perché: – avrete la certezza di ricevere un’informazione qualificata su tutti gli argomenti che riguardano la professione del progettista – avrete diritto, qualora avvenissero disguidi postali, alla rispedizione della copia non recapitata – potrete accedere al nostro sito internet e visualizzare i contenuti delle riviste on-line Coupon per la richiesta di abbonamento per l’anno 2011 da compilare e spedire al seguente indirizzo: M.E. 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