Anno XXXIII, n. 1 RIVISTA DI STUDI ITALIANI Giugno 2015 CONTRIBUTI LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA ENRICO VETTORE California State University, Long Beach I n questo saggio indago le radici filosofico-letterarie del concetto di “pietà” in Leonardo Sciascia, che faccio risalire al concetto di giustizia eterna elaborato dal filosofo tedesco Arthur Schopenhauer. Sostengo che Sciascia ha assorbito questo concetto attraverso la lettura dei racconti dello scrittore argentino Jorge Luis Borges e attraverso la sua familiarità con l’opera del filosofo italiano Giuseppe Rensi. Per dimostrare la mia tesi, darò una breve sintesi del sistema filosofico di Schopenhauer per poi entrare in profondità nel suo concetto di giustizia eterna. Evidenzierò poi come questo concetto sia centrale in tre racconti di Borges e alcuni passi di tre opere chiave di Sciascia. Del primo esamino “I teologi”, “Emma Zunz” e “La morte e la bussola” e del secondo passi da Le parrocchie di Regalpetra, Il contesto, L’affaire Moro e Il cavaliere e la morte1. Spero di dimostrare come nell’opera di Sciascia “pietà” e giustizia sono interdipendenti e non si possono capire appieno senza rifarsi alla giustizia eterna di Schopenhauer che i testi di Borges illustrano e la filosofia di Rensi ripresenta. Prima di cominciare, e per evitare ambiguità, avverto che in questo saggio uso la parola “giustizia” non in senso tecnico e legale ma in quello che le dà Giuseppe Rensi, per il quale essa è rettitudine (Lettere spirituali 144, 155) e comprende equanimità e tolleranza (145). Borges è probabilmente l’autore nella cui opera la lezione filosofica di Schopenhauer è penetrata in modo più capillare 2 . La presenza del filosofo 1 Molti altri racconti di Borges ––“Uomo della casa rosa”, “Storia di Rosendo Juárez” e “Otro fragmento apócrifo” (1984) per citarne solo alcuni ‒ dimostrano un simile trattamento del tema della giustizia eterna. Ho volutamente tralasciato la discussione delle venature buddiste (e spinoziane) e dell’ossessione di Borges per il tempo e l’eternità: anche se molto importanti, non mi sembra che abbiano un rapporto diretto con i testi di Sciascia, ai quali dedico la parte finale del saggio. 2 Schopenhauer è il filosofo più citato da Borges: una cinquantina di volte fra racconti e saggi (Fishburn 218). Per un trattamento generale del rapporto fra i 562 ENRICO VETTORE tedesco è chiaramente percepibile in tutta l’opera di Borges, ed è a lui che lo scrittore argentino è tornato costantemente nel corso della sua carriera3. In Sciascia la presenza delle idee di Schopenhauer è meno direttamente discernibile, per motivi di genere letterario e di differente impegno politico. Tuttavia, la sua estesa conoscenza dell’opera di Borges4 e di Rensi invita a rivisitare la sua concezione della giustizia che si può intendere attraverso il termine-chiave “pietà”. L’autore siciliano usa questa parola come sinonimo di compassione, concetto che a sua volta costituisce il fulcro dell’etica schopenhaueriana e, come vedremo, della giustizia eterna. Per capire come si arriva a questa concezione, è necessario illustrare brevemente il sistema filosofico di Schopenhauer. La filosofia e l’etica di Schopenhauer Per Schopenhauer il mondo fenomenico, quello che percepiamo tutti i giorni, è una nostra rappresentazione, il risultato degli schemi che dominano la nostra capacità di percezione (tempo, spazio, causalità)5. Il vero mondo (la cosiddetta cosa in sé, non la nostra rappresentazione di esso) è costituito dalla Volontà, una forza cieca e irrazionale che costantemente vuole e non è mai sazia. Il mondo dei fenomeni (come lo percepiamo) è cangiante e molteplice a causa della loro posizione nel tempo e spazio; la Volontà invece è una e unica, immutabile, inconoscibile, senza causa e scopo, di là dal tempo e dallo spazio. Le conseguenze interrelate di questa teoria sono due: 1) la vita è segnata dalla sofferenza perché la volontà non è mai sazia, e desiderare significa soffrire; 2) tutti i fenomeni (fra cui gli stessi esseri umani) condividono una fondamentale identità perché sono tutti l’oggettivazione nel tempo e nello spazio di una sola Volontà. È quindi la loro posizione nel tempo e nello spazio che li differenzia gli uni dagli altri; la loro sostanza è però, per Schopenhauer, la stessa per tutti. due autori si veda Roberto Paoli, “Borges y Schopenhauer”, Revista de Crítica Literaria Latinoamericana, Año 12, No. 24. “Modernidad y Literatura en America Latina” (1986), pp. 173-208. 3 Borges, richiesto spesso di spiegare perché, con il suo amore per le strutture intricate, non avesse mai cercato di esporre in modo sistematico la sua visione del mondo, ha sempre risposto che quel progetto era già stato portato a compimento da Schopenhauer (Magee 389). 4 Sciascia comincia a leggere negli anni ’50, e leggere a fondo Borges, vedremo, significa leggere anche Schopenhauer. 5 Per questa breve esposizione del pensiero del filosofo tedesco ho consultato The Philosophy of Schopenhauer di Brian Magee, Metaphysics as a Guide to Morals di Iris Murdoch, Schopenhauer di Julian Young, Schopenhauer: A Very Short Introduction di Christopher Janaway e l’introduzione di Richard Taylor a The Will to Live. 563 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA Secondo Schopenhauer, ci sono tre vie per porre fine alla sofferenza che domina la vita umana: la più immediatamente disponibile ‒ ma limitata nel tempo ‒ è l’esperienza estetica; la più radicale è la negazione della Volontà, che conduce direttamente all’ascetismo; la più accessibile è l’esercizio della compassione, fondamento del sistema etico che è il punto d’arrivo dell’opera di Schopenhauer. Da questa etica scaturisce la giustizia eterna. Nel carattere e nel comportamento umano Schopenhauer individua tre motivi/incentivi base per l’azione: egoismo, cattiveria e compassione. L’egoismo, né buono né malvagio, è la prima oggettivazione della Volontà, essa stessa né buona né cattiva. L’egoismo ha come obiettivo la sopravvivenza dell’individuo, e non è interessato a nuocere ad altri, se non quando l’individuo è in pericolo. La cattiveria, al contrario, è il desiderio di nuocere altri, anche quando non c’è niente da guadagnare e talvolta addirittura quando chi compie l’azione cattiva può patirne le conseguenze negative. La compassione (letteralmente “soffrire insieme”) è invece l’immediato desiderio di aiutare chiunque sia in pericolo e anche fonte della giustizia e della carità. La compassione non dipende da concetti, dogmi o insegnamenti ma è “original and immediate, it resides in human nature itself and, for this very reason it endures in all circumstances, and appears in all countries at all times” (Schopenhauer, Basis 17). La compassione scaturisce dall’intuizione della sostanziale identità di sé e dell’altro cioè dalla realizzazione che la separazione fra io e non-io è puramente illusoria, giacché tutti condividiamo la medesima essenza. La misteriosa capacità di rischiare la propria incolumità per un altro, un sentimento che contraddice la natura profonda (egoistica) degli esseri umani, si può spiegare quindi “by the fact that each of us is, in his inmost nature, at one with the noumenal [the thing in itself], and the noumenal is one and undifferentiable; therefore all of us in our deepest nature are one with each other, are undifferentiable from each other” (Magee 199)6. La compassione, non l’amore, è la base della moralità, poiché Schopenhauer vede l’amore sempre contaminato dall’egoismo (Murdoch, Metaphysics 67). Giacché la volontà, quando si individua, può essere chiamata ego, è attraverso l’eliminazione di questo ego, pura illusione, che ci si può liberare dalla cieca forza della Volontà. Attraverso la compassione e la carità per gli altri, cioè attraverso la consapevolezza che non esiste un ego e conseguentemente non 6 Schopenhauer così spiega la differenza fra l’uomo di buon carattere e quello cattivo: “For, as I have said, to the one man [of bad character] humanity is a non-ego, but, to the other, it is ‘myself once more’. The magnanimous man who forgives his enemy and returns good for evil is sublime, and receives the highest praise, because he still recognized his one true nature even where it was emphatically denied” (Basis 212). 564 ENRICO VETTORE c’è nessuna barriera fra io e non-io, il santo, l’asceta nega il mondo delle apparenze superando così la sofferenza e il mondo stesso. “For Schopenhauer…, salvation is the victory over, and the annihilation of, the world, which is nothing; of life, which is suffering; and of the individual ego, which is an illusion” (Taylor, xxvii). La giustizia eterna Il concetto di giustizia eterna è diretta conseguenza del sistema appena esposto. Comprendere che la Volontà che si oggettiva negli individui è unica, spiega che le barriere fra io e non-io sono illusorie: di qui compassione e altruismo. Questo spiega anche il rimorso che, per Schopenhauer, è una flebile consapevolezza che la Volontà di chi ha inflitto un male è la stessa che si trova nell’individuo che ha patito questo male (Young 180). Schopenhauer espande questo concetto per creare quello di giustizia eterna. Se, come Schopenhauer crede, non c’è separazione fra sé e altro, ne consegue che tormentatore e tormentato sono la stessa persona e che “the tormenter is mistaken in thinking that he does not share the torment, the [tormented] is mistaken in thinking he does not share the guilt” (WWR I, 354). Schopenhauer conclude che il mondo è sempre e assolutamente giusto perché in ogni momento, se potessimo mettere su un piatto della bilancia (della giustizia) tutti i dolori del mondo e, sull’altro, tutte le colpe, i due piatti rimarrebbero in perfetto equilibrio (WWR I, 352). Ci sono molti comportamenti sociali che svelano che questo concetto è presente a tutti, anche se talvolta sotto forma di oscura sensazione. Un esempio è quello della parte offesa ma anche dello spettatore indifferente che desidera vedere punito chi ha commesso un’azione criminale con una pena eguale al male inflitto. Questo comportamento, sostiene Schopenhauer, è l’espressione della consapevolezza che la giustizia eterna si deve realizzare. Il problema è desiderare che essa si realizzi nel mondo dei fenomeni (cangiante) piuttosto che al livello della cosa in sé (dove si è realizzato nel momento in cui il crimine è stato perpetrato) (WWR I 357). La causa di questo fraintendimento è il principio di individuazione che non percepisce l’essenziale identità fra sé e altro. L’etica cristiana, al contrario, “è testimonianza del fatto che la conoscenza più profonda, non più legata al principio d’individuazione, e dalla quale deriva virtù e nobiltà di pensiero, non condivide sentimenti che esigono vendetta”. Questa etica “proibisce il desiderio di ripagare il male con il male e lascia che la giustizia eterna governi nella provincia della cosa in sé che è diversa dal mondo dei fenomeni” (WWR I, 358). Né Borges né Sciascia affermano apertamente che il mondo è perfettamente “giusto” ma entrambi, raccontando storie di vendetta, compassione e identità personale, sembrano avvicinarsi al punto di vista del filosofo tedesco. Vediamo come. 565 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA Borges: vendetta e identità Dei tre testi di Borges che intendo esaminare l’apologo “I teologi,” (1949) è il più breve ed esplicito. Comincerò da questo testo anche se è l’ultimo dei tre in ordine di tempo, e passerò poi a “La morte e la bussola” (1942) e “Emma Zunz” (1948), ripristinando quindi l’ordine cronologico. I racconti di Borges non sono, vedremo, illustrazioni della visione del mondo e della teoria della giustizia di Schopenhauer; sono, piuttosto testi permeati da questa visione e teoria cui Borges sapientemente rimanda per accenni. In questa sezione del saggio vedremo che la trama di un apologo o di un racconto poliziesco nasconde un invito a riflettere sui fatti presentati che si possono spiegare alla luce delle idee del filosofo tedesco. Il tema della sostanziale identità fra individui è chiaramente espresso in “I teologi” ma la natura fantastica del racconto stesso lo declassa, a prima vista, al livello di curiosità metafisica. Questo tema riaffiora, celato, in “La morte e la bussola” e “Emma Zunz,” che sono racconti realistici7. Borges invita il lettore a scoprire il messaggio etico sulla vendetta e sulla giustizia tramite certe scelte narrative che cercherò di evidenziare nelle prossime pagine. Nell’epilogo a L’Aleph, di cui fa parte “I teologi”, Borges spiega che quel testo è “un sogno malinconico sul tema dell’identità personale” (Tutte le opere I: 902). Il racconto narra la storia di due teologi, Aureliano e Giovanni di Pannonia, che separatamente, dedicano la loro vita alla difesa dell’ortodossia cristiana da attacchi eretici. Dei due, Giovanni di Pannonia è il più rispettato e ammirato per dottrina e per i suoi successi nel confutare le eresie. A un certo punto della storia Aureliano, che invidia lo status, la cultura e la preparazione di Giovanni, scopre che una delle frasi usate dal suo collega è eretica. Non può non denunciarlo; Giovanni è trovato colpevole e bruciato vivo. Anni dopo, Aureliano muore in un incendio. La conclusione della storia, ci avverte il narratore, non può che essere detta per metafore giacché ha luogo in Paradiso, dove il tempo non esiste. Nell’ultima scena, Aureliano conversa con Dio, che però si interessa così poco di differenze religiose che si rivolge a lui pensando che sia Giovanni. Superato il dubbio che vi sia un errore nella mente divina, Aureliano scopre così che “per l’insondabile divinità egli e Giovanni di Pannonia, (ortodosso e eretico, aborritore e aborrito, accusatore e vittima) erano una sola persona” (Opere complete 1: 803). Se seguiamo la teoria di Schopenhauer, nella metafora di Borges la mente di Dio è lo stato in cui ci si trova quando, liberati dal tempo e dallo spazio, si è superato il principio d’individuazione e si vede il mondo come cosa in sé (Volontà), piuttosto che 7 Al tema dell’illusorietà dell’identità individuale Borges ha dedicato molte pagine cominciando da quello che considerava il suo primo saggio riuscito, “La nadería de la personalidad” (1922). 566 ENRICO VETTORE come nostra rappresentazione (che crea la separazione illusoria fra sé e non sé). La Volontà, unica eterna e onnipotente, che causa egoismo e sofferenza, è stata soppressa e Aureliano e Giovanni sono finalmente percepiti come la stessa persona. La giustizia temporale ha quindi fallito, suggerisce Borges, perché, come afferma il filosofo tedesco, ha ignorato che in realtà non c’è sostanziale differenza fra Aureliano e Giovanni. “La morte e la bussola” (1943) racconta di un caso simile, anche se più complicato. Il criminale Red Scharlach vuole vendicarsi del detective Erik Lönnrot, che ha arrestato il fratello di Scharlach, morto poi in carcere. Per attuare la sua vendetta, Scharlach intesse un labirinto fatto di delitti reali e fittizi, di indizi matematici, geometrici e religiosi che conducono Lönnrot ad anticipare l’ultimo crimine, del quale sarà però vittima. Il valore simbolico dei numeri scelti da Borges è rivelatorio: all’inizio sembra che il numero tre sia la chiave del mistero (il giorno in cui i delitti hanno luogo; il nome del commissario con cui Lönnrot collabora: Treviranus). Poi è il numero quattro che acquista importanza: la data degli omicidi, computata al modo ebraico, è il 4 del mese; la dislocazione geografica degli omicidi e gli indizi che Scharlach ha disseminato fanno presagire che non è un triangolo ma un rombo che appare congiungendo i punti dove sono avvenuti i crimini, perché ci sarà un quarto e ultimo delitto nella Villa Triste-le-Roy. Quando Lönnrot arriva alla villa, è il numero due che acquista importanza: la villa abbonda in simmetrie inutili, specchi che duplicano le stanze, due esemplari di una statua di Diana e un’altra che rappresenta Giano bifronte. Poi però il numero che s’impone all’attenzione del lettore è l’uno: Lönnrot nota un singolo fiore in un vaso di porcellana, si rende conto che c’è un solo giardino, che specchi e false prospettive moltiplicano. Qui Lönnrot viene immobilizzato da due complici di Scharlach, che gli svela il suo movente e i dettagli del labirinto nel quale lo ha inviluppato. Il detective ascolta, e afferma che in quel labirinto ci sono tre linee di troppo; gli suggerisce poi di costruirne, in una prossima vita, uno di una sola linea dove “si sono perduti tanti filosofi che vi si può perdere un mero detective” (Tutte le opere I: 738). In questo labirinto, suggerisce Lönnrot, Scharlach commetterà (o fingerà di commettere) un crimine nel punto A, poi un secondo in B, a otto chilometri da A; poi un terzo in C, a metà strada fra A e B. Scharlach aspetterà Lönnrot in D, a metà strada fra A e C. Ucciderà quindi Lönnrot in D, proprio come sta facendo ora. Scharlach promette a Lönnrot questo labirinto “indivisibile, incessante” e poi “accuratissimamente, fece fuoco” (738). La vendetta è compiuta e, sembra, con successo. Non appena prendiamo in esame un paio di dettagli, però il carattere illusorio delle azioni di Scharlach appare chiaro. Il labirinto di una sola linea proposto Lönnrot è quello del paradosso di Zenone che, afferma Borges in un testo anteriore, non sfida la realtà dello spazio ma quella “più invulnerabile e fine” del tempo (Tutte le opere 1: 385). In questo paradosso lo spazio è infinitamente divisibile e questo 567 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA impedisce Scharlach di raggiungere Lönnrot e di ucciderlo. Hernandez Martín ha poi notato che la metafora “fece fuoco” “evoca la morte senza però confermarla” (93). Questa metafora è però legata anche alla concezione del tempo degli Stoici (Zenone era filosofo stoico) che ipotizzavano il tempo come un’eterna ripetizione di cicli cosmici, ognuno dei quali terminante in una conflagrazione detta in greco ekpyrosis8. La radice di ekpyrosis è pyr, cioè “fuoco”. Fare fuoco su Lönnrot può essere quindi interpretato come la conflagrazione che segnala l’inizio di un nuovo ciclo temporale. In questo modo, la vendetta di Scharlach avrà luogo un infinito numero di volte, in definitiva vanificandola. Questi due dettagli, quindi, sembrano smentire il carattere definitivo della vendetta di Scharlach. Una serie di somiglianze che Borges instaura fra i due protagonisti sembra inoltre suggerire che la vendetta (in generale, non solo in questo caso particolare) non ha ragione di essere. Borges descrive Lönnrot come un puro ragionatore, mentre Scharlach sembra incarnare le caratteristiche del criminale dominato dalle passioni. Eppure è quest’ultimo il freddo ragionatore che, per passione, tesse una trama razionale ed efficace con la quale attrae e uccide il detective. La perspicacia di Lönnrot, invece, è subito definita “temeraria”, una qualità che contrasta fortemente con la sua facoltà raziocinante. Lönnrot è anche un po’ Scharlach e viceversa. Anche l’onomastica del racconto instaura una fondamentale identità fra i due protagonisti. Il nome di battesimo di Scharlach è Red (rosso) mentre il cognome è tedesco per “scarlattina”: essi riflettono e duplicano la parola rot (tedesco per rosso) contenuta nel cognome del detective, il cui nome di battesimo è Erik come Erik il Rosso (Erik Thorvaldsson) esploratore vichingo del X secolo d.C. Questa sovrapposizione di identità rispecchia la progressiva crescita di importanza che il numero uno (l’unità) ottiene nel racconto. Possiamo quindi concludere che i due antagonisti sono, a tutti gli effetti, la stessa persona. (Il dettaglio di Lönnrot che evita di guardare negli occhi Scharlach potrebbe confermare il timore di vedere se stesso nel suo avversario.) Se non c’è individuo al di fuori di spazio e tempo, se c’è solo una sostanza di cui gli individui sono temporanea incarnazione, non c’è nemmeno, di conseguenza, un “altro” di cui vendicarsi. Se Scharlach e Lönnrot sono, in fondo, la stessa persona, la vendetta, l’atto di uccidere è diretto tanto contro Lönnrot quanto contro Scharlach stesso (torturatore e torturato sono la stessa persona, ci ricorda Schopenhauer). Scharlach non lo capisce, e non sa che quando Lönnrot menziona la dottrina 8 “The Stoics, for their own purposes, also revived speculations concerning the cosmic cycles, emphasizing either eternal repetition or the cataclysm, ekpyrosis, by which cosmic cycles come to their end (see Zeno. Fragments 98 and 109 in H. F. A. Von Armin, Stoicorum veterum fragmenta, I, Leipzig, 1921). (Eliade 122). 568 ENRICO VETTORE della reincarnazione sta reintroducendo un’idea di Schopenhauer, per il quale reincarnazione e karma sono rappresentazioni mitiche della giustizia eterna (WWR I, 355-6). Scharlach sarà punito attraverso un ciclo di reincarnazioni durante le quali non potrà mai raggiungere Lönnrot (lui stesso definisce il labirinto come “incessante”); forse questo lo condurrà a capire la sua intima essenza e ad avere compassione dell’avversario. Nell’ultima immagine del racconto, però, la totale devozione di Scharlach all’esecuzione dell’ultimo dettaglio del suo piano ci fa capire che è del tutto ignaro dell’identità fra sé e Lönnrot, e quindi della vanità del suo gesto. In “Emma Zunz” (1948) ci troviamo di fronte a un delitto perfetto che è, agli occhi di chi lo perpetra, non una vendetta ma un atto di giustizia. In questo racconto Borges narra la storia di Emma, una giovane donna che decide di vendicare la morte di suo padre uccidendo Aaron Loewenthal. Loewenthal è uno dei comproprietari della fabbrica in cui Emma lavora e il vero responsabile dell’ammanco di cassa per il quale anni prima il padre di Emma era stato condannato al carcere causandone il disonore e, più tardi, il suicidio. Emma chiama Loewenthal e chiede di incontrarlo nel suo ufficio per comunicargli informazioni su un imminente sciopero. Loewenthal accetta di incontrarla. Emma, prima di andare all’appuntamento, si reca in un locale frequentato da marinai di passaggio e perde la sua verginità con uno di loro. Durante l’incontro con Loewenthal lo fa uscire dall’ufficio con uno stratagemma e si appropria del revolver che sa che Loewenthal tiene nel cassetto della scrivania. Quando Loewenthal torna, Emma gli spara tre volte. Loewenthal muore prima che lei possa spiegare perché gli ha sparato e perché non sarà punita. Emma inscena poi gli indizi di una violenza carnale, chiama la polizia e spiega che ha ucciso Loewenthal per legittima difesa dopo che l’aveva violentata. Il narratore dice che tutti credettero alla storia; veri erano l’intonazione, il pudore e l’odio di Emma, come l’oltraggio che aveva sofferto, “erano false solo le circostanze, l’ora e uno o due nomi propri” (Opere complete I 818). Tutto sembra suggerire che Emma abbia perpetrato il crimine perfetto, cui corrisponde un movente inattaccabile. L’ultima frase citata e altri dettagli del testo insinuano però che non è così. Come in “La morte e la bussola”, i due antagonisti sembrano più simili che dissimili. Emma e Loewenthal condividono la ferma convinzione di avere una relazione particolare con la divinità che li rende unici. Loewenthal “pensava di avere un patto segreto con il Signore che lo esimeva dal comportarsi bene, purché pregasse e fosse devoto (Tutte le opere 1: 817). Emma pensa invece di essere uno strumento della giustizia di Dio, e che questo le garantisca l’immunità. “(Non per paura, ma poiché era strumento della Giustizia, ella non voleva essere punita)” (817). Al tema della somiglianza e della sostanziale identità fra i due personaggi Borges affianca dettagli che svelano come Emma non sia in grado di percepirla: l’egoismo che si cela dietro le sue azioni ne annulla purezza 569 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA dell’intento e motivazione. Mentre Emma si sacrifica concedendo la sua verginità a uno sconosciuto, il narratore si chiede se Emma abbia pensato una sola volta al morto che motivava il sacrificio e risponde che ritiene che ci abbia pensato almeno una volta: “Pensó (non poté non pensare) che suo padre aveva fatto a sua madre quella cosa orribile che ora facevano a lei” (816). Se la vendetta è concepita per rimediare a un torto subito dal padre, tutta l’attenzione di Emma dovrebbe essere concentrata sul padre e sulla sua sofferenza, sul suo suicidio, e non su se stessa, perché lei si considera un puro strumento di tale vendetta. Il movente di Emma, quindi, vacilla. Un altro commento sembra confermarlo: Emma, ci dice il narratore, più dell’urgenza di vendicare suo padre, “sentì quella di punire l’oltraggio che [lei stessa] aveva ricevuto” (817-818). Questi due commenti stabiliscono (il primo in forma di dubbio, il secondo invece appartiene a un narratore onnisciente) che l’egoismo ha prevalso proprio su quello che doveva rendere questa vendetta un atto di giustizia. Emma non sembra più preoccupata del fato e del disonore che suo padre aveva dovuto patire, ma piuttosto del suo (di Emma) sacrificio. Il padre, da motivazione della vendetta, è declassato a mero catalizzatore dell’azione, se non addirittura a perpetratore della prima violenza che ora Emma sente di rivivere. La vera causa dell’omicidio diviene ora il sacrificio di Emma: pianificato come atto di rinuncia a sé, si trasforma paradossalmente in un atto che rinforza il sé e l’egoismo. Quest’egoismo inficia la motivazione che doveva rendere il crimine degno della giustizia personale in cui Emma crede. L’oltraggio che lei stessa ha pianificato ora appare come un perverso ferirsi per ferire un’altra persona (il tormentatore e il tormentato sono la stessa persona). Invocare la giustizia divina è quindi fuor di luogo, ora che la motivazione del gesto è cambiata. Anche la suggerita somiglianza fra Emma e Loewenthal suggerisce che Emma, punendo Loewenthal, punisce anche se stessa. Emma, perduta nella sua percezione del mondo dal punto di vista del principio d’individuazione, non sembra rendersene conto. Né Emma né Scharlach, per motivi diversi, possono o vogliono rivolgersi alla giustizia istituzionale (dello stato, temporale) e per entrambi la vendetta è l’unica possibile forma di giustizia. Anche se le apparenze sembrano premiarli, gli indizi disseminati da Borges nei suoi racconti vanificano l’apparentemente perfetta conclusione dei loro piani. Entrambi i personaggi incorrono nell’errore di non accorgersi che condividono la stessa sostanza del loro nemico. La vendetta in generale (che Emma e Scharlach vedono come forma della giustizia umana o della giustizia divina) è illusoria. La giustizia eterna, anche se a insaputa degli uomini, ha luogo ed equilibra costantemente i piatti della bilancia: tormentatore e tormentato sono la stessa persona. Sciascia: compassione e giustizia fra Borges, Schopenhauer e Rensi 570 ENRICO VETTORE La storia del più che trentennale rapporto fra Sciascia e Borges comincia nel 1955, quando Sciascia recensì, per primo in Italia, la traduzione italiana di Ficciones nell’inserto letterario della Gazzetta di Parma9. Il rapporto culmina poi negli anni Settanta, quando Sciascia comincia a citare Borges in passi importanti delle sue opere maggiori, Il contesto e L’affaire Moro, quest’ultimo letteralmente incastonato fra due citazioni di Borges. Sciascia scrisse sul Corriere della Sera un altro articolo su Borges nel 1979, lo incontrò di persona a Roma nel 1980 e nelle Cronachette (1985) inserì un racconto intitolato “L’inesistente Borges”. Sciascia, attento lettore di Borges, ne assimila certe tendenze “metafisiche” ma ritrova nello scrittore argentino anche elementi etici che riaffioreranno non solo attraverso le citazioni, ma anche nella struttura profonda nella sua opera. Attraverso Borges, ovviamente, Sciascia assorbe (o trova conferma di) alcuni concetti della filosofia di Schopenhauer, fra cui quello della compassione (pietà) e della giustizia eterna. Una ventina di anni prima di leggere Borges, Sciascia aveva fatto conoscenza con l’opera di Giuseppe Rensi, il cui pensiero aveva contribuito alla formazione, in Sciascia, di un concetto di compassione che ha molto in comune con quello di Schopenhauer e con la sua versione letteraria quale appare nei racconti di Borges. Sciascia cominciò a leggere l’opera di Rensi al liceo ‒ quindi nella seconda metà degli anni Trenta ‒ grazie al suo professore di filosofia Giuseppe Bianca, ed è a Rensi che Sciascia deve la sua passione giovanile per Spinoza10. Nel 1986, Sciascia pubblicò sul Corriere della Sera un articolo su Rensi (intitolato “Rensi filosofo dimenticato”) dove si sofferma sulla sua religiosità atea e sulla sua filosofia irrazionale e mistica 11 . Partito da una posizione idealistica, Rensi passò a una visione scettico-religiosa del mondo che si svilupperà con un elemento mistico-pessimista culminante nelle Lettere spirituali (Chiarenza, 227-28). In un’era dominata dalle filosofie di Croce e Gentile da un ottimistico idealismo, la visione rensiana del mondo, in dialogo continuo con Schopenhauer e il buddismo ‒ scettica e irrazionale, misticamente atea ‒ non poteva avere gran seguito. Il suo dichiarato antifascismo, inoltre, gli fece perdere definitivamente la cattedra di Filosofia 9 Sciascia conosceva già le poesie dello scrittore argentino grazie a un libro regalatogli da un amico, come lui stesso racconta in “Un affascinante teologo ateo”. 10 “La sua [di Spinoza] filosofia è suggestiva…A scuola è il filosofo che mi ha influenzato di più” (Sciascia and Porzio 46). Va aggiunto che Borges ha scritto due poesie sul filosofo olandese e che Spinoza è uno dei filosofi più citati da Borges, dopo Schopenhauer. 11 Parte di quell’articolo riappare in Alfabeto Pirandelliano (1986) nel lemma “Rensi” dove Sciascia evidenzia come la filosofia dell’assurdo di Rensi ha influenzato l’opera di Pirandello. 571 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA morale all’Università di Genova nel 1934. Nel 1987 la casa editrice Adelphi ne ripubblicò Le lettere spirituali (uscite postume nel 1943) e Sciascia vi scrisse un’introduzione che, nonostante la brevità, è particolarmente importante per il nostro fine. In essa possiamo notare tre elementi interessanti. Il primo è l’elemento autobiografico e affettivo: Sciascia seppe dell’opera di Rensi al liceo e la monografia su Spinoza. Questa esperienza l’affezionò talmente a Rensi che lesse tutto quello che riuscì a trovare del filosofo. Ancora nel 1987, confessa Sciascia, i libri di Rensi lo aiutavano spesso a “chiudere la giornata con intelligente serenità, armoniosamente in accordo…con la vita, con la morte” (3). Il secondo elemento interessante è che Sciascia definisce Rensi un “eretico” (pp. 3–4), come sarebbe piaciuto a Borges (il greco antico “hairetikos” si rende in italiano col sintagma “in grado di scegliere”). Il terzo è che Sciascia sceglie di terminare l’introduzione parlando dell’egoismo con un tono che ha intenso sapore schopenhaueriano: “Il più grande, il più vero, il più intrepido sentimento religioso è quello che nasce dalla distruzione dell’egoismo” (5-6). Sciascia continua affermando che questo egoismo (personale) produce gli altri egoismi: “delle razze, delle nazioni, delle chiese, delle classi, delle fazioni” (6). Distruggere l’egoismo significa quindi, se portiamo a compimento il ragionamento proposto da Sciascia, aprire le porte alla comprensione dell’altro, mentre chiese, classi e fazioni fanno l’opposto. Distruggere l’egoismo è anche lasciare spazio alla compassione che ‒ invece ‒ dell’altro si cura, vuole capire e aiutare. Che Sciascia ritenga questo sentimento “religioso” è in linea con il pensiero di Rensi e Schopenhauer, e va interpretato come “etico” poiché né Sciascia né i due filosofi credono nella religione come istituzione. A questo proposito, è interessante notare che per Rensi la religione dovrebbe considerare come suo precetto non l’amore, ma la giustizia (143)12. Per il filosofo, essa è una virtù che riassume in sé tutte le virtù. Consiste nel mantenere imparziale il giudizio fra sé e altro, nel considerarlo eguale (143). La giustizia, per Rensi, non va intesa in senso legale ma in senso lato: contiene tutte le benefiche conseguenze che si vogliono far derivare dall’amore (144), è rettitudine, e comprende in sé equanimità e rassegnazione consapevole alle sventure e serena tolleranza delle stesse (145). Rensi poi sintetizza il suo pensiero affermando che questa è la giustizia che Schopenhauer chiama “eterna”, citando i passi dal Mondo che abbiamo già visto all’inizio di questo saggio. Sciascia lesse Le lettere spirituali solo nel 1986/7 (3): non poteva quindi aver concepito la sua idea di pietà e giustizia su questo testo. Non è però fuor di luogo ipotizzare che in questo testo Sciascia abbia trovato conferma della sua teoria della pietà e della giustizia eterna che si era sviluppata negli anni 12 Ricordo nuovamente che per Schopenhauer l’amore è contaminato dall’egoismo (Murdoch 67). 572 ENRICO VETTORE precedenti anche grazie alla sua frequentazione dei testi di Borges e Rensi (e quindi, indirettamente, di Schopenhauer). Per dimostrare quanto sostenuto analizzerò dei passi da Le parrocchie di Regalpetra (1956), Il contesto (1975), L’affaire Moro (1978) e da Il cavaliere e la morte (1988)13. Sciascia considerava Le parrocchie di Regalpetra (1956), il “fondamento dell’opera sua” (così Claude Ambroise in Sciascia, Opere: 3 953), e per questo motivo lo aveva voluto come primo testo del primo volume delle sue opere complete uscite presso Bompiani. Lo prendo in esame qui per questo preciso motivo: perché contiene in nuce tutti i temi sciasciani e mostra come pietà e giustizia sono presenti e collegate fin dall’inizio della produzione letteraria di Sciascia. Il testo si apre con un atto di compassione di Donna Beatrice che perdona un servo accusato di aver ucciso suo marito, Girolamo del Carretto, feroce signore della città. La donna giustifica la sua decisione dicendo “con più che cristiano buonsenso che ‘la morte del servo non riporta in vita il padrone’” (14). La scelta di Sciascia di cominciare raccontando un atto di pietà (e giustizia) da parte di una donna coincide non solo con la teoria etica di Schopenhauer ma anche con i risultati della ricerca di Carol Gilligan, per la quale l’etica delle donne è, fra l’altro, più concreta che astratta, più motivata dalla solidarietà che dal dovere, e più personale che impersonale14. Più avanti, nel capitolo sugli anni del regime fascista a Regalpetra (“Cronache di regime”), il narratore dice: “Cominciava per me la vicenda della pietà. Un terribile sentimento, la pietà. Un uomo deve amare o odiare: mai aver pietà. Un uomo, dico. E io ero ancora un ragazzo” (48). Il termine pietà compare qui per la prima volta, e Sciascia sente il bisogno di marcarne la presenza ripetendolo ben tre volte e sempre in posizione forte: in fine di frase. Secondo la cultura del luogo e del tempo per gli uomini sono preferibili comportamenti che non lasciano spazio a sentimenti che non siano forti e netti: o si ama o si odia. Sciascia non sembra accettare questo aut aut. La pietà (che nell’uso di Sciascia equivale a “compassione”), è un “terribile sentimento” perché è più 13 Ho preferito tralasciare testi come Il Consiglio d’Egitto e Porte aperte perché la loro complessità avrebbe richiesto troppo spazio. Spero di dedicarvi un’analisi approfondita in futuro. 14 Carol Gilligan, In A Different Voice (1982). Schopenhauer nota che le donne “surpass men in the virtue of philanthropy or loving-kindness, for the origin of this is in most cases intuitive and therefore appeals directly to compassion, to which women are decidedly more easily susceptible” (Basis, 151, corsivo nel testo). Per Schopenhauer la giustizia è una virtù maschile mentre la filantropia (o loving-kindness) è femminile; per il filosofo, tuttavia, la più alta delle due è la filantropia (Cartwright xxviii). 573 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA evoluto dell’amore o dell’odio. Implica empatia e abbandono quindi dell’egoismo, e complica la situazione perché non semplifica, ma rende complesso il problema. Amore e odio implicano un giudizio che è positivo nel caso dell’amore e negativo nel caso dell’odio. La compassione/pietà, piuttosto che semplificare con una scelta netta, si presenta come un “terribile sentimento” che fa vacillare la razionalità e si rifiuta di giudicare. Giudicare è terribile, per lo scrittore (“tremo al pensiero di dover giudicare” 67) e per questo motivo le pagine più toccanti e pietose del libro sono quelle sull’esperienza scolastica, sugli alunni poveri del protagonista nel capitolo intitolato “Cronache scolastiche”. La descrizione commovente e senza giudizi delle condizioni in cui vivono questi bambini, che non riescono a seguire la lezione perché hanno fame e che si dedicano a furti e a mentire per sopravvivere, ritorna più avanti nell’ultimo capitolo, ancor più commovente e sentito, se possibile, intitolato “La neve, il Natale”. Questo nuovo capitolo Sciascia lo aggiunse per la ristampa del 1967, quasi a ricordare che la vicenda della pietà era ancora in corso, che era continuata dopo la prima edizione del libro. Il narratore, ora maestro, sente un “indicibile disagio e pena” a stare di fronte a loro, lui con il suo “decente vestito” e “armoniose giornate” (103). Il contrasto è appena accennato, ma la pietà è il sentire la sofferenza di questi bambini e sapere che questa condizione li sta trasformando, ne sta limitando il potenziale per ridurli, forse per sempre, a cittadini di terza categoria. A rendere più amara la situazione è la constatazione che il tutto dipende, per il narratore, solo da un’ingiustizia dettata dal caso, da un “fragile gioco”, dalla carta che ti è toccata in sorte, e lui è uno dei fortunati (112). La dichiarazione di Sciascia che la pietà per lui ha una “vicenda” è profetica: il termine ricorrerà costantemente nella sua opera portando con sé, attraverso la frequentazione di Borges, echi della filosofia di Schopenhauer, rifratta dalla lettura dei testi di Rensi. Non è difficile vedere come l’etica schopenhaueriana permei le prime pagine di Sciascia, ma è con Il contesto e L’affaire Moro che Schopenhauer e Borges giocheranno un ruolo ancora più importante. In un’atmosfera rarefatta e simbolica Il contesto narra la storia di un detective (Rogas) che dà la caccia al farmacista Cres, sospettato di aver ucciso alcuni giudici per vendicarsi di essere stato condannato per un delitto commesso forse dalla moglie. Mentre segue le tracce di Cres, Rogas incontra il giudice della Corte Suprema Riches, che ritiene in pericolo perché presidente della corte che aveva confermato in appello la condanna di Cres. Durante l’incontro Riches spiega la sua particolare teoria della giustizia secondo la quale l’errore giudiziario non può esistere. Per Riches, il giudice è come un prete durante la messa: a prescindere dal valore morale del prete, il miracolo della transustanziazione deve avvenire. Così è anche nell’amministrazione della giustizia, che per lui è come una religione. 574 ENRICO VETTORE Prendere in considerazione l’opinione dell’uomo comune, del laico, che nel nostro caso sospetta l’errore giudiziario, equivarrebbe a considerare questa religione morta (70). A questo punto Rogas smette di ascoltare e recita mentalmente l’ “Argumentum ornithologicum” di Borges (73), un breve testo paradossale che dimostra l’esistenza di dio attraverso un argomento che ne dovrebbe provare l’inesistenza. Rogas se ne va, ma mentre esce dall’ascensore “nel rapido aprirsi dei battenti, nell’atrio, ebbe per un momento la sensazione di trovarsi davanti a uno specchio. Solo che nello specchio c’era un altro” (76). Rogas resiste all’impulso di tornare indietro per fermare Cres, e a poco a poco passa dalla parte del ricercato. “Cres…non poteva mai immaginare che quell’ispettore di polizia, che i giornali davano tenacemente ma vanamente impegnato a dargli la caccia, era passato dalla sua parte” (78). Riches morirà qualche giorno dopo, alimentando il sospetto, nel lettore, che Rogas sia stato indiretto complice di Cres. Ci si può però chiedere se Rogas si sia messo solo ora dalla parte di Cres, oppure lo sia sempre stato. Schopenhauer sosterrebbe che Rogas e Cres (“inquisitore e inquisito,” per usare l’espressione di Borges) sono sempre stati la stessa persona, e che Rogas ha avuto una rivelazione e si è liberato dal principio d’individuazione mentre incontrava se stesso sotto le spoglie di Cres, fatto che gli ha rivelato l’illusorietà di una identità personale. Questa consapevolezza lo spinge a non fermare Cres, rinfrancato anche dal fatto che il concetto di giustizia del giudice Riches è abominevole perché assolutamente rigida e impersonale. Il brano di Borges lo ha riportato alla realtà dei fatti, e il momento di consapevolezza schopenhaueriano/borgesiano ha completato l’opera. Rogas e Cres, per Sciascia, non sono mai stati così diversi ma anche così simili: sono entrambi “eretici” e quindi riscuotono la simpatia di Sciascia (e di Borges). Cres attacca il potere legale e Rogas non si piega al potere (al malaffare) politico. Per questo motivo Rogas morirà, ma in questo modo proteggerà ‒ poiché è l’unico che ha visto il volto di Cres ‒ l’identità del ricercato, ancora latitante nel momento in cui il romanzo finisce e forse pronto a colpire, in futuro, altri esponenti di questa giustizia assolutamente fanatica e ingiusta. Rogas concepisce la legge (e la giustizia) in modo molto diverso da Riches. A torto o a ragione, Rogas non crede all’assoluta imparzialità dell’investigatore: a differenza del collega che aveva consegnato Cres ai giudici lui “già allora avrebbe avuto una certezza – colpevole o innocente – da calare giudiziosamente, con discreta ma tenace insinuazione, nei verbali” (28). Questa concezione della giustizia deriva da una frequentazione di un altro essere umano, piuttosto che dalla fredda applicazione di un codice15. Per lui, più dei fatti stessi e degli indizi contava “aver davanti l’uomo, parlargli, conoscerlo” (28). L’inaspettata, rivelatrice somiglianza fra Rogas e Cres è un chiaro rimando a “I teologi” e a “La morte 15 La situazione è simile a quella già vista nelle prime pagine delle Parrocchie di Regalpetra. 575 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA e la bussola” (due racconti che Sciascia amava molto). In un solo episodio Sciascia ha quindi condensato il tema della giustizia (in una storia di vendetta), un testo di Borges e il tema dell’identità personale o, meglio, la natura illusoria di questa identità, che è un tema borgesiano derivante da Schopenhauer. La contiguità degli elementi ora citati e la trama stessa hanno forti risonanze schopenhaueriane, grazie alla presenza di Borges. A differenza di Scharlach, Lönnrot o Emma Zunz, Rogas ha un momento di consapevolezza che sfiora il livello della rivelazione che suggerisce un impatto profondo sullo sviluppo della trama del romanzo, anche se a conclusione avvenuta. Con L’affaire Moro (1978), Sciascia intende scrivere un libro religioso, piuttosto che politico. Naturalmente intende “religioso” non nel senso di attinente a una religione istituzionalizzata, ma nel senso di una più generale attitudine verso gli esseri umani, specialmente quando soffrono. Ne risulta un’opera di letteratura (un’indagine filologica delle lettere di Moro), e un atto politico di denuncia permeato dai principi della responsabilità individuale e della compassione. Se il testo di riferimento è la Storia della colonna infame di Manzoni, L’affaire Moro si apre con una discussione del “Pierre Menard, autore del Chisciotte” di Borges e si conclude con un’altra citazione dall’“Esame dell’opera di Herbert Quain”, sempre di Borges. La presenza pervasiva dell’autore argentino suggerisce il tema della ricerca di una sempre elusiva verità attraverso l’esercizio della letteratura ma allude anche, indirettamente, alla compassione e immedesimazione fra autore e personaggio (Sciascia–Moro, ma anche Menard–Cervantes). A ciò fa contrasto la mancanza di tale immedesimazione, con conseguente mancanza di pietà/compassione, fra Brigate Rosse e Moro, ma anche fra personalità politiche italiane e Moro. Anche se l’opinione di Sciascia su Moro uomo politico è ampiamente negativa, lo scrittore è stato in grado di provare compassione per Moro come essere umano; “Mi sono immaginato di essere al suo posto quanto al posto di qualsiasi sequestrato. Ho compreso la sua sofferenza e la sua angoscia, l’ho compatito, nel senso originale del termine”. (La Sicilia come metafora 132, corsivo mio) A un certo punto della vicenda, la retorica nazionale (già caratterizzata da vuota magniloquenza, falsità e slogan) sfocia in un documento firmato da cinquanta “amici di Moro”, fra cui un cardinale, esegeta di Sant’Agostino. Qui si afferma, seguendo la teoria dei due Moro, che il Moro imprigionato non è il Moro che loro conoscono. Sciascia è sorpreso che il cardinale dimostri una così povera conoscenza dell’amicizia. “Come fa l’esegeta di sant’Agostino a non sapere quanto è difficile…conoscere un uomo; quanto arrogante – senza amore, senza carità – il voler apporre certificazione e 576 ENRICO VETTORE giudizio a quel che era e quel che non è più” (537-538; corsivo mio). Giudicare e certificare in tal modo, sostiene Sciascia, è dimostrazione di mancanza d’amore e carità, ancor più sorprendente in un alto prelato. Nella citazione precedente potremmo sostituire “carità” con pietà, o compassione, e Sciascia si soffermerà nel 1979 su una simile mancanza di amore e carità per il Vescovo di Patti da parte di un altro prelato del Vaticano in Dalle parti degli infedeli (particolarmente le pagine 872, 880, 887-888). Ne L’affaire Moro, dunque, Sciascia torna alla questione del giudicare, che aveva dichiarato di temere nelle Parrocchie di Regalpetra. Questo caso è particolarmente doloroso la mancanza di pietà è il diretto risultato di un calcolo politico, dettato dagli egoismi di parte e dall’amore del potere che Sciascia condannerà nuovamente, come abbiamo visto, nell’introduzione alle Lettere spirituali di Rensi. Sciascia ipotizza che a quella mancanza di pietà potrebbe corrispondere la nascita della pietà da parte dei carcerieri di Moro, benché ostacolata da ovvi motivi ideologici. La scena che Sciascia immagina avvenga nella “prigione del popolo” è intrisa di quella compassione che lui stesso ha sentito per Moro. Tanti piccoli gesti; tante parole che inavvertitamente si dicono, ma che provengono dai più profondi moti dell’animo; un incontrarsi di sguardi nei momenti più disarmati…sono tante le cose…che, giorno dopo giorno, possono insorgere ad affratellare il carceriere al carcerato, il boia alla vittima. E al punto che il boia non può più essere boia. (530, corsivo mio) Sciascia più tardi ragiona su questa occasione mancata. Una delle ultime telefonate dei terroristi è diretta a un amico della famiglia Moro. I terroristi lo vogliono informare degli ultimi desideri dello statista, ma il destinatario della chiamata, molto agitato, non riesce a capire le istruzioni e deve passare il telefono a suo padre. Sciascia nota che la chiamata era stata fatta dalla stazione Termini, dove c’è una stazione della polizia sempre aperta, fatto che i terroristi non potevano ignorare, e che il numero dell’amico di famiglia era probabilmente sotto controllo. Nonostante tutto, il terrorista dà all’interlocutore il tempo di capire le istruzioni. Il messaggio dura così tre minuti, mettendo in pericolo chi chiama. Sciascia nota inoltre che il terrorista si riferisce quattro volte a Moro usando il titolo “onorevole” e che una volta, addirittura, dice “mi dispiace”. “Che cosa dunque trattiene il brigatista a quella telefonata, se non l’adempimento che nasce dalla militanza ma sconfina ormai nell’umana pietà? La voce è fredda; ma le parole, le pause, le esitazioni tradiscono la pietà” (556). “In quell’adempimento, la pietà è penetrata in lui [nel terrorista] come il tradimento in una fortezza. E spero che lo devasti” (556). È singolare qui che Sciascia attribuisca alla compassione una forza dall’impatto devastante, ma ciò si può spiegare come leggera variazione sul tema della pietà come “sentimento terribile” quale era apparsa nelle Parrocchie di Regalpetra. La pietà ha una forza sovvertitrice, è un lampo di 577 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA consapevolezza che potrebbe trasformare l’individuo e fargli percepire la sostanziale identità fra sé e altro, indebolendo il processo del giudizio, modificando il giudizio finale, ma la “squallida, spaventosa senilità ideologica e umana” delle Brigate Rosse prevale sul potenziale della compassione. Sciascia percepisce una pallida possibilità, un lampo di quella che potrebbe essere la giustizia eterna, ma essa non può aver luogo. La vicenda della pietà e della giustizia ‒ nella storia personale di Sciascia ‒ riappare anche nel suo penultimo romanzo, Il cavaliere e la morte (1988). Sciascia, collezionista di stampe, sceglie per titolo e per aprire il suo testo la famosa incisione di Dürer. Non è impossibile che la scelta sia in qualche modo legata all’ultima pagina della Filosofia dell’assurdo (1924, 1937) di Rensi, che Sciascia doveva aver letto negli anni immediatamente successivi al liceo e dove si legge: A me piace vedere, quando sollevo gli occhi dal mio tavolo di lavoro, accanto alla stampa di Salvator Rosa, in cui, sotto alberi desolati, contorti e tronchi, presso antiche colonne infrante e marmi cadenti e tra ossami d’animali e d’uomini, ‘Democritus omnium derisor in omnium fine defigitur’, la riproduzione del rame di Dürer, in cui il maturo cavaliere procede, severo, rassegnato, impassibile, tra la morte e il demonio. (224) Anche il protagonista del Cavaliere e la morte, un vice commissario malato terminale di cancro, tiene appesa davanti alla sua scrivania la stampa di Dürer. Nel caso di Rensi l’immagine di Dürer viene a conchiudere un ragionamento sul senso tragico della vita, che si propone quale vero senso religioso dacché in esso l’immagine di Dio è sradicata da ogni antropomorfismo (223); nel romanzo di Sciascia sembra invece rispecchiare il percorso del protagonista verso la destinazione finale: il castello in cima al colle, la sua morte. L’esclusione del diavolo dal titolo è rivelatrice: “perché l’acqua sia santa è necessario il diavolo” dice il protagonista a un certo punto, suggerendo di conseguenza che, senza diavolo, non ci può essere acqua santa, e viceversa. L’esclusione del diavolo significa quindi l’esclusione dell’acqua santa, e per estensione ciò significa che il dualismo bene–male, amore–odio, non ha ragione di esistere. Ciò propone, ancora una volta, il rifiuto della contrapposizione amore–odio che Sciascia non aveva voluto far sua nelle Parrocchie e i cui effetti aveva aborrito ne L’affaire Moro (effetti visibili nel comportamento dei terroristi ma anche degli uomini politici colleghi di Moro). In questo breve romanzo, il protagonista prende atto dello stato della sua particolare vicenda della pietà; si rende conto di questo percorso che lo porta ora a non giudicare o condannare le persone, ma solo la pena di morte, che “non ha niente a che fare con la legge” e che egli considera il risultato del 578 ENRICO VETTORE desiderio oscuro del sacro della massa che sarà sempre a favore di questa forma di punizione (Opere 3: 453). La massa, secondo Schopenhauer, vuole la condanna perché sente oscuramente che è necessario che una pena eguale e contraria sia applicata al colpevole, proprio perché non si rende conto che colpevole e innocente sono la stessa persona. Schopenhauer, abbiamo visto, nota che il cristianesimo ha superato il desiderio di vendetta, ma Sciascia sa che, nonostante il pervasivo cattolicesimo “di facciata” 16 degli italiani, il desiderio della pena di morte è ancora presente. Il vice non può non condannare questa barbarie perché è irrazionale, irragionevole e definitiva: con essa uno dei due termini dell’equazione è eliminato per sempre e non c’è possibilità di rimediare alla totale mancanza di giustizia umana. Nelle ultime pagine, malato e stanco, il Vice è sorpreso nel constatare che in lui “ogni sentimento che era stato di amore o di avversione si tramutasse in pietà” (457). La compassione ha superato definitivamente le reazioni “da uomo”, i tagli netti che rendono tutto più facile, anche giustiziare un essere umano, e che il giovane Sciascia non poteva accettare ne Le parrocchie di Regalpetra: amare o odiare, ora che vede la vita finire, non hanno più senso: l’egoismo personale che crea delle fazioni e dei partiti ha lasciato spazio, anche se per il poco tempo rimasto da vivere al protagonista, alla comprensione dell’altro. Conclusione Nei racconti di Borges si può chiaramente distinguere un’ascendenza schopenhaueriana nell’uso che l’autore fa dei concetti di identità personale, compassione e giustizia. Nei testi di Sciascia, di natura assai diversa per contenuto e forma, tale ascendenza è più sfumata e a volte difficilmente discernibile poiché la natura dei testi di Sciascia è generalmente più concreta che astratta e, avendo a che fare con la storia e la cronaca, si offre meno all’illustrazione di principi filosofici che spiccano meglio in situazioni immaginarie o nel fantastico. Spero di aver dimostrato che, nonostante queste caratteristiche dell’opera di Sciascia, la filosofia di Schopenhauer vi ha un ruolo non indifferente e sempre funzionale al concetto sciasciano di letteratura come impegno civile e luogo di ricerca della verità. __________ 16 “Ma il cattolicesimo degli italiani è formalistico, tridentino: non è un cattolicesimo di sentimenti, di pensieri, di cultura (e si potrebbe anche sostituire il termine cristianesimo al termine cattolicesimo)” (Vigorelli 3: 625626). 579 LA GIUSTIZIA ETERNA DI ARTHUR SCHOPEHAUER IN JORGE LUIS BORGES E LEONARDO SCIASCIA BIBLIOGRAFIA Borges, Jorge Luis. Tutte le opere, Milano: Mondadori, 1984. Vol. 1. Cartwright, David E. Introduction, On the Basis of Morality, By Arthur Schopenhauer,Trans. E. F. J. Payne. Providence-Oxford: Bergham, 2nd ed., 1995. Eliade, Mircea. Cosmos and History, the Myth of Eternal Return, New York: Harper, 1959. Farrell, Joseph. Leonardo Sciascia, Edinburgh: Edinburgh University Press, 1995. 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